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Italian Pages 393 Year 2001
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John Horgan
La mente inviolata Una sfida per la psicologia e le neuroscienze
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~ Raffaello Cortina Editore
www.raffaellocortina.it
Titolo originale The Undiscovered Mind © 1999 by John Horgan Traduzione di Davide Zoletto ISBN 88-7078-710-9 © 2001 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2001
INDICE
Introduzione ali' edizione italiana. Lo studio della mente tra neurobiologia e letteratura (Giuseppe Porzionato) Introduzione. lo-testimoniante
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1. Il gap esplicativo delle neuroscienze
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2. Perché Freud non è ancora morto
57
3. La psicoterapia e l'ipotesi del dodo
89
4. Del Prozac e di altri placebo
119
5. Il gene strappa applausi
159
6. Darwin alla riscossa!
195
7. Senso comune artificiale
233
8. L'enigma della coscienza
269
Epilogo. Il futuro delle scienze della mente
303
Note
317
Bibliografia scelta
351
Ringraziamenti
357
Indice analitico
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INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
LO STUDIO DELLA MENTE TRA NEUROBIOLOGIA E LETTERATURA
1. L'edizione americana di The Undiscovered Mind è stata pubblicata nel settembre 1999 con il sottotitolo: How the Human Brain Defies Replication, Medication, and Explanation. 1 L'edizione inglese è uscita l' 11 novembre 1999 con un sottotitolo accorciato: Hnw the Bra in Defies Explanation .2 Prima della pubblicazione, Horgan aveva scritto un ampio riassunto del suo libro e, 1'8 giugno 1999, lo aveva inviato a una delle più interessanti riviste di psicologia dell'ultima generazione: Psychological Science. Il lavoro venne immediatamente accettato e pubblicato nel novembre 1999.} Horgan concludeva l'articolo con un paio di previsioni ottimistiche per evitare che il lettore, una volta letto il libro, avesse una crisi depressiva: "La prima è che se noi accettiamo che la mente umana sia per certi versi irriducibile diventiamo più diffidenti nei confronti di ideologie scientifiche basate sul freudismo, sul darwinismo, sul DNA, il Prozac o i computer. La seconda è più rilevante per i lettori di questa rivista: i problemi posti dalla mente umana sono così importanti, sia intellettualmente che praticamente, che la società non cesserà di impegnarsi per risolverli. Inoltre, il fatto che questi problemi possano dimostrarsi insolubili significa che la scienza della mente potrebbe durare per sempre. Il nostro mondo interiore è l'ultima - e forse eterna - frontiera della scienza". L'avere addolcito la pillola non muta l'architettura delle convinzioni epistemologiche di Horgan così come è stata delineata nel suo precedente libro La fine della scienza, pubbli-
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cato negli Stati Uniti nel 1996.4 In esso, Horgan ci riferisce che nell'estate del 1989 ha cominciato a pensare che la scienza pura, quella "volta a comprendere che cosa siamo e da dove veniamo è già entrata in una fase di rendimenti decrescenti" (tr. it. p. 35). Il carburante culturale che lo ha portato a persistere su questa idea è stato un libro del biologo statunitense di origine tedesca Gunter S. Stent, pubblicato vent'anni prima: The Coming of the Golden Age. 5 In esso, Stent elabora una teoria sulla fine della scienza, come pure dell'arte e di tutte le attività progressive e cumulative. La scienza avrebbe potuto estinguersi, sosteneva Stent, proprio perché funzionava così bene. Alcuni settori della ricerca scientifica, come l'anatomia o la chimica, erano delimitati dai confini del proprio oggetto di studio. Dopo Darwin e dopo la scoperta della struttura del DNA ai biologi rimanevano soltanto tre importanti problemi da indagare: come è iniziata la vita, in che modo una singola cellula si trasforma in un organismo pluricellulare e come il sistema nervoso elabora l'informazione. A differenza dei biologi, continuava Stent, i fisici e gli astronomi possono sondare sempre più a fondo la materia e spingere lo sguardo sempre più lontano nell'universo, ma, prima o poi, si imbatteranno in limitazioni di carattere fisico, economico e anche cognitivo, sicché quando queste scienze diventeranno teoricamente sempre più astruse e praticamente sterili, la società cesserà di finanziarle. L'elaborazione di queste idee, oltre ai riscontri avuti nel corso della sua attività di giornalista scientifico, ha portato Horgan alla decisione di scrivere un libro "valutativo, polemico e personale", La fine della scienza, appunto. Il leitmotiv del libro è la sua teoria della scienza ironica. Secondo Horgan, non potendo emulare Newton, Darwin ed Einstein, gli scienziati contemporanei tendono a fare scienza in modo speculativo, postempirico: "La scienza ironica assomiglia alla critica letteraria in quanto offre punti di vista e opinioni che sono, almeno nei casi migliori, interessanti e fonti di ulteriori dibattiti. Tuttavia non converge sulla verità, non è in grado di offriX
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re sorprese empiricamente verificabili tali da costringere gli scienziati a compiere revisioni sostanziali della loro descrizione fondamentale della realtà. La strategia tipica dello scienziato forte consiste nell'individuare tutti i punti deboli della conoscenza scientifica corrente, mettendo in evidenza gli interrogativi rimasti senza risposta. Ma tali interrogativi sembrano non poter mai avere una risposta definitiva, dati i limiti della conoscenza umana" (tr. it. pp. 22-23). Questo non significa che la scienza ironica sia priva di valore, ma essa non può raggiungere il suo scopo di andare oltre la verità che già possediamo. Non vi saranno in futuro grandi rivelazioni come quelle che, nel giro di un secolo, ci hanno fornito Darwin, Einstein o Watson e Crick. La scienza applicata attuale, anche se rimarrà attiva per molto tempo, non riuscirà a mettere in discussione i paradigmi teorici prevalenti, aggiungerà soltanto dettagli. Ironicamente, due anni dopo la pubblicazione di La fine della scienza, John Maddox, per un trentennio direttore della prestigiosa rivista Nature, pubblicò un ponderoso libro intitolato Che cosa resta da scoprire. Esso spaziava dallo studio delle origini dell'universo e della materia all'origine della vita; dai futuri progetti sul genoma umano alla natura del cervello dell'uomo e alla sua più elegante invenzione: la matematica. 6 Lo scopo del libro era chiaramente definito nella Prefazione: "Nonostante si affermi spesso il contrario, il filone della scoperta è ben lungi dall'essere esaurito. Questo libro fornisce un programma per i prossimi decenni (o addirittura per i prossimi secoli) di scoperte costruttive che indubbiamente cambieranno il modo in cui pensiamo il nostro posto nel mondo almeno quanto questo è mutato dai tempi di Copernico a oggi" (tr. it. p. 11). Ancora più ironicamente, sia la concezione di Gunter Stent sia quella di Horgan compaiono (rispettivamente alle pp. 388-389 e 215-216) nell'Enciclopedia delle scienze anomale, compilata da Paolo Albani e da Paolo della Bella,7 dove trovano posto segnalazioni e frammenti di scienze e teorie che sfuggono all'ortodossia del pensiero scientifico dominan-
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te, riconosciuto e sanzionato dalla comunità dei ricercatori e dalle Accademie. 2. Perché il lettore possa avere un quadro di riferimento più ampio all'interno del quale situare questo libro è utile considerare un altro personaggio che Horgan cita nei Ringraziamenti: John Brockman. Questi è uno dei più noti agenti letterari americani, i suoi clienti sono notissimi scienziati o divulgatori scientifici (come Horgan). Brockman fondò nel 1981 il Reality Club con lo scopo di favorire incontri tra artisti, scienziati, politici e uomini d'affari. Il Club incarnò quello che era un suo chiodo fisso: rompere una tradizione, che durava dagli anni Trenta del Novecento, secondo cui soltanto i letterati potevano definirsi "intellettuali"; a causa di ciò, una ristretta cerchia di persone ha avuto il privilegio di pensare per tutti gli altri. Ora, però, quella che veniva chiamata "scienza" è diventata "cultura pubblica" e ciò ha favorito il passaggio (epocale, secondo Brockman) di consegne da un gruppo di pensatori, i cosiddetti letterati, a un nuovo gruppo: gli artefici della Terza cultura. Quando si parla di "culture" il riferimento va immediatamente a una conferenza che lo scienziato e romanziere inglese Charles Percy Snow tenne, nel maggio 1959, a Cambridge. Il titolo era innocuo, "Le due culture e la rivoluzione scientifica", ma diede origine a un putiferio. Come scrisse più tardi lo stesso Snow: "Non passò un anno, che cominciai a sentirmi nella scomoda posizione di un apprendista stregone. Fui sommerso da una valanga di articoli, citazioni, lettere, invettive, elogi, spesso provenienti da paesi nei quali sarei stato altrimenti sconosciuto". 8 In verità, la conferenza di Snow aveva un taglio più "sociologico" che "epistemologico". Egli prendeva atto, anche perché apparteneva a entrambe, dell'esistenza di due comunità, quella dei letterati e quella degli scienziati, che non comunicavano quasi più tra di loro. All'interno della stessa comunità degli scienziati, Snow notava come vi fosse un'ulteriore frattura tra scienziati "puri" e "applicati"; sosteneva che i primi XII
