La foresta degli amori perduti [PDF]


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Zitiervorschau

Carrie Ryan

LA FORESTA DEGLI AMORI PERDUTI *The Forest of Hands and Teeth*

romanzo

Traduzione dall'inglese di Cristina Genovese

[eBL 036 by Marika & Elena77]

A JP, per avermi dato il mondo

[eBL 036 by Marika & Elena77]

1 Mia madre mi parlava sempre dell'oceano. Esiste un posto, diceva, dove non c'è altro che acqua a perdita d'occhio, acqua in continuo movimento che si scaglia verso di te per poi ritrarsi. Una volta mi mostrò una foto, disse che era la mia bis-bis-bisnonna da piccola nell'oceano. Sono trascorsi anni, e la foto si è persa tra le fiamme mol to tempo fa, ma la ricordo ancora, sbiadita e consunta. Una bambina circondata dal nulla. Nei racconti di mia madre, tramandati dalla sua plu-ribisnonna, l'oceano aveva un rumore simile al vento tra gli alberi e gli uomini si spostavano sull'acqua. Una volta, quando ero più grande e il nostro villaggio attraversava una crisi di siccità, chiesi a mia madre perché, se esisteva una tale massa d'acqua, c'erano anni in cui i nostri ruscelli restavano quasi a secco. Lei mi disse che l'oceano non si può bere, che l'acqua è piena di sale. E lì che ho smesso di credere alle sue storie sull'oceano. Come può esserci così tanto sale nell'universo, e come può Dio permettere un tale spreco di acqua? Ci sono volte, però, in cui sono sul confine della Foresta degli amori perduti e guardo quello spazio selvaggio che si estende all'infinito, e mi chiedo come sarebbe se ci fosse acqua dappertutto. Chiudo gli occhi, ascolto il vento tra gli alberi e immagino un mondo fatto soltanto d’acqua che si richiude sulla mia testa. Sarebbe un mondo senza Sconsacrati, un mondo senza la foresta degli amori perduti. Spesso mi madre è accanto a me, si tiene una mano davanti agli occhi per coprirli dal sole e scruta tra gli alberi e la boscaglia al di là delle reti di recinzione, in attesa di vedere se suo marito tornerà da lei. È l’unica a credere che non si sia trasformato, che potrebbe tornare a casa nello stesso stato in cui se n’è andato. Io ho rinunciato a mio padre da mesi, ho sepolto il dolore della sua perdita il più possibile dentro di me per continuare a vivere. Ora mi spaventa, qualche volta, arrivare fino al confine della Foresta e guardare oltre il recinto. Ho paura di vederlo là insieme agli altri: vestiti a brandelli, pelle flaccida, quell’orribile gemito implorante e le dita scorticate a vivo a forza di strattonare le reti metalliche. Il fatto che nessuno l’abbia visto continua a far sperare mi a madre. Di notte prego Dio perché possa aver scoperto una sorta di enclave simile al nostro villaggio. Perché possa

aver trovato rifugio in qualche punto di questa fitta foresta. Ma a parte lei, nessuno nutre la minima speranza. Le Sorelle ci dicono che il nostro è l unico villaggio rimasto al mondo. Mio fratello Jed ha cominciato a offrirsi volontario per fare turni supplementari nelle ronde dei Guardiani che controllano la linea di recinzione. So che anche lui, come me, pensa che nostro padre sia finito tra gli Sconsacrati, so che spera di trovarlo durante una ronda del perimetro per ucciderlo prima che nostra madre veda ciò che è diventato suo marito. Ci sono persone del villaggio che sono impazzite dopo aver visto i loro cari trasformati in Sconsacrati. Una donna – una madre – è rimasta così inorridita dalla vista del figlio infettato durante una ronda, che si è data fuoco e ha bruciato metà del nostro paese. È stato l'incendio che ha distrutto i cimeli della mia famiglia quando ero piccola, l'evento che ha cancellato i nostri unici legami con ciò che era il nostro popolo prima del Ritorno, per quanto all'epoca fossero già quasi tutti talmente deteriorati da lasciare solo frammenti di ricordi. Adesso io e Jed sorvegliamo nostra madre e non lasciamo mai che si avvicini al recinto senza essere accompagnata. Ogni tanto si univa ai nostri giri di scorta anche Beth, la moglie di Jed, ma era prima che fosse costretta a letto per la sua prima gravidanza. Ora siamo noi due soli. E poi un giorno il fratello di Beth mi raggiunge mentre lavo il bucato nel ruscello tributario del grande fiume. Harold è mio amico da che ho memoria, uno dei miei pochi coetanei nel villaggio. Mi regala un mazzetto di fiori di campo e in cambio mi prende le lenzuola fradice, e ci mettiamo seduti a guardare il corso dell'acqua sulle rocce, mentre lui strizza le lenzuola contorcendole in strane forme. «Come sta tua madre?» mi chiede, perché è sempre molto gentile. Io abbasso la testa e mi lavo le mani dentro l'acqua. So che dovrei tornare da lei, che oggi mi sono già presa troppo tempo, che probabilmente starà camminando avanti e indietro in attesa che arrivi. Jed è impegnato in un lungo giro di ispezione del perimetro, sta verificando la resistenza del recinto, e mia madre ama trascorrere i pomeriggi vicino alla Foresta per cercare mio padre. Dovrei essere con lei a consolarla, eventualmente. Dovrei tenerla lontana dal recinto nel caso in cui dovesse trovarlo. «Si aggrappa ancora alla speranza» gli dico.

Harry schiocca la lingua in segno di compassione. Sappiamo entrambi che c'è poco da sperare. Le sue mani cercano le mie sotto l'acqua e vi si posano sopra. Sapevo da mesi che sarebbe successo. Ho notato il modo in cui ha iniziato a guardarmi, come gli sono cambiati gli occhi. Ho percepito la tensione che si è insinuata nella nostra amicizia. Non siamo più dei bambini, non lo siamo da anni. «Mary, io...» Si interrompe per un secondo. «Speravo che accettassi di venire con me alla Festa del Raccolto il prossimo fine settimana.» Abbasso lo sguardo sulle nostre mani dentro l'acqua. Sento le punte delle mie dita che si raggrinzano per il freddo e la sua pelle morbida e carnosa. Rifletto sul suo invito. La Festa del Raccolto, che si celebra in autunno, è il momento in cui quelli di età maritabile si dichiarano. È l'inizio del corteggiamento, il periodo in cui, durante le corte giornate invernali, le coppie comprendono se potranno essere compatibili oppure no. Quasi sempre il corteggiamento termina in primavera con l'Iniziazione, la settimana di celebrazioni dedicata ai voti matrimoniali e ai battesimi. È assai raro che un corteggiamento non vada a buon fine. Nel nostro villaggio il matrimonio non è una questione di amore, è una questione di impegno. Ogni anno mi meraviglio delle coppie che si formano intorno a me. Di come i miei vecchi amici d'infanzia all'improvviso si incontrino, si leghino, si preparino al passo successivo. Si promettano l'uno all'altra e inizino il corteggiamento. Ho sempre pensato che sarebbe stato così anche per me quando fosse giunto il mio momento. Che dopo la malattia che ha sterminato tutti quei miei compagni quand'ero piccola, sarebbe ancora più importante che quelli di noi che hanno raggiunto l'età maritabile si fidanzassero. Talmente importante che non resterebbero abbastanza ragazze da consacrare alla Congregazione delle Sorelle. Ho perfino sperato che potrei avere la fortuna di trovare qualcosa di più di un semplice compagno, che forse potrei trovare l'amore come è stato per mio padre e mia madre. Eppure, anche essendo da un paio d'anni una delle poche candidate disponibili, sono sempre rimasta in disparte. Nelle ultime settimane ho dovuto elaborare l'assenza di mio padre al di là delle reti. La disperazione e la desolazione di mia madre. Il mio stesso dolore e cordoglio. Fino a oggi

non avevo mai considerato che potrei essere l'ultima a ricevere un invito per la Festa del Raccolto. O che potrei restare senza invito. Una parte di me non riesce a non pensare a Travis, il fratello minore di Harry. È il suo interesse che ho cercato di conquistare per tutta l'estate, la sua amicizia che volevo si trasformasse in qualcosa di più. Ma lui non ha mai risposto alle mie sottili e maldestre avance. «Travis ci va con Cassandra» dice Harry, come se mi avesse letto nel pensiero, e non posso evitare di sentirmi vacua, meschina, arrabbiata per il fatto che la mia migliore amica è riuscita in ciò in cui io ho fallito. Che è lei ad aver conquistato l'interesse di Travis e non io. Non so che dire. Penso al modo in cui il sole scivola sul viso di Travis quando sorride e guardo gli occhi di Harry per ritrovare la stessa luce. Sono fratelli, dopotutto, hanno appena un anno di differenza. Ma non c'è nulla a parte la sensazione della sua pelle sopra la mia dentro l'acqua. Anziché rispondere, accenno un sorriso, sollevata dal fatto che alla fine qualcuno si è fatto avanti, mentre da un lato mi chiedo se questa nostra amicizia di una vita potrà mai diventare qualcosa di più durante i bui mesi invernali del corteggiamento. Harry sorride e abbassa la testa verso di me, e io penso solo che non volevo fosse lui a darmi il mio primo bacio; poi, prima ancora che le sue labbra possano incollare le mie, la sentiamo. La sirena. È talmente vecchia e poco utilizzata, di questi tempi, che esordisce con uno scricchiolio e un rantolo per poi risuonare a pieno volume. Gli occhi di Harry si posano sui miei, il suo volto a un respiro dal mio. «C'era un'esercitazione oggi?» gli domando. Scuote la testa, gli occhi sgranati come lo devono essere i miei. Suo padre è il capo dei Guardiani, sarebbe al corrente di eventuali esercitazioni. Mi alzo, pronta a tornare di corsa al villaggio. Mi pizzica ogni centimetro della pelle e il mio cuore si stringe come un pugno fino a farmi male. Ho un solo pensiero: mia madre. Harry mi afferra il braccio e mi tira indietro. «Faremmo meglio a restare qui» dice. «È più sicuro. E se si fosse aperto un varco nelle reti? Dobbiamo trovare una piattaforma.»

Vedo che il terrore gli restringe le iridi. Le sue dita si affondano nel mio polso, quasi mi attanagliano, ma io continuo a sottrarmi, spingendo via le sue mani e il suo corpo fino a liberarmi. Risalgo a tastoni la collina verso il centro del nostro villaggio, ignorando il sentiero tortuoso e aggrappandomi invece a rami e piante per percorrere la ripida salita. Quando ho raggiunto la cresta, mi volto a guardare: Harry è ancora giù vicino al bordo dell'acqua, le mani alzate al viso, come se non sopportasse di vedere ciò che sta accadendo sopra di lui. Gli vedo muovere la bocca, sembra che mi stia chiamando, ma io non sento altro che la sirena, il suono mi buca i timpani e si riverbera intorno a me. Mi sono allenata tutta una vita a questa sirena. Ancora prima di imparare a camminare, sapevo che la sirena significava morte. Voleva dire che in qualche modo si era aperto un varco nelle reti, e che gli Sconsacrati si stavano mescolando a noi. Voleva dire: prendete le armi, raggiungete le piattaforme e tirate su le scale, anche a costo di lasciare indietro dei vivi. Mentre crescevo, mia madre mi raccontava sempre che all'inizio, quando la sua bis-bisbisnonna era piccola, la sirena urlava quasi costantemente mentre il villaggio veniva preso d'assalto dagli Sconsacrati. Ma poi le reti di recinzione erano state fortificate, si erano costituiti i Guardiani, e con il passare del tempo gli Sconsacrati erano diminuiti a tal punto che negli ultimi anni non ricordo di aver mai sentito suonare la sirena se non per un'esercitazione. So che si sono aperti dei varchi durante la mia vita, ma so anche che sono molto brava a rimuovere i ricordi che non mi servono a nulla. E non mi servono ricordi per temere gli Sconsacrati. Più mi avvicino al confine del villaggio e più rallento il passo. Vedo già che le piattaforme sistemate negli alberi sono piene; in alcune hanno perfino tirato su le scale. Tutt'intorno a me regna il caos. Madri che trascinano i figli, attrezzi della vita di ogni giorno sparsi per terra e nell'erba. E poi, quando le sirene si interrompono, torna il silenzio e tutti restano paralizzati. Un bambino riprende a urlare, una nuvola passa davanti al sole. E vedo un gruppetto di Guardiani che trascina qualcuno verso la Cattedrale. «Mamma» sussurro, mentre dentro di me tutto precipita in un istante. Perché so, per qualche motivo. So che non dovevo attardarmi con Harry al ruscello, che non dovevo

farmi prendere la mano mentre mia madre mi attendeva perché l'accompagnassi al recinto. Con la schiena impalata mi incammino verso l'ingresso della Cattedrale, un vecchio edificio di pietra costruito molto prima del Ritorno. La spessa porta di legno è aperta e, vedendomi arrivare, i miei vicini si scostano, ma nessuno mi guarda negli occhi. Quando sono di fianco al gruppetto, sento qualcuno mormorare: «Era troppo vicina al recinto e uno è riuscito a prenderla.» All'interno, sembra quasi che le mura di pietra prosciughino il calore della giornata, e mi si rizzano i peli delle braccia. La luce è soffusa, e vedo le Sorelle raccolte intorno a una donna che emette lamenti e gemiti, ma non è Sconsacrata. Mia madre sapeva che non doveva avvicinarsi troppo alle reti, agli Sconsacrati. Abbiamo perso troppe persone del nostro villaggio in quel modo. Sicuramente avrà visto mio padre sul bordo del recinto. Chiudo gli occhi, perché il dolore di averlo perso, prima smorzato, ritorna a squarciarmi il corpo. Dovevo essere con lei. Vorrei raggomitolarmi su me stessa, nascondermi da tutto quello che è accaduto. Invece vado da mia madre e mi inginocchio, appoggio la testa sul suo ventre e le prendo una mano per infilarla tra i miei capelli. Se potessi condensare la mia vita all'essenziale, sarebbe questo: la testa sul ventre di mia madre, le sue mani tra i miei capelli e noi due sedute davanti al caminetto, mentre lei mi racconta le storie sulla vita prima del Ritorno tramandate dalle donne della nostra famiglia. Ora le mani di mia madre appiccicano e so che sono coperte di sangue. Chiudo gli occhi per non doverlo vedere, per non dover capire l'entità del danno. Mia madre si è calmata, le sue mani mi tirano istintivamente i capelli e li sciolgono dal foulard. Si dondola e dice qualcosa, ma lo dice così a bassa voce che non riesco a capirla. Le Sorelle ci lasciano tranquille, per ora. Si sono adunate in un angolo con l'elite dei Guardiani, la Gilda, e so che stanno decidendo le sorti di mia madre. Se dovesse aver subito soltanto dei graffi, resterà sotto sorveglianza, anche se non può essersi infettata con dei graffi. Ma se fosse stata morsa, e quindi infettata da uno Sconsacrato, esistono soltanto due soluzioni. Ucciderla subito o imprigionarla fino alla trasformazione e poi spingerla

dall'altra parte del recinto. Alla fine, se mia madre è ancora sana di mente, le porranno la domanda e lasceranno che sia lei a decidere. Morire di una morte rapida e salvarsi l'anima o continuare a esistere tra gli Sconsacrati. A scuola ci hanno insegnato che in principio, subito dopo il Ritorno, chi veniva attaccato non aveva la facoltà di scegliere. Veniva messo a morte quasi all'istante. Questo era prima che si ribaltasse la situazione, quando ancora sembrava fossero i vivi quelli destinati a perdere la battaglia. In seguito, però, un'infetta - una vedova - si era recata dalle Sorelle e le aveva supplicate affinché le permettessero di ricongiungersi a suo marito nella Foresta. Aveva rivendicato il diritto di onorare i propri voti matrimoniali nei confronti dell'uomo che aveva scelto e amato. I vivi avevano già fondato questo posto, e noi eravamo al sicuro, nella misura in cui si può esserlo nel mondo degli Sconsacrati. La vedova sollevò una questione importante: l'unica cosa che davvero separa i vivi dagli Sconsacrati è la scelta, il libero arbitrio. Lei voleva poter scegliere di stare con suo marito. Le Sorelle dovettero discuterne con i Guardiani, ma è sempre la Congregazione ad avere l'ultima parola. Decisero che non sarebbe stato uno Sconsacrato in più a mettere in pericolo la nostra comunità. Così la vedova fu accompagnata al recinto, dove fu trattenuta da tre Guardiani fino a quando non si arrese all'infezione, e poi fu spinta dall'altra parte del cancello subito prima di morire e ritornare come Sconsacrata. Non capisco come si possa abbandonare una vecchia donna a una sorte simile. Ma questo, suppongo, fa parte della scelta.

2 «Ora resti con noi finché non arriva tuo fratello» mi dicono le Sorelle. Jed non è ancora rientrato dal suo turno al recinto. Le Sorelle hanno inviato un messaggero che lo riporti indietro, ma ci vorrà almeno una giornata prima di poterlo attendere. Al suo ritorno mia madre non ci sarà probabilmente più, e lui non potrà tentare di dissuaderla dalla sua scelta. Mia madre ha scelto di unirsi agli Sconsacrati. E sono quasi sicura che mio fratello mi riterrà responsabile per questo. Mi chiederà perché le ho lasciato decidere, perché non sono intervenuta dicendo ai Guardiani di ucciderla. Non sono sicura che saprò cosa rispondergli. Consegnare un essere umano vivente alla Foresta degli amori perduti è una procedura complicata. Anni fa i Guardiani hanno scoperto che il trasferimento non può essere effettuato troppo presto, perché un vivo dentro la Foresta non è altro che cibo per gli Sconsacrati, che gli strapperanno la carne e lo mangeranno finché non ne resta niente. D'altro canto è troppo pericoloso tenere l'infetto dentro il villaggio. I Guardiani non vogliono correre il rischio che qualcuno si trasformi in mezzo ai vivi, e non c'è alcuna certezza sul momento in cui l'infetto potrebbe morire e ritornare. Tutto dipende dalla gravità del morso: con un morso piccolo e di poco conto l'infezione potrebbe impiegare dei giorni per propagarsi e diventare letale, mentre un attacco più macabro può provocare il Ritorno nel giro di qualche frazione di secondo. E così i Guardiani hanno escogitato un complesso sistema di porte e carrucole che trattengono gli infetti in una sorta di purgatorio tra i vivi e gli Sconsacrati. E lì che ora si trova mia madre. Io resto seduta nelle vicinanze, la ascolto mentre fa schioccare le mandibole e stride i denti come un gatto che brama un uccellino, mentre l'infezione si scatena dentro il suo corpo. È troppo malata per parlare, troppo devastata anche solo per capire. Ha una corda fissata alla caviglia sinistra e giocherella distrattamente con le sue estremità sfilacciate. Ci stiamo preparando tutti all'inevitabile ma sappiamo che, a giudicare dalla sua ferita, ci vorrà almeno un giorno. La trasformazione non è sempre rapida per l'infetto.

Io sono lì con lei sul lato protetto del recinto. Ma non sono sola, perché non si fidano; temono che vedendo mia madre trasformata in una Sconsacrata potrei fare qualcosa di terribile e stupido, come aprire tutti i cancelli e creare un varco. Un Guardiano – un amico di mio fratello- ha ricevuto l’ incarico di sorvegliare me e mia madre. Sarà lui ad azionare i cancelli, e sarà lui a uccidermi se dovessi avvicinarmi troppo a lei dopo la trasformazione. E’ l’accordo che ho preso con le Sorelle per poter restare con mia madre in questo momento: posso starle vicino, ma se vengo morsa dovranno uccidermi all’ istante. Siedo con le ginocchia strette al petto e le braccia intorno agli stinchi. Non sento più i piedi, come se il sangue si rifiutasse di circolare così lontano dal cuore. Sto aspettando che mia madre muoia. Il tempo per me non è diventato altro che una marcia inesorabile verso il Ritorno di mia madre. Vorrei che fosse qualcosa di solido, qualcosa che si possa afferrare, scuotere e fermare. Invece mi scivola via, mentre il giorno continua a fare il proprio corso. La gente del villaggio mi viene a consolare, ma non sanno cosa dirmi. La moglie di mio fratello, Beth, mi ha mandato a riferire che prega per noi, ma le Sorelle non le permettono di alzarsi dal letto per paura che possa perdere il bambino. Ho visto Harry. È rimasto lontano, e il suo viso sprigionava il bagliore accecante del sole del pomeriggio. Sono contenta che non abbia tentato di avvicinarsi, che non abbia provato a parlarmi di questa mattina, quando mi ha preso la mano sotto l'acqua tenendomi lontana da mia madre. Mi chiedo se pensi ancora che andremo insieme alla Festa del Raccolto la settimana prossima. Non verrà annullata, nemmeno per la morte di mia madre. Come le Sorelle ci ricordano sempre, è così che va dopo il Ritorno, la vita deve continuare. E il ciclo delle cose che dobbiamo sopportare. Quando il sole tramonta, Cassandra mi porta la cena e si siede accanto a me. È un tramonto talmente bello da fare male, e i colori si riflettono sul viso pallido e i capelli chiarissimi di Cass. Questa sera il Guardiano si è tenuto a distanza, consapevole che dovrebbe mancare poco alla fine. Io oscillo tra la speranza che mia madre si trasformi in fretta e si liberi presto dal terrore e dalla miseria, e la paura che la trasformazione sia troppo veloce e me la porti via per sempre. Dopo un po' dico: «Cass, tu ci credi all'oceano? Pensi che sia ancora là fuori?» Sto

osservando i giochi di luce sulle cime degli alberi, il modo in cui tutto ciò che vedo si increspa. «Cos'è che diceva tua madre sull'oceano?» mi chiede. La sua voce è leggera e gentile. «Nient’altro che acqua» le ricordo. Cass ha sempre assecondato le mie fantasie, mi ha sempre ascoltato quando le ripetevo i racconti tramandati dalle donne della mia famiglia sulla vita prima del Ritorno. Una volta sua madre le proibì di parlarmi sostenendo che le riempivo la testa di menzogne e blasfemie. Ma il nostro è un villaggio troppo piccolo perché un editto del genere possa durare. «Solo non capisco come possa esistere così tanta acqua nel mondo, Mary» mi risponde. Me l'ha già detto tante volte. Quando distoglie lo sguardo dal tramonto e si volta verso di me, le brillano gli occhi. «Non riesco a immaginare un posto fuori da qui senza gli Sconsacrati.» Aggrotta le sopracciglia. «Altrimenti perché saremmo qui e non là?» Una lacrima si condensa in un angolo dell'occhio di Cass, luccicando sotto il sole in declino nel momento in cui trabocca e scorre sulla sua guancia: è troppo difficile per lei sopportare l'immagine di mia madre in gabbia. La attiro a me e le lascio posare la testa sul mio ventre, con il viso voltato rispetto alla Foresta, poi le accarezzo i capelli come faceva mia madre con me. Guardiamo le lanterne accendersi dentro il villaggio. Mia madre mi raccontava che quando era piccola, la sera della vigilia di Natale, le Sorelle caricavano sempre il vecchio generatore. Questa è una di quelle storie che non ho mai condiviso con la mia amica, e medito di rivelarle questo segreto, di rivelarle che un tempo, una volta all'anno, questo piccolo villaggio splendeva più del cielo. Ma ora ha appena smesso di piangere e tira su con il naso, e per stasera non voglio riempirle la testa di altre fantasie. Quando fa per andarsene, mi supplica di seguirla. Ma non posso. Le dico che devo essere presente quando accadrà, e lei si porta le mani alla bocca, come a dire che è tutto troppo orribile, poi si gira e corre di nuovo a rifugiarsi al villaggio. Vorrei correre con lei, vorrei fuggire da qui e dimenticare questa giornata. Invece resto, le dita tremolanti e l'aria fitta in gola. Devo affrontare quel che diventerà mia madre. Glielo devo troppo dopo questa mattina, dopo averla lasciata sola a vagare.

Mi rimetto a fissare il recinto. A osservare la luce che scivola giù nel cielo, proiettando ombre incrociate sulla terra ai miei piedi. Annebbio la vista per mettere fuori fuoco ciò che mi circonda. Il recinto non esiste più quando lo faccio. Come se vivessimo tutti in un unico mondo.

«Mamma?» sussurro all'alba. C'era la luna nuova la scorsa notte, e ho trascorso le ore al buio ad ascoltare il fruscio delle foglie secche dietro il recinto, figurandomi i peggiori scenari possibili. Ogni scricchiolio che udivo era il recinto che si rompeva, ogni sfregamento erano gli Sconsacrati che alla fine trovavano un punto debole nel metallo. Ora l'aria è grigia e umida. Striscio carponi e mi avvicino alla gabbia in cui è rinchiusa mia madre. È là per terra, al centro, talmente immobile che per un momento penso che sia morta e sul punto di ritornare. Bile e angoscia mi montano in gola, ma restano intrappolate. Ho bisogno di urlare, ma rimango in assoluto silenzio, la bocca aperta e i denti scoperti. Le gambe si impigliano fra le gonne, pianto le unghie nel terreno e sono ormai a un passo dal recinto quando sento il Guardiano dietro di me. Mi volto a guardarlo e lo imploro. «È ancora viva» gli dico, perché lo so che è viva. Lui si dà un'occhiata alle spalle guardando nella bruma, quindi, vedendo che siamo soli, annuisce come per concedermi il permesso, e allora stringo le dita intorno al sottile metallo arrugginito del recinto, sentendo i suoi bordi freddi e appuntiti pungermi nei palmi. «L'oceano» mormora mia madre. Con il movimento netto di uno schiocco gira di colpo la testa, e vedo che ha gli occhi sbarrati e persi nel vuoto, ma lucidi. Si trascina verso di me finché le nostre mani non si uniscono attraverso il recinto. «L'oceano, Mary, l'oceano!» Ora ha un tono incalzante, la sua bocca si muove veloce. Temo che il Guardiano pensi che sia pazza, che si sia trasformata, e che debba di uccidermi, ma non riesco a ritrarre le mani, perché la presa di mia madre è troppo forte. «E così bello, l'oceano.» Continua a ripetere queste parole, e gli occhi le si illuminano di lacrime non versate. «L'acqua, le onde, la sabbia, il sale!» Inizia a scuotere il recinto, facendo oscillare da una parte e dall'altra le ondulazioni, agitando il metallo avanti e indietro. Mi stupisce che abbia tutta questa forza; sono ore e ore che la morte la sta divorando.

«Mi consuma» dice in un bisbiglio. Con un dito oltrepassa il filo metallico e mi accarezza il polso. «Bambina mia» mi dice. «Non dimenticare, bambina mia.» Le lacrime le scorrono dagli occhi, e dietro di me sento il Guardiano urlare, poi mia madre si accascia a terra e le sue dita scivolano via dalle mie.

Nell'istante tra la morte di mia madre e il suo Ritorno, smetto di credere in Dio.

Il guardiano impugna in fretta l’ estremità della corda legata alla caviglia sinistra di mie madre , e io mi defilo dal recinto. La corda passa attraverso un sistema di carrucole fissate a dei rami molto alti e lui tira, mentre l’ altra estremità della corda trascina mia madre fino al bordo della gabbia. Il guardiano aziona una leva, si solleva un cancello e il corpo senza vita di lei scivola dentro la Foresta degli amori perduti. Taglia la corda, tira indietro la leva e i cancelli si chiudono. Per un frangente il mondo attorno a noi tace, il rumore del nostro respiro viene attutito dalla bruma. Dopo aver completato il suo dovere, dopo aver consegnato il cadavere di mia madre agli Sconsacrati, il Guardiano mi posa una mano sulla spalla. Non so se per confortarmi o per tenermi indietro, ma poco importa. Immagino di sentire le pulsazioni del suo cuore attraverso la punta delle dita. Siamo entrambi talmente vivi in questo momento, ma accerchiati da così tanta morte. Non riesco a decidere se voglio assistere al Ritorno di mia madre. Se sarò in grado di sopportare la visione. Ma non posso fare a meno di chiedermi come sarà quel momento. Avrà una scintilla o un istante in cui si ricorderà di me? In cui si ricorderà della sua vita di prima? Mia madre mi raccontava che molto prima del Ritorno i vivi si domandavano cosa accade dopo la morte. Diceva che tutte le religioni sono nate e cresciute intorno a questo semplice dubbio. Ora che sappiamo cosa succede dopo la morte, si insinua un nuovo dubbio che sostituisce quello antico: perché? All'improvviso sono scossa dall'urlo del rimorso. Mi chiedo se avrei dovuto vestirla in modo diverso. Se avrei dovuto metterle degli abiti più caldi o delle scarpe più adatte. Se

avrei dovuto attaccarle dentro il vestito un bi-gliettino in cui le dico che le voglio bene. Mi domando quanto tempo impiegherà per trovare mio padre e se lo riconoscerà. L'immagine di loro due che si tengono per mano davanti al recinto volteggia nella mia testa. Si rimette in piedi prima ancora di poter realizzare quello che sta succedendo. Mi fissa, e per un momento penso solo: Mamma, poi apre la bocca, e il mio mondo va in frantumi con le sue grida, che diventano gemiti a mano a mano che le corde vocali le cedono. È’ insopportabile. Comincio ad andare verso di lei, lottando contro il peso della mano del Guardiano, ma poi sento qualcuno pronunciare il mio nome in tono di monito. È Jed. Non l'avevo sentito arrivare, ma ora avverto il suo odore, l'odore dei boschi, del lavoro, del fumo di casa nostra. Non mi serve guardarlo, lo so che è dietro di me, e abbandono il mio corpo sul suo. È rientrato dal turno al recinto giusto in tempo per vedere nostra madre morire e ritornare. Più tardi, il Guardiano che è in lui mi interrogherà e mi castigherà. Perché ho permesso a mia madre di fare questa scelta e perché ho deluso sia lui che lei perdendo tempo al ruscello. Perché sono stata così egoista da non capire che mia madre sarebbe andata alla Foresta senza di me e perché non ero là a fermarla. Ma per ora è mio fratello, entrambi i nostri genitori sono morti, e siamo tutto ciò che rimane l’ uno all’altra.

3 La prima cosa che fanno le Sorelle quando Jed mi riaccompagna alla Cattedrale è togliermi i vestiti e immergermi nel pozzo sacro fin quasi ad affogarmi. Aspetto di vedere se l'acqua mi brucerà la carne, ora che non credo più in Dio, ma non accade nulla e le Sorelle continuano a recitare le loro litanie e a sfregarmi il corpo. Attraverso l'acqua e le braccia delle Sorelle vedo che Jed viene riaccompagnato fuori dalla Cattedrale. Mi tirano fuori dall'acqua santa, gli occhi mi pizzicano e i miei lunghi capelli mi ricadono sul viso come una ragnatela, facendomi sputacchiare e tossire. «Resterai qui dentro le mura della Cattedrale» mi dicono le Sorelle. «Non possiamo lasciarti tornare al recinto.» Lo comprendo, e so che protestare non servirà a far cambiare loro idea. Tuttavia mi irrita il fatto che mi pensino così stupida da andare in cerca mia madre. Lei non c'è più. Mi sistemano una coperta sulle spalle e vengo condotta lungo un corridoio che non avevo mai notato, quindi scendiamo una serie di scale ed entriamo in una stanza con pareti di pietra, pavimento di pietra, una branda e una finestra che dà sul cimitero e la Foresta. Mi viene da ridere; se hanno così paura che faccia qualcosa di drastico dopo aver visto mia madre morire, perché mi mettono in una stanza che guarda proprio il luogo dove si è trasformata? Vedo chiaramente la serie di cancelli in cui è stata trascinata, e vedo perfino qualche Sconsacrato che strattona il recinto. I loro gemiti penetrano leggeri attraverso la finestra aperta. «Perché non posso tornare a casa?» domando mentre chiudono la porta dietro di me. La più anziana, Sorella Tabitha, si ferma sulla soglia. «E meglio che tu stia qui.» «E mio fratello?» Incrocio le braccia sul petto tenendo le mani sui gomiti, ripiegata su me stessa. Non risponde. Poi la porta si chiude e sento scattare la serratura. Sono sola con il rumore degli Sconsacrati. Per un po' resto a osservare il sole che percorre il cielo. Noto che nel calore del giorno gli Sconsacrati abbandonano la loro postazione al recinto e tornano a vagare nei boschi, con il

loro passo strascicato, per tuffarsi in una sorta di ibernazione eterna che si interrompe solo quando percepiscono la presenza di carne umana nelle vicinanze. Osservo le reti per intravedere un'immagine fugace di mia madre, un'immagine che non arriva mai.

E’ una notte senza luna, e resto a guardare le stelle che riempiono il vuoto delle tenebre. Delle nuvole si muovono furtivamente, pesanti e basse, non lasciando altro da vedere, quindi ritorno alla mia branda e mi siedo, senza preoccuparmi di accendere la candela appoggiata sul piccolo tavolo accanto alla porta. Voglio dormire, voglio che i sogni mi strappino da questo mondo e mi facciano dimenticare. Che fermino il turbine di ricordi che mi scorre intorno. Che mettano fine a questo dolore che mi consuma. Una sottile scheggia di luce si infiltra nella soglia della porta di legno, e intravedo le pareti che mi circondano. Da qualche parte c'è un grillo che canta. Mi avvolgo la coperta intorno alle spalle e sopra le testa, rannicchio le ginocchia al petto e sospiro in silenzio pensando a mia madre. Il giorno seguente mi bruciano gli occhi per la notte insonne. Seguo il percorso del sole sul pavimento della stanza, concentrandomi sulla luce che lentamente mi sfugge via. Qualcuno mi porta del cibo e una brocca d'acqua, ma non mi interessano né l'uno né l'altra. Più tardi arriva Sorella Tabitha, dice che è venuta a controllare come sto, ma so che vuole solo valutare il mio stato mentale. Vuole vedere se sono crollata sotto il peso della morte dei miei genitori. La giornata prosegue in questo modo: cibo, Sorella Tabitha, acqua, Sorella Tabitha, e così via. C'è una piccola parte di me che muore dalla voglia di ribellarsi, di fuggire da questa stanza. Di scappare per vivere il dolore del lutto insieme a mio fratello. Ma sono troppo esausta, il mio corpo si rifiuta di muoversi. Qui sto al caldo, vengo nutrita e lasciata sola, e non devo rispondere alle accuse o agli sguardi maligni di chicchessia. Non devo spiegare perché mia madre era sola, perché non ero con lei. Qui posso trascorrere questo momento di passaggio dedicandomi ai ricordi. Resto distesa sul pavimento con gli occhi chiusi e il corpo inerte, provando a sentire le mani di mia

madre tra i capelli mentre ripercorro più e più volte con la mente le storie che mi raccontava. Mi rifiuto di dimenticare anche il minimo dettaglio, anzi mi assale il terrore di averne

già

scordato

qualcuno.

Ripasso

ogni

singolo

racconto:

sono

racconti

apparentemente inverosimili di oceani, di edifici che si innalzavano fino al cielo, di uomini che toccavano la luna. Me li voglio imprimere in testa, voglio che diventino una parte di me che non potrò perdere mai, non come ho perso i miei genitori. Mio fratello non viene a farmi visita e le Sorelle non mi danno sue notizie. Chissà se mi pensa. Vorrei essere in collera con lui, vorrei crogiolarmi in una qualsiasi emozione che non sia il turbamento e il dolore, ma capisco che questo è il suo modo di affrontare il lutto. Finalmente, dopo che è trascorsa una settimana, Sorella Tabitha entra nella mia stanza, mi consegna una tunica nera per cambiarmi e mi dice che sono libera di andarmene, e che devo ringraziare Dio per avermi dato la forza di continuare a vivere. Annuisco, evitando di specificare che Dio non fa parte della mia vita, e piano piano mi incammino verso la casa della mia famiglia, dove fino a poche settimane prima vivevamo tutti uniti, felici e al sicuro. La casa di mio fratello, ora che mia madre è morta e che lui, in quanto unico figlio maschio, ha ereditato. Mentre mi avvicino, non riesco a non provare dolore, sapendo che non troverò mia madre. Che non la troverò mai più. Penso a tutti i ricordi imprigionati in quelle pareti di travi grezze, a tutto quel calore, quelle risate, quei sogni. Mi pare quasi di vedere queste cose defluire, sgusciare via alla luce del sole. Come se la casa si stesse ripulendo della nostra storia. Come se stesse dimenticando mia madre, i suoi racconti, la nostra infanzia. Senza riflettere, appoggio una mano sul muro a destra della porta. Lì, come su ogni edificio del nostro villaggio, la Congregazione delle Sorelle ha inciso nel legno un versetto della Sacra Scrittura. E nostra usanza - e dovere - appoggiare la mano su quella scritta ogni volta che varchiamo una soglia, per ricordarci di Dio e della Sua parola. Attendo che quelle parole mi calmino, che mi infondano luce e grazia. Ma non arriva alcun sollievo, non arriva nulla che riempia il vuoto di dolore che sento. Il legno sotto le punte delle mie dita è liscio, spianato da generazioni e generazioni di abitanti che hanno appoggiato le loro mani su questo punto. Questo punto che mia madre non toccherà più.

Come se sapesse che sarei arrivata oggi, mio fratello apre la porta, al che ritraggo bruscamente la mano dal versetto sacro. Appena lo vedo, vengo pervasa dai ricordi e da un nuovo dolore. Non mi fa entrare, e mi chiedo se Beth possa sentirci parlare. È strano il senso di timore che provo davanti a mio fratello. Una volta eravamo amici, condividevamo tutto. Ma lui era pur sempre il figlio di mio padre, e io la figlia di mia madre. Perdere mio padre tra gli Sconsacrati è stato troppo per lui, e negli ultimi mesi l'ho visto indurirsi. Si è buttato anima e corpo nel suo molo di Guardiano e in brevissimo tempo è cresciuto di vari gradi gerarchici. Mi intreccio le dita e cerco nel suo viso l'espressione tenera che conoscevo, ma vedo soltanto spigoli vivi. «Perché l'hai lasciata andare?» mi chiede. Si tiene una mano sugli occhi per coprirli dal sole che passa da sopra le mie spalle, e la sua posizione mi ricorda mia madre quando si fermava a scrutare la Foresta per trovare mio padre. Mi aspettavo questa domanda, ma non so ancora cosa voglia sentirsi rispondere. «L'ha scelto lei» gli dico. Lancia uno sputo per terra accanto ai miei piedi e gli resta impigliata un po' di bava tra i piccoli peli neri del mento. «Non l'ha scelto lei.» Ha un tono di voce teso e piatto, e so che vorrebbe urlare, ma non lo fa per evitare scenate nel villaggio. «Era fuori di sé, era malata.» Sento la sua furia e il suo strazio riversarsi su di me, e vorrei farmi carico delle sue emozioni, aiutarlo a sostenere il suo fardello. Ma sono talmente aggravata, travolta e sopraffatta dai miei stessi sentimenti che sono incapace di confortarlo. «Non potevo ucciderla, Jed. Non potevo lasciare che lo facessero.» Mentre parlo, resisto all'impulso di guardarmi le mani. «Cosa pensi di aver fatto, Mary, gettandola tra gli Sconsacrati?» Allunga un braccio e mi stringe la spalla così forte che le sue dita si conficcano nell'osso. «Non capisci che ora dovrò ucciderla io? Cosa credi che succederà se la vedrò durante una ronda? Pensi che possa lasciarla continuare...» agita la mano indicando dietro di me, dietro i campi, verso il recinto «in quel modo? Quella non è vita. Non è la natura. E disgustoso, è orrendo, è crudele, e non avrei mai creduto che potessi farmi questo. Che potessi costringermi a uccidere nostra madre perché tu non hai avuto il coraggio di farlo.»

Ora capisco che voleva la uccidessi per non dover prendere questa decisione lui stesso. «Mi dispiace, Jed» gli rispondo, perché non so in che altro modo aggiustare le cose tra di noi. E un Guardiano, uno dei pochi che hanno il solo e unico dovere di proteggere il villaggio, riparare il recinto, uccidere gli infetti. Non so come convincerlo del fatto che è stata lei a decidere, non io. Che facendo quella scelta, doveva sapere che in seguito poteva spettare a suo figlio ucciderla. Non so come fargli capire che a volte l'amore e la devozione di una persona possono essere talmente forti da indurla a volersi ricongiungere con il proprio coniuge nella Foresta. Anche se ciò significa sacrificare rutto il resto che si ha in vita. Avanzo un pochino per abbracciarlo, ma tiene il braccio rigido e la mano ferma sulla mia spalla, impedendomi di avvicinarmi. «Ora sono io l'uomo di casa, Mary» mi dice. Provo a sorridere, per ricordargli che sarà sempre mio fratello. «Questo non vuol dire che tu non possa abbracciare tua sorella» gli dico. Non ride come speravo. «Ho sentito che entrerai nella Congregazione delle Sorelle» aggiunge. Le sue parole mi colpiscono come uno schiaffo. Non so cosa mi aspettassi: rabbia, dolore, rimorso, ma non che mi mandasse via. Non che mi cacciasse e mi lasciasse nelle mani delle Sorelle prima ancora di avere la possibilità di parlargli. Di poter perorare la mia causa. E per questo che non è venuto a trovarmi alla Cattedrale: nella sua testa appartenevo già a loro, ero già una Sorella. Una parte di me ha sempre saputo che saremmo arrivati a questo, che era una scena inevitabile della nostra vita. Oggi, camminando verso casa, non so come me lo presentivo che non sarei potuta entrare per recuperare i pochi oggetti di mia madre. Che Jed avrebbe preso tutto. «Nessuno ha chiesto la tua mano, Mary. Nessuno si è fatto avanti. Nessuno ti farà la corte questo inverno.» Le sue dita mi stringono ancora il braccio. «Ma Harry» gli dico, indicando inutilmente oltre le mie spalle verso la collina che nasconde il ruscello, dove solo una settimana prima Harry mi ha chiesto di accompagnarlo alla Festa del Raccolto. Mi sforzo di ricordare se gli ho mai risposto. Prima ancora di poter mettere ordine alla confusione di pensieri che mi rimbombano

dentro, Jed inizia a scuotere la testa. Apro la bocca ma lui mi blocca. «Non si è fatto avanti, Mary.» Tengo lo sguardo fisso su di lui, ed è come se il mio corpo si stesse svuotando di tutto ciò che sono sempre stata e stesse perdendo la sua sostanza. Nel mio villaggio una donna non maritata ha tre possibilità. Può vivere con la sua famiglia; può trovare un uomo che chieda la sua mano, la corteggi durante l'inverno e la sposi durante le celebrazioni della primavera; oppure può entrare a far parte della Congregazione delle Sorelle. Il nostro villaggio è stato isolato subito dopo il Ritorno ed è vero che nel corso degli anni siamo diventati un popolo forte e numeroso, ma ciononostante resta imperativo che tutti i giovani in buona salute si sposino e si riproducano, possibilmente. La malattia che ha decimato la mia generazione non ha fatto altro che accrescere l’importanza di nuove nascite. E data la scarsità dei candidati maritabili nelle ultime stagioni, è con questa aspettativa che sono cresciuta. Con l’aspettativa che un giorno di quest’autunno qualcuno come Harry si facesse avanti. O che uno degli altri miei coetanei dimostrasse un interesse. Ho sperato che un giorno avrei potuto rivendicare un amore grande come quello di mia madre, che è stata disposta a entrare nella Foresta degli amori perduti per ritrovare il marito Sconsacrato. Certo, Jed poteva scegliere di accogliermi con sé e aspettare di vedere se qualcuno si fosse pronunciato a mio favore l'anno successivo, poteva far passare del tempo per far dimenticare alle altre famiglie del paese che ora ho due genitori Sconsacrati. Che la nostra famiglia è stata colpita da un ciclo senza fine di morte. Ma è chiaro che non è disposto a farlo. «C'è ancora tempo» dico. Percepisco una punta di disperazione nella mia voce, il bisogno di essere accolta da lui ora che siamo tutto ciò che ci rimane. «Il tuo posto è con le Sorelle» mi risponde, la sua voce svuotata di qualsiasi emozione. «Buona fortuna.» Premendomi le dita sulle braccia mi allontana dall'ingresso di casa sua. I suoi occhi sembrano davvero augurarmi fortuna. «E Beth?» gli chiedo, cercando una scusa per trattenermi ancora un po' con mio fratello. Nella speranza di riaccendere l'amicizia che ci univa fino a poche settimane prima, che ci ha unito per una vita intera.

Osservo i muscoli della sua mandibola contrarsi mentre serra la mano sullo stipite della porta. «Ha perso il bambino» dice. Rientra in casa, e il buio all'interno finisce con il mascherare la sua espressione. «Era un maschio» aggiunge, chiudendo la porta. Faccio un passo in avanti, pronta a entrare di forza. Ma poi sento girare la serratura e mi fermo, con la mano in aria. Vorrei prenderlo e stringerlo a me, piangere con lui. Sarei diventata zia, mi dico, pigiando la mano sul tepore della porta di legno. Vorrei gridare a Jed che fa male anche a me, che mi dispiace, che ho bisogno di lui. Ma poi capisco che lui ha una nuova famiglia con cui piangere. Che per qualche motivo il mio conforto non gli basta più. Io sono solo qualcosa che gli ricorda la morte dei nostri genitori. Piego le dita contro la porta, affondo le unghie nel legno e mi rendo conto di essere completamente sola. Soffocando a stento il fuoco che mi brucia in gola, lascio cadere la mano e volto la schiena all'unica casa che abbia mai conosciuto. Guardo le altre abitazioni dall'altra parte della strada, le case che mi sono familiari. I giardini estivi dai colori sgargianti che si sbriciolano in chiazze di terra dove tre bambine si tengono per mano e girano in cerchio, cantando una filastrocca. So che dovrei tornare alla Cattedrale, ma so anche che una volta che entrerò a far parte delle Sorelle la mia vita ruoterà intorno allo studio della Sacra Scrittura, e avrò poco tempo per soddisfare i miei capricci e desideri. Allora mi allontano dal gruppo di casette e costeggio i bordi dei campi, ora mietuti e preparati per l'inverno, e inizio a risalire la collina che pende sulla punta a levante del nostro villaggio. Da ragazzina, le Sorelle mi insegnarono che subito prima del Ritorno, Loro - e chi fossero 'Loro' è stato dimenticato da lungo tempo - sapevano cosa si stava preparando. Sapevano che si era verificato qualcosa di disastroso e che in breve tempo gli Sconsacrati sarebbero sciamati ovunque. Loro erano ancora convinti di poterli arginare. Per questo, proprio mentre gli Sconsacrati infettavano i vivi e la minaccia del Ritorno si faceva incalzante, continuarono a costruire recinti. Recinti infinitamente lunghi. Se quei recinti dovessero bloccare fuori gli Sconsacrati o dentro i vivi, non è dato a sapersi. Ma alla fine nacque il nostro villaggio, un'enclave di centinaia di sopravvissuti nel mezzo di una vasta foresta di Sconsacrati. Esistono varie teorie in merito alle circostanze che fecero sorgere il nostro villaggio in mezzo a questa foresta. La Cattedrale e qualche altro edificio risalgono palesemente a

prima del Ritorno, e c'è chi suggerisce che Loro si fossero ritagliati questo posto come rifugio. Altri affermano che siamo un popolo eletto, e che i nostri antenati, essendo i migliori della loro epoca, fossero stati spediti qui per poter sopravvivere. Chi siamo noi e il motivo per cui viviamo qui si è cancellato nella storia, cancellato perché i nostri antenati erano troppo impegnati a provare a salvarsi per ricordare e tramandare le loro conoscenze. Le poche tracce di ciò che avevamo una volta - come la foto della mia pluribisnonna nell'oceano - sono state distrutte nell'incendio della mia infanzia. Non sappiamo cosa ci sia al di là del nostro villaggio, a parte la Foresta, né tantomeno cosa ci sia al di là della Foresta. Ma se non altro, quando Loro ebbero finito di creare il nostro piccolo mondo, ebbero l'intelligenza di lasciarci delle scorte di materiale per le recinzioni. E così, una volta fondato, il villaggio iniziò a far retrocedere la foresta e a espandersi. A poco a poco i miei antenati si appropriarono di pezzi di foresta a colpi d'ascia, e così allargarono la linea di confine finché non restò più materiale per costruire. Questa collina faceva parte dell'ultimo grande ampliamento, l'ultima grande annessione. I nostri antenati ritennero importante conquistare l'altura per poter sorvegliare la Foresta. Per un po' ci fu una torre di vedetta in cima alla collina, ma ora è caduta in sfacelo e non viene mai usata. Questo però non mi impedisce di salirci sopra, così, per l'ultima volta prima di entrare nella Congregazione delle Sorelle, posso stare sul punto più alto di questa nostra esistenza reclusa. Guardo il mondo di sotto. Alla mia destra i campi si estendono in lontananza, punteggiati qua e là da mucche e pecore che sono state fatte uscire dal gruppo di stalle all'estremità della recinzione. Non importa se si spingono fino alla Foresta: come tutti gli animali, a eccezione degli uomini, loro non sono infettabili dagli Sconsacrati. Alla mia sinistra c'è il villaggio vero e proprio. Da quassù le case sembrano perfino più piccole, la Cattedrale diventa una sagoma imponente che domina la linea del tramonto, e il cimitero è tutto ciò che spicca tra il grande edificio di pietra e le recinzioni che demarcano la Foresta. Da qui riesco a osservare lo sviluppo bizzarro della Cattedrale, le sue ali che spuntano fuori dal santuario centrale in strane angolazioni. Ai piedi della collina, sul lato opposto al villaggio, un cancello conduce a un sentiero che si addentra nel cuore della Foresta, una cicatrice che scorre tra gli alberi. Sia questo

sentiero sia il sentiero speculare che parte dal lato della Cattedrale del villaggio sono delimitati da recinzioni, ma le Sorelle e i Guardiani ci proibiscono ugualmente di andarci. I sentieri sono strisce di terra inutili coperte di rovi, boscaglie ed erbacce. Da quando sono nata, i cancelli che li bloccano sono sempre stati chiusi. Nessuno ricorda dove portino questi sentieri. Alcuni sostengono che fossero delle vie di fuga, altri che servissero a inoltrarsi nella Foresta per recuperare legna. Noi sappiamo soltanto che uno guarda verso levante e l'altro verso ponente. Sono certa che i nostri antenati sapessero dove conducono quei sentieri, ma anche questa informazione, come quasi tutto ciò che riguarda il mondo prima del Ritorno, è andata perduta. Siamo noi i custodi della nostra memoria e siamo noi che abbiamo tradito noi stessi. È come quel gioco che facevamo a scuola da piccoli. Seduti in cerchio, un bambino doveva sussurrare una frase nell'orecchio di un altro bambino, e la frase veniva ripetuta a catena finché l'ulti-mo bambino del cerchio non diceva cosa aveva sentito, solo per scoprire che non aveva nulla a che vedere con ciò che doveva essere. Oggi questa è la nostra vita.

4 È già pomeriggio inoltrato quando scendo dalla torre per incamminarmi di nuovo verso la Cattedrale. Le Sorelle mi aspettavano. «E così hai scelto di diventare una di noi» mi dice la più anziana, Sorella Tabitha. È davanti all'altare fiancheggiata da due Sorelle di mezza età, e mi guarda. «Non avevo altra scelta» le rispondo, perché è la verità. Fa un profondo respiro e vedo che le sue labbra si stringono fino a formare una linea diritta. Si volta bruscamente ed entra in una porta celata dietro una tenda vicino al pulpito. «Vieni» mi dice, e non è un invito; io obbedisco, seguita dalle altre due Sorelle. Percorriamo un corridoio sinuoso che si inoltra all'interno della Cattedrale, fin dove non ero mai stata, e giungiamo davanti a una grande porta di legno rinforzata con bande di metallo. Con un movimento energico Sorella Tabitha apre la porta, prende una candela da un tavolino all'interno e ci guida giù per una ripida scala a chiocciola in pietra. L'aria si fa più fredda, più umida, e quando arriviamo in fondo ci ritroviamo in una sala cavernosa contenente file e file di scaffali vuoti. Ma non ci fermiamo. Attraversiamo la sala e sostiamo in un angolo buio. Mi dico che non ho nulla da temere in questo strano posto. Che la Congregazione delle Sorelle ha sempre protetto gli abitanti del villaggio. Eppure non riesco a bloccare il brivido freddo che si propaga dentro il mio corpo impregnandosi fino alle ossa. Sorella Tabitha apre una tenda, rivelando una porta chiusa a chiave. Estrae una chiave da una catena che porta al collo, apre la porta e mi esorta a procedere. La seguo lungo un altro corridoio, stavolta più simile a un cunicolo, con pareri di pietra, suolo di terriccio e un soffitto sorretto da spesse travi di legno. Lungo le pareti sono disposti altri ripiani, e qua e là vedo una bottiglia impolverata inserita negli scaffali. «Lo sapevi che tanto, tanto tempo fa, secoli prima del Ritorno, questo edificio faceva parte di una piantagione? Che qui si produceva il vino?» mi chiede Sorella Tabitha mentre camminiamo, e il rumore dei nostri passi echeggia intorno a noi. La fiammella della candela vacilla. Non si preoccupa di attendere una risposta, perché sa che a scuola non ci hanno mai insegnato questa cosa.

«Anticamente, al posto della Foresta fuori dal nostro villaggio, c'erano dei vigneti. Vigneti a perdita d'occhio. I Guardiani ci dicono che capita ancora di incontrarne dei resti, che anche oggi trovano viti che ricoprono le reti.» Il cunicolo s'incurva leggermente verso sinistra. Ogni tanto passiamo davanti a una porta incassata nella pietra. Il legno è deformato e segnato, con grossi bulloni affondati nel muro. Mi trattengo davanti a una di loro, sono tentata di chiedere cosa c'è al di là della porta, ma le Sorelle dietro di me mi spingono avanti. Mi domando per quale motivo questa storia - il vigneto e questo cunicolo - sia rimasta segreta e perché Sorella Tabitha abbia scelto di raccontarmela proprio ora. «Conservavano il vino da fermentare sotto la nostra Cattedrale, ma non è qui che veniva fatto» continua Sorella Tabitha. Infine raggiungiamo un punto senza uscita e una serie di gradini di legno che risalgono, conficcati nel terriccio; Sorella Tabitha si blocca e si volta verso di me. Guardo dietro di lei e vedo una porta di legno nel soffitto in cima alle scalette. «Il vino veniva fatto da un'altra parte» dice, costringendomi a riportare l'attenzione su di sé. «Dovevano pigiare l'uva, ed era un'operazione complicata che attirava gli insetti, perciò la pressavano in un luogo separato. Questo cunicolo serviva a trasportare e a immagazzinare le scorte. Alla fine, quando la terra divenne sterile, la produzione di vino fu abbandonata. H vecchio pigiato-io di legno andò in pezzi e crollò. Ma l'edificio principale, la nostra Cattedrale, rimase in piedi, perché era costruito in pietra.» Sorella Tabitha sale lentamente i gradini, inarcando il corpo in prossimità della porta sul soffitto. La apre con tre chiavi e poi indietreggia, lasciandola chiusa. «Qui c'era l'antico pigiatolo» mi dice, spingendomi su per i gradini fino a farmi quasi inciampare. Mi accovaccio, la schiena contro la porta di legno grezzo sopra di me, le bande di metallo che mi scavano nella pelle. Sapevo da prima che le Sorelle erano severe, lo ricordavo che durante le nostre lezioni infliggevano punizioni fisiche, se occorreva. Ma non le avevo mai conosciute in questi termini: brutali, distanti, spaventose. «Aprila, Mary» mi ordina Sorella Tabitha. Ha una voce terrorizzante dal tono basso e sinistro, e mi rendo conto di non avere altra scelta. Spingo il corpo contro il legno pesante fino ad aprire la porta, che si spalanca e sbatte a terra esternamente con un tonfo fragoroso. Da dietro sento Sorella Tabitha fare pressione sulle mie gambe, e devo necessariamente

saltare oltre l'apertura, uscire da questo cunicolo se non voglio perdere l'equilibrio. Mi allungo e mi raddrizzo, come se stessi spuntando fuori dalla terra, poi sento uno spintone da dietro la schiena. Improvvisamente mi ritrovo carponi all'aria aperta, gli aghi dei pini conficcati nei palmi. Sento gli uccelli, avverto la sensazione dell'erba secca sotto i piedi scalzi e resto disorientata, confusa, finché non inizia il primo gemito. A suono cade e si amplifica dentro di me -troppo vicino, troppo forte, troppo pericolosamente addosso. Distinto faccio un balzo e poi mi accuccio, le mani tese in avanti. Pronta a difendermi. Mi giro a destra e a sinistra, e l'ambiente circostante scorre come una macchia indistinta. Mi rigiro affannosamente verso il buco da cui sono uscita e faccio per tornare alla sicurezza del cunicolo sotterraneo, ma Sorella Tabitha mi ostruisce il passaggio. «Cosa vuole farmi?» grido. La mia voce è dura e ruvida per la paura, le parole quasi mi strozzano mentre ingurgito l'aria. Cammino brancolando, cercando con le dita un bastone, un'arma, qualsiasi cosa mentre i gemiti diventano sempre più forti. Poi sento un rumore metallico che mi è familiare. È il rumore degli Sconsacrati che tirano sul recinto. Guardandomi attorno, mi rendo conto di trovarmi in una piccola radura lontana dal villaggio, uno spiazzo protetto da un cerchio di recinzione che è due volte la mia altezza. Gli Sconsacrati cominciano a brulicare intorno a me. Mi basta fare due passi in qualsiasi direzione e potrebbero afferrarmi attraverso le maglie di metallo. Il sangue mi martella dentro il corpo, il panico mi annebbia la vista, le mani mi tremano e pulsano forte al ritmo del mio cuore. Cerco di guardare dappertutto contemporaneamente. E poi Sorella Tabitha stende la mano, facendo scivolare un dito fuori dalla tunica nera per indicare un punto verso gli alberi dietro di me. Non avevo visto il cancello, ma eccolo là: lo stesso complicato sistema di cancelli che si utilizza nel villaggio quando qualcuno è condannato a entrare nella Foresta. E sufficiente che Sorella Tabitha tiri una corda che giace a terra accanto alla sua mano. Il cancello si aprirà, lei e le altre Sorelle si rifugeranno di nuovo nel loro passaggio segreto e io resterò sola in mezzo agli Sconsacrati. «Cosa vuole fare?» provo a urlare, ma la mia voce è troppo debole, troppo soffiata. «Perché mi fa questo?» Quando tento di inalare un po' d'aria, singhiozzo. Gli Sconsacrati sono vicinissimi. Ovunque mi volti a guardare sono lì che mi bramano e si dibattono contro il recinto.

Rivoli di lacrime mi sgorgano dagli occhi e gocciolano dal mento. «La prego» sussurro, crollando di nuovo carponi, strisciando verso Sorella Tabitha, afferrandole la tunica nera. «La prego, non mi lasci qui.» Sembro una bambina che supplica sua madre. «C'è sempre una scelta, Mary» mi dice Sorella Tabitha, tenendosi ben salda con i piedi sui gradini, la metà inferiore del corpo ancora nascosta sotto il livello del suolo. «E ciò che ci rende umani, ciò che ci separa da loro.» La guardo in viso, provo a trovare un modo per far cessare questo supplizio. Il freddo pungente dell'aria e il fervore le hanno arrossato le guance. Ha delle rughe agli angoli degli occhi, che sono quasi reliquie, come se tanto tempo fa avesse saputo sorridere anche lei. Accascio le spalle. Sono in ginocchio davanti a Sorella Tabitha. Abbandono la testa sul petto, abbattuta. Non posso fare nulla. Lei mi appoggia entrambe le mani sul capo. «È importante che tu lo sappia, Mary» mi dice. «Devi capire cosa significa scegliere di diventare una di noi. Non si entra nella nostra Congregazione con leggerezza.» Tengo gli occhi rivolti a terra, fissi sui colori monotoni delle foglie d'autunno, e annuisco. M trema il corpo e non riesco a controllare gli spasmi dei muscoli. Tutto intorno a me gli Sconsacrati si aggrappano disperatamente al recinto. Sentono il mio odore. «Devo sentirtelo dire, Mary.» Le sue mani scorrono tra i miei capelli, e penso solo a mia madre e alla scelta che ha fatto. «Scelgo di entrare nella Congregazione» le dico angosciata, pur di uscire da questa radura. «Bene» risponde Sorella Tabitha, facendo scivolare le mani dai capelli fino a un punto sotto il mento. Ha una presa ferma, quasi dolorosa. Con uno strattone mi obbliga a guardarla negli occhi, che sono dello stesso verde-grigio scuro del cielo durante un temporale estivo. «La prossima volta che aprirai bocca per parlare» mi avverte «sarà solo per lodare il Signore nostro Dio.» Impiego un secondo per comprendere il senso delle sue parole - significano che sono salva - dopodiché annuisco convulsamente, mentre il verso degli Sconsacrati continua a farmi accapponare la pelle. Si scosta da una parte e mi aiuta a scendere di nuovo sui gradini. Muta, la seguo attraverso il cunicolo fino alla sala cavernosa, e mentre risaliamo le

scale per tornare alla Cattedrale ripenso attonita alla freddezza che ho visto negli occhi di Sorella Tabitha. Quello sguardo sembrava fulminarmi l'anima e anche ora mi dà i brividi: avevo sempre conosciuto soltanto la facciata affettuosa della Congregazione. Torniamo al santuario della Cattedrale e le Sorelle mi accompagnano al corridoio della stanza che ho occupato fino a quella mattina, la stanza con la vista sulla Foresta e sugli Sconsacrati. Ora c'è una scrivania sotto la finestra e un armadio all'angolo, con due tuniche nere appese al suo interno. Hanno acceso il piccolo caminetto di pietra per stemperare il freddo dell'inverno che incombe, ma io non riesco a sentire il suo tepore. Prima di uscire, Sorella Tabitha mi sbatte il libro della Sacra Scrittura tra le mani. «Quando lo avrai letto cinque volte, potrai cominciare a guadagnare dei privilegi» conclude. E poi mi lascia di nuovo sola a riflettere sulle mie scelte.

Il libro della Sacra Scrittura è un volume più grosso di una spanna, ha una rilegatura logora e grinzosa e pagine quasi trasparenti piene zeppe di lettere. Quando c'è il sole leggo sul tavolo sotto la finestra, quando non c'è più sole resto a fissare il fuoco nel caminetto ricordando mia madre. Provo a conciliare ciò che leggo nella Sacra Scrittura con ciò che conosco della nostra vita qui, e alla fine mi accorgo che non esiste risposta. Il mio mondo è talmente piccolo ora: i quattro muri della mia stanza sono l'unico posto in cui non vengo sorvegliata. Mi manca la sensazione di stare sopra la collina, con il vento che mi accarezza, mi manca fissare l'orizzonte chiedendomi cosa ci sia al di là della Foresta, se mai ci fosse qualcosa. Certe notti, quando il sonno mi avvolge, vago con la mente lungo la linea di recinzione, fino al cancello che protegge il sentiero proibito. Ma non lo varco mai, nemmeno nei sogni. Trascorrono le settimane. A mano a mano che l'inverno si assesta intomo a noi e le giornate si accorciano, passo sempre meno tempo a leggere e più tempo a pensare. Di notte resto alla finestra a osservare le stelle e mi chiedo se gli Sconsacrati avvertano il cambio di temperatura. Mi domando se mia madre abbia freddo dentro la Foresta.

Un pomeriggio nevoso di metà inverno i miei studi vengono interrotti dagli strilli e dalle grida che riecheggiano nel corridoio fuori dalla mia stanza. Corro alla finestra e guardo fuori, pensando che gli Sconsacrati potrebbero aver rotto le reti e invaso il villaggio. Ma quello che vedo da quel punto è placido, e la sirena tace. Vado alla porta e ci incollo l'orecchio, spaventata. Se fosse accaduto qualcosa di grave all'interno dell'edificio sarei più sicura dentro la mia piccola stanza. Poi ricordo che la Cattedrale è anche il nostro ospedale, e che le Sorelle sono le custodi della scienza della guarigione. Le grida si trasformano in voci incalzanti, ma sono così attutite che non riesco a distinguere le singole parole. Un uomo continua a urlare, come in preda al dolore; giro la schiena sulla porta e mi lascio scivolare su di essa finché non siedo a terra. Mi tappo le orecchie con le mani, ma sento ancora il dolore, le voci e la paura. A un tratto cala un silenzio così pesante che mi sembra quasi di affogarci dentro. Quella notte non dormo; resto sotto le coperte ad ascoltare gli scrocchi e i gemiti della Foresta, la neve che cade sul nostro villaggio, le Sorelle che vanno e vengono con il loro passo strascicato per occuparsi del nuovo paziente. Rifletto sul fatto che siamo così concentrati sui pericoli rappresentati dalla Foresta da dimenticare che il resto della vita può essere altrettanto pericoloso. Penso a quanto siamo fragili in questo posto, come un pesce in una boccia di vetro circondato dalle tenebre che gravano da ogni lato.

5 [eBL 036 by Marika & Elena77]

L'indomani vengo convocata per occuparmi del paziente, che è rimasto in silenzio per tutta la notte. «Noi abbiamo molti doveri, Mary» mi dice Sorella Tabitha mentre mi fa uscire dalla mia stanza per condurmi verso il santuario principale, quindi attraversiamo un corridoio, saliamo una serie di scale strette e percorriamo un altro lungo corridoio con porte di legno da ambo le parti. «Così come hai imparato a dedicare la tua vita a Dio, ora imparerai a occuparti dei Suoi figli. Ma ricorda,» aggiunge, voltandosi e prendendomi il mento tra le dita fredde «sei ancora sotto voto di silenzio. Devi ancora acquisire i tuoi privilegi.» Annuisco. Non le dico che ho finito di leggere la Sacra Scrittura per la quinta volta la settimana precedente. Sono troppo assorta a gustare la mia solitudine. Quando apre la porta, sento un lamento che mi ricorda gli Sconsacrati. Per un istante resto paralizzata nel corridoio e rivivo il momento in cui mia madre si è trasformata, quando le sue urla si sono tramutate in anonimi gemiti. La luce del sole penetra da una finestra di fronte alla porta e si riflette sui pannelli di legno delle pareti, creando un contrasto con l'angusto corridoio avvolto nel buio. Rispetto alla mia stanza qui è tutto più radioso, più luminoso. Sulla parete dell'angolo opposto è appoggiato un piccolo letto con delle lenzuola bianche e una coperta leggermente consumata, e un giovane uomo si dimena, tirando con violenza la biancheria. «Acqua» chiede in tono supplicante. Sorella Tabitha si volta verso di me e mi ordina di uscire a raccogliere con una ciotola un po' di neve pulita da fargli succhiare, mentre lei va a prendere delle nuove fasciature. Quando ritorno, ho le mani paonazze e infiammate dalla neve che ho raccolto. Lentamente mi avvicino al letto. Il paziente si è calmato, e quando sente il rumore delle mie scarpe sul pavimento di legno si volta e vedo chi è. «Travis» dico con il fiato mozzato. La voce che mi gratta in gola, e mi do una rapida occhiata intomo per verificare che Sorella Tabitha non mi abbia sentito parlare. Senza dubbio mi spedirebbe nella Foresta se lo ritenesse necessario.

«Mary» bisbiglia lui. «Oh, Mary.» Tende la mano, prende la mia e fa per accostarla alla sua guancia, tirandomi in avanti e facendomi inciampare e finire in ginocchio accanto al letto. Un po' di neve cade fuori dalla ciotola e si sparge per terra, ma Travis tiene gli occhi chiusi, e non vede i fiocchi che si sciolgono sulle tavole segnate del pavimento. Ha la guancia in fiamme e faccio scorrere la mano fino alla fronte, come faceva mia madre con me e Jed quando ci ammalavamo da piccoli. Ripenso a tutte le volte che ho sfiorato Travis per sbaglio, giocando nei campi o andando a scuola, e ora la sua pelle mi sembra diversa. Più matura. Più simile a quella di un uomo e meno a quella di un ragazzino. Prendo un pugno di neve dalla ciotola e fermo la mano davanti alla sua bocca. La sua lingua scivola lungo le mie dita, ed è come se la mia pelle si stesse sgelando per la prima volta. All'improvviso non sembra più il mio amico, ma qualcosa di più, e devo impormi di ricordare che non è mio, che non posso desiderarlo. Sospira, e vedo che il suo corpo si distende di nuovo sul materasso. «Ti prego, Mary, ancora» mi chiede, gli occhi ancora chiusi. Annuisco e continuo a dargli neve; il suo respiro si fonde tra le mie dita, il suo corpo è bollente, disidratato, assetato. «Fa male, Mary» sussurra. «Dio mio, fa così male.» Dentro di me sento crescere l'impulso di consolarlo con le parole, vorrei sapere cosa gli è successo di così grave, ma ho paura di chiedere, di correre il rischio che Sorella Tabitha mi senta parlare e mi cacci via, impedendomi di rivederlo. Appoggio la fronte sulla sua guancia, la mia pelle fredda contro la sua; in quel momento la porta dietro di noi si apre e Sorella Tabitha entra con passo deciso, contraendo il viso in un'espressione torva. C'è un attimo di silenzio, poi Travis dice: «Grazie per la preghiera, Mary. Ora mi sento meglio.» E il cipiglio di Sorella Tabitha si ammorbidisce un pochino. «La preghiera è sempre la miglior medicina» commenta lei, poi si avvicina al letto e, con una tenerezza che non avrei mai creduto possibile, scosta le lenzuola dal corpo di Travis per esaminare le ferite. Le strisce di panno avvolte intorno alla sua coscia sinistra sono macchiate di sangue, ma è sangue marrone ormai vecchio, il che deve essere un buon segno. Sorella Tabitha mi fa tenere le mani di Travis mentre lei disfa le bendature; mi faccio coraggio in attesa di

vedere cosa nascondono. Ho visto talmente tanti orrori e talmente tante mostruosità che non immaginavo di potermi sentire mancare le gambe per lo stordimento alla vista della ferita di Travis. E impossibile crescere accerchiati dalla Foresta senza assistere agli spettacoli più spaventosi: gli Sconsacrati con la pelle incavata e strappata che penzola dalle ferite dell'infezione, le dita spezzate a forza di aggrapparsi alle reti, gli arti tenuti insieme da qualche misera cartilagine. Travis mi stringe forte le mani, come se dovesse consolare me anziché ricevere conforto per sé stesso. A metà coscia, uno squarcio di colore rosso vivo spilla ancora sangue dall'aspetto acquoso. Lo squarcio è chiuso da una serie di lunghi punti di sutura sbilenchi. Quando Sorella Tabitha appoggia le mani ai lati della lacerazione e comprime, Travis geme e rotea gli occhi all'indietro. «Non c'è ancora infezione» mi dice senza sollevare gli occhi. «E questo mi fa ben sperare.» Poi avvolge nuove strisce di panno intorno alla carne viva. «Però è una brutta frattura e non so se l'abbiamo assestata bene. Vedremo. L'unica cosa certa» dice, alzando di nuovo il lenzuolo fino al mento e rimboccandolo bene intorno «è che Travis dovrà restare fermo su questo letto almeno per tutto il resto dell'inverno, e sarà fortunato se riuscirà ancora a camminare. A questo punto è nelle mani di Dio.» «Mary...» Travis esita, deglutisce, il viso pallido e sudato in fronte. «Mary può venire a pregare per me?» domanda. Sorella Tabitha gli rivolge un lungo sguardo severo, poi lo posa su di me, che tengo ancora le sue mani tra le mie. Annuisce con un unico cenno del capo, un movimento deciso che ternana in una frazione di secondo. «Può venire. Ma ora dovrà tornare a suoi studi. Ed è bene che tu sappia, Travis, che non ha il permesso di parlare se non per pregare, perciò ti chiedo di non tentarla a fare più di quello.» Abbasso gli occhi e osservo il modo in cui le dita di Travis si piegano intorno alle mie. Ripenso al giorno, mesi fa, in cui suo fratello Harry mi ha tenuto le mani sott'acqua e mi ha invitato alla Festa del Raccolto, che ormai è passata da tempo. Ricordo quanto mi sembrava gonfia e strana la pelle di Harry all'epoca, e vedo quanto ruvida e callosa sembri ora quella di Travis sulla mia pelle morbida. Gli giro la mano per guardare le linee che si incrociano sulla sua carne e resto allibita per

tutto ciò che ho perso da quel giorno.

Ritorno nella stanza di Travis ogni mattina. Aiuto Sorella Tabitha a pulirgli la ferita, che è sempre rossa e infiammata, e questo fa preoccupare le Sorelle. Ogni volta che passano, si accigliano e mormorano le parole di Dio. Tutti pregano per la sua guarigione. Vorrei sapere cosa gli è successo, ma resto in silenzio come mi è stato ordinato. Mi accontento di sapere che c'è stata una grave frattura dell'osso che ha perforato la pelle, e che non sta guarendo come dovrebbe. Quando lo vedo, Travis è quasi sempre infossato sotto le coperte, semidelirante per il calore e la febbre. Il più delle volte non mi riconosce. Altre volte si aggrappa a me e mi supplica di dargli acqua, di far cessare quel dolore. Appena posso, mi inginocchio accanto al suo letto, gli prendo le mani e le avvolgo intorno alle mie, mi avvicino al suo orecchio e gli sussurro parole. So che dovrei solo pregare, che le Sorelle credono ardentemente che la preghiera sia runica cosa che lo salverà, ma non ci riesco. Non posso affidare la vita del mio amico a qualcosa di cui sono così incerta, a qualcosa con cui sono ancora troppo arrabbiata per avermi portato via la famiglia e avermi lasciato sola al mondo. Allora, invece di pregare, gli racconto le cose in cui credo, le cose che ritengo vere solo perché ho fede che lo siano. Gli racconto le storie che mi raccontava mia madre sulla vita prima del Ritorno. Gli racconto dell'oceano. In questi momenti so di essere innamorata di Travis. Lo sento dal modo in cui desidero follemente che guarisca. Dal fatto che se potessi attingere alla mia linfa vitale e condividerla con lui per farlo stare meglio, non esiterei a farlo. E non capisco come mai, pur andando da lui giorno dopo giorno, pur restando con il viso così vicino al suo da sfiorargli guance e orecchie con le labbra, ancora non si sia ripreso. Quando non sto con Travis e sono sola nella mia stanza, non riesco a dimenticare il giorno in cui ero al ruscello, il giorno in cui mia madre è stata infettata. Ricordo il momento in cui Harry mi ha detto che Travis aveva scelto Cass, la mia migliore amica, e

non me. Anche se Cass non è mai venuta alla Cattedrale per assistere Travis come ho fatto io. Anche se non lo merita come lo merito io, devo tenere a mente che Travis è già impegnato con un'altra. Che ora starebbe corteggiando Cass se non fosse per la gamba rotta. Questa consapevolezza mi riempie di rabbia e di brama, e le due sensazioni s’intrecciano così tanto nel mio intimo che non riesco a distinguerle, e so solo che lo desidero. Per questo non potrò mai essere una vera servitrice di Dio, per questo non potrò mai dedicare la mia vita alla Congregazione delle Sorelle. Amo troppo Travis per rinunciare a lui.

6 Ho raccontato a Travis dell'oceano. È caduto in un sonno febbrile, le labbra molli, ma io continuo a bisbigliare nei suoi sogni, per cercare di costringerlo a riprendersi. Come al solito sono inginocchiata accanto al suo letto, e con una mano gli sto scostando i capelli dalla fronte per risistemarli indietro, quando la porta dietro di me si apre. Prima di vedere chi è, dico velocemente: «Amen» e mi rialzo, il viso rosso e il respiro che esce a piccoli sbuffi. Alla vista dei visitatori sbarro gli occhi: sono Cass e Harry, accompagnati da Sorella Tabitha. «Mary!» esclama Cass. Mi corre incontro e mi getta le braccia al collo, e la abbraccio anch'io, affondando il viso tra i suoi capelli biondo platino. Siamo nel cuore dell’inverno, ma lei profuma ancora di sole. Sento già le lacrime che mi pungono gli occhi e mi bruciano in fondo alla gola. E un insieme di sensazioni che si mescolano: la nostalgia della mia migliore amica, l'assenza del contatto fisico, la colpa di essermi innamorata di Travis. Per una volta sono contenta di non poter parlare, perché non saprei cosa dire a Cass, come giustificare il fatto che mi ha trovata in ginocchio accanto a Travis, con una mano tra i suoi capelli. «Oh, Mary, come sta?» Prende il mio posto vicino a Travis e piega le sue mani tra le proprie, proprio come ho fatto io. Lui, anche nel sonno indotto dalla febbre, reclina la testa verso di lei. Sicuramente starà sentendo il profumo del sole, lo starà agognando come tutti noi. «Travis» lo chiama, e la sua voce è leggera come un soffio di fiato. «Travis.» Gli passa una mano sulla fronte e lui geme sommessamente. Quando la mano si abbassa sulla guancia, Travis appoggia il viso su di lei. La sua reazione a Cass mi fa talmente male che assistere alla scena è quasi intollerabile. È lo stesso sentimento che ho provato davanti a mio fratello quando mi ha detto che dovevo unirmi alle Sorelle perché nessuno aveva chiesto la mia mano. La stessa vacuità che scava nel mio Io più profondo. Per un istante sono tentata di allontanare Cass dal letto, di allontanarla da lui. Vorrei gridare a Travis che lei non è me, ed è con me che deve avere quella reazione. Che sono io

quella che gli è stata vicino sin dall'inizio. Ma non lo faccio. Perché voglio credere che ci sia una ragione se Cass non è venuta a trovare Travis subito dopo il suo ferimento. Perché so che lei ha un'anima delicata, e anche questo, anche vederlo febbricitante e sofferente, potrebbe essere già troppo da subire. Anche se lui è il suo fidanzato, anche se siamo cresciuti tutti e quattro insieme e siamo amici da una vita. Tra le due è sempre stata lei la più debole, e io ho sempre sentito il bisogno di proteggerla. E solo fatto che sia qui dimostra quanto ci tenga a lui, e questa presa di coscienza mi fa sentire ancora più vuota e stupida per aver pensato di amare Travis. Ora tiene la mano di lui sulla guancia, in silenzio, e dai suoi occhi sgorgano lacrime. «Da quanto tempo è in queste condizioni?» mi chiede. «Quando si riprenderà? Quando si risveglierà?» Non potendo parlare, mi volto a guardare Sorella Tabitha, che avanza tra me e Cass e inizia a rispondere alle domande. È un sollievo per me non dover fornire spiegazioni, così mi allontano dal letto, da Cass, da Travis, da Sorella Tabitha, e lascio che parlino tra loro. «Ciao Mary» dice Harry. Avevo dimenticato che c'era anche lui nella stanza, fermo sulla parete dell'uscio. Ricambio il saluto con un cenno del capo. I suoi capelli scuri sono cresciuti dall'ultima volta che l'ho visto, ora sono ripiegati dietro le orecchie. Gli fanno sembrare gli zigomi spigolosi e severi. Siamo vicinissimi l'uno all'altra, e provo un'ondata fisica di rabbia e vergogna davanti al ragazzo che mi ha respinta. «Sorella Tabitha ci ha detto che non puoi parlare, che hai fatto una specie di voto, ma credo che Cass lo abbia dimenticato.» Faccio un altro cenno col capo. Non saprei cosa dirgli, anche potendo parlare. Forse gli domanderei perché non ha mai chiesto la mia mano. Perché mi ha invitata alla Festa del Raccolto, la mattina in cui mia madre è stata infettata, e poi non mi ha più rivolto la parola. Perché non è mai andato da Jed a ufficializzare il suo impegno nei miei confronti. Perché mi ha abbandonato a questo destino con le Sorelle. Forse gli chiederei cos'è accaduto a Travis, cosa gli ha provocato una frattura così brutta alla gamba, e perché non è mai venuto a visitarlo prima. «E stato tuo fratello a trovarlo» mi dice, come se mi avesse letto nel pensiero. Guardiamo

entrambi Cass china su Travis, mentre Sorella Tabitha è appollaiata sull' angolo del letto e le spiega tutto a voce bassa e in tono gentile. Continua a sorprendermi quanto sappia essere materna Sorella Tabitha di fronte alle ferite di Travis. «E stato lui a portarlo qui» aggiunge. «Beth era fuori di sé per il fatto di non essere potuta venire a trovare suo fratello. Ma le Sorelle temono che qualsiasi movimento potrebbe farle perdere il bambino.» Deglutisco rapidamente, cercando di attenuare il bruciore in gola. Quella notte Jed era qui. È stato qui solo pochi giorni fa. Era qui e non è venuto a trovarmi. Non si è nemmeno preoccupato di dirmi che sua moglie è di nuovo incinta. Riesco solo ad annuire, mentre tento di evitare che le guance prendano fuoco a causa di tutte le emozioni che guerreggiano in me. Con uno sforzo indicibile stringo placidamente le mani davanti alla pancia. Harry si volta a guardarmi, ma io continuo a fissare gli occhi oltre. Come suo fratello, anche lui è più alto di me, e per parlarmi deve abbassare lo sguardo. «Nessuno sa cosa sia successo, Mary, o dove fosse.» Esita. «Jed ci ha raccontato di aver trovato Travis che si trascinava tra i campi, in stato semidelirante. Ma nessuno è riuscito a capire cosa sia stato.» Cerca i miei occhi come se dovessi saperne qualcosa, come se avessi la risposta alle sue domande silenziose. Mi limito a restituirgli lo sguardo. Alla fine si piega leggermente verso di me. «Mary» sussurra con un filo di voce, per non essere udito dalle altre persone nella stanza. «Mi dispiace» conclude. «È solo che...» Abbassa gli occhi sul pavimento, poi guarda suo fratello e Cass da sopra le mie spalle. Apre la bocca per aggiungere qualcos'altro, ma a quel punto il corpo di Travis sul letto ha un leggero fremito: Cass gli ha appena lasciato la mano e si è alzata. Sta tirando su con il naso, ha gli occhi rossi e iniettati di sangue, il viso sfatto, come se la vicinanza di tanto dolore l'avesse consumata. È una donna diversa da quella che ho visto entrare prima. «Posso tornare a trovarlo?» chiede. Sorella Tabitha accenna un piccolo movimento, quel che basta per guardare oltre Cass e incontrare brevemente i miei occhi dalla posizione in cui siamo tutti, quindi risponde: «Certo che puoi. Mary prega per lui ogni giorno. Puoi farlo con lei. Forse, unendo le vostre

suppliche, Dio dimostrerà misericordia.» Mi sento gli occhi di Harry addosso,desiderosi di farmi incrociare il suo sguardo. Ma non voglio le sue scuse adesso. Non voglio spiegare perché ho trascorso così tanto tempo al capezzale di suo fratello. Cass si volta verso di me e mi posa una mano sulla guancia. «Mary mia» dice. «Sei così buona.» Sento ancora l'odore di Travis sulle sue mani, e quest’unico pensiero è quasi la mia rovina.

Quando Cass e Harry se ne sono andati, Sorella Tabitha mi riaccompagna alla mia stanza. «Tu hai terminato di leggere la Sacra Scrittura per la quinta volta.» La sua non è una domanda, e, se non ho problemi a mentirle per omissione, non riesco a mentirle guardandola negli occhi, perciò annuisco. «Allora il tuo voto di silenzio è sciolto.» «Si» rispondo, ed è una sensazione strana tornare a pronunciare delle parole con la bocca dopo tante settimane di silenzio. La mia voce risuona come un rumore duro alle mie orecchie così abituate ai dolci sussurri sulle guance di Travis. » «Presto passerai alla prossima tappa dei tuoi studi. Per ora aiuterai Cass ad affrontare questa prova e continuerai a pregare per Travis.» Faccio un cenno con la testa. Perché anche se ho riguadagnato il diritto di parlare, non significa che abbia voglia di farlo. La facoltà di parlare comporta il peso di dovermi giustificare con Cass.

Da debole, non dico a Cass che il mio voto di silenzio è terminato. Resto seduta su una sedia vicino alla finestra, mentre lei è inginocchiata al capezzale di Travis e muove le labbra in preghiera. La febbre non è scesa e Travis si sveglia di rado, anche se spesso si lamenta per il dolore e si dimena sul letto. Dopo una serie di visite di questo tipo, noto che Cass è stanca, esausta, smarrita, così vado a inginocchiarmi accanto a lei e la prendo tra le braccia. Lei crolla su di me scoppiando in lacrime.

Il settimo giorno Cass non viene ad assistere Travis e comincio a preoccuparmi, temendo che le sia accaduto qualcosa. Ma poi al posto suo arriva Harry, e mi dice che è diventato troppo duro per lei vedere Travis così straziato. Non si trattiene. Non mi chiede come sto, né come sta Travis. Si ferma un momento sulla soglia della stanza e mi guarda mentre siedo alla finestra e osservo suo fratello dormire beatamente. «Tu lo ami» mi dice. Provo a cercare un tono d'accusa nella sua voce, ma non lo trovo. «Tu non hai chiesto la mia mano» gli rispondo. Per un istante i suoi occhi si infiammano, poi sposta lo sguardo fuori dalla finestra. Voglio che mi spieghi perché. Ma lui dice solo: «Mi dispiace, Mary.» Si gira e se ne va, lanciandomi un'ultima occhiata prima di chiudere la porta dietro di sé. Scivolo via dalla sedia e mi trascino fino da Travis, mettendomi in ginocchio accanto al letto. Era da tanto che non riuscivo a stare in questa posizione. Negli ultimi giorni c'è sempre stata Cass, e Travis ha cominciato lentamente a migliorare; il rossore intorno alla sua cicatrice sta recedendo. Però deve riprendere coscienza, perché non può continuare a svegliarsi e precipitare in un sonno senza pace, il sonno di una mente evidentemente offuscata dal dolore. Mi aggrappo a lui e inizio a piangere. Piango per la famiglia che ho perso, per aver tradito la mia migliore amica, perché nessuno ha chiesto la mia mano e perché mi sono innamorata di Travis con tutta me stessa. Piango perché la mia vita non è nulla di ciò che immaginavo. Piango per come viviamo tutti, per gli Sconsacrati, per la Foresta degli amori perduti, per le Sorelle e i Guardiani. Piango per me, per Travis e la sua gamba rotta, per il pensiero che potrebbe non guarire, potrebbe non camminare di nuovo bene, e piango perché domani inizierà la prossima tappa dei miei studi e temo che non potrò più venire a trovarlo. Piango perché questa non è vita. Non è così che la vita dovrebbe essere, e io non so come aggiustarla, in nessun senso. Le mie lacrime inzuppano il cuscino. Ho bagnato la guancia, il collo e i capelli di Travis, eppure non riesco a smettere, e continuo a piangere fino ad ansimare, finché non sono costretta a immettere aria nei polmoni per placare le convulsioni del corpo.

Poi sento una mano che si posa sulla mia testa e alzo gli occhi. E Travis, si è svegliato. Per un momento mi chiedo se non sia confuso dal fatto di vedere me al suo capezzale anziché Cass. È lei che ha vegliato su di lui, è lei che l'ha fatto reagire. Ma poi sussurra: «Andrà bene, Mary.» Avvicina la mia testa al suo petto e mi passa le braccia intorno, e io vorrei solo che la vita si fermasse, qui e ora, per farci vivere que sto momento. Invece sento un rumore di passi strascicati sulla porta, sollevo la testa ed è Sorella Tabitha che porta la cena a Travis. Vedendomi, alza un sopracciglio: sono tutta scompigliata e rossa in faccia. Mi rimetto in piedi e mi allontano dal letto, asciugandomi il viso con la manica. Travis si è riaddormentato, il corpo inerte, le braccia lungo i fianchi, e mi ritrovo a chiedermi se la scena di prima non sia stata solo il frutto della mia immaginazione. Sorella Tabitha non dice nulla, ed io esco dalla Stanza, mi addentro nel labirinto della Cattedrale e tomo al mio rifugio di consolazione. Poche ore più tardi riappare alla mia porta, per annunciarmi che i miei nuovi studi mi occuperanno tutta la giornata e non avrò più il tempo di pregare per Travis. Trascorro la notte seduta alla scrivania, con la finestra aperta e l'aria rigida che soffia sul mio corpo intirizzito. Guardo la Foresta, il recinto, e mi interrogo su mia madre e mio padre. Sarà più facile la loro vita ora? Proveranno paura gli Sconsacrati? Sapranno cos'è la perdita, l'amore, il dolore, lo struggimento? Non sarebbe più semplice vivere senza tutti questi tormenti?

7 Sorella Tabitha ha ragione: con i miei nuovi studi non c'è tempo per andare a trovare Travis. Sono le necessità della Cattedrale ad assorbire tutta la mia giornata. Di mattina spazzo via la neve dai marciapiedi, spolvero i banchi di preghiera e sistemo i libri per le funzioni. Preparo le candele sacre per l'altare, recitando i canti specifici per ogni strato di cera. Cucino e lavo i piatti. Ma non sono autorizzata a uscire dalle mura della Cattedrale. Non posso andare al pozzo, né al ruscello, né sui campi. E così non vedo nessuno degli abitanti del villaggio, tranne quando sono loro a venire in Cattedrale. Nelle settimane seguenti Cass e Harry accorrono al capezzale di Travis. A volte insieme, a volte da soli. È orribile da parte mia, ma quando vedo arrivare Cass mi nascondo. Non riesco a guardarla in faccia sapendo che è con lei che Travis ha scelto di stare, e non sopporto l'idea che pur avendo detto il mio nome l'altra sera, potrebbe aver inteso Cass. La notte, quando non ce la faccio più, sguscio fuori dal letto e mi avvolgo la coperta intorno alle spalle. Esco di soppiatto dalla mia stanza e ripercorro il corridoio che conduce nel cuore della Cattedrale. Nel corso degli anni il villaggio ha aggiunto nuove ali all'edificio, corridoi che si ramificano dal santuario principale seguendo strane angolazioni, e che a volte si intersecano, altre no. La mia piccola stanza appartiene alla vecchia struttura, un'area costruita in pietra anziché in legno, umida e tenebrosa. La maggior parte delle Sorelle ha scelto di abitare in un'altra ala della Cattedrale, nelle stanze più nuove che danno sul villaggio, preferendo evitare la vista del cimitero e della Foresta. Forse Sorella Tabitha mi ha assegnato quella camera come punizione, forse intendeva condannarmi all’isolamento. Ma io non ho protestato, preferisco il silenzio e la solitudine del mio corridoio vuoto. Mentre mi avvicino al santuario, il soffitto si eleva nell’oscurità, e la sala si apre rivelando file di banchi di preghiera. Mi addosso al muro per non essere vista dalle Sorelle che vigilano di notte. Mi fermo a osservarle mentre sono in ginocchio, le teste inclinate l'una verso l'altra, e il lume di candela che getta ombre intorno ai loro visi. Stanno bisbigliando in modo furente, presumo che stiano pregando, poi a un tratto una di loro sibila dicendo a bassa voce: «È

stato così e così sarà sempre, e le Sorelle non le permetteranno di supporre diversamente. Lei non può pensare queste cose, né tantomeno dirle.» Senza pensarci, nascosta nel buio, mi avvicino per sentire il seguito. Ma poi irrompe nel santuario Sorella Tabitha, e allora mi defilo in tutta fretta. Quatta quatta mi introduco in una porta, attraverso un corridoio, risalgo la stretta scala e percorro un altro corridoio fino ad appoggiare la mano sulla porta della stanza di Travis. Ho il fiatone e mi freme tutto il corpo: sono riuscita a sfuggire a Sorella Tabitha e a raggiungere Travis. Lentamente giro il pomello della porta. C'è una candela sul tavolo accanto al suo letto; quando la porta si apre, la fiamma vacilla e la corrente d'aria proveniente dal corridoio si riversa dentro la stanza. Chiudo rapidamente la porta. Travis ha la schiena sostenuta da cuscini e ha il viso rivolto verso di me, come se mi stesse aspettando. Dopo un secondo realizzo che è sveglio. Mi tende una mano. Sta tremando leggermente. «Mary, vieni a pregare per me» mi dice, e allora corro a inginocchiarmi al suo capezzale e affondo la testa su di lui. L'odore fetido della malattia è scomparso e il suo viso non è più pallido e intriso di sudore. Mi prende il mento tra le dita; so di avere la pelle bagnata di lacrime. «Prega per me, Mary» mi ripete. «Non... non posso» gli dico. «Non conosco nessuna preghiera.» «Dimmi quella dell'oceano» risponde, e scoppio a ridere. Lui sorride e cautamente scivola di nuovo dentro il letto, io mi chino e inizio a sussurrargli all'orecchio. Tiene la mano stretta intorno alla mia, e non riesco a impedire al mio cuore di battere forte come non ha mai battuto prima.

Nell’ultima settimana sono venuta da Travis ogni notte, e gli ho ripetuto le storie che mi raccontava mia madre. Sono stanchissima, ma anche pazzamente felice. Di notte viviamo nel nostro piccolo universo, apparteniamo soltanto l'uno all'altra, come esonerati da tutti gli altri obblighi. Stanotte, mentre resto in ginocchio accanto al suo letto, le sue dita intrecciate alle mie, il mio corpo palpita di consapevolezza. Sono stati solo pochi momenti, ma ho come la

sensazione che abbiamo condiviso lo stesso respiro per settimane. Sembra quasi che tra le nostre labbra ci sia l'infinito, che non ci toccheremo mai. Come in matematica, dove le metà si possono dividere in eterno. Le mia labbra sfiorano le sue, e mi dimentico di Cass, di Harry, di Jed e del nostro villaggio. Di notte, qui in questa stanza, esistiamo solo io e Travis e il nostro primo bacio. Lì avverto qualcosa di strano. Forse è uno spostamento dell'aria che circola nella stanza, forse sono le mie orecchie che si tappano nel momento in cui si apre una porta da qualche parte, fatto sta che indietreggio un pochino, incrociando lo sguardo di Travis. Vedo che anche lui percepisce la differenza. «Sssh» gli dico, posando un dito tra le nostre labbra, stupita dal fatto che ci sia perfino lo spazio per un dito. Tendo l'orecchio ad ascoltare, e sento dei passi - molti passi - che salgono i gradini e iniziano a percorrere il corridoio. Mi sollevo di scatto in preda al panico. Travis butta indietro le coperte, mi prende il corpo e lo fa scivolare sopra il suo, spingendomi tra sé e il muro, quindi tira su la coperta. Trattengo il fiato e attendo. Bisbigli nel corridoio: un gruppo di persone sta passando davanti alla stanza. Poi la nostra porta si apre, i cardini scricchiolano leggermente, e comincio a sudare dalla testa ai piedi. Il cuore di Travis batte ogni volta che il mio tace, e so che chiunque si trovi alla porta starà sentendo il nostro concerto di percussioni. Dalla mia posizione non saprei dire cosa stia facendo Travis, ma ha il respiro profondo e regolare di chi dorme. Chiudo forte gli occhi e mi maledico per il rischio che sto correndo. Sento la persona alla porta fare un passo dentro la stanza. «Travis?» chiama, come per controllare se è sveglio. Mi mordo il labbro, riconoscendo la voce di Sorella Tabitha. Travis non si muove, non reagisce. Finalmente la porta si chiude con un clic e il chiavistello della serratura si blocca in posizione, il suono attutito dalle coperte. Aspettiamo. Quando Travis abbassa le lenzuola, toma ad affluire aria fresca nei miei polmoni, ma non mi azzardo a spostarmi. Le pareti di questo corridoio sono sottili, e cominciamo a sentire un movimento di persone nella stanza accanto. Un mobile stride sul pavimento e poi qualcuno fa un verso sibilante, come per far cessare il rumore.

Io e Travis ci fissiamo negli occhi. Sentiamo solo un borbottio, una cadenza di voci che sale e scende rapidamente, sovrapponendosi. «C'è un altro ferito secondo te?» sussurro. Scuote la testa. «Credo che lo sentiremmo se avesse dolore.» Scrollo le spalle. Forse è qualcuno che ha perso conoscenza. «Perché dovrebbero chiudermi dentro se fosse soltanto un altro ferito?» mi dice Travis con una voce soffiata. Giro la testa e incollo l'orecchio al muro. Sento un rimprovero brusco e improvviso, pronunciato in tono duro: «No, lo diremo solo quando sarà arrivato il momento. Dovete tenere la bocca chiusa.» E poi forse la persona che parlava si allontana dall'altra parte del muro, perché le voci tornano mormorii indistinti. Mentre mi scervello per capire cosa stia accadendo, a un tratto prendo coscienza di essere sullo stesso letto con Travis, con il corpo schiacciato tra lui e la parete, il nostro calore comune che ci avvolge. Il suo respiro cambia leggermente, facendosi più pesante, pulsante di desiderio, come se avesse appena realizzato la stessa cosa. Ogni centimetro della mia pelle si risveglia all'istante, i peli del mio corpo cercano segni di movimento, come antenne. Travis giace supino, io con la schiena contro il muro, e ci guardiamo. Ho tenuto la mano appoggiata sul suo petto, e avrei l'impulso di premere le dita sulla sua pelle, di comprimere il mio corpo contro il suo. Ho un respiro tremolante. Tutto, tutta questa situazione, è quasi insostenibile. «Forse è meglio che vada prima che tornino a controllare» gli dico. Deglutisce e annuisce con il capo. Sento il modo in cui l'aria entra ed esce dai suoi polmoni, come se per lui respirare fosse uno sforzo. Faccio per oltrepassare il suo corpo. Prima non avevo prestato attenzione, per l'adrenalina, per la paura di essere colta in flagrante. Ma ora so con tutta me stessa ciò che sta accadendo in questo letto. Consapevole della sua ferita alla coscia ancora in via di guarigione, faccio scivolare una gamba oltre le sue anche, facendomi leva con il muro, e resto sospesa sopra di lui, con un ginocchio per lato. Lui chiude gli occhi e riappoggia la testa sul cuscino, le labbra leggermente distaccate, quasi in segno di sofferenza. Allarmata, mi chino su di lui per sussurrargli: «Ti faccio

male?» Con gli occhi ancora chiusi, scuote la testa avanti e indietro, solleva le mani e le posa sui miei fianchi, e con le mani, così grandi sulla mia pelle, mi trattiene in quella posizione per un breve istante, così diventiamo praticamente un tutt’uno, l'una sull'altro dai fianchi fino al mento. La consapevolezza che la mia vicinanza lo turba, che non sono l'unica a sentire questo calore, mi gira in testa come un vortice. C'è un tonfo nella stanza accanto, e finisco velocemente di scavalcare Travis scivolando a terra, pronta a infilarmi sotto il letto se fosse necessario. Con la testa tesa verso qualsiasi nuovo rumore proveniente dalla stanza di fianco, mi precipito alla porta e provo a girare il pomello. Chiuso a chiave. Non c'è modo di aprirlo. Ora Travis giace sul letto con la schiena rialzata, sostenuto sui gomiti. Nel chiaro di luna vedo che ha il viso avvampato di calore. Dovrò saltare fuori dalla finestra. Attraverso la stanza e provo a smuovere il telaio scorrevole fino a che la finestra non si apre quel tanto che mi serve per uscire. Un filo di aria fredda mi penetra attraverso la sottile camicia da notte, cacciando il calore residuo del letto di Travis, e devo cingermi le spalle con la coperta che ho portato. Per fortuna è stato un inverno pesante e lì sotto c'è un cospicuo cumulo di neve che può ammortizzare il mio salto dal secondo piano. Sono sul punto di lanciarmi quando sento il mio nome. Travis sta tendendo la mano verso di me. So di sfidare la sorte, ma ritorno da lui. «Ti rivedrò ancora?» mi chiede. La fiamma della candela accanto al suo letto viene investita dalla corrente d'aria che entra dalla finestra, immergendo il suo volto nell'ombra. «Non lo so» gli rispondo con sincerità. «Non sono sicura di poter correre di nuovo il rischio.» Annuisce. Capisce. Poi mi prende la mano e preme le sue labbra sul mio palmo. È come un incendio che mi entra nel sangue e mi assedia il corpo. Mi bacia il polso, e dentro di me si scatena l'inferno. Comincia a salire lungo il braccio, il suo respiro mi stuzzica fino al tormento, e quando mi attira a sé sto quasi per cedere. Ma faccio un passo indietro, riportando il braccio al petto. «Abbi cura di te» gli dico, perché non so come spiegare quello che vorrei dire in realtà. Subito dopo scivolo fuori

dalla finestra e sprofondo nella coltre di neve, smorzando all'istante il fuoco che mi infiammava la pelle fino a qualche attimo prima. Temendo di essere vista dalle persone nella stanza accanto a quella di Travis, attraverso di corsa il cimitero e mi inoltro verso il recinto, per rifugiarmi nell'oscurità vicino al confine della Foresta. Mentre cammino batto leggermente i piedi, in modo da non rendere troppo evidenti le impronte umane che partono da sotto la finestra di Travis, ma da lì a poco mi si congelano i piedi, perché indosso solo un paio di ciabatte sottili che non mi sono di alcuna protezione. Quando mi sono avvicinata alla Foresta, fin dove mi ha spinto il coraggio a quell'ora della notte, comincio a girare intorno per poter rientrare attraverso la porta principale della Cattedrale. La mia mente toma a vagare su Travis, il suo letto, la sensazione della sua pelle. Tremo per i ricordi, il desiderio, l'aria gelida. Quindi sul momento non mi rendo conto di stare seguendo le impronte di qualcun altro nella neve, non di una sola persona, bensì di molte persone. Mi fermo. Dietro di me c'è soltanto la Foresta, e il cuore inizia a battermi all'impazzata. E se fossero le impronte degli Sconsacrati? Se si fosse aperto un varco nel recinto e non ci fosse nessuno a dare l'allarme? Il terrore mi assale, ma mi affretto a seguire a ritroso le orme, sdrucciolando nella neve, per risalire alla loro fonte. Si interrompono davanti al recinto. Davanti al cancello del sentiero che esce dal nostro villaggio e si addentra nella Foresta degli amori perduti. Mi inginocchio nella neve e guardo oltre il cancello. Luccicanti sotto il chiaro di luna, distinguo una serie di impronte nitide che arrivano proprio fino al cancello. Si snodano tra i rovi spezzati e proseguono a perdita d'occhio lungo il sentiero che penetra nella Foresta. Ma non sono le orme strascicate degli Sconsacrati, sono le impronte compatte e ben marcate dei vivi, di qualcuno che ha percorso di proposito questo sentiero per raggiungerci. Il sentiero è proibito a tutti: abitanti, Sorelle, Guardiani. Mai una volta ho visto questo cancello aperto, e mai una volta ho visto utilizzare questo sentiero. C'è qualcuno da fuori che è arrivato nel nostro villaggio. E ciò significa che esiste un fuori, qualcosa al di là della Foresta. Agitazione, paura, curiosità e panico mi montano in gola, dandomi quasi il capogiro, ma

con uno sforzo deglutisco e riporto la mente al momento presente. China sulla neve, seguo il profilo dell'impronta del Forestiero. È minuta come la mia, ma i passi sono lunghi: potrebbe essere un ragazzo, o una donna. Qualcuno da fuori è venuto nel nostro villaggio! Si leva un vento che sparpaglia la neve appena caduta e confonde le impronte. Quasi saltellando, seguo le tracce che riportano al villaggio, fino all'ingresso della Cattedrale. Nell'eccitazione sto per aprire la porta, in preda a un'energia incontenibile, ma poi i miei pensieri si ricollegano al corpo. Nessuno ha dato l'allarme della sirena; nessuno ha suonato le campane del villaggio. Certo, è notte fonda, ma l'arrivo di un Forestiero è una notizia per cui varrebbe la pena svegliare il villaggio. Eppure le Sorelle lo hanno tenuto nascosto. Hanno portato il Forestiero nella stanza accanto a quella di Travis e l'hanno rinchiuso là dentro. E una di loro ha detto che lo comunicheranno al villaggio solo quando saranno pronte a farlo. A un tratto mi rendo conto che non dovrei sapere del Forestiero, e mi chiedo fino a che punto si spingeranno le Sorelle per tenerlo nascosto. Ripenso al cunicolo sotto la Cattedrale, alla radura tra i boschi, e mi domando quali altri segreti potrebbero celare. Mi immergo nelle ombre scagliate dalle mura della Cattedrale sotto la luna. Con le mani appoggiate sull’'imponente facciata di pietra, mi intrufolo tra i cespugli e aggiro i cumuli di neve finché non sono sotto la mia finestra. Mi allungo, la apro e mi infilo dentro, tutta bagnata e tremante, con le dita e i piedi intorpiditi. Dopo aver riattizzato le braci del caminetto, mi spoglio e stendo i vestiti ad asciugare sulla sedia. Mi metto seduta sul tappeto davanti al focolare, con la coperta sulle spalle, il corpo ancora freddo. Da fuori sento il vento diventare più forte, e ringrazio il cielo, perché così le mie impronte verranno cancellate, pur sapendo che il vento rovinerà anche le tracce del Forestiero fino al cancello. Qualcuno da fuori è arrivato nel nostro villaggio. Seduta, con lo sguardo fisso sulle fiamme, sento dal più profondo di me stessa che era ciò che stavo aspettando, ciò che ho sempre sperato accadesse, anche se non l'avevo mai capito prima. Il Forestiero è la mia scusa per lasciare il villaggio. Ora che c'è una prova, ora che tutto il villaggio saprà che esiste dell'altro, che non siamo più un'isola, è arrivato il momento di

ricongiungerci con il mondo estemo. Nulla ci potrà più trattenere. Non quando si saprà del Forestiero. E io sarò la prima a varcare quel cancello. Sarò quella che ci condurrà all'oceano. Verso il posto inviolato dagli Sconsacrati.

8 Passano tre giorni e sono disperata. Nessuna parola riguardo al Forestiero, nemmeno un accenno. Alla fine, frustrata, mi avvio per andare a trovare Travis, ma Sorella Tabitha è nel corridoio davanti alla sua porta, e mi dice che gli è tornata la febbre e l'hanno spostato, aggiungendo che non autorizzeranno più visite per paura che non riesca a superare altre infezioni. Non potrò vederlo finché non saranno sicure che stia bene. «Mary, non possiamo correre il rischio che questo inverno tutti si ammalino a causa tua e di Travis» mi dice. Do un'occhiata oltre le sue spalle, nella stanza vuota che occupava Travis. «Dov'è?» chiedo. Sento di avere il diritto di sapere. «È al sicuro» risponde. «E comunque non ti riguarda.» Mi osserva dall'alto al basso, stringendo gli occhi. «Mary.» Ha un tono duro, autoritario. Si interrompe e si porta un dito sulle labbra, come per riflettere su ciò che sta per dire. «Mary, tu sei curiosa, e questa può essere una caratteristica pericolosa. Cosa credi che ci abbia portato a tutto questo? Cosa credi che abbia provocato il Ritorno e la comparsa degli Sconsacrati?» Ho un respiro debole. Anche prima di essere portata nella radura della Foresta provavo timore nei confronti di Sorella Tabitha, la Sorella più anziana, la superiora della Congregazione delle Sorelle. «I-i-io...» balbetto. «Io pensavo che non sapessimo cosa abbia provocato il Ritorno.» Ancora una volta resto sbalordita dalle cose che le Sorelle sanno, e che noi ignoriamo. Del resto, sono state loro l'unica costante dopo il Ritorno, o almeno così ci è stato detto. Sono state loro la forza trainante del villaggio, loro che hanno costituito i Guardiani, ed è grazie a loro che esistiamo e siamo ancora in vita. Loro rappresentano la parola di Dio, che è indiscutibile. Sono loro che ci insegnano a scuola, loro che ci dicono che siamo gli unici rimasti al mondo, e che l'epoca del Ritorno è alle spalle ed è ininfluente per il nostro nuovo mondo. Sono loro che ci insegnano a non mettere in discussione le loro dichiarazioni, o la nostra sopravvivenza dopo il Ritorno, o il nuovo mondo che hanno costruito per noi. Sorella Tabitha sorride, nel modo in cui suppongo sorriderebbe una madre per accontentare un bambino e i suoi capricci. «Sappiamo abbastanza.» Mi prende le braccia e

mi trascina con sé nella vecchia stanza di Travis. Mi tiene in modo fermo, ma senza farmi male. Mi conduce alla finestra, finché non siamo proprio davanti al vetro e guardiamo il recinto e la Foresta di fuori. «La causa precisa del Ritorno può essere anche coperta dal mistero, ma noi sappiamo che stavano cercando di tradire Dio. Di ingannare la morte. Di cambiare la volontà del nostro Signore.» Indica la Foresta con una mano. Come sempre, gli Sconsacrati stanno tirando le reti del recinto. «Ecco cosa succede quando vai contro la volontà del Signore. Questo è il Suo castigo. Questa è la nostra penitenza.» Sta parlando con grande autorità e fervore. Ora tiene la mano chiusa in un pugno, e lo picchia contro il davanzale per sostenere le proprie ragioni. «Non dimenticare che ora vivi per Dio, Mary. Noi tutti viviamo per Dio. È solo attraverso la Sua misericordia che ci è dato di sopravvivere.» Si volta verso di me con un'espressione veemente, quasi esagitata. «Ricorda da dove proveniamo, Mary. Da dove proveniamo tutti. Non dal Giardino dell'Eden, ma dalle ceneri del Ritorno. Noi siamo i sopravvissuti.» Mi afferra le spalle e mi scuote. «Noi dobbiamo continuare a sopravvivere. E io non permetterò che nulla comprometta la nostra sopravvivenza.» Nei suoi occhi vedo che non esiterebbe un istante a sacrificarmi e a consegnarmi alla Foresta se questo dovesse salvare il villaggio, o anche solo salvare la sua posizione all'interno della comunità. È una fanatica, è carica di passione. Per la prima volta comprendo veramente il mondo in cui vivo. Che non è il mondo perennemente al limite, sull'orlo del baratro, che vive sotto la minaccia costante della Foresta, ma il mondo che lo sottende, quello governato dalla Congregazione delle Sorelle e dal loro compito di proteggerci e preservarci. Capendo questo, prendo realmente coscienza della nostra fragilità. Sorella Tabitha si aspetta che dica qualcosa, ma non so cosa dirle. Non so come replicare. Credo che sappia ciò che ora per me è una certezza: che questo non sarà mai davvero il mio posto. Né come Sorella, né come moglie, né come abitante. Le Sorelle possono avere scienza e potere, ma Sorella Tabitha mi ha fatto intendere chiaramente che non arriverò mai a usufruirne. Per lei non sono degna di fiducia, perché non sono entrata nella Congregazione di mia spontanea volontà, perché faccio troppe domande e cerco troppe risposte.

Non verrò mai ammessa nell'elite, non conoscerò mai i loro segreti: non mi diranno mai perché esiste un cunicolo che sbocca nella Foresta e a cosa servono le stanze che vi si affacciano. I miei compiti qui si limiteranno sempre e soltanto ad accudire i malati, pulire il santuario, leggere la Sacra Scrittura, pregare per le nostre anime. Non avrò mai una vita che mi appartenga. Sono tutte rivelazioni terribili, e vorrei solo mia madre, vorrei poter correre da lei e rifugiarmi tra le sue braccia, nella sua protezione. Ma ora mia madre appartiene a quel mondo di cui mi parla Sorella Tabitha. Fa parte di ciò contro cui combattiamo ogni giorno. Come se mi avesse letto nel pensiero, mi dice: «Devi trovare il tuo posto qui, Mary. Devi affidarti a Dio e smettere di cercare qualcos'altro.» Mentre mi parla è protesa verso di me, e sono costretta a spostarmi per non respirare l'alito caldo della sua declamazione. «Tu credi di volere delle risposte alle tue domande, ma non è così. E non le avrai. Perché è nostro dovere solenne, come Sorelle, fare in modo di escludere queste domande. Devi mettertelo in testa, non ci sono risposte per te.» Fa scorrere un lungo dito sulla mia guancia, l'unghia affilata contro la mia pelle. «Tu sarai la nostra fine se continui su questa strada! Me lo sento, lo vedo in te.» Una scintilla di apprensione comincia ad ardermi dentro. Le sue parole mi risuonano in testa a gran voce: io sarò la fine. È come un pezzo di puzzle che trova il suo incastro, un’ illuminazione repentina sul perché Sorella Tabitha abbia voluto sorvegliarmi così da vicino, non permettendomi nemmeno di uscire dalla Cattedrale. «Cosa mi sta chiedendo di fare?» bisbiglio. Penso a Cass, alle sue trecce bionde, al suo profumo di sole, a come piangeva al capezzale di Travis quando è stato ferito. Non posso essere la sua fine, la fine di tanta dolcezza e di tanta luce. «Smettila di cercare risposte a domande che non dovresti nemmeno porti! Abbraccia la tua vita qui. Perché credi che il villaggio sia sopravvissuto mentre il resto del mondo è perito? Perché credi che abbiamo vissuto per così tanto tempo senza invasioni? Perché credi che siamo protetti dagli Sconsacrati? È perché non tentiamo l'ira di Dio. Non tentiamo gli Sconsacrati. Non corriamo rischi stupidi, ma ci dedichiamo a Dio e agli altri.» Ha il viso vicino al mio, gli occhi spalancati e bianchi.

«Siamo sopravvissuti perché la Congregazione ha fatto ciò che era necessario. Abbiamo preservato l'ordine nel villaggio.» Fissa la distesa infinita della Foresta fuori dalla finestra. «Immagina se questo villaggio non avesse un ordine.» Sbatte di nuovo la mano sul davanzale. «Immagina se le persone dovessero violare voti e giuramenti. Immagina se si derubassero a vicenda. Così era il mondo prima del Ritorno. E guarda il risultato.» Allunga di scatto una mano verso la Foresta, poi si volta e mi fulmina con lo sguardo. «E per questo che devi lasciare in pace Travis. Ho visto come lo desideri. Ma lui non è destinato a te.» Tutto intorno a me sembra crollare. Mi sento le ginocchia deboli, a malapena in grado di sostenere il loro peso. Non so cosa dire o come rispondere, e annuisco, perché il dolore è troppo forte. Mi sta chiedendo di rinunciare all’unica speranza che mi è rimasta. Mi afferra le spalle, affondando le lunghe dita ossute attraverso la mia tunica. «Quando uscirai da questa stanza, tornerai a dedicarti alla Congregazione e al villaggio. A tutte le persone della nostra comunità e alla nostra sopravvivenza. Ti pentirai!» Il suo petto si solleva e si abbassa in un respiro affannoso, ha i denti stretti e i muscoli contratti. Si allontana da me di un passo e si volta verso la finestra. Per un momento, dal suo riflesso sul vetro, vedo un senso di dispiacere nel suo volto, nella pesantezza della pelle sulla testa. «So che posso sembrare dura, Mary» mi dice con una voce improvvisamente calma, misurata. «Che le regole della Congregazione sono dure. Ma cos'è un villaggio senza ordine? Senza regole, senza persone che le impongono? » Appoggia un palmo sulla finestra, le dita allargate, e vedo che trema leggermente. «La Congregazione porta un fardello segreto. Lo sosteniamo noi affinché gli abitanti non debbano farlo. Per poter dimenticare quello che c'era prima, per poter guarire, per rinascere senza il peso dei nostri peccati precedenti al Ritorno.» Sto ribollendo: per tutto questo tempo ci hanno lasciato all'oscuro e loro sapevano. «Perché tenete tutti questi segreti?» domando. «Perché non vi fidate di noi?» Si gira a guardarmi e per un momento i suoi occhi mi trapassano, come se rivedesse sé stessa ripercorrendo il lungo tempo trascorso. Come se stesse ricordando. Intorno ai suoi occhi vedo il fantasma di un sorriso, rughe di vecchie risate che si contraggono di nuovo in modo impercettibile.

Comincio a realizzare che forse sto tirando troppo la corda con lei. Che forse la sto spingendo a buttarmi nella Foresta per impedirmi di rivelare quello che ora so: che la Congregazione delle Sorelle ci nasconde dei segreti. Faccio un passo indietro, ma la sua voce mi ferma. «Tua madre ti raccontava sempre della vita prima del Ritorno» mi dice. «Ma ti ha raccontato degli omicidi? Del dolore, dell'angoscia? Dell'eresia, dell'ipocrisia? Delle guerre, degli inganni, dell'egoismo? Di persone che lasciavano degli esseri umani morire di fame là fuori, al freddo, mentre loro stavano al caldo e avevano di che nutrirsi? Anche durante il Ritorno, quando noi ci battevamo per salvare l'umanità, le persone si rivoltavano Luna contro l'altra, si attaccavano, si derubavano! «Ecco perché siamo qui, ecco come siamo sopravvissuti: isolandoci. Lasciando perire il resto dell'umanità. Qui, tutti hanno da mangiare. Tutti hanno un tetto, protezione, amore, assistenza. Siamo noi che provvediamo a questo, Mary. È la Congregazione che ha portato il paradiso in questo inferno. La gente vuole sempre ricevere fiducia, ma tu guarda a cosa porta! Io mi sono fidata di te e guarda: di notte te ne vai in giro per la Cattedrale di nascosto quando pensi che non ti stia vedendo. Guarda come disobbedisci alle regole quando si tratta del tuo interesse. «Anche se questo significa far del male alla tua amica. Tu desideri Travis, lo tenti pur sapendo che è impegnato con Cass. Anteponi i tuoi desideri a quelli della ma amica, a quelli della comunità e di Dio.» Si interrompe per un istante, quasi per ricomporsi prima di continuare. «Tu pensi di volere l'amore, Mary. Credi che sia un bellissimo dono che può solo riempirti e completarti. Ma ti sbagli. L'amore può essere crudele e orribile. Può diventare oscuro e provocare il dolore più atroce. Guarda cos'è successo ai tuoi genitori.» Si porta una mano al petto, come per afferrarsi il cuore. «Non capisci che in questo villaggio la vita non è fatta di amore, ma di impegno?» Faccio un altro passo indietro, le mani sulla bocca. Arrossisco. Per tutto questo tempo ha sempre saputo di me e di Travis. «Come fa a sapere queste cose?» le chiedo. Ripenso a tutte le notti in cui mi sono intrufolata nella stanza di Travis attraversando di soppiatto la Cattedrale. A tutte le volte che pensavo di essere sola, di essere sfuggita alla sorveglianza di Sorella Tabitha. Mi stava solo mettendo alla prova. Voleva vedere fino a che punto mi

sarei spinta tradendo la sua fiducia e la mia stessa lealtà. Per un attimo penso che non mi risponderà. «Non è una vita facile» mi dice infine «quella di un custode delle conoscenze della Congregazione. E molto più facile vivere nell'ignoranza, come te. Non capisci che sto cercando di salvarti? Di evitarti dolori e tormenti? È per questo che devi pentirti. Perché se non lo fai, non mi lascerai altra scelta. E tu lo sai che sorte ti aspetta.» Con il cuore martellante penso al cunicolo sotto la Cattedrale e alla radura nella Foresta, e annuisco. Sorella Tabitha mi scosta un ciuffo di capelli dal viso e mi posa una mano sulla guancia, come faceva mia madre. «Sto cercando di proteggerti, ma tu mi devi aiutare. Ora ho capito che non basta più tenerti rinchiusa qui nella Cattedrale. Forse ho sbagliato ad allontanarti dal villaggio. Il tuo isolamento è terminato. Puoi uscire da questo edificio. Ma ricorda, ti controllerò sempre.» Tiene gli occhi fissi sui miei, e mi è impossibile distogliere lo sguardo. Poi si volta, strusciando il pavimento con la lunga tunica nera, e mi lascia alla finestra. Chiude la porta dietro di sé e io resto sola a guardare la Foresta. Fuori, la neve candida ricopre gli alberi e il recinto, stendendo la sua coltre sugli Sconsacrati. È una giornata limpida, i cristalli di ghiaccio luccicano sotto il sole. Una di quelle giornate in cui non si capisce perché esista tanta bellezza in un mondo così brutto. È quasi insopportabile. Mi trascino fino al letto e mi inginocchio di lato come facevo quando c'era Travis. Immergo il viso nel suo cuscino, tentando di ritrovare il suo profumo, i miei ricordi. È un modo per vedere se riuscirò davvero a rinunciare a lui. Ma so che non ce la farò mai. Nemmeno per salvarlo. Sono troppo egoista. Senza rendermi conto, mi ritrovo a prendere a pugni il cuscino e a strappare le lenzuola, la gola contratta da un ringhio sordo. Sono sul punto di compiere altri atti distruttivi quando sento bussare piano. Raggelo. Sento bussare di nuovo. Il colpo non proviene dalla porta, ma dalla parete. Salgo sopra il letto e incollo l'orecchio al muro. Rispondo battendo con un dito. «C'è qualcuno?» chiedo, a voce bassa.

Che sia una trappola tesa da Sorella Tabitha per mettermi alla prova, per vedere se ho preso a cuore le sue parole? «Chi è?» sento dire dall'altra parte. «Mary» rispondo. «E tu chi sei?» «Mi chiamo Gabrielle» dice. «Sono entrata dal cancello. Dove mi trovo?» «Nella Cattedrale» le dico. Mi scoppia il cuore. Vorrei dirle che è al sicuro, ma ora non ne sono più così certa. Avrei mille domande da farle, ma so che Sorella Tabitha potrebbe tornare in qualsiasi momento, e se dovesse scoprirmi mi spedirebbe dritta dentro la Foresta. Però c'è una cosa che devo sapere assolutamente. «Stai bene? Sei stata...» Fatico a trovare le parole. «Morsa? Infettata?» Devo sapere se è arrivata fino al villaggio indenne. Se il sentiero è sicuro. Il mio respiro irregolare è così assordante che sento a malapena la sua risposta. «No» dice. «No, sto bene. Non sono infettata.» A quelle parole abbandono la fronte sul muro, pervasa da un enorme senso di sollievo che non saprei nemmeno definire o spiegare. Apro la bocca. Sto per chiederle da dove viene, se esiste un mondo fuori dalla Foresta, che tipo di realtà è, se ci sono altri villaggi, se sono sicuri. Se ha mai visto l'oceano, se sa perché siamo qui, perché siamo tutti intrappolati in questo posto. Ma sento lacrime che mi scendono sulle guance e odo un rumore stridulo provenire dal corridoio. Salto giù dal letto, raccolgo tra le braccia le lenzuola che prima avevo strappato dal materasso e corro alla porta, per evitare che Sorella Tabitha, aprendola, possa scoprire che ero addosso al muro, intenta a parlare con la ragazza dell'altra stanza. Mi affretto a uscire dalla stanza e vado in lavanderia, dove mi lascio inondare dal vapore dei tini d'acqua bollente, dove la mia pelle luccicante nasconde le lacrime mascherandole con il sudore. Quando ho terminato di lavare via il profumo di Travis dalle lenzuola, mi infilo il pesante cappotto e i guanti, sguscio fuori e mi inoltro nel cimitero, verso la linea di recinzione. Qui, nel cuore dell'inverno, sono certa che potrò restare da sola, perché nessuno del villaggio si azzarda ad allontanarsi troppo dal calore del proprio focolare, nemmeno per

onorare i caduti. Qui riposano tutti i miei antenati, tranne mio padre e mia madre; la loro morte non è marcata da una pietra tombale, loro sono Sconsacrati. Mi guardo indietro da sopra le spalle e getto un'occhiata alla Cattedrale, per vedere se Gabrielle è alla finestra in questa notte cadente. E lei è là, in piedi tra le tende. Mi fermo e alzo gli occhi, e i nostri sguardi si incrociano. Mi si strozza il fiato: è come se stessi guardando un riflesso nell'acqua. La stes sa età, gli stessi capelli scuri, le stesse domande nei nostri occhi. Sembra solo più alta, più slanciata di me. E indossa un gilè di un rosso innaturale, così acceso e strano che mi fa quasi male agli occhi. Alza una mano e la appoggia sulla finestra, il palmo aperto contro il vetro. Sollevo la mia e inizio a camminare verso di lei, ma in quel mo mento la vedo voltarsi e guardarsi oltre le spalle; poi le tende si chiudono e lei scompare. Corro a nascondermi dietro l'angelo di una lapide per paura di essere scoperta a osservare la stanza della Forestiera, perché è evidente che la sua presenza qui deve restare un segreto. Quando sono certa che le ombre del crepuscolo celeranno i miei movimenti, mi dirigo verso il cancello che blocca l'accesso al sentiero esterno. Non c'è traccia che indichi che una Forestiera ha varcato questo limite qualche notte prima. Nulla che tradisca la presenza di una Forestiera tra di noi. Giro intorno alle abitazioni, sbattendo le braccia contro i fianchi per riscaldarmi, e mi incammino verso la collina del villaggio. Salgo dentro la torre di vedetta, scivolando sulle tavole di legno ghiacciate. Quando sono sul punto più alto del nostro villaggio, guardo la Foresta. Strizzo gli occhi per cercare di scorgere un confine, un qualche punto dove inizi il resto del mondo. Ma vedo solo l'oscurità. Tutta la mia vita è stata incentrata sul mondo al di fuori del recinto, sulla Foresta. Certo, mi sono domandata se esista qualcosa oltre la Foresta, se al Ritorno sia sopravvissuto qualcos'altro, se i racconti di mia madre fossero veri e se prima del Ritorno esistesse davvero un intero universo. Non sappiamo nemmeno se ci sia un recinto dall'altra parte degli alberi, e se questo recinto abbia una fine oppure no. Siamo semplicemente il tuorlo di un uovo, e la Foresta è l'albume, e il guscio è un altro recinto? Oppure la Foresta si prolunga all’infinito ed è attorniata soltanto dagli Sconsacrati? Una parte di me ha sempre immaginato che nel nostro mondo non possa esistere altro che la Foresta.

La Foresta e gli Sconsacrati. Mi sono sempre interrogata anche sull'oceano, su quello che prima era il mondo esterno. Ma non avevo mai considerato di uscire da qui per andare a scoprirlo di persona. Non avevo mai considerato di abbandonare il villaggio e l'unica vita che abbia mai conosciuto. Ci hanno cresciuti dicendoci che oltre le reti non c'è nulla che valga la pena di essere vissuto. Che il Ritorno ha segnato la fine del mondo e che noi siamo l'ultimo bastione. Ma ovviamente è falso. Gabrielle ne è la prova. Anche se la terra è coperta di neve, anche se mi trovo dentro una torre sopra una collina spazzata dal vento, non sento freddo. Sono troppo agitata per avere freddo. C'è la prova che esiste una vita anche fuori dalle nostre recinzioni. E non riesco a non domandarmi come cambieranno le nostre vite. C'è un mondo là fuori, al di là di noi. E ora facciamo parte di questo mondo. È spaventoso e al contempo bellissimo.

9 Tamburello le dita sulla scrivania sotto la finestra della mia stanza. Sono impaziente. Non riesco a smettere di picchiettare il piede sul pavimento. Tengo gli occhi fissi sul recinto, cercando il minimo segno della presenza di mia madre. È l'unica cosa che riesce a non farmi pensare alla Forestiera, a Gabrielle, e a come potrei salire di nascosto per trovarla. Dopo il nostro ultimo confronto so che Sorella Tabitha mi sta tenendo d'occhio, ma nonostante questo non riesco a restare tranquilla, non riesco a contenere la curiosità. In un tentativo di sfuggire al suo controllo, sono uscita dalla finestra e mi sono appostata sotto la stanza di Gabrielle, sperando di trovare un modo per risalire i due piani e introdurmi all'interno. Ma la finestra è sempre buia, e le tende serrate. Da quel primo giorno in cui era affacciata alla finestra con il suo strano gilè rosso non l'ho più vista, e comincio a preoccuparmi, a chiedermi se stia bene. Comunque so che è ancora qui nella Cattedrale. L'ho capito dal modo in cui le Sorelle bisbigliano tra di loro e osservano quelli di noi che non sono iniziati ai loro arcani. L'aria è tesa come una corda. I miei tentativi di parlare a Gabrielle sono diventati sempre più imprudenti, e so di rischiare la collera di Sorella Tabitha se dovesse scoprirmi. Ma è più forte di me. E come una febbre. Ora che non ho più il permesso di vedere Travis, Gabrielle è il mio unico pensiero. Ho deciso che devo scoprire cosa c'è oltre la Foresta, anche a costo di sfidare Sorella Tabitha e gli Sconsacrati. Un colpo alla porta mi desta dai miei pensieri. È una giovane Sorella incaricata di accompagnarmi da Sorella Tabitha. Mi conduce verso il santuario, nel cuore della Cattedrale, e poi attraversiamo un'altra ala cui possono accedere soltanto le Sorelle della fascia gerarchica più alta. Forse ci siamo. Forse questi saranno i miei ultimi passi. Forse dovrò pagare per la mia curiosità, la mia testardaggine e la mia impetuosità. Forse dovrò supplicare Sorella Tabitha di perdonarmi quando saremo nel cunicolo che porta al vecchio pigiatolo e mi abbandonerà nella Foresta. Quando entro nel suo ufficio, subito abbagliata dai fiotti di luce che penetrano dalle tre grandi finestre affacciate sul villaggio, Sorella Tabitha non è sola. Con lei c'è Harry, le

braccia lungo i fianchi, le mani serrate a pugno. Travis è morto, penso di colpo. Mi avevano detto che le sue condizioni si erano aggravate, e ora ecco suo fratello con aria solenne e triste. Sto per crollare sulle ginocchia. «Ho un annuncio da farti» esordisce Sorella Tabitha. Mi limito a fare un cenno con la testa, mentre lacrime acide mi corrodono le corde vocali. «Harry ha chiesto la tua mano, Mary» mi comunica. Giro di scatto la testa verso Harry. Sento le sopracciglia inarcarsi per lo shock e la rabbia. Non posso credere che sia vero. Perché dovrebbe chiedere la mia mano ora se non l'ha fatto prima, quando avrebbe avuto un senso, quando avrei potuto dire di sì e sarebbe stato un sì sincero? Quando ancora non conoscevo l'amore, e avrei potuto accontentarmi dell’ammirazione e dell'accettazione? «Ma la Congregazione...» balbetto. No, è impossibile. «Gli ho dato la mia benedizione. E lo ha fatto anche tuo fratello Jed» replica Sorella Tabitha. «Sarai più utile là fuori come moglie e madre che qui dentro come Sorella.» I suoi occhi taglienti mi scavano dentro. «Lo sappiamo entrambe che sei inadatta alla Congregazione.» Il mondo mi gira intorno in un vortice, e non ho nulla a cui aggrapparmi per assestarlo. Riesco solo a pensare a Travis e alla sensazione che ho provato quella sera sopra il suo corpo. Come potrei stare con suo fratello dopo quello che è successo? «Vi sposerete durante l'Iniziazione, in primavera» prosegue. «Insieme a Travis e Cassandra» aggiunge, come se non sapesse di spezzarmi il cuore. «I miei doveri nei confronti di Dio...» comincio a chiedere, anche se non credo in Dio. «Verranno assolti compiendo la Sua volontà e rendendo prospero il nostro villaggio attraverso un'altra generazione» termina lei. Sta dicendo che dovrò avere dei figli con Harry. Il pensiero mi stringe lo stomaco. Ripenso alla sua mano che teneva la mia sott'acqua il giorno in cui mia madre è stata infettata. Ripenso alla sua pelle, a come mi appariva turgida, bianca, strana. Apro la bocca, pronta a respingere la sua corte. Ma poi mi rendo conto che, se lo faccio, legherò per sempre il mio destino alla Congregazione delle Sorelle, mi condannerò a

trascorrere una vita dentro queste mura, al servizio di Dio e di Sorella Tabitha. La mia mente è un turbine di pensieri; devo capire qual è la scelta migliore, il destino migliore: una vita come moglie di Harry o una vita come Sorella. Nessuna delle due mi porterà più vicino a Travis. «Volete restare soli un momento a parlare?» ci domanda. Lancio un'occhiata a Harry, senza badare alla sofferenza, alla rabbia e alla desolazione che sprigiono fisicamente. Lui mi guarda con un'espressione dolce, le mani non più serrate. Sembra quasi volersi piegare in avanti, in procinto di fare un passo verso di me. Per reazione i miei muscoli si contraggono e iniziano a tremare. Mi stupisco di non ringhiare come un animale ferito messo spalle al muro da un branco di cani. Harry fa per alzare una mano, non so se per richiamarmi a sé o per respingermi, e nemmeno m'importa. Senza muovere un passo mi sento già allontanare da lui, mantenere una distanza fisica tra noi. Poi il suo sguardo diventa più severo, più profondo, e scuote la testa. «No» dice. E se ne va, mentre io vengo riaccompagnata alla mia stanza, dove crollo in un pianto disperato. Mi tiro i capelli, sbatto i pugni contro le cosce e mi getto a terra davanti al fuoco morente. Una volta avrei potuto accettare una vita con Harry. Una volta i racconti di mia madre erano solo fantasie, e il mio mondo era solare, caldo, pieno di amore e di amici. Ma non conosceva palpitazioni. Non c'era niente di simile a una vita fuori dal villaggio. Prima potevo anche aver avuto una cotta per Travis, ma era un semplice struggimento infantile che avrei tranquillamente cancellato con l'appagamento di essere chiesta in sposa da Harry. Ora però tutto questo è cambiato. Sia mia madre che mio padre sono Sconsacrati, Travis è ferito, Cass non c'è, Jed viene a pregare nella Cattedrale e non si degna nem meno di scambiare una parola con me. E ora esiste una vita al di là della Foresta. Sento gemere gli Sconsacrati. Il rumore sorvola la vecchia neve sporca ed entra dalla finestra. Rifletto ancora su quanto lineare sia la loro vita, su quanto sia più semplice. Mi domando il perché di questo scontro, perché li combattiamo da così tanto tempo invece di accettare il nostro destino.

Senza più curarmi delle conseguenze, esco dalla mia stanza, attraverso con passo deciso il corridoio e risalgo le scale per recarmi nella stanza dove tengono la Forestiera. Sto per scansare qualcuno dalla mia traiettoria quando mi accorgo che è Cassandra. Sta uscendo dalla vecchia stanza di Travis. «Cass?» dico. «Come mai sei qui?» Faccio il gesto di abbracciarla, lei risponde, ma mi abbraccia senza energia con le braccia flosce. Sono settimane che non ci vediamo, mesi che non trascorriamo del tempo insieme in amicizia, come facevamo sempre prima che mia madre diventasse Sconsacrata. Per la prima volta mi rendo conto di quanto ci siamo allontanate, di quanto mi sia mancata la sua amicizia, di quanto mi sia mancato qualcuno a cui confidare le mie paure, le mie sofferenze, le mie confusioni. Mi lascia per prima e tira la porta dietro di sé finché non la sente chiudere, privando lo stretto corridoio di quell'unica fonte di luce. «Sono qui per Travis» mi dice. Il respiro mi resta intrappolato in gola e improvvisamente il pensiero della Foresta svanisce. «Sta bene? L'hanno riportato su?» Annuisce, si tira la lunga treccia bionda e si morde il labbro inferiore. «Ora Travis è mio, Mary. Così come Harry è tuo.» «Io...» Vorrei dirle che si sbaglia, che Travis ama me e sarà mio per sempre. Ma naturalmente non è vero. Travis non è mai stato mio. Anche in quelle lunghe notti di preghiera insieme, sapevo che apparteneva a qualcun altro. Lui è sempre appartenuto a Cass. Così come ora io appartengo a Harry. Lascia andare la treccia e mi posa una mano sul braccio, e devo sforzarmi di non fare smorfie. «Devi lasciarlo andare, Mary» mi dice, affondandomi le dita nella pelle. «Lui ti seguirebbe ovunque, ma non può. Semplicemente non può.» «Ma...» «Sai, mi ero innamorata di Harry. Proprio nelle ultime settimane, quando non riuscivo più a sopportare la sofferenza di Travis.» Guarda oltre la mia spalla, come se si trovasse in un posto diverso da un corridoio nel cuore della Cattedrale. «Abbiamo trascorso un sacco di tempo insieme. Mi teneva la mano. Ero sicura che si sarebbe fatto avanti.» Riprende a tirarsi la treccia. «Ero sicurissima che mi amasse.» Il suo sguardo si posa di nuovo su di me, stretto e tagliente. «Ma poi ha chiesto la tua mano.»

Troppi pensieri mi frullano in testa. «Io pensavo che Travis ti stesse facendo la corte. Pensavo che ti avesse chiesto di andare con lui alla Festa del Raccolto.» Ripenso a tutte le volte in cui Cass è venuta a trovare Travis, a tutte le volte in cui è rimasta al suo capezzale per consolarlo e io avevo scambiato la sua devozione per amore e possesso. «Come poteva farsi avanti, Harry, se tu eri già impegnata?» Inclina la testa da un lato come se mi vedesse per la prima volta dopo secoli. «Sorella Tabitha mi aveva dato il permesso di interrompere il corteggiamento» mi dice. «Loro non sapevano se sarebbe sopravvissuto all'infezione e, anche in quel caso, pensavano che sarebbe rimasto menomato, e che quindi non sarebbe stato fisicamente in grado di occuparsi di una moglie. Sono venuta a trovarlo per lealtà e per amicizia. Proprio come te.» Era naturale che Cass gli sarebbe stata vicina nel momento del bisogno, corteggiamento o non corteggiamento: ci conosciamo tutti da una vita, siamo cresciuti insieme praticamente come una famiglia. «Poi cos'è successo?» le chiedo. I suoi occhi si induriscono. «Harry ha chiesto la tua mano invece della mia.» «Ma perché?» Ho una voce debole, disperata. Noto un guizzo di muscolo sulla sua mascella. Lentamente alza le spalle e inclina la testa di lato, come fa di solito. «Non è in questo modo che deve andare» le dico. Non ho mai visto Cass così seriosa, risoluta, lucida. «Invece sì» risponde lei. «Ma se tu ami Harry e io...» Mi interrompo lì, ma sappiamo entrambe ciò che stavo per dire. «Tu ami Travis» termina la frase per me. Resto in silenzio, con le mani penzoloni lungo i fianchi. Lascio cadere la testa. Non è la prima volta, oggi, che mi sento debole e svuotata. Com'è possibile che sia precipitato tutto in così poco tempo? «Mi dispiace» sussurro infine. «Lo so che non volevi» mi dice, mettendomi una mano sul braccio. «Nemmeno io

volevo innamorarmi di Harry.» Non riesco a guardarla negli occhi, non posso far trasparire la mia esitazione. Perché io lo volevo, in realtà. Non ho mai cercato di reprimere il mio desiderio per Travis, nemmeno quando l'ho visto insieme a Cass e lei piangeva disperata al suo capezzale. Ho sempre saputo che erano impegnati. Sapevo che, tentandolo, Travis avrebbe potuto infrangere la sua promessa, abbandonare la mia migliore amica per stare con me, e sapevo che mi amava abbastanza per farlo. Appoggio la mano sulle sue ma lei le ritrae, e la sua pelle fresca scivola via dalla mia. «Non capisco perché non possiamo cambiare questa situazione. Non è così che devono andare le cose, se non lo vogliamo...» «Harry ha chiesto la tua mano, Mary» mi ripete tra i denti. «Ha fatto la sua scelta. Ha scelto te invece di me. E se lui vuole che sposi Travis, io lo farò.» Cass è talmente infervorata nel discorso che mi spaventa. È sempre stata il tipo di ragazza spensierata e felice che allontana i problemi e le preoccupazioni. «Ma possiamo ancora cambiare la situazione, Cass.» Mi protendo verso di lei. «Parlerò a Harry, gli dirò che non voglio stare con lui...» Con la rapidità di un serpente allunga la mano, mi afferra la spalla e mi tira verso di sé finché i nostri visi non sono vicini. Nell'oscurità del corridoio sembra soltanto una massa d'ombra, le sopracciglia aggrottate in uno sguardo feroce. «Tu non farai niente di simile. Non gli spezzerai il cuore in questo modo.» «Ma non è così che devono andare le cose. Se io voglio stare con Travis...» Mi interrompe di nuovo scuotendomi il braccio, spingendomi contro il muro del corridoio. «Se solo provi a spezzare il cuore di Harry, io ti prometto che non lascerò mai andare Travis. Resterai da sola. Ti rispediranno qui dalle Sorelle.» Si ferma e, quasi mi stesse leggendo nella mente, aggiunge: «E non pensare che Travis mi abbandonerà per stare con te. Non potrebbe mai fare un torto del genere a suo fratello. Renditi conto che tutto quello che può aver provato per te è scomparso, ora che Harry ha chiesto ufficialmente la tua mano. Ora che dovrai essere la moglie di suo fratello.» Le sue parole mi squarciano il corpo. Non l'avevo mai vista così, amareggiata, secca, minacciosa. «Ma Cass, non capisci? Tu non ami Travis. E lui non ama te!» So di essere dura e crudele, ma deve affrontare la verità.

Mi guarda come se non comprendesse, poi scoppia a ridere. «Il matrimonio non è una questione di amore, Mary» mi ricorda, nel tono in cui un'insegnante si rivol ge a uno scolaro. «E questione di impegno, di compromesso e di affetto. Non c'entra l'amore in tutto questo.» Scuoto la testa, incredula. «Prima dicevi di amare Harry e ora sei disposta a rinunciare a lui. Perché?» Ancora una volta scrolla le spalle. «Faccio quel che è meglio per lui. E per il villaggio. È così che deve essere, Mary. Ed è così che sarà.» Vorrei scuoterla, farla ragionare. Parla esattamente come Sorella Tabitha, come se non capisse le scelte che sta imponendo a tutti noi. Ora mi accorgo di quanto è forte l'influenza delle Sorelle, di quanto intimamente ci intralcino con le loro convinzioni. Apro la bocca per continuare a discutere con Cass, ma l'espressione dei suoi occhi, quella ferocia, mi snervano troppo. Per la prima volta la mia migliore amica mi terrorizza. A parte questo, ha ragione. Anche se respingessi Harry, Travis non chiederebbe mai la mia mano al posto suo. Non vorrebbe mai infliggere un tale imbarazzo o dolore a suo fratello. È come se ogni porta della mia vita si fosse chiusa, ogni finestra fosse sigillata, lasciandomi una sola strada da prendere. Scegliere Harry o la Congregazione delle Sorelle. Mi cascano le braccia e cedo. «Okay» le dico. Fa un cenno con la testa. Poi dice: «Devi rinunciare a Travis ora. Oggi. Qui.» Mi resta sospesa una protesta sulle labbra, ma i suoi occhi mi zittiscono per la paura. Mi chiedo se torneremo mai a essere amiche o se questa sia la fine del nostro rapporto. Certo, saremo sempre persone civili - il villaggio è troppo piccolo per le faide - ma ci confideremo mai completamente l'una con l'altra come facevamo prima? Tutto a un tratto sento che mi manca la terra sotto i piedi, come se avessi perso tutto di colpo e dovessi urgentemente aggrapparmi a qualcosa. Rivedo la mia vita in un lampo, Cass sempre al mio fianco che ascolta le mie storie e ride con me, io e lei che condividiamo tutto. I ricordi della nostra amicizia mi pervadono e le lacrime mi pizzicano gli occhi. Ora ho bisogno di Cass; non posso perdere anche questo ultimo legame con quella che sono sempre stata. «Promettimi...» le dico. «Promettimi che saremo sempre amiche, che continueremo a

esserci l'una per l'altra.» Mi sorride, e rivedo un barlume della vecchia Cass, il profumo dei raggi del sole che si libra nell'aria. «Sì» dice. Se solo fosse così semplice, penso fra me e me, appena ricordo che in Cattedrale è sempre venuta a trovare qualcun altro, e non me. Guardo di nuovo lungo il corridoio, oltre la stanza di Travis, dove era rinchiusa la Forestiera. La sua porta è appena accostata e lascia filtrare una scheggia di luce dallo spiraglio. Scosto Cass per correre verso la stanza, ma è vuota; non ci sono lenzuola sul letto, né il minimo segno di qualcuno che abbia occupato la camera di recente. Dovevo immaginarlo. La finestra è rimasta buia per giorni. Cass resta sulla soglia dietro di me, chiaramente confusa. Ma invece di darle spiegazioni, raggiungo la finestra e piego la testa ad angolo finché non scorgo l'impronta di una mano, i polpastrelli delle dita ben visibili. Mi avvicino ancora, appanno il vetro con il respiro e improvvisamente mi appaiono delle parole. C'è scritto Gabrielle, e il nome è seguito da una serie di lettere: XIV. A parte questa traccia effimera, non c'è alcuna prova della sua esistenza. Passo le dita sulle lettere, cancellandole. «Cosa vedi?» mi chiede Cass, venendomi vicino. «Ti chiedi mai se c'è una fine alla Foresta?» le dico. Le ho già fatto questa domanda in passato e conosco la sua risposta. Fa una risatina, ed eccola tornare sé stessa. «Proprio non ci riesci a rinunciare alle tue fantasie, vero Mary?» mi chiede. «L'oceano, e tutte quelle cose...» Accenno un sorriso. Provo ancora disagio con lei. Mi fa ancora paura. «Forse è così» le rispondo. Ma se non c'è fine alla Foresta, da dove è venuta Gabrielle?

Pur essendo una donna impegnata, continuo a vivere con le Sorelle nella Cattedrale. Sorella Tabitha mi ha spiegato che mio fratello non è disposto a ospitarmi per via del fragile stato di salute di sua moglie in gravidanza. Mi chiedo se sia solo un pretesto, e se Sorella Tabitha mi voglia tenere a portata di mano per controllarmi. Per vedere se ho rinunciato a cercare delle risposte. Io non ci ho rinunciato. Nel corso della settimana seguente mi invento delle scuse per

entrare in ogni camera possibile della Cattedrale. Di Gabrielle non c'è alcuna traccia. Come se non fosse mai esistita.

10 [eBL 036 by Marika & Elena77]

Nel nostro villaggio la primavera è tempo di pioggia, di battesimi e di matrimoni. È tempo di Edeniade, la festa in cui si celebra la sopravvivenza di un altro anno e il trionfo sugli Sconsacrati, pregando per gli anni a venire. Il momento centrale dell'Edeniade è rappresentato dai matrimoni. Nel nostro villaggio il matrimonio è un vincolo sacro, e le tre cerimonie che suggellano l'unione di marito e moglie sono dette Iniziazione, una settimana di festeggiamenti che si apre con la Promessa, continua con il Vincolo e termina con i voti di Eterna Costanza. E il culmine dei corteggiamenti invernali cominciati con la Festa del Raccolto. Il rito più importante e più sacro dell'Iniziazione sono i voti di Eterna Costanza, che uniscono per sempre gli sposi dichiarandoli marito e moglie. La notte precedente i Voti si celebra il Vincolo: le Sorelle legano la mano destra della sposa alla mano sinistra dello sposo, dopodiché la coppia trascorre la notte nella sua nuova dimora, viene lasciata sola e riceve in dono un coltello cerimoniale che potrà utilizzare per spezzare il Vincolo. È l'occasione per esternare eventuali rimostranze e l'ultima possibilità per rifiutare l'altro come coniuge. Le giornate dell'Edeniade che intervallano le cerimonie dell'Iniziazione sono dedicate al battesimo dei bambini nati durante l'anno precedente e alla celebrazione dei nuovi concepimenti. E il momento più solenne e gioioso della vita del villaggio, la consacrazione della nostra sopravvivenza, della nostra esistenza, della continuità del nostro popolo dopo il Ritorno. È un impegno alla perseveranza e alla dedizione. Quest’anno sono una delle uniche due spose. Indosso una tunica bianca che terrò per tutta la settimana. Tra i miei capelli sono intrecciati i primi fiori di primavera. Saremo in quattro a contrarre il matrimonio e a suggellare la nostra Promessa: io e Harry e Travis e Cass. Siamo allineati su un palco di fronte alla Cattedrale, sovrastati dalle ombre della sua massa imponente. Ciascuno di noi è davanti al proprio sposo promesso, Sorella Tabitha da una parte, e l'intero villaggio che assiste dall’altra. Oggi il sole primaverile è particolarmente forte; un calore umido si alza da terra ondeggiando e addensando l'aria, e respirare è come nuotare.

Sorella Tabitha parla di obblighi. Di peccati, di vita, di impegno, di voti. Dice che siamo noi a rappresentare la costanza del nostro villaggio. Ci rammenta la nostra fragilità, i pericoli che derivano non soltanto dagli Sconsacrati all'esterno delle reti, ma anche dalle minacce presenti al loro interno: malattia, sterilità, aborti spontanei. Ci indica con il dito tutti e quattro, e dice che a volte esistono generazioni numericamente più deboli, ed è nostro dovere accrescere la stirpe, contribuire ad aumentare la quantità di famiglie numerose nella comunità. Le sue parole mi scivolano addosso, non sono in grado di concentrarmi. Sono assorta da ben altri pensieri. È la prima volta che vedo Travis da quando Harry ha chiesto la mia mano. Da quando è stato dimesso dalle cure delle Sorelle. Da quando sono rimasta sola alla Cattedrale senza avere un posto dove andare. Ha i capelli più chiari, più biondi, sembra quasi che scorra i pomeriggi al sole. È ingrassato, e la pelle sugli zigomi non è più tirata. Ha gli occhi più luminosi, più verdi, ha perso lo sguardo spento di prima. È in forma. Sta bene. Mi fa male vederlo. E devo mettercela tutta per riuscire a stare ferma davanti a Harry invece di incollarmi a lui, che è dietro di me e guarda Cassandra. Mentre Sorella Tabitha continua a parlare dei nostri doveri reciproci e nei confronti di Dio, riesco soltanto a focalizzare il movimento d'aria provocato da Travis che si appoggia al suo bastone, uno spostamento di peso impercettibile nel tentativo di trovare una posizione comoda. Sono contenta di vedere che è in piedi, che cammina, che sta bene. Ma è atroce vederlo sorridere, mi sento infinitamente triste. Quando Sorella Tabitha ci introduce alla parte della cerimonia consacrata alle promesse, ci giriamo a guardare l'altare. Harry è alla mia sinistra e Travis alla mia destra. Se chiudo gli occhi, riesco a immaginare che è Travis quello a cui mi sto legando, lui quello che mi porterà a casa al termine di questa settimana per cominciare la nostra nuova vita. Ripetiamo le parole di Sorella Tabitha che ci guida attraverso il rito della Promessa. E proprio nel momento in cui ci impegniamo l'uno all'altra, promettendo di pronunciare il voto di eternità alla fine della settimana, sento le dita di Travis sfiorare le mie. Provo a prendere la sua mano, ma mi resta solo il vuoto dell'aria.

Ormai sono promessa a Harry. Il mio futuro sposo mi accompagna giù dal palco e usciamo dall'ombra della Cattedrale per immergerci nella luce del sole. Siamo circondati da gente che ci porge gli auguri, e tra la folla non riesco più a vedere Travis. L'ho perso per sempre. La settimana dell'Iniziazione è uno stordimento vertiginoso. Siamo gli ospiti d'onore di ogni evento, separati dal resto del villaggio, messi in bella mostra. Passiamo da una manifestazione all'altra. Cene che sottolineano l'importanza del momento. Sessioni di preghiera solitarie per preparare le nostre anime all'impegno imminente. A parte le cerimonie legate alla Promessa, al Vincolo e ai voti di Eterna Costanza, il battesimo è la celebrazione più importante dell'Iniziazione. Ogni bambino viene portato dinanzi alle Sorelle e ai Guardiani e passato di mano in mano tra la gente del villaggio. Questi bambini appartengono a tutti noi, dicono le Sorelle, sono il nostro futuro. Vengono battezzati quattro bambini nati dai matrimoni dell'anno precedente. Ai margini della folla noto Jed e Beth che tentano di andarsene. Suppongo che il dolore di aver perso U loro primo figlio, quest'autunno, sia insostenibile. Finalmente, a metà settimana, resto da sola e mi strappo i fiori dai capelli. Sono stanca della gente del villaggio, stanca di Harry, delle Sorelle, dei Guardiani, di quelli che mi fanno gli auguri. Sono stanca di tutta questa gioia. Così vado nella vecchia torre di vedetta sulla collina, l'unico posto dove sono sicura di trovare un po' di solitudine. Quando arrivo, però, c'è già qualcuno. Sto per tornare indietro quando riconosco la figura seduta sulla torre. È Travis. Ho il batticuore. Non avevo mai considerato che potesse venire in questo posto, pensavo che non ci venisse nessun altro a parte me. È così tanto che non rimaniamo soli io e lui che istintivamente lo fisso, divorandolo con gli occhi. Per un momento valuto la possibilità di girarmi e tornare indietro, di lasciarlo qui ed evitare qualsiasi tentazione. Lui non è mio, non potrà mai essere mio, ed è troppo doloroso stargli vicino sapendo che la nostra situazione è irrevocabile. Ma prima di riuscire a fare qualsiasi movimento, Travis mi tende una mano e dice: «Mary, vieni a pregare con me.»

Le sue parole sono la mia rovina. Inizio a correre, inciampo sulla tunica, mi trascino fino a lui grattando sulla terra e finalmente lo raggiungo e gli getto le mani al petto, trafelata. «Oh, Mary» mi dice, mettendomi una mano tra i capelli e tenendomi la testa. Mi prende il viso e lo avvicina al suo, attraverso tutto quello che d ha sempre separato. Ho bisogno di lui, ed è un bisogno così pressante che non riesco a controllarlo. Nell'istante in cui le nostre labbra stanno per toccarsi, per trovare finalmente la loro dimora, mi ferma la testa. Sta ansimando, e riesco solo a respirare l'aria dei suoi polmoni. Restiamo così per quella che sembra un'eternità, incapaci di abbandonarti l'uno all'altra, di scavalcare tutto ciò che ti divide. «Mary» sussurra. Sento le sue labbra muoversi. Aspetto che mi allontani, che mi dica che non possiamo farlo. Che mi dica che non sono sua e che non può tradire suo fratello. Rannicchio la testa nell'incavo della sua spalla, appoggiando la fronte sul suo collo. È una giornata calda e Travis sta sudando. Premo la bocca sulla sua pelle e mi resta un sapore di sale sulle labbra. Vorrei fondermi con lui, dimenticare tutti gli ostacoli che ci separano, e mi sforzo di continuare a respirare, di restare lì seduta senza stringerlo più forte. Non è mio, è di Cass, e so che dovrei girare la testa e andarmene da questo posto. Ma non sono abbastanza forte per farlo. Almeno per quest'ultima volta voglio gustarmi la sua essenza, voglio avvolgerla intorno a me come un ricordo. Rimaniamo seduti così per un po'. Io accoccolata sul suo grembo, avvinghiata a lui, mentre tutto dentro di me si apre. Mi rendo conto di essere felice. La mano di Tra vis si infila di nuovo tra i miei capelli e io rilasso il corpo sul suo, abbandonando anche l'ultima esitazione. È una giornata di primavera perfetta. Gli uccelli sono tornati nel villaggio, la neve si è trasformata in fanghiglia, il sole è luminoso, dolce, caldo. Una brezza leggera ti accarezza, e il fruscio tra gli alberi mi ricorda l'oceano dei racconti di mia madre. «In momenti come questo è difficile credere che non siamo gli uniti esseri al mondo. Che non esistiamo solo io e te su questa collina» mi dice Travis. Sorrido.

«Altre volte, però, penso che non possiamo essere gli uniti al mondo. Noi di questo villaggio, intendo. Ci deve essere per forza qualcos'altro là fuori, oltre la Foresta.» Faccio per rialzare la testa per guardarlo negli occhi. È come se mi avesse letto nel cuore, come se avesse visto i miei sogni. Pensavo di essere l'unica a credere in una vita fuori dalla Foresta. Con una leggera pressione della mano mi tiene la testa sulla sua spalla, e il mio cuore comincia a martellare al suono delle sue parole. «Non sei la sola a essere cresciuta con dei racconti» mi confessa, e trattengo il respiro in attesa che continui. «E quei racconti mi fanno solo pensare che ti deve essere qualcosa là fuori. Che non può essere tutto qui. Non possiamo essere gli uniti. È impossibile che non ti sia vita al di là di questo villaggio e dei suoi editti.» Ha una voce tesa, come se anche lui sentisse tutto ciò che ti allontana. Mi solleva il mento con un dito per avvicinare il mio sguardo al suo. «Tu non lo senti, Mary? Che c'è dell'altro? Che questa vita non basta?» Mi spuntano lacrime dagli occhi e mi sento il sangue cantare nelle vene. Guardo verso il recinto, come per poter guardare il nostro futuro. È abbastanza lontano da impedirmi di distinguere i singoli Sconsacrati, e vedo solo un gruppetto di loro che percuote le maglie della rete. Quando cambia il vento, avverto i loro gemiti trasportati dall'aria fin sopra la collina. Sto per dirgli di Gabrielle - la prova che esiste altro - quando vedo un lampo rosso sfrecciare tra gli alberi. Il mio cuore cessa di battere per un secondo e il respiro si strozza in gola. Mi metto diritta, indirizzando tutti i sensi verso la Foresta. «Che succede?» domanda Travis, sollevandosi e tenendo una mano sulla mia schiena. Lì per lì penso a un'allucinazione, ma poi rivedo il lampo. Un rosso acceso innaturale che spicca tra le ombre dei pini. Mi alzo, dimenticando la pace, la felicità appena provata, e mi precipito giù per la collina con passo malfermo, inciampando su radici e sassi, senza badarci. In preda a un impeto quasi incontenibile mi accosto al recinto che si estende lungo i piedi della collina, e mi ritraggo giusto in tempo per non essere morsa e infettata. Il lampo rosso riappare e poi si avvicina a me. Ora è sul recinto, insieme agli altri. E quando la guardo, vedo chiaramente che è Sconsacrata. I suoi arti non sembrano collegati allo stesso corpo, la sua pelle è talmente tirata sullo scheletro che le ossa del viso

potrebbero perforarla in qualsiasi momento. Ma il rosso del suo gilè trapuntato è così vibrante, così strano, che la riconosco. È la Forestiera. Gabrielle. Vorrei passare le dita attraverso la rete, ma Travis mi raggiunge alle spalle, zoppicando, e mi tira indietro. «Cosa fai?» esclama con una voce sibilante mentre riprende fiato. Cammina con il bastone, zoppica, e all'improvviso mi rendo conto di quanto debba essere stato faticoso per lui ridiscendere la collina così rapidamente per starmi dietro. Gabrielle sfreccia intorno agli altri Sconsacrati. È uguale a loro, eppure ha qualcosa di diverso. È più slanciata. Più veloce. Si avventa contro le maglie metalliche con una rapidità e una voracità che non avevo mai visto prima. Resto con Travis sull'altro lato del recinto, e non so come sentirmi, cosa fare. «Non farlo mai più» mi dice Travis all'orecchio, cingendomi le spalle con le braccia e attirandomi a sé. Voglio solo abbandonarmi, farmi avvolgere e proteggere da lui. Ogni battito del cuore mi scuote dalla testa ai piedi, e mi tremano le mani. «Era nella stanza accanto alla tua» gli dico, indicando Gabrielle. «Lei è la Forestiera che è arrivata al villaggio la notte in cui ero da te.» Un'ondata di calore mi avvampa le guance al ricordo di quella sensazione, del suo corpo sotto il mio. Osserviamo la ragazza con il gilè rosso che strattona le maglie della rete, avida di noi. C'è qualcosa di così strano in lei, nessuno dei due ha mai visto una Sconsacrata di quel tipo. «Un giorno mi ha parlato dal muro» gli dico. «Quando ti avevano trasferito ed ero venuta a cercarti. Mi ha detto di chiamarsi Gabrielle.» Mi brucia la gola e ingoio singhiozzi che minacciano di esplodere. Non posso credere a quello che è successo a questa ragazza che si è avventurata tra i sentieri della Foresta e ha avuto il coraggio di entrare nel nostro villaggio. Scoppio in lacrime e mi volto verso Travis. «Ti ha detto qualcosa?» gli mormoro. «Ti ha detto da dove viene? Perché è arrivata al villaggio?» «Oh, Mary» mi dice.

E poi le sue labbra si posano sulle mie, e resto in silenzio. Ricordo la meraviglia del mio quasi primo bacio con lui, quella notte di tanto tempo fa. Era la notte in cui Gabrielle ha varcato il cancello. Era prima che scoprissimo che esiste qualcosa fuori, quando non ci importava altro che di noi due in quella stanza. Il mio cuore batteva come impazzito, il mio corpo si sentiva sull'orlo del baratro. Da allora ho ricevuto altri baci. Baci amichevoli. Tutti da Harry. Tutti durante il nostro breve periodo di corteggiamento. Non ho mai baciato nessuno tranne Harry Ma questo bacio con Travis... È come svegliarsi ed essere rinati, capire cos'è la vita e cosa può essere. Mi lascio sommergere da lui, e le onde mi trascinano sotto, facendomi girare e rigirare, come se non fossi nulla. Qualcosa che non vale nulla ma racchiude tutto. Le scosse del recinto preso d'assalto da Gabrielle ci dividono. Travis tiene la fronte contro la mia. «Dovremmo dirlo a qualcuno» commento. Lui annuisce. «Di lei» aggiungo. Sorride. «Anche di lei» dice. Non riesco a non sorridere a mia volta. Come i bulbi dormienti che giacciono sotto terra, mi sento finalmente sbocciare. Riscaldarmi. C'è una gioia che fiorisce dentro di me e si espande in tutto il corpo. Ho accantonato l'orrore di aver ritrovato Gabrielle trasformata in una Sconsacrata, l'ho sepolto nel più profondo di me per non intaccare la gioia di questo momento. «Io sono più veloce di te» gli dico. «Corro a dirlo ai Guardiani. Lo vorranno sapere.» Tentenno. Penso alle promesse che ho fatto a Cass, a Sorella Tabitha, a Harry e a me stessa. Rifletto su cosa comportano quelle promesse, tutto ciò a cui dovrò rinunciare. Ho cercato di aderire alle regole del villaggio, agli editti della Congregazione delle Sorelle, e hanno portato solo confusione e mistero, bugie e dolore. Pensavo di poter rinunciare a Travis. Pensavo di potermi accontentare di una vita appagante. Ma era prima che mi confessasse di credere in un mondo al di là delle reti. Prima di scoprire che anche lui è cresciuto con i racconti di qualcosa più grande di noi, di qualcos'altro.

Qui, davanti a Travis, con il suo sapore ancora sulle labbra, decido di buttare via tutto il resto. Affronterò l'ira di Cass e di Harry e di Sorella Tabitha con Travis al mio fianco. «Verrai da me?» So che gli sto chiedendo di tradire suo fratello, di sconvolgere l'equilibrio del villaggio, di ferire la mia migliore amica. Ma ora non me ne importa più nulla. Sono disposta a rinunciare a tutto per lui. Lui sorride e mi sfiora le labbra con un dito, come una promessa. Tomo al villaggio per raggiungere i Guardiani, mentre il rumore di Gabrielle che percuote il recinto si smorza dietro di me.

11 Sono trascorsi due giorni da quando abbiamo parlato sulla collina, e da due giorni attendo che Travis venga da me. Giro intorno alla mia piccola stanza di pietra nella Cattedrale, tendendo le orecchie per udire l'eco della sua voce in corridoio, ma c'è solo silenzio. Ogni volta che riesco a ritagliarmi un po' di solitudine e posso staccare dall’interminabile successione di impegni e festeggiamenti, corro in cima alla collina nella speranza di trovarlo là. Nella speranza che abbia scoperto una soluzione per stare insieme. Ma ogni volta non trovo nient'altro che il vento tra gli alberi. I gemiti degli Sconsacrati che si levano dalla Foresta. I Guardiani hanno intensificato le ronde del recinto, e io resto seduta a guardarli mentre marciano avanti e indietro, scrutando nella Foresta in cerca di Gabrielle. Qualche volta vedo anche Jed tra di loro, e vorrei correre da lui e dirgli tutto quello che so di Gabrielle. Vorrei dirgli che è venuta da fuori. Ma resto zitta, perché i Guardiani sono al servizio delle Sorelle, e ho paura che Jed potrebbe non mantenere il segreto. Ho paura che Sorella Tabitha possa scoprire che sapevo di Gabrielle e mi butti nella Foresta. Harry che è diventato un apprendista dei Guardiani, mi dice che la Saetta, come la chiamano loro, è scomparsa dentro la Foresta. Che a volte toma a scagliarsi contro le reti ed è talmente feroce che i Guardiani non sono mai riusciti a ucciderla. La sua esistenza ha gettato un velo d'ombra sull'Edeniade. Alcuni abitanti temono che gli Sconsacrati stiano cambiando, che si stiano adattando, e che la Saetta sia la prova della nascita di una nuova specie che ci ucciderà tutti. La Gilda dei Guardiani e le Sorelle tentano di placare il panico che si va diffondendo dicendoci che gli Sconsacrati veloci non sono una novità. Durante una delle cerimonie Sorella Tabitha è in piedi, fiancheggiata dai due Guardiani di grado maggiore. Gli abitanti del villaggio sono scaglionati davanti a lei, le mani ben salde sui loro bambini, gli occhi che guizzano verso le reti. L'atmosfera è intrisa di paura, e sento i miei muscoli contrarsi per la tensione. «L'esistenza degli Sconsacrati veloci è cosa nota alla Congregazione delle Sorelle sin dai tempi del Ritorno» dice con il busto eretto e le braccia lungo i fianchi, men tre il vento del pomeriggio le sbatte la lunga tunica nera intorno alle caviglie. «Le Saette sono feroci, e

tanto rare quanto devastanti. Sono sempre esistite e grazie alla benedizione di Dio non sono mai riuscite a infastidire questo villaggio.» Dicendolo mi lancia un'occhiata furtiva, come se fossi in qualche modo responsabile della presenza di Gabrielle. «Non sappiamo ciò che le rende diverse, ciò che le rende veloci. Ma sappiamo che si estinguono in fretta, che i loro corpi cadono a pezzi, e che presto tutto tornerà alla normalità. I Guardiani hanno duplicato il numero di ronde e verranno spalleggiati dalla gente dei campi durante le vigilanze. Questa minaccia sarà presto eliminata, o con l'uccisione della Saetta da parte dei Guardiani, o con la sua estinzione naturale. «Fino a quel momento, possiamo solo continuare a pregare Dio invocando il Suo perdono e la Sua benedizione.» Sorella Tabitha ci fa recitare una preghiera e scende dal palco per consentire il proseguimento delle celebrazioni dell'Edeniade e dell'Iniziazione. Ma nei visi di tutti leggo ancora l'incertezza e la paura di questa nuova specie di Sconsacrati. I balli diventano abulici. Le feste si concludono presto. Di sera la gente si barrica in casa e si prepara al peggio. Non posso fare a meno di chiedermi cos'altro ci nascondano. Quali segreti le Sorelle conservino nella loro Cattedrale. Cosa sappiano della creatura che era Gabrielle, quella che un tempo era una ragazza come me. Ripenso incessantemente al giorno in cui Sorella Tabitha mi ha condotto nel cunicolo sotterraneo per portarmi nella radura della Foresta. Forse è accaduta la stessa cosa a Gabrielle? Vorrei precipitarmi da Sorella Tabitha per chiederle cosa ha fatto, come è potuto accadere. In un primo momento non dico nulla per il terrore di diventare come Gabrielle, ma poi cominciano ad assillarmi altri pensieri: potevo fare qualcosa per salvarla? Dovevo dare l'allarme? Potevo cercare più a fondo? Sono responsabile di ciò che le è successo? Alla fine la mia curiosità prevale. Devo assolutamente sapere cos'è successo, che cosa l'ha trasformata in una creatura così veloce e potente, a differenza di tutti gli Sconsacrati che ho conosciuto finora. Nei pochi giorni che mi restano prima di ufficializzare il mio legame con Harry attraverso il Vincolo, approfitto delle mie incombenze per perlustrare la Cattedrale. Mi fermo davanti alle porte chiuse, origlio le conversazioni tra le Sorelle più anziane, quelle che presumibil-

mente sono a conoscenza dei segreti. Ma non scopro nulla di importante. Frustrata dal tempo che mi sfugge, comincio a esplorare le zone vietate tate. Sfido i confini della Congregazione delle Sorelle, della Cattedrale. Sapendo che se dovessi essere scoperta, anch'io potrei essere espulsa nella Foresta e seguire le orme di Gabrielle. Ma non m'importa di essere imprudente. Perché ogni giorno che passa è un altro giorno senza che Travis sia venuto da me. E cresce il mio bisogno di capire cos'è successo. Devo sapere tutto: perché siamo qui, chi sono le Sorelle, da cosa è stato causato il Ritorno. Domande su cui non ci è mai stato permesso di riflettere. Che ci è vietato tentare di risolvere. Sono satura di questi pensieri che mi frullano in testa. Finché sono in ginocchio durante le liturgie, o quando partecipo alle funzioni dell'Iniziazione, provo un senso di ribellione che mi spinge a tentare di eludere le Sorelle, a trovare un modo per defilarmi. Un modo per accedere agli arcani proibiti della Cattedrale. Arriva la mia ultima notte da sola, la notte prima di unirmi a Harry nel Vincolo, e ancora non mi sono avvicinata alla verità. Non ho scoperto alcun nesso tra le Sorelle e la trasformazione di Gabrielle. Non ho trovato nulla che dimostri U loro coinvolgimento a riguardo. Sono seduta sul bordo del mio letto, i pugni serrati sulla camicia da notte, e guardo fuori dalla finestra aperta, fissando la Foresta. E se avessi sbagliato tutto? E se queste mie domande fossero inutili? E se le Sorelle avessero ragione e quella che ci indicano fosse l'unica via? Se la loro fosse l'unica verità? Se U nostro villaggio fosse veramente l'unico al mondo? Se mia madre avesse torto e non esistesse alcun oceano? Stringo i denti per la voglia di piangere, di sfogare la frustrazione e la confusione. Come faccio a trovare tutte queste risposte? Ho le gambe che bruciano di impazienza, salto giù dal letto e inizio a vagare per la stanza. Intorno a me la Cattedrale si prepara placidamente alla notte. Sono combattuta: da un lato qualcosa mi comanda di uscire dalla camera per un'ultima perlustrazione, dall'altro una vocina mi ordina di restare ferma e non muovermi. Di non sfidare la sorte e la collera delle Sorelle, di aspettare che Travis venga a chiedere la mia mano come mi ha

promesso. Ma poi penso a Gabrielle, là fuori, che si scaglia contro le reti. Mi domando se ci sia anche mia madre. Se in qualche modo conosca le risposte che vado cercando, ora che è dall'altra parte del recinto. Esco dalla stanza senza nemmeno accendere la candela. E senza nemmeno origliare alle porte, mi incammino attraverso la Cattedrale, procedendo a ridosso dei muri fino a scendere i gradini polverosi che portano nei sotterranei. Con la mente seguo Sorella Tabitha, come il giorno in cui mi ha portata qui per farmi la sua lezione sulle scelte, in questo posto di cui ignoravo l'esistenza. Per la prima volta, quel giorno, ho capito che la Congregazione ci nascondeva delle cose. L'aria diventa sempre più fredda, più umida, e alla fine raggiungo il pianerottolo e faccio scorrere i piedi scalzi sulle pietre irregolari del pavimento. Non c'è luce, e a tentoni cerco di sfregare la mia pietra focaia per accendere la candela. La debole fiammella riesce appena a illuminare la mia mano tremolante, e la luce si perde subito nel buio fitto che mi circonda. Con la mano libera cerco gli scaffali vuoti che servivano, come mi spiegava Sorella Tabitha, a conservare le bottiglie e le botti di vino da fermentare. Sento un crepitio di chiodi che fuggono via sul legno vecchio e mi paralizzo, percorsa da una specie di formicolio all'attaccatura dei capelli. Quando realizzo che l'unico rumore è l'alto del mio respiro, riprendo a camminare tastoni attraverso la sala finché, picchiando le dita dei piedi contro U muro, non trovo l'angolo opposto alle scale. Mi infilo in un lato della pesante tenda che nasconde la porta e scivolo dietro, lasciandomi ricoprire bocca e naso dalla polvere. Infine sento le tavole di legno grezzo della porta comunicante con il cunicolo che mi porterà alla Foresta. Il chiavistello non si muove; a un tratto non sono più sicura di cosa mi aspettassi di trovare qui sotto. Forse speravo che Sorella Tabitha avesse lasciato la porta aperta. Forse speravo che sarebbe bastata la mia forza di volontà a farla cedere. Appoggio la testa sul legno, pigiando l'orecchio come per udire qualcosa dall'altra parte. Come se la porta potesse sussurrarmi i suoi segreti. Penso a tutto quello che hanno visto questi muri, e mi chiedo come poteva essere ai tempi del Ritorno. Sapevano ciò che stava

per venire? Erano preparati? Questo villaggio esisteva anche prima del Ritorno o è nato come riparo? Come un rifugio isolato dal mondo? I muri non mi dicono nulla e non mi svelano i loro segreti, e tutto intorno a me tace, anche il mio respiro è smorzato dalla tenda che mi separa dal resto della sala. Ho gli occhi che mi bruciano per il sonno, le gambe pesanti. Vorrei restare qui per sempre, in questo bozzolo di posto. Senza dover più affrontare Harry. Senza dovermi più chiedere se Travis verrà a cercarmi. Senza dovermi più adeguare alle Sorelle, dover ammettere che mi sbaglio su di loro. Passo le mani lungo le bande di metallo butterato che fissano le tavole della porta, cercando punti deboli che sicuramente non troverò. Faccio scorrere le dita sui cardini, e la mia pelle scivola sul grasso che utilizzano in Cattedrale per non far cigolare le porte. All'improvviso desidero solo il mio letto. Vorrei solo gustarmi la mia ultima notte in solitudine prima di legarmi a Harry. La mia ultima notte per struggermi e lasciare che Travis mi accompagni nei sogni. Mi allontano dalla porta, faccio per attraversare di nuovo la tenda pulendomi le dita sulla sua superfide sudicia, quando a un tratto capisco come passare. Come accedere al cunicolo e alle stanze nascoste dall'altra parte. Subito risvegliata, riprendo la candela da terra, virino ai miei piedi. La fiamma vibra quasi allo stesso ritmo in cui mi batte il cuore, facendo sobbalzare il perimetro di ombre piatte che proietta intorno a me. Con le dita che tremano, tasto i binari di legno degli scaffali alla ricerca di un punto debole. Alla fine sento le schegge di una tavola rotta, afferro la tavola forzando il legno fino a spezzarlo, e mi ritrovo in mano una lunga stecca sottile. Continuo a tastare gli scaffali e trovo un pezzo di legno più spesso che può fungere da mazzuolo improvvisato, quindi ritorno tastoni alla porta nascosta. Incastro la stecca di legno nella testina del perno che trattiene le due alette del cardine e inizio a battere sulla sua estremità con l'altro pezzo. Tengo la tenda stretta intorno alle spalle, sperando di attutire il rumore dei colpi. Inizialmente il perno non si sposta, e devo battere più forte, devo scagliare il mazzuolo contro il cuneo di legno con tutta forza che ho, senza più curarmi dei rimbombi che sto producendo. Sento il perno scorrere lungo l'alloggiamento, comincia a cedere, e lo tiro con le dita,

usando l'orlo della camicia da notte per avere una presa migliore sul metallo liscio. Do un ultimo strattone e il perno esce, cadendo a terra con un appagante tintinnio. Senza esitare, inizio a lavorare sull'altro cardine della porta, quello più basso. La camicia da notte mi tira sulla schiena; quando riesco a sfilare l'altro perno dal relativo alloggiamento, è tutta incollata alla pelle per il sudore. A questo punto la porta non è più fissata al muro dai cardini. Vorrei gridare e urlare di gioia, ma mi limito a pulirmi il braccio sul sopracciglio e ad allungarmi per sciogliere la schiena, contemplando il mio lavoro. La porta è sempre chiusa dal chiavistello, ma ora che ho smontato i cardini può muoversi liberamente. Faccio un respiro profondo, incastro le dita nell'interstizio sotto la porta e tiro finché non si apre leggermente. Allargo la stretta apertura quanto basta per potermi infilare di traverso; senza i cardini che lo trattengono in posizione, il pesante pannello di legno si melina. L'aria è umida, ammuffita, e alle mie orecchie il mio respiro risuona come una bufera di vento. Aguzzo l'udito nell'oscurità che avvolge la debole luce della mia candela, assalita improvvisamente dal terrore che possa esserci qualcosa o qualcun altro. Mi sono quasi convinta di udire tutti gli insetti sotto terra che si muovono verso di me, quando mi toma in mente il tavolino di candele che avevo visto all'inizio del cunicolo. Le accendo tutte, e mi percorre un fremito di sollievo nel vedere che la piccola chiazza di luce che mi circonda si ingrandisce. Tremo dalla testa ai piedi, non so se di paura o per il sudore che mi inzuppa la sottile camicia. Se solo avessi Travis al mio fianco, qualcuno che mi prenda la mano, che tenga a distanza il terrore che mina i limiti della mia immaginazione. Ho pensato a questo cunicolo e a queste stanze per un sacco di tempo, e ora che sono qui non vorrei più spingermi oltre. Non sono più sicura di voler scoprire la verità. Di voler scoprire cosa nasconde questo posto. Con la candela davanti mi impongo di avanzare, la terra liscia del suolo battuto sotto i piedi nudi. Supero la rastrelliera portabottiglie e ricordo che Sorella Tabitha mi raccontò la storia di questo edificio. Seguo la curva del cunicolo a sinistra e mi fermo davanti alla prima porta.

Il legno è più opaco di come lo ricordavo, la porta più piccola. Faccio scorrere le dita sulle schegge dei bordi. Avevo scordato che le porte erano chiuse con dei catenacci arrugginiti conficcati nella pietra, e sto quasi per liberare un verso di sollievo e frustrazione. Do qualche colpetto sul legno e, non sentendo nulla, busso più forte. Mi sento come una vicina di casa che è venuta a salutare, e l'immagine mi fa ridere, n suono del risolino rimbalza contro i muri di pietra e si riverbera intorno a me come qualcosa di maniacale, dissonante. Ho i brividi lungo la schiena. Nel tentativo di calmare il respiro, appoggio a terra la candela, e subito mi manca la sua luce e il suo calore. Il mio corpo pulsa a ogni battito del cuore e le mani mi prudono dalla paura. Afferro i catenacci con le due mani, tirando indietro e verso l'alto uno, e spingendo in avanti e verso il basso l'altro. Sento il clic e poi lo scricchiolio dei catenacci che si sbloccano, e all'improvviso la porta si spalanca. Una ventata d'aria che fuoriesce dalla stanza aperta spegne la candela ai miei piedi, gettandomi nelle tenebre. E panico assoluto. Barcollo all'indietro slittando fino al muro dietro di me, mentre i piedi mi scivolano via da sotto il corpo. Immagino delle mani che mi afferrano le caviglie, e devo mordermi la lingua per non gridare. Mi risollevo da terra, inciampo e sbatto contro il muro, scatenando un fragore di bottiglie che cadono dalla rastrelliera e si rompono tutt’intorno. Cieca, mi metto a correre. Dietro di me sento un rumore di tessuto che si strappa e il legno che cigola contro il metallo. Metto un piede in fallo, cado e ho un sussulto; ho urtato contro dei gradini di legno: questo significa che ho percorso il cunicolo nel senso sbagliato. La sala cavernosa sotto la Cattedrale è dall'altra parte, e ora sono sotto la Foresta. Per un istante considero la possibilità di riat-traversare il cunicolo per tornare alla Cattedrale, ma poi mi rendo conto che è troppo buio. Un buio troppo nero. Salgo i gradini finché non resto bloccata sotto la porta di legno che comunica con la superficie; non posso fare altri movimenti. Mi raggomitolo a palla, raccogliendo le gambe contro il petto. Il respiro mi esce dal corpo come un singulto. Mi tappo la bocca con una mano, ma non riesco a smorzare il rumore, il sibilo acuto del mio corpo che cerca aria. Provo a trattenere il respiro per ascoltare il silenzio che mi circonda, negli intervalli dei

battiti che mi fanno pulsare da capo a piedi. Sento un rumore di liquido che sgorga dalle bottiglie di vino rotte. Nient’altro. Un dolore acuto penetra attraverso il panico e con una mano tremante estraggo una scheggia di vetro da un lato del piede destro. Ho le guance bagnate di lacrime. Non voglio stare qui. Non voglio nulla di tutto questo. Non m'importa più di Gabrielle o delle Sorelle o di Travis. Non m'importa più di nulla in questo mondo. Mi vedo aprire la pesante porta di legno sopra di me e uscire nella radura. Mi vedo camminare verso le reti, la camicia da notte bianca che ondeggia intorno alle caviglie come se stessi fluttuando. Vedo mia madre che mi aspetta dall'altra parte. Le mani tese, pronte ad accogliermi. A questo pensiero mi lascio sopraffare dai singulti. Non era così che immaginavo la mia vita. Non così, accucciata, sporca e angosciata in un cunicolo segreto sotto la Cattedrale la notte prima di unirmi a un uomo che non amo. Da bambina sognavo l'amore, la luce del sole, un mondo al di là della Foresta. Sognavo l'oceano, un posto ancora inviolato dal Ritorno. A un tratto mi chiedo che diritto abbiamo di credere che i sogni della nostra infanzia diventeranno realtà. Avverto il dolore fisico di questa consapevolezza. Di questa verità. Come se avessero asportato una parte importante di me. Questa perdita ha quasi il potere di schiacciarmi. Quasi il potere di farmi arrendere. Ho come la sensazione che le ossa non riescano più a sostenermi il corpo. Come se di me non fosse rimasto altro che sangue, lacrime, paura e rancore, e tutto questo si fondesse nel mondo circostante. Mi rendo conto di avere tre possibilità: uscire dalla porta sopra di me ed entrare nella Foresta, restare qui finché Sorella Tabitha non mi troverà e mi butterà nella Foresta, o finire quello che ho iniziato e tornare alla mia vita. Mi spingo via dai gradini. Mi impongo di tornare giù nel corridoio, ed è talmente buio che mi sembra di nuotare in un mare di acqua nera impenetrabile. Sento la terra umida sotto i piedi, l'odore del vecchio vino, amaro e acre, che mi si attacca in fondo alla gola. Mi contraggo passando davanti alla porta che ho aperto nel buio, mi si blocca il respiro immaginando delle mani che mi afferrano da dentro, quindi cedo all'impulso di correre finché, girando l'angolo del cunicolo, non vedo la piccola boa luminosa prodotta dalle candele che sono rimaste accanto alla porta del sotterraneo. Ne prendo due e ritorno sui

miei passi, facendomi strada tra i vetri rotti, tra i bordi appuntiti che luccicano sotto la fiamma delle candele. Davanti alla stanza esito. Con la mia luce non vedo oltre la soglia. Sono ancora in tempo per tornare indietro. Per pulire i pezzi di vetro delle bottiglie rotte, per rimontare i cardini sulla porta e tornare a letto, fingendo che questa notte non sia stata null'altro che un sogno. Faccio un respiro profondo e mi costringo a entrare .

12 La stanza è minuscola, il soffitto basso. Sulla parete frontale c'è una branda, con una vecchia coperta stinta ben rincalzata. Alla mia destra c'è una piccola scrivania, e sopra è appoggiato un grosso libro che può solo essere la Sacra Scrittura, circondato da candele spente. Sulla parete opposta è appeso un enorme arazzo su cui sono intessuti dei versetti sacri, sotto di esso c'è un sottile cuscino logoro per inginocchiarsi e pregare. Al centro della stanza, una stuoia rotonda che sembra fatta con delle vecchie tuniche della Congregazione copre il pavimento. Sono scioccata dall'ordinarietà di questa stanza, che potrebbe essere la camera di una qualsiasi Sorella della Cattedrale. Potrebbe essere l'immagine riflessa della mia camera di sopra. Avanzo all'interno, i miei passi attutiti dalla stuoia. Faccio scorrere un dito sul tessuto liscio dell’'arazzo, e mi chiedo quante altre mani abbiano toccato queste parole, abbiano cercato un conforto alla loro presenza. Il cuscino posato a terra porta i segni di due ginocchia che devono esserci rimaste appoggiate sopra per ore. Mi siedo sul letto, che scricchiola leggermente sotto di me, disturbando il silenzio surreale che mi circonda. Avvicino i piedi e mi appoggio al muro, domandandomi chi potrebbe essere stata l'ultima persona che ha dormito qui. Gabrielle? Travis quando stava molto male? Una Sorella che doveva scontare una specie di punizione? Irrequieta, avida di risposte, raggiungo il tavolino e accendo le candele intorno alla Sacra Scrittura. Sto guardando il grosso libro con la copertina strappata, ma il mio sguardo è perso nel vuoto, i miei pensieri inviluppati. Distrattamente lo apro e comincio a sfogliarlo, e il rumore delle pagine che girano mi ricorda la quiete delle foglie d'autunno quando si posano a terra. Ma non sto guardando le parole scritte sulla pagina, le sto solo fissando, assorta nel mio mondo. Finché a un certo punto mi accorgo che le pagine hanno un che di strano. Che sono zeppe di scritte. Mi abbasso e vedo che tutti i margini, lo spazio vuoto di ogni foglio, è pieno di scritte illeggibili. Le parole sono così piccole che riesco a malapena a distinguerle, perché l'inchiostro trapassato dall'altra parte della pagina ha creato delle ombreggiature che le rendono sostanzialmente indecifrabili.

Ritorno alla prima pagina e mi concentro sulla scrittura sibillina, inchiostro blu su carta gialla sottile come la buccia di una cipolla. All'inizio, dice “non ne capivamo la portata.” Avvicino una candela ma il resto mi è incomprensibile. Riprendo a sfogliare il libro, osservando come cambia la scrittura, come l'inchiostro diventa nero, più spesso e difficile da leggere. Le scritte si interrompono a metà libro. Faccio scorrere un dito attraverso la pagina per trovare l'ultima annotazione:'Come supponevamo, il completo isolamento è all’'origine della sua forza e rapidità straordinarie. Che Dio ci aiuti; la spediremo nella Foresta per vedere quanto tempo durerà, per comprenderla meglio. Con il suo sacrificio diventeremo più forti. Con la gloria di Do sopravvivremo.' Mi accorgo che sto trattenendo il fiato solo quando mi sento rantolare, strozzata dalla mancanza d'aria. Ho il corpo tremante, una gran confusione in testa. Non riesco a deglutire bene, a trattenere le lacrime che mi offuscano la vista. Mi allontano bruscamente dal tavolo, inciampo sulla stuoia dietro di me e finisco contro la porta, che si chiude sbattendo forte. Il rumore rimbomba lungo il buio corridoio. Sono intrappolata, bloccata. Tutto dentro di me sta urlando, e mi sembra di soffocare di nuovo. Il panico mi sta divorando e allora, per abitudine, per farmi forza, passo le dita sulla porta, nel punto in cui dovrebbero trovarsi i versetti sacri che le Sorelle hanno inciso sull'uscio di tutte le altre case del villaggio, internamente ed esternamente. In genere il punto è levigato da tutte le mani che lo toccano ogni giorno, ma qui il legno dello stipite è ancora ruvido, il che mi riporta al presente. Salto l'iscrizione più da vicino, e mi accorgo che non è la citazione di un versetto sacro, bensì un elenco di nomi. E in fondo c'è scritto GABRIELLE, con lettere ancora profonde, fresche di incisione. All'improvviso intorno a me il vento cambia, come uno scoppio nell'aria. Come se si fosse introdotta una sottile corrente nella minuscola stanza. Il mio corpo freme dalla paura di essere visto. La paura che mi aspetti la stessa sorte di Gabrielle. Do uno strattone alla porta, che si apre. Sollevata dal fatto che non fosse bloccata, sbircio nel corridoio. Sento ancora la puzza acre delle bottiglie di vino rotte. Non ho la più pallida idea di quanto tempo possa aver trascorso quaggiù. Muoio dalla voglia di continuare a leggere, ma so bene che facendolo rischierei di essere scoperta.

Considero la possibilità di portarmi via la Sacra Scrittura, ma non avrei comunque un posto per nasconderla. Mi defilo dallo stanzino, chiudendo e sbarrando la porta dietro di me, quindi pulisco alla meglio le bottiglie rotte, nascondendo le schegge di vetro più grosse dietro le rastrelliere allineate lungo le pareti. Poi, ripromettendomi di tornare, mi incammino verso la porta nascosta e pizzico lo stoppino di tutte le candele sul tavolo, reimmergendo il cunicolo nelle tenebre e uscendo. I perni ben lubrificati si infilano facilmente nei cardini della porta, eliminando qualsiasi traccia della mia presenza qui. Quando sono uscita dall'interrato, vedo un tocco di rosa smorto sull'orizzonte fuori dalle finestre. Tomo di soppiatto nella mia stanza e mi infilo la tunica. Accendo il fuoco e getto la camicia da notte sporca tra le fiamme che si attizzano. Da domani non mi servirà comunque più. Mi affaccio alla finestra aperta vicino alla scrivania e lascio che l'aria fresca di questa mattina di primavera mi inondi, mi ripulisca dal corpo l'odore di mosto e vino vecchio. Comincio a fissare le reti oltre il cimitero, facendo annebbiare la vista finché la Foresta non diventa altro che una macchia di verde fresco, gli Sconsacrati dei puntini grigi, e il recinto non esiste più. Non c'è più niente nella vita che mi sia chiaro. Non c'è più niente che abbia un senso, e non so come fare. Questa sera mi unirò ufficialmente a Harry. Questo è l'ultimo giorno in cui Travis può chiedere la mia mano. Le cerimonie avranno inizio questo pomeriggio. Ma per il momento il mio tempo mi appartiene, quindi esco di nascosto dalla Cattedrale, costeggio il villaggio che si desta e tomo sulla collina. Invece di voltarmi verso la Foresta, verso il confine del mio mondo, oggi guardo il villaggio. Guardo il gruppo di case e chalet ammucchiati sulla terra che parte dai piedi della collina e si estende fino alla Cattedrale, dall'altra parte del villaggio. La Cattedrale è una massa imponente, le sue ali si allungano come braccia. Dietro la Cattedrale ritrovo la vista familiare del cimitero e il piccolo avvallamento che porta al ruscello dove Harry e io ci siamo tenuti la mano il giorno in cui mia madre è stata infettata. Sparse un po' ovunque come puntini, vedo le piatta forme costruite negli alberi, caricate di provviste e pronte a darci rifugio in caso di invasione. Tutt’intorno si eleva il recinto, un'alta rete di fili intrecciati adibita alla nostra sicurezza.

Rifletto su quanto siano fragili quelle reti, penso alle piante rampicanti che in estate amano serpeggiare tra le maglie, dando incessantemente lavoro ai Guardiani di ronda, che le riparano e rattoppano sempre. Mi sconvolge che qualcosa di così delicato, come un metallo dentellato, ci possa tenere intrappolati in questo piccolo mondo. Al riparo dagli Sconsacrati, ma anche dai nostri sogni. Il sole scivola attraverso il cielo, illuminando per un breve istante le reti che proteggono il sentiero oltre il cancello della Cattedrale. Passo la mattinata pensando a me e Travis insieme, a come potremo farcela. E continuo a camminare in cima alla collina, aspettando che Travis venga a chiedere la mia mano, mentre il tempo scorre come l'acqua su una roccia.

Quando arriva il momento di prepararsi alla cerimonia del Vincolo, la sera, mi siedo sul letto del piccolo chalet adiacente alla Cattedrale, lo chalet che da domani, una volta ufficializzata la nostra unione, diventerà la dimora mia e di Harry. Resto con le mani inerti sul ventre, avendo capito che Travis potrebbe non venire più. Un colpo alla porta mi innesca il cuore, facendolo battere forte nel petto. Mi alzo, sperando che sia Travis. Sapendo che questa è la nostra ultima possibilità. Che una volta iniziato il Vincolo, dovrò donarmi a Harry o annullare la cerimonia. E annullare la cerimonia significa gettare la mia vita alla mercé delle Sorelle. Supplicarle di riaccogliermi tra loro anche se ciò comporta essere null'altro che la loro serva. Nel nostro villaggio una donna non ha diritto a una seconda possibilità di sposarsi. Mi passo le mani sul tessuto bianco che mi avvolge fino alle gambe. Quando sto per raggiungere la porta, iniziano a tremare. Il mio stomaco si aggroviglia, il mio corpo viene travolto dalla paura, dalla speranza, dalla gioia. La luce che filtra dall'esterno della porta è l'ultimo accecante respiro del giorno, e per un momento penso che sia Travis, che finalmente la mia vita abbia riacquistato un senso. Che finalmente capirò qual è il mio posto in questo mondo. Poi sento un fruscio di gonne, e Sorella Tabitha varca la soglia avanzando fino al centro della stanza. Si volta a guardarmi e mi squadra da cima a fondo con i suoi occhi taglienti.

«Sono venuta a prepararti al Vincolo» dice. «A darti la benedizione della Congregazione.» Vorrei sprofondare all'istante, accartocciarmi in me stessa fino a diventare né più né meno che un mucchio di vuoto sul pavimento. Ho le vertigini, la vista annebbiata. Mi brucia la gola per la voglia di urlare e piangere. Ma mi rifiuto di lasciar trasparire queste emozioni davanti a Sorella Tabitha, perciò sollevo il mento, chiudo la porta e appoggio una mano al muro per riprendere equilibrio. Siamo sole nell'unica stanzetta dello chalet che ospiterà me e Harry finché non avremo figli e ci servirà più spazio. Il pensiero di avere figli con Harry mi cade co me una pietra nello stomaco. Negli ultimi giorni ho già cominciato a immaginare i figli che potrei avere con Travis, le loro minuscole mani che si arricciano tra le mie dita. Ho già sognato un'intera vita insieme a Travis. E ora è diventata l'unica vita che faremo insieme, la vita di un sogno. Io e Sorella Tabitha siamo faccia a faccia, entrambe con la schiena rigida. Accenna un lieve sorriso, liberando un respiro come per ridere. Scuote la testa. «Ci sono cose in questo mondo che dobbiamo accettare, Mary. Cose che possono sembrarci assurde in un primo momento, ma che dobbiamo rispettare. Che dobbiamo mantenere sacre se vogliamo perseverare.» Si avvicina al piccolo letto e appoggia un cesto sopra la coperta bianca. Inizia a estrarre il suo contenuto e continua a parlare. «Prendi gli Sconsacrati, per esempio. Noi non li comprendiamo. Sappiamo solo che hanno fame. Ma abbiamo imparato a ignorarli. In questo villaggio nessuno si cura più della loro esistenza, anche se sono sicura che i nostri antenati avessero perso un sacco di tempo preoccupandosi di loro.» Appoggia una delicata corda bianca di tessuto intrecciato, poi estrae la Sacra Scrittura dal cesto. Avvolge la corda intorno al volume e prosegue con il suo discorso. «Lo stesso vale per il matrimonio. I nostri antenati sapevano che per sopravvivere dovevamo perseverare. Seppero mantenere lignaggi forti. Capirono che la missione più importante, oltre a proteggere e a nutrire il villaggio, era quella di creare nuove generazioni.» Porta la Sacra Scrittura legata verso il lato della stanza in cui mi trovo, e l'appoggia sopra il tavolino. Poi si gira verso il caminetto e attizza le braci aggiungendo striscio-line di legno

secco finché il ceppo non inizia a crepitare. Le fiamme consumano la corteccia, arricciandola in ciuffetti cerchiati di rosso, ma il loro calore non mi penetra, non mi riscalda. «C'è una cosa che devi sapere di tua madre, Mary» mi dice, inginocchiandosi vicino al focolare. «Devi sapere che ha perso dei figli.»

13 Mi sforzo di mantenere una faccia passiva e ingoio l'ansimo di shock. Rivedo me e mio fratello da piccoli, seduti con mia madre e mio padre davanti al caminetto. Risento la ninnananna che mia madre d cantava di notte. Sono combattuta. Ho un bisogno disperato di saperne di più e al contempo mi detesto perché sto cedendo a Sorella Tabitha. Le sto offrendo quel che vuole, mi sto piegando alla sua volontà. Alla sua superiorità. «Quando...» dico solo. Deglutisco, mi schiarisco la gola. «Quand'è che mia madre...» Non riesco a terminare la frase, nel timore di colmare questo vuoto tra la vita di mia madre e la mia. «Prima di te» mi dice. «E dopo di te.» Non le vedo gli occhi, ma mi chiedo se esprimano un po' di compassione. Se le dispiaceva che mia madre abbia perso dei bambini, se si senta inutile per non essere riuscita a evitarlo, essendo lei la guaritrice della nostra comunità. Per un momento io e Sorella Tabitha siamo quasi unite dal dolore per mia madre. Si alza e si volta verso di me. «Molte, molte volte. Così tante che sembrava che tu non potessi nascere.» Qualsiasi simpatia che potevo provare per Sorella Tabitha si polverizza; nelle mie orecchie ritorna a urlare il suono dei gemiti di mia madre il giorno in cui si è trasfor mata. Mi travolge a tal punto da darmi la nausea, e mi sento incapace di restare in questa stanza, di restare vicino a questa donna. Ma rimango dove sono, perché non voglio che veda l'effetto che ha su di me. Ritorna al tavolino e posa le mani sulla Sacra Scrittura. Poi mi viene davanti. Quando mi prende la mano destra, i nostri occhi si incontrano. Slega la corda dalla Sacra Scrittura, la avvolge intorno al mio polso e comincia. Ogni volta che completa un giro stringe un nodo alla corda, seguendo uno schema complicato, e mi obbliga a ripetere: 'Voti di Fedeltà.' Lo ripetiamo tre volte, tre giri di corda, tre nodi, tre voti. A ogni intreccio, ogni annodatura, ogni parola, mi sento sempre un po' più lontana da Travis, e devo mordermi il labbro per non piangere.

«Ora sei una donna sposata, Mary. E hai degli obblighi nei confronti di tuo marito, di Dio e di questo villaggio. E ora di ammettere il tuo dovere, Mary. È ora che tu la smetta di giocare davanti alle reti. Non c'è nulla là fuori. Tua madre l'ha scoperto a proprie spese e dovresti aver imparato la lezione.» Cerco di spingere via il braccio con un colpo secco ma lei mi tiene ancora stretta per il polso. «Ho fatto tutto quello che ho potuto per te, Mary. Ti ho insegnato la parola di Dio. Ma non eri felice. Ti ho procurato un marito. Ma non sei felice. Dove arriveremo, Mary? Arriveremo alla distruzione del villaggio perché tu possa trovare la tua felicità? Perché tu possa essere soddisfatta della vita che hai ricevuto?» I suoi occhi sono un temporale d'estate. E sudore mi pizzica la pelle e mi cola sulla schiena, inzuppando il tessuto fine del mio abito. Sento il suo fiato sulla guancia, e provo a scostarmi, ma la parete mi blocca qualsiasi movimento. «Prega Dio, Mary» continua. «Prega che sia clemente e ti doni un figlio, un modo di amare qualcun altro al di fuori di te stessa.» Parlando, scuote la testa, e la sua voce diventa un sussurro. «È quello che ha fatto tua madre, Mary. Come credi che abbia potuto avere te?» Vorrei darle uno schiaffo, vorrei scagliarmi su di lei con tutta la furia, il dolore, l'odio che mi corrodono dentro. Ma non posso. Perché a un tratto non è Sorella Tabitha che di sprezzo, è me stessa. Mai una volta avevo considerato che mia madre avesse potuto avere difficoltà a concepirmi. Mai una volta avevo dubitato della facilità con cui supponevo di essere entrata nella sua vita. La presa di coscienza del mio egoismo mi lascia di sasso. Questa donna che ho di fronte sa più cose di mia madre di quante ne abbia mai sapute io, e mai ne saprò. Di colpo mi scorrono in testa tutti i racconti che mia madre mi ha tramandato. Mai una volta mi sono domandata perché me li raccontasse. Mai una volta mi sono chiesta cosa significassero per lei. Mai una volta mi sono chiesta a cosa credesse. Che tipo di vita avesse vissuto alla mia età. Mi manca così tanto in questo momento che vorrei scivolare dentro me stessa per la

vergogna e lo struggimento. Sorella Tabitha sta per dire qualcos'altro quando sentiamo bussare alla porta. Il mio cuore si imballa. È Travis, penso. Finalmente è venuto da me. Ho il viso così vicino a Sorella Tabitha che le vedo il sudore trasudare dalla pelle. Per un attimo mi chiedo se senta quel che penso, se avverta il fremito di attesa del mio corpo. Sorride di nuovo, un sorriso appena percettibile, e poi si sposta più indietro. Entra Harry. Quando lo vedo, le guance rosee per l'aria serale, i capelli umidi che cominciano a incresparsi sulle orecchie, vorrei scoppiare in lacrime. Guardo fuori dalla porta oltre di lui, nel crepuscolo della sera, sperando di intravedere Travis, sperando che sia lì fuori sullo spigolo dello stipite. Scruto ogni ombra, ma non c'è nulla, il mondo è vuoto. Poi, con un clic, la porta si chiude. Tra le braccia Harry tiene un cagnolino nero che si dimena; non deve avere più di un anno, perché il corpo non è ancora sviluppato rispetto alle zampe. Il cagnolino balza a terra e si mette a correre tutt’intorno, poi viene a scodinzolare ai miei piedi, spazzando via gli oggetti appoggiati su un tavolino lì accanto. «Un regalo di nozze per te» mi dice, abbassando leggermente il viso quasi in imbarazzo. Vorrei sorridere. Vorrei ringraziarlo. Ma mentalmente sono ancora assorta a guardare oltre la porta, sto ancora aspettando Travis. Harry allunga il braccio sinistro. Sorella Tabitha lo prende, lasciando un po' di spazio tra di noi, gli arrotola l'altra estremità della corda intorno al polso per tre volte e completa la stessa serie di nodi complicati e voti che aveva eseguito con me. Poi, tenendo la mano al centro della corda che ci unisce, recita una vecchia preghiera tratta dalla Sacra Scrittura. Quando ha concluso, annuncia: «Ora siete uniti dal Vincolo.» Quindi raggiunge il letto ed estrae un lungo coltello dal cesto che si era portata appresso. Lo appoggia sul tavolo, accanto alla Sacra Scrittura. «Questa è la vostra ultima possibilità per rinunciare all'altro. L'ultima occasione per troncare i vincoli che vi legano. Domani pronuncerete i voti di Eterna Costanza.» Infine esce dallo chalet, lasciandoci soli. Harry si volta verso di me, mentre io tengo gli occhi fissi su quello strano cane, che ora si è acciambellato vicino al fuoco e sta rosicchiando un tocchetto di legno preso dalla catasta accanto al caminetto. Harry avvicina la mano per staccarmi qualcosa dalla guancia, poi la

tende per farmi vedere, ma non capisco cosa sia. «Un ciglio» dice. «Esprimi un desiderio e soffiaci sopra. Porta fortuna.» La sua espressione seriosa mi riporta a quando eravamo bambini e correvamo tra i campi subito dopo il raccolto, e l'aria era carica di sole e profumava di vita. In quell'istante ricordo un pomeriggio, quando con tutti i bambini del villaggio giocavamo a inseguirci nel labirinto che i nostri genitori avevano creato tagliando il grano. Ci eravamo persi, ammucchiati l'uno sull'altro sotto il sole di fine pomeriggio, come se non ci fosse cosa più importante al mondo che correre tra i meandri di un viottolo che non conduceva da nessuna parte se non in mezzo a un campo. Perché il divertimento era non tanto trovare la fine del viottolo, ma l'avventura di percorrerlo. Quel pomeriggio - avrò avuto al massimo otto anni - avevo preso Harry per mano e l'avevo trascinato dentro il labirinto con me. Quanto avevamo riso mentre inciampavamo tra le mille viuzze, girando in tondo, finendo in punti senza sbocco. E quanto aveva piovuto poi: non abbastanza da farci uscire dal labirinto, ma tanto da farci placare la sete tirando fuori la lingua. Fuori dal viottolo avevamo scoperto un covo di cui era facile non accorgersi, un'entrata stretta che si apriva in una piccola radura circolare piena di trifogli, solo morbidi trifogli, come se in quel punto non fosse mai stato impiantato nulla. Un punto dove non cadeva la pioggia e splendeva ancora il sole. Ricordo che io e Harry ci eravamo presi per mano e avevamo iniziato a fare il girotondo fino a farci venire le vertigini, ridevamo, roteavamo e cadevamo a terra, toccandoci solo con le punte delle dita. Proprio in quel momento, tra la pioggia, era apparso un arcobaleno meraviglioso che copriva il nostro piccolo Covo di trifogli. Eravamo circondati ovunque da luce e colori, e ricordo che Harry aveva girato la testa verso di me, io mi ero voltata verso di lui, e lui aveva detto: «Alla fortuna, Mary. A noi. Per sempre.» La passione che gli illuminava gli occhi a quell'età, quand'era ancora un bambino, è la stessa che ho visto in Travis. La stessa che ora vedo in Harry. Quanta rabbia ho provato nei confronti di Harry a causa di quello che mi è successo, quasi fosse stato il mio nemico, e non l'amico che ho sempre avuto. Adesso però capisco che la sua vita è oppressa quanto

la mia. Che stiamo entrambi capitolando contro le stesse regole, e che forse è ingiusto da parte mia biasimarlo per la nostra situazione. E così crollo. «Voglio andare via da qui» gli dico. La mia voce è solo un bisbiglio. Lui resta in silenzio, quindi continuo. Ora che l'ho detto devo assolutamente continuare, devo pronunciare le parole che si sono addensate nella mia testa come nuvole nere prima di un temporale, nuvole che si caricano, si gonfiano e si arrotolano nel caos. «C'è un mondo là fuori. Al di là del recinto... C'è un'altra parte di mondo. Una fine. Io lo so. C'era una ragazza, si chiamava Gabrielle. Veniva dall'altra parte. Era una forestiera, è venuta qui, e ora è finita tra gli Sconsacrati, e so che sono state le Sorelle a sacrificarla. E la Saetta, quella che indossa quello strano gilè rosso: lei ne è la prova, e loro l'hanno uccisa perché noi non dovevamo saperlo. Noi non dobbiamo sapere mai.» La tirata mi lascia senza fiato, con lo sgomento di aver esternato il mio pensiero al mondo, di aver confessato i miei veri desideri. I miei non sono pensieri giusti: nessuno ha mai espresso il desiderio di abbandonare il nostro villaggio. Non per l'utopia di ciò che può esistere al suo esterno. «Sarai felice, Mary?» mi chiede. La sua voce è dolce, senza venature di critica o giudizio. Alla fine lo guardo negli occhi. Fa scivolare una mano nella mia, la corda bianca che penzola tra di noi. Per una frazione di secondo odio Harry perché non è Travis. E odio ancora di più Travis perché non è venuto da me. Perché mi ha abbandonata a questa notte. Ma soprattutto odio me stessa perché lo amo con tutto il cuore, e non mi resta nulla per suo fratello. E mi odio perché sono troppo codarda per lasciare libero Harry. Per usare il coltello e troncare il nostro vincolo. Si avvicina, e sento che ha lo stesso profumo di Travis. Mi sfiora la fronte con le labbra, e devo chiudere gli occhi. Il calore del fuoco mi sta quasi soffocando. Porta la bocca al mio orecchio. «Sarai felice andandotene da qui, Mary?» E così tenero, così desideroso di farmi felice come nessun altro. I miei occhi si gonfiano di lacrime, e il mio corpo inizia a rispondere a quest'uomo come se fosse suo fratello che mi sussurra all'orecchio. Come se il corpo non riuscisse a distinguerli, a distinguere i loro bisbigli e la sensazione del loro fiato sulla mia pelle.

Chiudo forte gli occhi e annuisco con un cenno del capo. Assalita dal terrore che possa ripudiarmi per questo desiderio, che possa respingermi e lasciarmi in balia delle Sorelle. «Troveremo un modo perché tu sia felice, Mary. Ti prometto che troverò una strada per noi.» Annuisco di nuovo, incapace di aprire la bocca e parlare per paura di liberare i singhiozzi che sto tentando di trattenere. «Io voglio solo che tu sia felice, Mary mia» mi ripete, scostandomi un ciuffo di capelli dietro l'orecchio e poi abbassandosi per accompagnare con dei baci il percorso delle sue dita. Apro gli occhi e guardo il mio nuovo cane: è accanto al caminetto e contorce il muso nel sonno, immerso nei suoi sogni di cucciolo; forse sta sognando di inseguire qualcosa che non riuscirà mai a prendere. L'unica differenza tra di noi è che lui domani avrà dimenticato quello che non poteva avere, mentre io lo ricorderò sempre. Harry continua a baciarmi sul collo, finché a un certo punto devo chiudere gli occhi e mi sfugge un gemito di piacere dalle labbra. Sempre a occhi chiusi, sollevo una mano e seguo la curva delle sue scapole. Mi chiedo se la schiena di Travis abbia le stesse curve. Mi chiedo se la mia mano sulla sua pelle sarebbe uguale a come appare ora sulla pelle di Harry. Quante volte ho immaginato di rivivere il momento in cui Travis mi sussurrava all'orecchio, mi baciava lungo il profilo del viso. Stanotte proverò ad attingere da quei ricordi, ma temo di averli già dimenticali, e la confusione mi fa sentire in colpa per averlo tradito. Quelle immagini però si rifiutano di riaffiorare, e non riesco ad avere ricordi di Travis. C'è solo Harry nella luce del caminetto, la sua pelle calda e il suo profumo di terra appena smossa. E l'eco delle parole di Sorella Tabitha che si ripetono nella stanza. Le sue parole su questa vita che ho ricevuto. Che non è la vita che ho scelto.

14 Quando urla la sirena, l'indomani mattina, sono a letto. Il cane che Harry mi ha portato la sera precedente come regalo di nozze, che ho chiamato Argos, comincia ad abbaiare come un pazzo, indeciso tra l'attaccare il fragore o il nascondersi in un angolo. Sento uno strattone forte al polso, e di colpo mi ritrovo sdraiata a terra. «Mary, alzati» grida Harry. Mi ha spinta giù dal letto. Fisso la corda tesa che ci tiene legati. Con la mano libera sta cercando di prendere qualcosa dal tavolo, ma io non riesco a distogliere lo sguardo dalla corda. Ho la testa confusa, piena di immagini della sera prima: Harry che mi bacia, Sorella Tabitha che mi ammonisce a essere una buona moglie e a dare dei figli al nostro villaggio, Argos e i suoi sogni da cucciolo. «Mary, devi aiutarmi, qui!» Sta tirando forte la corda, e mi sento mordere il polso. Vedo che gli tremano le mani. Viene dalla mia parte, mi afferra per le spalle e mi trascina fino al tavolo. Prende il coltello cerimoniale che Sorella Tabitha ci ha lasciato e lo fa scorrere sotto la corda del Vincolo. Poi la pressione al polso si allenta. Una volta libero, Harry inizia a rovistare tutto lo chalet, raccogliendo vestiti e cibo e ficcandoli in una borsa Sollevo l'altra estremità della corda, facendola scivolare tra le dita. Le fibre dei nodi che cingevano il polso di Harry sono ancora calde. Ho la sensazione che il tempo sia rallentato, tirato come un filo di lana. Mentre la sirena copre tutti gli altri rumori, dalla finestra vicino alla porta vedo passare gente che corre e si guarda alle spalle: hanno i piedi fasciati da volute di nebbia e sembra che stiano pattinando, ma è una scena quasi muta, i loro movimenti si perdono nell'unica nota continua dell'allarme. Il panico che sono stata allenata a sentire non arriva. Anzi vado alla finestra, senza nemmeno coprirmi il corpo, e osservo il parapiglia di amici e vicini che si precipitano verso le piattaforme. Anche ora una parte del mio cervello, la parte sepolta nel mio subconscio, mi sollecita ad agire. Mi sollecita a vestirmi e correre. Correre insieme a loro prima che sia troppo tardi. Prima che si riempiano le piattaforme e vengano tolte le scale. Dietro di me Harry mi sta gridando ordini, ma le sue parole si mescolano alla sirena, e in testa ho solo un gran guazzabuglio. Una piccola parte di me si domanda se questa sirena

ritarderà la cerimonia, se resterà del tempo perché Travis possa venire da me. Mi chiedo se ci sia davvero un'invasione in corso o se invece sia come è stato per mia madre, l'allarme di qualcuno che si è avvicinato troppo al recinto. Qualcuno che ha rischiato, che ha perso la testa, che si è fatto infettare. Argos gratta sul pavimento nel tentativo convulso di scavarsi un'uscita. Le sue unghie raspano e scivolano inutilmente sul legno, e vedo che il suo panico aumenta. Alza la testa come per latrare, mostrando i denti, supplicandomi con gli occhi di fare qualcosa. Alla fine faccio per andare a prendere la gonna e lo vedo. Con la coda dell'occhio vedo un lampo di rosso vivo che sfreccia dalla finestra. Conosco quel colore. So quanto è innaturale. Conosco quella velocità. Gli Sconsacrati sono qui, in mezzo a noi. Questa non è un'esercitazione. Gabrielle è qui. Armeggio con i bottoni della gonna e raggiungo la porta infilandomi una camicia dalla testa. Poi mi blocco, con le dita sulla serratura. E se fosse troppo tardi? Il cuore mi batte forte, l'indecisione mi scorre nelle vene. E se le piattaforme fossero già piene? Riguardo Argos, che tenta di capire se deve seguirmi, se può contare sulla mia protezione. Harry non nota nulla, intento com'è a correre in giro per casa e ad aprire mensole, alla ricerca di armi. Fuori dalla finestra noto due bambini che avanzano di corsa tra la nebbia, mano nella mano. Sono fratello e sorella. Li conosco. Li conosco da quando è nato il bambino, Jacob, sei anni prima. Jacob inciampa e cade, e si afferra il ginocchio sanguinante. La sorella si ferma, accorgendosi di aver perso la mano del suo fratello più grande. Si guarda indietro e vede Jacob a terra, il braccio teso verso di lei a chiedere aiuto. Scuote la testa, con le dita in bocca e gli occhi spalancati, e il movimento le fa rimbalzare i boccoli biondi. All'improvviso il suo corpo si irrigidisce, pervaso da un terrore ancestrale. Vedo una macchia umida comparire davanti alla sua gonna, e lei che barcolla all'indietro, spostando gli occhi da suo fratello a qualcosa oltre di lui. Jacob volta la testa, ricade di schiena e si trascina sulla terra battuta con i palmi delle mani. H telaio della finestra mi blocca la visuale, e devo schiacciare goffamente la faccia contro il vetro per vedere quello che già so. È un branco di Sconsacrati che procedono dinoccolati verso il bambino. Loro vengono sempre in branco.

La sorella fa due passi verso il fratello, gli afferra il braccio e lo tira, ma è troppo piccola, troppo debole per trascinarlo. Gli Sconsacrati si avvicinano e il bambino comincia a respingere la sorella con forza, le allontana le manine e la spinge via verso le piattaforme Tutto questo si svolge in qualche frazione di secondo, e devo allontanarmi dalla finestra prima che il mio cuore riprenda a battere, prima di assistere alla fine di Jacob, una fine che conosco troppo bene. Come la sorellina, scuoto la testa, incredula. È il panico. E nel panico la gente sulle piattaforme si affretterà ad alzare le scale. Farà qualsiasi cosa pur di mettersi in salvo prima degli altri. Argos ha i peli sparati sul dorso, la testa bassa, e vedo che il corpo gli vibra con un ringhio. Tutti i cani del nostro villaggio hanno una paura innata degli Sconsacrati e vengono addestrati a riconoscerne l'odore. Ora è tutto concentrato sulla porta della nostra casa, ci sta avvertendo di quello che si trova all'esterno. Qualcosa mi urta contro e mi spinge via dalla finestra. Harry mi ficca il coltello cerimoniale in mano e mi prende il mento, affondandomi le dita nella mascella e cercando i miei occhi. Ha il petto ansante, il sudore che gli cola dalle tempie. Apre di fretta la porta, scappa fuori e torna indietro prima ancora che abbia il tempo di riprendermi. Prima ancora che abbia il tempo di urlare o trattenerlo. Mentre ancora mi sfrego il punto della pelle dove prima affondava il suo pollice. Tra le sua braccia c'è Jacob, che sia io che la sua sorellina avevamo abbandonato tra gli Sconsacrati. Harry getta il bambino sul letto e torna al suo lavoro di raccolta delle provviste. Mi lancia un fagotto, che blocco tra una mano e il petto, mentre con l'altra mano tengo il coltello cerimoniale. Poi prende due borse d'acqua da un gancio vicino alla porta e si ferma, guardandomi. Sono ancora ferma in piedi quando mi spinge contro la parete. Mi tende una mano, e la prendo. Passa le dita lungo la corda del Vincolo che ho al polso, e vedo che un accenno di sorriso gli sfiora le labbra. Apre la bocca per dire qualcosa, ma sono assordata dall'urlo incessante della sirena. Qualcosa sbatte contro la porta e sento la casa tremare. Harry si volta da me e prende Jacob. Se lo mette sulle spalle. Davanti alla porta si blocca e posa una mano sul legno, toccando il versetto sacro inciso nello stipite. Voglio chiudere gli occhi, rimuovere quello che sta succedendo. Fingere che questa giornata non sia mai iniziata e non inizierà mai.

Provo a familiarizzare con la sensazione del coltello in mano, la mia unica arma. Nel mio villaggio tutti imparano a battersi fin da giovani in previsione di una giornata come questa. Il legno dell'impugnatura è liscio e scivoloso nel mio palmo umido. Lo sento strano e ingombrante, e oltretutto la borsa di cibo mi sbilancia. Poi, prima ancora di potermi riassestare, di potermi preparare, Harry apre la porta e iniziamo a correre. Nonostante il peso del bambino, dell'acqua, di un'ascia e della sua borsa di cibo, Harry è più veloce di me, i suoi passi più sicuri dei miei. Il terrore mi annebbia la vista. Argos si attorciglia tra le mie gambe, non conoscendo altro rifugio, e mi fa barcollare. Il nostro chalet si trova alle spalle della Cattedrale, proprio ai margini della principale area residenziale del villaggio. Qui le piattaforme sono scarse, così corro verso quella più vicina, sbilanciata dall'enorme borsa che mi schiaccia il petto. Quando sto per avvicinare le dita ai pioli di una scala, la presa mi sfugge, perché la foschia del mattino ha reso il legno viscido. Mi fermo e guardo la gente sopra di me, la piattaforma è piena solo a metà. L'uomo che risolleva la scala si limita a farmi spallucce. Nemmeno una scusa. Non l'avrei comunque sentita con la sirena che continua a martellarmi i sensi. Vicino a lui, sulla piattaforma, altri uomini muniti di archi tirano frecce dirette a qualche bersaglio dietro di me. Una freccia mi passa vicino alla testa e avverto la sua compressione che taglia l'aria. Non so se fosse indirizzata a me o a qualcosa dietro di me, ma mi rifiuto di girarmi.

15 [eBL 036 by Marika & Elena77]

Il dolore non arriva. Apro un occhio e scopro che non sta più avanzando verso di me. L'estremità del lungo manico del coltello è interrato accanto alla mia testa e per un soffio mi separa la pelle dai suoi denti. Lei continua a dimenarsi, tenta di mordermi, mi graffia le guance con le punte delle dita. Cado all'indietro, sono distesa con la Sconsacrata sopra di me, e comincio a spingermi via da terra per allontanarmi. Delle mani mi prendono una spalla, riprendo a dibattermi, ma è Harry. Mi libera. Con un colpo secco decapita la Sconsacrata, e la testa di lei rotola per terra. Faccio per riprendermi l'arma, ma è penetrata troppo in fondo, si è bloccata nell'osso. Harry mi tira per un braccio, costringendomi ad abbandonarla, e le mie mani diventano troppo vuote, troppo vulnerabili. Quando ci rimettiamo a correre, ho il corpo che trema, le gambe che cedono, il bruciore delle lacrime che mi punge la gola. L'aria è satura dell'odore del sangue, e la sua puzza mi si incolla in fondo alla bocca, quasi lo stessi mangiando invece di inalarlo. Il mio petto si contrae convulsamente a ogni respiro, come se non respirasse abbastanza. Intorno a me vedo amici e vicini che cadono sotto i colpi degli Sconsacrati. Alcuni di loro sono già morti e trasformati: hanno le gole dilaniate, le membra distrutte. Seguitano ad affluire dalla foschia e ci stanno avviluppando tutti. Sono ovunque. La gente sulle piattaforme li combatte, fa di tutto per proteggere i vivi rimasti a terra, ma gli Sconsacrati fluiscono come un'onda infinita, moltiplicandosi. La nebbia confonde tutto, ed è difficile distinguere i vivi dai morti. Harry è alla mia sinistra, con Jacob di nuovo sulle spalle. Indica un punto dietro di me e mi giro. Alla mia destra c'è la Cattedrale, con le sue mura di pietra spesse e solide. Gli Sconsacrati incalzano dietro di noi, non sono ancora riusciti a invadere il rifugio della Cattedrale. Sorelle e Guardiani sono già appostati alle finestre del secondo piano e scoccano un flusso continuo di frecce. Sento un rumore di martelli: all'interno stanno fortificando i finestroni del piano terra. Siamo ancora a una certa distanza quando vedo due Sorelle arrivare dalla fiancata

dell'edificio. Hanno chiuso le robuste imposte di ogni finestrone e stanno risalendo verso la grande porta d'entrata, dove un'altra Sorella sta facendo loro dei gesti con le mani. Apparentemente hanno un problema con l'ultima imposta. Quando siamo più vicini, vedo che tentano disperatamente di sigillarla. Alla fine una delle due Sorelle spinge l'altra verso la porta e resta fuori da sola, e mi accorgo che è Sorella Tabitha. Prova a smuovere il legno pesante con tutto il peso del corpo, incurvandosi. Finalmente il legno si sblocca e le imposte si chiudono, facendola vacillare all'indietro. Tira una grossa barra di metallo e la incastra nelle staffe ai lati della finestra, per sbarrarla. Terminata la sua missione, si affretta a tornare alla porta d'ingresso e vedo che le sue nocche battono ripetutamente contro il legno. Io e Harry acceleriamo per raggiungerla, per raggiungere il rifugio provvisorio della Cattedrale. Provo a gridarle di aspettarci, ma sono talmente senza fiato che riesco solo a farfugliare qualche debole parola. Malgrado ciò Sorella Tabitha sembra aver capito e, quando la porta si apre, si volta. Guarda me, Harry con Jacob e Argos che ci avviciniamo, ignorando le mani che la sollecitano a rientrare all'interno della Cattedrale. Resta ferma sull'uscio. Esitante. Il mondo circostante non è rallentato, eppure ogni particolare diventa luminoso e vivido. Per un momento ho l'impressione di essermi scorporata da me stessa, di fluttuare e osservare dall'esterno. Non sento più i polmoni che bruciano, le gambe in tensione, la debolezza del ginocchio con cui ero caduta prima. Sorella Tabitha sta quasi sorridendo, e vedo le sue nocche bianche, contratte intomo al profilo della porta. Ogni singolo passo che faccio sembra durare sempre di più. Ora che siamo praticamente giunti alla porta, vedo che le Sorelle dietro di lei la supplicano di entrare, le gridano di chiudere la porta. Urlano per potersi barricare. Ma lei resta ad aspettare. Tenendo la porta aperta, allontanandole. Muove un passo in avanti e alza una mano, come se così facendo potesse attirarci prima verso di lei. Non vede il lampo di rosso. Ma comunque deve avvertire che sta accadendo qualcosa di terribile perché improvvisamente smetto di correre. Deve udire lo scricchiolio di piedi che corrono sulla

terra secca alla sua destra. Deve vedere la mimica inorridita del mio viso. Gabrielle le è addosso prima ancora che possa girare la testa. Si scaglia contro di lei prima ancora che riesca a manifestare qualsiasi espressione. Sorella Tabitha tenta di arretrare, prova a scappare dentro la Cattedrale, ma Gabrielle le si è aggrovigliata nella lunga tunica nera. Vedo le mani delle altre Sorelle spingerla fuori dalla porta. Sento le sue urla di dolore trasformarsi in grida e gor-goglii. Sento gli strilli di panico delle Sorelle dall'interno mentre provano a chiudere la porta, provano a buttare Sorella Tabitha fuori, lontano da loro. A quel punto Gabrielle sposta la sua attenzione su di loro, travolge Sorella Tabitha e fa per entrare. Per poco non ci riesce, è quasi entrata nel santuario. Ma lì Sorella Tabitha le afferra l'esile corpo tra le braccia e la allontana dall’ingresso, anche mentre Gabrielle si contorce e le sprofonda i denti in gola. Quando la porta della Cattedrale si chiude, Sorella Tabitha e Gabrielle sono ancora a terra a lottare. La nebbia volteggia intrecciandosi ai loro corpi che combattono. Sento i gemiti del pianto che mi strozzano e porto una mano alla bocca, sapendo che non devo attirare l'attenzione su di me per evitare che questa cosa che era Gabrielle cerchi subito una nuova vittima. Gli Sconsacrati non esitano mai ad abbandonare una vittima uccisa da poco per abbattersi su un vivo. La loro natura è anzitutto uccidere e infettare. Il mondo che mi circonda sembra accelerare, e all'improvviso mi sento stordita, tutto mi gira intomo. Le scale delle piattaforme sono state rialzate o spostate. La Cattedrale è chiusa. Non c'è più nessun posto dove andare. Tranne il sentiero, mi dico. Tranne il cancello da cui è entrata Gabrielle quando è arrivata al villaggio tante settimane prima. Quando era ancora sana. Mi giro e corro, Harry dietro di me. Sento il rumore di troppi passi che ci stanno alle costole. Gabrielle ci sta sicuramente inseguendo. Mentre ci avviciniamo al cancello la sirena riprende a urlare, per avvisare gli abitanti di quello che già so: le piattaforme sono piene, quelli rimasti a terra dovranno cercare altri rifugi. Il recinto pullula di Sconsacrati che non sono riusciti a entrare e continuano a strattonarlo, impazziti dall'odore di sangue nell'aria. Armeggio a fatica con il catenaccio de cancello, mi sento le dita impacciate, poi Harry da dietro mi spinge, ho il suo respiro caldo e rapido nell'orecchio.

Alla fine il catenaccio cede, e Harry ci butta dall'altra parte con una tale forza che vacillo e cado sul viottolo, ferendomi i palmi. Mi giro indietro nel momento in cui è passato anche Argos. Quando il cancello si chiude Gabrielle si lancia contro di esso, la bocca aperta, il sangue che scorre dal mento. Chiudo gli occhi, trattengo il respiro, lascio che la sirena mi martelli il corpo. Per una volta, sono contenta che il suono sia così opprimente da sopraffarmi e annullare tutti gli altri sensi. In questo momento non voglio vedere. Non voglio sentire suoni, sensazioni, odori. Ma devo assolutamente respirare, perché il fetore della morte mi si sta infiltrando dentro. Mi rimetto in piedi e tomo al cancello che abbiamo appena varcato, mentre la mano di Harry mi prende una spalla per bloccarmi. Dopo pochi passi, mi fermo. Guardo Gabrielle in faccia. Guardo la morte negli occhi. Ha tutte le dita rotte; in alcune l'osso ha trapassato la carne. Malgrado le braccia lacerate, si scaglia verso di me con una passione che avrà fine solo quando sarà così stremata da non reggersi più in piedi, e anche in quel caso continuerà ad avanzare strisciando. La sirena si interrompe di nuovo, e il suo rumore viene sostituito dallo sferragliamento del recinto contro cui Gabrielle si avventa ripetutamente. Fa schioccare la mandibola in pregustazione, e i suoi denti rotti scrocchiano. Ma i suoi occhi sono ancora lucidi: è la lucidità dei nuovi Sconsacrati. Mi fissa come se fossi la sua unica salvezza. E in quel momento mi rendo conto di una cosa: mi trovo proprio sul sentiero che ha percorso per raggiungere il nostro villaggio, solo che ora è lei quella bloccata all'interno. Vorrei chiederle chi è, da dove è venuta, cosa vuole da me. Cosa d unisce in questo posto. Ma poi alza la testa e annusa l'aria, con la coda dell'occhio vede qualcosa che attira la sua attenzione e schizza di nuovo via verso il villaggio. Toma nella nebbia, tra i miei amici e i miei vicini. Toma al suo sostentamento. Harry viene a riprendermi, per trascinarmi di forza lungo il sentiero. Argos continua a girarmi intorno, abbaiando e ringhiando agli Sconsacrati che scuotono le reti da entrambi i lati. Ma io non voglio muovermi, non voglio andare oltre. Passo le dita tra la maglia del

cancello dove prima era Gabrielle e osservo il villaggio avvolto nella foschia del primo mattino. «Era lei» bisbiglio. Comincio a intorpidirmi, come se il mio corpo non fosse in grado di sopportare altro e volesse chiudere i battenti. Harry mi tira un braccio per allontanarmi dalla contemplazione della carneficina visibile attraverso la nebbia. «Di cosa parli, Mary?» «Quella di cui ti raccontavo ieri sera.» Inizio a battere sul cancello, voglio sentire più emozioni possibili, dimostrare che sono viva. «Gabrielle. La ragazza venuta dal sentiero. E lei che ha scatenato questo. Lei è il motivo...» «Mary, di cosa parli?» Ha una voce tesa, che minaccia di scoppiare da un momento all'altro. Dentro di me mi sento squamare, tutto si frammenta di colpo. «Ma non capisci? Sono state loro a farle questo! Le Sorelle, loro hanno provocato questo e...» Harry mi toglie le dita dal recinto e mi attira con veemenza a sé. «Non ha più importanza.» Mi dimeno contro di lui, perché non voglio essere consolata, non ora che la furia mescolata alla paura mi grava sulla bocca dello stomaco. «Ma sei i Guardiani fossero coinvolti in...» «Ho detto che non ha più importanza, Mary!» La sua voce mi rimbomba nel petto, facendomi vibrare da capo a piedi. «Quel che è stato è stato e adesso non è il momento di parlarne Abbasso la testa. So che non dovrei insistere, ma non riesco a tacere.«Ma è la prova che...» «No!» mi grida. Ha le narici dilatate e fa un profondo respiro, chiude gli occhi, scuote la testa. Quando riprende a parlare misura attentamente le parole, contenendole a malapena. «Non è la prova di nulla. L'unica verità è che c'è stata un'invasione, che il nostro villaggio è sotto assedio e che noi non siamo là ad aiutarli.» Riguardo il villaggio e vedo delle figure che si muovono, ma non riesco a capire se siano vivi o Sconsacrati. Non riesco a capire se sia una schermaglia, una battaglia o una guerra. Mi sembra di rivedere il lampo di rosso, ma comincio a sospettare che la mente mi stia giocando strani scherzi. Che mi dica quello che voglio vedere.

Poi c'è qualcuno che sopraggiunge verso di noi dalla nebbia. Sono due persone. Faccio un passo indietro, chiedendomi se non siano altri Sconsacrati. Meravigliandomi di come sono finita dall'altra parte della Foresta per paura di ciò che sta diventando il mio villaggio. I loro tratti cominciano a cristallizzarsi e riconosco l'andatura zoppicante di Travis.

16 Il sentiero oltre il cancello è largo abbastanza da consentirci di stare tutti e quattro allineati - io e Harry, Travis e Cass - e a volte capita che le nostre spalle si tocchino, mentre osserviamo la nebbia che si leva e prendiamo piena coscienza del caos che imperversa nel nostro villaggio. La cosa più strana di un'invasione di Sconsacrati è che non restano cadaveri disseminati per terra; tutti si rialzano per unirsi ai ranghi del nemico, oppure vengono divorati. Assistiamo a un continuo cadere di amici e vicini, solo per vederli trasformare e far cadere a loro volta altri amici e vicini. Io sono in mezzo a Harry e Travis. Cass è da una parte di fianco a Harry. Dietro di noi c'è Jacob, raggomitolato a palla come un riccio, le braccia intorno alle ginocchia. Cerca di contenere i singhiozzi, e percepisco gli spasmi che gli scuotono il corpo. Di tanto in tanto Argos gli si avvicina, piagnucola e gli lecca la faccia. Ma Jacob non ci fa caso, e allora Argos toma a strusciare il musetto nella mia mano e a mugolare. Di fianco a me, sento che Travis si sposta e con la pelle delle nocche mi sfiora la mano. Contraggo le dita in risposta, e i nostri mignoli si congiungono. Quando attira la mia mano verso la sua, il senso di sollievo mi fa oscillare. Con questo semplice gesto mi sta dicendo che lui c'è ancora. Che tra noi va ancora tutto bene. Scaccio i pensieri che si sono insinuati nei miei sogni la sera precedente: che Travis non è mai venuto da me. Che non gli è mai importato di me. Che non mi voleva. Con il pollice scivola sulla vena del polso dove batte il cuore, e in quel punto si irrigidisce. Le sue dita scorrono lungo la corda del Vincolo, che ora è tutta sfilacciata e sporca. È la corda che ha unito me e Harry la sera prima. La mano di Travis sfugge via dalla mia, lasciandomi un vuoto che potrebbe essere simile alla mancanza di un arto. Sono disperata, ancora schernita dal fantasma della sua presenza. Vorrei voltarmi, parlargli. Ma non riesco a far uscire le parole di bocca con Harry così vicino. Con il nostro villaggio che muore davanti ai nostri occhi. «Pensi che dovremmo andare ad aiutarli?» chiede Harry.

Con la coda dell'occhio vedo che chiude e schiude la mano sull'ascia che si è portato dal nostro chalet. La sua voce è aggravata dalla stessa disperazione che proviamo tutti. Nessuno di noi si muove. Restiamo semplicemente fermi a guardare. Incapaci di comprendere appieno quello che sta accadendo. Di accettare che il mondo che abbiamo sempre conosciuto stia crollando. Forse era inevitabile che si sarebbe verificato qualcosa di simile, eppure nessuno di noi ha mai creduto che sarebbe successo. Ha mai realmente pensato che potesse succedere. Certo, abbiamo conosciuto delle invasioni, abbiamo sempre vissuto nella minaccia degli Sconsacrati. Ma sono passate generazioni dal Ritorno. Stavamo sopravvivendo. Il nostro villaggio è un testamento della vita costantemente minacciata dalla morte. E ora è tutto finito. Tutte le persone che conoscevamo, l'unico posto in cui abbiamo mai vissuto, tutti i nostri averi, non esistono più. Dopo poco i morti attraversano il villaggio con il loro passo strascicato e si avvicinano uno dopo l'altro al cancello. Come se fossimo gli ultimi vivi di cui cibarsi. Mentre il giorno si consuma, osserviamo gli Sconsacrati che si radunano dall'altra parte, li vediamo scuotere le reti. Ascoltiamo le grida dei sopravvissuti che tentano invano di contrattaccarli, che combattono dalle piattaforme per riconquistare il villaggio. Comincio a riconoscere quelli che si aggrappano ai cancelli. Alcuni di loro sono - erano - i miei vicini. Erano amici e compagni di scuola. Altri erano i loro genitori. Hanno ancora il sangue fresco impregnato sui vestiti, o che gocciola dalla bocca. Penso a quelli che sono rimasti sulle piattaforme a combattere contro i nuovi Sconsacrali. Mi chiedo se si rendano conto che, sollevando le scale in preda al panico, hanno solo contribuito ad aggravare il caos, hanno solo aumentato le vittime da trasformare per gli Sconsacrati. Hanno solo creato più nemici - centinaia e centinaia di nemici. Dopo un po' Cass non ce la fa più: si stacca dal gruppo, va da Jacob, che giace a terra in stato comatoso, e se lo posa sul grembo. Sento che gli intona delle ninne nanne, canticchiando a bocca chiusa le parole che non ricorda. In qualche piccolo modo mi conforta sentire la sua voce. Mi ricorda che può esistere una normalità. Anche mentre tutto il resto di questo nostro mondo sta scomparendo. «Ho paura che il catenaccio del cancello non tenga» dice Harry quando il sole comincia a

declinare a fine giornata. «Era fatto solo per sbarrare questo sentiero, non per bloccare gli Sconsacrati.» Guardo il catenaccio di metallo, l'unica cosa che ci protegge dall'orda famelica, e rabbrividisco. Guardo le reti ai nostri lati, che in questo punto sono distanziate, ma poi si restringono mentre ci si allontana gradualmente dal villaggio. Le maglie sono rosse di ruggine, tutte ricoperte di piante rampicanti. Era un sentiero proibito, perciò le reti non sono mai state curate, e chissà quanti Sconsacrati potrebbero strattonarle e farle cedere. «Dovremmo inoltrarci un po' nel sentiero» dice Travis. «Quel tanto che basta perché perdano interesse e ritornino al villaggio. Così la smetteranno di scuotere il recinto. Forse...» s'interrompe, poi sembra ritrovare la voce. «Forse di notte riusciranno a scacciarli. A riprendere il controllo del villaggio.» Nessuno risponde, e allora si sente quasi in dovere di aggiungere: «Dovremmo far passare almeno la notte, poi vedremo come sarà di mattina.» Harry annuisce, la mano salda sull'ascia, le spalle tese. Io non dico nulla. Non posso Marmi delle mie emozioni, di quel formicolio che mi fa vibrare braccia e gambe. Mi volto a guardare il viottolo, mentre gli altri sono ancora concentrati sul cancello e Cass è completamente assorta da Jacob. Faccio qualche passo, spaventata ed eccitata al tempo stesso. Qui il sentiero è ricoperto di vegetazione, e a ogni passo devo lottare contro i rovi che mi tirano la gonna. Dietro di me sento Travis e Harry discutere di cibo e armi. Domandarsi se il villaggio riuscirà a respingere l'invasione o se il sentiero sia la nostra unica speranza. Senza dire nulla mi allontano dal villaggio. Quel tanto che basta per non attirare Sconsacrati al cancello. Quando il sentiero si restringe, allargo le braccia e riesco quasi a toccare le maglie delle reti con le punte delle dita. In questo punto della Foresta non ci sono Sconsacrati, e per un istante immagino di sentire il cinguettio di un uccellino in lontananza. Alla fine decido: farò passare la notte per vedere se il villaggio riuscirà a respingere l'invasione. Ma poi affronterò questo sentiero. Anche da sola, se sarà necessario.

*** A un certo punto della notte comincia a piovere. Seguendo il consiglio di Travis, il nostro gruppetto si è inoltrato nel sentiero, che qui è troppo stretto per restare tutti attaccati a proteggerci dal freddo e dall'umidità. Travis e Harry sono seduti vicini; Harry è quello più attaccato al cancello, essendo l'unico ad avere un'arma. Io sono in fondo alla fila, giocherello con le orecchie di Argos e gli accarezzo il pelo liscio, con la sua testa sul mio ginocchio. Cass è in mezzo, Jacob avvinghiato al suo grem bo. Ha i capelli in disordine che le sfuggono dalla treccia, creando un alone intorno al suo viso immerso nelle tenebre. Jacob si è abbandonato a un sonno profondo già da un po', ma Cass continua a cullarlo e a canticchiare a bocca chiusa, sia per lui che per sé stessa. Travis e Harry, sempre impegnati nelle loro discussioni mormorate, stanno valutando la prossima mossa da compiere, la testa bionda di Travis inclinata verso quella bruna di Harry. Con la pioggia gli Sconsacrati perdono la facoltà di fiutare la nostra presenza: nell'aria gravida di acqua il nostro odore si attenua. Alcuni di loro si sono allontanati dal recinto per reintrodursi nella Foresta. E una tregua di benvenuto dal rumore assordante dei loro gemiti, anche se con i cambi di vento sento ancora gli ultimi respi ri della battaglia al villaggio trasportati fino al sentiero. Gli Sconsacrati sono un nemico determinato che non donne mai. So che gli abitanti devono approfittare della pioggia per sferrare la loro offensiva: con l'odore di carne umana smorzato dall'aria satura d'acqua è più difficile per gli Sconsacrati scovarli. Di tanto in tanto Harry o Travis alzano il tono di voce, e loro si rianimano. Cass li zittisce ogni volta, ma c'è un momento in cui uno Sconsacrato avvolge le dita tra la rete dietro di lei, facendo cadere scaglie di ruggine, e lei inizia a singhiozzare Vorrei metterle intorno un braccio, ma qui lo spazio è angusto, e siamo troppo scomode con Jacob rannicchiato sul suo grembo. «La Foresta finisce da qualche parte, Cass» le dico per cercare di consolarla. «C'è un mondo là fuori, c'è qualcos'altro.» «E allora?» dice con voce tremolante. «Non vuoi sapere cosa c'è dall'altra parte?» le domando. «Non vuoi vedere l'oceano?

Sapere che c'è dell'altro? Trovare un posto che non sia stato contaminato da tutto questo?» Muovo le braccia nella direzione di uno Sconsacrato magro che sta grattando sul recinto, ma la notte è così buia che dubito riesca a vedere. «L'oceano è sempre stato il tuo sogno, Mary, non il mio.» Si interrompe per un momento, poi a un tratto sento una mano posarsi sulla mia guancia. Ho un sussulto, perché non me l'aspettavo, ma lei continua a trattenere la sua pelle fredda contro la mia. Ha le punte della dita tutte raggrinzite per la pioggia. «È l'unico modo che abbiamo per uscirne» le dico. «L'unica possibilità per Jacob di avere una vita.» «Il nostro posto è al villaggio. Il posto di Jacob è con i suoi genitori» mi risponde. Avrei voglia di scuoterla, ma tengo le dita ferme tra il pelo del dorso di Argos. «Ma non capisci? E cambiato tutto» le dico. «I genitori di Jacob potrebbero non essere nemmeno sopravvissuti. Niente sarà più come prima.» Toglie la mano dalla mia guancia per coprirmi la bocca. «Non voglio sentire queste cose» dice, con una voce piatta e seria. «Non capisci che se diamo per distrutto il villaggio, significa che tutti quelli che abbiamo conosciuto sono morti? Io non ci rinuncio a loro così facilmente. E nemmeno tu dovresti.» La sua mano si stacca dal mio viso. Sento che prova a sistemarsi meglio il bambino sul ventre, e lui si lamenta per poi ricadere nel suo sonno senza sogni. Ora c'è appena qualche goccia di pioggia. Davanti al recinto vicino a noi c'è un altro Sconsacrato che si è unito al primo, richiamato dai gemiti. E troppo buio per vedere, ma sento che raspano contro il metallo. Sento la loro disperazione. Mi chiedo di chi fossero quelle mani. Quali di quelle mani abbiano accarezzato la testa di un bimbo malato, abbiano toccato le labbra di un amato, si siano giunte in preghiera, una volta. Mi chiedo se tra quelle mani ci siano quelle di mia madre. «Se seguiamo questo sentiero moriremo tutti, Mary» mi dice Cass. «Sei egoista a volerci sacrificare tutti per i tuoi capricci.» Le sue parole mi rimbombano dentro con un'eco tremenda. Per un istante immagino di tornare al villaggio per aiutare gli altri a respingere l'invasione. Immagino di tornare allo chalet con Harry e continuare le nostre vite, concludere la cerimonia, concepire i suoi figli

anziché quelli di Travis. Immagino di provare ad accontentarmi. «Cass» sussurro. La pioggia mi scivola sulla faccia e nella bocca. «Noi siamo già morti. Siamo circondati dalla morte ogni giorno. Ci trasciniamo con le nostre vite come loro si trascinano con le proprie. Era inevitabile che un giorno la morte avrebbe invaso le nostre vite come ha invaso il villaggio questa mattina. Non facciamo parte di nessun ciclo di vita, Cass.» Lei non risponde. Una volta le avrei raccontato tutto di Gabrielle. Avrei condiviso con lei il timore che le Sorelle siano state la causa di questa distruzione. Avrei detto a Cass che avevo la prova dell'esistenza di un mondo al di là della Foresta. Ma resto in silenzio. Scruto tra le tenebre, in fondo al sentiero che si allontana dal villaggio. Il sentiero da cui è venuta Gabrielle. Appoggio una mano sulla terra umida, e mi chiedo se Gabrielle potrebbe aver sostato qui prima di entrare nel villaggio. Mi domando per quale motivo potrebbe aver deciso di attraversare il sentiero, se fosse sola o se avesse compagni che sono morti, o che l'hanno abbandonata lungo il tragitto. Vorrei dire a Cass di Gabrielle, per farle provare la stessa speranza che provo io. Ma temo che finirebbe con l'esprimere le stesse paure oscure che si infiltrano nei miei pensieri: che quella di Gabrielle non è una storia su cui riporre speranze, che nessuno di noi può aspettarsi che si concluda tutto per il meglio. Tiro i nodi della corda del Vincolo che ho al polso, li attorciglio, li sfilaccio, provo ad allentarli. Ma i nodi non si sciolgono. Vorrei sapere perché Travis e Cass non portano più le corde del Vincolo. Se mai le hanno portate. È regola dell’Iniziazione che una volta legati con la corda, lo sposo e la sposa non possano disfare i rispettivi vincoli finché non viene celebrata la cerimonia finale dei voti. Finché la coppia non viene unita al cospetto di Dio - unita spiritualmente, così che il vincolo fisico non sia più necessario. So che è logico pensare che, come me e Harry, Cass e Travis potrebbero aver tagliato la corda per sfuggire più facilmente all'invasione. Tuttavia il pensiero mi tormenta, mi tormenta l'idea che potrebbero non essersi mai uniti con il Vincolo. La possibilità che si siano rifiutati di celebrare la cerimonia con Sorella Tabitha, o che uno di loro abbia reciso

la corda di notte, mi fa ribollire il sangue. Sollevo le ginocchia al petto e appoggio la fronte sul tessuto umido della mia camicia, chiudendo forte gli occhi. Mi sento esplodere il cuore: continuo a chiedermi se Travis e Cass siano mai stati uniti. Se non abbia sciupato la possibilità di stare con Travis per non averlo aspettato fino alla fine. Per aver scelto di unirmi a Harry. Per aver rinunciato a Travis. All'amore. Avrei voglia di piangere e ridere al tempo stesso, ma stringo i denti. Provo a impedire che il pensiero del mondo di fuori mi formicoli nel sangue. Però non ci riesco. Mentre vacil lo al limite del sonno, e i pensieri sfuggono al mio controllo evolvendo per propria volizione, sento il rumore dell'oceano: il fruscio delle foglie di centomila alberi che mi circondano e pulsano con il vento, mentre le onde si infrangono sulla mia testa. Trascinandomi sotto. Sballottandomi il corpo come un pupazzo senza ossa. Ogni notte affogo e ogni mattina mi risveglio senza respiro.

17 Mi sveglio nel caos. Voci che gridano, Cass che strilla, Argos che abbaia. Dimeno le gambe, provo a rialzarmi, barcollo per qualche passo e mi ritrovo davanti al recinto. Delle dita fredde mi percorrono la pelle e libero un urlo, ricadendo all'indietro e finendo in mezzo allo stretto sentiero. Cass tiene Jacob dietro di sé e con un dito indica il villaggio. «Stanno arrivando» dice, e nella torbida nebbia vedo Harry in piedi a gambe divaricate, l'ascia ben stretta tra le mani. Travis è dietro di lui, armato di un grosso ramo. Argos è accovacciato e ringhia, pronto ad attaccare. Le reti che delimitano il recinto torreggiano sopra di loro, mentre la luce che anticipa l'alba penetra attraverso le maglie metalliche gettando ombre incrociate su tutti noi. Udiamo dei passi strascicati che si avvicinano. Mi sporgo e prendo la mano di Cass, e lei la stringe così forte che sento le nostre ossa stridere. «Dobbiamo allontanarci, dov'è più sicuro» le dico, tirandola. «Se non è la Saetta, possiamo seminarli.» Ma prima di riuscire a spingerci molto oltre, sento Harry che grida, e corre lasciando cadere l'ascia. Travis lo segue zoppicando, e poi, dall'angolo, vedo due figure sopraggiungere, un uomo e una donna. Harry prende la donna tra le braccia, e in quel momento mi accorgo che sono mio fratello e sua moglie. Ritorno di corsa verso di loro e mi fermo a pochi metri da Harry e Travis, che accerchiano la sorella impedendomi di accostarmi a mio fratello. Jed si sposta di lato e mi guarda. «Ciao, Jed» gli dico, avvicinandomi come se fossi io il figliol prodigo, non lui. Vedo che getta un'occhiata alla treccia bianca sfilacciata che penzola dal mio polso, dopodiché mi scruta in volto. Per un momento temo che non dica nulla, ma poi apre le braccia e finalmente riesco ad abbracciare mio fratello, che da troppo tempo era scomparso dalla mia vita. Non riesco a non pensare a quanto eravamo amici una volta, a quanto mi è mancato. Faccio un passo indietro, e Jed mette un braccio protettivo intorno a sua moglie. Lei si stringe intorno alle spalle uno scialle sudicio e inzuppato e appoggia la testa su mio

fratello, facendo scivolare i ricci marroni fuori dal foulard. «Il villaggio è stato annientato» dice. Ci ammassiamo tutti il più possibile sullo stretto sentiero. Beth da una parte, appiccicata a mio fratello, Harry e Travis in mezzo, e Cass, Jacob ed io dall'altra parte. Le reti che ci racchiudono da entrambi i lati mi fanno sentire leggermente intrappolata, mi costringono a fare respiri profondi per mantenere la calma. «Si sono trasformati in troppi» continua Jed. «A terra non è più sicuro.» Avvicina Beth a sé, e con una mano le piega la testa per appoggiarla sulla propria spalla. «Abbiamo approfittato della pioggia per seguirvi. Questo sentiero era la nostra unica speranza.» A quelle parole Beth viene colta da un fremito, che dalle sue ossa sembra passare alle mie. «Ma com'è possibile?» chiede Harry. «I Guardiani sono addestrati per questo.» Jed serra la mandibola. «I Guardiani si allenano a riparare le reti, a respingere un'invasione di Sconsacrati lenti e malandati. È stata la Saetta» ci spiega. «Quella con quello strano vestito rosso. Lei ha fatto precipitare tutto. E arrivata troppo in fretta, ne ha uccisi troppi. Poi i morti si sono trasformati e, per quanto lenti, erano troppi. E stato troppo per i Guardiani. Troppo per tutti.» «Ma non stanno ancora combattendo?» chiede Harry. Percepisco la frustrazione che gli scende dalle spalle. Le sue mani si stringono come per cercare l'ascia da brandire. Jed si lascia cadere la testa sul petto e bacia dolcemente la fronte di sua moglie in lacrime. Sento il respiro che mi abbandona, sento il mio stomaco bruciare nella consapevolezza che è davvero così. Che il nostro villaggio non esiste più. È come un peso enorme che crolla addosso a tutti. Le spalle si infossano. Le gambe cedono. Mi baluginano in testa un centinaio di volti: insegnanti, amici, Sorelle, Guardiani, vicini. Sono tutti Sconsacrati. I genitori di Beth, Harry e Travis: morti. Cass non verrà più abbracciata da sua madre. Jacob non giocherà più con la sua sorellina. Ripenso a quello che ho provato quando ho perso prima mio padre e poi mia madre. A quel dolore devastante. E dalle facce degli altri vedo che la realtà comincia a radicarsi, a diventare comprensibile anche a loro.

Jacob sembra non capire e ci osserva uno dopo l'altro con aria perplessa. Intorno a noi gli Sconsacrati continuano a gemere, continuano a scuotere le reti. Harry si schiarisce la gola e afferra Jed per un braccio. «Sei sicuro?» «E finita» si limita a dire Jed. «Indietro non si torna.» Vedo la mandibola di Harry contrarsi, e l'immagine mi riporta alla nostra infanzia, a quando osservava i ragazzi più grandi che si azzuffavano e giocavano a fare i Guardiani. So che ora si sta chiedendo se la sua presenza al villaggio avrebbe potuto cambiare qualcosa, se non sia stato codardo da parte sua fuggire via dal cancello. «Allora il sentiero è la nostra unica opzione» osserva Travis. Getta un'occhiata veloce a tutti, e inevitabilmente mi sembra che i suoi occhi si soffermino più a lungo sui miei che su quelli degli altri. Restiamo in silenzio, poi Harry prende la parola. «Io e Mary abbiamo portato un po' di cibo dal villaggio. E due borse d'acqua. Le abbiamo prese ieri mattina quando abbiamo sentito le sirene.» «Ma basteranno?» domanda Cass. Si tiene la testa di Jacob stretta al petto, e gli copre le orecchie affinché non senta la conversazione. «Sul sentiero ci sono cibo e armi» dice Jed. Ha una voce calma e uniforme. Harry è il primo a reagire. «Come? Perché dovrebbero...? Non capisco» dice infine. Jed fa un respiro profondo. «La Congregazione. Sin dall'inizio, subito dopo il Ritorno, le Sorelle hanno sempre ordinato ai Guardiani di rinforzare il sentiero. Di tenere delle scorte qui fuori in caso di invasione. Non era così imprevisto che potesse accadere. Che saremmo dovuti uscire dal villaggio. I Guardiani si preparavano a un'evenienza del genere.» «Ma io sono un Guardiano e non ne sapevo nulla.» «Tu sei un apprendista Guardiano» replica Jed. Le guance di Harry avvampano. «Mio padre era il capo dei Guardiani e non ha mai detto nulla! » urla. Alle sue grida gli Sconsacrati che scuotono il recinto da entrambi i lati si agitano, intensificando i loro gemiti. Poi mi guarda, con il petto ansante. «Tu che eri nella Congregazione, lo sapevi?» I suoi occhi lanciano fiamme, e arretro di un passo.

«Le Sorelle avevano dei segreti» gli dico. «E a quanto pare ne avevano anche i Guardiani.» Mentre lo dico non riesco a guardarli negli occhi. Tutti abbiamo dei segreti. Harry si porta le mani tra i capelli bruni, e alla luce del giorno i suoi zigomi sembrano ancora più spigolosi hanno proibito questo sentiero, e ci tengono pure delle scorte? Lo avrei mai saputo?» Jed scrolla le spalle. «Che importanza ha?» chiede. Harry resta in silenzio per un momento. «E dunque dove porta il sentiero? Se sei a conoscenza delle scorte, come fai a non sapere dove porta?» «Perché anche se sono stato scelto come Guardiano, non facevo parte della Gilda. E dubito che la Gilda ne sapesse qualcosa. È la Congregazione che detiene le informazioni. Noi ci limitiamo a eseguire gli ordini.» Jed si volta verso di me. «Ecco dov'ero il giorno in cui nostra madre è stata... infettata. Ero fuori sui sentieri, controllavo le scorte, verificavo che le reti tenessero ancora. Ecco perché non sono riuscito a tornare prima che... si trasformasse.» Ripenso al mio primo giorno con le Sorelle, al cunicolo nascosto sotto la Cattedrale che sbucava in mezzo alla Foresta. Allo stanzino in cui le Sorelle avevano rinchiuso Gabrielle. Ancora una volta mi chiedo cosa nascondessero tutte le altre porte di legno spesso, se dietro quelle porte ci fossero altre stanze o altri cunicoli che conducevano ad altri sentieri. Mi chiedo se ora le Sorelle e i Guardiani asserragliati nella Cattedrale abbiano trovato un modo per uscire dal villaggio e ricominciare daccapo. Abbandonandoci tutti alla morte. «Le Sorelle e i Guardiani non contano più. Quel che conta» dice Jed, interrompendo i miei pensieri «è che dobbiamo sopravvivere su questo sentiero. Almeno per un po'. Ma dobbiamo muoverci subito.» Harry è ancora corrucciato. Distribuisce le poche borse di viveri che abbiamo, si china a raccogliere l'ascia e dice: «Io starò davanti, visto che sono l'unico armato.» Richiama Argos al proprio fianco e tutti insieme ci incamminiamo, Cass e Jacob subito dietro di lui. Travis prende la mano di Beth e avanzano insieme, sostenendosi l'un l'altra e mettendosi prudentemente al centro del sentiero per evitare la minaccia incombente delle reti. Io e Jed li seguiamo in coda.

Procediamo in silenzio per l'intera mattinata, districandoci tra rovi e rami caduti. A un certo punto Jed si ferma, e io faccio lo stesso. Gli altri continuano a camminare, svoltando e sparendo dalla nostra vista, e restiamo soli. Ha un'aria agitata, nervosa. Continua a spostare il peso da un piede all'altro, come se non riuscisse a trovare una posizione comoda. Alla fine, a voce bassa, parla. «Mary, io...» Tentenna, e vedo i muscoli della sua mascella sussultare. Ha le lacrime agli occhi, e il suo viso si sgretola. «Io non so cosa fare» mi dice. Non ho mai visto mio fratello piangere, e inizia a battermi forte il cuore. Faccio un passo per consolarlo, ma lui alza una mano per tenermi a distanza. «Che succede, Jed?» gli chiedo. «Cosa c'è che non va?» Si volta verso il recinto di fianco, scuote la testa. «Jed?» insisto. «Si è infettata, Beth è...» A quelle parole si blocca. Si strofina una mano sul viso, quasi fosse l'unica cosa che gli tiene insieme il corpo. Indietreggio, barcollando, e mi scosto da lui. Beth è rimasta insieme a noi per tutto questo tempo. E per tutto questo tempo lui non ce l'ha detto. «Devi ucciderla!» esclamo, prima ancora di riuscire a riflettere. Quando sto per chiedergli scusa, lui crolla in ginocchio davanti a me. Mi afferra la camicia, mi supplica, ma sono troppo scioccata per parlare. «Non puoi capire» dice. «Non puoi sapere. È un morso piccolo. Non è nulla. Forse non è nemmeno malata... forse...» La sua voce si smorza. Mi accuccio di fronte a lui per guardarlo. «Jed» gli dico, cercando di avere un tono dolce e tranquillizzante. «Sei un Guardiano. Lo sai cosa significa un morso. Lo sai cosa significa avere un'infezione.» Annuisce, ma non sono sicura che le mie parole gli siano davvero entrate in testa. Faccio un respiro profondo. «Lo sai che non c'è speranza.» «Non posso uccidere mia moglie» mi dice con una voce rauca e disperata, ricadendo sui talloni. Picchia per terra, tuona in preda al tormento, e gli Sconsacrati in ibernazione nelle vicinanze si risvegliano, avendo percepito la nostra presenza. Sento i loro gemiti: hanno

iniziato a fiutarci. E primo colpisce la rete, a meno di due metri di distanza, seguito da un altro, e poi da un altro ancora. Ascolto quello sferragliamento e poi dico: «Puoi sempre lasciarla andare. Liberarla nella Foresta.» Jed scoppia a ridere, una risata bassa e amara. Si scaraventa su di me prima ancora che abbia il tempo di muovermi, serrandomi la gola con le dita, spingendomi sempre più indietro. Le mie gambe si impigliano nella gonna, cado addosso alla rete, e sento le punte di metallo arrugginito che mi penetrano nei vestiti. «Ho capito, Mary. Ora ti diverti, vero?» I suoi capelli neri sono tutti arruffati intorno al viso. Scopre i denti. «Io mi arrabbio con te perché hai lasciato che tua madre diventasse una di loro, e ora che mia moglie farà la stessa fine sei contenta, eh?» Sento delle dita di Sconsacrati tra i miei capelli, lotto contro la rete e provo a urlare, ma Jed mi impedisce di emettere qualsiasi suono. Mi divincolo, i miei occhi si ri girano nelle orbite per l'odore di morte e putrefazione, sono disperata. All'improvviso sembra rendersi conto di quello che sta facendo, di quello che ha fatto, e lascia cadere le mani. Mi spingo via da lui, lontano dalla rete, e vacillo sul sentiero, le mani strette sulla pelle emaciata del collo. Respiro con ansimi irregolari, le lacrime mi bruciano gli occhi, e la rabbia suscitata dal terrore che ho appena vissuto mi fa tremare il corpo. Dopo pochi passi lo sento. «Mary, ti prego.» La sua voce ha perso l'impeto selvaggio di prima. «Ti prego, scusami. Scusami tanto» mi dice piangendo, e mi ricorda il ragazzino con cui sono cresciuta. Mi fermo, senza voltarmi. «Non posso perderla» mi dice. «Se fossi mai stata innamorata, mi capiresti.» Mi giro di colpo. «Non parlare a me di amore!» sbraito. «Non azzardarti a dirmi quel che so e non so dell'amore. Questa non è una questione di amore. Tu sei un Guardiano. Uccidere gli Sconsacrati, questo ti insegnano a fare. E lasciandola viva ci hai messo tutti in pericolo. Le conosci le regole.» Si sfrega una mano sul viso. È seduto in mezzo al sentiero, le ginocchia piegate, un braccio intorno alle gambe. «Il nostro villaggio non ha mai sostenuto l'amore» riflette, guardando verso la Foresta. «Ha sempre sostenuto l'importanza della stirpe, della conservazione, del non sposarsi tra

consanguinei.» Fa un gesto verso gli Sconsacrati che raspano sul recinto. «Quello che contava era sopravvivere a loro.» Penso a Harry, al fatto che la Congregazione abbia decretato il nostro matrimonio, e incrocio le braccia al petto. «La Congregazione aveva torto» dice. «Quel che conta non è sopravvivere. Quel che conta dovrebbe essere l'amore. Quando conosci l'amore... questa vita ha un senso. Quando lo vivi ogni giorno. Ti risvegli con lui, lo tieni stretto durante un temporale o dopo un incubo. Quando l'amore è il tuo rifugio dalla morte che ci circonda e ti riempie così tanto che non esistono parole per descriverlo.» Ondeggia avanti e indietro, e gli scorrono lacrime sul viso. Intorno a noi gli Sconsacrati continuano a gemere. Penso a Travis. Al modo in cui mi ha detto che sarebbe venuto da me. «Io ho conosciuto l'amore» sussurro, tanto a me stessa quanto a mio fratello. Lui solleva un angolo di labbra, quasi sorridendo. «Tu non puoi aver conosciuto l'amore.» Sono sul punto di protestare, quando alza una mano per bloccarmi e continua: «Perché se l'avessi conosciuto non mi diresti di uccidere mia moglie come se fosse una scelta facile. Sapresti che non si rinuncia a un amore così. E sapresti che di certo non lo si ucciderebbe mai. Mai.» Faccio un passo in avanti, ma ho ancora paura di quest’uomo ferito, ho ancora il terrore che dicendo la cosa sbagliata potrei scatenare di nuovo la sua aggressività. Sono combattuta dal timore di lui e dalla voglia disperata di consolarlo. «Jed, non hai scelta» gli dico. «Beth è un rischio per tutti noi.» Ma è come se non mi sentisse, non mi capisse. «Volevo solo stare con lei un altro giorno» si giustifica in tono di supplica. «Solo un giorno per dimenticare. Per fingere che non ci sia stata alcuna infezione, che non esista nulla di simile agli Sconsacrati. Solo un giorno per imprimerla nella memoria.» «Ma l'infezione...» «È un morso piccolo, Mary» mi dice, accartocciando la faccia mentre pronuncia le parole. «Le restano ancora due giorni almeno, se non tre.» La sua voce diventa cupa. «L'infezione si sta propagando piano. Se c'è una cosa che ho imparato da Guardiano è come si trasformano i vivi. Conosco i sintomi. So cosa cercare.» Deglutisce. «Lei ha ancora

tempo.» Mi giro a osservare la Foresta. Non riesco a immaginare Beth che diventa come loro. Che diventa una Sconsacrata. «Ti prego, Mary. Lasciami trascorrere questo giorno e questa notte con mia moglie. Se conosci l'amore, sai cosa significa per me.» Annuisco senza rendermene conto. Lui si getta su di me e mi abbraccia. Ma io sto ancora pensando alle sue parole sull'amore. Anche quando corre per raggiungere gli altri, per raggiungere sua moglie. Mi tengo il viso tra le mani, macinando le parole di Jed. Dilaniata dal senso di colpa, mi domando se veramente abbia mai amato Travis, avendo accettato di rinunciare a lui. Avendo accettato di unirmi a Harry. Il tradimento affonda dentro di me come un macigno.

18 Resto fedele alla mia promessa: non rivelo agli altri di Beth. Ma continuo a tenerla d'occhio. Controllo che Jed non si allontani mai da lei. Anche se non ho un'arma, sono pronta a ucciderla, che lui lo sia o meno. In serata, quando il sole infiamma le cime degli alberi, il sentiero finalmente si allarga, sollevandoci dalla vicinanza opprimente del recinto, e quindi dalla paura di fare qualche passo falso andando a sbattere contro le maglie metalliche e tra le dita degli Sconsacrati. Al centro della radura vediamo un baule di legno chiuso da linguette metalliche. È lungo e largo, e ha un grosso lucchetto arrugginito che pende da un lato. Argos lo annusa, agita la coda e ci saltella intorno, elettrizzato. Ci raccogliamo tutti davanti al baule e noto delle lettere impresse sul coperchio. Passo sopra la mano per togliere le foglie marce. XVIII. Ripenso alle lettere che Gabrielle aveva scritto sulla finestra della sua stanza: XIV. «Cosa vogliono dire queste lettere?» chiedo a Jed. Alza le spalle. «Che c'entra?» «Le hanno messe i Guardiani?» insisto. «No, la cassa c'è sempre stata. Le Sorelle ce l'avevano detto, e ci chiedevano di mettere sempre provviste fresche.» «E la chiave?» gli chiede Harry. Jed alza di nuovo le spalle. «Stranamente non ho pensato di portarla.» Mi giro e nascondo il viso sulla spalla, soffocando una risata. Harry sferra qualche colpo d'ascia contro il lucchetto, rompendolo al terzo tentativo. All'interno ci sono due borse d'acqua, due borse di cibo e altre due asce a doppia lama. Jed ne prende una e Travis prende l'altra. «Faremmo meglio ad accamparci qui stanotte, visto che c'è spazio» dice Harry Siamo tutti d'accordo, rasserenati dal fatto di essere usciti da quel varco stretto tra le reti, così i ragazzi cominciano a scardinare le tavole dal baule per accendere il fuoco, mentre io e Cass prepariamo una grama cena. Non parliamo granché finché mangiamo, la sera. Osservo le fiamme che consumano le

lettere impresse nel legno del baule e penso a Gabrielle, all'immagine di lei la sera in cui l'ho vista alla finestra della Cattedrale. I lunghi capelli neri che le incorniciavano la pelle chiara e al contempo scura, come una luna sospesa appena sopra l'orizzonte. Prima che diventasse Sconsacrata. Quando era una ragazza come me che contemplava da una finestra chiusa a chiave la promessa del sentiero che attraversa la Foresta, la promessa di un altro mondo. Durante la notte, quando cado in un sonno discontinuo, con Argos tra le braccia, sogno Cass e Jacob che tentano di prendermi attraverso il recinto. Solo che non sono Sconsacrati. Sono al di là di un cancello chiuso, mentre io mi trovo dalla parte opposta, tra il rumore assordante degli Sconsacrati, e non capisco se vogliano me oppure loro. Cass apre la bocca e urla, e mi sveglio di soprassalto, solo per scoprire che sta gridando davvero. Sotto la mano sento vibrare il ringhio di Argos. M raddrizzo e mi giro nella direzione di Cass, che continua a gridare con il dito puntato. Il mio primo pensiero è che Jed avesse torto e Beth si sia trasformata, ma poi con la coda dell'occhio vedo un lampo di rosso e il mio cuore si ferma. Vedo Gabrielle venire verso di noi e mi strozzo al mio stesso respiro. Mi preparo psicologicamente all'impatto, all'attrito di denti, ma dopo sento un rumore di ferraglia, quello di Gabrielle che sbatte contro la rete. Ha tre frecce che le sporgono dal torso e un braccio che pende in una strana angolazione, ma questo non sembra fermarla né rallentarla. Altri Sconsacrati la seguono ciondolando e la raggiungono sul recinto, e tutti ci reclamano a gran voce. Travis getta della terra sulle braci del fuoco della sera prima, mentre Harry e Jed si preparano a brandire le asce. Ma il recinto riesce a frenare gli Sconsacrati, e veniamo as saliti soltanto dall'odore della loro carne fetida e dai rumori dei loro gemiti disperati. Abbandoniamo il nostro piccolo accampamento senza proferire parola, e a mano a mano che il sentiero si restringe ci ridisponiamo in fila indiana. Procediamo veloci, con gli Sconsacrati lenti che si trascinano dietro di noi, incapaci di tenere il passo. Gabrielle però riappare a ogni curva. E come Argos: corre davanti alla rete, la forza, cerca punti deboli, toma indietro da noi, prova a sfondarla. «Come ha fatto a uscire dal villaggio?» sento chiedere a Beth con un lamento. «Come ha fatto a trovarci?»

Jed la avvicina a sé, in un punto in cui il sentiero ha una larghezza appena sufficiente a farli stare fianco a fianco. Guardando oltre la sua testa incrocia il mio sguardo. «Deve essere tornata attraverso il varco» le dice. «Evidentemente al villaggio non le è rimasto più nulla da cercare» sento dire a Harry. «Evidentemente il villaggio è stato completamente annientato. Se non sono riusciti a ucciderla...» La sua voce si smorza, lasciandoci trarre le nostre conclusioni. Cass, dall'inizio della fila, si blocca a quelle parole; mi avvicino, e lei fa scivolare la mano di Jacob nella mia, restando indietro. La sento piangere, sento il suo corpo che sussulta nello sforzo di respirare. Vorrei fermarmi, abbracciarla e consolarla, ma mi limito a stringere più forte la mano di Jacob. «Perché quella è così diversa?» mi chiede lui con la sua vocina da bambino leggermente blesa. Fa cenno a Gabrielle con il suo gilè rosso acceso. Scuoto la testa. Penso a Gabrielle rinchiusa nella Cattedrale con le Sorelle, all'ultima volta che l'ho vista, a quanto l'ho cercata e ricercata senza riuscire mai a trovarla. Penso al cunicolo, a quelle porte, allo stanzino, alle scritte nella Sacra Scrittura. Non riesco a non chiedermi, ancora una volta, cosa le Sorelle possano averle fatto, come possano aver provocato tutta questa distruzione.

Nell'istante in cui un luminoso nuvolotto attenua il sole violento che picchia sulle nostre teste, il sentiero riprende ad allargarsi e ci ritroviamo davanti a un cancello che divide in due il recinto. Sopra la leva c'è una placca di metallo con incise le lettere XIX. Per un breve attimo mi tornano in mente le porte del villaggio e le iscrizioni sacre delle Sorelle. Faccio scorrere una mano sulle lettere così come ho imparato a fare prima di entrare in una stanza. Ma invece di pensare a Dio, come dovremmo fare, penso a Gabrielle. Mi chiedo che collegamento esista tra le lettere che aveva scritto sulla finestra, quelle impresse nel baule di prima e queste, ma non riesco a capirne la logica. Mi giro verso Gabrielle, che batte sul recinto con passione malata, una passione che non avevo mai visto negli Sconsacrati. Vorrei poterle fare queste domande, darle conforto, dirle di calmarsi e poi chiederle aiuto.

Afferro il metallo rovente della leva e faccio per tirarla, ma in quel momento Cass emette un rantolo e fa un passo in avanti, staccandosi dagli altri. «Cosa fai?» mi urla, per sovrapporsi al rumore di Gabrielle. «Non sai cosa c'è là fuori. Non sai a cosa serve questo cancello. E se ci fossero Sconsacrati? Mary, così ed ucciderai.» «Non abbiamo scelta» le rispondo, tirando la leva. Il cancello si apre con un cigolio appena percettibile. E incredibilmente pesante, e resto davanti a tenerlo, mentre gli altri lentamente lo oltrepassano. Jed cammina con un braccio protettivo intorno a Beth, che - ho notato - ha già gli occhi più infossati, i passi più incerti, i capelli marroni afflosciati intorno al viso. Provo a prendere mio fratello, per dirgli che stanotte deve occuparsi di lei. Che è troppo pericolosa. Ma lui scuote la testa prima che possa parlare, e mi dice che è tutto sotto controllo. Harry e Travis varcano il cancello, e mi chiedo se si siano accorti di come sta cambiando la loro sorella. Se abbiano compreso cosa l'attenderà a fine giornata. L'inevitabilità di tutto questo. So che Jed non li ha ancora informati dell'infezione, benché la morte sia sempre più vicina, passo dopo passo. Quando ci siamo tutti, lascio che il cancello si richiuda dolcemente. Mentre riposiziono la leva dall'altra parte, trovo una nuova placchetta di metallo. Sopra sono incise le lettere XVIII, le stesse lettere del baule. M sforzo di ricostruire il quadro, di capire cosa significhino queste lettere, ma non riesco a ricavarne nulla. Scuoto la testa e passo un dito sul metallo. I suoi bordi affilati mi trafiggono il polpastrello del pollice. Succhio via il sangue e raggiungo gli altri. Dopo un breve tratto il sentiero si dirama: dobbiamo prendere una decisione. Argos corre ad annusare furiosamente entrambe le biforcazioni, poi viene a sedersi ai miei piedi, la lingua penzoloni da un lato della bocca. «Possiamo separarci, andare in perlustrazione o scegliere una strada» dice Harry con le mani sui fianchi, scrutando il viottolo che devia a destra. C'è una piccola radura nel punto in cui i tre viottoli si incontrano, e Beth ne ha approfittato per stendersi, raggomitolata su un fianco, lo scialle stretto intorno alle spalle e la testa appoggiata sulle gambe distese di Jed. Cass è seduta insieme a Jacob, la mano avvolta intorno a quella del piccolo, e lo aiuta a

scrivere numeri sulla tema. «Semplice» dice senza alzare gli occhi. «Prendiamo il sentiero che ci allontana da lei.» Indica il punto in cui Gabrielle si scaglia contro il recinto, con la stessa furia della prima volta che ci ha visti. A causa sua siamo stati costretti a procedere lungo lo stretto sentiero in fila indiana, perché temevamo che camminando fianco a fianco potesse riuscire a prenderci. «Cass ha detto bene» interviene Travis. «Se prendiamo il sentiero a sinistra non potrà seguirci.» Quando siamo tutti d'accordo, Jed aiuta Beth a rialzarsi, quindi imbocchiamo il viottolo di sinistra, lasciando Gabrielle inveire contro il recinto dietro di noi. Senza la sua presenza costante il sentiero sembra quasi vuoto, e mi accorgo che in fondo un po' mi manca. Durante la calura del giorno troviamo altre due interruzioni, e ogni volta scegliamo a caso che direzione prendere. Proprio quando cambia la luce, e le distanze si fanno meno nitide, Harry, che guida la fila, improvvisamente si ferma. «È una strada senza uscita» dice.

19 «Cosa?» strilla Cass, con una nota d'isteria nella voce. Passa intorno a Harry per vedere da sé e inizia a battere colpi sulla parte di rete che chiude il sentiero; mi ricorda gli Sconsacrati, che vogliono sempre ciò che sta dall'altra parte. Alla fine Travis va da lei e la prende fra le braccia. Le dice di calmarsi e la dondola piano, mentre Harry da dietro le appoggia una mano sulla spalla. Insieme, provano a placare il pianto convulso di Cass. Perfino Argos le si avvicina, appoggiandosi sulle sue gambe e leccandole la mano. Lei si aggrappa a Travis; la vedo affondare le dita nella carne della sua spalla, vicino al colletto della camicia, e non riesco a non osservare la scena con una punta di gelosia, come un sassolino di possessività alla bocca dello stomaco. «Inutile» brontola Cass. «Tutto. Abbiamo perso tutto. Mio padre e mia madre... mia sorella...» Respira a fatica, e vedo Travis e Harry con le lacrime agli occhi. «Spariti» continua. «Sono tutti spariti. Morti. E noi...» Ha un nuovo spasmo, e le trema tutto il corpo. «Noi... il sentiero, oh dio...» Le sue parole si tramutano in lamenti. Travis la avvicina a sé e le accarezza i capelli con una mano, per consolarla. Avverto una fitta in fondo alla gola, mi sento rivoltare lo stomaco, ma non risale nulla, e nessuno se ne accorge. Avrei voglia di strappargli Cass dalle braccia, ma mi controllo e giro intorno a Beth, che è raggomitolata per terra, per allontanarmi. Provo a respirare a fondo, ma il mio corpo continua a vibrare. Conosco il loro dolore. Lo capisco, l'ho vissuto con la stessa angoscia. So che dovrei essere solidale, so che siamo tutti nella stessa situazione. Tuttavia non riesco a placare il fuoco, la rabbia che mi accartoccia lo stomaco. «Dovremmo fermarci qui questa notte» suggerisce Jed. «Non credo che Beth possa fare altra strada oggi.» Aspetto che spieghi loro perché, come aveva promesso. Che dica loro che è infetta. Lui invece si limita a dire: «È troppo provata dalla perdita dei suoi genitori.» Lancio le mani in aria e faccio per correre via furiosamente, ma Jed mi raggiunge quando sono ancora a portata di orecchio degli altri. «Non serve» mi dice, e non so se si riferisca a Travis, a Harry, a Beth o al sentiero. So solo che sono piena di rabbia per tutto quello che è accaduto. È come un fulmine che si abbatte sul mio corpo, questa furia. Senza riuscire a controllarmi, mi metto a ridere, ed è un suono rauco che mi esce dalla gola. «Vogliamo parlare di quello che non serve, Jed?» gli chiedo, perché ho voglia di

esplodere e ho lui sottomano. «Cosa mi dici del tuo piccolo segreto su Beth?» dico a voce alta, perché tutti mi sentano, per richiamare l'attenzione di Travis e Harry nel momento in cui pronuncio il nome della loro sorella. Di colpo sento un bisogno intimo di ferire Travis, che tiene un braccio intorno a Cass, e le dita di lei gli cingono possessivamente il polso come una corda del Vincolo. Voglio ferirlo perché fomenta questo desiderio furioso che ho di lui, e perché non si è fatto avanti prima di quell'ultima notte con Harry. Perché non è arrivato prima che tutto si complicasse così tanto e diventasse così orribile. «Dillo Jed! » esclamo, tenendo gli occhi fissi sullo sguardo interrogativo di Travis. «L'hai promesso. Dillo che Beth è già morta. Dillo che ti rifiuti di ucciderla. Che preferisci metterci tutti in pericolo.» Quando vedo la mano di Jed scagliarsi verso il mio viso e sento il bruciore del colpo che mi attraversa la guancia, resto immobile. Non mi ritiro, e non alzo nemmeno la mano per lenire il dolore. È chiaro che Travis continua a non capire quel che sta succedendo. Beth, udendo il proprio nome, si desta. Quando vede che la stiamo tutti fissando, si raddrizza rapidamente, e lo scialle le scivola dalle spalle esponendo la ferita purulenta che nascondeva. Harry grida come un animale ferito e cade in ginocchio, strisciando verso la sorella. Travis resta fermo a fissarmi, e un'ondata di calore mi investe dalla testa ai piedi. Mi faccio già schifo, sto annegando in un mare di vergogna. Mi giro e corro via sul sentiero. Ma almeno so che ora Travis sta soffrendo quanto soffro io. Vago per i vari viottoli, lasciando mucchietti di sassi o ramoscelli per ogni diramazione del sentiero che incontro, così da poter tornare sui miei passi. Vorrei tanto trovare qualcosa di utile, qualcosa da riportare come offerta, per farmi perdonare e dimostrare che siamo sulla strada giusta. Che non dovremo vagare nella Foresta fino a morire di fame o per disidratazione. Ma non trovo nulla, nient’altro che un sentiero infinito pieno di rovi ed erbacce alte. Le maglie delle reti sono coperte di rampicanti morti, con boccioli che forse una volta contenevano dei fiori, e che ora sono tutti secchi e rammolliti. A un certo punto mi ritrovo al primo bivio del sentiero, e mi metto seduta a fissare la boscaglia. C'è silenzio, qui, nessuno Sconsacrato che si è risvegliato al rumore dei miei

passi. «Gabrielle?» chiedo a quel silenzio. Lì per lì ho una voce esitante, ma poi prendo coraggio e grido: «Gabrielle!» Sento immediatamente il rumore di un animale che si precipita nel sottobosco, poi dagli alberi vedo sfrecciare il suo gilè rosso, e lei avventarsi contro il recinto. Non è al suo nome che risponde, ma alla mia esistenza. Non viene perché la chiamo, ma perché mi vuole con tutta sé stessa. Perché è stupida, affamata, e non conosce altro che il desiderio di carne umana. Sembra un po' più lenta, come se il suo corpo si stesse smembrando nello sforzo di alimentare tanta energia. Ciononostante getta le dita verso di me attraverso le maglie e digrigna la bocca contro la rete, in attesa che mi avvicini. Immagino di infilare un dito nella rete per introdurlo nella sua bocca. Di lasciare che mi consumi e mi infetti. Di finirla con questo sentiero, con questo struggimento troppo doloroso da sopportare. Penso a mia madre che si trova chissà dove nella Foresta, e penso che se diventassi una Sconsacrata forse potrei ritrovarla. Mi sono sempre chiesta se ci sia un barlume di riconoscimento tra gli Sconsacrati, se siano come belve selvagge in grado di comprendere qualcosa di così vero e profondo come l'amore. Mi sporgo e premo il dito sull'unghia del suo mignolo, l'unico a non essersi ancora deformato e rotto a forza di tentare di squarciare il recinto. «Chi sei?» le domando. Ha gli occhi graffiati, di un blu latteo, e so che non mi sta vedendo. Le lacrime che mi rigano il viso colano sulla camicia. «E più semplice dall'altra parte?» le chiedo, sempre accarezzandole il mignolo con le dita. Tenta di prendermi la mano, ma la sua è troppo straziata per sostenere una tale destrezza. E poco più alta di me e abbiamo una corporatura simile. In altri tempi avrebbero potuto scambiarci per sorelle, sebbene il suo naso, una volta lungo e dritto, sia ormai stor to, con l'osso che trapassa sul dorso. «Mi dispiace» le dico. Quanto vorrei credere che mi stia sentendo. Che mi stia capendo. Invece continua a tentare di afferrarmi, e io a piangere lacrime pesanti, mentre il sole si abbassa nel cielo. Nel momento in cui mi volto per andarmene, passandomi la mano sotto il naso, vedo qualcosa che luccica nell’erba dove i due viottoli si uniscono.

Strizzo gli occhi e giro la testa, ma non lo vedo più, allora raggiungo il punto in cui la rete si divide e batto i piedi per terra. Sento un leggerissimo tintinnio e mi inginocchio, frugo tra l'erba con le dita bagnate di lacrime e alla fine la trovo. Attaccata alle maglie più basse della rete c'è una placchetta di metallo uguale a quelle fissate alle leve del cancello. Questa è a destra del bivio, a meno di venti centimetri dal sentiero. Come le altre placchette, anche questa ha un'iscrizione. Ci passo sopra le dita per rimuovere il terriccio. Tasto il solco di ogni lettera: XXIX. Per curiosità vado anche sull'altra biforcazione del sentiero, scosto il fitto tappeto di erbacce e trovo un'altra placchetta con lettere simili: XXIII. Ondeggio all'indietro sui talloni, cado con un tonfo e mi ritrovo seduta. Questi sentieri sono segnati, proprio come i cancelli: non sono casuali. Quasi per paura di aver avuto delle allucinazioni o di essermi inventata tutto, balzo in piedi e corro alla biforcazione successiva del sentiero, dove arrivo senza fiato. Scivolo in ginocchio e scavo nella terra e nell'erba finché non trovo altre due placchette di metallo, che segnano i rispettivi sentieri. Di nuovo, lettere simili: VII, IV. Chiudo gli occhi e tento di afferrare la logica delle lettere. Provo a capire cosa mi stiano dicendo. Cosa abbiano in comune. Ma il cuore mi batte troppo forte, il sangue mi scorre nel corpo troppo veloce, con troppa concitazione, e non riesco a concentrarmi. Passo e ripasso più volte le dita tremanti sopra le lettere. Ripenso alla finestra su cui Gabrielle aveva scritto il suo nome e rivedo, chiarissime, le lettere che aveva aggiunto sotto: XIV. Le lettere devono essere una specie di codice, le placchette una sorta di contrassegno. Eppure non riesco a ricostruire il quadro. Non riesco a ricomporre i pezzi. Stringo i denti, frustrata, e ributto il terriccio sopra la placchetta che ho appena esaminato, seppellendola di nuovo nella sterpaglia. Quando il sole si libra sulle cime degli alberi e la pelle mi pizzica dopo la lenta scottatura, ritorno al nostro accampamento sulla strada senza sbocco, ripetendomi in continuazione i vari gruppi di lettere.

Ogni volta giungo alla stessa conclusione: c'è un collegamento tra le lettere e Gabrielle. Le lettere mi porteranno a lei. Risolveranno il mistero della sua identità e magari anche della sua provenienza. Stava cercando di dirmi qualcosa quando ha scritto quelle lettere tra il vapore del suo alito sul vetro. E io non ho scelta, devo decifrare il suo messaggio. Mi picchietto le dita sulle labbra e rifletto. Scoppio dalla voglia di dire a tutti della mia scoperta. Di spiegare loro che ora abbiamo una specie di direzione. Un obiettivo. Saltello lungo il sentiero, superando di corsa i muc-chietti di sassi che avevo posizionato a mo' di segnale per tornare dagli altri, fermandomi solo a cercare le placchette, i segnasentiero. Ogni volta che sento le lettere incise sotto le dita, non riesco a trattenere una risata. Sto ancora sussultando di gioia quando, svoltato l'angolo del sentiero, trovo Cass seduta e Jacob che dorme su un fianco poco distante, il suo corpicino aggrappato ad Argos come al ricordo della vita prima dell'invasione. «Beth è morta» dice, senza nemmeno alzare gli occhi. «Le stanno scavando una fossa. Non volevo che Jacob assistesse alla decapitazione. Ha già visto troppo.» Il dolore mi sommerge dissolvendo la gioia della mia scoperta. Non le ho detto addio. Non c'ero. Nelle sue ultime ore sono riuscita soltanto a procurarle dolore. «Vado ad aiutarli» dico. Ho una voce tirata, che esce sofferta dalla gola. Nuove lacrime mi spuntano dagli occhi e scivolano sul mio viso. » Quando faccio per passare, Cass allunga una mano e mi blocca la caviglia. «No» dice. Lascio cadere le gambe, e mi ritrovo rannicchiata vicino a lei. «Mi dispiace» dico. Scusandomi ancora, quasi fossero le uniche parole che ho il diritto di pronunciare. Annuisce. Ha un'espressione greve, seriosa. Non è più la ragazza che conoscevo, il sole e la luce fatti persona. Quella sempre spensierata e felice. Mi fa male vedere l'oscurità che si insinua nel suo spirito, che si impossessa di lei. Abbandono la testa tra le ginocchia, con le mani sulla nuca. Di colpo, l'aver scoperto dei

pezzetti di metallo incisi con delle lettere mi sembra inutile. È come se il mondo avesse aperto le sue fauci. Ci avesse riportato alla realtà, per ricordarci quanto è ingiusta la nostra vita. Quanto è inutile tentare di esistere quando si è circondati soltanto da morte. Una morte incessante, implacabile. Una nuvola offusca il sole, immergendo nel buio e nel freddo il mondo che ci circonda. Il vento si alza leggermente tra gli alberi; le foglie mostrano per un istante la loro parte bianca. Il sapore della pioggia mi ricopre la lingua, e in lontananza sento i gemiti sottili degli Sconsacrati in ibernazione che si alzano e vengono a cercarci. Hanno udito i miei passi e fiutato il mio odore. Decido di non dire nulla delle lettere. Di non dare agli altri quella speranza. Non voglio che Cass abbia altri crolli, non voglio sostenere il peso delle loro aspettative. E se le lettere non significassero nulla? Se il sentiero non portasse da nessuna parte? Se riuscissimo a ricostruire il puzzle, ci attendessimo una fine e poi non la trovassimo? È già abbastanza sapere che i sentieri sono segnati, sapere che devo trovare le lettere di Gabrielle. Magari tutti i sentieri conducono agli Sconsacrati. Magari è un destino che nessuno di noi può evitare, un destino certo come la morte. Magari avevo ragione, da piccola, quando credevo che non potesse esistere un posto come l'oceano, un posto così grande da essere inviolato dal Ritorno.

20 [eBL 036 by Marika & Elena77]

Dopo aver seppellito Beth, Harry e Travis tornano da me e Cass, che siamo rimaste in silenzio a osservare Jacob mentre dorme con Argos, alzando e abbassando le spalle ossute a ritmo ipnotico. Harry ci annuncia che il piano è di sfruttare gli ultimi sprazzi di luce per tornare indietro e accamparci nell’ultimo punto in cui si divide il recinto, dove il sentiero è più largo. Li lascio partire senza di me e ritorno furtivamente verso la strada senza uscita, dove trovo Jed in piedi accanto a un tumulo di terra. Ha le spalle accasciate, le mani che pendono inerti lungo i fianchi, come prive di vita, e vedo tutto il peso del suo dolore. «L'ha presa quella vestita di rosso» dice Jed, gli occhi sulla rena che si sta ancora assestando nel corpo della moglie. «Era troppo veloce. Troppo. Beth era...» Deglutisce. Tace. «Beth era di nuovo incinta» dice infine. Quelle parole gli spezzano la voce, e dopo un attimo di esitazione mi avvicino e mi porto il suo braccio attorno alla spalla per condividere una parte della sua pena. Per un momento temo che mi respinga. Ma dopo si abbandona con il corpo su di me. Sono l'unica cosa che lo tiene in piedi e finalmente sento che siamo di nuovo fratello e sorella. I legami che abbiamo forgiato durante la nostra infanzia erano troppo forti per essere spezzati. «Jed» gli dico. Poi mi interrompo e respiro a fondo, per paura di rovinare il momento. «Cos'è successo a Beth? Come si è infettata?» Un sassolino rotola giù dal tumulo di terra cadendo ai suoi piedi, e lui si stacca, si china a raccoglierlo e se lo sfrega tra pollice e indice. «Stavamo andando alla Cattedrale» risponde. «Volevamo dire a Sorella Tabitha che Beth era incinta, così che potesse benedirla insieme alle altre mamme durante la cerimonia finale dei Voti.» Ripenso a ciò che doveva accadere in quel nostro ultimo giorno e arrossisco. Strizza gli occhi rivolto alla Foresta. «Abbiamo sentito la sirena e ci siamo nascosti in uno chalet vuoto. Stavo cercando di sbarrarlo quando sei passata di corsa con Harry. Ti ho visto andare verso il sentiero e lì ho capito che avevi avuto l'idea giusta. Che il sentiero era

l'unico modo per sopravvivere. E poi ero in pensiero per te, Mary. «Ma Beth,» scuote la testa al ricordo «lei non voleva andarci sul sentiero. Era terrorizzata. Voleva salire sulle piattaforme. Dove sapeva che sarebbe stata al sicuro. Come ci avevano sempre detto. Non capiva quando tentavo di spiegarle che il sentiero era sicuro, che ci ero già venuto con i Guardiani per saldare le reti.» Alza la mano all'indietro come per lanciare il sassolino nella Foresta, ma all’ultimo momento si ferma. «Sono io che l'ho trascinata con me. Sono io che l'ho spinta fino al sentiero quando ha cominciato a piovere. Pensavo che se avessimo aspettato che diventasse buio... forse avremmo potuto evitarli. Ma a pochi passi dallo chalet la Saetta l'ha presa. Pensavo che la pioggia ci avrebbe aiutato a seminarli. Che ci avrebbe dato il tempo che ci serviva per fuggire. Ma non con la Saetta. In mezzo a tutta quella confusione di grida, urla e scontri... non l'ho sentita arrivare. L'ho staccata da Beth. E, Dio mi aiuti, l'ho gettata su un altro vivo, sperando di salvare Beth.» Mi stringo le braccia intorno al corpo e provo a immaginare cosa debba aver provato Jed. Provo a immaginare cosa significhi sentirsi responsabile dell'infezione della persona che più si ama al mondo. «A quel punto non potevamo fare più nulla.» Ha una voce sommessa. Sconfitta. «La gente sulle piattaforme accanto allo chalet - la gente che conoscevamo da una vita - ha visto Beth che veniva attaccata. E hanno iniziato a tirarle frecce contro. Hanno tentato di ucciderla, e così non potevamo più tornare indietro. Poi il sangue del morso attirava gli Sconsacrati lenti. Siamo arrivati al cancello appena in tempo.» Si sforza di controllare il respiro, di contenere il pianto, e io non desidero altro che stringerlo a me. Cancellare il suo dolore e la sua disperazione come una madre con un figlio. Ma non lo faccio. Resto immobile davanti alla tomba di Beth, con lo sguardo perso nella Foresta, e mi domando perché non siamo mai realmente preparati alla morte. Viviamo perennemente sotto la sua minaccia, tutto ci ricorda la sua presenza, sappiamo che il minimo errore può provocare un'infezione, eppure, quando arriva, non siamo preparati. Abbiamo sempre troppi rimpianti. «Non avevo scelta» dice infine, come per chiedermi l'assoluzione. «Non potevo lasciare che diventasse come loro. Non sopportavo di pensarla dentro la Foresta.»

«Lo so» gli rispondo, pensando a nostra madre e alla scelta che ha fatto, alla scelta che le ho lasciato fare. «È stata la cosa più dura che abbia mai fatto.» «Lo so» gli ripeto, perché non so cos'altro dirgli. Lui fa un cenno con il capo, mi stringe le spalle e si avvia per raggiungere gli altri, che stanno predisponendo il nostro bivacco. Io resto indietro, e rifletto sulla bugia che ho appena detto a Jed. Perché io non accetto la mano di Dio; io non credo all’intervento divino o alla predestinazione. Non posso pensare che le nostre strade siano già decise e che le no stre vite non abbiano un libero arbitrio. Non posso pensare che non ci sia scelta.

L'indomani mattina il sole ci scalda già più di quanto non sia sorto, e c'è un'aria densa e gravida di umidità che ci ricopre la pelle di sudore. Pur dovendo riprendere il cammino, nessuno ha fatto il minimo cenno di voler abbandonare il piccolo spiazzo dove abbiamo trascorso l'ultima notte. Cass beve un sorso d'acqua da una delle due sacche e la fa passare. Quando arriva tra le mie mani sembra vuota. Sono trascorsi tre giorni dall'invasione. Siamo arrabbiati, tesorizzati, disperati. «Faremmo meglio a tornare indietro» dice Cass. Accanto a me, Harry libera un respiro, come se l'avesse trattenuto fino a quel momento. Argos tiene la testa sulle mie ginocchia; gli passo la mano sul fianco e sento le sue costole sporgenti. La coda batte per terra torpidamente. «Non abbiamo abbastanza acqua per continuare a vagare così, senza meta» continua Cass. «Senz'acqua non possiamo vivere, e non possiamo nemmeno sperare di cavarcela pregando che piova ancora.» La giornata è appena iniziata e ho già l'impressione che potrei riempire una delle borse d'acqua solo con il sudore della mia camicia. «Forse dovremmo andare a cercare un po' d'acqua» suggerisce Travis. «Dobbiamo tornare indietro, ecco cosa dobbiamo fare» replica Cass. Le sue parole sono sensate, quasi si fosse ripetuta in testa la conversazione per un'infinità di volte.

«Cass, cara, non penso...» dice Travis, e alla parola 'cara' mi sento chiudere lo stomaco. Allontano lo sguardo dal gruppo e mi metto a fissare gli Sconsacrati radunati sul recinto, per tentare di vedere dentro la Foresta dietro di loro. «Non mi interessa cosa pensi» gli risponde Cass, ammutolendolo. Devo mordermi la lingua per non scoppiare a ridere. Non sono abituata a questa versione dura di Cass. La trovo innaturale, strana, e all'improvviso, non so perché, anche molto comica. «Quello che mi interessa è che abbiamo quasi finito l'acqua.» Si alza e gli butta in faccia la borsa vuota, costringendolo a piegarsi indietro sui gomiti. «Tra qualche giorno avremo finito anche il cibo. Quello che mi interessa è non deperire dentro questa foresta solo perché abbiamo troppa paura di tornare al villaggio» continua. Batte un piede nervosamente per terra, come se non riuscisse a controllare il corpo. «Non ci è rimasto nulla a cui tornare» interviene Jed, in tono perentorio. «Questo non lo sai» ribatte Cass. Ha una voce più acuta, più disperata. «Non puoi saperlo. Tu sai solo che le cose andavano male quando te ne sei andato. Non puoi dire che non si sono ripresi. Che non sono riusciti a respingere l'invasione.» Jed non risponde; dalla sua espressione sembra essersi ritirato nei suoi pensieri, nei suoi ricordi di Beth. Cass inizia a girarci intorno camminando. «Ma non vedete quello sta accadendo qui? Non capite che fine faremo? Continueremo a seguire questi sentieri e perderemo tutte le forze, moriremo in questo posto.» Mentre parla agita le mani, ed è talmente infervorata che non si accorge di Jacob che piange, non si accorge che lo sta terrorizzando. «Che senso ha continuare a vagare qui intorno così?» grida. «C'è qualcosa là fuori» dico io infine. Lei scoppia a ridere, gli occhi grandi e malvagi. «Cosa c'è là fuori, Mary? L'oceano forse?» Si mette le mani sulle ginocchia e si piega per guardarmi in faccia. «Possiamo berlo l'oceano, Mary? Ci salverà il tuo amato oceano quando staremo morendo su questo sentiero?» Si raddrizza e annuncia: «Io tomo indietro.» Ci guarda uno dopo l'altro e poi aggiunge: «E Jacob viene con me.» Gli tende la mano, ma lui piagnucola e si tira indietro, impaurito dalla follia che le brilla negli occhi, impaurito dal carnaio a cui ha assistito al villaggio.

Cass gli va vicino e gli afferra la mano per tirarlo in piedi, ma lui si rifiuta di alzarsi. Il suo piagnisteo si trasforma in un pianto vero e proprio che gli fa tremare il corpicino, ma Cass non molla la presa. Alla fine le strilla: «Ahi, mi fai male!» E allora interviene Harry per allontanarla. Cass si gira di scatto verso di lui, stringendogli gli avambracci. Vedo le sue dita che affondano nella pelle di Harry. «Vieni con me» gli dice, praticamente implorandolo. Sta ansimando, ha il corpo tutto teso e tremolante, come se al minimo soffio potesse prendere fuoco. «Jacob sarà nostro. Tuo e mio. Possiamo cambiare tutto. Possiamo sistemare le cose - sistemare tutto. Come doveva essere.» Parla velocemente, e le sue parole cadono una nell'altra, quasi avesse paura di dimenticarle o di perdere improvvisamente il coraggio di dirle. Senza muoverci né fiatare assistiamo al crollo di nervi di Cass. «Pensaci, Harry» dice lei. La sua voce si è ammorbidita. «Sarebbe come prima. Quando Travis stava male ed eravamo io e te soli.» Ripenso a Cass da bambina. Ai suoi capelli biondo platino, ai suoi occhi innocenti. A quando le ripetevo i racconti di mia madre e lei mi ascoltava sempre, anche se non le importava nulla. Lei non capiva il mondo prima del Ritorno. La sua vita era incentrata sul qui e sull’ora. Sulla beatitudine di un villaggio costantemente protetto dagli Sconsacrati, da tutto ciò che poteva esserci stato prima oltre il recinto. «E se fossimo gli unici rimasti?» chiede, rivolgendosi a tutti e agitando le mani sopra di noi. «E se fossimo tutto ciò che rimane al mondo? Non possiamo permetterci di morire. Non possiamo essere la fine di tutto.» Harry ci guarda con gli occhi spalancati, le guance avvampate. Mi guarda per ultima, come per implorarmi in silenzio di aiutarlo. Come se per qualche motivo sapessi cosa fare. «I sentieri sono segnati» dico infine, abbassando gli occhi sulle mie mani. «In fondo, dove si biforcano. C'è una placchetta di metallo con delle lettere incise sopra. Le stes se lettere che abbiamo visto sul cancello del nostro villaggio. Le stesse che abbiamo visto sul baule.» Harry sgrana gli occhi, poi si distacca da Cass, si inginocchia sul punto dove i sentieri si dividono, scosta l'erba alta e trova la targhetta metallica. Legge le lettere ad alta voce: «I-V e V-I-I.»

Giocherello con la corda sporca che ho ancora al polso, la corda del Vincolo. Non voglio rivelare loro delle lettere che Gabrielle mi ha lasciato scritte sulla finestra. Quelle lettere sono l'ultima cosa che ci unisce. L'ultimo nostro segreto. «Queste lettere devono avere un significato» mi limito a dire. «Forse seguendole potremo capire che ordine hanno. Potremo capire la logica, dove portano.» Cass emette un brontolio soffocato. «E allora?» dice. «Abbiamo seguito uno di quei sentieri ed era una strada senza sbocchi; non ci ha portato da nessuna parte. E come ci hanno detto da bambini: non c'è fine alla Foresta degli amori perduti!» «E se ci avessero mentito?» domanda Travis, con una voce calma e misurata. Ci guarda uno dopo l'altro. «Sul sentiero è evidente che ci hanno mentito. I Guardiani lo riempivano di scorte e loro ci dicevano che era proibito. Costantemente proibito. E se invece le Foresta finisse?» «Dobbiamo tornare indietro» ripete Cass. Ma questa volta ha le spalle accasciate, il viso esausto e la voce vuota. «Per favore» aggiunge. Si volta verso Harry e dice di nuovo: «Per favore.» Ma nessuno accenna di seguirla, e alla fine si gira e fa per andarsene. Dopo pochi passi crolla in ginocchio e inizia a piangere, erompendo in grida ansimanti che sembrano echeggiate dagli Sconsacrati che strattonano le reti intorno a noi. Jed si alza e la raggiunge. Dapprima Cass alza una mano per respingerlo, ma lui glielo impedisce. Si siede accanto a lei, la attira al suo grembo e le mette le braccia intorno alle spalle. Ricordo che teneva così anche me quando ero piccola e mi risvegliavo da un incubo piagnucolando. Devo distogliere lo sguardo da Jed che culla Cass, perché mi bruciano gli occhi, mi mancano quei giorni. Quando le mie uniche preoccupazioni erano i mostri che mi apparivano in sogno. Quando mio fratello era sempre là a consolarmi. Restiamo seduti, ognuno immerso nel proprio mondo. «E se avesse ragione?» chiede infine Travis. «Se invece fossimo gli ultimi? Gli unici sopravvissuti?» Nessuno gli risponde.

21 Trascorriamo gran parte della giornata ripercorrendo il sentiero a ritroso, senza realmente avanzare sul nuovo sentiero che abbiamo scelto. Decidiamo di accamparci presto, perché siamo tutti sfiniti. La sera mi defilo dal gruppo e ritorno sul sentiero che porta verso il villaggio, nel punto in cui ci eravamo separati da Gabrielle. E passato un solo giorno dall'ultima volta che l'ho vista, da quando ho trovato le targhette che segnano i sentieri, ma quando mi accosto al recinto e scruto nella foresta non la vedo, non appare quella strana sfumatura di rosso. Mi metto seduta con le ginocchia al petto e mi gusto la solitudine. Quel momento di quiete troppo breve prima che gli Sconsacrati riconoscano il mio odore e si precipitino a scuotere le reti. E raro stare seduti accanto alle reti senza Sconsacrati intorno, avere un piccolo assaggio di quella che doveva essere stata la vita prima del Ritorno, prima dei gemiti costanti. Sento un formicolio, e poi il rumore di passi che si trascinano dietro di me. Mi acquatto e mi volto, e vedo che è solo Travis che cammina zoppicante verso di me. Non diciamo nulla, e lui si siede accanto a me, tenendo tesa la gamba della ferita e massaggiandosi con le mani la zona dove prima sporgeva l'osso. Appoggio la testa sulla sua spalla e lui si gira a badarmi la fronte. E un gesto di tenerezza, ne sono certa. Vuole dirmi che lui è ancora qui per me. Ma il contatto delle sue labbra si ripercuote in tutto il mio corpo, facendolo pulsare ovunque. In questo silenzio siamo solo noi, non c'è morte, non d sono responsabilità. Non è più solo desiderio. Ho un bisogno di lui che ha un ardore mai conosciuto. Tranne con lui. Mi raddrizzo e mi ruoto su un ginocchio per guardarlo, facendo frusciare la gonna. Ha gli occhi sbarrati, guarda il sentiero. Gli prendo il mento tra le dita per riportare il suo sguardo sul mio. L'aria che respiro è stantia, e gli afferro le spalle spingendomi il più vicino possibile su di lui, premendo ancora e ancora. Ci sono troppi strati di vestiti tra di noi, e sono snervata da tutto ciò che ci separa, che mi impedisce di divorarlo in un solo colpo, consumare tutto il

suo essere. Per un attimo comprendo l'avidità degli Sconsacrati, la loro fame di carne viva. Le sue mani si infilano tra i miei capelli, e le sue labbra sono vicine alle mie, oh quanto sono vicine. Ricordi, dubbi, paure mi assalgono, e devo cacciarli via per ritornare solo al qui e all'ora. Ci respiriamo, ci manca l'aria, ci manchiamo l'un l'altra. E poi le sue labbra toccano le mie. Delicate, morbide, come una foglia che cade sull'acqua. Mi prende le mani e percepisco la sua esitazione. Sento le sue dita scorrere sulla corda del Vincolo che penzola ancora dal mio polso. Mi lascia, distacca le sue labbra dalle mie, e sento lacrime bollenti che mi scorrono sulle guance. Non riesco a guardarlo negli occhi. Non sopporto di sapere che si sta ponendo degli interrogativi. Si scosta da me, quasi staccandomi la pelle dal corpo, e si alza in piedi. Con gli occhi luccicanti si gira e si incammina di nuovo strascicante sul sentiero. Vorrei corrergli dietro, gettarlo contro il recinto, pretendere che mi spieghi perché non è mai venuto da me prima del Vincolo. Vorrei dirgli che è colpa sua se ora ho queste corde al polso. Vorrei spiegargli che non l'avrei mai fatto se avessi saputo che sarebbe venuto da me. Vorrei supplicarlo di perdonarmi se ho dubitato di lui, se ho dubitato che avrebbe chiesto la mia mano prima di pronunciare i voti di Eterna Costanza. Vorrei credere'che non mi avrebbe mai lasciato sposare suo fratello e che l'invasione abbia solo rovinato i suoi piani. Ma di colpo vengo distratta da un movimento nella foresta, un'apparizione fugace di rosso alla periferia del mio campo visivo. Non corre più, non cammina nemmeno; ora sta strisciando. Si trascina con il corpo in pezzi verso di me, aggrappandosi con le dita sulla terra. Gabrielle avanza con lentezza, una lentezza insopportabile. Una lentezza tale che è quasi triste vederla ridotta così. Il suo corpo ha esaurito ogni scorta di energia e ha iniziato a crollare su sé stesso. Per quanto ne sappiamo, gli Sconsacrati non muoiono, non periscono, tranne quando vengono decapitati o inceneriti. Non marciscono, non si decompongono, non fanno altro che autodistruggersi lentamente, e la loro autodistruzione è un processo reso ancora più lento dal fatto che si stendono a terra come animali in ibernazione. Ed è strano vedere Gabrielle in quello stato disperato. Le sue braccia si allungano verso di me, quasi implo-

ranti. I suoi gemiti sono piccoli suoni acuti simili ai vagiti di un neonato in cerca di conforto. Ma ha gli stessi occhi. Lo stesso bisogno. Nonostante tutto mi dispiace per lei. M dispiace vedere in che cosa si siano trasformati i suoi sogni. Provo a ricordarla affacciata alla finestra della Cattedrale, e mi chiedo se abbia mai avuto delle complicazioni nella vita, come me. Mi chiedo se sia mai stata combattuta tra il dovere e l'amore. Mi chiedo se la sua esistenza sia più semplice ora che è incentrata su un solo bisogno, un solo desiderio. Penso a Travis, a Harry, a questo sentiero infinito, e mi rendo conto che a volte la morte arriva prima che te l'aspetti. Che se di rado siamo preparati alla morte dei nostri amici, dei nostri familiari, dei nostri amati, non siamo mai preparati alla nostra, di morte. Non siamo mai preparati a riconciliarci con i nostri rimpianti. Mi precipito sul sentiero, accecata dalle lacrime. Quando raggiungo gli altri, vado dritta da Harry e gli tendo un braccio, quello su cui pende la corda sudicia del Vincolo. «Tagliala» gli dico. «Con l'ascia.» Lui mi prende la mano e solleva la corda dalla pelle bianca e delicata dell'interno del polso. La lama dell’ascia, fredda e affilata, recide subito la sottile corda. Mi sta ancora tenendo l'avambraccio quando i brandelli dei delicati vincoli fluttuano a terra. Sento che mi tira leggermente, ma io contrasto la sua pressione. Poi si porta il mio polso alla bocca e bacia la pelle ruvida irritata dalla corda. Non è su di me che Harry tiene fissi gli occhi, è su suo fratello; quindi mi lascia andare, con un piccolo sorriso possessivo stampato in faccia.

Sembra non esserci fine. Di mattina lecchiamo la rugiada dalle foglie. Durante la calura del giorno cerchiamo di stare all'ombra, dormire e preservare le energie. Ma stiamo lentamente morendo. I nostri passi sono diventati deboli e letargici. L'andatura zoppa di Travis è più pronunciata, come se gli fosse rimasta solo la forza per trascinare la gamba. Argos ci segue senza più correre davanti in esplorazione, ansimando per lo sforzo di esistere. Un pomeriggio, due giorni dopo aver seppellito Beth e cinque dopo l'invasione, si

abbatte su di noi un temporale e abbiamo quasi le vertigini per l'eccitazione. Purtroppo scarica solo una pioggerella, abbastanza per inumidirci i vestiti e le lingue, ma ben lungi dal riuscire a riempire le nostre borse d'acqua. Stiamo a malapena vivendo. Passo dopo passo assomigliamo sempre più agli Sconsacrati che camminano di fianco a noi dall'altra parte del recinto. Ci sono giorni in cui mi chiedo se siamo poi così diversi. Più si consumano i giorni, più mi sento aggravata dal peso della responsabilità. La domanda di Travis mi risuona in testa: siamo gli unici sopravvissuti? E se così fosse, ho fatto in modo di ucciderci tutti insistendo sul fatto che dovevamo continuare a inoltrarci nella Foresta? Se fossimo tornati al villaggio, avremmo potuto dare una svolta alla battaglia contro gli Sconsacrati? Saremmo dovuti tornare indietro? Avremmo dovuto prendere un'altra deviazione del sentiero? Sono io che ho causato la disfatta finale dell'umanità?

Dieci giorni dopo l'invasione, mentre il sole del mattino dissipa la nebbia, giungiamo all'ennesima ramificazione del sentiero. Questa volta, anziché due sentieri divergenti, ci ritroviamo davanti a uno spiazzo squadrato che ha un cancello su ogni lato. Cass si accascia, tira Jacob con sé e gli offre l'ultima delle sue razioni: il cibo che non ha mangiato e che ha tenuto per lui. Chiude gli occhi e appoggia la mandibola spigolosa sulla sua testa, mentre lui introduce tra le labbra l'ultimo pezzettino di carne essiccata. Ho perso il conto del numero di bivi che abbiamo incontrato lungo il sentiero. All’inizio cercavo di memorizzarlo in testa come una mappa. Tentavo di ricordare i sentieri segnati e le rispettive lettere. Passavo le giornate a camminare e a tentare di scomporle, di decifrarne la logica. Ma poi ho cominciato a dimenticarle, le immagini mentali che avevo di ogni percorso e di ogni placchetta hanno iniziato a confondersi e svanire, tanto che a volte ero certa che le lettere si ripetessero. Che avremmo finito con l'incrociare sentieri che avevamo già attraversato, proprio come in un labirinto. Sono pronta ad arrendermi. Ad ammettere la sconfitta. Sto per confessare delle lettere di

Gabrielle, sto per chiedere perdono per averli portati fino a questo punto, quando Harry legge ad alta voce le lettere delle placchette attaccate ai cancelli, così come ha fatto a ogni bivio incontrato. «X-X-X-I» dice, poi si trascina fino all'altro cancello. «X-I-X» dice. «E infine, X-I-V.» Alzo la testa di scatto. Il cuore mi batte forte nel petto, come se fossi risalita da un'immersione durata troppo a lungo. Barcollo fino al punto in cui Harry è piegato, a ridosso dell'ultimo cancello, e guarda il sentiero con la faccia incollata alle maglie arrugginite della rete. Passo la mano sulla placchetta di metallo e faccio scorrere le dita sulle lettere. Mentalmente le mie dita scorrono su una lastra di vetro della Cattedrale, seguendo il cammino che Gabrielle mi ha indicato: XIV. Ecco le sue lettere. Ecco il suo cammino. «E meglio che ci riposiamo prima di proseguire» dice Harry, mentre sto già tirando la leva per aprire il cancello. Li sento protestare dietro di me, ma il sangue mi pulsa nelle orecchie. Non posso aspettarli. Non posso riposare. Trotterello giù per il sentiero, le gambe ancora deboli spinte solo dalla mia mente. Sento gli altri dietro di me, sento Cass strillare che non vuole più proseguire. Che vuole essere lasciata in pace. Ma io non aspetto. Il sole del pomeriggio sta scivolando attraverso il cielo nel momento in cui crollo sulle ginocchia senza fiato - il mio corpo protesta, esausto, allo stremo delle forze. Finalmente gli altri mi raggiungono, ansimanti. «Deve essere qui» dico loro. E in quel momento vedo il villaggio tra gli alberi.

22 Non ci sono persone. Non c'è fumo che si alza dalle case. Le elaborate piattaforme tra gli alberi sono vuote, le scale per terra, i pioli coperti dalle erbacce. Qui il mondo è silenzioso. Immobile. Sterile. Per tutto il tempo in cui abbiamo camminato sul sentiero, i gemiti degli Sconsacrati sono stati costanti. Quando il rumore è così perpetuo, la mente deve trovare un posto per immagazzinare il ricordo incessante della morte. Allora i gemiti non diventano altro che un brusio, un sottofondo sonoro della vita. Forse è per questo che nessuno di noi nota il momento in cui il tenore di quel brusio cambia, si intensifica, si armonizza. Il momento in cui il rumore si riverbera intorno a noi e ci incalza fino ad accerchiarci. Ognuno di noi va per la propria strada, ipnotizzato da questo posto nuovo e deserto. «Cibo!» esclama Jacob con un tono vagamente estatico. Si distacca dalle mani deperite di Cass e corre verso l'edificio più vicino. Cass lo richiama debolmente, la voce resa ruvida dalla disidratazione, e lo segue barcollando. Nessuno la ferma; il resto di noi continua ad avanzare all'interno del villaggio. Pur essendo deserto, questo posto sembra ancora più civilizzato del nostro villaggio. Qui le strade sono larghe e disposte a griglia. Le costruzioni sono più grandi e più solide. C'è un viale dedicato al commercio: su ogni porta sono appese delle insegne che indicano la merce presente all'interno, e che ora sono scosse dalla brezza. Stiamo camminando lungo quello che sembra il viale principale quando Harry e Jed deviano verso uno stabile circondato di armi, lasciando me e Travis soli a contemplare il nuovo ambiente. Alzo gli occhi e noto che anche qui, come nel nostro villaggio, sono state innalzate delle piattaforme tra gli alberi che possano fungere da rifugio in caso di rottura del recinto. A differenza del nostro villaggio, però, queste piattaforme sono dotate a loro volta di strutture: case, passaggi di collegamento tra le une e le altre, corde e carrucole. E come se avessero ricreato una copia sopraelevata del villaggio sottostante. Come un riflesso in un secchio d'acqua.

Resto lì, la testa piegata all'indietro per lo stupore, mentre il sole scivola tra i germogli degli alberi e mi screzia il viso. Mi riempie di pace. Chiudo gli occhi e ascolto il sibilo dell'aria tra i rami, le corde che sbattono contro i tronchi, la porta di una casa vicina che urta dolcemente contro una parete. Pur avendo i sensi concentrati sul mondo che mi circonda, non faccio caso al crescendo di gemiti. Finché non sento qualcuno gridare. Finché non sento mio fratello urlare: «Correte!» Finché non sento la mano di Travis afferrarmi il braccio e il rumore di un vetro che si rompe vicino alla mia testa. Escono dalle porte con passo incerto per palesarsi sotto il sole. Gli Sconsacrati in ibernazione che per tutto questo tempo hanno atteso l'arrivo di carne viva scostano le reti cadenti, sfondano i vetri delle finestre impolverate. Tutto pur di avvicinarsi a noi. Faccio per raggiungere la piattaforma più vicina ma Travis mi trattiene. «La scala» dice, con le dita sprofondate nel mio braccio. «La gamba. Non posso.» Lì per lì non capisco, poi mi spinge via dal viale per riportarmi verso il cancello e verso il sentiero. Per riportarmi nel mondo conosciuto e protetto dagli Sconsacrati. Da dove siamo venuti. Mi divincolo dalla sua presa, incapace di tornare su quel sentiero. Incapace di rinunciare a questo villaggio, di smettere di cercare la fine della Foresta e l'oceano. So che una volta tornati al sentiero saremo in trappola, perché gli Sconsacrati bloccheranno il cancello per giorni, per settimane. Non potremo più tornare qui. «Non ce la faremo mai» dico a Travis. E ho ragione. Ci siamo spinti troppo dentro il villaggio, e ci sono troppi Sconsacrati da seminare tra noi e il recinto. Argos è rannicchiato ai miei piedi, le orecchie incollate sulla testa, e il gorgoglio basso del suo ringhio si propaga sulle mie gambe. Gli ordino di scattare. Lui mi guarda per un momento, chiaramente esitante. Poi lo smuovo con un colpetto di ginocchio e lui riprende subito il suo addestramento, correndo da un edificio all'altro. Battendo in ritirata e ringhiando ogni volta che fiuta l'odore di morte degli Sconsacrati. Stavolta sono io che trascino Travis. La sua andatura è frenata dalla rigidità della gamba debole e mi rallenta, ma non ho alcuna intenzione di lasciarlo.

Sento le urla di panico di Jed e Harry, ma non mi prendo il tempo di localizzarli. Posso solo supporre che stiano cercando rifugio come noi, magari nel mondo vuoto delle piattaforme tra gli alberi. A ogni porta Argos abbaia e indietreggia. Gli Sconsacrati pullulano dalle strutture, da ogni angolo nascosto del villaggio, e comincio a temere che non riusciremo mai a trovare un rifugio sicuro. Che questo posto non sia altro che un alveare di Sconsacrati in ibernazione. Usciamo dal centro del villaggio, allontanandoci dai negozi e spostandoci verso le case. Vedo Sconsacrati che si trascinano dai campi circostanti, e un gruppetto di loro ci individua e ci segue. Travis inciampa, e la sua mano mi sfugge. Mi volto e vedo un bambino che viene verso di noi. Ha i vestiti sbrindellati, le braccia inerti lungo i fianchi. Sono ipnotizzata dai suoi occhi: un celeste latteo insondabile su una pelle bianca e una zazzera di capelli rossi. Spruzzi di lentiggini gli colorano il naso, le guance e le punte delle orecchie. Sembra un bimbo vivo che si è appena risvegliato da un pisolino per scoprire che il suo mondo si è svuotato e trasformato. Senza rendermene conto, gli ho allungato una mano come per accoglierlo. Come per dirgli che va tutto bene, che è stato solo un incubo, che farà sogni più belli. Quando è quasi tra le mie braccia, con la testolina rivolta verso la mia mano, la bocca aperta che scopre i denti, uno stivale mi appare fulmineamente davanti agli occhi, colpisce la testa del bambino e lo fa volteggiare all'indietro. E Travis, che si tiene la gamba debole. Mi prende e mi tira via dal bambino, risparmiandomi lo sfogo d'ira fino a quando non saremo al sicuro. Non resisto alla tentazione di gettare un'occhiata dietro le spalle per riguardare il bambino, che ora tenta in ogni modo di rialzarsi. Chiazze di sangue si mescolano alle lentiggini del suo viso, e il suo naso è ormai concavo, rientrato nel cranio a causa della pedata. Eppure continua a venire verso di me. Gli occhi fissi su di me. Argos mi morde i calcagni, insistendo sulla carne delle caviglie. Vuole spingermi con il suo corpo, vuole guidare me e Travis verso una grande casa a tre piani che troneggia in

fondo alla strada. A questo punto gli Sconsacrati sono vicinissimi, ci cercano a tentoni con le bocche spalancate, e quando arriviamo davanti alla porta della casa dobbiamo scostarli. Si piegano verso di noi, sento l'odore della loro morte, poi entriamo e Travis chiude la porta con uno spintone. La quiete della casa mi stimola ad agire, quindi mi lancio verso le finestre, chiudo i battenti, li sbarro con le spesse tavole appoggiate alle pareti. Dopo aver barricato il piano terra, mi precipito di sopra e mi ritrovo davanti a un lungo corridoio fiancheggiato da porte chiuse su ogni lato. Argos corre ad annusare le fessure sotto ogni porta, picchiettando le unghie sul legno del pavimento. In questo piano c'è un'aria di chiuso che puzza di mosto. Davanti all'ultima porta Argos inizia a tremare, il corpo scosso da un ringhio basso e prolungato. Appoggio una mano sulla porta e incollo l'orecchio sul legno. Sento un leggero battito che si ripete. Come il rumore di un gatto chiuso dentro un pensile, echeggia il martellamento del mio cuore. So che dovrei aspettare Travis, ma ingoio la paura che ho in gola e apro leggermente la porta, pronta a respingere eventuali mani di Sconsacrati. Non c'è nulla. Solo il battito continuo, che ora, senza barriere, è diventato più forte. Lascio che la porta si apra del tutto e resto sorpresa dalla luminosità della stanza. La luce del sole entra da una grande finestra per proiettarsi su un tappeto sbiadito. Contro il muro è appoggiato un lettino con una trapunta di patchwork blu e giallo. Sopra, appeso al muro, c'è il quadro di un albero con rigogliose foglie verdi. Mi volto a guardare dietro la porta e scopro da dove proviene il battito. Acquattata nell'angolo c'è una culla bianca bordata di pizzo. Vorrei non vedere altro, ma ho un impulso che mi costringe ad avvicinarmi, a guardare oltre la sponda. C'è un neonato - una bambina - che da lungo tempo ha scalciato via le coperte. Ha la pelle cinerea, la bocca aperta in un urlo perpetuo ma silenzioso. Non è abbastanza grande per rotolarsi, alzarsi e scavalcare. Quindi è lì ferma a scalciare le gambine grassocce contro la pedana della culla, e chiama sua madre all'infinito. Vuole cibo. Vuole carne. Ha gli occhi chiusi, ma so che è Sconsacrata. Lo so perché non ha sangue che circola nel corpo, e la fontanella in cima alla testolina non pulsa più. Lo capisco dalla sua pelle

flaccida. Dal suo odore. E perché nessun neonato vivo sarebbe riuscito a sopravvivere per così tanto tempo in questo villaggio. Quando lancia un piedino nudo per aria vedo i segni del morso, il braccialetto alla caviglia che disegna le ferite della sua trasformazione. Resto in piedi a fissarla. Non avevo mai visto uno Sconsacrato neonato. Dovrei provare compassione. Dovrei sentire qualcosa dentro di me che mi spinge verso questa bambina indifesa, una sorta d’istinto materno latente. Dovrei volerle cambiare i vestiti sporchi, prendermi cura di lei. Mi tremano le gambe per lo sfinimento, e intorno a me tutto si inclina, tanto che devo tenermi in piedi aggrappandomi alla culla. Argos cammina nel vano e piagnucola, la collottola rizzata e i denti scoperti. Nella stanza c'è un fetore di morte che mi divora i sensi e mi invade la testa - ad Argos non piace vedermi così vicina al pericolo degli Sconsacrati. E la bambina è sempre lì, la bocca aperta nel suo vagito silenzioso, i piedini che scalciano freneticamente. Il suo bisogno sfacciato. Sono così stanca del bisogno. Il bisogno di sopravvivere, di cibo, di sicurezza, di benessere. Voglio solo stare in silenzio e dormire. Sola pace. Penso alla scelta di mia madre di ricongiungersi a mio padre nella Foresta. Credevo si fosse infettata per errore, in un impeto di passione dopo averlo visto sul recinto. Ma ora non ne sono più sicura. Ora mi domando se non si sia semplicemente arresa, travolta dalla lotta per la vita, per la speranza. Questa presa di coscienza è come una scintilla che arde nel più profondo di me, un calore che si scatena attraverso il mio corpo fin quasi a infiammarmi le punte delle dita. Sto ribollendo di rabbia. Per mia madre, per me stessa, per la nostra esistenza sempre vincolata dagli Sconsacrati. Faccio un respiro profondo, tiro fuori una coperta dal cesto accanto alla culla e la stendo per terra. Sollevo dolcemente la bambina, tenendole la testa, e per un istante brevissimo si volta a guardarmi come se stesse bene, come se fossi sua madre, e sento che sto piangendo. Questa bambina potrebbe essere la figlia di mio fratello. La figlia di mia madre. La figlia mia e di Travis. Una volta aveva un padre. Una volta qualcuno la teneva come sto facendo

io ora. Mi inginocchio accanto alla coperta e appoggio la bambina al centro, mentre le mie lacrime cadono sul tessuto formando degli aloni scuri circolari. Canticchiando, ripiego per bene gli angoli, fascio la bambina e la stringo a me per consolarla. Prima, al villaggio, immaginavo di avere dei bambini con Travis. Li vedevo forti e sani, con i miei capelli scuri, i suoi occhi verdi. Non avevano nulla di questa bambina, eppure la sensazione di averla tra le braccia, il suo peso, è esattamente quello che immaginavo. Faccio scorrere un dito sulla sua fronte e sul ponte del naso. È un trucco che mi aveva insegnato Cass con la sua sorellina per far addormentare i neonati. Ma questa bambina non dormirà mai, non sognerà mai, non amerà mai. Tremo quando sento Travis arrivare zoppicante dal corridoio. «Gli altri hanno raggiunto le piattaforme e sono salvi» mi dice entrando nella stanza. Appena mi vede, appena vede cosa tengo tra le braccia, si blocca. Quando comprende la situazione, il suo viso si contrae, inorridito. «Mary» mi dice, tendendomi una mano e facendomi segno di uscire in corridoio. Ha un tono di voce teso, pur sforzandosi di essere gentile e rassicurante. La sua esitazione è palpabile, mi sta quasi urlando di tornare in me stessa. Ma io continuo a cullare la bambina, a canticchiare e a dondolarla, e lei continua a vagire in silenzio. «Mary» mi ripete, stavolta supplicandomi. Viene verso di me per togliermi la bambina dalle braccia. Ma prima che lo faccia, raggiungo la finestra e mi stringo addosso il morbido peso. La sistemo nell'incavo del braccio e con la mano libera apro il telaio. Lascio che l'aria fresca mi inondi, che ripulisca l'odore di morte della stanza. Mi sporgo, lascio che il sole mi bruci la pelle, mi secchi le lacrime. Poi lascio andare la neonata. Cade tra la massa di Sconsacrati di sotto, e non la vedo né la sento sbattere a terra. Spero che la sua testina delicata non sia sopravvissuta al volo di due piani, spero che sia finalmente, completamente morta. Ma so che se anche la creatura fosse sopravvissuta, non sarebbe più una minaccia per noi.

Un brivido profondo mi percuote il corpo. Travis mi raggiunge da dietro e mi passa le braccia intorno alle spalle, con le mani tremanti. Alzo le dita e le appoggio sulla sua guancia: sento le pulsazioni energiche del suo cuore che batte sotto la pelle. Sento il calore. «Ora siamo al sicuro» gli dico. «Raccontami una storia, Mary» mi bisbiglia all'orecchio, e il suo fiato è dolce, umido, vivo. Mi accompagna verso il piccolo letto del muro opposto. «Non sono sicura di ricordarne.» Sto ancora piangendo. Si siede e mi attira vicino a sé. «Raccontami dell'oceano» insiste. La sua mano si posa sulla mia e si porta le mie dita alla bocca. Le sue labbra si chiudono sul polpastrello del mio pollice. Ricordo la prima notte in cui arrivò alla Cattedrale e gli diedi la neve da succhiare, la sensazione della sua bocca bruciante sulle mie dita ghiacciate. Ricordo che era come se il mio corpo si fosse sciolto per la prima volta. Ero realmente viva. Mi lascio andare, liberando la tensione, la paura, il dolore degli ultimi giorni, e mi affondo nel suo corpo robusto. Mi lascio caricare ancora di speranza. «Temo che non esista.» La mia voce si spezza. Scivola sull'altro lato del letto e mi avvicina a sé finché non sono accoccolata contro di lui, il suo respiro caldo sulla nuca, le sue labbra che fremono sulla mia pelle. Mi stringe forte con le braccia, mi tiene le mani tra le sue, mi accarezza l'interno del polso con il pollice. Mi concedo di dimenticare il mondo in cui viviamo. Dimentico il nostro villaggio, questo nuovo villaggio, la Congregazione delle Sorelle, il sentiero, la Foresta. Non penso più agli Sconsacrati, né a mio fratello, né al legame con Harry, né alla mia migliore amica. Siamo soli in una casa che forse esisteva prima del Ritorno, forse esisteva dopo. Ora esiste in un momento normale su cui non grava né morte, né sopravvivenza, né paura. In questo momento voglio pensare solo alla vita e a noi, e a nient’altro.

23 Apparentemente i fondatori di questo villaggio avevano ben compreso la natura della minaccia che incombeva al di là delle reti. Mentre le piattaforme del nostro villaggio erano piccole e scarse di scorte, qui sono praticamente un villaggio di per sé stesse. Negli incavi dei rami più grossi sono state costruite delle case grandi quasi quanto quella in cui sono cresciuta, e le piattaforme sono collegate da ponti di corda. Anche se non riusciamo a comunicare attraverso la distanza che separa la nostra casa dalle piattaforme se non tramite gesti, è palese che il resto del gruppo è felicemente al sicuro nelle case sopraelevate. Anche noi, per quanto il nostro piccolo rifugio sia accerchiato da Sconsacrati inarrestabili, possiamo stare tranquilli, avendo rinforzato i robusti infissi del piano terra con delle barre che coprono tutte le finestre. Mentre gli Sconsacrati si spingono incessantemente contro muri e porte, noi restiamo barricati all'interno, e ci sentiremo protetti finché la loro ostinazione non schiaccerà la resistenza delle nostre fortificazioni. Sembra quasi che la casa sia stata costruita per un assedio come questo, il che mi spinge a riflettere sul perché il nostro villaggio si fosse preparato così male. Mi chiedo perché questo villaggio sia così diverso dal mio. Perché le loro case siano così grandi e sofisticate. Il piano terra è un salone immenso che funge da cucina, sala da pranzo e salotto. Al centro del salone c'è un enorme forno a legna, e poi un caminetto per cucinare, alto praticamente quanto me, che occupa quasi una parete intera. La sala da pranzo ha un lungo tavolo con delle panche - e abbastanza posti per nutrire una famiglia numerosa e parecchi vicini. Su un lato del soggiorno si trova un muro ricoperto di armi: lance, asce a manico lungo e altre armi che non ho mai visto, tutte affilate. Vedo balestre e bauli pieni di frecce. E in posizione d'onore, sopra il caminetto, ci sono due lucenti spade con lame ricurve ed else finemente incise. Sul retro della casa, nascosta dietro le scale, c'è una stanza ordinata piena di cibo. Gli ampi scaffali alloggiano tre o quattro file di barattoli di frutta e verdura in conserva. Sul soffitto sono appese erbe e carni essiccate, sui muri sono appoggiate delle grandi botti di farina e semola.

In questa dispensa parrebbe esserci cibo a sufficienza per farci vivere per anni. Non ho mai visto così tanto cibo in vita mia, e mi chiedo se anche la Cattedrale avesse una tale scorta di provviste. La piccola porta della dispensa dà su un minuscolo cortile delimitato da uno spesso muro di mattoni. Intorno al perimetro sono disposti alcuni vasi, pronti per essere impiantati. Al centro c'è una pompa che distribuisce acqua fresca per la casa e il giardino. Nello spazio libero Argos potrebbe tranquillamente trascorrere i suoi pomeriggi dormendo al sole. E evidente che i proprietari di questa casa se lo aspettavano, si aspettavano l'inevitabile invasione che li avrebbe bloccati. Bloccati su un'isola in mezzo a un mare di Sconsacrati. Al piano superiore ci sono quattro stanze: tre camere più la cameretta della bambina, che da quel primo giorno abbiamo chiuso senza mettervi più piede. Proprio come nella vecchia baracca in cui abitavo al villaggio, in questa nobile casa c'è una scala fissata al muro in fondo al corridoio del piano superiore. Ci salgo sopra, spingo la botola e mi si apre davanti uno spazio immenso lungo quanto tutta la casa. Anche qui sopra trovo cibo lungo le pareti e mucchi di armi disposti con precisione. Da una parte c'è una serie di bauli che non mi curo nemmeno di esplorare. Dall'altra parte della stanza vedo una piccola porta bianca. Tiro il chiavistello, faccio un po' di pressione e infine la porta si apre, con un sussulto che mi fa vibrare le braccia. Fuori c'è un piccolo terrazzo con una spessa balaustra a destra e sinistra, e niente davanti. Esco all'esterno illuminato dal sole e accarezzo la soglia a destra dello stipite, per l'abitudine di passare la mano sopra il versetto sacro che trovo di solito in quel punto. Ma queste pareti sono intatte e lisce. Nessuna inscrizione sul legno, nessun riferimento a Dio o alla Sua parola. Ripenso a tutti gli altri ingressi che ho varcato in questa casa, e ricordo che erano tutti intatti. Mi chiedo come mai la Congregazione di Sorelle di questo villaggio non abbia obbligato gli abitanti a riportare i versetti della Sacra Scrittura, e subito realizzo che in questa casa non ci sono inginocchiatoi, né arazzi appesi ai muri per recitare le preghiere, in questo posto non c'è alcuna traccia di Dio. Sono allibita: com'è possibile che abbiano permesso una tale blasfemia, tanta libertà, in uno degli edifici del villaggio?

Mi viene da pensare, per un attimo soltanto, che qui le Sorelle non controllassero il villaggio con grande assiduità. O che forse non lo controllassero per niente. Mi appoggio alla balaustra del terrazzo e guardo la folla di Sconsacrati due piani più sotto. Noto che nessuno di loro indossa abiti religiosi, nessuno di loro porta una runica. Do un'occhiata alle costruzioni tutt'intorno: nessuna che abbia i divini ornamenti. Per quel che riesco a vedere non esiste una Cattedrale. Frullo con la testa tentando di comprendere questo nuovo villaggio. Tentando di capire se fosse un posto dove mancava Dio, o anche solo la Congregazione. Tentando di capire se sia possibile credere in Dio anche senza una Congregazione di Sorelle. Stordita, mi siedo giù, con i piedi che penzolano fuori dal bordo del terrazzo, sospesi nell'aria, il che aumenta la mia sensazione di vertigini. Non avevo mai conosciuto una vita senza la Congregazione delle Sorelle, senza la loro presenza e vigilanza costante. Non avevo mai considerato che Dio potrebbe essere un'entità distinta dalla Congregazione, che forse le due cose non sono state sempre intimamente collegate e che l'una potrebbe esistere anche senza l'altra. Lo sbigottimento è tale da lasciarmi con il fiato corto e debole. Qualcosa sfarfalla dalla coda dell'occhio, distogliendomi da queste rivelazioni, e riconosco Harry sul bordo della sua piattaforma sopraelevata poco distante da me. Ritorno a focalizzare il mondo reale e mi rimetto in piedi, coprendomi gli occhi dal sole con una mano per distinguere ciò che mi circonda. Noto un gigantesco albero disteso lungo la strada sterrata davanti alla casa, tra la piattaforma di Harry e il terrazzo su cui mi trovo. Deduco che facesse parte dell'elaborato sistema di case sopraelevate, e infatti vedo delle corde fissate alla tavole del pavimento ai miei piedi. Pendono dal bordo del terrazzo privo di balaustra e arrivano fino a terra, dove gli Sconsacrati le calpestano. Probabilmente sono le corde di un ponte che copriva questa distanza, e forse questa casa, la nostra casa, era il punto di ancoraggio di tutto il sistema. E ora, per qualche causa naturale o artificiale, siamo rimasti isolati, tagliati fuori. Mi chiedo se esista un modo per me e Travis di raggiungere gli altri, o per loro di raggiungere noi in questa casa, se ci sia un modo per riparare il ponte che l'albero ha rotto

cadendo. Mi si inceppa il cuore al pensiero, perché non voglio rinunciare così presto al mio isolamento con Travis. Harry mi lancia un segno con la mano, e io gli rispondo. Restiamo in piedi a guardarci per un momento, dopodiché mi accorgo che mi sto sfregando il polso nel punto in cui avevo legata la corda del Vincolo, dove sono rimaste delle piaghe. Sta cercando di dirmi qualcosa che non riesco a capire, sia per la distanza, sia per il gemito costante degli Sconsacrati. Alzo le spalle e porto una mano all'orecchio. Strilla di nuovo, con le dita racchiuse intorno alla bocca, e di nuovo scuoto la testa. Agita la mano e si arrende, come a dire che non era importante. Poco dopo ritorna giù nella piattaforma, nella casa sopraelevata dove lo attendono Cass, Jed e Jacob. Vedo già un pennacchio di fumo risalire dal camino, e mi domando se anche loro si siano creati la loro vita. Se abbiamo trovato un modo per essere felici in questo nuovo posto come me e Travis. Rientro nel solaio facendo scorrere il palmo sulla parete liscia della porta. Le abitudini sono dure a morire e l'assenza non impedisce alle mie dita di cercare.

I giorni passano e io e Travis cominciamo a entrare in un'altra dimensione. Trascorriamo gran parte del tempo insieme al piano di sopra, dove lasciamo le finestre aperte per far entrare aria e luce. Come sempre, i gemiti degli Sconsacrati si integrano nel nostro quotidiano, ma ormai il loro rumore costante è un brusio relegato in un angolo remoto della nostra mente. Solo di rado mi capita di salire sulla piattaforma per guardare mio fratello, il mio promesso sposo e la mia migliore amica, e mi chiedo se abbiano una vita come la mia, una tranquillità domestica che maschera la minaccia onnipresente fuori dalle nostre porte. C'è un momento in cui sto per chiedere a Travis perché non sia venuto da me al villaggio. Sono seduta davanti a lui, a tavola, e durante una pausa della conversazione fremo dalla voglia di avere delle risposte, di sapere come sarebbe stata la mia vita senza l'invasione. Sto mettendo insieme i pensieri, e il dolore dell'attesa si rinnova in gola. Ma poi lui mi sorride e mi prende la mano, e quando sento i suoi polpastrelli ruvidi contro la

mia pelle capisco che non ha più importanza. Perché ora siamo insieme. E non voglio rovinare l'armonia che abbiamo trovato. Prendiamo i nostri ritmi. Argos trascorre le giornate appisolandosi in vari punti. Travis mantiene la nostra casa fortificata, io mantengo i nostri corpi nutriti. Il mondo esterno finisce alla porta, e anche il nostro impegno nei confronti di altre persone. Qui, nella nostra casa, ci siamo soltanto noi e la nostra vita insieme, e per un po' di tempo è il paradiso. Finché un giorno, rientrando dal terrazzo sul tetto, mi ritrovo a guardare i bauli dall'altra parte della stanza. Per la prima volta mi sento attirata da loro. Passo una mano sul legno liscio e un odore di cedro mi pervade la testa. Pur sapendo che non c'è nessuno dietro di me, dal momento che Travis non è in grado di risalire la scala che porta fin qui, mi volto per accertarmi di non essere osservata. Dopodiché sollevo delicatamente il coperchio di uno dei bauli appoggiati sopra la catasta di roba. Quando vedo che è pieno di vestiti mi illumino, felice di aver trovato un diversivo per il mio pomeriggio. Uno per uno li tiro fuori: sono abiti sofisticati, guarniti di perle e decorazioni, ripiegati e riposti con estrema cura. Sono tutti di colori diversi, alcuni accesi, altri tenui, e ci sono tonalità che non avevo nemmeno mai visto. La stoffa è morbida e vaporosa; all'interno delle gonne è stata cucita una sottile garza rigida per conferire loro più volume, più spessore e più movimento. Mi appoggio sul corpo ognuno di quei vestiti, chiedendomi come ci si dovesse sentire ricoperti di così tanta bellezza, ma poi non resisto e li indosso. Inizialmente provo una sensazione di euforia, di stordimento nell'avere quel materiale sconosciuto a contatto con la pelle nuda. Poi, però, comincio a interrogarmi su chi fosse la donna che indossava questi abiti, perché li indossasse. Per giorni e giorni ho vissuto in questa casa proibendomi di immaginare chi la occupava in passato. Da quando ho gettato la neonata dalla finestra, mi sono vietata di speculare sui bambini che una volta mangiavano al tavolo di sotto, sugli uomini che fabbricavano le armi, sulle donne che conservavano frutta e verdure, pianificando meticolosamente un assedio che non avrebbero mai avuto il tempo di sostenere.

E ora che ho addosso i suoi abiti, sono assalita dai suoi ricordi. So che era più alta di me, perché le vesti mi ricadono sulle dita dei piedi nudi strusciando sul pavimento polveroso. So che aveva più seno di me, forse perché allattava. So che aveva le braccia più in carne delle mie, perché le sue maniche mi sommergono i polsi. Ma non so cosa potesse sognare mentre piroettava su sé stessa con questo vestito. Non conosco l'uomo che le ha posato una mano calda in fondo alla schiena, facendola fremere e sbattere le ciglia. All'improvviso mi gira la testa. Tutti questi pensieri collidono nella mia mente, e devo assolutamente sapere. Corro fuori sulla piattaforma, ancora con il vestito addosso, e mi metto in ginocchio a scrutare gli Sconsacrati di sotto. Esamino le braccia, la vita, i capelli, i polsi di ogni donna. Quale di loro ha infilato la testa in questo abito? Quale di loro si è passata le mani su questo tessuto? Quale di loro ha partorito la bambina, ha cresciuto dei figli, ha dormito nel letto in cui dormo ora? Gli Sconsacrati sono quasi impossibili da distinguere, con la loro fame eterna, la loro ostinazione, la pelle flaccida e gli occhi privi di espressione. Nessuna delle donne che vedo sembra corrispondere, quindi corro fino alla scala, riscendo in camera e guardo fuori da ogni finestra. Ma è troppo difficile. Sono troppo ammassati, strisciano uno sopra l'altro e sollevano la polvere nella frenesia di penetrare in casa, di raggiungere me e Travis. Senza nemmeno alzare la gonna dell'abito troppo lungo che indosso, mi precipito al piano terra e prendo una delle lance a manico lungo, spaventando Travis. Mi dice qualcosa, ma non lo sento, perché sto già risalendo le scale, con la lancia che sbatte contro le pareti dei corridoi. Corro di nuovo alla finestra, trascinandomi dietro la punta arrugginita che raschia sui pavimenti di legno già solcati. Mi sporgo fuori dal bordo del terrazzo, tirando le cuciture dell'abito e tendendo la lancia il più possibile. Anche dalla finestra del secondo piano, è abbastanza lunga da penetrare nella mischia di Sconsacrati, che si scostano da una parte e dall'altra, consentendomi di osservare meglio i volti di ogni donna. È come una fame che non riesco a saziare, una sete inestinguibile: devo sapere chi viveva in questa casa, a chi ho sottratto la vita. Chi di loro è la moglie e la madre? Sono quasi convinta di riuscire a capirlo semplicemente guardandola negli occhi, guardando negli

occhi quella che batte sulla propria casa, che cerca di riappropriarsi della sua vita. La vita che le ho rubato. Nel culmine del delirio, mentre sferro colpi di lancia contro gli Sconsacrati con le lacrime che mi annebbiano la vista, Travis mi raggiunge nella stanza, trafelato dalla faticosa risalita delle scale. Mi appoggia una mano sulla spalla, ma io mi scosto con un movimento brusco. Continuo a colpire ciecamente i corpi, urlando: «Chi? Chi di voi?» Alla fine mi strappa la lancia dalle mani e mi allontana dalla finestra. Ma il mio cervello ha già elaborato altre possibilità, altre teorie. «Forse se n'è andata» gli dico. «Forse non poteva a tornare a casa ma è riuscita a raggiungere i cancelli» continuo. «Forse era come Gabrielle.» Mi porto le mani in viso, per un breve istante tutto mi è chiaro. Forse è fuggita, forse sono tutti là fuori da soli che cercano. Forse ho il compito di ritrovarli, di ricordarmi di loro, di aiutarli a proseguire. Comincio a camminare, ho il cervello in panne. «Posso andare ai cancelli» dico in un soffio di voce, tutta animata. «Posso trovarla.» «Chi?» mi chiede Travis con voce forte e decisa, afferrandomi entrambe le spalle. «Chi stai cercando?» «Lei» gli rispondo, facendo cenno a me stessa, all'abito che indosso. «Di cosa stai parlando Mary? Quel che dici non ha senso.» La sua presa mi impedisce di camminare, ma continuo a battere il piede sulle tavole del pavimento, affondo le dita nel legno per la voglia di muovermi, di agire seguendo l'impulso. «Non capisci? In questo momento potrebbe esserci qualcuno nel nostro villaggio, dentro una delle nostre case. Potrebbero trovare i miei vestiti e pensare che sono una di loro, una Sconsacrata, ma io non lo sono. Io sono qui e loro non potranno mai saperlo.» Libero le spalle dalla sua presa e tomo a camminare avanti e indietro. Infilo una mano tra i capelli e agito l'altra riflettendo, cercando di mettere insieme i pensieri che mi ronzano in testa. Chi siamo noi se non le storie che tramandiamo? Cosa succede se non resta nessuno che possa raccontarle? Che possa sentirle? Chi potrà sapere che io esistevo? E se fossimo gli unici rimasti... chi potrà ascoltare le nostre storie? E che ne sarà delle storie degli altri? Chi

le ricorderà? «Non c'è nessuno nel nostro villaggio, Mary» mi dice. «Quanto alla donna che viveva qui, che importanza può avere? Lei non c'è più. Se è riuscita a sopravvivere, non ha di certo seguito il nostro cammino.» Mi schiocco le dita. «Hai ragione» rispondo, e di colpo tutto mi diventa chiaro. «Deve essersi spinta più lontano. Deve aver preso l'altro sentiero ed essersi allontanata partendo da qui.» Travis scrolla il capo. «Mary.» Mi prende di nuovo il braccio per bloccarmi. «Dimmi perché è così importante. Ora dimmi perché tutto un tratto questa cosa è diventata così importante!» Il mio piede si ferma, e lo guardo negli occhi. Quei suoi occhi calmi, di una bellezza impossibile. «Perché nessuno saprà mai di lei. E quindi nessuno saprà mai nemmeno di me.» La mia voce è un sussurro. «Quando verranno nel nostro villaggio, chi saprà che esisto?» «Lo so io, Mary.» Mi posa una mano sulla guancia facendo scorrere un dito lungo il mio profilo, e devo chiudere gli occhi perché non legga nella mia espressione le parole che mi risuonano in testa, e che non posso pronunciare. Che non mi basta. Che ho il terrore che lui non mi basti. Quando mi attira al suo petto ho la gola che arde di lacrime. «Lo so io, Mary» mi ripete, e le vibrazioni della sua voce mi fanno tremare il corpo. Con le labbra sul mio orec chio, quasi mi leggesse nel pensiero, mi chiede: «Non ti basta una vita con me, Mary?» Annuisco, sentendomi vuota, perché non sopporto di dirgli la verità. Anche se mi legge nel pensiero, anche se dimostra di conoscermi bene. Anche se conosce già la mia risposta. Perché spero ancora che lui possa riempire il vuoto e il desiderio, perché spero ancora di risvegliarmi la mattina tra le sue braccia e sentire che mi basta.

24 Ho iniziato a trascorrere quasi tutto il mio tempo sul terrazzo al terzo piano, dove Travis non può raggiungermi a causa della sua gamba. Non so cosa faccia durante il gior no mentre io resto seduta sul bordo delle tavole di legno, con le gambe sospese nel vuoto sopra gli Sconsacrati. È stata un'estate calda e secca, e tutti i pomeriggi attendo una pioggia che non arriva mai. Ho ripreso a mettere i miei vestiti, mentre gli abiti della signora di questa casa li ho ripiegati con cura e riposti nel baule, chiudendo bene il coperchio. Quando attraverso il solaio per raggiungere il mio trespolo, cerco di evitare di guardare quei bauli impilati contro la parete, ma ogni volta finisco col gettare una sbirciata. Ogni volta mi chiedo quali altri tesori potrebbero nascondere. Ho promesso a Travis, seppur tacitamente, che non correrò più rischi del genere. Che non farò nulla per metterci a repentaglio. Che tenterò di essere felice vivendo la nostra piccola vita. Eppure non riesco a placare la curiosità. Non riesco a smettere di domandarmi cos'altro potrei trovare in quei bauli. E così un pomeriggio, quando la noia diventa, insostenibile, mi intrufolo nel solaio e mi metto a setacciare il loro contenuto. Scosto gli abiti, soffermandomi solo un istante a tastare la morbidezza dei tessuti, la lucentezza di alcuni bottoni. Ci sono altri vestiti: grossi giacconi invernali, gilè simili a quello che indossava Gabrielle, ma di colori più tenui. Ci passo sopra le dita, ma non appena ricado nel pensiero di chi potesse indossare queste cose mi costringo a spostarli da una parte. Non posso permettermi di pensare agli abitanti di questo villaggio e alle loro storie perdute. In fondo a uno dei bauli trovo una pila di volumi in cuoio raggrinzito. Li sollevo delicatamente, e mentre li sposto dal loro nascondiglio, si staccano delle squame di cuoio. Apro il primo volume e faccio scorrere le dita attraverso la pagina. È la fotografia, ingiallita intorno ai bordi, di una bambina appena nata.

Avevo visto una sola fotografia nella mia vita, quella che si era bruciata nell'incendio del villaggio moltissimi anni prima, e ora mi sconvolge vedere di nuovo un'immagine così reale. Una foto che ha catturato un singolo istante di vita fissandolo per l'eternità. Così che degli estranei come me potessero farsi domande, riflettere. Giro cautamente la pagina e trovo altre foto. Una stanza irradiata dalla luce del mattino che entra dalla finestra. Adagiato sul letto, un giovane uomo con la barba cresciuta avvicina teneramente la mano alla bambina della foto precedente, che qui dorme tra le coperte. Una bambina seduta a tavola, con la faccia sorridente tutta imbrattata di cibo. Una bambina che tenta di camminare, la mano aggrappata a un tavolo, mentre un uomo senza volto dietro di lei tiene le braccia allungate per prenderla se dovesse cadere. E poi ci sono altre foto scattate all'esterno. Una bambina su un'altalena, e di lato una giovane donna che la guarda mentre vola in aria. Poi una bambina con i codini, le guance gonfiate, pronta a soffiare su una torta costellata di sottili candeline. Affascinata, sfoglio le pagine sempre più velocemente e osservo questa bambina crescere. Infine, arrivo alla foto di una ragazzina con lunghi capelli neri che le cadono sulle spalle, tutti bagnati. Dietro di lei c'è sua madre che la tiene fra le braccia. Intorno a loro vedo picchi di onde immobilizzati per l'eternità, le loro morbide creste catturate prima di infrangersi. E l'oceano. Proprio come nella foto della mia pluribisnonna da piccola. E per un momento mi si ferma il respiro, perché la ragazzina della foto sembra uguale a me. E sua madre assomiglia alla mia. Nuove lacrime mi strozzano l'aria in gola, e mi sento i brividi in tutto il corpo. Anche se ora realizzo che questa ragazzina non potrebbe mai essere me: ha gli arti troppo lunghi e allampanati, e sua madre è più bassa e in carne della mia. Ma per un momento, nella frazione di secondo che impiego per discendere queste lievi differenze, immagino me e mia madre nell'oceano. Scorro il resto dell'album, ma le altre pagine sono vuote. Quella era l'ultima foto. Una ragazza che non ho mai conosciuto. Che ha vissuto prima del Ritorno. Sull'oceano, al sicuro, con sua madre.

All'improvviso il tetto del solaio mi sembra troppo vicino. Questa casa non mi basta più. So che questo isolamento non si radicherà mai in me, e capisco che ho ancora bisogno di trovare l'oceano, che adagiarmi alla sicurezza di questa vita non mi basta. Questa presa di coscienza mi fa male, fisicamente, e scuoto la testa, tentando di convincermi che non può essere. Che sono felice qui con Travis. Che ho quello che ho sempre desiderato: sicurezza e amore. L'aria intorno a me è troppo pesante, mi schiaccia e mi affonda, quindi mi dirigo verso la porta con passo incerto ed esco sul terrazzo che dà sulla piattaforma in cui si trovano gli altri. Mi sfrego gli occhi, quasi accecata dalla forte luce. Trascorro il resto del pomeriggio a osservare gli altri nel loro quotidiano. A volte uno di loro si ferma per farmi dei segni, ai quali rispondo, ma più spesso vivono la loro vita come se non fossi là in cima a guardarli, a studiarli. La loro casa tra gli alberi è più rudimentale di quella che occupiamo io e Travis: le pareti sono fatte di tronchi grezzi e non ci sono vetri alle finestre. Si sviluppa sopra i rami, ed è difficile stabilire dove terminano gli alberi e inizia la casa. Tutt’intorno hanno un grande terrazzo, con piattaforme e passaggi di legno che si espandono fino agri alberi vicini e comunicano con le altre case e le altre piattaforme, formando una griglia sopraelevata sul villaggio. Sembra che abbiano scorte in abbondanza, perché li ho visti mangiare e ridere. E pur avendo parecchio spazio in cui sparpagliarsi, mi danno l'idea di voler stare sempre vicini. Di voler vivere tutti sotto lo stesso tetto. Una famiglia felice. Come la famiglia delle foto. Un giorno Harry e Jed hanno portato fuori un tavolo dall'interno, quindi ora mangiano tutti all'aperto. Li osservo mentre si sbellicano dalle risate, tirando indietro la testa. Osservo la mano di Harry, che sempre di più si trattiene sulla vita di Cass. Vedo che trascorre più tempo anche con Jacob, come se fosse suo figlio. Tra il rumore continuo degli Sconsacrati non riesco a sentire nulla del loro mondo, eppure sembra molto più luminoso, più animato, più pieno del mio. In confronto la mia casa è silenziosa e vuota. Non è che non parliamo, io e Travis, perché parliamo. Ma è come se le parole tra di noi fossero diventate inutili. Ci basta un'occhiata, un pensiero, per sapere cosa desideri l'altro.

E così il nostro mondo sembra essere caduto nel silenzio. Sia io che lui stiamo tentando di capire qual è il modo migliore per uscire da questa casa, da questa vita. Stiamo riflettendo su come raggiungere gli altri e fuggire da questo villaggio. Ho già il solletico ai piedi al pensiero di ritornare sul sentiero, di cercare il prossimo cancello, il prossimo villaggio, l'oceano. Di cercare la donna che una volta abitava in questa casa per dirle che c'è ancora qualcuno che la ricorda. