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Italian Pages 67 Year 2003
Hilde Bruch
LA GABBIA D'ORO L'enigma dell'anoressia mentale
Traduzione di Lotte Dann Treves
Titolo dell'opera originale THE GOLDEN CAGE The Enigma of Anorexia Nervosa Harvard University Press, Cambridge Mass. Copyright © 1978 by The President and Fellows of Harvard College Traduzione dall'inglese di LOTTE DANN TREVES © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in "Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica" gennaio 1983 Prima edizione nell'"Universale Economica" - SAGGI settembre 2003 ISBN 88-07-81766-7 www.feltrinelli.it Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura. Aggiornamenti quotidiani
Hilde Bruch (1904-1984), medico, professore emerito di psichiatria al Baylor College of Medicine di Houston, è considerata una delle massime autorità in campo mondiale negli studi sull'anoressia mentale. Ha scritto numerosissime pubblicazioni sulle anomalie del comportamento alimentare e alcune monografìe sul tema. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: Apprendere la psicoterapia (Boringhieri 1979), Anoressia: casi clinici (Cortina 1988) e Patologia del comportamento alimentare. Obesità, anoressia mentale e personalità (Feltrinelli 1989).
Alle figliole pelle-e-ossa che mi hanno aiutata a scrivere questo libro
Prefazione Malattie nuove sono una rarità, e di una malattia che elettivamente colpisce i giovani, ricchi e belli, non si era praticamente mai sentito parlare. Ma appunto un'affezione del genere affligge le figlie delle famiglie benestanti, colte e affermate, non solo negli Stati Uniti ma in molti altri paesi sviluppati. Il sintomo principale è una grave denutrizione con perdite ponderali catastrofiche; non è raro sentir dire di queste ragazze: "Ha l'aspetto delle vittime dei campi di concentramento." Non è del tutto corretto chiamare questa una malattia nuova dato che fu descritta oltre un secolo fa in Inghilterra e in Francia e chiamata Anoressia mentale dal più celebre medico inglese dell'epoca, Sir William Gull. Si trovano anche accenni ancora precedenti: la "consunzione nervosa" cui fa riferimento Richard Morton nel 1689 sembra descrivere lo stesso malanno. Nelle sue vivaci osservazioni, questo autore usa un'immagine incisiva: "uno scheletro rivestito soltanto della pelle". Tuttavia, io la chiamo una malattia nuova perché da quindici o vent'anni a questa parte l'anoressia mentale si presenta con una incidenza rapidamente crescente. Prima si era trattato di un quadro morboso estremamente raro: la maggior parte dei medici ne conosceva il nome per averlo sentito nel corso degli studi, senza aver mai osservato un caso. Oggi invece è diffuso al punto da rappresentare un serio problema nelle scuole superiori e nei colleges universitari. Si potrebbe perfino parlare di un'epidemia, per la quale non esiste però un agente contagioso; la diffusione del morbo deve essere attribuita a fattori socio-psicologici. Il problema inquietante è di capire perché una malattia cosi crudele debba colpire ragazze giovani e sane, allevate in condizioni privilegiate o perfino di lusso. Nei maschi la malattia si riscontra di solito nella fase ancora prepuberale, ma con frequenza molto minore - l'incidenza è probabilmente inferiore ad un decimo rispetto alle ragazze adolescenti. Raramente, o forse mai, colpisce i poveri e non è stata descritta nei paesi sottosviluppati. Secondo una recente rassegna, nelle scuole private e negli internati in Inghilterra, l'incidenza è di circa una ogni duecento allieve, nelle scuole pubbliche, invece, è risultata molto inferiore: all'incirca un caso su quasi tremila ragazze. Possiamo soltanto cercare di indovinare per quale ragione quest'affezione colpisca i benestanti e sia diventata tanto più frequente negli ultimi quindici o vent'anni. Non esistono al riguardo studi sociologici sistematici. Io sono incline a pensarla collegata con l'esagerato accento che la Moda pone sull'aspetto snello. Attraverso il suo comportamento o le sue esortazioni una madre o una sorella maggiore possono trasmettere l'esigenza assoluta di restare magre. Non è raro che nella famiglia vi sia una sorella maggiore o una cugina con eccedenza ponderale, e la figlia minore osservi quanto dolore provochi il fatto di essere grasse. Un messaggio analogo viene trasmesso dalle riviste e dai film, ma il più insistente è quello della televisione che giorno dopo giorno inculca l'idea che solo chi è sottile può essere amato e rispettato. Un altro fattore, connesso col primo, sembrerebbe la giusta esigenza delle donne di una maggiore libertà nell'usate le proprie attitudini e doti. Una ragazza adolescente può sentire questa liberazione come una sfida, tanto da convincersi di dover fare qualcosa di eccelso. Molte delle mie pazienti mi hanno detto di essere state travolte dal gran numero di potenziali aperture a loro disposizione; troppe erano le scelte possibili, sicché temevano di non fare quella giusta. Una ha paragonato le esigenze cui deve far fronte una moderna adolescente alle pressioni che sperimenta un dirigente quarantenne prima di crollare con un attacco cardiaco. Anche la maggiore libertà sessuale potrebbe contribuire alla crescente frequenza dell'anoressia mentale. G si aspetta che le giovani comincino ad uscire con ragazzi o ad avere esperienze eterosessuali molto prima che in passato. Una ragazza di quattordici-quindici, e certamente una di sedici anni, che non abbia appuntamenti si sente o viene trattata come un'emarginata. Spesso l'anoressia si manifesta dopo un film o una conferenza sull'educazione sessuale in cui si pone l'accento su ciò che la giovane dovrebbe, ma non è pronta a fare. Quale che sia la ragione di questa accresciuta incidenza, rimane il fatto che l'anoressia mentale è
diventata più frequente e ciò ha influito sulla nostra interpretazione della malattia. A partire dal I960, relazioni su gruppi più numerosi di pazienti sono state pubblicate in paesi lontani l'uno dall'altro, come Russia e Australia, Svezia e Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Si concorda ora nel ritenere l'anoressia mentale un'unità nosologica la cui caratteristica precipua è la ricerca implacabile di un'eccessiva magrezza. Questa anoressia mentale primitiva o idiopatica è la malattia di cui si nota l'incremento e che dev'essere distinta da forme di grave perdita ponderale dovute ad altre cause. Oggi sappiamo anche che anoressia mentale è una definizione impropria di questa affezione, ma il nome è ormai generalmente accettato e probabilmente si continuerà ad usarlo. Anoressia significa mancanza di appetito, ma, sebbene l'ingestione alimentare sia drasticamente ridotta, ciò non avviene per scarso appetito o per mancanza d'interesse nel cibo. Al contrario, queste giovani sono assillate dal pensiero del cibo e del mangiare, ma considerano abnegazione e disciplina le massime virtù e condannano, come vergognoso lassismo, il soddisfacimento dei loro bisogni e desideri. Come dobbiamo spiegarci questo comportamento paradossale? In un precedente libro, Patologia del comportamento alimentare: obesità, anoressia mentale e personalità ( 1973 ), ho riunito le mie osservazioni in merito e ho enunciato il concetto che questa eccessiva preoccupazione riguardo al corpo e alle sue dimensioni, il rigido controllo del mangiare, sono sintomi tardivi nello sviluppo di giovani le quali combattono una lotta disperata contro il senso di essere schiavizzate e sfruttate e incapaci di condurre la propria vita. Andando in cerca alla cieca di un senso di identità e di autonomia, le giovani anoressiche non accettano nulla di quanto i genitori o il mondo che le circonda possono offrire; preferirebbero morir di fame piuttosto che continuare una vita di accomodamenti. La mia ricerca si era focalizzata sulle caratteristiche premorbose e avevo riscontrato tre aree di funzioni psicologiche perturbate in modo caratteristico: primo, gravi disturbi nell'immagine corporea, nel modo in cui queste pazienti si vedono; secondo, interpretazione errata di stimoli esteriori ed interiori, e in questo campo un modo impreciso di percepire la fame è il sintomo più marcato; terzo, al fondo di tutto, un senso di inefficienza paralizzante, la convinzione di essere del tutto incapaci di cambiare checchessia nella propria vita. Il frenetico bisogno di tenere sotto controllo il corpo e le sue esigenze dev'essere visto alla luce di questo senso di impotenza di fronte ai problemi della vita. La scoperta di questo senso di incapacità è stata una sorpresa: le anoressiche sono tracotanti e caparbie e a prima vista danno l'impressione di essere forti e piene di vigore. Quel libro si fondava sulle mie osservazioni in settanta pazienti affetti da anoressia, di cui dieci maschi, e dopo la sua pubblicazione mi fu rivolto un numero continuamente crescente di richieste circa casi difficili e in apparenza refrattari ad ogni trattamento. Ricevetti oltre trecento lettere, spesso rappresentate da voluminosi manoscritti, di pazienti e loro genitori, ma anche da medici e ospedali che si erano occupati della terapia di casi del genere. Ho visto oltre sessanta di questi pazienti difficili insieme ai loro familiari, in consultazioni approfondite che in qualche caso sono durate una settimana e oltre. Circa venti pazienti sono state accettate per una psicoterapia più o meno prolungata. Allo scopo di illustrare diversi punti, nel presente libro riporterò brevi episodi dalle storie di questo grande gruppo di pazienti; la stessa paziente potrà figurare con nomi diversi in vari di questi episodi. Ho scelto questo procedimento per prevenire una possibile identificazione. Queste giovani provenivano dagli ambienti più disparati, ma quando le vedevo per la prima volta erano sorprendentemente simili nell'aspetto, nel comportamento e nei loro discorsi. Se i primi esempi sembreranno alquanto monotoni, ciò riflette appunto questo dato di fatto e illustra come l'influenza della fame e le reazioni che suscita siano spaventosamente uniformi. Durante la guarigione cominciano invece ad emergere gradualmente le caratteristiche individuali. Le tante storie commoventi di trascuranza, tragici ritardi e trattamento inadeguato o perfino nocivo mi hanno convinta della necessità di informazioni molto più particolareggiate su questa malattia e scrivo questo libro nella speranza che raggiunga coloro che hanno occasione di vedere le
giovani anoressiche in una fase precoce, prima che insorga una condizione cronica pressoché irreversibile. Mi servirò delle osservazioni fatte durante questi ultimi anni su pazienti provenienti da diverse parti del paese (e alcune anche dall'estero) e di origine etnica e culturale differente. Ho sempre continuato a concentrare la mia attenzione sui problemi della fase premorbosa, sugli antecedenti della malattia conclamata. Le mie precedenti conclusioni hanno trovato conferma, ma c'è stato un certo spostamento dell'accento e ho riconosciuto con maggiore chiarezza alcuni fattori, tra cui l'effetto della fame sulle funzioni psicologiche ed i deficit di sviluppo cognitivo nella fase premorbosa. Ho riscontrato differenze nei modi in cui queste nuove pazienti si ponevano di fronte alla malattia. In passato, nessuna paziente anoressica aveva mai sentito parlare di questa affezione; in un certo senso, ciascuna era stata l'inventrice originale della sua strada sbagliata verso l'indipendenza. Anche genitori e insegnanti, e perfino i medici, si trovavano di fronte ad un quadro morboso sconosciuto. Oggi, la maggior parte dei pazienti ha letto o sentito parlare dell'anoressia mentale, o prima o dopo essersi ammalati. Una aveva perfino letto la mia Patologia del comportamento alimentare e aveva paragonato il suo a ciascuno dei casi citati nel libro. La malattia soleva essere l'impresa di una ragazza sola, convinta di aver trovato la propria strada per la salvezza; oggi è piuttosto una reazione di gruppo. Recentemente una nuova paziente disse, quasi senza darvi peso: "Ci sono altre due ragazze nella mia classe" (un'ultima classe di quaranta ragazze in un liceo privato). Potremmo perfino pensare che, se l'anoressia mentale si diffonderà sufficientemente, perderà una delle sue caratteristiche più tipiche, quella cioè di rappresentare il raggiungimento di un risultato molto speciale. In tal caso dovremo forse aspettarci di vedere scemare la sua incidenza. Nel frattempo si tratta però di una malattia pericolosa la quale non solo incide sulla salute immediata di queste sfortunate giovani, ma può renderle invalide per il resto dei loro giorni. Capitolo primo Il morbo della fame "È una malattia tremenda, perché si è costretti a stare a guardare la propria figlia mentre si fa del male deliberatamente ed ovviamente soffre, eppure si è incapaci di aiutarla. Un'altra tragedia è che coinvolge tutta la famiglia, perché viviamo in una atmosfera di costante timore e tensione. Mi si spezza il cuore a vedere Alma nella morsa di questo morbo, dal quale io non riesco a liberarla. Il suo raziocinio le dice che vuole guarire e condurre una vita normale, ma non riesce a vincere la paura di aumentare di peso. La sua magrezza è diventata il suo orgoglio e la sua gioia e lo scopo principale della sua vita." Cito queste frasi dalla lettera di una madre afflitta che chiedeva aiuto per la figlia ventunenne, affetta da anoressia mentale da cinque anni. A quindici anni Alma era una ragazza sana e bene sviluppata, mestruata dall'età di dodici anni, alta 1,68, pesava 54 Kg. A quell'epoca la madre aveva insistito che andasse in una scuola di livello accademico superiore, cambiamento al quale la figlia opponeva resistenza. Il padre aveva detto che stesse attenta al suo peso e quest'idea era stata accolta dalla figlia con grande impegno, per cui aveva cominciato una dieta molto rigida: era dimagrita rapidamente e le mestruazioni erano scomparse. L'essere riuscita a dimagrire le dava un senso d'orgoglio, di potere e di conquista. In aggiunta aveva iniziato un programma frenetico di attività fisica, nuotando sulla distanza del miglio, giocando a tennis per ore e facendo ginnastica fino all'esaurimento. Qualunque nadir avesse raggiunto il suo peso, Alma temeva di "diventare troppo grassa" se riprendeva appena trenta grammi. Furono fatti molti tentativi di farla aumentare di peso, ma lei perdeva immediatamente quanto aveva guadagnato e per la maggior parte del tempo il suo peso era stato inferiore a 32 Kg. Tutto questo si accompagnava ad un drastico cambiamento di carattere: se prima era stata dolce, obbediente e piena di riguardi, ormai era diventata sempre più esigente, ostinata, irritabile ed arrogante. G furono continui litigi, non solo circa quello che doveva
mangiare ma anche riguardo ad ogni altra attività. Quando si presentò per il consulto, sembrava uno scheletro ambulante, scarsamente abbigliata in shorts da cui le gambe uscivano come manici di scopa, e con un prendisole che lasciava vedere tutte le costole e le scapole che sporgevano a mo' di piccole ali. Disse la madre: "Se l'abbraccio, sento solo ossa, come un uccellino spaventato". Braccia e gambe erano coperte da una morbida peluria, la carnagione aveva un colorito giallastro ed i capelli secchi pendevano come cordicelle. La cosa che colpiva di più era il viso: incavato come quello di una vecchia raggrinzita da una malattia che la consuma, gli occhi infossati, un naso puntuto nel quale era visibile la giunzione fra setto osseo e cartilagineo. Quando Alma parlava o sorrideva - ed era abbastanza di buon umore - si vedeva ogni movimento dei muscoli intorno agli occhi e alla bocca, come se forse un modello anatomico animato del capo. Alma insisteva però a dire che il suo aspetto era ottimo, non c'era niente di male nel suo essere tanto magra. "Mi piace avere questa malattia e la voglio. Non riesco a persuadermi di essere malata e che ci sia qualcosa da cui debba guarire." L'anoressia mentale è una malattia enigmatica, piena di contraddizioni e paradossi. Queste giovani si sottopongono volentieri al tormento dell'inanizione, anche a costo di morirne. Eppure, la paura della fame è così universale che il fatto di affrontarla volontariamente spesso suscita ammirazione, timore reverenziale e curiosità, tanto che se ne servono persone desiderose di mettersi in vista e protestatari. C'è, nell'anoressia mentale, un elemento di esibizionismo, sebbene all'inizio poche di queste ragazze siano disposte ad ammetterlo. Durante la terapia molte confesseranno che la crudele limitazione dietetica era un modo di farsi notare, di sincerarsi se a qualcuno importasse veramente di loro, cosa della quale non erano sicure. Le giovani anoressiche sono capaci di dire impassibilmente: "se mangio, mia madre non mi vuole più bene". Insistono nel dire che mangiano "molto", ma sono restie a far sapere quello che prendono veramente. Messe alle strette, danno risposte a volte sorprendenti. Una quattordicenne disse con aria di sfida: "Si capisce che ho fatto colazione, ho mangiato il mio Cheerio" i e una ventunenne ha spiegato: "Se dico che mangio troppo, può non significare quello che pensa lei. Io ho l'impressione di ingozzarmi quando prendo più di un cracker col burro di noccioline." Esther si dilungava nei particolari per descrivere quanto mangiasse bene, pur avendo cura di evitare un eccesso calorico. "Non lecco nemmeno un francobollo; non si sa mai per le calorie." I genitori di solito si lamentano di quanto sia penoso ed esasperante vedere la figlia rifiutare il cibo. Ma negli ultimi anni ho visto non poche madri che concordavano con la figlia anoressica nel dire che mangiava abbastanza bene e che non riuscivano a spiegarsi il suo peso tanto basso. Invariabilmente si trattava di donne preoccupate del proprio peso che in un certo senso invidiavano la figlia per la forza di volontà con cui riusciva a sussistere su quantità simboliche. Anche più incomprensibile del digiuno volontario è l'asserzione di non soffrire la fame. Anzi, alcune sottolineano che godono del senso di fame, che l'aver lo stomaco vuoto e la pancia piatta le fa sentir bene e se hanno fame sembra loro di essere più sottili. È difficilissimo ottenere informazioni obiettive su come si sentono le anoressiche, le quali sono veramente confuse circa le loro sensazioni, perché il digiuno ha l'effetto di disorganizzare le funzioni nel loro complesso e le reazioni psicologiche. La denutrizione cronica si accompagna ad alterazioni biochimiche le quali, sebbene finora solo inadeguatamente studiate, influiscono in misura rilevantissima sul pensiero, sui sentimenti e sul comportamento. Quali che siano i loro sentimenti intimi o per quanto impreciso il modo in cui li interpretano e manifestano, le anoressiche non soffrono di mancanza di appetito bensì di un timor panico di aumentare di peso. Nell'intento di sfuggire al destino più temuto, di diventare "grasse", si fanno il lavaggio del cervello (quasi tutte usano questa espressione) allo scopo di cambiare i loro sentimenti. Quelle che sentono fame si allenano a trovare questa sensazione piacevole e desiderabile. Il fatto di saperlo sopportare e di vedersi dimagrire sempre di più dà loro una tale fierezza che sono disposte a sopportare qualunque cosa. Per quanto grave sia la sofferenza, il timore di non tenere sotto controllo il loro enorme interesse per il mangiare è ancora più grande. Il rifiuto del cibo o quella specie di
autopunizione che consiste nel non permettersi di mangiare è una difesa contro la paura primaria, quella di mangiare troppo, di non sapersi dominare, di cedere alle proprie spinte biologiche. Esercitando il controllo sulla funzione alimentare, alcune hanno per la prima volta la sensazione di avere una personalità e di essere all'unisono con i propri sentimenti. Altre considerano questo sacrificio una specie di rito di iniziazione. Alcune si rendono conto della complessità del rifiuto di cibarsi. Secondo Betty, il non mangiare le dava potere; ogni chilogrammo perduto era come un tesoro che andava ad aggiungersi al suo potere e da questo accumulo di potere le veniva un "peso" di tipo diverso, il diritto di essere riconosciuta come individuo ed anche il diritto di permettersi di cedere al suo io goloso. Perdeva peso rapidamente ed il suo pensiero rivolveva intorno al cibo e al mangiare, cosa, questa, che Betty condannava come ingordigia e golosità alla quale avrebbe ceduto soltanto in circostanze eccezionali. Mentre era ricoverata in ospedale era grata di essere costretta a mangiare. "Dimagrendo, assommando chili perduti, mi concedevo il permesso di farmi nutrire, di essere curata e riconosciuta." Allo stesso tempo si confrontava continuamente con le altre anoressiche, per vedere se mangiava troppo o guadagnava peso troppo rapidamente. Ugualmente stupefacente, e perfino portentosa per lo spettatore, è la ferrea determinazione con cui le anoressiche perseguono il loro scopo di magrezza assoluta, non solo limitando la loro alimentazione ma anche attraverso un'attività fisica spossante. Molte erano state sportive prima di ammalarsi ed avevano partecipato alle attività atletiche del loro gruppo, ma ora l'attività fisica diventa un esercizio solitario, il cui unico scopo è di bruciare calorie e mostrare perseveranza. A dispetto della debolezza derivante da perdite ponderali così massicce, si costringono a prestazioni incredibili, onde dimostrare di vivere secondo l'ideale della "supremazia della mente sul corpo". Cora faceva del nuoto, aumentando di giorno in giorno il numero delle vasche fino a dedicarvi quotidianamente cinque-sei ore. Giocava inoltre a tennis, correva invece di camminare ogni volta che fosse possibile ed era diventata anche provetta nella scherma. Dedicava inoltre molte ore ai suoi compiti scolastici per assicurarsi i voti più alti, tanto che la sua giornata lavorativa era diventata di ventun ore, con appena tre ore di sonno. Quando la vidi per la prima volta, negò, ma molto più tardi ammise di aver avuto una fame tremenda tutto il tempo. Ma tale era il suo orgoglio di saperla sopportare che aveva finito col godere di questa sensazione. Dopo parecchio tempo descrisse come tutte le sue esperienze sensoriali fossero diventate più intense durante quel periodo di grave inanizione, specie la vista e l'udito. Si sentiva meglio di notte che di giorno, quando v'erano intorno troppa luce e troppi rumori. Pur continuando le sue attività quotidiane, quali andare a scuola e fare dello sport, stava poi alzata la notte, quand'era fresco e silenzioso, per studiare. Per molti versi queste ragazze si trattano come se fossero schiave cui si nega ogni piacere ed ogni soddisfazione, cui si assegna un minimo di cibo e che si costringono a lavorare fino al completo esaurimento. Un paziente maschio (di ventitré anni) iniziò un regime anoressico durante il suo ultimo anno d'università, onde saggiare la sua capacità di autodisciplina. Quando cominciò a sentirsi debole e si rese conto che il suo organismo stava decadendo, aumentò le miglia percorse nella corsa campestre per rassicurarsi di non essere pigro. Con tutta questa attività esagerata e malgrado le perdite allarmanti di peso, i giovani stessi dichiarano di non aver niente, di sentirsi bene, di essere contenti del proprio aspetto e che si sentirebbero colpevoli e si odierebbero se aumentassero anche solo di pochi grammi. Caratteristica della vera anoressia mentale è l'incapacità di "vedersi" realisticamente o di reagire alla debolezza derivante dalla grave denutrizione; questo è appunto uno dei tratti più stupefacenti della malattia. Molte affezioni organiche e anche diverse malattie psichiatriche e psicologiche danno luogo a perdite ponderali, ma i pazienti si lamentano del loro dimagrimento o vi sono indifferenti; non ne vanno certo fieri come accade invece nella vera anoressia. Un altro enigma ancora: da un lato affermano di non vedere come siano magre e lo negano anche quando sono gravemente emaciate, nello stesso tempo ne sono straordinariamente orgogliose e lo considerano la loro grandissima vittoria. Il bisogno di mantenere il corpo il più sottile possibile è talmente impellente che le malate
ricorrono a qualunque mezzo, onesto o disonesto, per mantenere il loro peso al livello più basso. Nello sforzo di eliminare dall'organismo il cibo indesiderato, molte ricorrono al vomito indotto, ai clisteri o all'abuso di lassativi e diuretici; tutto questo rischia di provocare gravi squilibri elettrolitici i quali possono avere una parte nei casi ad esito letale. Quali che siano i mezzi e qualunque sia lo scopo di questo dimagrimento, gran parte del comportamento tipico della paziente anoressica è in rapporto al fatto che il suo è un organismo denutrito. Nelle descrizioni classiche dell'anoressia mentale l'accento è posto soprattutto sulle conseguenze somatiche della denutrizione, la grave perdita ponderale, l'aspetto ischeletrito, l'anemia, la cute secca, la peluria fine che copre tutta la superficie corporea, la cessazione delle mestruazioni e il metabolismo basale ridotto. Negli ultimi anni, indagini approfondite hanno rivelato molti disturbi delle funzioni neurologiche ed endocrine. Si sono dedicati sforzi notevoli alla questione se questi disturbi neuroendocrini siano la causa o il risultato dell'anoressia mentale, ma sembra che tutti quelli descritti finora possano spiegarsi quali conseguenze della malnutrizione. Il comportamento delle pazienti anoressiche somiglia per molti versi a quello di altre persone private del cibo. Durante gli anni tragici della seconda guerra mondiale intere popolazioni hanno sofferto l'inedia e si è venuti a sapere molto circa gli effetti psicologici della fame. Le malate di anoressia sono riluttanti a parlare dell'esperienza dell'inanizione, almeno all'inizio della terapia. Le loro curiose abitudini nel cibarsi somigliano da vicino a quanto si è osservato in altre persone costrette a soffrir la fame, tranne per l'aria di sfida con cui negano di sentirsi affamate e l'affermazione reiterata e astiosa: "Non ho bisogno di mangiare". Come altre persone tenute a digiuno, stanno eternamente pensando al cibo e al mangiare, non parlano d'altro, sono appassionate della cucina e spesso se ne incaricano, salvo a non mangiare loro stesse, ma costringendovi gli altri. I genitori di Dora erano stati restii ad ammettere che la loro figlia, brillante ed ammirata, potesse essere ammalata e bisognosa di cure. Vennero finalmente in cerca d'aiuto, perché il suo comportamento scompaginava l'andamento di tutta la famiglia: la ragazza si alzava presto la mattina, preparava una gigantesca prima colazione e non permetteva che i fratelli minori andassero a scuola prima di aver finito l'ultimo boccone. In un'altra famiglia la figlia quindicenne aveva preso l'abitudine di fare biscotti e torte non appena tornava da scuola e non lasciava che i genitori andassero a dormire prima di aver finito ogni cosa. Ciò che finalmente li indusse ad agire fu la preoccupazione della madre circa il proprio peso, poiché stava ingrassando per la costrizione esercitata dalla figlia. Il mangiucchiare lentamente e il pensare continuamente al cibo non sono caratteristiche specifiche dell'anoressia mentale, ma si osservano comunemente durante le carestie severe. Le persone "giocherellano" col cibo e preparano piatti che in condizioni normali sarebbero considerati pasticci balordi e disgustosi, con abbondante uso di spezie e di sale. Altrettanto si osserva nelle ragazze anoressiche che sono capaci di fare dell'aceto la loro bevanda o di caricare la loro unica foglia d'insalata di quantità spropositate di mostarda. Mentre l'inanizione si aggrava, il desiderio di cibo non diminuisce. I prigionieri politici riferiscono che soltanto pochi consumavano i loro striminziti pasti in modo normale. Il mangiare veniva trattato con grande segretezza e la maggior parte aveva elaborato metodi per far durare le piccole quantità per molto tempo; uno era riuscito ad impiegare un'ora e mezzo o due ore per mangiare una fetta di pane. I prigionieri parlavano continuamente del cibo, di ricette e dei loro piatti preferiti e si abbandonavano a fantasticherie su quello che avrebbero mangiato una volta liberati. Ciò che si è voluto chiamare "il comportamento anoressico", come se fosse specifico dell'anoressia mentale, ossia il pensiero ossessivo, ruminante del cibo, il ripiegarsi narcisistico su se stessi, la regressione infantile, è identico con quanto si manifesta durante il digiuno imposto da circostanze esteriori. La differenza decisiva sta naturalmente nel fatto che le vittime della carestia mangiano tutto quello che riescono a trovare, laddove l'anoressica patisce la fame - quale che sia il modo distorto in cui vive questa esperienza - in mezzo all'abbondanza, quasi un dittatore interiore le impedisse di soddisfare le sue necessità o la costringesse a respingere il cibo che le viene
costantemente offerto ed è sempre disponibile. Da qui la particolare stravaganza e frenesia del suo pensiero continuamente rivolto al cibo. In alcune la sensazione di fame diventa insostenibile e mangiano - a volte quantità impressionanti, malgrado l'ardente desiderio di restare magre - per poi vomitare. La cosa comincerà forse con un'occasionale orgia alimentare, per la quale si sentono in colpa e che cercano di nascondere, ma in seguito si sviluppa una vera e propria routine: lo stramangiare, sempre seguito da vomito, diventa la regola; tutto questo comportamento dipende dalla possibilità di rigettare, quasi sempre di nascosto. Io so di una sola ragazza che lo faceva apertamente a casa propria, con la conseguenza di violenti litigi. Alla fine il padre minacciò di togliere le porte a tutti i bagni, in modo da poterle impedire di farlo. Quando non c'è la possibilità di vomitare, come accade durante i viaggi o in occasione di visite agli amici, ritornano alle abitudini di digiuno. Le malate che imboccano la strada delle orge alimentari sono inizialmente convinte di aver trovato la soluzione ideale: possono cedere al desiderio impellente di mangiare, ingurgitare tutto quello che vogliono ogni volta che lo vogliono, e dimagrire malgrado tutto. Anzi, in alcune la perdita ponderale è ancora più rapida che in quelle che non ricorrono a questo trucco ma semplicemente mangiano pochissimo. Tuttavia, col passare del tempo l'orgoglio per aver saputo ingannare la natura cede alla sensazione di essere prede impotenti nelle spire di un potere demoniaco che si è impadronito della loro vita. Il rimpinzarsi di cibo non è più una maniera di acquietare la fame, ma una compulsione terrificante cui è impossibile sfuggire. Una volta invalso, questo ciclo di orge alimentari e vomito indotto è difficilissimo da infrangere e queste pazienti sono anche difficili come candidate alla psicoterapia. Tutta la malattia si fonda su premesse e concetti errati e la terapia mira a correggere questi errori psicologici di base, ma l'abitudine agli attacchi di voracità aggiunge una componente di deliberato inganno e, nelle sedute terapeutiche, coloro che hanno imboccato questa strada tendono ad evitare di affrontare apertamente le questioni. All' incirca il venticinque per cento delle giovani anoressiche va incontro alla sindrome delle orge di voracità e molte vi rimangono impigliate. Ogni qualvolta si sentono ansiose o tese, si precipitano sulla consolazione del cibo e così evitano di scandagliare i problemi più profondi. Gran parte della confusione circa le basi psicologiche dell'anoressia mentale è legata al fatto che finora l'effetto incisivo della fame sulle funzioni psicologiche è stato oggetto di scarsa attenzione. Il comportamento durante lo stato acuto di inanizione o la fame cronica e protratta rivelano poco o niente dei fattori psicologici di fondo. Ciò che osserviamo nell'individuo gravemente emaciato sono le conseguenze psichiche e somatiche della denutrizione. In questo stato le pazienti non sono soltanto restie a dire quello che sentono, ma non ne sono effettivamente capaci, poiché si trovano in una condizione quasi tossica. Informazioni significative circa le loro sofferenze psicologiche si avranno soltanto quando il loro stato di nutrizione sarà migliorato e la terapia sarà già in una fase avanzata. La gravità delle alterazioni psicologiche da fame varia notevolmente a seconda della personalità premorbosa, degli effetti dannosi del progressivo isolamento e dell'entità della denutrizione. Per quanto le anoressiche siano estremamente riluttanti a dare informazioni dirette sull'esperienza dell'inedia, sono pervenuta al convincimento che gli effetti della scarsa alimentazione sulle funzioni psicologiche sono in larga misura responsabili del corso protratto della malattia, la mantengono in attività e rendono difficili, se non impossibili, il riconoscimento e la risoluzione dei problemi psicologici che ne sono alla radice. Tutto il comportamento può essere a tal punto perturbato da confinare con la disorganizzazione psicotica. Per fare un esempio: Elsa aveva diciannove anni quando, malata già da due anni, venne a consultarmi. Era alta m 1,68 e il suo peso era calato da 53 a 36 Kg. Era già stata ricoverata due volte e sottoposta a modificazione comportamentale (un metodo-che premia l'aumento ponderale e ne punisce l'assenza) guadagnando rapidamente peso; dopo il secondo ricovero aveva tentato il suicidio. Era dimagrita di nuovo e quando la vidi pesava appena 31 Kg. Pur ammettendo di essere solo pelle e ossa, considerava però il suo scarso peso il minore dei suoi guai. Era fuori di sé per gli
ossessivi "pensieri di cibo" che le venivano in "tutte le forme, i tipi e le dimensioni". "A volte odo delle voci e sento cose dentro la mia testa, e altre volte mi vengono immagini mentali spaventose." Le voci, a quanto pare, erano in conflitto fra di loro, alcune le dicevano "mangia, mangia, mangia" e altre "non mangiare, non mangiare, non mangiare". Questi pensieri del cibo occupavano a tal punto la sua mente da aver escluso tutti i suoi precedenti interessi per varie attività (Elsa aveva doti artistiche ed aveva scritto e svolto lavoro editoriale). Ancora più terrificante trovava il timore di "non essere umana" e il terrore di "cessare di esistere". Talvolta si sentiva "piena di mia madre sento che è dentro di me - anche se non è presente". Descriveva queste sensazioni con voce monotona e parlando rapidamente, e spiegava il suo stato mentale come conseguenza del fatto che la dieta si era impadronita di lei ; anche una tremenda iperattività si era impadronita di lei. La spaventava il futuro che le si presentava come un grande vuoto. Elsa accettò la spiegazione che in gran parte le sue esperienze terrificanti erano il risultato diretto dello stato di inanizione; si sottopose di buon grado al programma di rialimentazione durante un ricovero in un reparto di medicina e il suo peso raggiunse 43 Kg con notevole miglioramento del suo aspetto e comportamento. Questa paziente era una ragazza di non comune bellezza e si persuase che 50 Kg sarebbero stati un peso giusto per lei. Ancora più notevoli furono i cambiamenti nel suo atteggiamento psicologico: il pensare su due binari, il timore dell'inesistenza, il senso di essere letteralmente intrecciata con la madre - tutto questo era scomparso dopo la sola rialimentazione e senza l'impiego di farmaci psicotropi ; è vero che era venuta regolarmente per sedute di psicoterapia. Sebbene si sentisse meglio, sapeva che i problemi psicologici di base non erano stati risolti, anzi erano stati appena toccati. Anche dopo questo breve tempo aveva difficoltà a descrivere quanto le era accaduto. Ricordava con particolare chiarezza che sembrava aver perduto il senso del tempo e della realtà. Ora, sparito il terrore, era disposta a parlare delle preoccupazioni che avevano reso la sua vita cosi miserabile. Poche anoressiche hanno un così grave senso di panico davanti alle modificazioni mentali cagionate dal digiuno e la maggior parte è riluttante a parlarne; alcune le custodiscono gelosamente in quanto prova del loro essere straordinarie: parlano allora di un mondo mirabilmente, o insopportabilmente, vivido, oppure dicono che tutti i loro sensi sono affinati. La maggioranza delle pazienti parla dell'esperienza della fame solo retrospettivamente, quando non si preoccupano più di mantenere il loro peso a un livello tanto pericolosamente basso. Fanny era diventata anoressica all'età di quindici anni e quando venne per la terapia ne aveva diciotto. La famiglia viveva all'estero dove non c'erano state possibilità di trattamento. La ragazza aveva finito il liceo e si presentò per la terapia quando entrò all'università. Pesava meno di 32 Kg, essendo alta 1,52. Parlava in modo reticente e alquanto condiscendente della superiorità del suo stato, dicendo che ormai le piaceva sentirsi affamata e perciò aveva un vantaggio rispetto ai comuni mortali. La giovane aumentò di peso lentamente ma in modo continuo, seppure protestando violentemente e dichiarando di sentirsi spregevole per aver ceduto. Poco per volta, crescendo la sua stima e fiducia in se stessa, riuscì ad accettare il proprio corpo e la necessità di nutrirsi senza provare ansia. Una volta superati i 45 Kg - cosa, questa, che aveva spesso dichiarato intollerabile - si sentiva a posto riguardo al peso ed era soddisfatta del proprio aspetto. Cominciò a parlare liberamente dell'esperienza psichica interiore nella fase di inanizione. Affrontò l'argomento in un momento in cui era turbata perché la compagna con cui divideva la stanza aveva iniziato una dieta molto rigida e Fanny temeva che potesse andare incontro ad anoressia mentale. "So esattamente quello che sente; vedo la sua faccia tesa e la sento dire che non ha fame, che non ha bisogno di mangiare. So quello che passa. Vedo che ci mette ore e ore a svolgere i suoi compiti ; so che non riesce a concentrarsi e per quanto si sforzi, non pensa che al cibo; ecco perché le ci vogliono tante ore per finire il suo lavoro. Io sono passata attraverso tutto questo." In seguito a questa esperienza cominciò ad aprirsi, parlando delle sofferenze passate durante gli anni del digiuno e descrivendo come i cambiamenti psichici si fossero verificati per tappe e per
gradi. "È come se ci si avvelenasse poco per volta, come se si fosse perpetuamente sotto l'influsso di qualche cosa come l'alcool o la droga." Particolarmente sconcertante era stata la perdita del senso del tempo: il tempo appariva tremendamente accelerato eppure le giornate erano interminabili. "Sapevo soltanto se era giorno o notte; vi era una certa struttura nell'essere portata a scuola in macchina - proprio soltanto spostata da casa a scuola e di ritorno a casa. Si è in uno stato di perpetuo intontimento - non ci si sente veramente presenti. Sono arrivata a un punto in cui dubitavo delle persone che avevo intorno, non ero sicura che esistessero veramente. Non ero più in grado di comunicare con le persone. Non v'era niente da dire - sentivo costantemente che non mi avrebbero comunque capita." Fanny si era lasciata assorbire sempre di più dalle sue esperienze interiori, dalla delizia delle sensazioni nuove e intense che sembravano confermarla nella convinzione di essere sulla buona strada. Il suo udito iperacuto causava continui litigi col fratello, perché suonava i suoi dischi troppo forte e le sembrava che, parlandole, tutti gridassero. La sua ipersensibilità alla luce era tale che portava sempre gli occhiali da sole, anche in casa. "Più dimagrivo e più mi convincevo di essere sulla buona strada. Volevo anche essere lodata per essere qualche cosa di speciale e volevo che mi si ammirasse per quello che facevo." Si infuriava se qualcuno cercava di farla mangiare e si sentiva colpevole quando non resisteva più e mangiava, perché questo le impediva di raggiungere le sue mete speciali. Ora che è in pace con se stessa non capisce più la sua convinzione che il digiuno l'avrebbe portata ad una purificazione: "uno dei tranelli era che potevo convincermi di qualsiasi cosa". Venendo in contatto con altre anoressiche, Fanny ha saputo che tutte si aspettano "qualcosa di speciale" come premio del loro digiuno, sempre qualche cosa di sovrumano. Ora lei si rende conto di quanto sia inane il tentativo di raggiungere checchessia in questo modo. "È come il pentolino ricolmo d'oro ai piedi dell'arcobaleno; solo non esiste questo pentolino. Non c'è merito nell'affamarsi e non si può cambiare la vita in questo modo." Poche di queste idee erano state espresse esplicitamente durante la fase di fame acuta, sebbene si palesassero nel suo atteggiamento difensivo e irritato ogni qualvolta si tentava di comprendere il significato del suo comportamento o quando si cercava di persuaderla a lasciare che il suo peso aumentasse. Anche molte altre pazienti protestano con veemenza quando si attuano misure intese a ripristinare la loro salute, alimentandole: "Lei guasta tutto", dicono, oppure "ero quasi riuscita a dimostrarlo" (di essere superiore). Quando Gertrude aveva diciassette anni, fu fatta aumentare di peso a forza, mediante modificazione comportamentale, il che suscitò le sue più accese proteste: "Mi sentivo miserabile e disgustata nel mio nuovo corpo grasso. Volevo tirarmene fuori, dimagrire il più presto possibile. Non riuscivo a pensare ad altro; tutta la mia vita, il mio scopo preciso, il mio controllo erano andati in pezzi." Molto più tardi, quando cominciò a sentirsi a suo agio nelle sue dimensioni normali, parlò degli orrori del periodo di inedia: "È come se si cercasse di fare una cosa che non viene naturale. Io mi ero imposto un regime che mi sembrava molto spiacevole, ma lo sopportavo perché me l'ero imposto da me". Questa asserzione in bocca di questa ragazza era alquanto stupefacente, perché Gertrude era stata più recisa di qualsiasi altra anoressica mai capitatami nel difendere il suo diritto di avere il peso che voleva: nessuno poteva prescriverle un peso "giusto". Quando superò i 40 Kg, cominciò a temere di aumentare troppo; desiderava anche rinunciare alla pratica dello stramangiare e vomitare sulla quale erano state impostate le sue giornate. Un esperto di nutrizione l'aiutò a calcolare una dieta sana che le impedisse di ingrassare troppo, ma, per andare sicura, lei la dimezzò e, com'era da prevedersi, dimagrì rapidamente. Quando il suo peso era calato a 38 Kg, fu piuttosto allarmata dalle concomitanti modificazioni psicologiche. L'iperacuità di tutti i suoi sensi la faceva soffrire e un perenne stato di tensione disturbava la sua capacità di concentrazione e anche le sue possibilità di rendersi socialmente gradevole. Ammise che, quando il suo peso si era abbassato al di sotto di una data soglia, tutto il suo pensiero si era disorganizzato. Quando, in seguito, parlò della sofferenza della fame, le ricordai che l'aveva sempre difesa come un'esperienza non spiacevole. Mi spiegò allora: "Mi ricordo ora come mi sentivo e come parlavo.
Non è che mentissi veramente, perché andar digiuna era quello che volevo fare, ma mi ricordo di essermi sentita terribilmente sofferente. Mi ricordo di quello che pensavo e di come in realtà mi sentivo. Pensavo che fosse semplicemente meraviglioso; che mi stavo forgiando secondo quella mirabile immagine di puro ascetismo e mi dicevo che non avevo fame; ma quello che sentivo era tutto diverso." Mi descrisse come si era sentita debole, sempre sul punto di venir meno quando camminava e la lotta che le costava mantenersi in attività, "ma non mi rendevo conto allora di sentirmi così". Sembrava essersi dissociata dai propri sentimenti o di non sapervi rispondere. "Credevo che mi piacesse quello che facevo, perché era quello che volevo fare. Ricordo com'ero veramente sfinita durante le lezioni di danza e come ne aspettavo con impazienza la fine. Poi mi sentivo debole quando tornavo a casa, ma mi costringevo a correre per tutta la strada. Avevo fame ed ero incapace di concentrarmi; non ricordo nessuno dei libri letti mentre facevo la fame o dei film che ho visto in quel tempo. La mia mente non si focalizzava su quel genere di cose, non pensavo mai ad altro che al mangiare. Ora non penso mai al cibo, salvo quando sono pronta a mangiare; ho un flusso continuo di pensieri tutto il tempo, pensieri su me stessa, sulle persone o le idee o su quanto ho letto o intendo fare. A quell'epoca riuscivo a pensare soltanto al cibo ed ero affamata e stanca." All'età di quindici anni, quando si verificò il grave calo ponderale, Gertrude provò uno strano cambiamento nella sua capacità di pensare: I miei processi mentali divennero molto poco realistici. Sentivo che dovevo fare qualche cosa che non desideravo fare, per uno scopo più alto. Questo impegno si era impadronito di tutta la mia vita, sconquassandola del tutto. Avevo creato una nuova immagine di me stessa e mi ero disciplinata per condurre un nuovo modo di vita. Il mio corpo divenne il simbolo visibile del puro ascetismo ed estetismo, del mio essere in qualche modo irraggiungibile dalla critica. Tutto era molto intenso e molto intellettuale, ma assolutamente intoccabile. Se ti permetti di diventare una persona che non mangia e che sta alzata tutta la notte, non puoi ammettere "mi sento malissimo" oppure "ho fame". Affamarsi ha lo stesso effetto di una droga e ti senti fuori del tuo corpo. Sei veramente fuori di te e allora sei in uno stato di consapevolezza diverso e puoi tollerare il dolore senza reagire. Ecco quello che facevo io riguardo alla fame. Sapevo che c'era - la posso richiamare alla memoria e alla mia consapevolezza - ma a quell'epoca non sentivo alcuna sofferenza. Era come un'auto-ipnosi. Per molto tempo non potevo parlarne per paura di esserne privata. La paziente aveva letto molto sulla denutrizione e sapeva che le visioni sperimentate dalle persone nel Medio Evo erano dipese da malnutrizione cronica. Lei non aveva avuto visioni, ma "tutto era stato intollerabilmente vivido". La sua negazione della fame non era stata finta; era un'operazione inconsapevole. "La difendevo con veemenza, ma mi sentivo veramente malissimo. Ora ne ho una tale paura che ci penso con un orrore quasi fisico. Ricordo con precisione di aver sofferto la fame; ora non potrei nemmeno pensare di farlo ancora." Tutte le pazienti con cui ho lavorato e che sono arrivate al punto di accettare le dimensioni naturali del loro corpo come desiderabili e hanno riconosciuto che i loro problemi dovevano essere risolti in modo realistico e non attraverso il digiuno e l'eccessiva magrezza, hanno parlato con orrore e angoscia della sofferenza della fame. Non si può considerare al riparo del rischio di una ricaduta una paziente anoressica a meno che abbia descritto con onestà gli orrori della fame e la propria incapacità di affrontarli ancora. Il riconoscimento dell'effetto della fame sulle funzioni psichiche ci ha portati di un passo avanti nella comprensione di come giovani donne in apparenza bene orientate, si possano trasformare in un tempo piuttosto breve in "creature invecchiate, raggrinzite, scheletriche e ridotte a pelle e ossa" (per usare l'espressione di una paziente). Quando iniziano la dieta sembrano non far nulla di diverso da quello che fanno migliaia di altre donne. Come mai arrivano poi a questi eccessi? Nessuna delle pazienti da me osservate aveva inteso imboccare la terrificante strada verso una macilenza che metteva a repentaglio la sua sopravvivenza e sacrificare anni della sua giovinezza a questo scopo bizzarro. Avevano sperato che l'essere più sottili non avrebbe migliorato soltanto il loro aspetto ma
tutto il loro modo di essere. Sembra che il modo in cui viene vissuta l'esperienza della fame sia il fattore decisivo dal quale dipende se la dieta rimane ciò che deve essere, un mezzo per buttare giù qualche chilo che è di troppo, o se diventa una forza compulsiva che domina tutta la vita. Il fatto di essere capaci di sopportare la sensazione di fame (e quindi di compiere il miracolo di calare rapidamente di peso) sembra indurre queste ragazze a continuare ancora e ancora. Viene poi la fierezza e il senso di superiorità per essere riuscite a dimagrire e poi la paura di riguadagnare il peso perduto. Per essere sicure, credono di dover diminuire ancora e così si trovano prigioniere su questa strada verso il baratro. Cito a questo proposito quanto dettomi da Helga, la quale si era dapprima allarmata per essere dimagrita oltre la misura progettata, ma poi si trovò invischiata nel patire la fame e cominciò a ricavarne piacere. "Imparai il trucco di permettermi di godermi il cibo al massimo. Mangiavo soltanto cose che mi piacevano e soltanto minime quantità. Non c'era il rifiuto del cibo, c'era il rifiuto di aumentare di peso." Rosicchiando piano piano un pezzetto di dolce dichiarava di sentirsi piena - perché cosi voleva sentirsi. In seguito il processo era sfuggito alle sue possibilità di controllo. "E come se ti fossi creato un robot e non potessi controllarne i pensieri. Dopo un certo punto mi sentivo piena per davvero. E poi ti tormenta quell'orribile senso di colpa dopo che hai mangiato qualunque cosa. Diventai tesa e infelice; ogni gioia e spontaneità erano cancellate dalla mia vita. Mi sentivo come se un negriero mi spronasse con la frusta da un'attività all'altra." Eppure qualunque tentativo di infrangere questo ciclo, incoraggiandola a mangiare di più, provocò un risentimento profondo, perché la distoglieva dai suoi scopi più intimamente sentiti. Si resta stupiti che questa influenza diretta della fame sulle funzioni psichiche delle anoressiche sia sfuggita all'osservazione. L'esatta classificazione psichiatrica dell'anoressia mentale è stata oggetto di notevoli controversie. In passato, tutti i casi di grave perdita ponderale da cause psicologiche sono state considerate alla stessa stregua. Sebbene si riconosca oggi generalmente una sindrome precisa di anoressia mentale primitiva, persistono disaccordi circa la gravità della malattia psichiatrica di fondo. Una parte di questa confusione sembra collegata al fatto che non sono stati presi in considerazione gli effetti psichici dell'inedia. Per rendere la situazione ancora più complessa, si riscontrano notevoli variazioni individuali nel grado di decadenza causata dall'iponutrizione. Molti dei sintomi più allarmanti - scissione dell'io, spersonalizzazione, gravi difetti dell'io - sono direttamente attribuibili all'inanizione stessa. Una valutazione psichiatrica significativa diventa possibile solo allorquando saranno stati compensati i peggiori effetti della malnutrizione. Inoltre, se l'inedia continua per molti anni, i suoi effetti psichici vengono integrati nella personalità e il quadro complessivo può diventare tale da non distinguersi dalla sindrome borderline, e perfino dalla schizofrenia. Eppure, l'esperienza della fame non basta per spiegare compiutamente lo sviluppo dell'anoressia mentale. Le persone, nella loro maggioranza, fanno di tutto e sono pronte a qualunque cosa pur di trovare sollievo alla sofferenza della fame. Le anoressiche si invischiano in questo processo perché esso in qualche modo singolare soddisfa il loro desiderio affannoso di essere speciali e straordinarie. Non è una malattia che capiti o colpisca una ragazza: lei stessa partecipa sempre assai attivamente al processo morboso. Per comprendere questo dobbiamo riconoscere le deviazioni nei rapporti interpersonali e le deficienze di sviluppo che precedono la malattia. Capitolo secondo Passerotto in gabbia Quando Ida tornò a casa per le vacanze d'estate dopo il suo primo anno di università stava molto meglio dell'anno precedente, quand'era venuta da me per la terapia. Il suo peso era salito dal punto più basso di 31 Kg a circa 40, il che era pur sempre alquanto inferiore al suo peso normale. Era contenta di essere a casa, ma le mancava tutto il daffare che ci si era dati intorno a lei in precedenza,
quando tutti si erano preoccupati della sua malferma salute e l'avevano trattata come "una mosca bianca"; ora l'accettavano com'era. Nei primi giorni le sembrava di non appartenere alla famiglia, di non aver nulla con cui contribuire. Ricominciò a preoccuparsi del suo peso, a temere di essere troppo grassa, e a soffrire del vecchio sentimento di odio verso se stessa. Un pomeriggio, mentre camminava sulla spiaggia, ebbe la netta impressione che sarebbe stata felice se avesse avuto la sagoma della sua ombra: stretta e allungata. Tale era la sua infelicità per non essere così sottile che si mise a piangere. Cominciò a riflettere su tutta la propria vita e su come si era svolta. Fin da bambina, Ida aveva sentito di non meritare tutti i privilegi e i benefici offertile dalla famiglia perché le era sembrato di non essere sufficientemente brillante. Le venne in mente un'immagine: lei era come un passerotto in una gabbia dorata, troppo insignificante e semplice per la sua casa lussuosa, ma anche privata della libertà di fare quello che veramente avrebbe voluto. Fino a quel momento aveva parlato soltanto degli aspetti di eccezionalità del suo ambiente d'origine; ora invece cominciò a parlare di sofferenze, limitazioni e obblighi che comporta il crescere in una casa ricca. Rifacendosi all'immagine del passero, disse che le gabbie son fatte per grandi uccelli multicolori che mettono in mostra le loro penne e si accontentano di saltellare qua e là nella loro gabbia. Lei sentiva di essere del tutto diversa, come un passerotto che non dà nell'occhio ma è pieno di energia e vuole stendere le ali e spiccare il volo per conto suo; non è fatto per la gabbia. Molte anoressiche si esprimono in modo simile, usando perfino immagini quasi identiche, per dire che tutta la loro vita è stata dominata dal desiderio di soddisfare le aspettative dei loro familiari e dal timore di esservi impari, meno brave di altri e pertanto causa di grosse delusioni. Questa insoddisfazione cocente è un fattore fondamentale dell'anoressia mentale e precede la preoccupazione circa il peso e la decisione di adottare una dieta. L'angoscia e lo scontento di fondo contrastano con la provenienza di queste ragazze da famiglie le quali a prima vista fanno una buona impressione e in cui è stato provveduto a tutto quello di cui una ragazza può avere bisogno per il suo benessere fisico e sviluppo intellettuale. I genitori considerano saldo il proprio matrimonio e ci sono poche famiglie disunite. Tra gli ultimi cinquanta casi da me osservati ci sono stati soltanto due divorzi prima dell'insorgenza dell'anoressia e una sola coppia mi ha parlato di difficoltà matrimoniali. In una famiglia la madre era morta diversi anni prima che la figlia si ammalasse e in un altro caso era morto il padre (madre e figlia parlavano con adorazione del marito e padre e della loro felicità prima della morte di lui). La maggior parte delle anoressiche proviene da famiglie di medio-alta o alta borghesia, spesso con ampie risorse finanziarie ed elevata posizione sociale. Le famiglie di piccola borghesia o appartenenti ai ceti subalterni, di cui mi sono capitati relativamente pochi casi, erano tutte sul gradiente ascendente e bramose di successo. La figlia anoressica di un impiegato postale aveva due fratelli maggiori, uno medico, l'altro avvocato, entrambi convinti di dovere la loro ascesa sociale all'incoraggiamento stimolante della madre. Un'altra ragazza, figlia di un operaio, era l'unico rampollo di una vasta tribù familiare e tutti avevano contribuito a prepararle una carriera speciale. Si è trattato sempre di famiglie piccole: 2,8 figli in media negli ultimi cinquanta casi capitati alla mia osservazione. L'età dei genitori alla nascita della figlia anoressica era piuttosto avanzata: in media trentotto anni per il padre, e trentadue per la madre, ma il padre più vecchio aveva cinquantaquattro anni quando nacque la figlia anoressica, la madre più vecchia quarantatre. I genitori delle poche figlie uniche si erano sposati tardi e avevano decisamente varcato la soglia della mezza età quando questa era nata. In molti casi i rapporti sessuali si erano ormai diradati o erano cessati del tutto. Una caratteristica notevole di queste famiglie era lo scarso numero di figli maschi: oltre due terzi avevano soltanto figlie. La maggior parte dei genitori negava che questo avesse creato dei problemi, sebbene una madre fosse caduta in preda a una tale depressione alla nascita della quarta femmina per aver dato al marito la delusione di non sapergli dare un figlio, che fu il padre a doversi occupare della bimba: l'allevò con la precisione acquisita nel suo addestramento professionale di ingegnere
elettrotecnico. In un altro caso, la paziente si disse convinta che non avere un discendente maschio non aveva rappresentato un problema per il padre, che questi era fiero delle sue figlie e le trattava, dal punto di vista intellettuale, come figli; era particolarmente orgoglioso che tutte sapessero gettare una palla "come si deve" (cioè come un ragazzo). Le anoressiche che avevano un fratello erano spesso ultimogenite, talvolta con due o tre fratelli maggiori e per tutta l'infanzia si erano sforzate di tenere il passo con le attività di questi. Altre anoressiche ancora erano di parecchi anni maggiori di un fratellino. Fatto significativo: i padri apprezzano le loro figlie per il loro brillante intelletto e per le loro prestazioni sportive; raramente badano al loro aspetto mentre si avviano a diventare donne, pur criticandole se si fanno pienotte. Ci si domanda che cosa accade in queste famiglie in apparenza ben funzionanti e prospere per far sì che le ragazze crescano carenti di stima di sé, incapaci di affrontare le nuove occasioni dell'adolescenza e dell'età adulta e di goderne? Un tratto comune è che queste figlie sono persuase che sia loro compito servire da prova vivente della perfezione dei loro genitori e dare a questi il senso della loro bontà e superiorità, del loro successo. Eppure, proprio il successo dei genitori, la loro vita dispendiosa e tutti i vantaggi materiali e culturali sono vissuti da queste figlie come richieste eccessive. Parlando degli obblighi derivanti dall'appartenenza a una famiglia ricca, Ida, quella della gabbia dorata, usò quest'immagine: "se uno nasce figlio d'un re, è condannato a essere qualcosa di molto speciale - deve diventare re a sua volta". Parlava con angoscia del peso dei privilegi: "Se ti danno molto, si aspettano anche molto da te". Dalle informazioni circa l'allevamento di queste bambine si rileva che le madri erano per lo più coscienziose e amorevoli, convinte di aver fatto tutto a dovere e persuase che la figlia fosse cresciuta bene grazie alle loro cure. Pochissime pazienti erano state tirate su da bambinaie o governanti. A differenza di molti genitori moderni, assillati da incertezze, quelli delle anoressiche sono piuttosto sicuri di sé, e sottolineano come abbiano fatto tutto bene e come il loro modo di trattare la bambina sia stato migliore di quello dei loro amici e vicini. Prima di ammalarsi, la figlia era cresciuta tanto bene, non aveva mai dato preoccupazioni, prova vivente del metodo perfetto dei suoi genitori. Questi genitori si possono benissimo descrivere come buoni, amorevoli e ambiziosi. Per impalpabili ragioni personali, quella particolare figlia è stata sopravvalutata, ma lei stessa ha avuto l'impressione che, quale ricompensa, ci si aspettasse troppo da lei. Molte delle madri erano state professioniste e pensavano di aver sacrificato le proprie aspirazioni per il bene della famiglia, pur dotate di grande intelligenza e di istruzione superiore, praticamente tutte avevano rinunciato alla carriera quando si erano sposate. Ultimamente, diverse di questi madri si erano dichiarate pentite di averlo fatto e adesso, ormai quarantenni, stavano studiando onde poter svolgere un lavoro indipendente. Queste donne si sottomettono ai mariti in molte questioni pur senza rispettarli veramente. I padri, malgrado il loro, spesso notevole, successo sociale e finanziario, si sentono in una qualche maniera "di serie B", tengono enormemente all'aspetto esteriore, ammirano prestanza e bellezza e si aspettano dai figli un comportamento esemplare e successi quantificabili. Questa descrizione è probabilmente valida per molte famiglie borghesi desiderose di successo, ma le caratteristiche appaiono più marcate in quelle delle anoressiche. Sebbene sottolineino la loro normalità e la felice convivenza, è facile notare in queste famiglie le tensioni di fondo. Per fare un esempio, prendiamo il caso di Alma, della quale abbiamo già parlato nel capitolo precedente. I suoi genitori si erano dedicati interamente e affettuosamente ai figli, cui avevano dato il meglio da ogni punto di vista. Il padre, un uomo d'affari molto affermato, svolgeva un ruolo preminente nella vita finanziaria e politica di una città del Midwest, la madre occupava un posto di primo piano in molte attività sociali. Ma entrambi i genitori si sentivano in qualche modo vinti; il padre aveva aspirato a una carriera professionale, resa impossibile dalle circostanze, la madre era persuasa di aver sacrificato il suo sogno di fare strada nel teatro. I genitori erano fieri di poter offrire alle loro figlie la migliore educazione. La figlia maggiore, soltanto di intelligenza media, aveva rappresentato, per le sue prestazioni e il comportamento mediocri, un'amara delusione per i genitori. Da Alma ci si aspettava molto, perché brillava non solo dal punto di vista accademico, ma anche
nello sport e nelle attività artistiche e aveva molte amicizie. Questa figlia aveva soddisfatto tutto quanto i suoi desideravano da lei, fino a quando non era diventato superiore alle sue forze, tanto che l'eccessivo controllo che volle stabilire sul suo corpo e il comportamento aggressivo e negativistico sembrarono una fuga da questa situazione di sopraffazione. Spesso le madri di queste ragazze si preoccupano in modo esagerato del proprio peso e della dieta. Altre invece sono ossessionate da una qualche loro imperfezione fisica. Così la madre di Gertrude, quasi quarantenne quando mise al mondo la figlia, si era impensierita sempre di più perché i suoi tessuti non erano più abbastanza sodi e lisci. Nell'intento di cancellare questi segni dell'età, si serviva di ogni rimedio reclamizzato e obbligava la figlia, dall'età di dodici-quattordici anni in poi, a ispezionare le sue cosce e natiche, per valutare se l'ultima cura ne avesse ripristinato l'aspetto giovanile. In altre famiglie è il padre ad avere la mania della dieta, in termini ancora più assoluti e dittatoriali. Il padre di Jill, che aveva settantadue anni, si gloriava del suo peso, ancora identico a quando era uscito dall'università, e lo controllava tutte le mattine. Non appena notava il minimo aumento, apportava le opportune rettifiche alla sua dieta. Quando Jill, all'inizio dell'adolescenza, era diventata un po' pienotta, la convinse a fare una cura dimagrante e l'elogiò perché il suo peso era calato. Il problema fu che la ragazza non smise di praticare la dieta e rimase prigioniera nel deserto dell'inanizione. Anche Karla ricordava che suo padre, ormai deceduto, aveva tenuto molto alla dieta. Gli spuntini erano tassativamente vietati. Il cibo si consumava ai pasti e nulla era permesso negli intervalli. Questa paziente esprimeva sentimenti stranamente misti circa la sua perdita ponderale: vi si era sottoposta per fare piacere al padre, ma nello stesso tempo sentiva di essere stata più brava di lui: anche se fosse stato vivo non avrebbe potuto farla mangiare ormai; loro due erano pari. I genitori sogliono parlare con orgoglio della famiglia felice e armoniosa in cui avevano allevato i figli, ma non necessariamente la ragazza anoressica avrà avuto questa sensazione. Anzi, sarà stata forse proprio lei a rendersi conto delle tensioni e a sentire di dover compensare i genitori di quanto mancava nel loro rapporto. Quale esempio cito la storia di Laura, seconda figlia di una coppia di elevata condizione sociale in uno Stato del Nordovest. La sorella maggiore era considerata emozionalmente instabile e noiosa. La sorella minore badava tranquillamente ai propri affari, mentre Laura aveva vissuto tutta la vita come l'"ombra" della sorella maggiore, imitandola in tutto e per tutto, salvo nel fatto di creare difficoltà. La sorella si comportava spesso in modo crudele e aggressivo verso Laura, cosa della quale la madre si rendeva conto in una certa misura, pur senza intervenire per tema delle scenate della figlia maggiore. Avendo la sorella fatto l'ultimo anno di scuola in Francia, Laura decise di fare altrettanto, fu però molto infelice e tornò a casa prima di finire l'anno scolastico. Era dimagrita parecchio e continuava a perdere peso. Fino a quell'epoca era stata sempre molto legata alla madre e, in contrasto con le pretese della sorella maggiore, aveva cercato di rappresentare per la madre "una consolazione". Ora invece cominciavano a darle fastidio certe abitudini della madre, la sua indecisione, la sua incapacità di essere puntuale. Più avanti ancora si trovò a criticare entrambi i genitori, pur continuando ad ammirare il padre come l'uomo "più perfetto" che avesse conosciuto. Questi era un finanziere di successo che si occupava di diverse importanti imprese e svolgeva anche una parte importante nello sviluppo culturale della città; in un certo senso si era adattato alla sua situazione di unico uomo in una famiglia di quattro donne, cercando le sue soddisfazioni fuori della famiglia. Malgrado la sua ammirazione, Laura lo sentiva emozionalmente lontano. Lui non la criticava mai; anzi, la colmava di lodi e incoraggiamenti, ma Laura era convinta che questi fossero privi di significato, che lui non manifestasse mai i suoi veri sentimenti, ma fosse paziente e pieno di riguardi, perché questo era il compito di un padre. Si disperava per l'ansia di non venire a sapere mai quello che lui sentiva veramente. Persistendo l'anoressia, la giovane cominciò anche ad avere dubbi circa il rapporto tra i suoi genitori; le sembrava che la madre mantenesse una facciata di armonia, obbedendo sempre ai desideri del padre e si irritava contro la madre perché vedeva in lei
ciò che temeva sarebbe stata anche la sorte sua: essere uno zero, dedicarsi a un marito, dedicarsi ai figli, senza una vita propria. Anche molte altre ragazze esprimono un sentimento simile, cioè di avere una responsabilità particolare verso la madre; alcune lo dicono esplicitamente, altre vi accennano soltanto. Per Mabel era stato sempre una regola basilare, quella di avere riguardo per sua madre. Davanti a qualunque proposta, il suo primo pensiero era sempre: "che dirà la mamma?" Quando Mabel aveva quattordici anni, una università vicina offrì un corso estivo di matematica moderna per liceali dotati e lei avrebbe desiderato moltissimo parteciparvi, ma decise di rinunciarvi per tema che la madre, la quale si dedicava a una carriera artistica, si sentisse esclusa o perfino stupida in confronto alla figlia. La madre le aveva fatto capire in molti modi coperti che considerava le materie scientifiche meno creative di quelle artistiche e aveva esortato la figlia a non perdere il suo tempo con la matematica o con le scienze. Questo eccessivo riguardo per i sentimenti dei genitori aveva portato Mabel alla convinzione che non avesse il diritto di esprimere i propri e di comportarsi di conseguenza. All'età di nove anni era stata mandata in un campeggio nelle Alpi francesi perché passasse un'estate salutare e imparasse a parlare il francese. Mabel era stata infelicissima in quell'occasione e al suo ritorno, malgrado il suo aspetto smunto e pur essendo piuttosto silenziosa, disse di essersi divertita moltissimo e l'anno seguente, credendo di indovinare i piani dei suoi, chiese di tornare in Francia sebbene temesse un'altra estate di sofferenza; le pareva suo dovere non deludere i genitori. Era convinta che se avesse detto di essere stata infelice, i genitori avrebbero pensato di aver commesso un errore e questo lei doveva impedirlo. Durante i suoi anni in collegio Mabel studiò psicologia e un giorno venne alla sua seduta terapeutica da me tutta eccitata per aver trovato in uno dei suoi libri l'esatta descrizione della madre. Si trattava di uno studio sulle famiglie degli schizofrenici, in cui il comportamento egoista della madre era descritto minutamente: come, cioè, allevi i figli in modo da soddisfare le proprie esigenze e i propri desideri. Mabel citava molti particolari di come nella sua famiglia la vita fosse stata organizzata secondo il volere della madre, i suoi gusti e interessi e la sua preferenza per ipropri amici. Tutto questo era toccato anche al padre, ma lui poteva sfuggire grazie alla sua vita d'affari molto attiva, mentre, lei, Mabel, era stata legata alla madre e foggiata secondo i desideri, i sogni e le ambizioni di lei. Questa scoperta l'aiutò anche a capire come mai avesse avuto una ricaduta tutte le volte che era tornata a casa per le vacanze; quali che fossero i progressi da lei compiuti, la madre non lesinava mai le critiche perché non si era sviluppata nel modo giusto. Criticava anche i suoi amici, sebbene, salvo alcune eccezioni, non li conoscesse di persona, convinta com'era che non fossero gli amici che avrebbe scelto lei. Anche il padre nutriva molte ambizioni per la figlia e, al pari della moglie, criticava i suoi amici, sebbene in modo diverso e più sarcastico. Non solo i genitori ma anche le stesse pazienti tendono all'inizio a dipingere un quadro fulgente delle benedizioni e della felicità della loro famiglia, dove l'anoressia è l'unico difetto in quella che altrimenti sarebbe una vita perfetta. Si tratta in parte di una negazione diretta dei fatti o del timore di trovarsi costretti a manifestare una critica; ma è anche espressione di un eccessivo conformismo: quello che dicono i genitori è sempre giusto e le pazienti si rimproverano per non essere abbastanza buone. Nancy era dimagrita enormemente immediatamente prima dell'esame di maturità. La sua era una delle poche famiglie in cui i genitori avevano presto divorziato e lei era vissuta sola con la madre dall'età di tre anni. Sebbene il suo aspetto cadaverico fosse la denuncia vivente di qualche cosa di profondamente doloroso e sbagliato, dalla sua descrizione tutto nella sua vita appariva perfetto, specie il rapporto con la madre, parlando della quale disse più volte: "sono molto felice con mia madre". Le uniche difficoltà fra loro due derivavano dalla malattia: "Lei cerca di aver pazienza, ma è difficile per lei stare a guardare quello che io mi infliggo e non dire nulla; cosi si turba, si irrita e diventa sempre più stanca". Da qui, un senso di colpa di Nancy, aggravato dal fatto che la madre lavorava moltissimo onde assicurarle tanti privilegi. Quando fu sollevata una questione circa l'espressione dell'ira, Nancy rispose con amarezza: "Non mi è mai permesso! Mia madre non lo sopporterebbe. Non posso mai contraddirla o niente di simile". Detto questo, cadde in
silenzio, come se avesse rivelato un segreto proibito. In tutte le famiglie da me osservate si poneva l'accento su un comportamento educato e i genitori erano fieri della loro bambina perfetta che non aveva mai manifestato i comuni atti di insubordinazione infantile, come il contraddire, la caparbietà o l'ira. Infatti, la mancata espressione dei sentimenti, specie di quelli negativi, è una regola generale fino a quando non si manifesta la malattia e l'antica bontà cede il passo a un negativismo indiscriminato. Molte pazienti persistono in questo stato di repressione anche una volta insorta la malattia e oppongono resistenza all'invito di esprimere apertamente i loro sentimenti. Un atteggiamento arrogante di "ma questo non si fa" pervade tutto quanto dicono o esprimono, e si preoccupano moltissimo dell'impressione che fanno, di quello che la gente penserà e dell'immagine che debbono mantenere, il che vale tanto per le pazienti quanto per i loro familiari. Molte di queste ragazze si tormentano domandandosi quali siano i veri sentimenti e pensieri dei loro genitori ma nello stesso tempo sono estremamente restie ad ammettere l'esistenza di un problema. Tutto quanto Olga sapeva dire circa la propria famiglia suonava come un elogio sperticato; sebbene lei non lo meritasse, le era stato offerto il meglio di ogni cosa. La sua infanzia era stata uno sforzo continuo di accontentare i genitori e di non meritare mai rimproveri o critiche. Secondo i suoi ricordi, non era stata mai punita, ma era vissuta nel costante timore di una punizione, perché non riusciva a conoscere i veri pensieri dei genitori, celati dietro la facciata di gentilezza e di approvazione. Non ci fu mai una discussione tra loro e sembravano andare d'accordo, ma da bambina Olga era vissuta nell'ansia perpetua di conoscere i sentimenti dei genitori, specie del padre che non manifestava mai un'emozione. Olga sapeva che anche i fratelli maggiori si erano trovati nello stesso imbarazzo; la sua soluzione fu quella di essere più perfetta di quanto qualunque genitore potesse desiderare e di nascondere qualsiasi manifestazione di rabbia o di ribellione. Si era formata un quadro del tutto irrealistico di come doveva essere la sua vita, si preoccupava di quello che le persone pensavano di lei e temeva il giudizio della società. I genitori erano amorevoli e profondamente affezionati a questa figlia nata tardi e l'avevano incoraggiata in tutti i suoi interessi. Pur perplessi nel vederla così poco incline ad asseverare la propria personalità, non se ne preoccupavano tuttavia abbastanza da riconoscere nel suo un atteggiamento di sottomissione abnorme. L'aspetto esteriore e il comportamento esemplare non sono gli unici campi in cui si pretende troppo da queste giovani; sono anche enfatizzate le prestazioni accademiche e perciò vengono mandate nelle scuole migliori e si offrono loro ampie occasioni di contatti culturali. Fin da piccole vengono portate ai concerti e nei musei, in una certa misura partecipano della vivace vita sociale dei genitori e molte viaggiano all'estero. I genitori sono orgogliosi della bravura delle loro figlie. Una ragazza era in grado di elencare, nella sua domanda di ammissione al college, un'intera pagina di premi per attività speciali, tutte, dal lavoro sociale all'atletica alle attività artistiche, svolte allo scopo di far piacere a suo padre. Un'altra ricordava il tormento dei commenti sarcastici del padre, perché lei non portava a casa altrettanti premi del fratello maggiore. Karla aveva un ricordo commovente. Il padre non si era occupato dei dettagli dell'educazione dei figli, pur interessandosi benevolmente alle loro buone prestazioni scolastiche. Ma lei ricordava con affetto e tristezza l'espressione di grande contentezza e orgoglio sul viso del padre quando il fratello aveva ricevuto il massimo premio nella sua scuola molto esigente, mentre aveva manifestato il solito gentile interessamento per l'ottima pagella di lei. Fare qualcosa di tanto eccezionale da suscitare la stessa espressione di grande soddisfazione era diventata l'esclusiva ambizione di Karla; ma non la poté mai appagare perché il padre era morto di lì a un anno. Durante tutto il corso della terapia, la giovane continuò a sottolineare: "Se lui fosse vissuto, non avrei avuto bisogno di ammalarmi; avrei potuto sentire in altri modi come lui fosse fiero di me". I problemi che si possono descrivere come precursori della malattia e nei quali i genitori avrebbero potuto riconoscere segnali d'allarme, sono di natura alquanto impalpabile. Negli ultimi anni molti dei genitori delle ammalate si presentano avendo letto pubblicazioni divulgative
sull'anoressia mentale in cui si sottolinea l'importanza delle difficoltà familiari. Fortunatamente, la maggior parte riconosce la necessità di esplorare e chiarire i problemi di fondo nascosti che li portano ad aspettarsi troppo da almeno uno dei loro figli. Una caratteristica comune è che la futura paziente non era stata riconosciuta come individuo autonomo, ma era stata apprezzata soprattutto come colei che avrebbe reso la vita e le esperienze dei genitori più soddisfacenti e complete. Aspettative di questo genere non precludono un rapporto di grande e caldo affetto; di solito si sviluppano un attaccamento spasmodico e una comunanza particolare di idee e sentimenti. Quando si incontra tutta la famiglia insieme è raro che uno dei membri parli in termini diretti dei propri sentimenti e pensieri. Ciascuno sembra sapere quello che l'altro sente e intende dire veramente, screditando nello stesso tempo quanto l'altro ha detto. Ho chiamato questa modalità di comunicazione una "confusione dei pronomi", perché non si sa mai in nome di chi ciascuno parli. Il padre spiega quello che la madre intende dire veramente e la madre è convinta di dover correggere ciò che la figlia afferma di pensare; questa, infine, vorrà spiegare a sua volta i genitori. Fratelli e sorelle riescono di solito a tenersi fuori da questo intreccio, procurandosi le loro soddisfazioni tra di loro o al di fuori della famiglia, ma lasciano la sorella anoressica - che in genere non amano per il suo ruolo di bambina-modello -isolata, agnello sacrificale delle esigenze dei genitori. La questione da chiarire è che cosa induce i genitori ad usare una loro figlia in questo modo. È importante che il terapista esponga le loro insoddisfazioni e delusioni nascoste. Alcuni negano - e perfino protestano violentemente - che un fattore del genere sia stato in giuoco nella loro famiglia, e il giudizio è complicato dall'impatto dirompente della malattia su tutta la compagine familiare. I genitori si rifiutano di assumersi la colpa e si aspettano che la figlia si senta colpevole per aver loro causato tanta infelicità e preoccupazione. Il padre di Paula iniziò il primo incontro, indicando la figlia, con le parole: "È lei che ha l'anoressia, sia lei a spiegarne il perché". Quando vennero a galla certi problemi coniugali, ne negò l'importanza: "Non vedo come questo possa aver a che fare con la sua malattia". Per la verità, in quel caso era particolarmente ovvio il loro ruolo nello sviluppo abnorme di Paula. Fin da bambina lei aveva sentito che i suoi erano "diversi"; erano più vecchi della maggior parte dei genitori e la figlia aveva compreso presto che il suo compito nella vita era quello di procurare alla madre le soddisfazioni mancate nel suo matrimonio. Quando era molto giovane, Paula era stata orgogliosa di essere tanto vicina alla madre che entrambe sapevano sempre ciò che l'altra stava pensando. La bambina aveva ricevuto dai genitori e dai loro numerosi amici tanto amore, affetto e tanta sollecitazione. Per tutti gli anni dell'asilo infantile e della scuola Paula aveva avuto paura degli altri bambini. Soltanto in seconda media si era aperta di più e si era sentita su un piede di eguaglianza con le compagne, sebbene nessuna potesse mai esserle vicina com'erano state lei e la mamma. Si rese conto allora che qualche cosa si era guastato fra i genitori, perché la madre era d'un tratto tornata a comportarsi come quando Paula era stata molto più piccola, ricreando l'intimità di una volta; pretese che la figlia le dedicasse molto tempo e si comportava come se si sentisse esclusa quando Paula faceva qualcosa per conto proprio. Invece di incoraggiarla ad avere amiche, criticava e sminuiva queste e le loro famiglie fin tanto che Paula si senti di nuovo diversa dalle altre ragazze e diventò anoressica a quindici anni, dopo che i genitori avevano manifestato la loro disapprovazione per l'ultima amica rimastale. Una volta insorta l'anoressia, i genitori si lamentano che tutta la loro vita ed ogni loro rapporto sono cambiati; la tranquilla armonia è stata rimpiazzata da litigi, scoppi di malumore, reciproci rimproveri e recriminazioni. Poche condizioni provocano reazioni emotive gravi quanto il rifiuto volontario e insolente del cibo ed è ben nota la forza di coercizione dello sciopero della fame. Si sviluppa così una lotta caratteristica per il potere, in cui i genitori cercano di costringere la figlia a mangiare e questa risponde con il rifiuto rabbioso o con ingannevoli manipolazioni, come quella di far finta di mangiare per poi far scomparire di nascosto il cibo o di vomitare ciò che è stata costretta a inghiottire. In verità, questa lotta defatigante e rumorosa dopo la manifestazione della malattia non è se non l'esagerazione di quanto c'era da sempre: uno squilibrio di potere che è esistito per tutta la vita della
figlia, la cui gratificante obbedienza aveva nascosto il fatto che i genitori l'avevano privata del diritto di vivere la propria vita. Persuasi che fosse loro compito fare tutti i progetti e prendere tutte le decisioni e dirigere la figlia sotto ogni aspetto, questi genitori parlano della loro impostazione della vita come di cosa giusta, normale e desiderabile, e così anche del loro diritto di aspettarsi che questa figlia appaghi i loro sogni e desideri. L'incapacità della figlia di asserire costruttivamente la propria individualità e le deficienze corollarie nello sviluppo della personalità sono il risultato di modelli di interazione iniziati in una fase precoce della vita. La mancata consapevolezza dei genitori di aver esercitato un dominio eccessivo sulla figlia e la loro incapacità di rinunciarvi fanno parte di un modello che perpetua la malattia. Capitolo terzo L'infanzia esemplare "Ognuno dei suoi insegnanti mi diceva quale gioia fosse averla in classe." Furono queste le parole con cui la madre di una diciottenne anoressica aprì la conversazione. Un'altra si presentò con una nota dell'insegnante della figlia anoressica di dodici anni: "sarebbe difficile trovare una signorinetta più dolce e più brava". Queste madri, al pari di molti altri genitori, erano contente di testimonianze del genere, in quanto confermavano la loro convinzione che la paziente misera, rabbiosa e disperata era stata la migliore, la più intelligente, più dolce, obbediente e compiacente delle figlie. Molti genitori affermano senza esitazione che questa, la figlia ammalata, era stata migliore dei fratelli, aveva dato maggiori soddisfazioni e li aveva rassicurati sulla loro sagacia di genitori. È questa la figlia con cui il contatto era stato una gioia e alla quale avevano potuto manifestare amore e dedizione. I padri parlano con fierezza delle ottime prestazioni atletiche e degli interessi intellettuali della figlia anoressica e i genitori stentano a credere che la bambina amorosa, rispettosa e disciplinata fosse vissuta in preda a grave angoscia e tensione. Eppure, a sentire le ragazze stesse, la maggior parte ha vissuto l'infanzia come un'esperienza piena di ansie e stress, eternamente preoccupate di risultare impari, di non essere abbastanza buone, di deludere le "aspettative", e quindi col rischio di perdere l'amore e il rispetto dei genitori. Fino a quando non si è manifestata la malattia hanno fatto ogni sforzo per nascondere la loro scontentezza e rassicurato i genitori comportandosi come se fossero felici o fingendo di esserlo. Le giovani anoressiche ripetono all'infinito di essersi sentite "immeritevoli", "indegne" e "ingrate". La loro unanime lamentela è che hanno ricevuto troppi privilegi e si sono sentite schiacciate dall'obbligo di dimostrarsi all'altezza di una posizione tanto speciale. Le affligge la discrepanza fra quanto sentono di meritare e quanto ricevono; così diventano eccessivamente frugali, fino all'autopunizione, perché pensano di non poter mai ripagare il loro debito verso genitori tanto generosi. Il mistero dell'anoressia mentale è come mai famiglie affermate e bene integrate non riescano a trasmettere un senso adeguato di fiducia e di valutazione di sé a queste figlie che crescono confuse nei loro concetti circa l'organismo e le sue funzioni e carenti di un senso di identità, indipendenza e governo di sé. Per molti versi queste ragazze si sentono e si comportano come se non avessero diritti autonomi, come se non fossero esse stesse a guidare il proprio corpo e le proprie azioni, anzi come se né questo né quelle le appartenessero. Percepiscono o interpretano erroneamente le loro sensazioni somatiche, non si vedono realisticamente e soffrono della profonda convinzione di essere incapaci, di non essere padrone della loro vita e dei loro rapporti con altri. Malgrado la varietà delle caratteristiche individuali, questi sintomi sono tipici dell'anoressia mentale e possono essere ricollegati a esperienze dei primi anni di vita. Il modo in cui abusano della funzione alimentare e il timore, comune a tutte, di non saper controllare il proprio cibarsi, significano ovviamente che la loro percezione della fame si è sviluppata in modo improprio. Non vi può essere alcun dubbio che queste giovani sono state accudite bene nei loro bisogni fisici, materiali e di istruzione. Le difficoltà e la manchevolezza riguardano il modello
dell'interazione, nel senso che tutte queste buone cose sono state elargite senza essere specificamente adattate ai bisogni o ai desideri della figlia stessa. Secondo il pensiero della psicologia infantile moderna. il contributo del bambino stesso al suo sviluppo dovrebbe essere preso in considerazione fin dalla nascita. Al fine dell'acquisizione di un senso sicuro della propria identità e della capacità di esprimersi efficacemente è importante che i segnali provenienti dal bambino, nella sfera biologica come anche in quella intellettuale, sociale ed emozionale, vengano correttamente riconosciuti e ricevano risposte appropriate. In mancanza di tali conferme e rafforzamenti delle espressioni inizialmente alquanto indifferenziate dei suoi bisogni, c'è il pericolo che il bambino rimanga incerto e non sappia distinguere con precisione tra varie sensazioni somatiche ed esperienze emozionali e interpersonali; anzi, può perfino essere in dubbio se una sensazione o un impulso sorgano dentro di lui o vengano dal di fuori. Potrà sentirsi non veramente separato dagli altri o come soggetto impotente, esposto all'influenza delle spinte interiori o delle esigenze che vengono dall'esterno. Ciò vale per tutti gli aspetti dello sviluppo. Come funziona, lo si può osservare nell'alimentazione: una madre avveduta offre cibo quando il pianto del bambino e il suo comportamento ne indicano il bisogno e così il bambino impara a riconoscere "la fame" come una situazione diversa da altri tipi di bisogno. Se, d'altro canto, la reazione materna è sempre inappropriata, negligente (mancata offerta di cibo quando il bambino ha fame) o eccessivamente solerte (offerta di cibo a ogni segnale di disagio), il bambino non impara a distinguere fra l'aver fame e l'essere sazio, oppure tra fame e altro disagio o tensione. Ai due estremi troviamo il soggetto di obesità grottesca, assillato dalla paura dell'inedia, e l'anoressica emaciata, insensibile - o che asserisce di esserlo - ai crampi della fame e ad altre dolorose conseguenze della grave denutrizione. Riandando al passato delle giovani anoressiche troviamo costantemente che i segnali emessi dalla bambina non erano stati recepiti o confermati. In queste famiglie, crescita e sviluppo sono concepite come realizzazioni dei genitori, non dei figli. Ricostruita nei suoi particolari, la storia alimentare precoce di molte pazienti anoressiche è spesso tale da colpire per il suo carattere anodino. Molte madri trovano che non ci sia nulla da raccontare: la bambina non ha fatto mai difficoltà e mangiava quello che le si metteva davanti. Altre dicono che hanno sempre previsto i bisogni della figlia, non hanno mai lasciato che "avesse fame" oppure che erano invidiate da amiche e vicine di casa perché la loro bambina non faceva storie per il mangiare ed era obbediente anche durante la classica "fase di resistenza". Questo comportamento esemplare riguarda anche altri campi: pulizia, niente giochi violenti o comportamento distruttivo, nessuna disobbedienza o abitudine a contraddire. Questo sembra il Leitmotiv. La maggioranza delle madri dice: "tutto andava bene; non ha mai fatto difficoltà". La madre di Robin, una donna di eccezionale sensibilità e spirito di osservazione, già più volte nonna all'epoca in cui discutemmo lo sviluppo della figlia, alla domanda se vi fosse stato alcunché di insolito nei primi anni di vita, disse: "Non piangeva quando si svegliava. Aspettava pazientemente che arrivassimo a tirarla su". E Robin stessa ricordava di aver chiesto "fino a che ora debbo dormire?", accettando qualunque orario le fosse prescritto; non osava far sapere quando aveva riposato abbastanza. Nessuno sembrava averle detto: "Chiama quando ti svegli". Durante la terapia si venne a sapere che Robin era sempre vissuta nella timorosa ammirazione della sorella maggiore, con cui divideva la stanza, e di una governante la quale aveva fatto capire in molti modi che una bambina piccola non deve disturbare o volere molte cose speciali. Questi messaggi erano stati tanto larvati da sfuggire all'attenzione della madre. Per Sandy, come per molte altre, rendersi piacevole e non dar noia era stato una regola basilare della vita. Ricordava con angoscia il modo in cui veniva presentato il cibo; le era sembrato di essere costretta a mangiare ma non aveva mai protestato. Esisteva una regola ferrea, "finisci quello che è nel tuo piatto", sebbene nessuno le chiedesse mai quanto volesse e se quel cibo le piacesse o no. L'orrore di dover mangiare pur essendo sazia le era rimasto e aveva avuto una parte importante nel suo comportamento anoressico. Anche quando era già migliorata, era ancora assillata dal timore di mangiare troppo, perché sentiva che l'educazione ricevuta da piccola l'aveva lasciata priva della
capacità di regolarsi. Sandy era stata allevata da una governante e la madre confessava di essere stata lei stessa intimidita da questa donna che sosteneva di sapere esattamente di che cosa avesse bisogno la piccola e le dava da mangiare in base a questa sua convinzione. Cresciuta in una famiglia in cui vigevano molte regole complicate, Sandy aveva grande difficoltà nel distinguere tra le vecchie regole della sua infanzia e un comportamento appropriato per la persona adulta che ormai era. Per esempio, mostrarsi arrabbiata o esplicitamente in disaccordo era fuori della sua esperienza, non aveva mai alzato la voce e, tranne il fratello che aveva osato urlare contro la governante, nessuno l'aveva fatto. Al primo incontro, le anoressiche che recisamente respingono qualsiasi suggerimento di mangiare e rilassarsi danno l'impressione di grande vigore, orgoglio e caparbietà. Ma quando si conoscono più da vicino, quest'impressione è sostituita da un quadro di inefficacia di fondo, incapacità di prendere una decisione e timore costante di non essere rispettate o considerate abbastanza. Queste giovani sembrano prive di una convinzione circa la loro sostanza e il loro valore intrinseco e sono tutte tese a confermare l'immagine che altri si fanno di loro. Tutta l'infanzia della futura anoressica ha per sfondo il bisogno di indovinare il pensiero altrui e fare ciò che altri sembrano aspettarsi. Succede così che una cosa piacevole come il ricevere regali svolge nella loro vita un ruolo che le rende stranamente confuse e rappresenta perfino uno stress. Sentono di non meritare i doni, e non sanno che cosa desiderano né come chiederlo. Tessa era la più piccola di una ricca famiglia e i genitori erano stati sempre molto gentili e generosi con lei. Non aveva mai espresso un desiderio circa un regalo o quando si trattava di prendere una decisione, si era invece sempre adeguata a quanto progettato dalla madre. "Ho sempre fatto quello che ci si aspettava da me; la mamma decideva tutto." Più volte era stata mandata in vari internati e sempre era tornata depressa e delusa e, l'ultima volta, anoressica. Non le era mai venuto in mente di protestare che non voleva andarsene in una scuola che non le piaceva. Restò perplessa quando le fu chiesto se ci fossero state cose che veramente le piacevano o che avrebbe desiderato. Non sapeva distinguere, non si era mai parlato di che cosa le piacesse o dispiacesse. Quando la domanda fu posta in altri termini, e cioè: "Forse quello che uno desidererebbe non è sempre realizzabile e può essere anche stupido" il suo volto si illuminò e disse: "Sì, una volta avrei voluto una cosa che sapevo essere sciocca, ma sentivo che la desideravo e che ero io a desiderarla; la mamma non ci avrebbe mai pensato." Dopo molte esitazioni si decise a dire che cos'era stato: un elefantino che aveva visto al giardino zoologico; immaginava di portarlo a casa e di farlo pascolare nel suo giardino. La rassicurava il fatto che ci fosse almeno una cosa di cui sapeva con certezza di essere stata lei a desiderarla. Ho raccontato questo piccolo episodio a molte anoressiche incapaci di precisare quello che "volevano", a differenza di quanto i loro genitori avevano progettato per loro, e cui non era mai venuto in mente che avessero diritto di chiedere qualche cosa o anche di sapere che cosa desideravano. La situazione penosa è di dover cercare di indovinare il dono che i genitori vogliono dare e di accettarlo con entusiastica gratitudine, donde a volte un comportamento alquanto insincero. Una ragazza ricordava di avere scoperto una scatola con un bellissimo copricapo indiano e di avere tratto l'esatta conclusione che questo dovesse essere il suo regalo di Natale. Le cose indiane non l'interessavano più a quel momento e l'imbarazzava l'idea di doversi mettere quella cosa in testa, ma ricominciò a parlare dei pellirosse, perché la cosa importante era che la madre sentisse di aver scelto il regalo giusto. Una - questo era il nome della ragazza - tirò fuori i suoi vecchi libri e ricominciò a disegnare pellirosse, tutto per rassicurare la madre. Ancora quando era sotto terapia si imbarcava in vere prodezze da detective per scoprire che cosa avevano in mente i genitori per poi trovare modi larvati con cui far loro sapere che era proprio questa la cosa da lei desiderata. Questo modello si riscontra con sorprendente regolarità. Vera era convinta che compito dei figli fosse quello di far sentire ai genitori che le loro scelte erano state giuste, e di essere grati e di buon animo, anche se in realtà avrebbero preferito tutt'altra cosa; dirlo sarebbe stato segno di ingratitudine o avrebbe potuto essere una delusione per i genitori. Per fortuna, alcuni doni si
distinguevano dal resto perché soddisfacevano veramente un suo desiderio e le facevano piacere, in quanto la bimba era sicura che fossero proprio pensati per lei. Il padre viaggiava all'estero per la sua professione e nulla la rassicurava di più delle bambole che riportava nella sua valigia: le dimostravano che papà aveva pensato a lei mentre era lontano. In questo contesto vorrei anche accennare a Wendy la quale ricordava il suo grande desiderio di avere una grande bambola da abbracciare e di cui aver cura come di un bambino vero. Le molte bambole sontuosamente vestite, doni dei numerosi visitatori stranieri che venivano in casa, non le dicevano nulla; non poteva veramente giocare con loro e la madre lo aveva notato; ma Wendy non osò esprimere il suo desiderio di una grossa bambola: sapeva che sarebbe stato considerato troppo infantile e volgare. Questi episodi indicano qualcosa di più di un atteggiamento verso i regali; illustrano l'eccessiva sottomissione, l'abnorme riguardo e la mancanza di autoaffermazione delle anoressiche. Essendo deficitario il loro senso di autonomia, hanno difficoltà nell'arrivare a un proprio giudizio e a opinioni proprie. Avendo sempre fatto ciò che erano state addestrate a fare, non hanno potuto mettere alla prova le proprie facoltà; per tutta l'infanzia hanno "danzato al suono di qualcun altro", qualcuno che, più tardi, le ha tenute legate ai valori e alle convinzioni precedenti. Piaget ci ha insegnato che la capacità di pensare, lo sviluppo concettuale, passano attraverso stadi precisi. Pur essendo il potenziale di questo sviluppo graduale inerente nelle doti dell'uomo, esso ha bisogno, per la sua maturazione adeguata, di un ambiente incoraggiante e questo incoraggiamento sembra essere insufficiente nelle giovani anoressiche, le quali continuano a perseverare nelle convinzioni morali e nei modi di pensare della prima infanzia. Secondo la definizione di Piaget, questa è la fase delle operazioni preconcettuali o concrete; la si chiama anche periodo dell'egocentrismo ed è caratterizzata da concetti di efficacia magica. Le anoressiche sembrano essersi arrestate in questo stadio, almeno per quanto riguarda il modo in cui affrontano i loro problemi personali ed è deficitaria o manca del tutto la fase caratteristica dell'adolescenza che comporta la capacità di operazioni formali, ivi comprese quelle del pensiero astratto e del giudizio indipendente. Le anoressiche di solito brillano nelle loro prestazioni scolastiche e ciò è stato interpretato come indizio di notevole intelligenza e grandi doti; era perciò inaspettata la scoperta, che ora abbiamo fatto, di vere lacune nella capacità di interpretazione concettuale. Non è raro che le eccellenti prestazioni accademiche siano il risultato di grandi sforzi. Talvolta ci si accorge con doloroso stupore che i risultati dei test di attitudine al college e altre valutazioni di capacità sono inferiori a quello che ci si sarebbe aspettati in base alle ottime pagelle scolastiche. Più grave è lo sviluppo disarmonico nel pensiero di ogni giorno e la rigida interpretazione dei rapporti umani, ivi compreso il giudizio su se stesse. Malgrado l'enorme mole di nozioni assorbite a scuola e dalle letture, la funzione concettuale delle anoressiche sembra essersi arrestata a un livello precoce. Il disturbo quasi delusionale del loro concetto di immagine corporea, l'incapacità di vedersi realisticamente, debbono considerarsi il riflesso di questi gravi errori di percezione. Queste ragazze sono costrette a essere brave, a vivere secondo le regole, a evitare di suscitare critiche e scontentezza nei loro genitori e insegnanti; deficit, questi, che si manifestano drammaticamente nell'adolescenza, ma di cui espressioni impercettibili erano presenti durante tutta l'infanzia. Vera era la quarta figlia, nata tardi, e le sorelle maggiori si sposarono quando lei era ancora molto piccola; quella più vicina a lei per età andò in una scuola convitto. Perciò la piccola crebbe come se fosse figlia unica in una famiglia raffinata e piena di buone intenzioni. Ricordava il suo stupore quando queste signore adulte (le sorelle) venivano in casa e si comportavano come se ne facessero parte; lei teneva moltissimo a che avessero una buona opinione di lei. Ricordava vividamente una frase spesso ripetuta: "Com'è viziata!" Sebbene questo fosse detto per scherzo e affettuosamente, Vera si convinse che fosse una cosa vergognosa in una bambina e dedicò la sua vita a "non essere viziata". Non espresse mai alcun desiderio né di cose materiali né di altro genere e accettava regali e
privilegi soltanto perché non aveva modo di fermare chi glieli offriva; ogni dono le imponeva l'obbligo di mostrarsene degna e di provare che non era viziata e questo timore la portò a un atteggiamento di estrema tirchieria verso se stessa. Sempre molto frugale in tutto quanto si concedeva, vestiva con eccessiva modestia pur sognando vestiti di grande eleganza e raffinatezza. Ancora più severo era il suo atteggiamento verso il cibo: anche prima di calare di peso, le sembrava illecito "mangiare per il piacere". Durante la terapia venne a comprendere fino a che punto avesse esagerato nell'adeguarsi a quanto credeva che gli altri volessero, e come si fosse negata l'espressione dei propri desideri e sentimenti. Ma a mano a mano che migliorava, la sua avarizia, il rifiuto timoroso di concedersi checchessia vennero in conflitto con il suo ormai sincero desiderio di aumentare di peso. Per paura di comportarsi da persona viziata, non si permetteva di comperare se non i cibi meno costosi e mangiava gli avanzi anche quando avrebbe preferito qualche cosa di fresco. Perdeva molto tempo confrontando i prezzi e cercando negozi dove la merce costasse meno che in altri più comodamente raggiungibili. Rendersi la vita più comoda o mangiare cibi più allettanti e saporiti avrebbe significato viziarsi e avrebbe pertanto infranto questa regola basilare che si era imposta fin dall'infanzia. Pochi genitori si rendono conto della mentalità delle loro figlie, le quali prendono tutto alla lettera, e della loro persistente interpretazione infantile di tutte le situazioni della vita. Il padre di Xena era sovrintendente di un'università, mentre i genitori della maggioranza delle sue amiche erano professori e Xena sapeva che suo padre non insegnava. Quand'era molto piccola le avevano spiegato per scherzo che il papà contava i soldini e molto più tardi, a scuola, la ragazza disse seriamente che la professione del padre era di "contare soldini". Quando aveva quattordici anni, in una lezione sull'alimentazione i ragazzi dovevano scrivere tutto quello che mangiavano. Xena si sentì imbarazzata per dover scrivere un elenco tanto lungo e non voleva sembrare ingorda. Perciò mise sulla lista soltanto una parte di quanto mangiava ma poi, per essere onesta, a casa prese esattamente quella quantità, non un briciolo di più. Da quel giorno non volle mai mangiare di più, per paura di essere derisa per la sua voracità. Fu questo l'inizio del suo calo ponderale. Anche le amicizie rivelano un eccessivo adattamento agli altri, analogo a quello che caratterizza tutta la vita di queste giovani. Spesso hanno avuto tutta una serie di amicizie, ma sempre una sola amica per volta e con ogni nuova amica sviluppano interessi diversi e una diversa personalità Loro stesse si considerano degli zeri che si limitano a seguire i gusti e le iniziative dell'amica e non viene loro mai in mente che hanno una propria individualità con cui contribuire all'amicizia. Queste amicizie durano di solito non più di un anno e poi si addormentano. Una di queste ragazze, che più tardi all'università godette di una certa popolarità, era turbata dalla sensazione di mancanza di una propria personalità in rapporto ad altri. Ecco un episodio da lei descritto: "Stavo a sedere con queste tre persone ma sentivo una terribile frammentazione del mio io. Dentro non c'era alcuna personalità. Cercavo di riflettere di fronte a chiunque si trovasse con me l'immagine che loro si facevano di me, di fare ciò che loro si aspettavano da me. Ecco davanti a me tre persone diverse e io dovevo essere un individuo differente per ciascuna di loro e dovevo tenere questo equilibrio. Da bambina, quando avevo delle amiche, era la stessa cosa; rispondevo sempre a ciò che loro volevano". Alcune si occupano delle nuove ragazze nella scuola o di altre che sono in qualche modo svantaggiate e non appartengono a un determinato gruppo. E debbono fare sempre di nuovo la dolorosa esperienza che queste amiche bisognose di aiuto riescono poi a inserirsi in un gruppo, lasciandole in disparte. Se poi hanno un'amica il loro è immancabilmente il ruolo della seguace. Anche una vita sociale in apparenza attiva può essere espressione di eccessivo adattamento. Yetta era cresciuta in un ambiente in cui si teneva molto alle apparenze e a "fare la cosa giusta". Fin da quando poteva ricordare aveva sempre sentito il bisogno di essere la migliore e la rassicurava soltanto l'esplicita ammirazione. Perfino all'asilo infantile restava perplessa se non la si sceglieva per qualche compito particolare, per esempio come regina degli elfi quando si faceva teatro. Lei e le sue compagne di scuola erano continuamente e maliziosamente impegnate nello scegliere chi fosse la meglio vestita e in questo la madre aiutava Yetta, comprandole subito qualunque gonna o gioiello
la figlia ammirasse. E la ragazza si domandava in continuazione: "Cosa dicono di me, mi vogliono bene, trovano che ho ragione?" Quando, da adolescente, cominciò a uscire, era capace di cambiarsi anche tre o quattro volte, confrontando il suo abbigliamento con quello delle compagne e assicurandosi di essere vestita ugualmente bene o meglio di loro. Il perenne confronto fra sé e gli altri turbò anche il suo profitto in collegio: mentre ascoltava le lezioni osservava le facce degli altri studenti, cercando di giudicare se capivano meglio di lei, se si concentrassero di più e se avrebbero fatto meglio gli esami scritti, col risultato che non riusciva a seguire la lezione, per cui le sue prestazioni furono abbastanza scadenti. In preda a questa tensione e delusione, abbandonò la sua dieta abnorme e raggiunse abbastanza rapidamente un peso normale, al che reagì dapprima con una depressione, ma in seguito accettò la cosa. Soltanto a questo punto si liberò della sua "malattia dei confronti", e cominciò a fare attenzione a quanto dicevano i professori. Un giorno raccontò con un certo stupore: "Oggi sono entrata nell'ascensore senza preoccuparmi di come mi vedessero gli altri - salivano semplicemente ciascuno al suo piano". Da piccola, Zelda aveva avuto molti amici, per lo più i figli degli amici di famiglia, la maggior parte dei quali erano più grandi di lei. Stare alla pari e non essere per loro una palla al piede le costava grandi sforzi, ma riuscì a dimostrare bravura e resistenza in molte attività sportive. In fondo era una bambina solitaria che passava lunghe ore nel seminterrato della sua casa dove rappresentava scene fantastiche molto vivaci in cui aveva molti amici. Lo faceva in grandissimo segreto, perché era convinta che un comportamento del genere non le sarebbe stato perdonato. Una delle memorie più infelici della sua infanzia fu lo sradicamento di molti cespugli, quando fu ridisegnato il giardino. Questi cespugli erano stati uno dei suoi nascondigli, dove poteva rifugiarsi e rappresentare le sue storie, cosa che non faceva mai nella sua stanza dove c'era sempre pericolo che qualcuno entrasse. Il suo profondo desiderio era di avere una sfera privata senza intrusioni. Fu felice di andare in collegio, perché avrebbe avuto una stanza sua, dove nessuno, assolutamente nessuno, poteva entrare senza il suo permesso. Ma si sentì sempre più isolata e solitaria e per dimostrare la sua indipendenza andò sola in Europa. Da questo viaggio tornò magra e pallida e in seguito vi furono un rapido calo ponderale e un frenetico aumento di tutte le sue attività. È osservazione costante che le anoressiche vanno incontro a un isolamento sociale durante l'anno che precede la malattia; alcune diranno che si sono separate dalle amiche, altre che sono state escluse. Qualcuna esprime il disaccordo con i valori dei coetanei in termini di notevole condiscendenza. Agnes frequentava una scuola privata di elevato livello accademico; pur ottenendo buoni voti, criticava questa scuola, dicendo che le nozioni venivano impartite dall'alto in basso, in modo autoritario, con scarse possibilità di libera scelta e di pensiero indipendente. Ugualmente critico era il suo giudizio sulle attività sociali, specie su quelle ragazze che tenevano ad aver appuntamenti con ragazzi e ad andare alle festicciole. Durante il primo anno, lei e due amiche avevano formato una specie di comitato di pettegolezzo sarcastico circa questi piccoli intrighi, ma dopo le vacanze estive le altre due ragazze formarono una cricca per conto loro, lasciando in disparte Agnes, la quale sentiva come non fosse giusto il suo credersi tanto superiore agli altri e arrogarsi il diritto di giudicarli. Allo stesso tempo fu assillata dalla consapevolezza dei propri difetti e si trincerò in un comportamento anoressico, dicendo apertamente che il non mangiare le dava un grande senso di superiorità e che si sentiva meglio e più meritevole se calava di peso. Molte di queste fanciulle si isolano a causa del loro atteggiamento di rigido giudizio e si lamentano perché le altre sono troppo infantili, troppo superficiali, troppo interessate ai ragazzi o perché in altri modi si dimostrano impari all'ideale di perfezione al quale loro stesse mirano e che esigono anche dal prossimo. Con superstizioso fervore queste giovani restano ancorate alle regole di vita accettate quando erano piccole. I nuovi modi di pensare e di agire dei normali adolescenti sembrano loro strani e tali da suscitare timore. La malattia si manifesta quando sono completamente sfasate rispetto ai loro coetanei e anche alla loro famiglia e questa perdita di contatto si fa sentire anche nella loro situazione scolastica. Come abbiamo visto, nella loro maggioranza le anoressiche sono ottime allieve sempre elogiate
per la loro dedizione al lavoro, per l'entusiasmo nell'attività sportiva e per l'aiuto che sono pronte a dare alle compagne meno fortunate. Per molte, la scuola rappresenta un'esperienza positiva e corroborante, il posto dove ricevono un riconoscimento quantificabile dei loro sforzi. Ma anche gli elogi per ottime prestazioni non assicurano necessariamente un'esperienza scolastica felice. Bianca aveva sempre sentito che l'esser nata femmina la rendeva inferiore agli occhi dei genitori, specie del padre. Tutta la sua vita era un'interminabile gara col fratello maggiore, il quale frequentava una scuola privata in cui si coltivavano soprattutto la matematica e le scienze naturali. Sebbene le sue doti fossero nel campo delle materie umanistiche, Bianca insistette per essere mandata alla stessa scuola, dove fu infelicissima, non riuscendo ad avere gli stessi buoni voti del fratello. Quando finalmente cambiò scuola per frequentarne una più adatta alle sue particolari doti, fu un'ottima allieva, ma non apprezzò affatto gli alti voti nella letteratura, nelle attività artistiche, in storia e lingue, perché queste materie "le riuscivano facili". Solamente quello che faceva il fratello contava. Ciò che Bianca pretese da se stessa non diminuiva coll'andare del tempo, né diventava più realistico; al contrario, sempre più esigeva da sé l'impossibile. "Poiché ho ricevuto di più (da una famiglia ricca e affermata), sento che ci si aspetta di più da me, che sono moralmente obbligata a dare di più. Sento che non posso vivere secondo i normali canoni del cimento umano, debbo migliorare questo mondo e fare tutto quanto può un essere umano. Ciò che debbo raggiungere è qualcosa che spreme da me l'ultima goccia di energia, altrimenti non avrò dato abbastanza. Soltanto quando tutto sarà stato dato e non potrò più dare altro, avrò fatto il mio dovere." È difficile per queste ragazze sentirsi rassicurate. Carol veniva spesso lodata per i suoi racconti ma non fu mai orgogliosa di saper scrivere bene; si considerava fortunata perché aveva un insegnante cui piacevano i suoi scritti e temeva il giorno in cui un altro insegnante non sarebbe forse stato dello stesso avviso. Anche all'università la sua principale preoccupazione fu di soddisfare nel miglior modo possibile le esigenze. Verso la fine del suo corso universitario avrebbe desiderato molto chiedere all'insegnante che sovrintendeva ai suoi studi quale carriera scegliere, che cosa fare della sua vita. Non lo fece per il timore che una tale richiesta venisse considerata infantile, poiché alla sua età ci si aspettava che prendesse da sola le sue decisioni. Tuttavia, come ho già sottolineato, le preoccupazioni e la tensione più persistenti sono quelle riguardanti la famiglia e l'ambiente casalingo. Pur essendo considerata la bambina perfetta, la paziente stessa vive nel perpetuo timore di non essere amata e apprezzata. Bianca era stata allevata da una governante, perché la posizione del padre comportava molti impegni sociali per la madre. La bambina temeva di comportarsi male e che la cosa fosse riferita alla madre. Quando dissi che immaginavo quale tremenda tensione emozionale ne dovesse derivare, mi rispose fiduciosa: "Sapevo che mi amavano - facevo in modo di garantirmi il loro amore", spiegando poi come in nessuna circostanza si permettesse di fare alcunché di criticabile. Divenne anoressica a sedici anni ; assillata dal timore che nessuno potesse volerle bene, di non avere qualità che la rendessero simpatica. Il vecchio comportamento infantile di superobbedienza non la rassicurava più. In termini analoghi parlava della sua infanzia un'altra ragazza, Dawn, i cui genitori descrissero come fosse stata sempre tanto simpatica, cordiale e pronta a collaborare. In verità, tutta la vita di Dawn era stata una specie di rappresentazione: aveva mostrato un comportamento invariabilmente dolce, sottomesso e obbediente, del quale, in un accesso di onestà, parlò come "del grande imbroglio". Aveva avuto paura di palesare un sentimento che potesse causare disapprovazione, anche quando covava sentimenti del genere appena sotto la superficie. L'importante era di tenere sotto un coperchio ben chiuso il suo vero sentire. "Se piangevo, temevo che mi si chiamasse una piagnucolona, oppure che loro si seccassero anche senza farlo vedere. Non mi si sono mai mostrati irritati, ma io sentivo che lo erano." Dawn temeva ugualmente di manifestare rabbia o delusione; anche quando era ormai adulta, disse più volte: "Mi sarebbe odioso pensare a me stessa come a una persona che manifesta ira". Sapeva di non poter fare a meno di sentirsi adirata, ma considerava suo dovere non mostrarlo. "Non mi hanno mai detto una parola severa, ma io ho avuto cura che non avessero ragione di dirla." Dawn aveva sentito come i genitori parlassero di altre ragazze che erano sempre di buon umore e gentili, "sempre con un sorriso sulle labbra" e così voleva essere
considerata lei. Perciò si mostrava sempre di buon umore col sorriso sulle labbra, ma quand'era ormai insorta l'anoressia, quel sorriso allegro si era congelato. Questo genere di ottuso comportamento esemplare riflette il giudizio morale di un bambino molto piccolo ed è caratteristico della mentalità di queste ragazze, anche di quelle che talvolta manifestano iroso disaccordo e disobbedienza. Le deviazioni da un comportamento normale danno cosi poco nell'occhio o appaiono talmente naturali a genitori e insegnanti da non essere riconosciute quali segnali di gravi perturbazioni. Nei pochi casi in cui si è consultato uno psichiatra prima che insorgesse l'anoressia, fu a causa di un cambiamento rispetto alla precedente eccessiva disciplina, come se fosse questa la cosa normale; gli sforzi di autoaffermazione vennero trattati come perturbazioni. Queste giovani non riescono a sentirsi individui unitari capaci di governarsi da sé, col diritto di vivere la propria vita. Quando insorge l'anoressia, hanno l'impressione che la malattia sia cagionata da una qualche forza misteriosa che le invade e governa il loro comportamento. Molte sperimentano se stesse e i loro corpi come entità separate ed è compito della mente tenere sotto controllo quel corpo indisciplinato e disprezzato. Altre affermano di sentirsi divise, come se fossero una personalità scissa o due persone, ma la maggior parte esita a parlare di questa divisione. Prima o poi però, sfugge loro un accenno a quest'altro io, sia che si tratti di "un dittatore che mi domina", o "uno spettro che mi circonda", o "dell'omino che protesta quando mangio". Di solito questa parte segreta ma potente del loro io è percepita come la personificazione di tutto quanto hanno cercato di nascondere o negare perché disapprovato da loro stesse o da altri. Quando definiscono questo aspetto a sé stante, questa persona diversa sembra essere sempre di sesso maschile. Sebbene poche lo ammettano, per tutta la vita avevano sentito che l'essere femmine era un ingiusto svantaggio ed avevano sognato di farsi onore in campi considerati più meritevoli e più degni di rispetto perché "di pertinenza maschile". La loro figura esageratamente sottile, le ottime prestazioni sportive e la perseveranza fino all'esaurimento danno loro l'orgogliosa convinzione di non essere da meno di un uomo e fanno sì che "l'omino", "lo spirito maligno" o qualche altra forza magica non possa tormentarle con un senso di colpa e di vergogna. Data l'estrema gravità dell'anoressia mentale, una volta stabilitosi il quadro conclamato con tutte le sue tragiche conseguenze di isolamento e di mancata partecipazione allo sviluppo dell'adolescenza, occorre fare ogni sforzo per riconoscerne le fasi iniziali, o meglio ancora, per avvertire i segni psicologici premonitori, quali campanelli d'allarme di uno sviluppo distorto. Nella loro maggioranza queste ragazze hanno genitori colti, intelligenti e affermati, e frequentano ottime scuole. Chi ha cura del benessere, dell'assistenza e dell'educazione di queste giovani deve rendersi conto che la bambina "che non dà mai fastidio" è già nei guai, che il suo comportamento ultracoscienzioso, ultrastudioso e obbediente è segno di qualche cosa che non va. Queste bambine personificano in molti modi l'idea della perfezione di ogni genitore e ogni insegnante, ma lo fanno in misura esagerata. È la spinta supplementare, l'essere non buone, ma "migliori", la differenza significativa tra queste infelici che si affamano e altre adolescenti, capaci di godersi la vita. Una vera prevenzione richiede di riconoscere precocemente nella loro gradevole super-perfezione il segno della loro sofferenza interiore. Capitolo quarto L'inizio Quando Daisy vide una sua foto, in pantaloni e chinata in avanti, inorridì, trovandosi "disgustosamente grassa". Aveva messo su un po' di peso nella scuola convitto dove il cibo era stato più ricco di farinacei che non a casa. Decise di perdere questo peso eccedente e la foto la convinse che la cosa era urgente. Limitò la propria alimentazione a un minimo, ma ebbe difficoltà ad attenersi a questa dieta rigida; la tormentavano in uguale misura il bisogno di mangiare e il timore
di ingrassare. Così si trovò a ingurgitare grosse quantità che la facevano sentire pesante, gonfia e ingombra e "le venne la nausea", in altre parole, vomitava dopo i pasti. Nel giro di sei mesi perse circa diciotto chili e il suo peso, le minime variazioni in più e in meno, e il poco o tanto che mangiava, divennero l'unico suo pensiero, sostituendosi ai suoi molteplici interessi precedenti. Molte di queste ragazze ricordano un preciso avvenimento o una osservazione che le hanno fatte sentire troppo grasse; ma in realtà queste cose sono sempre e soltanto l'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Questi episodi sono sempre preceduti da dubbi riguardanti la propria persona. Le anoressiche affermano all'unanimità che si limitano nel mangiare perché sono troppo grasse. Pochissime hanno veramente un'eccedenza ponderale, la quale oscilla se mai entro un margine di due-quattro chili, raramente di più. Ho visto un unico paziente anoressico, un ragazzo di quindici anni, che era decisamente iperponderale quando decise di imporsi una dieta: d'un tratto, mentre sviluppava una pellicola, "vide" come il suo viso fosse troppo grasso. Nella maggior parte dei casi il peso è del tutto normale, ma le pazienti si comportano come se nessuno avesse mai detto loro che sviluppare curve e certe rotondità è parte di una normale pubertà. I commenti ironici, da loro considerati così offensivi, sulle loro curve o il loro essere grassocce non sono diversi da quelli che altre adolescenti debbono sentire. Anzi, non poche sono piuttosto magroline quando cominciano a imporsi queste gravi restrizioni dietetiche, ma anche queste sostengono di pesare troppo o di aumentare di peso troppo in fretta. Spesso le preoccupazioni per il peso e la dieta iniziano quando debbono affrontare nuove esperienze, ad esempio un campeggio, una nuova scuola o la partenza da casa per l'università. In queste nuove situazioni si sentono in svantaggio, timorose di non riuscire a fare nuove amicizie, di non essere abbastanza sportive, e si preoccupano perché sono "grassottelle". Alcune diventano veramente infelici e depresse, quando manca loro il consueto sostegno familiare, oppure non gradiscono il cibo diverso; il primo calo ponderale può anche essere fortuito e può accadere che siano ammirate ed elogiate per questo, che si inorgogliscano eccessivamente per il loro aspetto più snello e ne ricavino piacere, per cui decidono di dimagrire ancora, onde meritare ancora maggiore rispetto. Durante la psicoterapia intensiva apprendiamo che il timore di essere "troppo grassa" ha molti significati diversi. Queste giovani sono suscettibili a tutto quanto somigli a una critica, e l'essere canzonate le offende come un insulto. Le subitanee limitazioni dietetiche non sono di solito così subitanee né sono una reazione tanto semplice come farebbero credere le prime informazioni. Durante contatti più ravvicinati ci si rende conto l'inizio che queste giovani erano arrivate a un punto morto nella loro vita: andare avanti come prima era diventato impossibile. La fuga verso le limitazioni alimentari e il disfacimento degli aspetti somatici dell'adolescenza mediante l'eccessiva magrezza interrompono un'evoluzione che le turbava ma in cui si sentivano incapaci di operare un vero cambiamento. Così il proprio corpo diventa il solo campo in cui sono in grado di esercitare la loro autorità. Questo punto morto viene raggiunto in diversi momenti durante l'adolescenza; può verificarsi nella tarda infanzia, prima di qualunque segno di sviluppo puberale, ma più spesso accade nella fase prepuberale quando si manifestano le prime modificazioni somatiche. Queste ragazze reagiscono con grave ansia a ciò che a loro appare come indizio dell'imminente perdita del dominio di sé. Si ritiene in generale che l'anoressia mentale insorta precocemente sia maggiormente accessibile alla terapia, la qual cosa può avere diverse ragioni, la più importante delle quali è che l'atto di autoaffermazione implicito nella malattia si verifica tanto precocemente: queste bambine non sono disposte a continuare a vivere nell'eccessivo conformismo caratteristico della loro personalità premorbosa. Altra ragione della prognosi relativamente favorevole è che vivono tuttora in casa e la terapia può agire su tutta la famiglia: l'assoluta sottomissione ai genitori può essere sciolta. L'anoressia si manifesta allorché queste giovani debbono affrontare cambiamenti o nuovi compiti che sono scarsamente preparate ad assolvere; lo si vede chiaramente se la malattia insorge quando si tratta di venire a capo di una situazione nuova, per esempio un trasloco in altra parte della città o
l'andar via da casa. Forse sarà la prima volta che si trovano abbandonate a se stesse, a doversi creare una posizione in base ai propri meriti, e le paralizza il timore di non saper incontrare gli altri da pari a pari. Spesso non sanno loro stesse quello che vogliono o si aspettano. Esther lo disse esplicitamente prima di andare in collegio: "Quel che mi turba è che non so che tipo di ragazza dovrei essere. Debbo mettermi con le sportive, oppure dovrei essere raffinata, oppure è meglio che faccia il topo di biblioteca?" Non aveva idea di quello che avrebbe voluto dire essere il suo io naturale ed esprimere la propria personalità. Faith era stata troppo attaccata alla madre e ai nonni e all'età di dieci anni fu mandata al campeggio estivo perché i familiari erano convinti che dovesse imparare a essere un po' indipendente. La piccola era profondamente infelice, le sembrava di essere troppo grassoccia e impacciata e non partecipò affatto all'attività delle altre. I genitori speravano che il campeggio le piacesse, che acquisisse certe attitudini sportive e facesse nuove amicizie, per cui non la riportarono a casa, come lei implorava. Faith dimagrì un poco, il che fu considerato desiderabile, ma il calo ponderale continuò anche dopo il ritorno a casa e la ragazza divenne depressa e molto esigente, rifiutando di mangiare se non quantità esigue e correndo senza requie su e giù per le scale o avanti e indietro nel corridoio. Nel giro di quattro mesi il suo peso si ridusse da quarantuno a ventotto chili. L'accusa sempre reiterata di Faith verso sua madre fu: "Se io sto bene, tu non mi amerai più, non mi baderai". In verità, la madre le aveva badato troppo e ciò di cui aveva bisogno era il contatto col padre e con altri membri della famiglia. Dopo alcune sedute con tutta la famiglia, le cose sembrarono migliorare e Faith riguadagnò gradualmente il suo peso; ma vi fu una ricaduta a quindici anni. Diverse cose erano capitate nell'anno precedente: Faith aveva cominciato ad avere le mestruazioni, cosa odiosa per lei, era entrata in un grande ginnasio dove si sentiva fuori fase e disapprovava il comportamento disinvolto delle compagne. Per giunta, il fratello maggiore era partito da casa per andare al college, il che riaccese nella ragazza il vecchio timore di perdere il suo posto in famiglia, abbandonata completamente a se stessa perché nessuno l'avrebbe più voluta. Riuscì tuttavia a riconoscere che non poteva passare la vita aggrappata alla madre e rifiutandosi di affrontare la necessità di azioni più indipendenti. Fu perciò mandata in una scuola più piccola, dove sentiva in minore misura la pressione di doversi difendere da un eccesso di pretese di carattere sociale e sessuale; accettò inoltre la necessità di un'intensa psicoterapia. Nel caso di Grace fu la paura degli sviluppi biologici a scatenare l'anoressia. Essendo la più giovane di tre sorelle, Grace sapeva che le altre due erano mestruate dall'età di undici anni. Quella più vicina a lei era molto grassa e veniva redarguita continuamente perché non aveva la forza di volontà di attenersi a una dieta. Quando si avvicinò il suo undicesimo compleanno, Grace pesava cinquanta chili ed era più alta della maggior parte delle sue compagne di scuola, nessuna delle quali, a quanto le constava, era già mestruata. Si allarmò allorché vide le prime macchie di sangue, ben sapendo che questi erano i segni premonitori della mestruazione; si sentiva incapace di venire a capo delle responsabilità che ne derivavano, temeva di essere canzonata o di mandare cattivo odore o di macchiare i vestiti. Desiderava posporre l'evento fino all'età di quattordici o quindici anni. La sua decisione di difendersi in qualche modo divenne ancora più ferrea quando a scuola fu mostrato un film sullo sviluppo sessuale. Nel corso di sei settimane dimagrì di oltre dodici chili e tutti i segni dell'imminente pubertà scomparvero; non cominciò ad avere le mestruazioni se non due anni più tardi. (Si noti che l'anoressia ferma il ciclo mensile in tutti i casi.) Assai spesso è lo spavento per le modificazioni somatiche durante la pubertà a generare il desiderio di essere magre. Lo sviluppo normale e le modificazioni che lo accompagnano vengono interpretate come "grassezza" e quali che siano le critiche rivolte all'aspetto esteriore del corpo, l'ansia più profonda è che con una mole adulta si pretenda da loro un comportamento più indipendente. Si è detto spesso che le anoressiche esprimono la paura dell'età adulta; in realtà temono di diventare adolescenti. Nelle prime fasi dell'adolescenza, Hazel era stata contenta della popolarità di cui godeva e abbastanza disposta a flirtare. Udì il padre chiedere: "Adesso diventa un'adolescente?" e le sembrò
di sentire in questa domanda una nota di disgusto, per cui temette che il padre la respingesse. Alla base di quest'ansia v'era la storia di una sorellastra, molto maggiore di lei, che secondo quanto si diceva in famiglia, era stata la prediletta del padre, ma lo aveva deluso. Hazel non conosceva i particolari di questa storia, salvo che l'essere adolescente poteva costarle l'affetto dei suoi; si ritrasse perciò da tutte le occasioni di vita sociale. Voleva meritare l'amore e l'ammirazione di suo padre brillando a scuola e negli sport e cominciò a limitare sempre di più il suo consumo alimentare. Era per lei questione di "dominio dello spirito sul corpo" e lo praticò nel senso più letterale, dicendo: "Quando si è tanto infelici e non si sa come venire a capo di checchessia, avere il dominio sul proprio corpo diventa un successo sfolgorante. Si trasforma il corpo nel proprio regno, dove si fa la parte del tiranno, del dittatore assoluto." Con questo atteggiamento, il non cedere a qualsiasi esigenza del corpo diventa la massima virtù. Ciò che viene negato con maggiore forza è il bisogno di cibo. Per penosa che sia la fame, sopportarla un'ora di più, rinviare anche l'ingestione di una quantità infinitesima di cibo fino al punto della fame estrema, diventa segno di vittoria e questo, a sua volta, genera quel segreto orgoglio, quel senso di superiorità sul quale le anoressiche impostano i loro rapporti col mondo circostante. Né la fame è l'unica esigenza fisica negata; non cedere alla fatica è considerato ugualmente meritorio. Fare un'altra vasca a nuoto, correre ancora per un miglio, fare esercizi ginnici sempre più faticosi, tutto diventa simbolo della vittoria sul corpo. Per lo stesso motivo è degno di stima il non portare un cappotto d'inverno o il nuotare in acqua così fredda da far diventare la pelle cianotica, sebbene uno degli effetti più penosi dell'inanizione sia una straordinaria sensibilità al freddo. Il corpo e le sue esigenze debbono essere vinti ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Irene aveva paura dell'adolescenza, non dell'età adulta. Magari avesse potuto addormentarsi come la bella addormentata nel bosco - e svegliarsi da adulta, a vent'anni. Da bambina era stata piuttosto solitaria e i genitori le avevano detto che da adolescente sarebbe stata molto più felice, avrebbe avuto ragazzi che l'ammiravano e le chiedevano appuntamenti. In queste descrizioni parve ad Irene di sentire una nota di preoccupazione dei genitori e decise di non fare le cose di cui loro parlavano in termini così esaltanti. Aveva sempre avuto l'impressione che i genitori considerassero tutto quanto lei faceva come un successo loro. Immaginava come sarebbero rimasti alzati ad aspettarla quando lei sarebbe uscita con un ragazzo, facendo finta di essere contenti, ma in realtà ansiosi; come avrebbero preteso che raccontasse parola per parola tutto quello che era accaduto; che il loro continuo parlare della vita piacevole dell'adolescente avesse un sottofondo decisamente pruriginoso e che desiderassero provare attraverso la vita sua ciò che a loro stessi era mancato. Invece di un passo verso la libertà, temeva che l'adolescenza l'avrebbe legata ancora più strettamente ai genitori. Perciò si tenne assolutamente lontana da tutte le attività dei suoi coetanei, si rifiutava di andare alle festicciole organizzate dalla scuola o di frequentare lezioni di ballo, sebbene l'interessasse il ballo in quanto forma d'arte. La sua era una scuola femminile e le poche amiche avevano come lei interessi esclusivamente accademici. Non usciva mai con un ragazzo, non ci pensava nemmeno e perfino non parlava con ragazze che avessero interessi del genere. Da bambina, Irene non si era mai curata del suo peso. Quando aveva undici anni, diverse ragazze in classe parlavano di mettersi a dieta e questo le era apparso strano, perché a lei era sembrato che andassero bene com'erano; si sentiva fortunata per essere contenta della propria figura. Tuttavia, di li ad un anno, quando si fecero notare i primi segni di sviluppo puberale, il pediatra disse che stava diventando un po' troppo grassottella, al che Irene iniziò un rigorosissimo programma di controllo ponderale, non permettendo che il suo peso superasse i 43 chili ; pur continuando a crescere, non ebbe mestruazioni. A quindici anni, epoca in cui si verificò una crisi tra i genitori e tra lei e l'unica amica rimastale, Irene cominciò a costringersi a patire la fame e, cercando di essere più magra possibile e odiandosi quando aumentava anche di poche decine di grammi, dimagrì in modo catastrofico. Anche Joyce disse apertamente di temere l'adolescenza. Sebbene avesse sorelle maggiori, crebbe praticamente come una figlia unica e sentiva che il suo rapporto con i genitori era qualcosa di molto speciale, tanto stretto che loro non avrebbero voluto che lei avesse altri interessi. All'età di undici o
dodici anni frequentò lezioni di ballo e uno dei ragazzi le dimostrava il suo interesse. Joyce l'aveva in simpatia, ma quando in macchina sulla via del ritorno le altre ragazze la canzonavano per questo, la cosa l'imbarazzava terribilmente, specie quando era sua madre a guidare. Malgrado la sua riluttanza, il ragazzo non si fece scoraggiare e le chiese di andare al cinema con lui. Joyce non sapeva come regolarsi; le sarebbe piaciuto andare e non voleva dargli una delusione, ma non riusci a risolversi a dirlo ai genitori, convinta che non l'avrebbero permesso o, peggio, che, pur essendo contrari, l'avrebbero lasciata andare. Passò ore intere cercando di trovare un modo per dire al ragazzo di non venirla a prendere; quando questi si presentò lo mandò via, spiegando che non poteva uscire, e senza aver detto nulla dell'invito ai genitori. La sofferenza di quell'indecisione fu tale che si propose di non affrontarla mai più e da quel momento scoraggiò qualsiasi ragazzo che le dimostrasse il minimo interesse. La madre si preoccupava, anche prima della forte perdita di peso, perché Joyce non partecipava ad alcuna attività sociale. La ragazza temeva che qualsiasi interesse nell'uscire con un ragazzo avrebbe fatto nascere pettegolezzi fra le sue amiche. La sua regola di vita era di non farsi mai notare, perché il pensiero che si parlasse di lei le era troppo penoso. Le sembrava di vivere in un villaggio di puritani, dove ciascuno si erge a giudice di tutti gli altri e dove un unico passo falso avrebbe portato vergogna eterna e condanna. Tutti i suoi timori trovarono conferma quando lesse La lettera scarlatta. La turbavano anche i cambiamenti che notava nel proprio corpo. Fin dall'infanzia non le era sembrato "carino" avere l'aspetto di una donna, con tessuti rigonfi; il corpo femminile non le pareva bello. La madre aveva già passato i quarant'anni quando Joyce nacque e la ragazza non ricordava quale aspetto avessero da adolescenti le sorelle maggiori né che cosa lei ne avesse pensato. Per evitare le carni mollicce più tardi, decise di evitare fin da adolescente le curve e le rotondità del suo sviluppo. Voleva che il suo corpo fosse il migliore possibile, ossia il più magro. Riusci ad abbassare il proprio peso a trentadue chili, sentendosi straordinariamente fiera di essere cosi sottile, senza curve, e di esservi riuscita da sola. Era estremamente riluttante a parlare di queste idee di cui riconosceva il carattere aberrante. Soltanto quando aveva già fatto molti progressi nella terapia fu disposta a parlare apertamente di questa terribile preoccupazione per il suo corpo e di come l'avesse disgustata il suo normale sviluppo. "Esistono persone con la pancia piatta, è per questo che io lotto; ma temo di non essere fatta così. La mia pancia è il mio tallone d'Achille. Me la debbo tenere e debbo ammettere una cosa che finora ho cercato di negare, cioè che è il mio inevitabile destino. Ho cercato di mantenere il controllo sul mio corpo, di forgiarlo a modo mio, ma debbo accettare il fatto che non è possibile e che dovrò avere l'aspetto che non vorrei avere." Ci sono notevoli differenze individuali nel grado di impreparazione di queste giovani ai problemi dell'adolescenza. Molte temono di non saper incontrare gli altri da pari a pari o di essere considerate prive di indipendenza. Negli ultimi anni ho visto diverse pazienti le quali, nell'intento di dimostrare la loro competenza in campo sociale, insistevano a fare passi alquanto drammatici, come viaggiare all'estero da sole all'età di sedici anni. In molte, è questa ricerca forzata di emancipazione e indipendenza a scatenare la malattia; costrette a riconoscere di essere pur sempre solitarie, diventano depresse e si sentono alienate dagli altri. Quando Kathy si trasferì in una scuola molto quotata sulla costa orientale degli Stati Uniti non solo soffrì di essere lontana da casa ma si sentì anche una fallita, perché incontrava difficoltà negli studi. Fino a quel momento era stata convinta che lei, "figlia perfetta di genitori perfetti", avrebbe potuto e saputo fare tutto bene. Era stata un'eccellente allieva nel suo ginnasio del Midwest e ora si sentiva smascherata come un'imbrogliona. Desiderava tornare bambina nei rapporti coi suoi genitori. Alta 1,75 sentì un desiderio irresistibile di "essere piccola" in modo da potersi affidare completamente ai genitori e alle loro cure. A mano a mano che il suo peso diminuiva, Kathy si convinse di essere tornata piccola. La sorella minore osservò tutto questo processo con stupore e ne fece una sintesi molto precisa: "Lei si mangia tutte le attenzioni" - il che era esattamente quanto
Kathy voleva, il monopolio dell'attenzione dei genitori. Prima di andare via da casa era stata la confidente di sua madre e aveva pensato di essere lei a tenere insieme i genitori. Si preoccupava che questi si lasciassero se lei non aiutava la mamma a risolvere i suoi problemi. Ora era persuasa che la sua malattia tenesse uniti i genitori - un'idea, questa, espressa da molte anoressiche le quali vivono nella convinzione che, ridotte a pelle e ossa e bisognose di protezione come sono, si assicurano l'eterno amore e le cure dei genitori. Qualcuna crede che l'andare al college l'aiuterà a diventare più indipendente, libera da quella che le era parsa una supervisione troppo assidua da parte dei familiari. Linda si dovette rendere conto che era successo il contrario; in un certo senso ricreò la sua casa mentre stava al college, attenendosi esattamente agli stessi orari e cercando perfino di imitare l'ambiente sociale. Si sentì completamente fuori posto al college, per cui rimase a casa l'anno seguente, frequentando un istituto locale, dopo il suo drastico dimagrimento. Durante la terapia, due anni più tardi, ebbe un sogno nel quale partiva per la Francia, lasciando tutti: "Fu come un addio per sempre, come se io stessi per trasferirmi in Europa. Cerano diverse amiche e soprattutto una, con la quale eravamo state amicissime a scuola. Disse che anche lei sarebbe andata in Francia e mi chiese: 'Dove starai?' Ma ebbi la sensazione che lei sarebbe stata in tutt'altra parte, nient'affatto vicina a me. Malgrado le sue domande sapevo che non sarebbe mai venuta a trovarmi." Le due erano state insieme alla scuola elementare e l'altra ragazza era stata abbastanza negligente e non aveva mai fatto più dello stretto indispensabile, mentre Linda aveva studiato molto. Ora capiva che non soltanto aveva avuto nostalgia della sua casa e dei genitori, ma anche delle amiche d'infanzia. Durante la sua malattia anoressica non si sentiva più parte di questo gruppo di amiche, le quali si stavano lasciando alle spalle l'infanzia. Lei sarebbe stata un'esclusa, lontana da tutto quanto contava e condannata all'eterno isolamento e alla solitudine. La terrorizzava l'idea che tutto quello di cui lei aveva fatto parte si stesse disintegrando e ora era completamente abbandonata a se stessa. Spesso sembrano coincidere cambiamenti nelle sollecitazioni esterne e nella famiglia oppure, con frequenza ancora maggiore, mancano i cambiamenti necessari. In tre dei miei casi, la madre aveva subito una mastectomia qualche anno prima che la figlia diventasse anoressica. Cosi la mamma era diventata una persona bisognosa di particolare riguardo, donde un rinnovato attaccamento, - in uno dei casi esplicitamente richiesto dalla madre, ma cagionato anche dal senso di colpa della figlia. Questo era accaduto ad un'età in cui in circostanze normali avrebbe avuto inizio il processo di emancipazione, con la ricerca di intimità e amicizia all'esterno della famiglia. Queste ragazze si sentivano invece in dovere di aiutare la madre, di restarle accanto e procurarle le gioie e la protezione di cui, così temevano, era stata privata. Per diverse delle mie pazienti, tutte ultimogenite, tutto il quadro e l'ambiente cambiarono quando i fratelli maggiori andarono via da casa per frequentare l'università. L'infanzia di Margo era stata un grande sforzo per restare alla pari con i tre fratelli maggiori, ma allo stesso tempo lei si era sentita al sicuro, perché i fratelli avrebbero avuto cura della "sorellina". I suoi rapporti erano stati particolarmente stretti col fratello più vicino a lei per età. Quando lui, maggiore di tre anni, andò all'università, Margo, quindicenne, si trovò d'un tratto sola con i genitori che in verità non conosceva troppo bene. Non aveva mai notato prima che v'erano delle tensioni e che la madre non era felice. Margo si sentì divisa fra l'amoroso desiderio di starle vicina e il rabbioso rifiuto di doversi sentire colpevole o di essere costretta a rimanerle accanto. I pasti furono particolarmente difficili: in passato aveva mangiato con i fratelli; ora la scelta era tra prendere i pasti con i genitori e subire la tensione che v'era fra loro, o mangiare sola. Si stava avvicinando il momento di partire per l'università e Margo si rese conto di non essere veramente matura per andarci. Con tutto ciò, ecco che insorse l'anoressia. In altre ragazze, la pubertà forse pone fine al segreto sogno di crescere e diventare un ragazzo. Soltanto poche ammettono francamente che avrebbero preferito essere maschi; alcune ne parlano quando cominciano a esprimere il loro disgusto per il corpo femminile. Prima di entrare a scuola,
Joyce aveva giocato con un ragazzino del vicinato. Sebbene non sapesse precisare i particolari, la ragazza aveva la sensazione che la sua insoddisfazione del proprio corpo femminile risalisse a quell'epoca: lui era più vivace, sapeva fare meglio tante cose e aveva maggiore indipendenza. Ora sentiva che la sua magrezza le dava un aspetto simile a quello d'un uomo e lei voleva essere eguale agli uomini e soprattutto dimostrare di avere lo stesso vigore. Pur sapendo di non essere forte come un uomo, si costringeva a fare quanto saprebbe fare un uomo, ma non voleva stare con donne forti ed efficienti perché dover ammettere la sua inferiorità era troppo doloroso, ammetterla nei confronti di un uomo era più facile. L'estrema magrezza era un modo per dimostrare la sua forza, per provare che lei sapeva andare avanti "in tempi di vacche grasse e di vacche magre". Nella letteratura precedente si accenna spesso a delusioni amorose o traumi sessuali quali fattori scatenanti la malattia. Esperienze di questo genere possono essere seguite da una reazione isterica con grave perdita ponderale, ma questo quadro è decisamente diverso da quello della vera anoressia mentale, di cui sono caratteristiche il rifuggire da qualsiasi incontro con l'altro sesso e il ritrarsi da qualunque contatto fisico. Per quanto vari siano gli avvenimenti esteriori o le esperienze interiori che scatenano l'anoressia, si possono riconoscere alcuni tratti comuni. La "causa" denunciata non è quasi mai, o forse mai, il fattore veramente responsabile; è soltanto la sollecitazione o la sfida addizionale che rende insopportabile l'insoddisfazione interiore. Nel loro modo di pensare concreto e infantile, le anoressiche imputano al corpo il loro malessere e tentano di risolvere tutti i loro problemi cambiando il corpo con l'inedia e con l'attività più faticosa. Attribuiscono a se stesse la colpa dei loro difetti veri o immaginari e c'è un elemento veramente autopunitivo nel modo in cui si negano qualunque comodità o piacere. Da un altro punto di vista possiamo considerare tutta la malattia come un tentativo di arrestare il tempo, di non crescere di tornare all'infanzia e nelle dimensioni e nel comportamento. Alcune si rendono conto di essere state allevate in una maniera che le ha lasciate impreparate ad andare avanti nella vita, e spesso si struggono nel desiderio di ripristinare le situazioni di una volta. Le manchevolezze della famiglia erano consistite in modalità impercettibili di interazione e di aspettative, ma c'erano stati anche calore e affetto. Norma, che era stata molto legata alla madre e insicura con le amiche, sentiva che la vita in famiglia era esente da ansia. "Ho sperimentato spesso questo senso di conforto, come un guscio caldo e tondo che mi racchiudeva. È stata un'esperienza senza paura, senz'ansia." Ma sapeva anche come questo meraviglioso affetto l'avesse lasciata impreparata a vivere fuori della famiglia. "Questo senso di calore era fondamentalmente asociale io dentro la mia famiglia e con gli amici dei miei genitori." Paragonava questa vita piena di tepore ad un paradiso perduto. Il modo in cui aveva, all'età di sedici anni, creato l'anoressia, era una parodia e ora, a diciannove anni, la paragonò alla creazione diabolica del pandemonio nell'inferno, come lo descrive Milton nel Paradiso perduto. Volevano farne la loro città, ma è una parodia del Cielo. Hanno perduto il Cielo e vogliono riedificarlo. Non vogliono fare una parodia - vogliono sfuggire alla sofferenza, non costituirne il punto focale. Creano una città, materialmente bella, con metalli preziosi e pietre pregiate e di mirabile fattura, ma che pure, mancandole lo spirito del Cielo, è un grottesco assurdo e tragico. Così anch'io volevo evitare l'ansia, il vuoto, il distacco, la sofferenza. L'anoressia mentale non è un tentativo di farsi soffrire; è un tentativo di ricatturare, da un punto di vantaggio dopo la caduta degli angeli, l'Eden attraverso la sua rivelazione. Se hai un dolore, senti qualche cosa, se tremi di freddo, il calore ridiventa reale e meraviglioso. Il cibo torna delizioso e ratificante. Tutto ritorna ordinato, organizzato, compatto e ne puoi fantasticare in modo ordinato. Non è che volessi ridiventare bambina, volevo sentirmi come m'ero sentita da bambina in questa vita asociale, tutta incentrata sulla mia famiglia.
Capitolo quinto L'atteggiamento anoressico Tutti sanno come va con le diete, l'entusiasmo all'inizio, la uggia della continua privazione e il senso di sollievo quando vi si rinuncia. Le anoressiche sono diverse - vanno avanti imperterrite. Quanto più a lungo continuano, tanto più abnormi diventano il loro pensiero e le loro reazioni. Qualsiasi contravvenzione alle dure regole che si sono imposte le fa sentir colpevoli per aver ceduto alle esigenze grossolane e volgari del corpo, e quindi si condannano a un'inedia ancor più rigida. Sappiamo relativamente poco di come avvenga questo cambiamento da ciò che sembra una normale osservanza di una dieta a questa fissazione inflessibile e autodistruttrice, ma caparbiamente difesa, sul peso e sul cibo. Nella fase iniziale il medico non le vede; anche pazienti in cui l'affezione è relativamente recente hanno già perduto da sette a nove chili e si sono già attenute a una dieta severa da tre o quattro mesi, abbastanza perché si sia compiuto il cambiamento, sebbene siano naturalmente meno rigide nel loro atteggiamento di quelle che persistono già da anni e hanno integrato il comportamento anoressico nel loro pensiero e nel loro modo di vivere. Interrogare queste pazienti in cui l'anomalia è insorta da poco non serve molto, perché sono talmente ansiose e sulla difensiva da negare che vi sia alcunché di inconsueto. Quanto so dell'evoluzione dell'atteggiamento anoressico mi è stato rivelato da pazienti guarite che sono contente del loro aspetto e non si preoccupano più della dieta. Queste sono disposte a parlare con sincerità delle loro esperienze; pur ricordandole, le considerano ormai strane e incomprensibili. Tutte concordano nel dire che da principio forse non si è trattato se non di un tentativo, quasi per gioco, di dimagrire, per quanto non fossero veramente in sovrappeso. È difficile riconoscere in questo qualcosa di anomalo, perché succede a un'età in cui molte giovani hanno strane nozioni di come cambiare se stesse, passando da "figlie dei fiori" a elegantissime, dai capelli lunghi ai capelli corti, da persone serie a gente che vuol solo divertirsi. È un'epoca della loro vita in cui tendono a sentirsi sole, o escluse e non veramente apprezzate. La prima cosa che serve a rinforzare la decisione di attenersi alla dieta è che gli altri si allarmano. Le lusinga il fatto di ricevere d'un tratto l'attenzione che prima era loro mancata. Una ragazza era stata gelosa di un cagnolino al quale la madre dimostrava più amore e affetto di quanto a lei sembrava di aver mai ricevuto; un'altra aveva l'impressione che il padre giocasse più volentieri col cane che con lei. La differenza vera sta nello straordinario orgoglio e nel piacere che ricavano dall'essere capaci di fare cosa tanto ardua. D'un tratto diventa facile e si convincono di poter continuare per sempre; e da qui nasce presto l'idea "mi piace soffrire la fame". Ora non si tratta più della consueta osservanza di una dieta -insorgono gli effetti biologici secondari della fame e le sensazioni corporee si trasformano. Ecco come una ragazza ha descritto questa situazione: "Quando diventa un piacere, allora accade un'altra cosa. Ci si sente ebbre; credo veramente che così sia anche l'alcoolismo". La maggioranza delle anoressiche percepisce un acuirsi dei sensi, meraviglioso per un breve tempo. Sono convinte di vivere un'esperienza del tutto speciale. Ma coll'andare del tempo queste sensazioni iperacute possono diventare fastidiose ed escludere chi ne è afflitto ancora di più dalla vita normale. A mano a mano che migliorano, molte sentono con rimpianto che i fiori non hanno più colori tanto brillanti e che le forme delle foglie e delle nuvole non suscitano più sensazioni così stimolanti. Continuando ad affamarsi, le pazienti sviluppano nuovi sintomi e atteggiamenti che integrano nelle loro esperienze e reazioni. A differenza dell'iperacuità sensoriale e di certi aspetti di un senso del tempo perturbato (che sono secondari all'inanizione), la maggior parte dei nuovi sintomi caratteristici ha una storia e uno sviluppo. Elaborare la condizione anoressica non è un processo che si svolga improvvisamente e automaticamente, richiede invece l'attenzione attiva e instancabile della vittima a ogni ora. Non è un'abitudine dalla quale non si riesce a sfuggire; mantenere questa condizione richiede sofferenza e continui strenui sforzi. Queste giovani lottano duramente per cambiare, negare, alterare l'evidenza registrata dai loro sensi. In parte ciò è il portato dell'esperienza
della fame, ma molti altri aspetti derivano dall'immaturità delle concezioni personali e sociali; le quali ora emergono in primo piano e vengono usate nel tentativo di modificare la realtà della vita. Quanto più a lungo dura la malattia e quanto più peso perdono, tanto più le anoressiche si convincono di essere speciali e diverse, che l'essere tanto magre le rende meritevoli, significative, straordinarie, eccentriche o eccezionali; ciascuna ha una parola tutta sua con cui descrivere lo stato di superiorità per il quale lotta. A questo punto sentono di non poter più comunicare con la gente ordinaria, incapace di capire. E probabilmente questo crescente isolamento ad avere l'effetto più corrosivo sul tragico sviluppo a lunga scadenza. Prive di tutte le esperienze correttive, specie del contatto con i propri coetanei durante l'importante fase di sviluppo dell'adolescenza, queste giovani si concentrano unicamente su se stesse, ruminando esclusivamente intorno al peso e al cibo. Il loro pensiero e le loro mete si fanno bizzarre, con idee astruse su ciò che accade al nutrimento. La fissazione sul cibo non lascia spazio per altri pensieri. Il tempo impiegato per fare i compiti diventa sempre più lungo a causa dell'assoluto bisogno che hanno queste ragazze di essere superiori da ogni punto di vista, mentre non riescono a concentrarsi perché il cibo si è impadronito della loro mente. Molte si interessano sempre di più della cucina e qui sembra in giuoco un fattore sociologico. Nelle famiglie di media borghesia, dove è la madre a cucinare, la figlia anoressica si sostituisce a lei, cucina per tutta la famiglia, prepara torte e biscotti ricercati e perfino costringe gli altri a rimpinzarsi di cibo, mentre lei stessa circonda di segretezza il poco che mangia. Nelle famiglie di alta borghesia, dove forse una cuoca regna sulla cucina, si lasciano andare all'acquisto di quantità spropositate di generi alimentari, senza cucinare. In un caso di mia conoscenza il padre evitò il conflitto fra la cuoca e la figlia anoressica, installando una speciale cucina per questa. La madre di Opal era morta quando la bambina aveva dieci anni. All'età di tredici anni questa volle andare in collegio, ma poi non riuscì a parlare con le compagne, le quali, secondo la sua impressione, non s'interessavano d'altro che dei ragazzi. Durante l'anno in collegio era aumentata un pochino di peso, ma non ebbe difficoltà a riperderlo al suo ritorno a casa. Scoprì però che anche le amiche di prima erano cambiate, interessate anche loro ai ragazzi. Si provò a fare come le altre e accettò alcuni appuntamenti, ma la cosa la sconvolse al punto da indurla a scansare qualsiasi contatto sociale. L'eccessiva preoccupazione per la dieta ebbe inizio all'età di quindici anni; da quell'epoca in poi tutta la sua vita era incentrata sul bisogno di tenersi sotto controllo. Dopo una fase iniziale di rigide limitazioni, fu spaventata dall'impulso di mangiare ed elaborò un metodo raffinato per resistervi, diventando una cuoca eccelsa. Da principio si servì di questo per mantenere il contatto con le amiche di prima, le quali ammiravano la sua arte culinaria, ma poi non avevano niente da dirsi. Opal completò il liceo mantenendo un peso sempre al di sotto dei trenta chili, ma quando andò all'università si sentì sfasata rispetto alle compagne. Tornò a casa, vivendo in crescente isolamento. Passare il suo tempo cucinando la fece sentire un poco meno depressa e ansiosa. Opal e il padre abitavano una grande casa, con una governante e una cuoca. Per aiutarla a vincere la sua ansia, il padre fece costruire una cucina speciale e una sala da pranzo-biblioteca, dove Opal poté sistemare la sua collezione di libri di cucina, oltre un migliaio di volumi; si era specializzata in antichi libri di cucina inglesi. Per diversi anni la routine che aveva elaborato la mantenne al riparo dall'ansia, ma a vent'anni venne per una consultazione, perché la cucina-rifugio non serviva più. Sottoposta a trattamento, ebbe un rapporto amichevole col suo terapista, ma nulla cambiò. Dopo le sedute di terapia Opal soleva girare per i negozi di generi alimentari, a volte per parecchie ore, alla ricerca degli ingredienti precisi che le servivano, dopo di che preparava i suoi pasti da buongustaia nella sua cucina, la quale era fornita di tutti gli apparecchi più moderni. Anche per questo le occorrevano diverse ore. Raramente cominciava a mangiare prima della mezzanotte e durante tutto quel tempo studiava i suoi libri di ricette per escogitare un nuovo menu. Per quanto mangiasse lentissimamente e cercasse di trattenersi, poco per volta il suo peso era aumentato e ormai aveva superato i 45 Kg. Pur sapendo che anche così era di parecchio inferiore alla norma, era sempre assillata dal timore di
essere grassa. Certe caratteristiche si palesarono durante il consulto, per esempio Opal non tollerava i suggerimenti altrui, pur essendo confusa nel decidere ciò che voleva. La angustiava realmente il fatto che ci sono poche cose nella vita di cui si può avere la certezza che non siano state proposte da altri. Per un certo periodo l'essere pelle e ossa, cucinare in questa maniera ricercata e limitare il suo cibo a un minimo l'aveva convinta di fare veramente ciò che lei stessa voleva; ora non ne era più tanto sicura. L'aveva anche rassicurata il fatto che il padre avesse acconsentito ai suoi desideri e costruito la cucina. Ma Opal sapeva che il padre si disperava del suo isolamento e del suo rifiuto di interessarsi ad altre attività. Quando fu discusso un nuovo programma terapeutico, Opal minacciò di uccidersi e la consultazione fu troncata prima che si fossero chiariti alcuni degli aspetti basilari. Le anoressiche insistono nel dirsi incapaci di "vedere" la loro magrezza; tutte le preoccupazioni degli altri sono prive di fondamento, perché loro stanno benissimo, sono giuste così e il loro aspetto è quello che vogliono avere; anzi, dicono di essere ancora "troppo grasse". A questo sintomo tipico, l'immagine corporea distorta, contribuisce anche un allenamento a ingannarsi da sé. Le pazienti si esercitano nel guardarsi allo specchio, da tutti gli angoli, fiere di ogni libbra che perdono e di ogni osso che sporge. E quanto maggiore è l'orgoglio di questo aspetto, tanto più insistono nel dire che esso è perfetto. Qualche volta si ottengono informazioni su come le anoressiche si vedevano prima di ammalarsi. Diverse mie pazienti affermavano con convinzione che erano state soddisfatte del loro corpo, contente di essere ben fatte, alte e graziose. Alcune ricordavano di essersi meravigliate quando altre ragazze si dicevano preoccupate del proprio peso e facevano una cosa tanto stupida come il privarsi di qualcosa, per esempio non mangiando dolci. Ma entro breve tempo, quando loro stesse iniziarono il loro rito dietetico, qualunque ne fosse la ragione, d'un tratto si guardarono con occhi diversi, incapaci di vedere la loro eccessiva magrezza. Bert pesava 80 Kg quando, all'età di quindici anni, decise di imporsi una dieta rigida. Cominciò anche un programma di attività sportiva, facendo molto nuoto e prendendo parte a giochi di squadra che prima aveva evitato. Era fiero di avere tanta forza di volontà e di dimostrare a tutti, soprattutto a sua madre, di essere capace di attenersi a una dieta. Dopo sei mesi, quando il suo peso era calato a 57 Kg e tutti lo ammiravano, dicendo che aveva un aspetto splendido, accadde qualche cosa: d'un tratto era diventato incapace di vedersi. Fino a quel momento aveva osservato come dimagriva e aveva visto il suo aspetto diventare più snello di settimana in settimana. Ora fu preso improvvisamente dalla paura di ridiventare grasso ed effettivamente si vedeva più grosso, sebbene la bilancia indicasse che aveva perduto altro peso. Perciò si impose una dieta ancora più rigorosa, smise di pesarsi ed era assillato dalla paura di tornare obeso. Diceva di essersi veramente visto gonfiare. Dopo quattro mesi fu ricoverato con un peso di 40 Kg. Questa assillante preoccupazione circa il proprio peso sembra parte del desiderio del soggetto anoressico di far l'impossibile, dell'orgoglio di essere ultra-speciali perché ultramagri. Questi soggetti si ammaestrano anche in modo da vedere il mondo diverso da com'è: non solo sopravvalutano le proprie dimensioni quando si vedono in fotografia o allo specchio, come se fossero incapaci di vedere in prospettiva, ma, in situazioni sperimentali, fanno anche stime eccessive della grandezza altrui o di distanze astratte. Il grado di serietà della malattia va di pari passo con il grado di costante sopravvalutazione; quanto più esagerano nelle loro stime tanto più sono resistenti alla terapia. E altrettanto si osserva dal punto di vista clinico; quanto maggiore è il bisogno di auto-ingannarsi, tanto meno l'anoressica è disposta a riesaminare i valori e i concetti di cui si serve. Queste percezioni fallaci e l'auto-inganno valgono a proteggersi contro un'ansia più profonda, quella di non essere un individuo meritevole e integrato, capace di condurre la propria vita. Ecco un altro fattore che fa dell'anoressia mentale una malattia che si auto-perpetua. Se non interviene qualche cosa di significativo, se nessuno aiuta le ammalate a vedere il mondo in termini più realistici, l'atteggiamento anoressico può continuare per anni, può portare alla morte (le cifre della letteratura più antica danno una mortalità del 10%), ma più spesso conduce a un penoso
isolamento e all'invalidità cronica. Una volta stabilitosi lo straordinario orgoglio per l'aspetto scheletrico, è difficilissimo cambiarlo. Patti era fiera e felice perché in dieci anni di malattia anoressica il suo peso non aveva mai superato i 34 Kg, malgrado diversi tentativi di trattamento, tutti di breve durata. La giovane si dichiarò disposta a un altro consulto, ma, decisa a non superare questo limite ponderale, vi si preparò facendo in modo di calare a 28 Kg. Accettò con riluttanza un programma di iperalimentazione endovenosa e, man mano che il suo peso aumentava, ci fu un interessante cambiamento nel suo atteggiamento verso il proprio corpo. Fintanto che pesava meno di 32 Kg, non aveva mai esitato a tirare su la camicia da notte per mostrare a tutti come fosse ben ricoperta, anzi veramente grassa, come non vi fosse nulla di sbagliato nel suo corpo e come il suo aspetto fosse normale. Ma coll'aumento del peso e la comparsa di qualche pur minima curva, diventò estremamente modesta, e perfino pudibonda. Spiegava: quando era soltanto pelle e ossa, non le importava chi la vedeva nuda, ma ora che aveva l'aspetto "voluttuoso" (con un peso di 34 Kg) cominciava a sentirsi donna e voleva tenere il suo corpo celato. Malgrado questa spiegazione realistica, Patti non mutò il suo convincimento secondo cui il suo peso naturale sarebbe stato di 32 Kg o meno, sebbene aumentasse fino a 38 Kg e ripetesse quanto diceva suo padre, che cioè doveva pesare abbastanza per essere una donna normale che avesse le mestruazioni. Secondo lei, ciò sarebbe accaduto quando avesse raggiunto i 40 Kg e divenne ovvio che parte della sua lotta contro l'aumento ponderale era il suo rifiuto del ciclo mensile. Per quanto avesse avuto le mestruazioni per diversi anni, non le aveva mai accettate come una funzione naturale, sempre circondandole della massima segretezza e trattandole come cose inesistenti. Nel fondo del suo essere era convinta che il padre non voleva che superasse i 32 Kg, perché odiava le donne grasse. Dopo l'iniziale aumento ponderale cominciò a manipolare l'alimentazione endovenosa, chiudendo la fleboclisi di notte, per cui, nei due mesi successivi, aumentò di appena un altro chilo e mezzo, raggiungendo appunto i 38 Kg. Si lamentava di essere grassa, si sentiva rotonda e piena, non tollerava l'idea di essere grassa e non capiva come mai la bilancia non indicasse di quanto era aumentata. In verità era diventata molto più carina, non più uno scheletro, con un inizio di curve femminili e un viso più morbido. Tappezzò le pareti di manifesti e si indirizzò dei messaggi scritti: "Mi sento colpevole quando mangio qualche cosa, specie se mangio cibi ad alto tenore calorico. Mi sento cattiva, bassa, indegna, mi faccio ribrezzo dopo aver mangiato. Se mangio normalmente mi sembra di aver stramangiato. Per liberarmi di questo senso di colpa, piango e mi sento piena di rimorsi". Ripeteva: "Non mangio, perché mangiando aumento di peso e non voglio. Credo che veramente vorrei mangiare, ma non aumentare di peso in modo da conservare la mia figura da spaventapasseri. Ho una paura profonda di avere un corpo di donna, rotondo e pienamente sviluppato. Voglio essere impenetrabile, muscolosa e magra. Potrei sopportare di essere sottile, ma niente di più". Mentre aumentava di peso diventava più attiva e vivace e poiché continuava a dire che si sarebbe nutrita normalmente se solo si fosse posto fine all'alimentazione endovenosa, si volle metterla alla prova: in una settimana dimagrì di oltre due chili, pur parlando sempre di come le piaceva mangiare e aumentare di peso - in completo contrasto con la realtà dei fatti. Durante questo periodo fu sottoposta a psicoterapia ed era desiderosa di riuscire a capirsi. Aveva sempre considerato che lo scopo della sua vita fosse quello di far contento suo padre. Quando aveva sentito di non poter più soddisfare i desideri di lui, aveva tentato di sfuggire nel modo di vivere anoressico, che ora considerava una soluzione fraudolenta. Anche la sua malattia le appariva ora come una frode e chiamava quella parte di sé che insisteva a voler essere pelle e ossa e a non mangiare "la ragazza-inganno", ma non riusciva a rinunciare a questo stile di vita, perché se fosse stata sana e di peso normale, sarebbe dovuta tornare a casa e servire obbedientemente il papà. Cercavo di essere quella che i miei genitori desideravano che fossi, o almeno quella che io pensavo che loro volessero che fossi. Forse era soltanto la mia sensazione che papà volesse che io fossi una brava studentessa e avessi i giusti amici, perché lui non lo ha mai detto esplicitamente. Ma io, dentro di me, lo sentivo. Era, per cosi dire, nell'atmosfera, nell'aria che mi circondava. In realtà
era rutta una pressione che io m'imponevo da sola, perché lui non mi ha mai chiesto di studiare. Io facevo del mio meglio, ma suppongo che quel mio meglio non sia stato buono abbastanza. Ho fallito su tutta la linea, ma almeno d'ora in poi posso cercare di essere la migliore Patti possibile e sperare che lui mi voglia bene lo stesso, anche se non riesco a soddisfare tutte le sue aspettative. La stessa idea Patti la espresse in un incubo, uno dei pochi sogni da lei ricordati durante tutta la sua lunga malattia. Le sembrava di essere tornata in liceo dove avrebbe dovuto presentare una relazione su di un libro. A un tratto si rese conto di non aver letto il libro, non aveva nemmeno cominciato: una situazione di ansia frenetica, di panico. Ora sarebbe diventato palese che lei non era affatto la studentessa che aveva fatto finta di essere, non la interessavano né la letteratura né alcun'altra materia, che si era costretta a fare tutte quelle cose perché suo padre se le aspettava da lei. Il risveglio fu un grande sollievo, con la consapevolezza che aveva finito il liceo e l'università e sebbene dovesse ammettere con tristezza che pur essendosi sforzata di studiare tanto non ricordava nulla: l'unica cosa importante era stato di fare quanto ci si aspettava da lei. Parlava con angoscia sincera dell'anomalia della sua vita attuale; invece di essere una figlia adulta che viveva in casa, era rimasta nella situazione di una bimba, ugualmente timorosa di assumere le responsabilità di una vita indipendente e di aumentare di peso, convinta di dover essere magra. Le sembrava di non aver fatto le esperienze atte a prepararla per l'indipendenza. Ecco una paziente bisognosa di cure protratte in un istituto psichiatrico, dove potesse riesaminare le sue concezioni errate, diventare più capace di affrontare la vita, maturare ed essere protetta dalla dieta rovinosa. Se l'anoressia dura per qualche tempo, le pazienti elaborano idee bizzarre e strane sensazioni circa il corpo e le sue funzioni, come abbiamo visto. Queste interpretazioni assurde cominciano a emergere molto presto dopo l'inizio dell'inedia e si fanno più distorte, venendo al contempo più rigidamente integrate, quanto più a lungo persiste l'anoressia. Dato che si tratta di persone istruite, tra cui perfino studenti di biologia con valide nozioni nei campi della fisiologia e della nutrizione, si resta stupiti nel vederli aggrappati ad immagini tanto abnormi. Si rendono conto che le loro idee non collimano con quanto hanno imparato, ma le loro reazioni e il loro comportamento sono dominati da nozioni fantasiose su quel che accade al cibo. Disse una delle ragazze: "Il mio stomaco è come un sacchetto di carta, qualunque cosa io ci metta, vi rimane e mi fa sentire piena". Questa paziente faceva sforzi violenti per espellere tutto il cibo, provocando il vomito e a volte infliggendosi gravi sofferenze. Altre hanno la sensazione che il risultato dipenda dalla qualità del cibo: se mangiano roba da spilluzzicare o qualsiasi cibo che contrasta con la loro scala dei valori, sono convinte che andrà direttamente là dove non vogliono che si accumuli il grasso. Soffrono della continua ansia che, se mangiano, il loro stomaco si dilati e sporga; si sentono a loro agio soltanto se la pancia è perfettamente piatta. In passato si è interpretata quest'ansia come paura della gravidanza, ma questo non era il caso delle mie pazienti, diverse delle quali avevano fantasie gravidiche di segno positivo. Una diciassettenne, ossessionata dai "gonfiori" formati dai suoi muscoli addominali ben sviluppati (si trattava di una giovane atleta), era stata ricoverata allo scopo di proteggerla dai metodi violenti con cui soleva indurre il vomito. Durante la prima notte in ospedale ebbe un sogno, da lei sentito come piacevole e rassicurante: era incinta e sul punto di partorire. Aveva paura del parto naturale, ma questo fu il metodo usato per farle dare alla luce il figlio, e non fu affatto spiacevole. Le anoressiche che si abbandonano alle orge alimentari concepiscono idee bizzarre circa il cibo, diverse in ciascun caso, ma tutte fondate sulla comune persuasione che il cibo che si sentono costrette a ingurgitare non può essere assimilato o potrebbe risultare nocivo, per cui dev'essere espulso dall'organismo dando di stomaco. Una volta sviluppatosi, questo complesso di sintomi tende ad aggravarsi progressivamente e ad essere refrattario alla terapia. Per riuscire a rigettare quel cibo, ne debbono consumare quantità sempre maggiori e occorrono somme incredibili di denaro per praticare questo metodo. Ciascuna paziente si specializza riguardo al genere di cibo utilizzato, che va da interi pasti, uno dopo l'altro, in ristoranti di lusso, allo svuotamento del frigorifero di casa per
orge notturne a base di bistecche alla griglia, a robetta fantasiosa comperata a carrettate nel più vicino supermercato. E qualunque sia il tipo usato, viene ingurgitato insieme a litri di latte o altro liquido, onde facilitare la successiva espulsione. Anche il vomito diventa un rituale individualizzato; alcune hanno grande difficoltà a rigettare il cibo e possono farsi male negli sforzi compiuti a questo scopo. Altre lo "buttano fuori" senza bisogno di particolari stimoli. La maggior parte si serve di qualche oggetto morbido con cui vellicare la gola e stimolare così il riflesso del vomito. Espellendo, come fanno, il cibo, sono costantemente affamate e perciò si dedicano alle loro orge più volte al giorno e la cosa può riempire a tal punto la loro giornata da non lasciare tempo per altro. La maggior parte delle difficoltà si palesa soltanto quando cercano di liberarsi di questo sintomo fastidioso, del quale si vergognano sempre di più. Se le cose vanno bene e non accade nulla di sconvolgente hanno una giornata tranquilla, nella prospettiva di un grosso pasto serale, destinato a essere rigettato. Ma se qualche cosa va storto, o se c'è un intervallo di tempo non previsto, ecco che si impadronisce di loro un impulso irresistibile di rimpinzarsi, seguito da rimorso e da un'altra orgia e tutti i buoni propositi di smettere vanno a farsi benedire. Ciò che inizialmente era stata una risposta a una fame da lupo, diventa sempre più un metodo per alleviare qualsiasi tensione. Si sviluppa così un circolo vizioso: il timore di non avere sufficiente cibo per un'orgia o di non potersi appartare per vomitare rischia di creare una tensione tale che qualsiasi altra attività viene rinviata a quando sarà stato compiuto il rito. Se, per una qualche ragione, il vomito dev'essere posposto, un soggetto in cui questo modo è diventato cronico cercherà di completare il procedimento, inducendo il vomito ancora dopo alcune ore, quando la maggior parte del cibo ha già lasciato lo stomaco. La convinzione che il cibo sia sporco o dannoso è talmente radicata in queste pazienti da farle sentire pure e libere soltanto dopo essersi svuotate. L'ansia circa il destino del nutrimento può anche dar luogo a eccessiva attività fisica. Per esempio Ruth aveva l'idea che il cibo si sarebbe distribuito normalmente e l'avrebbe rafforzata senza accumularsi in un punto particolare, a patto che lei si mantenesse sempre in attività. Così le sembrava di poter mandare il nutrimento nei posti desiderati e perciò nuotava almeno per un miglio, o se aveva tempo, distanze molto maggiori, ogni giorno. Avendo usato lassativi per molti anni, fedele al principio che "quello che entra deve uscire", era anche persuasa di non poter andare di corpo senza questo stimolo e cadeva in preda ad ansia frenetica se non aveva questa funzione per un solo giorno. A lungo andare le anoressiche sviluppano tutta una serie di sintomi allo scopo di conservare la magrezza assoluta. Questi sintomi variano di gravità da caso a caso. All'affermazione stereotipa "non ho fame, non ho bisogno di mangiare", seguono asserzioni che lo stomaco non accetta più il cibo e il mangiare provoca nausea. Tutte spiegano il loro consumo alimentare limitato dicendosi incapaci di prendere qualcosa di più del boccone simbolico, perché si "sentono piene". Questa spiegazione la danno anche quelle che si abbandonano alle orge alimentari, ingurgitando enormi quantità in una frenesia di fame, pur insistendo nel dire che si sentono piene dopo aver preso quantità minime. Anche questa è espressione della loro convinzione che la mente è capace di fare tutto e di dominare il corpo comunque voglia. Interrogate a questo proposito durante la fase acuta della malattia rispondono con ira e con affermazioni difensive; insistono nel dire che è proprio questa la loro sensazione e alcune si mettono perfino a piangere, perché si sarebbe insinuato che mentono. Eppure, quando non hanno più la fissazione di mantenere un peso abnormemente basso, spiegheranno loro stesse le proprie azioni come una forma d'inganno. Sophie era rimasta aggrappata a un peso bassissimo per parecchi anni, quando, sotto pressione per i suoi impegni accademici, aveva rinunciato d'un tratto alla sua disciplina eccessivamente rigida ed era tornata ad un peso normale in un lasso di tempo relativamente breve. Dopo una passeggera reazione depressiva divenne molto più rilassata e libera in tutte le sue attività quotidiane. Interrogata circa le sue precedenti continue lamentele di sentirsi piena, alzò le spalle rispondendo: "È tutta una
colossale bugia". Questa affermazione fu discussa e la giovane descrisse allora come si era allenata a mangiare molto lentamente, prestando la massima attenzione a tutto quello che le sembrava di percepire e come allora potesse dire, onestamente, di sentirsi gonfia. Una spiegazione analoga la dette Tania, dicendo che si era allenata a sentirsi piena. Soleva mangiare piano piano un minuscolo dolcetto, rosicchiandolo appena e dicendo a se stessa che poteva rendersi conto di come il suo stomaco si riempiva. Era difficile per lei descrivere, e ancora più difficile per me capire, come avesse imparato a badare così accuratamente alle sue sensazioni gastriche. In seguito, dopo la terapia, disse: "Ci si fa il lavaggio del cervello e, una volta avviati sulla strada sbagliata, si diventa cieche per quanto accade. Facendo qualche cosa che ti rende diversa, diventi incapace di vedere quello che fai. È una cecità ingannevole, ma è difficilissimo rinunciarvi e si comincia a capirlo soltanto dopo aver riesaminato i propri valori". S'intende che questo riesame è il risultato dell'esplorazione terapeutica dell'autoinganno di fondo che è uno dei problemi centrali dell'anoressia mentale. Il senso del tempo appare distorto in tutti i casi, per quanto ogni ragazza lo presenti in modo differente. Ursula era costantemente impegnata a prevenire e posporre. Sentiva che era importantissimo essere snella ora, onde evitare di diventare grassoccia con rigonfiamenti in vita quando avrebbe raggiunto l'età media. Saltava il pranzo perché così forse non avrebbe avuto fame all'ora di cena e mangiare senza sentirsi venir meno dalla fame era contrario ai suoi principi parsimoniosi. Sebbene parlasse continuamente del peso che avrebbe voluto guadagnare, sapendo che non poteva vivere tutta la vita con un corpo di bambina, riusciva sempre a perdere piano piano, durante un lungo periodo, il peso che faticosamente aveva guadagnato durante ripetuti ricoveri ospedalieri. Non era mai il momento giusto per mangiare. Un concetto di tempo del tutto diverso era quello descritto da Vicky. Dedita, com'era, alle orge alimentari, aveva raggiunto lo stadio in cui progettava un'orgia alla fine della giornata. Ma la sua infelicità era che sentiva anche un impulso irresistibile di rimpinzarsi di cibo in momenti imprevisti e non pianificati. Percepiva il tempo in maniera inconsueta: si spostava attraverso le ore e le dava un senso di instabilità il trovarsi sempre a dover affrontare un futuro ignoto. Quando il tempo davanti a lei era limitato, alcune ore con attività programmata, tutto andava bene, ma se aveva davanti a sé delle ore non destinate a uno scopo preciso, sentiva una specie di vuoto o di discontinuità minacciosa e sinistra. Le sembrava di dover attraversare un'oscurità, con nulla tra sé e questa minaccia, e allora sorgeva l'impulso di mangiare. "L'idea della fame è che non potrai procurarti cibo, che dovrai farne a meno per un tempo imprecisato; perciò devi mangiare subito subito." Ecco allora che si riempiva di quanto più cibo potesse ingurgitare, per rimetterlo poi. Questo senso distorto del tempo sembrava collegato con la sua mancanza di un senso di stabilità interiore, come se non avesse dentro di sé un centro di gravità. Myra, una trentacinquenne che da quindici anni si abbandonava alle orge di cibo, usava un'immagine simile per descrivere il vuoto della sua vita che scatenava questi attacchi di voracità. Alternando questi attacchi con periodi in cui non si cibava affatto, il suo peso aveva oscillato tra 36 e 72 Kg. Soleva preparare elenchi particolareggiati di quello che voleva fare ogni giorno, allo scopo di "proteggermi da una cosa che mi spaventa moltissimo - spazi vuoti nella mia vita". Si rendeva conto che questo aveva a che fare col suo concetto del tempo: "Il tempo è come una cosa che bisogna attraversare proprio ora. È una fitta selva e io la debbo attraversare. Ogni qualvolta vi sono degli spazi nella selva, io non so come fare per passarvi e mi spavento, mi spavento tremendamente. Gli spazi indefiniti mi fanno una paura terribile. Vivo la mia vita in modo da evitare di doverli affrontare". Appena aveva davanti del tempo vuoto, si precipitava al più vicino ristorante o rosticceria, per rimpinzarsi, non importa quale fosse l'ora della notte. Questo senso di "spazio" andava di pari passo con la paura di essere sola in casa senza niente da fare. Sedersi a leggere un libro o guardare la televisione non valeva a proteggere questa donna dal senso terrificante di uno spazio vuoto davanti a lei. Queste storie di una tragica invalidità cronica di cui soffrono queste donne dimostrano che
l'anoressia mentale è qualcosa di molto più complesso dell'osservanza assurda di una dieta. Il suo vero inizio si trova nel bambino che partecipa alla vita passivamente e assorbe le cose del mondo circostante senza integrarle in modo attivo. Superficialmente il rapporto con i genitori si presenta affettuoso; in realtà è troppo stretto, privo della necessaria separazione, individualità e differenziazione. Quest'armonia viene raggiunta attraverso un eccessivo conformismo della figlia, la quale si adatta sempre, fa sempre ciò che ci si aspetta da lei e il prezzo di tutto questo è la rinuncia a un progresso attivo verso lo sviluppo di una autonomia interiore. Visto che le cose sono andate tanto bene durante l'infanzia, i genitori si aspettano che lo sviluppo "normale" continui; mentre si avvicina l'adolescenza, prevedono una maggiore "indipendenza", ma un'indipendenza come la intendono loro. Riesaminando lo sviluppo, i genitori diranno, con un'aria di autorecriminazione, di riconoscere ora il loro errore, cioè l'avere mancato di infondere alla figlia l'indipendenza. Quando un'affermazione positiva del proprio io diventa inevitabile per la giovane, allorché non è più opportuno l'atteggiamento di adattarsi sempre, si palesano le gravi deficienze della personalità di fondo. La perdita ponderale serve a ottenere grandi vantaggi; i genitori sono ricondotti a essere protettori, a non essere esigenti verso la figlia che per la prima volta si rende conto di avere un potere e di dominare. Molte anoressiche spiegano perché restano aggrappate alla loro malattia, dicendo semplicemente: "Se stessi bene non mi presterebbero attenzione", oppure "non mi amerebbero più". La tragedia è che proprio quell'attenzione che queste malate esigono rafforza il vecchio modello abnorme e rende impossibile lo sviluppo di una vera indipendenza. Quanto più a lungo si protrae la malattia, quanto più l'individuo si isola, tanto maggiore è il pericolo che egli diventi completamente assorbito in se stesso alla mercé di ruminazioni bizzarre e abnormi. Se non ha luogo un'interruzione significativa, lo stato anoressico cronico può durare per sempre. Ho visto donne di quaranta e cinquant'anni difendere con fierezza le loro figure scheletriche, ripetendo sempre le stesse frasi: che non possono mangiare, perché si sentono piene. Il quadro si complica in quanto l'inedia provoca gravi disturbi fisiologici che fanno della malattia una condizione che si auto-perpetua. L'organismo affamato è come un sistema chiuso che continua a funzionare indefinitamente a un livello ridotto. L'inanizione ha anche una marcata influenza sulle funzioni psicologiche; così rimangono in essere i concetti distorti di cui si servono le anoressiche, e il continuo rimuginare sul cibo. Non c'è ragionamento psicologico nel corso di una normale psicoterapia che possa dimostrarsi efficace fino a quando le reazioni psicologiche di base sono determinate dallo stato d'inedia. Affinché il trattamento sia efficace, occorre che si compiano modificazioni e correzioni in svariati campi: lo stato di nutrizione abnorme dev'essere migliorato, bisogna chiarire e sbloccare i modelli stagnanti di interazione familiare; soprattutto occorre che maturi il concetto di sé, schiavistico e indifferenziato. La psicoterapia dev'essere un processo inteso a incoraggiare lo sviluppo della personalità di base, liberandola dal timore di prendere le distanze dal rapporto troppo stretto con i genitori. Capitolo sesto Correzione del peso All'età di sedici anni, Willa passò un'estate solitaria in città, avendo rifiutato di andare con i genitori nella casa di campagna in riva a un lago, e tenendosi anche lontana dalle amiche di prima. Durante il periodo degli esami il suo peso era salito a 45 Kg; ritenendo di dover essere più snella, decise di calare a poco più di 40 Kg. Già da qualche anno la preoccupava il bisogno di tenere sotto controllo il proprio peso e sapeva che sarebbe stato difficile; lo stare a dieta l'aveva sempre fatta soffrire. Con grande meraviglia si accorse invece che era facile dimagrire, tanto facile da farle temere che avrebbe continuato a calare. Allo stesso tempo era felicissima di esservi riuscita così agevolmente.
Tanto era contenta del risultato che limitò il suo consumo ancora di più e imparò il trucco di godersi al massimo ogni boccone. Mangiava soltanto i suoi piatti preferiti, in quantità minime. Inoltre cominciò un programma intensissimo di attività fisica, camminando e correndo senza fine, facendo ginnastica la sera e dormendo sempre di meno. Si dette anche al ballo, pur non avendone la forza, ferissima della sua incredibile apertura di gambe. E intanto continuava a dimagrire. La vita familiare si ridusse a continui litigi e discussioni nell'intento di farla mangiare. Sempre più debole, la ragazza sentiva che qualche cosa non andava, che si stava distruggendo con le proprie mani. Infine espresse il desiderio di farsi ricoverare in ospedale in una città vicina, più grande della sua. Immaginava l'ospedale come un posto dove l'avrebbero nutrita, fatta tornare alla vita e rifatta tutta nuova. "Mi vedevo in una stanza bianca, in un letto bianco, distesa e mi avrebbero portato cibi salubri." Accadde invece che la dietista le chiese che cosa le piaceva di più e quando disse gelati e torte, questo fu quello che le venne servito; lei ne era disgustata. Dimagrì ancora, fino a pesare 31 Kg. Fu presa in considerazione l'alimentazione mediante sonda e dapprima l'idea le piaceva, ma poi seppe quanto la cosa fosse penosa. Per disperazione cominciò a mangiare e le fu dato libero accesso a qualunque cosa volesse. Ogni qualvolta si sentiva tesa e ansiosa, correva in cucina e si rimpinzava di dolci e gelati, ma la disgustava il fatto che non fosse il nutrimento salubre, rivitalizzante da lei sognato. Il personale dell'ospedale non capiva il suo desiderio di cibi salutari; erano semplicemente contenti che aumentasse di peso così rapidamente. Dopo meno di due mesi fu dimessa, "notevolmente migliorata" e con un peso di 43 Kg. I genitori la portarono a casa esultanti; tutti erano felici, tranne Willa, la quale sentiva di aver perduto qualsiasi padronanza sul suo cibarsi e continuava ad abbandonarsi a orge alimentari irrefrenabili, seguite da vomito provocato. Quando, dopo meno di due settimane, il suo peso era calato di quattro chili e mezzo, fu ricoverata in un altro ospedale, dove fu sottoposta a un programma di modificazione comportamentale: se un giorno il suo peso non aumentava della cifra prescritta, le venivano somministrati tre pasti mediante sonda. Nel giro di tre mesi il suo peso era salito a 47 Kg ed era stata dimessa "notevolmente migliorata", sebbene fosse caduta in preda a una seria depressione, perfino con pensieri suicidi. La costrizione a rimpinzarsi contro la sua volontà l'aveva umiliata e tornò alle orge alimentari seguite da vomito provocato. Veniva controllata regolarmente da un medico al quale soleva presentare il peso richiesto di 41 Kg, mangiando e bevendo quantità enormi prima di presentarsi nel suo studio; appena era stata pesata faceva in modo di rimettere tutto quanto aveva ingerito. Continuò a frequentare la scuola, ottenendo ottimi voti, e a dedicarsi a molte altre attività. Quando venne per il consulto, di lì a un anno, era riuscita a far calare il suo peso a 33 Kg ed era disperatamente infelice. Questa storia vale a illustrare che per la terapia dell'anoressia mentale non basta provocare un aumento ponderale; la correzione del peso corporeo deve far parte di un'impostazione terapeutica integrata. Occorre spiegare alla paziente - e ai suoi familiari - che, malgrado le apparenze, i cardini della malattia non sono il peso e l'aspetto, bensì i dubbi interiori e la mancanza di fiducia in sé. Tuttavia, se si vuole aiutare le malate a risolvere questi problemi interiori, bisogna che l'organismo sia in una condizione migliore. La paziente è di solito terrorizzata all'idea di dover ingrassare ed è importante darle una spiegazione significativa del perché una nutrizione più adeguata è una premessa essenziale se si vuole aiutarla a comprendere i suoi problemi psicologici. Bisogna anche rassicurarla che le si darà una buona dieta in quantità tali da proteggerla da un aumento ponderale troppo rapido ed eccessivo. È invece controproducente il regime troppo permissivo con assoluta mancanza di disciplina nel mangiare, al quale era stata sottoposta Willa. Eppure, molte altre pazienti raccontano di aver sperimentato questo modo di cibarsi senza alcuna disciplina, specie quelle che sono state sottoposte a un programma di rialimentazione mediante modificazione comportamentale. Dalla prima descrizione di questa malattia, poco più di un secolo fa, si è continuato a dibattere il problema di come riuscire nell'impresa in apparenza impossibile di somministrare cibo a una paziente caparbiamente decisa ad affamarsi. La discussione si è allargata al tipo di alimento da presentare, come somministrarlo, dove fare questo tentativo e quali medicamenti utilizzare. Gli scritti su questi temi spesso riflettono una frustrazione disperata, un senso impotente di essere coinvolti in una lotta tra volontà contrapposte. I principi fisiologici sono semplici: aumentare
l'apporto alimentare e diminuire l'attività di queste ragazze cachettiche e senza requie. La questione è come persuadere, indurre coll'inganno o con promesse di ricompensa, o costringere una paziente recalcitrante a fare ciò che è decisa a non fare e di riuscirvi senza causare ancora altri danni psicologici. I vantaggi o meno dell'ospedalizzazione sono stati oggetto di ampie controversie. È invalsa la tradizione secondo la quale sarebbe preferibile trattare queste pazienti lontano dalle loro famiglie. La decisione in merito dipende da molte circostanze individuali: l'età della paziente, la gravità del dimagrimento e delle condizioni generali, la durata della malattia, il clima emozionale della famiglia, nonché la qualità, l'esperienza e la filosofia terapeutica dell'ospedale disponibile. Brevi ricoveri in reparti privi di un'esperienza specifica nel trattamento dell'anoressia rischiano di creare tanti problemi quanti ne cercano di risolvere. Il personale non è meno impotente e inconseguente della famiglia nell'affrontare gli inganni e i sotterfugi di queste ammalate, e tende a reagire con ansia, frustrazione e rabbia al loro comportamento di sottile prepotenza. Questo vale tanto per reparti di medicina quanto per quelli psichiatrici e perciò il soggiorno in ospedale può essere caratterizzato da situazioni di frenetica emergenza non diverse da quelle che lo hanno reso necessario. Molte volte la paziente mangia e aumenta di peso pur di uscire dall'ospedale, per poi dimagrire di nuovo. Se un'infermiera che presta servizio di giorno riesce a elaborare un atteggiamento di comprensione per i bisogni della paziente, accade assai di frequente che l'infermiera di notte guasti tutto, minacciando gravi conseguenze se la malata non segue le sue direttive. D'altro canto, se infermiere e dietiste hanno esperienza specifica e mostrano una comprensione cordiale e coerente per le sofferenze della giovane, l'aumento ponderale nell'ambiente ospedaliero può diventare un'esperienza benefica e un vero aiuto verso la riconquista della salute, oltre a interrompere la tensione che può aver raggiunto il diapason del panico nella famiglia. L'allontanamento da casa può prendere varie forme. Alcune delle giovani da me osservate erano state mandate in scuole convitto e se là non trovano assistenza psichiatrica, la loro condizione rischia di aggravarsi. Nemmeno il college universitario offre la via della guarigione; al contrario, molte giovani sono diventate anoressiche se l'andare al college è stata la prima separazione dalla famiglia. D'altro canto, per le pazienti che sono in cura psichiatrica, il dormitorio del college universitario è un ambiente idoneo: non si è isolati come quando si vive soli in un appartamento; c'è compagnia, ma non invadente come quella familiare. Se nel dormitorio ci sono anche altre anoressiche, si formano interessanti rapporti che all'inizio possono essere di rivalità. Ma, a mano a mano che le loro condizioni migliorano, queste giovani si sostengono e si aiutano a vicenda a trovare vari modi in cui affrontare la vita in maniera più onesta e indipendente. Date circostanze appropriate, una terapia di gruppo può risultare utile. Di fronte a un progressivo declino delle forze e per pazienti gravemente emaciate il ricovero diventa una necessità assoluta in quanto misura intesa a salvare la vita dell'ammalata. La minaccia acuta alla sopravvivenza può non derivare soltanto dal dimagrimento estremo, ma anche da seri disturbi del ricambio elettrolitico, specie nelle pazienti che ricorrono al vomito, ai lassativi e ai diuretici per mantenere il proprio peso al livello più basso possibile. Insistono a continuare nell'uso di questi metodi anche dopo essersi dovute convincere con sofferenza delle conseguenze disastrose. Negli stati cronici si è spesso costretti a ricorrere a misure eroiche per ripristinare il bilancio elettrolitico mediante fleboclisi. Un esempio della perdita acuta e minacciosa di elettroliti è offerto dal caso di Yvonne, presentatasi per la terapia all'età di diciotto anni. La giovane viveva nel dormitorio di un college universitario, era malata da tre anni e dava colpa del suo rifiuto di cibarsi ai continui litigi con la madre, che insisteva a sorvegliarla. Promise che avrebbe mangiato, essendo ormai affidata a se stessa ed era sicura di riuscirvi da sola: avrebbe mangiato le giuste quantità. Infatti lo fece, ma con risultati catastrofici e che per poco non furono esiziali. Essendo aumentata di due chili e mezzo nel giro di due settimane, si allarmò moltissimo e prese lassativi e diuretici a manciate, col risultato di disidratarsi gravemente e provocare quasi un collasso. Ricoverata
d'urgenza in ospedale con un peso corporeo di 29 Kg, disturbi gravi della circolazione e livelli elettrolitemici abbassati, fu trattata con fleboclisi di soluzioni di elettroliti e glucosio. Quindi le fu dato il normale vitto ospedaliero. L'internista le consigliò di restare in ospedale fino a quando il suo peso avesse superato i 36 Kg, al che la giovane reagì con ansia gravissima e rabbiose proteste: "Vuole che prenda a odiarmi?" Fino a quel momento il suo atteggiamento verso la terapia psichiatrica era stato di una certa condiscendenza: lei, sosteneva, non ne aveva veramente bisogno, ma era disposta a collaborare. L'esperienza di un violento odio verso se stessa fu come l'avvio di un atteggiamento più significativo verso la terapia: anche lei era in grado di capire che una persona che si odia per essere aumentata di qualche chilogrammo deve essere molto insicura e avere una scarsissima opinione di sé. Esperienze allarmanti di questo genere mi hanno persuasa che il peso delle pazienti dev'essere al di sopra del livello di guardia se si vuole attuare la terapia fuori dell'ospedale. Altrimenti il disagio e l'ansia dello psicoterapista incidono negativamente sull'efficacia del trattamento e il fatto che il pensiero della paziente ruota costantemente intorno al cibo - cosa, questa, caratteristica dello stato d'inedia - rende praticamente impossibile l'esplorazione dei fattori dinamici di rilievo. Per giunta, in questa condizione di inanizione estrema, le anoressiche vivono in un tale stato di isolamento sociale che mancano del tutto le esperienze interpersonali che la psicoterapia deve scandagliare. Quanto al peso cui si deve mirare, sembra che vi sia un certo livello critico al di sotto del quale l'influenza tossica della malnutrizione genera e perpetua uno stato mentale abnorme. Il valore esatto di questo peso critico dipende naturalmente dall'altezza e dalla costituzione della paziente. In genere si aggira sui 41-43 Kg. Pur essendo ancora di gran lunga inferiore alla norma, questo peso è compatibile con una funzione psicologica più normale e permette di iniziare l'esplorazione dei problemi psicologici importanti e significativi. Nella mia opera di consulente ho visto molte pazienti sottoposte a trattamento ambulatoriale, di solito di orientamento psicanalitico, per periodi fino a cinquesei anni, mentre si era lasciato che il loro peso si mantenesse a valori bassissimi, per esempio 27 Kg. Per lo più si era trascurata anche l'esplorazione dei problemi all'interno della famiglia. Pur sottoposte a terapia, queste pazienti erano scivolate nella triste condizione dell'anoressia cronica. A mio modo di vedere, il programma essenziale di correzione del peso dovrebbe essere nelle mani di un internista o pediatra che abbia un rapporto aperto e valido di collaborazione con uno psichiatra. Le ragioni per cui questo è desiderabile sono numerose: tra l'altro in assenza di un tale rapporto le pazienti tenteranno di mettere l'uno contro l'altro, essendo questo il metodo che hanno sempre usato a casa, istigando il padre contro la madre e viceversa. Ugualmente necessarie sono la mutua comprensione e l'armoniosa interazione col personale d'assistenza e con gli esperti della nutrizione. È più importante creare un ambiente in cui possa svolgersi la rialimentazione che non decidere nei particolari quello che va somministrato. La terapia a domicilio è fattibile soltanto se il livello dell'ansia nei genitori non è troppo elevato e se anche loro sono sottoposti a terapia, individualmente o come coppia o sotto forma di terapia di famiglia. Se la perdita ponderale è grave, io preferisco che il peso sia corretto in un reparto di medicina o di pediatria. Molte anoressiche si angosciano terribilmente se debbono mangiare cibi solidi; impiegano ore per prendere quantità infinitesime, oppure rifiutano semplicemente di mangiare. Spesso conviene prescrivere un qualche preparato ricco di proteine e calorie, che possa essere bevuto e fornisca un apporto energetico giornaliero di 1.400-1.800 calorie, quale nutrimento base. Un supplemento nutritivo di questo tipo va offerto con la spiegazione che libera la paziente dall'ansia di dover decidere quando, quanto e che cosa mangiare; invece di dover scegliere, può bere la quantità prescritta in piccole dosi a intervalli ravvicinati. Questi preparati sono ugualmente utili in ospedale e per la terapia ambulatoriale. In aggiunta si offriranno cibi normali, che debbono essere saporiti e vari. Dover scegliere un pasto completo da sé, è un compito troppo tormentoso per un'anoressica, che passerà ore nella scelta e finirà per combinare un pasto del tutto inadeguato. È più efficace scegliere un pasto per lei, tenendo conto delle preferenze e delle avversioni individuali. Tutte concordano nel dire che debbono "reimparare" che cosa e quanto mangiare.
In passato, quando una malata era irremovibile nel suo rifiuto di nutrirsi, l'unico rimedio era l'alimentazione mediante sonda, sempre considerata un metodo assai spiacevole, ma spesso l'unica maniera per salvare la vita di una paziente. Nel loro atteggiamento di autopunizione, molte anoressiche accettano l'alimentazione attraverso la sonda, alcune la chiedono perfino, perché così ricevono il nutrimento senza doversi sentire colpevoli. Altre la trovano rassicurante, perché dà loro l'impressione che il personale e il medico si curano veramente di loro se si prendono la pena di nutrirle. Un nuovo metodo per nutrire un paziente incapace di prendere cibo per bocca o l'anoressica che si rifiuta di farlo è stato elaborato in medicina postoperatoria: l'iperalimentazione endovenosa. In certe condizioni non è soltanto utile nel trattamento dell'anoressia, ma può addirittura salvare la vita dell'ammalata. Si evitano così tutte le discussioni circa il cibo da prendere o non prendere per bocca e si stabilisce esplicitamente che il miglioramento dello stato di denutrizione è un problema precipuamente medico. Si eliminano inoltre i mezzi fraudolenti di espellere il cibo vomitando o ricorrendo ad altri trucchi, sebbene anoressiche piene di risorse trovino modo anche di intralciare il flusso della fleboclisi oppure di chiudere addirittura tutta l'apparecchiatura. Ma, correggendo piuttosto rapidamente lo stato di denutrizione, questo metodo rende le pazienti più accessibili alla psicoterapia. Contemporaneamente si offrono cibi solidi, i quali dovranno sostituire poco per volta l'alimentazione endovenosa. Prima di essere dimessa, la paziente, il cui stato di nutrizione sarà ormai notevolmente migliorato, dovrebbe essere in grado di mantenere stabile il proprio peso con una dieta liberamente scelta. Nel decidere un metodo di rialimentazione, occorre riesaminare tutta la situazione. Nell'esempio che riportiamo qui di seguito l'alimentazione endovenosa è stata scelta in considerazione del fattore tempo. Zandra era stata esplorata durante un ampio consulto l'anno precedente; mentre era ricoverata in ospedale aveva guadagnato un poco di peso, ma molto lentamente, appena sette chili e mezzo in due mesi; aveva risposto bene a un tentativo di psicoterapia e aveva deciso di sottoponisi non appena finita l'università. Ma il suo peso era calato al di sotto dei 36 Kg. In precedenza si era notato come la grave denutrizione la rendesse eccessivamente rigida nelle limitazioni che si autoimponeva e come incidesse negativamente sulla terapia. La ragazza si convinse della necessità di un miglioramento del suo stato di nutrizione e si dichiarò disposta a farsi ricoverare per l'alimentazione endovenosa, supplementando le fleboclisi con cibo normale in quantità superiori a quelle da lei consumate in precedenza. Aumentò di 9 Kg in poco più di due settimane, senza lamentarsene o cadere in preda a depressione, si presentò molto più rilassata e comunicativa, ammettendo di sentirsi più forte e più vigile e contenta di essere diventata più carina. A mano a mano che il suo peso aumentava, le riusciva più facile prendere cibi normali; cibarsi provocava conflitti meno gravi di prima, mentre, durante un precedente periodo di rialimentazione, ogni boccone era stato il frutto di una difficile decisione ed aveva provocato un senso di colpa. Cominciò a parlare più apertamente del suo atteggiamento contraddittorio verso il proprio peso e il mangiare, di come si era sentita forte perché faceva quanto e più delle altre, pur essendo tanto magra. Per un certo tempo sembrava che riuscisse a liberarsi delle sue vecchie inibizioni e il suo peso si mantenne costante per alcune settimane dopo che era stata dimessa, ma poi vi fu una nuova lenta perdita e dopo un anno era calata a 41 Kg. Fu tuttavia possibile svolgere un lavoro psicoterapico costruttivo durante questo periodo e gradualmente la giovane formò un atteggiamento più realistico verso il proprio corpo e le necessità fisiologiche. Pur essendosi sempre espressa in termini di disponibilità alla collaborazione, Zandra era vissuta col convincimento che quanto dicevano i grandi e la gente autorevole non aveva veramente importanza; lei sapeva che per lei le cose stavano diversamente, il che valeva soprattutto per il mangiare e l'aumento ponderale. Era poi aumentata di oltre un chilo durante una settimana serena, quando aveva mangiato con appetito e secondo il proprio fabbisogno. Fu allora che per la prima volta parlò apertamente del suo atteggiamento, di come si fosse sentita sicura nella sua condizione anoressica, convinta che il suo organismo non avrebbe accettato un in più di nutrimento, poiché lei nel suo intimo era contraria a essere grassa. Aveva sentito un orgoglio perverso per essere
differente, capace di fare a meno del cibo, ma non aveva parlato di questo piacere segreto perché non voleva vantarsi. L'imbarazzava il fatto di ammettere che andava fiera di qualsiasi cosa, al pari di un seguace della setta dei fondamentalisti che rischia di non essere umile se s'inorgoglisce della sua umiltà. La nutrizione endovenosa aveva spezzato un ciclo di regressione; il progresso sarebbe stato molto più lento senza il miglioramento del peso corporeo. Ci volle più di un anno prima che Zandra raggiungesse la possibilità di essere più permissiva o, nel linguaggio suo, "trasandata", verso se stessa, un tempo relativamente breve dopo quasi sei anni di malattia anoressica. Negli ultimi anni si sono vantati con eccessivo entusiasmo i meriti di un nuovo metodo per ottenere l'aumento ponderale, che rappresenterebbe la cura completa dell'anoressia mentale. Noto col nome di modificazione comportamentale, il metodo vede nel rifiuto del cibo una risposta, frutto di apprendimento, la quale dev'essere cambiata, il che si ottiene attraverso un sistema di premi e punizioni. L'aumento ponderale è premiato o "rinforzato positivamente", attraverso il permesso di svolgere un'attività piacevole; il mancato aumento viene punito creando una situazione sgradevole. Nel caso di Willa si praticava la somministrazione di cibo attraverso la sonda gastrica tre volte al giorno quando non era aumentata di peso. Oggi è invalsa la consuetudine di mettere una paziente appena ricoverata a letto, in una stanza singola, senza telefono, televisione o possibilità di comunicare con altri pazienti o coi familiari. Si stabilisce un sistema di punti, dove ogni unità "concordata" di aumento ponderale è premiata attraverso la possibilità di svolgere una qualche attività desiderabile. Se le condizioni sono sufficientemente spiacevoli, la paziente farà qualunque cosa pur di sfuggire all'ospedale. I partigiani della modificazione comportamentale sostengono essere questo metodo superiore agli altri, in quanto ottiene l'aumento ponderale più rapido; in un certo senso è infallibile. Probabilmente queste asserzioni sono esatte, ma sono anche la spiegazione del perché il metodo provoca tante volte gravi danni psicologici. È appunto la sua efficacia ad accrescere lo scompiglio interiore e il senso di impotenza di queste giovani, le quali sentono di essere indotte con un trucco ad abbandonare le ultime vestigia di un controllo sul loro corpo e sulla loro vita. Ho visto tutta una serie di pazienti, dimesse perché "migliorate", sebbene fossero cadute in preda a depressione, perfino con idee suicide, e ormai compulsivamente dedite alle orge alimentari seguite da vomito. Una certa percentuale delle anoressiche si è sempre abbandonata a questa pratica, ma la cosa sembra verificarsi con frequenza molto maggiore in quelle sottoposte a trattamenti coattivi. Quando l'orgia alimentare seguita da vomito viene usata come sistema per mantenere stabile e basso il peso, tende a diventare un sintomo autonomo, difficile da vincere. Coll'andare del tempo, la maggior parte delle pazienti si vergogna profondamente, ma ha grandissima difficoltà a rinunciare a questo ciclo e a stabilire un controllo regolare sulla assunzione del cibo. Oggi, la modificazione comportamentale non viene più propagandata con l'entusiasmo di qualche anno fa. Seguendo i casi a distanza di tempo si è visto che l'aumento ponderale è spesso di breve durata. I reparti in cui si usa questo metodo selezionano oggi le loro pazienti, accettando soltanto quelle che si ricoverano "volontariamente" e che fanno un "contratto" in cui s'impegnano a guadagnare peso. Altri prevedono di coinvolgere le famiglie o di sottoporre le pazienti a psicoterapia. Ciò che allarma in queste pubblicazioni è che la tecnica comportamentale viene descritta nei minimi particolari, laddove alla terapia familiare e alla psicoterapia si dedicano soltanto brevi accenni, come a cose da affidare al personale ausiliario. Le impostazioni più drastiche, tra cui l'alimentazione mediante sonda, quale punizione per il mancato aumento ponderale, sembrano essere state abbandonate. I risultati terapeutici sono spesso in stretto rapporto con la durata della malattia. In pazienti giovani che abbiano genitori disposti a collaborare e che vengano trattate tempestivamente dopo l'insorgenza della malattia, il ritorno a un peso normale e a un inserimento sociale in apparenza normale può essere raggiunto in un tempo relativamente breve. Se è disponibile un'istituzione adatta, un ricovero durante il quale viene ripristinato il peso corporeo varrà ad abbreviare il
trattamento e a facilitare un lavoro costruttivo con la famiglia e con la paziente stessa. Anche nei casi blandi e di recente insorgenza questi vari fattori debbono essere integrati fra di loro. È abbastanza facile indurre un aumento ponderale a breve termine, ma questo non rappresenta una terapia adeguata e può perfino risultare dannoso. Ugualmente nocivo è il non badare al peso corporeo, come si fa talora nella terapia psicanalitica, permettendo alle pazienti di continuare nell'inedia; il risultato è uno stato di anoressia cronica. Il destino peggiore per l'anoressica, la ragione per cui tutte oppongono tanta resistenza all'aumento ponderale, è di perdere il controllo sul proprio cibarsi, "gonfiarsi come un pallone". Tutto ciò che supera il corpo emaciato con il quale si presentano per la terapia significa per loro "grasso". Lasciate senza sostegno terapeutico, molte cadono in depressione, piene di vergogna e di senso di colpa se il loro peso aumenta veramente. Fu quanto accadde ad Alice, il cui peso per tre anni aveva oscillato tra 36 e 45 Kg, poco davvero visto che era alta un metro e 75 cm. Dapprima era stata sottoposta a un programma di modificazione comportamentale e questo, secondo lei, era il peggiore dei regimi possibili, perché nessuno badava a quello che mangiava purché il suo peso aumentasse. Si era abituata a rimpinzarsi di dolci e cioccolata alla fine della giornata, senza avere preso alcun cibo sensato. Dimessa dall'ospedale, aveva mantenuto il proprio peso intorno ai 43 Kg, perché a 45 si considerava grassa. Venne per la terapia quando si iscrisse all'università. Ci furono difficoltà fin dall'inizio. I genitori non solo l'accompagnarono al college, ma rimasero per una settimana e la ragazza si sentì ridotta allo stato di una bambina piccola. La sua compagna di stanza non aveva alcun interesse agli studi e l'unico pensiero era il suo amico. Alice si sentiva esclusa, quasi estromessa dalla propria camera. Si sforzò di seguire una dieta sensata e consultò perfino un nutrizionista. Già dopo poche settimane fu evidente che le cose non andavano per il loro verso; Alice ricadde nell'abitudine delle orge alimentari, come aveva fatto durante il precedente soggiorno in ospedale. All'inizio, l'aumento ponderale sembrava desiderabile e tutti la felicitarono per il suo migliore aspetto. Passò le vacanze con i genitori e fu ammirata per la sua buona cera, con un peso di 50 Kg. Dopo il ritorno al college sentì d'un tratto che era impossibile venire a capo della situazione con la compagna e ci fu lo scompiglio completo nel suo modo di cibarsi; correva continuamente alla drogheria e alla rosticceria, mangiando senza sosta giorno e notte. In un mese arrivò a 63 Kg, il che le dava un aspetto ben proporzionato, ma il viso mostrava il rapido incremento. Incapace di concentrarsi negli studi, cadde in preda a depressione e si abbandonò a pensieri suicidi e foschi. L'allarmava il modo in cui era venuto a compiersi questo rapido aumento ponderale, mangiando soltanto roba da spuntini. Immaginava che tutto questo cibo sarebbe penetrato nei suoi tessuti e li avrebbe resi flaccidi; così si convinse che il grasso che si portava addosso era "grasso vergognoso". Si ricoverò volontariamente in un reparto psichiatrico, onde ristabilire un controllo sul suo mangiare e trovare protezione contro gli impulsi suicidi. Entro due settimane il suo peso si stabilizzò. Ora, a distanza di un anno, è una bella donna alta, soddisfatta del proprio aspetto e alla quale l'idea di adottare un regime d'inedia è del tutto estranea. Di particolare interesse è stata la reazione di varie altre anoressiche che la conoscevano; dapprima si spaventarono nel vedere come il suo peso fosse sfuggito a qualunque controllo, ma entro breve tempo notarono che Alice non era soltanto molto più bella, ma anche di gran lunga più serena e composta. Senza attraversare a loro volta una fase così turbolenta, si sentirono incoraggiate a permettere che il loro peso raggiungesse un livello normale. Capitolo settimo Distacco dalla famiglia La patogenesi dell'anoressia mentale è così strettamente legata a modelli abnormi di interazione familiare che la terapia, per avere successo, deve sempre comprendere la soluzione dei problemi di fondo nell'ambito della famiglia, problemi che non si palesano necessariamente sotto forma di
conflitti aperti; al contrario, molto spesso alla radice del male troviamo legami troppo stretti e un coinvolgimento troppo intenso. Non esistono regole per il trattamento di questi casi, salvo una, di carattere generale: il chiarimento dei problemi familiari di fondo è parte integrante della terapia. I genitori tendono a presentare la vita della famiglia come più armoniosa di quanto non sia in verità, oppure negano addirittura l'esistenza di qualsiasi difficoltà. Tutte le anoressiche sono a tal punto ancorate alla loro famiglia da non essere riuscite a raggiungere un senso di indipendenza. Come si debba integrare il lavoro con i familiari negli altri aspetti della terapia dipende in larga misura dalle circostanze individuali. La cosa è più agevole e più facilmente accetta nei casi in cui la giovane ammalata vive ancora in casa o almeno nella stessa località della famiglia, anche se le visite al terapista possono comportare spostamenti di molti chilometri. Bernice, cresciuta in una grande fattoria dell'Ovest, era considerata una ragazza sana e felice fino ai quattordici anni; era ben fatta e aveva avuto un menarca precoce. Dopo essere stata un po' canzonata perché grassottella, quando pesava 54 Kg, si convinse improvvisamente di essere troppo grassa. Ebbe anche l'impressione che i compagni di scuola non le volessero più bene e considerassero la sua famiglia arrogante. La fattoria andava bene ed era ben nota per il suo bestiame da allevamento. Bernice cominciò a tenersi lontana dalle attività dei coetanei, con la scusa che la sua abitazione era troppo distante dalla città; allo stesso tempo si impose una dieta, mangiando sempre di meno, così che nel giro di quattro-cinque mesi il suo peso calò da 54 a 38 Kg. Quasi subito, dopo aver iniziato questo regime dimagrante, diventò amenorroica. Non si attenne alle prescrizioni dietetiche e mediche del dottore del luogo, né a quelle di uno specialista di una città più grande. Quando, circa dieci mesi dopo l'insorgenza della malattia, la vidi per un consulto, il suo aspetto era gravemente emaciato, pesava 32 Kg ed era svogliata e depressa. Malgrado la sua debolezza si era mantenuta in grande attività. Durante numerose sedute con la famiglia si cercò di mettere a fuoco la domanda: "Che cos'è che fa sentire a Bernice la necessità di sottoporsi a quest'inedia estrema pur di attirare l'attenzione su di sé?" Da bambina era stata "l'aiutante di papà", ma ora il suo posto nella famiglia era diventato impreciso e la ragazza era regredita e si era riaggrappata alla madre. Questa, a sua volta, si sentiva scarsamente valorizzata, perché una nonna molto attiva teneva ancora le redini della fattoria. Fu possibile dare alcuni semplici consigli : il padre si rivolgesse alla moglie prima che alla madre e dedicasse maggiore attenzione a Bernice, per esempio organizzando un'impresa in comune con lei almeno una sera ogni due settimane. Fu prescritta nutrizione supplementare, in aggiunta a pasti regolari. Accennai anche alla possibile necessità di un ricovero se non ci fosse stato un aumento ponderale apprezzabile entro breve tempo. A distanza di cinque settimane, Bernice era aumentata di peso e parlava con tono ottimistico dei 45 Kg che voleva raggiungere prima della prossima visita. La situazione si presentava complessivamente migliorata; la ragazza era contenta delle serate passate col padre e i due si sentivano ora molto più a loro agio quando stavano insieme. Successivamente però Bernice si spaventò, temendo di ingrassare troppo, e alla prossima visita era di nuovo dimagrita. A quell'epoca era ricominciata la scuola e la giovane disse di sentirsi di nuovo ben accetta dai compagni. Quando si accennò alla possibilità di un ricovero, Bernice pregò di poterne fare a meno per non mancare la scuola e promise di mangiare quanto doveva. Mantenne la promessa e alla successiva visita, quattro settimane più tardi, il suo peso era salito a 45 Kg. Era di ottimo umore e felice di una grande festa che i genitori avevano dato per i suoi compagni di scuola. Furono interessanti i termini in cui il padre descrisse i nuovi rapporti di Bernice con i suoi coetanei : "Sono tutti contentissimi di riaverla tra loro e le hanno fatto grandi accoglienze". A Natale Bernice sembrava tornata alla norma e da allora ha mantenuto il proprio peso a un livello desiderabile. I suoi rapporti col padre sono aperti, è meno dipendente dalla madre, va volentieri a scuola e ha molti amici e amiche. Si trattava, in questo caso, di una famiglia di larghe vedute e che non era sulla difensiva per quanto riguardava la malattia della figlia. I genitori non avevano difficoltà ad ammettere "si capisce che abbiamo i nostri problemi" e ne parlavano, ben disposti a provare un comportamento diverso. Bernice ritrovò un posto di rispetto nella famiglia; poté rinunciare abbastanza rapidamente
all'anoressia e partecipare di nuovo alle attività dei coetanei. Il padre di Celia era un alto funzionario di una ditta internazionale e la famiglia era vissuta in diversi paesi stranieri. Celia era triste e piena di risentimento per essersi dovuta separare dalle sue amiche quando la famiglia tornò negli Stati Uniti. Prese come un affronto personale anche il fatto che una delle sue nonne bevesse e il rifiuto del cibo ebbe inizio durante una visita di questa nonna. Celia, allora sedicenne, era una ragazza ben sviluppata, mestruata da diversi anni e pesava 50 Kg. Il fatto che la nonna bevesse la sconvolse al punto che minacciò uno sciopero della fame: "Se tu bevi, io non mangio". L'alcoolismo della nonna non fu vinto, ma Celia era felice quando cominciò a dimagrire a vista. Continuò a perdere peso durante tutto l'anno seguente, mentre i genitori si allarmavano sempre di più e facevano di tutto per indurla a mangiare. Alla fine, Celia prese soltanto omogeneizzati per bambini piccoli; seduta sulle ginocchia del padre o della madre pretese di essere imboccata e i genitori dovevano fare tutto esattamente a modo suo. Divenne assolutamente dipendente dalla madre, che doveva dirle tutto: quando doveva andare in bagno, quando doveva andare a letto; se non le si davano tutte le direttive, piangeva. Cessarono le mestruazioni e il peso calò a poco più di 30 Kg nel giro di un anno. Fu diagnosticata un'anoressia mentale e la ragazza fu sottoposta a terapia. Celia era in pessime condizioni, pallida, timida e sempre pronta a piangere, ma accettò di farsi ricoverare in un reparto internistico. Quando la scelta dei cibi era lasciata a lei, calava di peso e si doveva procedere all'alimentazione endovenosa. Poco per volta le proporzioni tra alimentazione endovenosa e cibo preso per bocca cambiavano e dopo sei settimane il suo peso era salito a 44 Kg. Prima di essere dimessa, mantenne il suo peso stabile per diversi giorni mangiando cibi solidi sua sponte. Da principio era talmente evasiva e parlava a voce tanto bassa che non si ottenne quasi nessuna informazione. Non faceva che bisbigliare "non so", "non c'è nulla che mi turbi" oppure piagnucolava perché si sentiva tanto colpevole. Migliorando il suo stato di nutrizione, si fece anche più comunicativa e parlò apertamente della sua infanzia. Era vissuta perennemente nel timore di non essere pari alle aspettative di suo padre, il quale voleva che eccellesse negli studi e negli sport e avesse anche successo in campo sociale. Le spiegammo che ciascuno ha il diritto di difendere la propria personalità e che, a quanto pare, il modo in cui si era svolta la sua vita aveva intralciato il suo sviluppo verso quella persona che lei era capace di diventare. Mentre la ragazza era ricoverata, i genitori e il fratello vennero tre volte per la valutazione dell'interazione familiare. La madre aveva letto qualche cosa sull'anoressia mentale ed era indignata che si parlasse di problemi nell'ambito della famiglia e di una insoddisfazione di fondo nel rapporto fra i coniugi. A suo modo di sentire non v'era mai stato nulla del genere nel suo matrimonio e l'alcoolismo della nonna era l'unico elemento di disturbo nella loro vita. Aggiunse che v'era qualcosa nei modi del marito che poteva far pensare ad alcune persone, "probabilmente tipi ipersensibili", che fosse scontento di loro. La madre si comportò in modo estremamente infantile nei riguardi del marito e lui confermò che ai suoi occhi questo era stato un grave problema: la moglie era apertamente sottomessa a lui e chiedeva continuamente di essere rassicurata. Nelle sedute con la famiglia Celia rimase dapprima terribilmente chiusa, ma poi, in risposta a incoraggiamento e incitamento, cominciò a esprimersi con maggiore indipendenza e finì per asserire apertamente che aveva sempre temuto ogni critica e non era stata sicura dell'amore dei genitori; perciò non aveva potuto comportarsi come un'adolescente. Si era isolata dai suoi coetanei durante l'anno trascorso, perché in precedenza i genitori avevano trovato da ridire sul suo ragazzo e sul gruppo dei suoi amici. Durante l'ultima seduta familiare si ebbe uno scambio aperto tra Celia e il padre in cui questi si dichiarò pronto a riconoscere il diritto della figlia a vivere secondo i propri gusti e di non essere così socievole e amica di tutti come sarebbe piaciuto a lui. La ragazza a sua volta ammise che non v'era bisogno di essere così timorosa e sottomessa com'era stata in passato. Si riconobbe che invece di vivere la propria vita si era identificata con i problemi della madre, tanto loro due si erano compenetrate a vicenda.
Celia trasse anche profitto dalle sedute di terapia individuali, in cui le fu detto che non era "male" contraddire il padre e aspettarsi che la madre si comportasse come una persona adulta. Fu incoraggiata ad ammettere di avere desideri propri e di avere bisogno d'aiuto per formulare questi. Doveva imparare che essere indulgente verso se stessa, permettersi di essere pigra o fare una cosa per il solo fatto che era divertente non erano cose riprovevoli, ma parte del normale processo del crescere di cui non era obbligata a chiedere perdono. La madre rimase estremamente riservata e intervenne poco nelle discussioni, esprimendo l'unico desiderio che le cose tornassero com'erano state prima. Ai genitori fu dato il consiglio di cercare un aiuto che permettesse loro di risolvere i problemi del loro rapporto; dovevano interagire a livello adulto, in modo che i figli avessero lo spazio per crescere e diventare più indipendenti. Il fratello minore fu un partecipante attivo e si impegnò ad aiutare la sorella a inserirsi nella nuova comunità, dove lui si trovava benissimo. Celia si mantenne in contatto con me per iscritto, parlando di nuove amicizie, birichinate e litigi. Non sembrava avere difficoltà nel cibarsi; dopo sei mesi pesava 47 Kg. Valutando questi sviluppi retrospettivamente, si potrebbe dire che la nonna alcoolizzata fosse un'afflizione dimostratasi alla fine benefica, in quanto offrì a questa ragazza timida e impaurita l'occasione per protestare e rendere palese che non tutto era perfetto come la madre mite e debole aveva cercato di far credere. Le famiglie delle anoressiche variano nella loro capacità e disposizione ad affrontare i problemi di fondo. La madre di Celia si sforzava di restare aggrappata a un sogno infantile di perfezione, mentre il marito era più realistico nella sua valutazione della situazione e insistette a cambiare le cose in modo che la figlia potesse liberarsi del legame aggrovigliato con la madre di cui era prigioniera. Nel caso di Dale, la madre dominava la famiglia con la sua negazione di qualsiasi difficoltà e con una stridente pretesa di perfezione. Quando, alla fine, la facciata andò in frantumi e vennero a galla i veri problemi, reagì con una depressione. La famiglia Kaplan aveva attraversato metà degli Stati Uniti, viaggiando dal Maine al Texas, per un consulto. Ma avevano poco da dire, salvo insistere che non v'era assolutamente nulla che non andasse e che non sapevano spiegarsi la malattia. Come per ogni consulto, avevo chiesto a ciascun membro della famiglia di scrivermi una lettera in cui dicessero che cosa, a loro avviso, avesse causato la malattia. Il padre e le due figlie (Dale, la maggiore, era l'anoressica; aveva sedici anni) scrissero lettere qualunque di circa una pagina. La madre mandò una relazione dattiloscritta di sette pagine a spazio uno, in cui esponeva con dovizia di particolari tutti i dati clinici, ripetendo infinite volte che non v'era alcun problema di carattere emozionale. La sorella minore disse abbastanza apertamente come non tutto fosse a posto: "Mi fa diventar matta il vederla nascondere il cibo, darlo di nascosto al gatto e poi non avere la forza di salire sull'autobus la mattina. Mi chiedo: 'Perché deve fare questo alla nostra famiglia?' ". L'aveva sconvolta una compagna di scuola, domandandole: "Quand'è che morirà tua sorella?" e da allora aveva cercato di aiutare e capire Dale - "ma è duro". Intervistare questa famiglia è stato veramente un allenamento alla frustrazione. Qualunque domanda si ponesse o qualunque traccia si cercasse di seguire, la risposta era sempre la stessa: "Non lo so", oppure qualche cosa come "Ce lo dica lei". Da quanto era stato loro detto, stavano consultando la massima autorità in materia e si aspettavano che fosse questa a dir loro quello che non andava e che cosa dovessero fare. Le domande potevano riguardare le pratiche usate nell'allevare le bambine, problemi del passato e ansie presenti; se vi fu una risposta, veniva immediatamente modificata con l'aggiunta "ma non è naturale questo?" o "non è questo che fanno le persone normali?" Insistevano con enfasi sul loro accordo, su come tutto fosse stato perfetto prima della malattia, senza alcuna preoccupazione e su come tutti collaborassero per aiutare Dale con questa terribile anoressia. Tutti gli sforzi intesi ad aiutarli a mettere a fuoco ciò che veramente era successo venivano ignorati con un: "Non sappiamo davvero, non c'è stata difficoltà di sorta". Quando si cercò di attirare l'attenzione sul fatto che Dale era dimagrita di sedici chili prima che la cosa fosse notata, la madre, di professione infermiera in una scuola, disse: "È successo così di nascosto, nemmeno le sue amiche se n'erano accorte". Questa maniera di non rispondere
direttamente, ma citare il modo in cui qualcun altro ha descritto la situazione, è tipico dei familiari delle anoressiche. La madre sosteneva anche che Dale, che a quell'epoca pesava meno di 32 Kg, mangiava più della sorella. "Lei resterebbe stupita di quanto mangia, mangia più di quel che lei crede." La madre agiva da portavoce della famiglia e gli altri concordavano con quanto lei diceva. Uno spiraglio si aprì, quando chiesi se Dale avesse mai fatto una marachella. Ricordavano un solo incidente e cioè che una volta la ragazza non aveva fatto vedere a casa una nota della scuola firmandola lei stessa. Considerai questo il segno di un'atmosfera di intimidazione in casa, se una bambina non osava far sapere che aveva difficoltà a scuola. Ma la cosa non ebbe alcun seguito; non ricordavano nessun altro episodio. Qualunque argomento si toccasse lo presentavano in un modo sentimentale. Usavano quasi le stesse espressioni quando parlavano di se stessi e l'uno dell'altro: erano tutti animati dalle migliori intenzioni e tutti facevano del loro meglio. Mancava quasi del tutto la manifestazione spontanea dei sentimenti. Detti perciò alcune semplici direttive nell'intento di scardinare questo modello eccessivamente rigido di interazione. Uno dei compiti fu che ciascuno doveva parlare esclusivamente in nome proprio, nessuno doveva spiegare ciò che l'altro intendeva dire. Se queste istruzioni sono state seguite, è stato soltanto in minima misura: poiché non v'era nulla che non andasse, non c'era bisogno di cambiare alcunché. Tornarono a casa, lamentandosi di non essere stati ascoltati a dovere, di non essere riusciti a convincermi che la malattia non aveva nulla a che fare con problemi nell'ambito della famiglia, che tra loro tutto era perfetto. Circa un mese o due più tardi, Dale finalmente si fece sentire, dicendo chiaro e tondo, con scandalo e sorpresa di tutti, che non tutto era perfetto, che avevano nascosto i problemi, e parlando esplicitamente di cose che fino allora erano state tabù. La madre cadde in preda a depressione e quindi fu in grado di esprimere il suo senso di rabbia "per quello che Dale ci ha fatto". In una parola, ciò che Dale aveva fatto era di portare alla luce del sole i conflitti matrimoniali la cui esistenza la madre era stata assolutamente incapace di ammettere. Ora temeva che il suo matrimonio naufragasse e parlava anche, accusandosi, di cose che avevano fatto e di cui ora sentiva che erano state sbagliate. Il risultato fu un'evidente maggiore indipendenza di entrambe le figlie. Dale cominciò a riprendere peso e, dopo aver assolto il liceo, fu in grado di mettere in atto i suoi progetti per la propria carriera. I genitori rimasero insieme e riuscirono a venire a capo dei loro problemi da persone adulte, non più negandoli né cercando di dare l'impressione della superperfezione. Non è raro che nei genitori insorgano sintomi di depressione quando la figlia anoressica migliora e si allontana, fisicamente o psicologicamente, dal guscio troppo chiuso della casa. Le tre ragazze di cui abbiamo parlato sopra vivevano ancora in famiglia all'epoca del trattamento. In complesso, le anoressiche più giovani sono più facili da trattare di quelle più vecchie, ma lavorare con la famiglia è ugualmente importante per quelle più grandi, quelle cioè ormai diciotto o diciannovenni o che hanno varcato la ventina e vivono già fuori casa. Nei genitori di queste si riscontrano variazioni ancora più ampie per quanto riguarda la disponibilità a collaborare. La negazione della malattia, caratteristica intrinseca dell'anoressia mentale, è tipica anche delle famiglie, i cui sforzi di negare qualsivoglia difficoltà possono raggiungere gradi estremi "l'anoressia" è la causa cui vengono attribuite tutte le difficoltà. In queste famiglie, tutti tendono a parlare non per sé, ma in nome di un altro membro, sempre modificando, correggendo e svalutando ciò che un altro ha detto. Si comportano come se ciascuno sapesse leggere nella mente dell'altro, spiegando ciò che quello voleva dire veramente. Questi tratti si ritrovano con vari gradi di intensità nelle diverse famiglie, ma il loro risultato complessivo è la negazione completa della malattia o di qualunque bisogno di cambiamento. Le famiglie delle pazienti giovani, malate da poco, sono più pronte a lasciarsi coinvolgere nella terapia in confronto a quelle delle pazienti più vecchie. Dopo che la malattia è in atto da qualche tempo, quando l'ansia acuta e la frenetica preoccupazione circa i suoi pericoli sono state acquetate, i genitori tendono a considerarla un fatto vergognoso, del quale danno la colpa alla paziente. Pur infelici per quanto accade, molti genitori si rifiutano in modo categorico di essere "colpevolizzati", termine, questo, con cui reagiscono al suggerimento di aver bisogno di terapia essi stessi. Se non ci
si occupa dei problemi della famiglia e se i genitori sono motivati da rabbia e ansia nei loro rapporti con la figlia anoressica, ne risulterà una situazione sempre più turbolenta con una frenesia di mutue accuse. Beninteso, non è una situazione semplice: la ragazza anoressica è in grado di dominare tutta la casa con le sue pretese petulanti, col rifiuto di cibarsi o la minaccia di suicidio, e non si fa nulla per aiutarla a raggiungere un senso di sicurezza interiore e una vera indipendenza. Non basta consigliare i genitori di non mostrare interesse per quel che mangia o non mangia la giovane, o, al contrario, dire loro di sorvegliare la sua alimentazione. L'importante è che si riconoscano i modelli basilari di interazione e che la famiglia accetti l'aiuto inteso a cambiare questi modelli. Negli ultimi anni la terapia di famiglia si è guadagnata un certo posto, quale tecnica terapeutica a sé stante; sono state pubblicate relazioni entusiastiche da consultori di psicologia infantile, in cui si propone la terapia di tutta la famiglia assieme quale trattamento d'elezione. Secondo la mia esperienza, questo metodo dà risultati lusinghieri nel caso di pazienti abbastanza giovani e relativamente sane dal punto di vista emozionale, mentre nei casi con grave deficit nello sviluppo della personalità la terapia familiare è una componente necessaria e importante, ma il lavoro principale dev'essere svolto attraverso la psicoterapia individuale. Genitori bene informati e che non sono troppo sulla difensiva, decideranno loro sponte di sottoporsi a trattamento. La madre di Edith era caduta in preda a depressione quando era insorta l'anoressia nella figlia, si rese però conto ben presto che la depressione era dovuta più ai suoi problemi coniugali, fino allora non ammessi, che alla malattia di Edith. Si era perciò sottoposta a trattamento e il terapista l'aveva molto aiutata, incoraggiandola ad aggrapparsi meno alla figlia e aveva preso disposizioni per il trattamento di Edith, la quale ebbe difficoltà ad accettare l'atteggiamento meno possessivo della madre. La ragazza iniziò la terapia con la convinzione di aver abbandonato i familiari, di essere stata come un genitore nell'ambito della famiglia e che, mancando lei, i conflitti sarebbero scoppiati e la famiglia sarebbe crollata. Quando, durante le vacanze di lì ad un anno, si accorse della maggiore indipendenza della madre, ridiventò più infantile e esigente, lamentandosi che "loro" l'avevano ridotta alla condizione di una bimbetta. In verità l'offendeva l'aver perduto il ruolo di intermediaria indispensabile fra i genitori. È lecito dubitare che questi problemi si sarebbero chiariti cosi rapidamente se la madre non si fosse sottoposta al trattamento. Certe famiglie si rifiutano recisamente di lasciarsi coinvolgere nella terapia. In alcuni casi la causa è il timore che portare i problemi in superficie possa essere più sconvolgente che giovevole. In una situazione del genere il padre disse esplicitamente che cambiare il suo modo di vita rischierebbe di riattivare problemi di cui sentiva di essere venuto a capo con successo. Per giunta, le possibilità di terapia nel luogo in cui abitavano erano inadeguate. La figlia anoressica fu mandata per un lungo ricovero in un ospedale noto per la sua specializzazione nella terapia di questa malattia. Suo malgrado, il padre si vide indotto poco per volta a rivalutare la vita familiare. La terapia di questa ragazza fu coronata da successo, sebbene i genitori non fossero contenti della decisione di lei di rimanere sulla costa est degli Stati Uniti invece di tornare alla loro casa nel Midwest. In un'altra famiglia le difficoltà insorte durante i ritorni a casa della figlia anoressica furono utilizzate per chiarire i fattori di fondo, attraverso un onesto confronto tra la paziente e sua madre. Questa, che abitava in un centro privo di adeguate strutture psichiatriche, venne più volte per discutere i suoi problemi. Durante le visite della figlia, Flora, prese appunti circa le cose che la turbavano, imponendosi di non manifestare le sue preoccupazioni o la sua irritazione mentre la ragazza era a casa. A mano a mano che Flora migliorava e si convinceva con sempre maggiore sicurezza che la terapia era veramente benefica e non una cosa disposta dalla madre, divenne possibile tenere consultazioni in comune, durante le quali si discutevano difficoltà ed episodi preoccupanti. Alla fine del trattamento, madre e figlia avevano formato un'amicizia insolitamente aperta, di reciproco rispetto e di grande calore e riconoscimento delle rispettive esigenze senza il tentativo di imporsi l'una all'altra, cosa, questa, che non sarebbe stata possibile senza l'esplorazione continua delle molte difficoltà insorte durante la fase attiva della malattia.
I genitori possono anche respingere una terapia per se stessi, perché ammettere un bisogno del genere significherebbe che il modo in cui hanno allevato la figlia non era stato perfetto. Si tratta di solito di famiglie con gravi problemi emozionali, nelle quali vige l'assioma: "Bisogna avere tutti i riguardi per la mamma". I genitori di Gilda parlavano con amarezza di sedute familiari durante precedenti tentativi terapeutici, in cui si erano vicendevolmente aggrediti con rabbia e sentivano di non aver imparato o raggiunto alcunché. Durante il consulto si chiarirono certi aspetti, specie che la madre covava un'ira pressoché insopprimibile perché a suo sentire la figlia l'aveva presentata agli amici della famiglia come una madre incapace. Il padre affermava la dottrina basilare della casa, ossia che le esigenze della madre prendevano il primo posto e quelle di Gilda potevano essere soddisfatte soltanto se non contrastavano con quelle della madre. Il lavoro con Gilda fu estremamente difficile: la ragazza soffriva di gravi disturbi emozionali e ogni visita ai suoi comportava una ricaduta. Si sentiva come un esemplare strano sottoposto a indagine, onde scoprirne difetti e deviazioni. Vi furono discussioni senza fine sul tema se le modificazioni verificatesi nel corso della terapia corrispondessero alle aspettative dei genitori o se fossero invece indesiderabili e atti a creare problemi per questi. Gilda era convinta che l'unica ragione per la quale i genitori l'avevano apprezzata era stata la sua brillante carriera scolastica e quando lei, poco per volta, rallentò un poco il suo programma di studi, la rimproverarono, dicendo che non si dedicava più a nulla che valesse la pena. Criticavano ugualmente il cambiamento nel suo modo di vestire, dopo che ebbe adottato un vestiario più simile a quello delle altre ragazze del college. La maggior parte delle loro frecce prendevano di mira i suoi amici, troppo egoisti, non sufficientemente colti, troppo superficiali. Una volta che Gilda era andata a trovare un'amica di vecchia data, che ai genitori non andava più a genio, ricevette una telefonata in cui le si diceva di venire a casa di corsa perché il padre stava male. La madre aveva un tale bisogno di regolare la vita di sua figlia da aver inventato questa situazione d'emergenza. Vi furono anche continue e dolorose discussioni circa il comportamento alimentare di Gilda, le sue orge seguite da vomito. Quando era lontana da casa sentiva di saper dominare più o meno i suoi sintomi, con una sola colossale abboffata alla fine della giornata; a casa, invece, a ogni disaccordo o critica reagiva con un'orgia alimentare, donde altri litigi. Se rimetteva quanto aveva mangiato, la madre lo interpretava come un rifiuto di sé e l'aggrediva per questo. Se comperava cibi nei negozi (a spese dei genitori), anche questo dava luogo ad altre rampogne. Da ogni visita alla casa paterna Gilda tornava come se fosse reduce da un campo di battaglia. Soltanto lentamente imparò ad ascoltare le lamentele dei genitori e ad aver riguardo delle loro necessità senza ricadere nelle lotte infantili e in rinnovate perdite ponderali. Questi genitori erano stati insistentemente consigliati di rivolgersi a uno psichiatra per venire a capo dei loro problemi e delle loro ansie; specie la madre ne aveva urgente bisogno; ma erano stati irremovibili nel loro rifiuto. La figlia era "malata, malata, malata" e volevano che fosse loro restituita la bambina che, da piccola, era stata tanto cara. Gilda sapeva che si considerava necessaria una terapia per i suoi genitori e questo alleviava in una certa misura il suo senso di colpa. Malgrado gli sforzi frenetici dei genitori per non cambiare, la ragazza si liberò gradualmente del modello rigido che la famiglia le aveva imposto e che le impediva di crescere. I genitori finirono coll'abbandonare il loro atteggiamento critico ed eccessivamente esigente e pervennero ad apprezzare la capacità finalmente scoperta di Gilda di vivere una vita sana e più matura. Capitolo ottavo Cambiare la mente "Io voglio che qualcuno mi dica che aumentare di peso non metterà a posto ogni cosa - voglio qualcuno che mi aiuti con la mia depressione, ma nessuno m'ascolta." "Mi diceva sempre: 'mangia!', come se guadagnare cinque chili potesse essere la soluzione dei
miei problemi. Non lo è. È risolvere i miei problemi che mi farà mangiare." "Mi facevano aumentare di peso, ma non facevano nulla per cambiare la mia mente." Queste sono soltanto alcune delle frasi con le quali le pazienti anoressiche mi hanno espresso il loro disappunto per tentativi terapeutici falliti. Questi trattamenti potevano consistere nell'indurle a mangiare, come avviene con i metodi di modificazione comportamentale, oppure potevano porre l'accento su altre misure, come la terapia elettroconvulsiva o i farmaci psicotropi, oppure sulla psicoterapia, la quale non era però mai arrivata alle questioni decisive di fondo. Esistono poche condizioni morbose in cui i risultati ottenuti sono altrettanto strettamente legati alla pertinenza dell'impostazione terapeutica. C'è da domandarsi che cosa sia andato storto negli sforzi di trattamento falliti, o che cosa sia stato trascurato. La mia concezione dei bisogni terapeutici delle anoressiche è stata influenzata dall'essere stata consultata da molte pazienti che, pur sottoposte a trattamento, non erano migliorate o erano perfino peggiorate. Il compito del consulente è complesso, in quanto deve valutare l'integrazione dell'approccio psicologico con il trattamento medico e dietetico, la combinazione della terapia individuale con la risoluzione dei problemi della famiglia e la qualità dell'interazione fra paziente e terapista. Inoltre bisogna saper dedurre dai dati a disposizione gli assunti teorici e la filosofia terapeutica di chi ha avuto in cura la paziente. Infine occorre apprezzare la disponibilità della paziente e della sua famiglia per una valutazione complessiva e per un'impostazione terapeutica diversa. Varia naturalmente da caso a caso ciò che è stato trascurato o che non è andato per il suo verso. Qui voglio discutere soltanto alcuni esempi di problemi spesso incontrati. Un'importante fonte di errore è quella di aver concentrato l'attenzione su un qualche aspetto isolato. Spesso lo sforzo principale è stato diretto a correggere il peso, mentre i problemi di fondo non sono stati toccati. O viceversa, alcuni psicoterapisti adottano un atteggiamento attendista riguardo al peso nell'aspettativa poco realistica che l'alimentazione migliorerà una volta risolti i problemi psicologici. Un tale ottimismo non è atto soltanto a risultare in una perdita di tempo, ma può anche essere nocivo e perfino letale. Non è possibile svolgere un lavoro terapeutico utile con una paziente in preda all'inanizione. E mia consuetudine informare le pazienti che vengono a consultarmi che non posso formulare un'opinione significativa sulla loro condizione psicologica prima che sia stato ripristinato in una certa misura lo stato di nutrizione. Pur sempre convinta della necessità di un'impostazione terapeutica integrata, qui porrò a fuoco i problemi del processo psicoterapico. Sembra che, trovandosi di fronte una paziente anoressica, molti terapisti, anche quelli che altrimenti si servono di concezioni moderne, siano ancora legati a vecchi concetti di trattamento psicanalitico. Molti pongono l'accento sul valore simbolico del non mangiare e su problemi, fantasie e sogni che sottendono il rifiuto del cibo, e presentano alla paziente la loro interpretazione del significato inconscio di questi. Se lo si esamina in termini di transazione è possibile riconoscere che il tradizionale scenario psicanalitico può avere per queste pazienti il significato della rinnovata rappresentazione di una loro passata esperienza lesiva. Le anoressiche crescono in famiglie dall'apparenza armoniosa, animate da buone intenzioni, in cui spesso sono tra i figli quello più apprezzato, ma allo stesso tempo quello più rigidamente controllato. Si sono sentite in obbligo di dimostrarsi pari alle grandi aspettative altrui e non hanno sviluppato una vera autonomia e iniziativa. Secondo il loro sentire, le "interpretazioni" stanno a indicare che qualcun altro sa quello che veramente pensano e sentono, mentre loro stesse non capiscono i propri pensieri. Scopo della terapia individuale dovrebbe essere quello di aiutarle a sviluppare un concetto valido di sé e la capacità di agire secondo direttive autonome. Compito del terapista è di aiutare le pazienti a scoprire le loro capacità e risorse di pensare, giudicare e sentire. Il "proporre interpretazioni" è in contrasto con questo fine. Non importa se l'interpretazione sia giusta o meno, l'elemento nocivo è che conferma il timore della paziente di essere incapace e incompetente, condannata alla dipendenza. Molte pazienti già trattate si lagnano del fatto che quanto il terapista spiegava non sembrava aver
senso per loro, ma che lui aveva cercato di costringerle ad accettare le sue interpretazioni. Le anoressiche tendono a convenire con quanto viene detto, ma se sentono che contrasta troppo con il loro pensiero, faranno delle obiezioni. Irene (cap. 4) si lamentava che il suo precedente terapista si ostinasse a sostenere di aver sempre ragione. Quale esempio citava un suo sogno di una Regina Rossa, interpretato dal terapista nel senso che lei aveva paura delle mestruazioni e si preoccupava di essere cattiva. Lei era sicura che questa interpretazione fosse errata; si ricordava quali erano stati i suoi sentimenti a quell'epoca e sapeva di non aver avuto paura delle mestruazioni. Irene era stata una bambina ben sviluppata e aveva presentato i primi segni dello sviluppo puberale all'età di 12 anni, quando il suo peso si aggirava sui 50 Kg. Aveva allora cominciato a sorvegliarlo, era dimagrita di qualche chilo ed era poi rimasta ferma a 43 Kg; durante lo stesso periodo era cresciuta di 10 cm. I segni di sviluppo puberale erano gradualmente regrediti e le mestruazioni non erano mai cominciate. Quando venne a consultarmi, aveva quasi 18 anni e insisteva nel dire di non aver temuto le mestruazioni, di non averci mai pensato. Mentre discutevamo la sua situazione in generale e il suo rapporto con le compagne di scuola e le loro attività, dissi di meravigliarmi che lei, vivendo in così stretto contatto con altre ragazze adolescenti, non avesse pensato alle mestruazioni. Ammise allora che le era dispiaciuto quando aveva notato che il suo seno cominciava a svilupparsi ed era stata contenta quando, mentre lei si faceva più alta e più magra, era quasi scomparso. Infine si interruppe, domandando: "Pensa che sia stato più abnorme il mio non averci mai pensato che se avessi avuto paura delle mestruazioni?", dopo di che esaminò in tutti i loro particolari le sue preoccupazioni e i suoi problemi di quel periodo: aveva temuto l'adolescenza e le nuove esigenze sociali che ne derivavano, mentre il fatto biologico delle mestruazioni era apparso relativamente irrilevante. L'essenziale per l'esplorazione successiva fu di incoraggiarla continuamente a scoprire significato e valore delle sue idee e del suo comportamento senza darle la mia interpretazione. La maggior parte delle pazienti che vengono per il consulto hanno già sperimentato le più svariate impostazioni terapeutiche, spesso prive di coerenza, e hanno elaborato un'infinita gamma di trucchi per sconfiggerle. I terapisti a loro volta cercano di evitare lo scontro frontale col desiderio della paziente di non aumentare di peso e rinunciano a porla di fronte al suo comportamento di manipolazione e intimidazione. Greta, una ventiduenne ammalata da sei anni e che era stata sottoposta a trattamento pressoché continuo, reagì col panico alle mie domande circa le origini delle sue difficoltà. Quando, durante una seduta con i familiari, si cercò di mettere a fuoco il suo ruolo nella famiglia, si rifiutò di partecipare e dopo ebbe un grave attacco isterico, con tali grida e urla che la madre chiese il ricovero. La mia proposta di cercare di scoprire nella seduta successiva che cosa avesse tanto turbato la ragazza ebbe un effetto calmante. Il giorno dopo, questa giovane in apparenza timida e remissiva, si dimostrò piuttosto aggressiva, attaccando me e il medico che l'aveva indirizzata a me, e urlando: "Qui mi si fa il processo!" A suo dire la si accusava di essersi ammalata per punire i suoi genitori e nessuno si accorgeva come punisse se stessa più di chiunque altro. Dissi con calma che non potevo assolutamente aver parlato di un suo desiderio di punire i genitori, visto che lei non aveva espresso alcuna opinione. La sua lagnanza ripetuta nei riguardi del precedente terapista era stata: "Nessuno mi ascolta". Le feci notare che era vero esattamente il contrario: lei si era rifiutata di partecipare quando le era stato chiesto il suo punto di vista. Era palese che, ogni qualvolta l'accento non era stato posto interamente sulle colpe altrui, lei smetteva di comunicare e dava la stura alle sue accuse. Ma averle fatto capire che il suo comportamento aveva un'influenza sugli altri la convinse di non essere tanto passiva e debole come cercava di presentarsi. Greta cominciò a parlare più apertamente di ciò che veramente la turbava e di come si sentisse isolata, timida, facilmente offesa e come tendesse a ritirarsi in se stessa ogni qualvolta le cose non andavano per il verso suo. Aveva fatto dell'isolamento il suo sistema di vita e tutto il suo comportamento annunciava apertamente: "Non toccatemi! Sono tanto ansiosa - non mi si deve turbare assolutamente". Secondo la sua espressione lapidaria, lei "premeva il bottone del panico" tutte le volte in cui qualcosa non andava secondo i
suoi piani e ammetteva che questo aveva inciso negativamente sui risultati terapeutici. A mano a mano che si approfondiva questo aspetto la giovane manifestava un interesse attivo nell'esplorazione di alternative al suo attuale modo di vivere e si rese conto di dovere rinunciare a usare la debolezza come un'arma e la malattia come l'incarnazione del suo potere e della sua forza. Pur consapevole della gravità dei problemi di fondo li aveva tenuti segreti, convinta che nessuno li avrebbe capiti. La cosa di cui le pazienti si lamentano più spesso riguardo alle loro precedenti esperienze terapeutiche è che non sapevano a che cosa mirasse quel trattamento o che non si erano compresi i loro problemi. Sia che si accetti una paziente per un intero corso di trattamento, sia che venga solo per un consulto, è importante farle sapere fin dalla prima seduta che è possibile comprendere la malattia e porvi riparo - e questo occorre dirlo in termini molto espliciti. Molte pazienti già trattate si lamentano delle difficoltà di parlare con il terapista: c'erano stati lunghi silenzi oppure il terapista aveva focalizzato l'attenzione su questioni a loro avviso prive di importanza o incomprensibili per loro. È essenziale spiegare con esattezza in che cosa consiste la malattia. Molte si meravigliano che se ne sappia così tanto e che idee e sentimenti, da loro considerati un segreto personale, siano stati espressi da altri, a volte perfino con le medesime parole. Questo senso preliminare di comprensione si può creare mediante domande particolareggiate e mirate oppure con un discorso esplicativo; la decisione al riguardo dipenderà dalla capacità di comunicazione della paziente. Alcune sono riluttanti a parlare spontaneamente e in tal caso è appropriata una spiegazione estesa; altre vogliono avere la sicurezza che si ascolta e si capisce quanto hanno da dire e queste rispondono meglio alle domande. Quando le cose procedono bene non è raro sentirsi domandare dalla paziente: "L'ha avuto anche lei?" - il che sta a indicare che quanto si discute è di rilievo. È importante non dare l'impressione di essere onniscienti o capaci di leggere nella mente altrui. Io sottolineo che quanto so l'ho imparato da altre anoressiche. Questo a loro non piace perché vogliono essere eccezionali. Vorrei citare a mo' d'esempio il mio primo incontro con Helen, una ragazza di diciassette anni, il cui terapista aveva richiesto un consulto perché sentiva che non c'era alcun progresso; la paziente non voleva parlare o anche solo ammettere di essere malata. Helen confermò che sedeva soltanto di fronte al terapista in silenzio, risentita che si spendesse danaro per un trattamento in cui non veniva utilizzato il tempo. Interpretai questo come un segnale che qui c'era una delle situazioni in cui toccava a me parlare; così le spiegai di aver appreso alcuni principi generali da altre giovani affette dallo stesso male. La cosa più importante che ho imparato è che la preoccupazione per la dieta, la fissazione di essere magre o grasse, sono soltanto cortine fumogene. Non è questa la vera malattia. La vera malattia sta nei tuoi sentimenti verso te stessa. C'è una strana contraddizione: tutti pensano che fai tanto bene e che sei tanto brava, ma il tuo vero problema è che pensi di non esserlo abbastanza. Temi di non essere pari alle cose che ci si aspetta da te. Tu hai una sola grande paura, quella di essere come tutti, come la media, insomma non abbastanza in gamba. E questo strano modo di stare a dieta comincia con un'ansia del genere. Vuoi dimostrare che sai esercitare un dominio, che ne sei capace. La cosa singolare è che ti fa sentire contenta di te, ti convince: "Io riesco a concludere qualche cosa". Anzi: "Io riesco a fare una cosa che nessun altro sa fare" e così cominci a pensare che sei un po' meglio di tutta quella gente che guardi dall'alto in basso perché sono trascurati e golosi e non hanno autodisciplina. C'è un solo problema in questo senso di superiorità: non risolve il tuo problema, perché quello che tu veramente desideri è di essere soddisfatta di te stessa pur sentendoti felice e sana. La cosa paradossale è che ti senti in gamba perché sei malata. A questo punto la giovane cominciò a guardarmi con occhi diversi. Era entrata con aria severa, grave e scoraggiata, ma con un'espressione provocatoria che significava: "Io ti sfido a dirmi quello che ho". Ora la sua espressione era di domanda: forse qui si può imparare qualche cosa. Cominciò a dare qualche informazione sul suo ambiente, genitori, fratelli e sorelle, esperienze a scuola. Il tema era quello solito, non c'era mai stato alcun problema, lei era stata sempre brava. A questo punto intervenni:
Questo è proprio uno dei grandi problemi, ho sentito la stessa storia da molte giovani e m'immagino che la tua sia uguale. Hanno sempre fatto quanto ci si aspettava da loro, senza mai sapere quello che loro stesse volevano. Quando hanno ricevuto regali erano grate ma non avevano mai l'impressione che fosse proprio la cosa giusta. Eppure non sapevano che cosa chiedere. Alcune temevano perfino di non avere una mente propria, o il diritto di vivere la propria vita; facevano sempre quello che ci si aspettava da loro. Qual è stata la cosa più audace che tu abbia mai fatto? (Non ci fu risposta.) Voglio dire qualcosa che hai fatto perché la volevi fare e non perché loro l'aspettavano da te o sarebbero stati contenti. Forse non ti viene in mente nulla perché non hai mai saputo di avere il diritto a vivere la tua vita. Questa malattia è lo sforzo supremo per convincerti che "io so fare quello che voglio. Lo so fare come voglio io e non come lo fanno tutti gli altri". Ma è un modo molto doloroso perché significa negarsi il benessere fisico; significa sacrificare il godimento di ciò che tu veramente desideri. Ora l'hai fatto, calando di sedici chili in sei mesi, e dimostri quanta sofferenza questo comporti. Ti sei negata il cibo quando avevi fame, sebbene il tuo pensiero sia sempre fisso sul cibo e su quanto vorresti mangiare. Ma tu non te lo permetti. Ecco la grave questione: perché giovani sane si privano della gioia di vivere. L'ho sentito da molte altre - non so se valga anche per te, ma sono abbastanza convinta di si: non si permettono di godersi la vita, perché si sentono colpevoli. Colpevoli per essere impari al ruolo assegnato loro da altri, colpevoli perché pensano di fare qualcosa di completamente diverso. Malgrado tutti i successi accademici e in tanti altri campi, c'è il risentimento di doversi sforzare tanto e di temere sempre di non essere abbastanza brave. In più, c'è la rabbia e l'invidia perché sei costretta a negarti il piacere di non far niente o di fare quello che veramente vorresti. Da qui questa terribile confusione per cui ti costringi a fare una cosa, per esempio a non mangiare, che non è quella che veramente desideri. Ti senti colpevole perché lo fai, ma d'altra parte non sai nemmeno tu stessa quello che ti accontenterebbe. Gò che veramente ti turba è che non sai nemmeno che cosa aspettarti dalla vita o che cosa ti renderebbe felice. E così arriva questa malattia e il pensiero del cibo mette tutto il resto in ombra. A questo punto dovevo dare una spiegazione nel senso che il pensiero assillante del cibo è direttamente correlato all'inedia e non cesserà fin tanto che viene rifiutato il cibo. Tu credi di essere meritevole soltanto se fai qualche cosa di eccezionale, una cosa così colossale e brillante da impressionare i tuoi genitori e altre persone di cui t'importa, da farti ammirare da loro come un essere assolutamente straordinario. Non so quale sia il tuo personale sogno di gloria, ma sono sicura che non saresti soddisfatta di una cosa normale. È questo obbligo di fare qualcosa che sia del tutto speciale a rendere la tua vita tanto dura e triste e ti spinge a lavorare in quel modo convulso. Alcune hanno l'impressione che l'affamarsi renda la vita più facile, perché sono contente di sé per il solo fatto di riuscirvi. Per un breve tempo ci si sente come se tutta la pressione si fosse allentata. Infatti mangiare qualunque cosa ti sconvolge, perché l'orgoglio di dimagrire sembra rassicurarti che tutto andrà bene. Questo ci portò a un altro aspetto. Helen stava facendo l'ultimo anno di liceo e sebbene i suoi voti fossero abbastanza alti e anzi più alti che mai, lei era scontenta: "Penso che potrei fare meglio di quanto abbia fatto finora". Al che io risposi: Gran parte dell'infelicità deriva dal non avere tanti amici come si vorrebbe, o dalla sensazione che gli altri non ti capiscono veramente; così si diventa solitari e isolati. Molte mi dicono che sentono di non appartenere veramente al gruppo. Possono perfino aver l'impressione che gli altri siano sciatti o non si curino delle cose importanti o che siano privi di interessi e perfino volgari. Ma c'è una grande solitudine nel lottare così duramente, sempre sforzandosi di fare meglio e di sentirsi superiori, ma tutte sole. È importante discutere apertamente i vari sintomi, per cui dissi: Molte dicono di sentirsi piene, di non aver bisogno di mangiare, di aver avuto abbastanza. In realtà muoiono dalla voglia di mangiare di più, di sentirsi calde e di non essere solo pelle e ossa.
Dicono che sono contente di essere così: ma io so di molte cui fa male stare a sedere e per le quali passare tutta la giornata a scuola è un vero supplizio. Altre hanno sempre freddo, ma negano questa sofferenza. Una cosa che tu non sai, ma che io posso dirti è: non sarà questo patimento a portarti a una soluzione. Ti fa sentire speciale, ma non ti dà quello che veramente desideri e di cui hai bisogno e non t'impedisce di essere infelice. Tu hai bisogno di essere convinta di vivere la tua vita, di sentirti meritevole e di sapere che quanto fai è veramente quello che tu stessa desideri fare. Hai il diritto di fare tutto questo senza un senso di colpa, né per la tua ambizione, né perché non vai troppo bene a scuola; ti devi permettere di essere una persona che ama la vita. Tra le cose che ti turbano veramente ce ne sono molte cosi grandi che non vuoi nemmeno ammetterle a te stessa. Adesso sei tanto fiera della tua magrezza da avervi sacrificato ogni altra cosa. Per guarire, devi fare un altro e più grande sacrificio - devi rinunciare a questo orgoglio innaturale per una cosa che non serve a nulla. Fu così con Helen. Pazienti malate da anni e già sottoposte a varie forme di terapia, alquanto scettiche sulla possibilità di trovare un aiuto per la loro infelicità, si rilassano e si aprono quando l'accento viene posto sulla ricerca di quello che vogliono e si aspettano. Si tratta naturalmente soltanto di una prima mossa nella terapia, la quale non serve se non a dare a queste giovani un raggio di speranza che i loro problemi possano essere capiti e risolti; non elimina di colpo tutti i concetti fallaci secondo i quali avevano condotto la loro vita e la ferrea risolutezza con cui inseguono gli scopi derivanti da questi concetti. Ma una volta affermato esplicitamente che soffrono di dubbi e incertezze interiori, e non di un'anomalia dell'appetito, il loro consenso a questa diagnosi diventa un filo che bisogna tener saldamente in mano nella ricerca di una via d'uscita da questo labirinto di diniego, contraddizioni e fermo proposito di non cambiare che caratterizza le complessità terapeutiche dell'anoressia mentale. Nemmeno un atteggiamento ostile verso la psichiatria preclude la possibilità di un rapporto fruttuoso. Irma era stata ricoverata dopo un anno e mezzo di anoressia con un peso corporeo pericolosamente basso. Quando il suo medico propose un consulto psichiatrico, gli rispose gridando: "Lei è pazzo, io non vado da un medico dei matti". Quando, alcuni mesi dopo, venne per un consulto, si scagliò contro la madre: "Sei tu che mi hai trascinata qui. Io non aprirò bocca". Tuttavia rispose ad alcune domande di orientamento, dicendo che la perdita ponderale si era verificata quando aveva improvvisamente abbandonato il college. Secondo lei v'era andata al solo e unico scopo di accontentare i genitori. Ora faceva un lavoro che non le piaceva, ma non sapeva che cosa avrebbe voluto fare. L'uscita della madre dalla stanza riacutizzò la rabbia di Irma. "Ti prego, mamma, non farmi stare qui, non potrò che peggiorare" e "voglio uscire di qui. Ti odio, odio lei, odio tutti - voglio solo uscire di qui!" Alla domanda: "Quando hai cominciato a sentire tanto odio e che tutti ti tormentano?" rispose con un diniego: "Non mi sento tormentata da tutti. Ho molti amici cui voglio bene". Alla mia osservazione: "Da quanto hai detto, devi aver incontrato molte persone insensibili nella tua vita. Vediamo come mai" - rispose gridando: "Io non ho detto questo. Lei mi mette le parole in bocca!" Replicai: "Oh, m'era parso di sentirti dire che odiavi tutti. Chiedo scusa se ho tratto una conclusione errata". La sua risposta fu: "Non è vero che odio tutti. Non intendevo dire questo". Aveva ormai smesso di piangere e io le chiesi quali erano i suoi rapporti con i genitori. "Da quanto ti ho sentito dire, e l'hai detto più volte, in qualche modo i tuoi genitori hanno esercitato un'influenza eccessiva su di te. Dai tuoi discorsi m'è sembrato che ti dicessero quello che dovevi fare. E un'altra cosa ancora ti ho sentito dire, cioè che tu hai avuto l'impressione di non aver mai avuto la possibilità di scegliere i tuoi scopi e di renderti conto di quello che veramente desideravi. Forse sarà di qualche utilità parlare un po' di questo; forse così potrai scoprire quello che veramente vuoi." Irma: "Tutte le volte che ho detto di volermene andare, loro dicevano semplicemente: 'Va bene, non dire altro. Vattene se vuoi', ma poi dicevano 'però'... bla bla, bla, e giù una ventina di ragioni per cui non avrei dovuto andare via. Finalmente, l'anno scorso ho lasciato il college e così ho dimostrato che loro avevano avuto ragione e che io non sapevo fare niente". In risposta al mio suggerimento, che forse l'avrebbe aiutata discutere queste cose, tornò alla sua precedente
aggressività: "Mi fa impazzire. Io sono stata sempre convinta che la gente che va dallo psichiatra è pazza". Ammise però che questo timore poteva essere irrazionale e che capire le cause del suo profondo senso di insoddisfazione e infelicità l'avrebbe aiutata. Durante il secondo incontro Irma si presentò rilassata e gentile, parlando liberamente della sua famiglia e di come lei e la sorella maggiore si fossero sentite costrette a studiare e ad andare al college. La sorella si era ribellata e Irma si era sentita in obbligo di compensare i genitori per questa delusione. Riguardo alla madre disse: "Ha dominato la mia vita per tanto tempo; ora la debbo dominare io". Era stata la madre a insistere che le figlie frequentassero un collegio universitario fuori della loro città, "per renderci indipendenti". Questo Irma l'aveva sentito come una limitazione: anche cercando di essere indipendente avrebbe comunque ancora obbedito ai desideri della madre. Si era sentita legata alla madre, ma ora si rendeva conto che è sbagliato che una madre tenga i figli legati a sé al punto da costringerli a lottare per liberarsi. Chiese poi il mio aiuto per la sua insonnia, pur sapendo che era la fame a tenerla sveglia. Di notte cadeva in preda a una depressione tale che si abbandonava a orge alimentari, per deprimersi quindi ancora di più. "Ho cercato davvero per tutta la mia vita di non creare difficoltà ai miei genitori e ora mi sento tanto in colpa perché lo faccio." Accettò la necessità della terapia allorché riassunsi quanto era stato detto in questi termini: "C'è una cosa che tu non sai, cioè che tu hai il diritto e il dovere di vivere la tua vita. Ed è qui che la terapia ti può aiutare. Questo è quello che fa uno psichiatra, ti aiuta a renderti conto di quello che vuoi veramente fare della tua vita". Un primo incontro positivo non serve se non a suscitare interesse nella possibilità che la terapia risulti utile, che vi siano problemi di fondo atti a essere compresi e forse anche modificati. Questo primo incontro non elimina le difficoltà intrinseche del trattamento, dipendenti dai tratti caratteristici della personalità e da tutto lo sviluppo di queste ragazze, le quali hanno l'impressione di aver trovato la soluzione perfetta e restano aggrappate a lungo alla loro idea fissa riguardante il peso. Anche se la grave denutrizione viene corretta in una fase precoce della terapia, quasi contro la volontà della paziente, questa rimane ancorata all'idea di dover esercitare un controllo sul suo corpo. Il sali-scendi della curva ponderale spesso riflette tutto lo svolgimento: l'aggrapparsi spasmodico a una posizione ormai superata o l'ansia di dover affrontare questioni e problemi fino a quel momento negati con accanimento. Spesso le anoressiche non vogliono parlare del loro peso né sopportano che vi si accenni e i terapisti accondiscendono a questa richiesta. Io considero questo atteggiamento controproducente. I problemi che si presentano nel contesto dei cambiamenti del peso offrono materiale importante per l'esplorazione psicoterapica e gli importanti problemi di fondo non diventano veramente accessibili al sondaggio terapeutico fino a quando la paziente non avrà raggiunto un atteggiamento di armonia verso il proprio corpo e non si confronterà col mondo come la persona che è anziché come un organismo sotto rigoroso controllo. Compito della psicoterapia nell'anoressia è di aiutare la paziente nella sua ricerca di autonomia e di un'identità autodiretta, evocando la consapevolezza di impulsi, sentimenti ed esigenze originate entro il suo essere. La terapia dev'essere focalizzata sull'insuccesso della paziente nell'espressione del suo io, sugli strumenti e sui concetti inadatti per organizzare ed esprimere i suoi bisogni, e sul senso di smarrimento nell'affrontare gli altri. La terapia è un tentativo di correggere i difetti concettuali e le distorsioni, il profondo senso di insoddisfazione e di isolamento, nonché la convinzione di non essere buone a nulla. Compito del terapista è di stare all'erta e di essere coerente nel riconoscere qualsiasi comportamento o espressione di iniziativa della paziente. Per fare questo deve badare con la massima attenzione alle discrepanze nei ricordi del passato della paziente e al modo distorto in cui questa percepisce o interpreta gli avvenimenti presenti, ai quali risponderà poi in modo inappropriato. Il terapista dev'essere onesto nel confermare o correggere quanto la paziente gli comunica. Se è costretta ad un'analisi particolareggiata del quando, come, dove e chi, le difficoltà vere o immaginarie e gli stress emozionali si mettono a fuoco e la paziente scopre i problemi nascosti dietro la facciata del suo comportamento alimentare abnorme. Tutto ciò richiede sensibilità nel riconoscere i contributi della paziente, la quale, in questo modo, fa l'esperienza di essere
ascoltata, esperienza di cui era stata privata nelle fasi precoci del suo sviluppo. Molte denunciano che ciò non era avvenuto durante precedenti trattamenti. Il quadro che in questo libro ho tracciato dell'evoluzione di questa malattia si fonda su quanto ho imparato nel corso della psicoterapia di molte pazienti diverse. La terapia mira a liberarle dall'influenza deformante delle loro esperienze precoci e a incoraggiarle a guardare la propria evoluzione in termini più aderenti ai fatti. È un compito difficile, perché queste giovani restano aggrappate ai concetti distorti e alla falsa realtà in cui sono vissute, essendo questo l'unico modo in cui vivono le loro esperienze e sanno comunicare; vi rinunceranno soltanto lentamente e con riluttanza. Tutta la loro vita è basata su certi assunti fallaci che debbono essere esposti e rettificati. Al fondo, ciascuna anoressica è convinta che la sua personalità basilare è difettosa, grossolana, insufficiente, "la feccia della terra", e tutti i suoi sforzi mirano a celare il difetto disastroso della sua fondamentale inadeguatezza. Inoltre è convinta che quanti la circondano, la famiglia, gli amici e il mondo in genere, la guardino con disapprovazione, pronti a saltarle addosso e a criticarla. Quello che le anoressiche si formano nella loro famiglia, dove tutto funziona liscio come l'olio, è un quadro di comportamento e interscambio umano di incredibile cinismo e pessimismo. La terapia deve aiutare la paziente a scoprire il carattere erroneo di questi convincimenti, deve permetterle di riconoscere di essere dotata di essenza e valori propri e di non aver bisogno della tesa e faticosa sovrastruttura di iperperfezione artificiale. Ho già sottolineato la necessità di mettere la paziente anoressica di fronte al fatto che il suo comportamento suscita ansia e senso di colpa negli altri. Il permetterle di rendersi conto che il suo comportamento e atteggiamento hanno un effetto sulle persone, sia pure un effetto negativo, può essere il primo passo verso la scoperta di non essere del tutto prive di efficacia. Premessa indispensabile per questo lavoro è un rapporto di fiducia e sicurezza, e affinché questo si stabilisca è essenziale che vengano riconosciuti e ammessi gli stravolgimenti e travisamenti, anche quelli minimi e in apparenza più innocenti. Il trattamento delle anoressiche presenta il grave problema di stabilire una comunicazione onesta. Come gruppo, queste malate sono dedite alla manipolazione e all'inganno; qualunque trucco è buono nel loro sforzo di vanificare un programma di aumento ponderale. Bisogna stabilire fin dall'inizio che la psicoterapia si occupa dei loro dubbi interiori su se stesse, non del peso o della dieta. Le anoressiche si oppongono al trattamento per principio. Nella loro estrema magrezza credono di aver trovato la soluzione perfetta dei loro problemi, pensano di poter ottenere così il rispetto che è loro mancato per tutta la vita. Non si lagnano della loro condizione, al contrario, se ne gloriano. Ma cionondimeno la maggior parte si rendono conto che c'è qualcosa di sbagliato nel modo in cui impostano la loro vita e che hanno bisogno d'aiuto nella loro infelicità. Le condizioni e le difficoltà della terapia variano da caso a caso e quelle più ardue si hanno nelle giovani ormai prigioniere del ciclo orgia alimentare-vomito. In queste, l'elemento inganno è molto più grave. Ogni qualvolta si sono trovate di fronte a una situazione ansiogena, hanno evitato di risolverla e si sono abbandonate a un'abbuffata; non sono disposte a far a meno di questa via di scampo in cambio del vantaggio, apparentemente dubbio, di vivere una vita meglio impostata. Ma alla fine debbono affrontare le questioni di fondo e quanto più presto si interrompono le manovre ingannevoli, tanto maggiori sono le speranze di una vera risoluzione della malattia. Un grave fattore di ritardo, spesso trascurato, è dato dall'enorme docilità con cui queste giovani sono capaci di sottoporsi alla terapia, essendo sempre vissute in un eccessivo conformismo. Si dichiarano d'accordo con qualunque cosa si dica, la sviluppano e sono perfino capaci di ricamarvi sopra quello che pensano il terapista voglia sentire. Ecco un'altra ragione perché un approccio interpretativo è tanto inefficace in questa malattia. L'anoressica concorda con tutto quanto si dice, lo cita in un contesto diverso, ma in realtà sente che per lei non ha alcun significato. Mentre si dichiarano d'accordo, doverosamente e disciplinatamente, accarezzano la persuasione segreta che le cose non stanno come viene detto. Per tutta la loro infanzia hanno pensato su un doppio binario, acconsentendo a quanto veniva loro richiesto, ma in segreto ripudiandolo col pensiero "so io come stanno le cose". Alcune spiegano con tutti i particolari come il loro senso di
integrità, di individualità, di non essere un nulla o "inghiottibili" dipendesse da questa convinzione interiore che naturalmente non hanno mai espressa apertamente: loro (gli adulti) sbagliavano. Di questo, il terapista deve tener conto. Se le cose vanno troppo lisce e se tutto quanto si discute trova immediato consenso, occorre domandarsi: "che cosa pensa veramente la paziente?" Lo pseudoconsenso può manifestarsi qualunque sia l'aspetto in discussione: la famiglia e la vita casalinga, gli amici, il concetto che hanno di se stesse o l'espressione del loro atteggiamento verso il peso e il cibo. Questo vale anche per gli scopi della terapia, specie la questione del "diventare adulte" e "maturare". Molte confermano subito che questa è la loro meta, che vogliono divenire indipendenti, laddove tutto il loro comportamento riflette il timore dell'essere adulte e la caparbia risolutezza di non crescere. Una contraddizione interiore di questo genere trovava vivida espressione nel comportamento di Janet, la quale, dopo tre anni di malattia anoressica, affermava di essere infelice per la sua magrezza. Si rendeva conto di essere diversa da altre anoressiche che dicono di non voler aumentare di peso, si ribellano contro una simile pretesa e ricorrono ad ogni sorta di sotterfugi per rallentare questo processo. Il guaio era che quelle che protestavano aumentavano a una velocità ragionevole mentre lei, malgrado tutte le sue affermazioni condiscendenti, era lentissima nel guadagnare peso durante un soggiorno protratto in ospedale. In seguito perse di nuovo il peso guadagnato pur ripetendo spesso quanto ci tenesse a ingrassare. Fu soltanto quando l'avere un peso normale divenne una necessità pratica (per iscriversi a un corso universitario) che ammise come durante tutti gli anni in cui aveva asserito di voler aumentare avesse avuto la convinzione interiore che mai e poi mai questo sarebbe accaduto. Tale era stata la sua opposizione interiore a un aumento ponderale che era stata sicura che il suo organismo non avrebbe cooperato e lei non avrebbe guadagnato peso. Confessò: "So che il non voler maturare e avere un corpo di donna è un modo infantile di guardare la vita. Io non ho mai voluto crescere, ho avuto sempre l'idea di dover restare bambina nella casa dei miei genitori". Era stata un'allieva di prim'ordine, ma sempre con la convinzione di fare semplicemente ciò che altri si aspettava da lei, che tutti quei successi fossero inutili per quanto riguardava lei stessa. Soltanto dopo che il trattamento l'aveva aiutata a persuadersi della sua capacità di condurre una vita propria, si permise di manifestare le sue segrete riserve mentali. Spesso i segni del cambiamento e del progresso sono minimi e il terapista li deve rilevare in modo che la paziente cominci a credere nella propria possibilità di cambiare. Karen era diventata anoressica e depressa durante l'ultimo anno di liceo, convinta che le compagne non le volessero bene perché aveva "la pancia". Raccolse le prove del suo essere stata malsicura fin dall'asilo infantile - anche allora il gruppo "in" non l'aveva accettata perché non era "abbastanza in gamba" ma lei aveva lottato contro il destino di essere relegata fra coloro che non sono nessuno. Descrisse con dovizia di particolari le differenze fra i "pari" e i "servitori" e come il destino nel liceo dipendesse dalla posizione che ciascuna aveva avuto nelle classi inferiori e medie. Mentre in seguito si dilungava ancora su questo tema, vi fu un'esitazione quasi impercettibile e un cambiamento nella sua posizione, che io rimarcai. In un tono di voce completamente diverso, la giovane si corresse, dicendo che non era vero, che le ragazze da lei invidiate quand'era più piccola non avevano avuto maggiori successi di altre né in campo accademico né in campo sociale. Questo non fu se non una prima crepa nel suo convincimento che le dimensioni del suo corpo e il fatto di avere o non avere una pancia assolutamente piatta determinassero il rispetto e le simpatie di cui poteva godere. Rispose bene agli elogi per questa sua onestà nell'ammettere il carattere erroneo del suo pensiero, un buon segno che lasciava prevedere la possibilità per lei di correggere altri errori nelle persuasioni dolorose e tormentose che avevano dominato il suo concetto di sé. Alcune settimane più tardi, incontrando un'altra ragazza anoressica, Karen ebbe un'altra rivelazione simile, atta a rettificare il suo atteggiamento. "Ho parlato or ora con una ragazza anoressica e, ascoltandola, ho capito l'inganno che si svolge nella mente durante l'anoressia. Mi disse che quando era depressa, non poteva mangiare e io mi sono resa conto che questo non è vero. Mi ha fatto capire come sono stupida a preoccuparmi della mia pancia e del mio peso in questo modo esagerato come ho fatto finora." Naturalmente non scomparvero così di colpo le sue ansie
circa il proprio valore, ma da quel momento in poi soleva denunciare una ricaduta con un tono quasi scherzoso, "le nebbie si stanno riaddensando", con cui intendeva esprimere il contrasto con la chiarezza di pensiero che sentiva quando non si crucciava del suo peso. Lucy era stata insolitamente rigida in tutto quanto faceva. Durante le sedute soleva stare come impalata sulla sua sedia, non muovendosi quasi ed enumerando le sue attività in maniera alquanto meccanica. Un giorno, entrando, si lasciò cadere sul sofà, appoggiandosi allo schienale, evidentemente rilassata e con l'esclamazione spontanea: "Per bacco, che bellezza sedersi: è stata una giornata di quelle!" Si dilungò sui molti problemi cui aveva dovuto far fronte e su come fosse stata in moto tutto il giorno. Può sembrare una piccola cosa, ma nel caso di Lucy era quasi una rivoluzione che ammettesse debolezza e fatica, un senso di fastidio e il desiderio di rilassarsi. Non fu certo la fine del suo essere esageratamente ordinata e cortese, ma fu una giornata da segnare in rosso sul calendario e da ricordare, quella in cui era riuscita ad accettare i propri sentimenti anziché essere costretta a esercitarvi un costante rigido controllo e a non rivelarli mai. Cambiamenti del genere accadono in molti campi. Migliorando il loro concetto di sé e maturando il loro modo di pensare, cambierà anche il modo in cui le pazienti ricordano l'ambiente in cui sono cresciute e si sono sviluppate. A mano a mano che partecipano più attivamente alla terapia, si rendono conto gradualmente che i malanni non sono capitati, ma che loro stesse hanno svolto una parte attiva nella propria vita di apparente sottomissione e di aspettative esagerate. Al colmo della loro malattia, le anoressiche si preoccupano a tal punto dell'impressione che fanno, costantemente impegnate a dimostrare la loro superiorità o a nascondere la loro inferiorità, che il loro modo di comunicare risulta piuttosto obtorto, spesso artificioso e sempre terribilmente serio senza il minimo senso dell'umorismo. È importante che il terapista si esprima in modo semplice, terra terra e in termini assolutamente chiari. Io utilizzo espressioni d'uso corrente ogni qualvolta sia possibile; se si possono dire le cose in tono scherzoso, tanto di guadagnato. Le anoressiche prendono talmente sul serio se stesse e i propri sintomi che alcune rischiano di reagire come se fossero aggredite con sarcasmo (un tono, questo, che va assolutamente evitato), ma se le osservazioni scherzose sono fatte con accento amichevole e benevolo, questi malintesi possono condurre a un esame della loro visione cinica del mondo. Poco per volta anche l'anoressica più ostinata sarà portata a riconoscere che non ciascun boccone che ingoia è un avvenimento atto a scuotere il mondo dalle fondamenta, e che un voto inferiore al massimo assoluto non è una ragione per disperarsi. Con queste più che con altri pazienti tendo a utilizzare episodi ed esperienze della mia vita quotidiana per illustrare determinati aspetti. Incontri con bambini si prestano spesso quali esempi della normale rivendicazione dei propri diritti o della rivalità costruttiva oppure del modo, appunto infantile, in cui il bambino interpreta le proprie esperienze, modo, questo, che si può spesso riconoscere nel pensiero delle anoressiche. Talvolta un episodio della storia di un'altra paziente (ovviamente anonima) serve a chiarire un aspetto della propria situazione che la paziente che si ha davanti non è riuscita a capire. Quando raccontai a Lucy la storia della giovane che odiava l'Abbazia di Westminster, perché il padre la "costringeva" ad andarci, si rese conto della percezione erronea di questa ragazza. Ogni qualvolta la famiglia si recava a Londra, il padre, architetto, soleva visitare l'Abbazia. La figlia, essendovi stata diverse volte, avrebbe preferito andare a fare compere con la madre, ma temeva che il padre fosse dispiaciuto e deluso se lei non l'accompagnava; e in quel caso lei si sarebbe sentita colpevole per avergli dato una delusione. Ecco perché si sentiva costretta ad accompagnarlo. Al che Lucy intervenne: "Esattamente come io mi sentivo costretta a mangiare il dolce". Aveva infatti sempre creduto che suo padre, goloso di dolci, e la cuoca, che aveva preparato il dessert, si sarebbero dispiaciuti se lei non l'avesse mangiato; così, si era sentita "costretta". Lucy aveva più volte addotto la storia del dolce quale prova effettiva della coercizione, sempre aggiungendo: "Almeno non mi potevano forzare di mangiarlo con piacere". Il venire a conoscenza di una reazione simile in un'altra ragazza, in un contesto completamente diverso, l'aiutò a riconoscere la propria reazione incongrua. Fu così che Lucy cominciò a liberarsi di altre convinzioni erronee. Qualche tempo dopo parlò di come le fosse piaciuto ascoltare un'amica che suonava il piano, ma come l'avesse nello stesso tempo
rattristata. Sebbene avesse abbastanza inclinazione per la musica, non le era mai piaciuto suonare il piano, perché si era sentita costretta a prendere lezioni. Ora, riconoscendo il carattere fallace di questo sentimento, si sentì libera di godersi la musica e decise di riprendere le lezioni di piano, questa volta perché lei lo desiderava. Il compiacente adeguamento delle anoressiche serve soprattutto a evitare ogni possibile disaccordo. Ma la psicoterapia è un processo durante il quale convinzioni e atteggiamenti errati vengono riconosciuti, definiti e messi in dubbio, in modo da poter essere abbandonati. È importante che si proceda lentamente e si utilizzino piccoli episodi e avvenimenti di scarso rilievo per illustrare la fallacia di certe persuasioni e deduzioni illogiche. Tutto questo lavoro deve essere svolto riesaminando gli aspetti concreti della vita, prendendo lo spunto da avvenimenti di poco conto man mano che si presentano. La maggior parte delle pazienti eviterà un conflitto, seguendo il terapista in tutto quanto viene discusso fino a quando non si presenta una nuova situazione e questi si rende conto che le cose in apparenza già chiarite non erano state veramente integrate. In quest'arte Mara era campionessa assoluta. Al pari di altre anoressiche era turbata, dal senso di vuoto, dal non sapere che ruolo assegnarsi, piena di odio per se stessa perché aumentava di peso, ma soprattutto tormentata dalla domanda: "Perché qualcuno dovrebbe volermi bene?" Era sottoposta a terapia da oltre un anno e le origini di questi sentimenti erano state già più volte discusse; in molte occasioni aveva pronunciato affermazioni rassicuranti nel senso che ormai sentiva di essere veramente se stessa. Poi, dopo qualche settimana, accadeva sempre qualche cosa che palesava come i meccanismi di cui la paziente si serviva per disfare quanto era stato raggiunto avevano tacitamente funzionato. Aveva ascoltato cortesemente le spiegazioni per poi annullarle dentro di sé. Non aveva mai mostrato un'emozione, né mai corretto o respinto una tesi. Un giorno, mentre faceva delle spese, Mara fu d'un tratto tormentata dalla domanda "chi voglio essere?" e la sconvolse la scoperta di essere ricaduta nell'assumere un ruolo, ancora assillata dalla questione "chi sono io? Quando sono sola non riesco a definire come sono. Vedo alcune qualità ma non vedo nulla che, sommandosi, diventi me. Non capisco perché le persone mi vogliano bene. Il mio vero timore è che possa abbandonare la presa e allora mi odierei". Come in precedenza, diceva queste cose come chi afferma una cosa che aveva sempre saputo; lei non meritava nulla. Le dissi per l'ennesima volta: "Ogni ragazza che si ammala di questa affezione vive con certi convincimenti e regole di vita che non solo non l'aiutano ma sono addirittura dannosi. La tua affermazione 'se aumento di peso, mi odio' è un esempio lampante di tale premessa erronea. Non c'è nulla di odioso in te o nel tuo corpo. Quando io dico queste cose, tu hai l'aria di essere d'accordo, ma in verità non ci credi e così non arriviamo al vero problema e tu non scandagli il fondamento di questo convincimento fallace. Fin tanto che tu sei irremovibilmente decisa a non discutere, resterai aggrappata alle tue convinzioni segrete e per quanto riguarda l'imparare o il cambiare qualche cosa, questo è un vicolo cieco". A questo punto, la ragazza collegò il suo timore di essere ingannata col modo in cui si era sempre sentita ingannata nella sua famiglia, quando nessuno faceva caso alla sua infelicità. "Ho sempre avuto l'impressione di condurre una vita finta, sempre col terrore di fallire." Questa volta ascoltò davvero la spiegazione di come l'ansia costante che il suo vero io non fosse sufficientemente valido l'avesse costretta a vivere un'esistenza fittizia, sempre con l'assillo della domanda: "Chi sono io?" Le spiegai che questa autosvalutazione è l'essenza della malattia e che poteva liberarsene soltanto accettando il proprio io genuino, per quanto forse scarsamente sviluppato, come sufficientemente valido per lei stessa. Dopo questa seduta Mara allentò gradualmente le sue eccessive pretese verso se stessa. Fino a quel giorno soltanto un lavoro che richiedesse uno sforzo estremo le aveva dato il senso di aver compiuto qualche cosa; lavori che le piacevano o le riuscivano facili non valevano la pena. Acquistò una maggiore disinvoltura sociale e cominciò a godere delle sue amicizie, semplicemente e non per dimostrare qualche cosa. Il suo peso saliva gradualmente a un livello normale, con un certo divertimento a mano a mano che sfondava i vari "tetti" che aveva stabilito e di cui ora non le
importava più, e con qualche stupore di essere in grado di mangiare e di cavarne piacere, quando, dopo qualche oscillazione, il suo peso si stabilizzò al livello premorboso. Di lì a qualche tempo una nuova paziente anoressica, avendo incontrato Mara mentre usciva dal mio studio, chiese: "E quella ragazza sorridente, l'ha avuta anche lei?" Vedere quel sorriso l'aveva rassicurata: c'era dunque speranza che la profonda angoscia della malattia si potesse dissolvere e che anche lei potesse ancora godere la vita. La conquista della fiducia nelle proprie capacità e della convinzione del proprio valore da parte dell'anoressica è un processo lento e dev'essere sottoposto a prova in molti campi diversi. La persuasione di essere incapace e immeritevole è così profonda e inveterata che la paziente si rifugia dietro la maschera della superiorità quando sente il minimo dubbio su se stessa o si trova di fronte a un disaccordo. Le anoressiche, al pari e più di altri pazienti, temono il cambiamento e hanno paura di abbandonare la falsa realtà in cui vivono. Prive come sono di direttrici interiori, si sono affidate eccessivamente al plauso e alla buona opinione altrui. Si sentono al riparo da rimproveri e critiche soltanto se riescono a mantenere l'immagine della perfezione agli occhi altrui. Questo bisogno domina il loro comportamento anche durante la terapia e pone al terapista un compito duplice e contraddittorio. Da un lato deve manifestare il disaccordo con le loro premesse errate e, dall'altro deve, nello stesso tempo, non solo sostenere, ma incoraggiare o anzi evocare il potenziale di un'immagine positiva di sé. Le pazienti abbandonano la loro immagine negativa di sé e la paura di essere condannate in quanto insignificanti soltanto quando riescono ad avere fiducia nell'interesse genuino del terapista e nel suo apprezzamento delle loro qualità e capacità individuali, nella sua sincera convinzione che esse hanno veramente una propria personalità Il terapista deve dunque distinguere fra il comportamento vero e quello di facciata. Se la terapia procede focalizzando costantemente l'attenzione sui dubbi che la paziente ha su se stessa, sulla sua indecisione e autodenigrazione, il progresso si farà sentire poco per volta in molti aspetti della vita, con crescente fiducia nei propri sentimenti e pensieri, maggiore accettazione del proprio io, un atteggiamento più armonioso e fiero verso il proprio corpo e verso la propria maturazione in un essere adulto. Segno importante di progresso è l'acquisto di nuove amicizie. Durante la fase acuta della malattia le anoressiche sono completamente isolate e ripiegate su se stesse, ma nella misura in cui migliorano, cominciano a interessarsi agli altri e desiderano ardentemente legami caldi e affettuosi. Essendo state prive di contatti per tanti anni, hanno spesso bisogno d'aiuto riguardo agli aspetti pratici dei rapporti umani e più ancora per sapere che cos'è ragionevole aspettarsi da un'amicizia. Da piccole erano state sopravvalutate dai genitori e perciò tendono a sentirsi respinte se non ricevono continui elogi e rafforzamenti positivi, o se c'è un minimo di disaccordo o di critica. Tardano a sviluppare rapporti significativi con l'altro sesso; alcune desiderano ardentemente di essere considerate belle e l'aver molti ragazzi attorno serve a rassicurarle da questo punto di vista. Altre restano aggrappate alla convinzione che l'amore con l'A maiuscola le farà guarire e farà sparire le difficoltà -col risultato che i giovanotti prendono rapidamente la fuga davanti a questo compito sovrumano. L'impegno del matrimonio viene di solito rinviato fino a quando non hanno sperimentato in pieno la loro capacità di sentirsi indipendenti e libere e saranno diventate interiormente sicure e fiduciose di sé. È mia consuetudine domandare alle mie pazienti verso la fine della terapia quali sono i loro sentimenti circa il fatto di aver sofferto di questa malattia e qual è stato il ruolo della terapia. Nessuna ha espresso rincrescimento per essere stata anoressica e la maggior parte pensa che senza questa malattia sarebbero rimaste impigliate nel loro atteggiamento di ultradipendenza dalla famiglia o sarebbero andate incontro ad altre malattie mentali. Alcune si vergognano per essere state così infantili e immature in tutto il loro comportamento e la loro mentalità. L'idea stessa di aver cercato la soluzione dei propri problemi nell'inedia e di aver tentato di essere una persona diversa da quella che erano è diventata ormai incomprensibile. Alla domanda se avrebbero potuto raggiungere questa maturità e questo nuovo senso di benessere senza la terapia, tutte rispondono che mai vi sarebbero potute arrivare da sole. A loro sentire, il maggiore beneficio consiste nel comprendere
meglio se stesse e gli altri, nell'aver acquisito un'opinione diversa sui propri genitori e un diverso rapporto con loro. In particolare capiscono meglio altri giovani e questo lo considerano un beneficio per tutta la vita. Richiesta come avrebbe fatto senza trattamento, Naomi rispose senza esitare: "Penso che probabilmente non avrei mai superato i 38 Kg o giù di lì e sarei vissuta nel costante isterico terrore della bilancia. Sarei diventata verosimilmente una persona incapace di rilassarsi, brava nel mio lavoro, ma costantemente assillata dal timore di non esserlo abbastanza. Credo che mi sarebbe rimasta la preoccupazione di non essere straordinaria, veramente di primissimo piano e di non accontentare i miei familiari. Non mi sembrava di avere il diritto di essere qualcosa meno che straordinaria, che questo era quasi dovuto ai miei cromosomi, convinta com'ero che tutti nella mia famiglia fossero eccezionali. Ho passato la vita nel terrore di fare fiasco e di non riuscire mai a dimostrare loro che ero una persona meritevole". Durante il suo trattamento l'espressione "non essere abbastanza brava" era stata esaminata da molti punti di vista; all'inizio, Naomi non aveva alcun concetto o sentimento di che cosa sarebbe stato abbastanza. "Abbastanza significa che si crolla, che l'organismo non è più in grado di dare alcunché." Ma poco per volta si rese conto che "si dà quello che si può e non quello che non si ha". Ormai guarita, sente di avere qualcosa da trasmettere agli altri: "Dica alle persone e gli faccia capire che non c'è alcun merito nell'affamarsi. Non è affatto vero che si è superiori per il fatto di digiunare". Bisogna ammetterlo: l'impegno terapeutico con queste giovani è difficile, lento e a volte esasperante. In un certo senso debbono costruirsi una nuova personalità dopo tanti anni di esistenza finta. Non c'è soddisfazione maggiore che vedere queste creature inibite, rigide e isolate cambiarsi in esseri umani pieni di calore e di spontaneità, con un ampio ventaglio di interessi e un'attiva partecipazione alla vita. Durante la malattia hanno l'aspetto e si comportano come se fossero costruite dalla stessa cassetta di costruzioni e ripetono le stesse frasi stereotipe dello stesso disco rotto. E veramente entusiasmante vedere emergere personalità assolutamente individuali dopo tutti quegli anni di sterile ripiegamento su se stesse. Per concludere, vorrei illustrare come il cambiamento dell'immagine rifletta il passaggio dal sentirsi vittima indifesa delle circostanze all'esperienza di partecipante attiva della vita. Durante il primo anno di terapia, Ida, che abbiamo già incontrata nel secondo capitolo, descrisse la sua posizione nell'ambito della famiglia con la similitudine del passero racchiuso in una gabbia dorata. Sentiva di non essere fatta per il lusso e l'eleganza della sua casa, non voleva essere messa in mostra e si struggeva di non dare nell'occhio, di essere libera di muoversi e di esprimere le proprie idee. Quando, verso la fine del trattamento, le feci una domanda circa quell'immagine, la ricordava, ma pensava di darvi una spiegazione diversa. Aveva ancora l'idea di essere stata chiusa in una gabbia, ma le sembrava di averla creata lei stessa. "Una volta che si è creato un modello di sé, si vuole essere pari a ciò che si crede ciascuno si aspetti. È questo modello artificiale a diventare la gabbia, una cosa con cui fare impressione alla gente. Direi ora che ero stata io ad aver forgiato una gabbia dorata, tempestata di pietre preziose che luccicavano, perché volevo abbagliare gli altri." Si rende conto che la terapia l'ha aiutata a infrangere la gabbia e che lei si è disfatta di nozioni e idee che erano il materiale di cui questa era costruita. Ora è libera, fuori della gabbia, fiera di essere quella che è, dei suoi scopi e di quanto ha raggiunto, non si sente più spinta a creare una sovrastruttura artificiale, ma è soddisfatta e contenta di vivere la sua vita.
i Nome di una marca di minuscoli anelli, da mangiare per la prima colazione con latte e zucchero. La paziente aveva mangiato soltanto uno di questi anellini. [AUT.}.