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non mostravano molta comprensione per i fatti sociali, come d'altra parte i letterati non avevano mai accettato la rivoluzione industriale. Bisognava quindi, attraverso l'educazione, sanare la frattura tra le due culture. In pieno periodo di guerra fredda, egli auspicava che fosse favorita la rivoluzione scientifica anche nei paesi poveri. In effetti voleva intitolare la conferenza "I ricchi e i poveri", con considerazioni che sarebbero ampiamente sottoscritte oggi dal cosiddetto "popolo di Seattle". 9 Nel 1963, Snow pubblicò un altro saggio con cui spiegava meglio il proprio pensiero e cominciava a intravedere l'emergere di una terza cultura che si sarebbe sviluppata nell'immediato futuro. Essa era formata da intellettuali appartenenti a campi diversi (storici della società, economisti, psicologi, medici, architetti) ma che si rassomigliavano nell'affrontare quello che lui riteneva essere il problema più controverso: le conseguenze della rivoluzione scientifica sul piano umano. 10 Secondo Brockman, la profezia di Snow si è avverata soltanto in parte, perché i letterati non si sono mai messi seriamente a comunicare con gli scienziati e questi ultimi hanno preferito dialogare direttamente con il pubblico. La forza di quella che egli definisce La terza cultura sta invece proprio nella sua capacità di tollerare il dissenso e la pluralità dei punti di vista. Per terza cultura Brockman intende "l'attività di quegli scienziati che sanno dire cose nuove e interessanti sul mondo e su noi stessi; che le sanno raccontare a un pubblico vasto, diffondendo la conoscenza oltre i confini angusti dell'accademia", e la configura come "l'abbozzo di una nuova filosofia naturale, incardinata sui concetti di complessità e di evoluzione" .11 Tra questi "nuovi intellettuali" ci sono personaggi ben noti al pubblico italiano: Paul Davies, Richard Dawkins, Stephen Jay Gould, Daniel Dennett, Marvin Minsky, Howard Gardner e Steve Pinker, per citarne solo alcuni. Nel gennaio 1997 i membri del Reality Club, gli intellettuali della terza cultura, che solevano tenere i loro incontri nei ristoranti cinesi, nelle soffitte degli artisti, nei musei, alla New York Academy of Science e in altri posti hanno trovato
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una sede stabile in un sito internet curato dallo stesso Brockman.12 L'epigrafe del sito è significativa: "Arrivare ai limiti della conoscenza del mondo, scovare le menti più complesse e sofisticate, riunirle insieme in una stanza e invitarle a parlare l'un l'altra dei problemi che pongono a sé stesse". Da più di cinque anni questo sito si è imposto come un forum per coloro che pensano di avere qualcosa di importante da dire o da criticare. Una recensione alla traduzione tedesca del libro di Brockman si concludeva con queste parole: "La scienza popolare e la Terza cultura si sono radicate in America. Esse non hanno sostituito le scienze dure [Naturwissenschaften] e le scienze umane [Geisteswissenschaften], sono invece diventate una piattaforma per un pensiero creativo, non convenzionale e interdisciplinare. Per questo motivo esse sono una parte essenziale della conoscenza che abbiamo di noi stessi". 3. Il presente libro è figlio di questo clima culturale che, come si può facilmente intuire, è di matrice quasi esclusivamente anglosassone. In esso, Horgan vuole dimostrare un assunto che aveva enunciato nei capitoli sesto e settimo di La fine della scienza che riguardavano rispettivamente "La fine delle scienze sociali" e "La fine delle neuroscienze": "Gli scienziati che tentavano di spiegare la mente umana sarebbero stati semplicemente sopraffatti dalla complessità del loro oggetto di studio" (questo volume, pp. 4-5). Lo studio della mente è una facile preda per la scienza ironica, ne è una prova l'accavallarsi di paradigmi, mode, lifting e restyling accademici che pervadono il suo ambito di ricerca; non sorprende quindi che esso sia un settore più complesso e litigioso di altri ambiti del sapere. Perfino la psicoanalisi, una disciplina a metà strada fra scienza e letteratura, è riuscita a uscirne indenne: "Un secolo di ricerche in psichiatria, genetica, neuroscienze e campi limitrofi non ha ancora prodotto un paradigma abbastanza potente da ovviare a Freud una volta per tutte" (questo volume, p. 11). Lo scopo di Horgan è di fornire una "critica costruttiva" alle scienze della mente assumendo un atteggiamento di scetXIV
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ticismo fiducioso, anche se, "Data la scarsità dei risultati raggiunti sin qui, temo che le neuroscienze, la psicologia, la psichiatria e gli altri campi che si dedicano allo studio della mente stiano cozzando contro i limiti essenziali della scienza. Forse, gli scienziati non riusciranno mai a curare, riprodurre o spiegare la mente umana. Le nostre menti potrebbero rimanere per sempre, almeno in una certa misura, inviolate" (questo volume, pp. 13-14). Gli argomenti trattati nel libro sono pervasi da tre ampi problemi, strettamente connessi e di grande rilevanza epistemica, sui quali invito il lettore a riflettere: a) il problema delle "culture" e della formazione culturale; b) il problema della produzione scientifica; c) il problema delle prospettive della ricerca nelle scienze della mente. a) Il problema delle "culture" è emerso, in ambito europeo. verso la metà dell'Ottocento; parlare di date anteriori è anacronistico, perché significa imporre rigide categorie e valori che sono invece venuti definendosi soltanto da allora. Il Il sociologo Wolf Lepenies ha dimostrato in modo convincente che proprio in quel periodo le scienze sociali avevano assunto il ruolo di una terza cultura che si contrapponeva agli orientamenti scientifici e letterari. Essa rivendicava il diritto di poter spiegare il mutamento sociale che portò alla formazione della moderna società industriale e di poterne prevedere le conseguenze di vasta portata. Questa pretesa fu contestata da altre discipline accademiche. Inoltre, a partire dalla metà dell'Ottocento, una intellighenzia sociologica si contrappose a una intellighenzia letteraria nello sforzo di interpretare adeguatamente la società industriale e di offrire all'uomo moderno una sorta di dottrina della vita. 14 Soltanto verso la fine dell'Ottocento divenne di uso comune una distinzione fra Naturwissenscha/ten e Geisteswissenscha/ten intese come equivalenti, rispettivamente, alle scienze della natura, compresa la matematica, e alle scienze umane (le scienze sociali e le discipline umanistiche). La distinzione si deve a Wilhelm Dilthey ed è una distinzione di oggetto. 15 Wilhelm Windelband respinse la distinzione operata da
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Dilthey, che considerava metafisica perché contrapponeva la "natura" allo "spirito". Nell'opera Storia e scienza naturale, più che una distinzione di oggetto propose una distinzione di metodo, distinguendo le discipline in scienze nomotetiche (dal greco nomotheticos = che dà o promulga le leggi) e scienze idiografiche (dal greco idios e graficos =rappresentazione grafica di sé stesso, dunque specifico di, individualizzato). Le scienze naturali, che comprendono sia la psicologia sia le discipline che studiano con metodo "generalizzante" i processi sociali, sono dunque nomotetiche; le scienze storiche, che si propongono di cogliere i processi nella loro individualità, poco importa se della natura o dell'uomo, sono invece idiografìche.16 Nel libro di Horgan il rapporto tra approccio nomotetico e approccio idiografico è complesso e conflittuale. Le neuroscienze, la psicofarmacologia, la genetica del comportamento e l'intelligenza artificiale tendono a essere nomotetiche; la psicoanalisi, come in genere le psicoterapie e la psicologia evoluzionistica, oscilla tra un atteggiamento nomotetico (leggi comuni stanno alla base dei comportamenti degli individui) e un atteggiamento idiografico (l'individuo è unico, perché unica è la sua storia esistenziale, e quindi la sua struttura mentale). Neurobiologia e genetica tendono a imporsi come scienze hard e relegano il resto al rango di ancelle, se non addirittura di racconti mitologici. Mi sembra che Horgan inviti un po' tutti a riflettere: la scienza hard fa spesso flop; d'altra parte le scienze so/t fanno poco per darsi una dignità metodologia, e spesso non ne sentono neppure il bisogno. 17 Per quanto riguarda invece la terza cultura secondo gli intenti di Brockman, penso che in Italia il problema non si pon ga. Da anni ormai la diffusione della cultura scientifica, di cui questo libro è un ottimo esempio, è un fatto compiuto grazie ai mass media (ho in mente note trasmissioni televisive e vari periodici) e all'impegno di molti editori italiani (ho in mente le collane che sono volte a combattere "lanalfabetismo scientifico"). È strano piuttosto che il problema sia così sentito nel mondo anglosassone, se fino a una decina di anni fa il filosofo
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americano Alan Bloom, in un libro di successo, si lamentava proprio del contrario: le università americane, secondo la sua analisi, non erano più in grado di garantire un insegnamento dignitoso delle materie filosofiche e letterarie. 18 Quello che manca da noi, ed è invece il manifesto della terza cultura, è il confronto tra cultura letteraria, filosofica e scientifica. Ognuno tende a coltivare il proprio specifico, e spesso superspecialistico, orticello culturale e si dimostra sordo al confronto interdisciplinare, tranne poi a scendere in campo come "esperto" quando i quotidiani strombazzano l'ultima grande scoperta "scientifica" .19 I ricercatori devono sforzarsi di parlarsi di più, ascoltarsi di più, ma soprattutto rispettarsi di più. b) Per merito di uno di quei colpi di ... serendipità che caratterizzano talvolta l'attività di ricerca, ho trovato tra le mie scartoffie un articolo che un fisico francese. G.-A. Boutry, ha pubblicato trent'anni fa, ma che risulta di snervante attualità.20 Boutry osservava che la parola "ricerca" era ormai logorata dall'uso e non evocava altro che imprecise e ampie meraviglie realizzate da una casta separata e quasi sacerdotale. Egli divideva gli scienziati in tre categorie: coloro che cercano l' ordine (i grandi teorici), coloro che sono interessati alle applicazioni e coloro che cercano spiegazioni. La prima categoria di studiosi ricerca un certo tipo di ordine che domina l'universo. Essi "sanno" che questo ordine esiste, e la loro ricompensa è la gioia contemplativa che questa armonia provoca in essi. Di solito sono ricercatori solitari che usano il meditare come metodo di ricerca. Come esempio di questo tipo di scienziati Boutry cita Newton, Carnot ed Einstein. Il secondo tipo di ricercatori si rifà al mito di Dedalo: sono mossi dalla volontà di potenza, e la loro gioia consiste nel costruire macchinari che accrescano il controllo che l'uomo ha sulla natura. Nel medioevo venivano chiamati engeigneur, cioè costruttori di congegni, parola che è la radice comune dell'inglese "engineer", del francese "ingénieur" e dell'italiano "ingegnere". Essi mantengono con la terza categoria di
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scienziati, coloro che cercano spiegazioni, dei rapporti molto stretti, ma solitamente non si interessano alla validità delle spiegazioni che vengono loro fornite. Da parte loro, gli scienziati che cercano spiegazioni reagiscono con entusiasmo alle nuove applicazioni, ma soltanto perché esse rinforzano il valore delle loro teorie esplicative. Il terzo tipo di ricercatori si rifà invece al mito di Prometeo: cerca di imporre un ordine alla natura (Cartesio è stato l'ultimo esempio, secondo Boutry). Essi scompongono ericompongono continuamente i meccanismi della loro macchina esplicativa; mettono in cantiere ricerche per controllare le loro credenze, ne tirano le conseguenze che si traducono in ulteriori ricerche, e il ciclo si ripete all'infinito. Le ricerche che progettano richiedono apparecchiature sempre più sofisticate e squadre di ricercatori sempre più numerose. Secondo Boutry, questo tipo di ricerca potrebbe non avere mai termine. Quello che è più rilevante, nel suo articolo, è il rapporto tra quantità e qualità delle pubblicazioni all'interno delle tre categorie di ricercatori. Per quanto riguarda il primo tipo, niente è più a buon mercato (nel senso di denaro investito dalla società) della ricerca dell'ordine. Viene portato l'esempio di Einstein, che ha elaborato la teoria della relatività ristretta, nel 1905, grazie al tempo libero di cui usufruiva a causa delle sue modeste funzioni presso l'Ufficio Brevetti di Berna. In questo dominio del pensiero esistono ben pochi rischi di sprechi: i mediocri si scoraggiano presto e le pubblicazioni insignificanti sono rare. Gli "ingegneri", a loro volta, hanno bisogno di cospicui investimenti, perché non soltanto devono cercare di costruire cose "utili", ma anche cose sempre più "aggiornate". In questo ambito la concorrenza gioca un ruolo determinante, come avviene in campo commerciale. Gli USA sono la nazione che ha dato i migliori esempi nella gestione della ricerca applicata. La riuscita delle spedizioni lunari è un esempio di efficienza collettiva. Si può dunque affermare che la ricerca in funzione delle applicazioni non se la passa male in fatto di finan-
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INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
ziamenti e che, anche se i mediocri sono presenti in tutti i laboratori industriali, il rendimento medio della ricerca è accettabile. È la terza categoria che inquieta. Boutry riporta un grafico che illustra la quantità di ricerche pubblicate tra il 1896 e il 1966 da 13 riviste dell' American Institute o/ Physics e fa notare che tra il 1922 e il 1966 il numero dei ricercatori che pubblicano è aumentato del 2500-5000 %, senza che ciò abbia comportato scoperte di un certo rilievo per la teoria fisica. Se ne deduce quindi che la quantità delle cose pubblicate è indipendente dal valore delle stesse. Questo fatto lo ha portato a enunciare un teorema: "La quantità di pubblicazioni dell'insieme dei ricercatori stipendiati rischia di essere determinata non tanto da ciò che hanno da dire di nuovo e di utile, ma dal fatto che devono pubblicare qualcosa (non ho la crudeltà di dire qualsiasi cosa) a intervalli regolari". Ciò ha spesso condotto i laboratori europei a mettersi a rimorchio di quelli americani. Un'ultima considerazione di Boutry mi sembra rilevante: diversamente da ciò che accadeva in passato, non è l'emulazione (cioè il desiderio di uguagliare e di essere migliori) che domina all'interno dei gruppi di ricerca, ma la rivalità. L'emulazione genera un pensare e un agire di qualità, mentre larivalità cerca essenzialmente di assicurare il successo e la sopravvivenza dei gruppi più aggressivi. Il libro di Horgan, in fondo, è un indiretto atto di accusa contro lo spreco culturale. L'ansia del publish or perish sembra soprattutto pervadere quei settori di ricerca delle scienze della mente che si definiscono "di punta". Quelli più vicini allo stile letterario sembrano meno agitati, anche perché hanno spesso, a loro volta, pazienti/clienti da calmare. Negli ultimi quindici anni il numero di ricercatori di tutto il mondo è cresciuto del 50% e circa centomila riviste si spartiscono il mercato dell'informazione scientifica. 21 Il teorema di Boutry sembra trovare quindi piena conferma. Nell'ambito della psicologia italiana, il problema è stato posto già due anni dopo l'apertura dei corsi di laurea a Pado-
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va e a Roma. "Ogni volta che scorro una qualunque rivista di psicologia, italiana o straniera, sono colpito dal divario fra la vastità dei problemi tuttora irrisolti e la povertà in idee e in risultati degli studi condotti", scriveva Gian Franco Minguzzi nel 1974, dando vita a un dibattito che è continuato per un decennio e che si è esaurito perché probabilmente qualcuno ha deciso che le proprie ricerche sono molto rilevanti e quelle degli altri invece meno. 22 La ricerca italiana ha però una giustificazione che altri paesi non hanno: il denaro che lo Stato ad essa destina è veramente da pitocchi! Ciò non elimina però il fatto che la ricerca richiede soprattutto curiosità e passione. Come ha scritto qualche giorno fa Renato Dulbecco: "Chi vuole, o deve, porre un limite al tempo o ali' energia dedicati al proprio lavoro, non deve fare lo scienziato" .23 c) In chiusura, vorrei richiamare l'attem:ione sul problema più rilevante posto da Horgan: le prospettive della ricerca nell'ambito delle scienze della mente. Il vero gap esplicativo che deve essere colmato è il rapporto tra una struttura biologica, il cervello umano, e il prodotto principale di questa struttura: la mia esclusiva esperienza fenomenica. Ciò comporta la sintesi tra neuroscienze e fenomenologia, tra le assemblee neuronali e la cultura prodotta dall'uomo. L' ontologia del cervello umano ha almeno quattro milioni di anni. Nel corso di questo lungo arco di tempo l'anatomia e la fisiologia del cervello non sono cambiate granché, ciò che sorprende è come sia cambiata la mente, come essa sia stata forgiata dagli ambienti e dalle culture. La cultura e la tecnologia modificano continuamente la struttura neuronale. La neurobiologia non ha a che fare con funzioni psicologiche immutabili: da un lato deve descrivere eventi neuronali, dall'altro deve spiegare il mutamento che l'esperienza determina in essi. La continua interazione tra scienze "statiche", come le neuroscienze, e scienze "dinamiche", come la psicologia, è la via più accorta per poter arrivare alla comprensione della mente, che in molti dettagli mi sembra "violata". Quando ragiono su questi complessi problemi mi viene
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spesso in mente il principio di indeterminazione di Heisenberg: quanto più accuratamente si misura la posizione di una particella, tanto meno accuratamente si può misurare la sua velocità. Per analogia: quanto più ci isoleremo per misurare accuratamente gli eventi cerebrali, tanto meno riusciremo a comprendere l'importanza della cultura nel determinarli; quanto più ci concentreremo sugli eventi culturali, tanto meno saremo in grado di comprendere la struttura biologica che li produce. Padova, Dipartimento di psicologia generale, luglio 2001
Giuseppe Porzionato
NOTE 1.]. Horgan, The Undiscovered Mind: How the Human Brain Defies Replication, Medication, and Explanation, Tue Free Press, New York 1999. 2. J. Horgan, The Undiscovered Mind. How the Brain Defies Explanation, Weidenfeld & Nicolson, London 1999. 3. J. Horgan, "The Undiscovered Mind: How the Human Brain Defìes Replication, Medication, and Explanation", in Psychological Science, 1999, 10 (No.6), pp. 470-474. 4.]. Horgan, The End o/ Science. Facing the Limits o/ Knowledge in the Twilight o/ the Scienti/i.e Age, Helix Books, Reading, Mass., 1996 (tr. it. La fine della scienza, Adelphi, Milano 1998). 5. G. Stent, The Coming o/ the Golden Age, Natural History Press, Garden City, New York. 6.]. Maddox, What Remains to Be Discovered, Free Press, New York 1998 (tr. it. Che cosa resta da scoprire, Garzanti, Milano 2000). 7. P. Albani, P. della Bella, Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale, Zanichelli, Bologna 1999. 8. C. P. Snow, The Two Cultures: and a Second Look. An Expanded Version o/ the Two Culture and the Scienti/i.e Revolution, Cambridge University Press, London 1959 e 1963 (tr. it. Le due culture, Feltrinelli, Milano 1964, p. 54). 9. "Non si possono sottovalutare i bisogni elementari quando i propri sono stati soddisfatti ma quelli degli altri non lo sono stati ancora [. .. ]. La rivoluzione scientifica è il solo metodo in virtù del quale la maggior parte degli uomini può raggiungere le cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli), quelle cose di primaria importanza che noi consideriamo ovvie e naturali, ma che in realtà abbiamo
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conquistato attraverso la nostra rivoluzione scientifica da tempo non poi così immemorabile. La maggior parte degli uomini sono ancora privi di queste cose di importanza primordiale. La maggior parte degli uomini, dovunque ne venga offerta loro I' occasione, si affrettano a realizzare la loro rivoluzione scientifica." Cfr. Snow, op. cit., la citazione è a p. 80. 10. "È probabilmente troppo presto per parlare di una terza cultura come già esistente. Ma sono convinto che ciò si verificherà nell'immediato futuro [. .. ],tale cultura, proprio per assolvere al suo compito, deve mantenersi in contatto con la cultura scientifica [ ... ]. Vi sono segni che ciò si sta verificando. Alcuni storici della società, mantenendosi quanto più è possibile in contatto con gli scienziati, hanno sentito di rivolgere la loro attenzione ai letterati, o più esattamente ad alcune manifestazioni della cultura letteraria nelle sue forme più estreme." C. P. Snow, op. cit. p. 71. 11. J. Brockman, La terza cultura, tr. it. Garzanti, Milano 1995. Le citazioni sono rispettivamente alla p. 7 e alla p. 11. 12. Il sito, citato anche da Horgan, è http://www.edge.org. 13. Cfr. l.B. Cohen, Scienze della natura e scienze sociali, tr. it. Laterza, Roma-Bari, 1993, soprattutto le pp. 165-174. 14. W. Lepenies, Die drei Kulturen. Soziologie zwischen Literatur und Wissenschaft, Carl Hanser Verlag, Miinchen 1985 (tr. it. Le tre culture. Soctòlogia tra letteratura e scienza, il Mulino, Bologna 1987). 15. W. Dilthey (1883 ), Introduzione alle scienze dello spirito, tr. it. La nuova Italia, Firenze 1974. W. Dilthey (1894), "Idee per una psicologia descrittiva e analitica", tr. it. in Per una fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi e inediti, 1860-1896 (Franco Angeli, Milano 1985). 16. W. Windelband (1894), "Storia e scienza naturale", tr. it. in P. Rossi (a cura di), Lo storicismo tedesco, UTET, Torino 1977. 17. Posso portare due esempi. Il primo riguarda Judah Folkman, noto chirurgo pediatrico e biologo cellulare presso la Harvard Medica! School. I.:Espresso del 15 ottobre 1998 gli aveva dedicato un dossier, con una lunga intervista di Daniela Minerva. Il titolo era lapidario: "Così batterò il cancro. Parla il ricercatore dell'anno". Folkman aveva scoperto due molecole, l' angiostatina e l' endostatina, capaci di fare regredire il 98 % dei tumori in ratti da laboratorio. L'evento ebbe risonanza mondiale. Soltanto quattro mesi dopo, 1'11 febbraio 1999, uscì su la Repubblica un mesto articolo di Vittorio Zucconi intitolato "Il Di Bella USA non fa miracoli", che inziava con queste parole: "Questa è la cronaca di un'enorme delusione e di una grande vergogna. La delusione per un'ennesima speranza sfumata, la vergogna di avere contribuito a crearla. Un'altra cura miracolosa contro il cancro intravista in un laboratorio, annunciata dallo scopritore, pompata dagli speculatori di Borsa, strombazzata dai giornali e dalle televisioni del mondo senza pensare, si rivela, a pochi mesi di distanza, soltanto un buco nell'acqua delle nostre angosce[ ... ]. Un'altra occasione di prudenza, di umanità e di scetticismo _perduta da scienziati e mass media alleati oggettivi nel complesso scientifico-giornalistico per macinare scoop, pubblicità, finanziamenti". Il secondo esempio riguarda un'intervista di Luciana Sica a Fausto Petrella, presidente della Società psicoanalitica italiana, pub-
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blicata su la Repubblica del 7 giugno 1998. In essa, tra l'altro, Petrella afferma: "Non promettiamo la felicità [. .. ]. Non promettiamo neppure la guarigione, e del resto chiunque lo faccia è un cialtrone, dice sciocchezze anche vistosamente interessate [. .. ]. L'analisi in senso stretto è un'esperienza destinata a un numero ristretto di persone, decise a un viaggio nell'inconscio, a toccare i nuclei più profondi del Sé. La sconsiglierei comunque a chi non ha i soldi per pagarsela". Una felice eccezione a questo stato di cose mi è sembrato il tentativo di Giovanni Maria Pace di mettere a confronto un genetista con la passione per le implicazioni filosofiche della scienza, Edoardo Boncinelli, con un filosofo attento agli sviluppi della scienza, Umberto Galimberti. Cfr. E ora?. La dimensione umana e le sfide della scienza, Einaudi, Torino 2000. Anche la rubrica "Forum" all'interno di Le scienze va in questa direzione, ma da qualche tempo mi sembra che la rubrica stia languendo. 18. "I migliori studenti di oggi sanno tanto meno, sono tanto più distaccati dalla tradizione, sono intellettualmente tanto più pigri, da far apparire i loro predecessori dei mostri di cultura. Prendiamo invece l'educazione che tuttora resiste, in forma molto attenuata, in Francia. Esagerando appena un po' ci sono due scrittori che insieme formano e pongono limiti alla mente dei francesi colti. Ogni francese nasce, o almeno diventa presto, cartesiano o pascaliano. (Qualcosa del genere si potrebbe dire di Shakespeare come educatore degli inglesi, di Goethe dei tedeschi, di Dante e Machiavelli degli italiani)". Cfr. A. Bloom, The Closing o/ American Mind, Simon and Schuster, New York 1987, tr. it. La chiusura della mente americana, Frassinelli, Milano 1988, pp. 40-41. 19. Si leggano i commenti di Alberto Oliverio e di Umberto Galimberti, apparsi su la Repubblica del 9 maggio scorso, alla notizia che ricercatori dell'Università di San Francisco avrebbero individuato, nel lobo frontale destro, la sede della nostra identità personale. 20. G.-A. Boutry, "Quantité et qualité en matière de recherche scientifique. Il. Le raz de marée des publications", in Impact: science et société, vol. XX (1970), n. 3, pp. 211-222. 21. Cfr. L. Plévert, R. Cuillierier, P. De Brem, "Pubblicare o perire", in Internazionale, n. 368, 12 gennaio 2001, pp. 40-44. 22. Cfr. G.F. Minguzzi, "La ricerca irrilevante", in Giornale italiano di Psicologia!Italian ]ournal o/ Psychology, 1974, voi. I, pp. 3-8, e la risposta di P. Bozzi, "Sui tipi e le cause delle 'ricerche irrilevanti'", in Giornale italiano di psicologia/Italian Journal o/ Psychology, 197 4, vol. I, pp. 115-130. Si vedano inoltre: D. Parisi, "Ricerca scadente in psicologia: cause e qualche rimedio'', in Giornale italiano di psicologia, 1984, vol. XI, pp. 181-190; C. Umiltà, "La ricerca in psicologia è proprio così scadente?", in Giornale italiano di psicologia, 1984, vol. XI, pp. 557-561; G.V. Caprara, "A proposito di 'Ricerca scadente in psicologia': cause e qualche rimedio", in Giornale italiano di psicologia, 1984, vol. XI, pp. 563-565. 23. R. Dulbecco, "La rivoluzione in provetta", www.repubblica.it/speciale/università, 27 giugno 2001.
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A mio padre
INTRODUZIONE
IO-TESTIMONIANTE
Le scienze si sono sviluppate nell'ordine contrario a quello che ci saremmo aspettati. Da principio sono state assoggettate a una legge le cose più lontane da noi, e poi, gradualmente, quelle più vicine; prima i cieli, poi la Terra, poi la vita animale e vegetale, poi il corpo umano, e infine (ma ancora in modo molto imperfetto) la mente umaria.' nrnTRAND RIJSSELL
Negli ultimi decenni gli antropologi hanno adottato uno stile di resoconto in cui mettono a nudo tutte le preferenze culturali, intellettuali o emotive che potrebbero distorcere le loro osservazioni. Clifford Geertz, che insegna all'Institute far Advanced Study di Princeton e ha contribuito ad avviare questa tendenza, l'ha chiamata "io-testimoniante" .2 Ostentando la loro soggettività e riconoscendo in questo modo che ogni pretesa di oggettività è ingenua, se non ingannevole, l'iotestimoniante spera di guadagnarsi maggiormente la fiducia di chi legge. L'effetto, molto spesso, è non solo di infastidire il lettore, che presumibilmente è più interessato alla vita sessuale dei figiani che alle nostalgie di un dottorando di Harvard, ma di aumentare, invece di fugare, i sospetti sulle priorità di chi scrive. La confessione è una tattica pericolosa per gli scienziati, non meno di quanto lo sia per i politici o gli amanti. O per quanti, semplicemente, scrivono di scienza. Ciò detto, sento comunque di dover iniziare questo libro con un po' di io-testimoniante, perché l'argomento di cui esso tratta solleva alcuni problemi rispetto ai limiti dell'oggettività,
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ben più di quanto capiti, per esempio, alla fisica delle particelle o alla teoria del caos. Verso l'inizio degli anni Novanta del Novecento, quando ormai erano già dieci anni che scrivevo di scienza, cominciai a provare un certo fastidio per il modo in cui questa veniva ritratta dalla maggior parte degli scienziati e dei giornalisti, me compreso. Per ragioni comprensibili ricercatori e giornalisti preferiscono, infatti, concentrarsi su quelle frontiere della scienza che stanno producendo i maggiori progressi, non importa se questi siano autentici o ipotetici. Quest'enfasi fa sembrare la scienza più potente e più veloce di quanto realmente sia. E paradossalmente, concentrandosi sulle sue frontiere, si finisce per portare acqua alla posizione postmoderna secondo cui la scienza non potrebbe mai raggiungere verità assolute e permanenti, perché ogni teoria è provvisoria e soggetta al cambiamento. Entrambe queste concezioni trascurano tutti quei settori della scienza in cui vi è poco o nessun progresso perché i problemi maggiori sono già stati risolti e non rimane quindi alcun mistero fondamentale o perché quei problemi hanno resistito finora a tutti gli assalti. Nei miei articoli per Scientific American, la rivista per cui allora lavoravo, iniziai pertanto a spostare la mia attenzione dai risultati raggiunti dalla scienza ai suoi limiti. La mia ossessione per i limiti della scienza è culminata in La fine della scienza, uscito negli Stati Uniti nel 1996. In quel libro esaminavo i principali campi della scienza pura, incluse la fisica delle particelle, la cosmologia e la biologia evoluzionistica. Queste discipline, sostenevo, erano rimaste vittime dei loro stessi fenomenali successi. I fisici non avrebbero mai potuto superare la potenza delle teorie della meccanica quantistica e della relatività, che insieme descrivono tutte le forze e le particelle della natura; i cosmologi non sarebbero mai riusciti ad arrivare a qualcosa di altrettanto profondo della narrazione unificante della teoria del Big Bang; e i biologi non avrebbero potuto sperare di raggiungere i vertici della teoria darwiniana dell'evoluzione e della genetica basata sul DNA. Nei capitoli "La fine delle scienze sociali" e "La fine delle neuroscienze" mi basavo.invece su un argomento un po' di-
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verso: gli scienziati che tentavano di spiegare la mente umana sarebbero stati semplicemente sopraffatti dalla complessità del loro oggetto di studio. In questo, come in altri casi, prendevo spunto da Gunther Stent dell'Università di Berkeley in California. 3 In libri che precorrevano i tempi come The Coming o/ the Golden Age e Paradoxes o/ Progress, Stent sosteneva che la scienza era destinata a restare vittima dei propri successi nonché dei propri limiti. Stent si rendeva conto dell'importanza del campo delle neuroscienze, al punto di abbandonare negli anni Settanta la biologia molecolare per passare alle scienze della mente e diventare responsabile del dipartimento di neurobiologia della National Academy of Sciences. Tuttavia, Stent era rimasto pessimista sul grado di profondità che le neuroscienze erano in grado di raggiungere nella spiegazione della coscienza e di ;iltri misteri della mente. Sospettava anzi che, "in ultima analisi, il cervello potesse non essere in grado di fornire una spiegazione di se stesso" .4 Alcuni critici di La fine della scienza, pur ammettendo che la fisica delle particelle, la cosmologia e la biologia evoluzionistica potessero ormai aver raggiunto se non superato il punto più alto della loro parabola, trovavano, per dirla con un eufemismo, non convincenti le mie analisi delle scienze collegate alla mente. Lewis Wolpert, un pilastro della biologia britannica, si risentì particolarmente per il trattamento che avevo riservato alle neuroscienze. 5 Quando nel 1997, durante un incontro scientifico, feci la sua conoscenza a Londra, Wolpert si infuriò a tal punto che per un attimo temetti stesse per colpirmi. Con il volto paonazzo mi urlò che il capitolo sulle neuroscienze in La fine della scienza era "scandaloso! Assolutamente scandaloso! ". Per la maggior parte, infatti, non si concentrava su veri neurobiologi, ma su arrivati dell'ultim'ora come Gerald Edelman che era un immunologo, o Francis Crick che originariamente era un fisico! Come potevo affermare che le neuroscienze fossero sulla via del declino, quand'era evid~nte che erano appena all'inizio? Wolpert se ne andò a grandi passi, prima che potessi ri-
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spondere. Se la nostra conversazione fosse proseguita, avrei cercato di ammansirlo riconoscendo che le sue obiezioni al mio libro non erano del tutto ingiustificate. In effetti, avevo già deciso che il trattamento che avevo riservato alle scienze collegate alla mente era del tutto insufficiente, data la vastità e l'importanza del settore. La fine della scienza si concentrava soprattutto sui tentativi di spiegare il più inevitabile e ineffabile di tutti i fenomeni mentali, e cioè la coscienza. Ma la coscienza, se da un lato è il problema più filosofico sollevato dalla mente, dall'altro è anche quello più difficile da affrontare. La maggior parte dei ricercatori nel campo delle scienze della mente sta lavorando su altri problemi molto più tangibili: quali processi cerebrali ci permettono di vedere, udire, ricordare, ragionare, emozionarci, decidere, agire? Perché così tanti di noi sono affetti da disturbi mentali come la depressione e la schizofrenia? Quanto sono efficaci i farmaci, le psicoterapie e gli altri rimedi utilizzati per trattare questi terribili mali? Come interagiscono la natura e l'educazione nella formazione della personalità individuale? Qual è stato il ruolo della selezione naturale nel plasmare i nostri cervelli e le nostre menti? Fino a che punto siamo vincolati dalla nostra eredità biologica? Riusciranno i calcolatori a riprodurre le funzioni della mente umana? La mia tesi secondo cui la scienza avrebbe ormai superato il proprio apice si basava inoltre su una definizione di scienza che implicitamente trascurava i campi collegati alla mente e insisteva sulla fisica e sulla cosmologia. Secondo questa definizione, che avevo preso in prestito da fisici delle particelle come Steven Weinberg e Murray Gell-Mann, le verità scientifiche sarebbero classificabili in base all'ampiezza delle loro applicazioni nello spazio e nel tempo. La meccanica quantistica e la relatività generale sarebbero le teorie più fondamentali perché, per quel che ne sappiamo, sono vere per l'intero universo. Nell'ambito della biologia la teoria darwiniana del1' evoluzione e la genetica basata sul DNA sarebbero invece le verità più fondamentali perché valgono, anche qui per quel che ne sappiamo, per tutti gli organismi che siano mai vissuti
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sulla Terra. Per contro, campi come la psicologia, la psichiatria e la genetica del comportamento riguardano solo un singolo organismo e per di più un organismo che esiste da appena qualche centinaia di migliaia di anni o giù di lì. D'altra parte, queste discipline, che cercano di aiutarci a comprendere meglio le nostre menti e il nostro comportamento, sono per la maggior parte di noi molto più significative della fisica o della cosmologia. Come ha scritto il medico Sherwin Nuland in Come moriamo, la sua meditazione sul morire, "sono interessato più al microcosmo che al macrocosmo, più al modo in cui un uomo vive che a quello in cui una stella muore, più al modo in cui una donna si fa strada nel mondo che a quello in cui una cometa attraversa l'universo ... Il mistero che mi affascina non è la condizione del cosmo, ma quella dell'uomo". 6 Narcisisti come siamo, non c'è tema che ci affascini più di noi stessi. Le scienze collegate alla mente non sono però solamente significative. Da un punto di vista strettamente pratico lo studio dell'Homo sapiens è la più importante di tutte le imprese scientifiche. Proclami anche solo pseudoscientifici sulla natura umana hanno il potere di modificare il corso della storia. Lo hanno dimostrato i movimenti fondati da Karl Marx e da Sigmund Freud (e anche quelli fondati da Gesù, Buddha e Muhammad, dal momento che le loro teologie contenevano tutte delle teorie implicite della natura umana). La guerra, la povertà, l'inquinamento, il crimine, il razzismo e quasi tutte le nostre calamità sociali hanno origine, almeno in parte, all'interno dei nostri cervelli. E lo stesso vale pl!r la depressione, il panico, la schizofrenia e l'alcoolismo. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità più di 1,2 miliardi di persone soffre di qualche tipo di disturbo neuropsichiatrico o comportamentale. 7 Nei soli Stati Uniti la spesa unnuale per i disturbi legati al cervello supera i 300 miliardi di dollari, più della spesa stimata complessivamente per canno, malattie cardiache e AIDS. 8 Le soluzioni per questi problemi possono derivare solo dalla mente umana. Se neuroscienziati, psicologi, ricercatori
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dell'intelligenza artificiale e altri studiosi della psiche realizzassero tutti i loro sogni, potremmo vivere un giorno in una cultura modellata da teorie vere della natura umana. Non dovremmo più logorarci sul mistero delle relazioni fra natura ed educazione o sul problema del rapporto mente-corpo, perché essi sarebbero stati risolti per la soddisfazione di tutti. Potremmo sapere abbastanza sulla nostra natura da progettare un sistema politico che minimizzi la sofferenza e massimizzi la felicità. Potremmo disporre di farmaci capaci di scacciare la disperazione e accrescere la memoria, di terapie genetiche in grado di abolire le sindromi maniaco-depressive e aumentare l'intelligenza. Potremmo essere serviti da robot intelligenti e affascinanti come il comandante Data di Star Trek. E potremmo persino diventare robot intelligenti e affascinanti come il comandante Data di Star Trek. Per tutte queste ragioni ho dunque deciso di scrivere un altro libro che esaminasse la scienza collegata alla mente in modo più approfondito di quanto non avesse fatto La fine della scienza. Un libro che non riguardasse solamente gli sforzi compiuti dagli scienziati per spiegare le proprietà della mente, coscienza compresa, ma che esaminasse anche i tentativi di curare o trattare le menti affette dalla malattia mentale e di riprodurre le proprietà della mente nelle macchine.
Scienza versus scienza della mente In La fine della scienza ho coniato il termine scienza ironica per descrivere quella scienza che non giunge mai a una presa salda sulla realtà e che quindi non converge verso la verità. La scienza ironica non produce riguardo al mondo quel tipo di asserzioni precise e fattuali che possono essere confermate o confutate per via empirica; è quindi più affine alla filosofia, alla critica letteraria o addirittura alla letteratura che non alla vera scienza. La scienza ironica spunta inaspettatamente nelle cosiddette scienze dure, come la fisica, l'astronomia o la chimica. (Un chiaro esempio di scienza ironica è la teoria che postula l'esistenza di altri universi oltre al nostro.) Ma la scienza 8
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ironica tende a diffondersi soprattutto in quei campi che si rivolgono alla mente umana. La scienza collegata alla mente, un termine piuttosto brutto che talora contrarrò in scienza della mente, pone una sfida particolare ai ricercatori che cercano verità tangibili e durature. Il biologo evoluzionista Ernst Mayr dell'Università di Harvard ha sottolineato che nessun campo della biologia può eguagliare la precisione e la forza della fisica, perché, a differenza di elettroni o neutroni, ogni organismo è unico. 9 Tuttavia, le differenze fra, poniamo, due batteri Escherichia coli o due formiche tagliafoglie sono banali, se confrontate con le differenze fra due esseri umani, quand'anche si tratti di due esseri umani geneticamente identici. Inoltre, ogni singola mente può cambiare improvvisamente quando il suo proprietario viene sculacciato, impara l'alfabeto, legge Così parlò Zarathustra, prende l'LSD, si innamora, divorzia, si sottopone a un'analisi dei sogni junghiana, viene colpito da un ictus. La variabilità e la malleabilità della mente complicano enormemente la ricerca dei principi generali della natura umana. Per di più, le ricerche sulla mente non sono riuscite a produrre quel genere di applicazioni che ci spingono a credere in questo o quel paradigma. I fisici possono vantare laser, transistor, radar, jet, bombe nucleari. I biologi possono esibire vaccini, antibiotici, clonazioni e altre meraviglie. Gli effetti delle scienze della mente sono invece molto meno suggestivi: la tempia cognitivo-comportamentale, la clorpromazina, il Prozac, la terapia di shock, i presunti marcatori genetici dell' omosessualità, i test d'intelligenza, i computer che giocano a scacchi. Il filosofo Thomas Kuhn sosteneva che le teorie scientifiche moderne non sono più vere delle teorie che da esse vengono soppiantate, ma semplicemente diverse. 10 In realtà, la proposta di Kuhn semplicemente non vale per campi della scienza come l'astronomia. Sul finire del diciannovesimo secolo gli astronomi credevano infatti che quelle macchie luminose nel cielo note come nebulose fossero nubi di gas all'interno della nostra galassia, la Via Lattea. Quando i telescopi chvcnnero più potenti, gli astronomi si resero invece conto
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che ogni nebulosa era una galassia a sé stante, situata ben oltre i confini della Via Lattea. In questo caso non si tratta semplicemente di una concezione diversa, ma della concezione corretta. Tuttavia, il modello di non progresso scienti.fico di Kuhn funziona molto bene nel caso della scienza della mente. Clifford Geertz, lo stesso antropologo che ha coniato il termine io-testimoniante, ha scritto di recente che la psicologia "ha preso le direzioni più disparate a seconda di quello che ha ritenuto essere il suo 'oggetto': a seconda del tipo di conoscenza che ha ritenuto di poter produrre, del suo grado di realtà, del suo scopo [. .. ]. I paradigmi, cioè i modi completamente nuovi di occuparsi delle cose, non compaiono a distanza di secoli, ma di decenni; a volte quasi di mese in mese" .11 In realtà, le teorie della natura umana non muoiono mai; semplicemente passano o tornano di moda. Spesso vecchie idee vengono semplicemente riconfezionate in forme più gradevoli. La frenologia si è reincarnata nel modularismo cognitivo. La sociobiologia si è trasformata in psicologia evoluzionistica. L'eugenetica, liberata dalla maggior parte dei suoi più disgustosi corollari politici, si è evoluta nella genetica del comportamento. Anche le vecchie forme di trattamento tardano a scomparire. L'elettroshock e la lobotomia, per quanto negli ultimi decenni siano stati spinti dal Prozac e dal litio ai margini della psichiatria, continuano a tutt'oggi a venire prescritti in caso di gravi malattie mentali. Un paradigma che ha mostrato una capacità di sopravvivere degna di Rasputin è la psicoanalisi, inventata da Freud un secolo fa. Benché negli ultimi decenni la psicoanalisi abbia perso parte del suo prestigio, a milioni di persone continua a venire somministrata una psicoterapia basata, almeno indirettamente, su principi freudiani. Per di più, molti intellettuali, non solo filosofi. francesi, ma anche neuroscienziati, ricercatori nell'ambito dell'intelligenza artificiale e altri che si presume dovrebbero saperne di più, continuano a professare la loro ammirazione nei confronti della psicoanalisi. Come mai la psicoanalisi, che una volta è stata definita il 10
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"trattamento dell'inconscio con l'incongruo", 12 continua a essere così influente? I freudofobi rispondono accusando Freud di essere stato il capo di una setta, abilissimo solamente a promuovere se stesso; i freudofìli lo acclamano invece come un genio le cui intuizioni sulla psiche, benché difficili da accertare empiricamente, continuano a sembrare fondate. Entrambi questi punti di vista sono difendibili, ma entrambi si lasciano anche sfuggire l'elemento cruciale che sottostà a questa persistenza della psicoanalisi: l'incapacità da parte della scienza di proporre una spiegazione della mente e dei suoi disturbi che sia chiaramente più convincente della psicoanalisi. Se i freudiani non sono in grado di dimostrare in un modo non ambiguo la superiorità del loro paradigma, non vi riescono nemmeno i fautori di paradigmi più recenti. Secondo gli antifreudiani la psicoanalisi non avrebbe in pratica maggior consistenza scientifica dcl flogisto, la pscudosostanza che i filosofi della natura del diciottesimo secolo credevano venisse rilasciata nel corso della combustione. Ma la ragione per cui gli scienziati non discutono più dell'ipotesi del flogisto è che la scoperta dell'ossigeno e altri progressi della chimica e della termodinamica l'hanno resa ormai completamente obsoleta. Un secolo di ricerche in psichiatria, genetica, neuroscienze e campi limitrofi non ha invece ancora prodotto un paradigma abbastanza potente da ovviare a Freud una volta per tutte. Se, come sostengono gli antifreudiani, la psicoanalisi è l'equivalente del flogisto, altrettanto lo sono tutti i suoi presunti successori. Come direbbe Thomas Kuhn, le varie alternative alla psicoanalisi non sono più vere o migliori di essa, ma semplicemente differenti. Un certo antagonismo è fondamentale per la scienza, così come per il diritto. Ma la litigiosità che caratterizza le scienze della mente le distingue da tutti gli altri campi. I ricercatori si uccingono spesso con maggior entusiasmo e zelo a colpire i paradigmi altrui che non a propagandare il proprio. Così per .i I. neuroscienziato la psicologia evoluzionistica è poco più che un'accozzaglia di storielle, mentre il sostenitore dell'elettroshock si accanisce sugli effetti collaterali del Prozac sul sesso 11
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e chi si occupa di genetica del comportamento si fa beffe delle fantasie sui robot dei fautori dell'intelligenza artificiale. E persino fra i ricercatori che seguono lo stesso paradigma il fuoco incrociato può essere letale. Ho sfruttato per i miei fini questa guerra intestina. Alcuni lettori troveranno forse ingiusto e incoerente da parte mia criticare, per esempio, la genetica del comportamento in un capitolo, e poi utilizzarla nel capitolo successivo per sollevare dubbi sul conto della psicologia evoluzionistica. Ma quando si ha a che fare con le teorie della natura umana, il criterio di prova dovrebbe essere contrario a quello applicato nei tribunali. Le teorie dovrebbero venire considerate colpevoli, cioè erronee o insicure, fino a quando la loro correttezza non venga stabilita al di là di ogni ragionevole dubbio. Si dovrebbe perciò consentire ai critici di mettere in questione una teoria introducendo un'ipotesi contraria per quanto questa possa essere altrettanto dubbia. Per di più, il fatto stesso che scienziati competenti aderiscano a paradigmi differenti e reciprocamente contraddittori costituisce un motivo sufficiente per essere scettici verso tutti i paradigmi. Spesso gli scienziati difendono le neuroscienze e i campi a esse collegati sostenendo che si è, per dirla con il mio detrattore britannico Lewis Wolpert, "appena all'inizio". In realtà, le neuroscienze hanno una storia paragonabile a quella di ogni altro campo della scienza. Già nel quinto secolo prima di Cristo Ippocrate aveva ipotizzato che il cervello fosse la sede della percezione e del pensiero umano, una supposizione confermata da Galeno circa sei secoli più tardi. B Verso la fine del diciottesimo secolo Luigi Galvani mostrò che i nervi emettono e rispondono alla corrente elettrica, e più o meno nello stesso periodo Franz Joseph Gall inventò la frenologia, l'antenata della teoria della mente modulare oggi patrocinata da scienziati cognitivi e non. Intorno alla metà del diciannovesimo secolo Francis Galton cercò di risolvere il dibattito natura-cultura studiando i gemelli con identico patrimonio genetico. William .J ames scrisse i suoi Principi di psicologia nel 1890 e Freud iniziò a esporre la sua teoria psicoanalitica poco 12
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tempo dopo, quando aveva già scritto una solida monografia sui disturbi del linguaggio prodotti dalle lesioni cerebrali. Nel frattempo Camilla Golgi, Santiago Ramon y Cajal e altri stavano scoprendo la struttura e la funzione dei neuroni. L'affermazione secondo cui le neuroscienze sarebbero "appena all'inizio" non si basa dunque sull'effettiva età del settore, ma sulla sua produttività. Anche Wolpert lo ha riconosciuto nel suo libro del 1993, La natura innaturale della scienza. La ricerca collegata alla mente è ancora a uno stadio "primitivo", scriveva qui·Wolpert, paragonata a campi scientifici più maturi come la fisica nucleare e la biologia molecolare. Come prova egli citava l'incapacità da parte dei neuroscienziati di confermare o falsificare gli enunciati della psicoanalisi: "al momento, non è neppure possibile compiere esperimenti a un livello inferiore - cioè, al livello della funzione cerebrale, o neurofisiologica - che potrebbero smentire la teoria psicoanalitica" .14 Wolpert tuttavia rifiutava fermamente la concezione pessimistica secondo cui "il comportamento e il pensiero umano non potranno mai essere sottoposti al genere di spiegazione che ha tanto successo nelle scienze fisiche e biologiche". Egli sosteneva che "non sappiamo c:he cosa non sappiamo e, di conseguenza, che cosa avverrà in futuro". Concordo con Wolpert per quanto riguarda l'attuale stadio "primitivo" delle neuroscienze e degli altri campi legati nlla mente. Il punto è: quanto potranno spingersi lontano in futuro le scienze della mente, dati gli scarsi progressi compiuti sinora? Come la maggior parte degli altri scienziati Wolpert t• un ottimista. In sostanza la sua tesi è che la mancanza fino a oggi di progressi nelle scienze della mente non significa altro d1c ci aspettano grandi cose. Ovvero, i fallimenti passati lasciano prevedere i successi futuri. Ma questo è più un atto di fede che una vera e propria argomentazione. Data la scarsità di risultati raggiunti sin qui, temo che le neuroscienze, la psicologia, la psichiatria e gli altri campi che si dedicano allo studio della mente stiano cozzando contro i limiti essenziali della r;denza. Forse, gli scienziati non riusciranno mai a curare, ri-
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produrre o spiegare la mente umana. Le nostre menti potrebbero rimanere per sempre, almeno in una certa misura, inviolate. Qual è il lato positivo?
Prima di iniziare a scrivere questo libro, ne parlai con un agente letterario specializzato in testi di scienza. "Va bene, ho capito", disse quando ebbi finito di snocciolargli tutti i campi che intendevo criticare. "Tu ci rifili tutte queste cose negative. Ma poi, quale dovrebbe essere il lato positivo?" Lato positivo?, chiesi. "Sì, sai, il messaggio positivo. Che cosa dai alla gente alla fine del libro, perché non si deprima del tutto?" La domanda mi prese alla sprovvista. "Non fornisco lati positivi", dissi, prima di farfugliare qualcosa sulla verità in sé come ricompensa. L'agente mi guardò perplesso, ma non insistette. Quando iniziai a scrivere il libro non divenni meno pessimista sullo stato attuale delle scienze della mente. Al contrario. Ma cominciai a sentire un maggior bisogno di giustificare il mio atteggiamento critico, di trovare quel "lato positivo". Nei primi tempi della mia ricerca osservai alcuni pazienti del New York State Psychiatric Institute mentre venivano sottoposti all'elettroshock. Tra essi vi era una donna minuta e dall'aspetto delicato con i capelli castani corti. Era distesa sul lettino in attesa del suo turno e io ero in piedi a pochi passi da · lei che prendevo appunti su un blocco di carta gialla. Mentre un tecnico le massaggiava sulle tempie un gel conduttore, la donna improvvisamente voltò la testa, e mi fissò. Sembrava nello stesso tempo sorpresa, impaurita e arrabbiata, come se stesse pensando: chi diavolo sei e perché sei qui a guardarmi soffrire? Provai un senso di colpa analogo quando durante un party incontrai un vecchio amico d'infanzia, che qui chiamerò Harry. Non ci vedevamo da anni. Mi chiese che cosa stessi facendo e io gli raccontai del progetto del libro, sottolineando, come faccio spesso con i non scienziati, la critica che volevo muovere a farmaci come il Prozac. Mentre parlavo, Harry si
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mostrò sempre più a disagio e alla fine me ne spiegò la ragione. Alcuni anni prima era sprofondato in una depressione così acuta da aver preso in considerazione il suicidio. Ne era uscito grazie al Prozac. Senza Prozac avrebbe potuto essere morto. Che cosa speravo di ottenere, mi chiese con garbo, denigrando il farmaco che aveva salvato lui e molte altre persone? Un'altra obiezione sorse quando esposi alcuni dei temi del libro durante una lezione all'Università della California. Durante il dibattito un genetista mi chiese arrabbiato quale fosse il mio intento. 15 Pensavo forse che lui e i suoi colleghi dovessero semplicemente arrendersi? Forse il Congresso doveva tagliare loro i fondi? Questi incontri distolsero la mia attenzione dal tema di cui mi stavo occupando e mi spinsero arivolgerla al mio atteggiamento. Perché era così negativo? Per quale ragione? Volevo davvero che queste ricerche fallissero? Posto che la mia visione delle scienze della mente fosse corretta, che cosa speravo di ottenere formulandola? Che cosa ne sarebbe potuto venire di buono? Per dirla con le parole Jell'agente letterario: qual era il lato positivo? Consideriamo innanzitutto le preoccupazioni del mio amico Harry. Mi turbava l'idea che la critica del Prozac, della psicoterapia e di altri simili rimedi potesse indebolire la fiducia nei loro confronti diminuendone così l'efficacia per persone come Harry; dopotutto, la scienza aveva mostrato che la fiducia in una determinata terapia poteva favorirne la riuscita. Ma per un giornalista sarebbe irresponsabile, forse addirittura crudele, esagerare deliberatamente l'efficacia di un trattamento perché qualcuno possa trarne maggiori benefici. Con 11n ragionamento di questo tipo un giornalista potrebbe parimenti propagandare le virtù curative delle sanguisughe, dei rristalli o dell'omeopatia. Ma la fiducia non può tutto, né è sempre benigna. La fede religiosa è molto probabilmente la pi.li efficace terapia psicologica mai inventata, ma ha anche fomentato l'ignoranza e l'intolleranza. Gli effetti benefici dellu scienza devono avere maggior peso di quelli della fede. Al1l'imcnti, perché fare scienza? Le dichiarazioni sui limiti delle neuroscienze, della geneti-
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ca del comportamento e dei campi a queste collegati potrebbero inoltre scoraggiare gli scienziati dal perseguire tale tipo di ricerche e dissuadere le amministrazioni pubbliche dal finanziarne di ulteriori. Ma, ancora una volta, questa possibilità non può giustificare il fatto che vengano ignorati o travisati i fatti. Il mio intento nello scrivere il libro è stato quello di fornire una critica costruttiva delle scienze della mente, cioè di una che potenzialmente è la più importante di tutte le imprese scientifiche. È proprio per la loro importanza che queste ricerche richiedono un esame minuzioso. A volte la mia critica potrebbe sembrare troppo severa, ma la ragione è che voglio ristabilire un certo equilibrio: per la maggior parte i libri sulle scienze della mente sono scritti, infatti, con tono più celebrativo che critico. Alcuni problemi affrontati dalle scienze della mente possono essere difficili da trattare, ma non vorrei mai che questa prognosi finisse per avverarsi. Malgrado i loro passi falsi e i loro limiti, le neuroscienze, la psicologia, la psichiatria, la genetica del comportamento, la psicologia evoluzionistica, l'intelligenza artificiale e, sì, persino la psicoanalisi sono tutt'altro che prive di valore. Ciascuna di esse ci ha fornito degli indizi sulla nostra natura, anche se si tratta di indizi ambigui e addirittura contraddittori. Se non altro, ognuno di questi campi può fungere da contrappeso agli altri, così da assicurare che nessuno diventi mai troppo potente. In più, un giorno gli · scienziati potrebbero davvero cominciare a comprendere la natura umana e a trovare dei modi per migliorarla. Tuttavia, la fiducia e l'ottimismo di cui gli scienziati hanno bisogno per proseguire in una ricerca così difficile possono anche metterli nei guai. In passato una fiducia eccessiva nei poteri della scienza e della ragione ha portato a ideologie pseudoscientifiche come il darwinismo sociale, l'eugenetica e il totalitarismo comunista. Mi piacerebbe credere che ogni scienziato, e ognuno di noi, abbia ormai imparato a non attribuire credito eccessivo ad alcuna teoria, ma vedo troppi segnali che mi fanno pensare il contrario. Mi preoccupano il proliferare della recovered-memory therapy; il sempre più dif16
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fuso utilizzo degli psicofarmaci sui bambini; la persistenza di teorie razziste dell'intelligenza; il propagarsi di descrizioni caricaturali della sessualità maschile e femminile. E un danno più sottile può derivare dalle posizioni di prestigiosi ricercatori secondo cui noi umani saremmo un mero ammasso di neuroni, o un mero veicolo per la trasmissione dei geni, o mere macchine. Questo genere di riduzionismo nuoce sia agli umani sia alla scienza. Quando si ha a che fare con la natura umana, la nostra brama di verità assolute, di teorie unificate, di panacee può avere conseguenze pericolose. Il trucco sta nel rimanere scettici sui prodotti della scienza, continuando però a sostenere l'impresa scientifica. Il filosofo Karl Popper è stato la personificazione di questo tipo di atteggiamento. Non possiamo mai provare che le nostre teorie sono vere, ha suggerito Popper; possia1110 solo confutarle o falsificarle. Ogni conoscenza è quindi temporanea e provvisoria, e la ricerca scientifica diviene così, per la felicità di un amante della scienza come Popper, un'impresa immortale. In La fine della scienza ho però sostenuto che lo schema di Popper non regge se applicato alla totalità della scienza. 16 Gran parte della conoscenza che abbiamo acrnmulato attraverso la fisica, l'astronomia e la biologia non è temporanea, ma duratura e assoluta, proprio come il fatto che la Terra sia rotonda e non piatta. Ma, applicata a una scienza come quella della mente che ha una presa relativamente debole sulla realtà, la filosofia di Popper acquista un notevole significato. Popper ha chiamato la sua filosofia razionalismo critico. lo preferisco il termine scetticismo fiducioso. Troppo poco scettidsmo ci lascia alla mercé dei venditori ambulanti di scienza. Troppo scetticismo può portare al solipsismo, a un postmodernismo radicale che nega la possibilità di raggiungere non solo la conoscenza completa di noi stessi, ma qualsiasi conoscenza in generale. La giusta quantità di scetticismo, unita al1.n giusta dose di speranza, può invece proteggerci dalla bralllH di risposte, mantenendo la nostra mente abbastanza aperltl da riconoscere, quando si presenta, la verità autentica. Se
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LA MENTE INVIOLATA
questo libro riuscirà anche solo un po' nel suo intento, persuaderà i lettori a guardare le scienze della mente con uno scetticismo fiducioso. Questo è un primo lato positivo. Anche se la mente continuerà a sfidare gli sforzi degli scienziati che cercano di spiegarla, curarla o riprodurla, anche serimarrà inviolata, ci sarà comunque un altro lato positivo. La scienza ha dato all'umanità uno scopo importante ed edificante; se questa ricerca della conoscenza si arrestasse, perderemmo qualcosa di prezioso. I traguardi della scienza della mente sono così affascinanti che i ricercatori non smetteranno certo di inseguirli, né governi, società e filantropi cesseranno mai di finanziarne la ricerca. Il fatto che questi traguardi non possano forse venire mai pienamente raggiunti significa, paradossalmente, che la scienza collegata alla mente potrebbe continuare per sempre. Fino a quando continueremo a essere un mistero per noi stessi, fino a quando soffriremo, fino a quando non sprofonderemo in un'utopica indifferenza, continueremo a soppesare e a investigare le nostre menti con gli strumenti della scienza. Come potremmo farne a meno? Ciò che è dentro di noi sarà forse l'ultima ed eterna frontiera della scienza.
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1 IL GAP ESPLICATIVO DELLE NEUROSCIENZE
Nel 1979 la psicologia freudiana veniva ormai considerata poco più di un'interessante nota storica. La nuova frontiera era lo studio clinico del sistema nervoso centrale [ ... ] . I dotti di oggi indagano, affettano, illuminano vetrini e considerano le invenzioni mentali di Freudla "libido", il "complesso di Edipo" e tutto il resto-poco più che eccentriche e antiquate ciarlatanerie, alla stregua del "magnetismo animale" diMesmer. 1 TOMWOLFE
Nel Pedone Platone ha descritto le ultime ore di Socrate, illlprigionato e condannato a morte dalle autorità ateniesi. Socrate spiega agli amici radunatisi presso di lui nel carcere perché, invece di fuggire, ha accettato la condanna. A un ceri o punto ridicolizza l'idea che il suo comportamento possa es:icrc spiegato in termini fisici. Chi lo pensasse, sostiene Socra1c, affermerebbe che, siccome le ossa sono come sospese e oscillanti nelle loro proprie giunture, e i nervi, allentandosi e tendendosi, fanno sì che io ora sia in grado di piegare in qualche modo le mie gambe, questa appunto è la causa per cui ho potuto piegarmi e sedermi qui. E lo stesso anche sarebbe di questo mio conversare con voi per chi lo attribuisse ad altrettali cause, allegando, per esempio, la voce, l'aria, l'udito ... senza curarsi affatto di dir quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro, per questo anche a me è llctrso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere
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LA MENTE INVIOLATA
non andarmene via, e affrontare quella qualunque pena che costoro abbiano decretato. 2
Si tratta della più antica allusione che io conosca a ciò che i filosofi odierni chiamano gap esplicativo. Il termine è stato coniato daJoseph Levine, un filosofo della North Carolina State University. In "Materialism and Qualia: The Explanatory Gap" ,3 apparso nel 1983 sul Pacific Philosophical Quarterly, Levine prendeva in esame la sconcertante incapacità da parte delle teorie fisiologiche di spiegare i fenomeni psicologici. Levine si riferiva principalmente alla coscienza o ai "qualia", cioè le nostre sensazioni soggettive del mondo. Ma il gap esplicativo può essere riferito anche a funzioni mentali come la percezione, la memoria, il ragionamento, le emozioni e, più in generale, a tutto il comportamento umano. Il campo in cui sembrano esservi maggiori possibilità di colmare questo gap esplicativo sono le neuroscienze, cioè lo studio del cervello. Quando Platone scrisse il Fedone, nessuno ancora sapeva che il cervello era la sede delle funzioni mentali. (Aristotele, osservando che spesso le galline continuano a correre anche una volta tagliata loro la testa, giunse a escludere il cervello come possibile centro di controllo del corpo.) Ma oggi i neuroscienziati cercano i collegamenti fra il cervello e la mente con strumenti sempre più potenti: con la tomografia a emissione di positroni e con la risonanza magnetica riescono a osservare l'intero cervello in azione; grazie a microelettrodi possono monitorare con precisione gli impulsi elettrici che passano tra le singole cellule nervose; sono in grado di individuare gli effetti di geni e neurotrasmettitori specifici sul funzionamento del cervello. I ricercatori sperano che alla fine le neuroscienze possano fare per le scienze della mente quello che la biologia molecolare ha fatto per la biologia evoluzionistica: collocarle cioè su una solida base empirica che le porti a nuove e potenti acquisizioni e applicazioni. Le neuroscienze sono senza dubbio un settore in crescita. I membri della Society for Neuroscience, che ha sede a Washington, D.C., sono aumentati vertiginosamente, passando dai 20
IL GAP ESPLICATIVO DELLE NEUROSCIENZE
cinquecento del 1970, anno della sua fondazione, agli oltre venticinquemila del 1998. 4 Le riviste di neuroscienze sono proliferate, e altrettanto è accaduto per quanto riguarda la copertura del settore nelle principali riviste scientifiche come Science e Nature. Nel 1998, lanciando il nuovo periodico Nature Neuroscience, Nature dichiarò che le neuroscienze "sono una delle aree della biologia più vigorose e in più rapida espansione. La comprensione del cervello non è solamente una delle grandi sfide scientifiche della nostra epoca, ma ha anche implicazioni importanti per la società: dai fondamenti della memoria e dalle cause del morbo di Alzheimer fino alle origini delle emozioni, della personalità e persino della stessa coscienza" .5 f~ chiaro che le neuroscienze stanno avanzando e che stanno tmdando da qualche parte. Ma dove? Una volta chiesi a Gerald Fischbach, 6 direttore del Diparti111cnto di Neuroscienze di Harvard e già presidente della Society /or Neuroscience, di indicarmi quello che a suo giudizio era il risultato più importante raggiunto nel suo campo. Fischlrnch sorrise per l'ingenuità della domanda. Le neuroscienze, mi spiegò, sono un'impresa di grande portata. Spaziano dagli illudi sulle molecole che facilitano la trasmissione neurale ali' utilizzo della risonanza magnetica per ottenere immagini del1'in tera attività cerebrale. È impossibile, proseguì, individuare 1111'unica scoperta, o anche un insieme di scoperte, che emerga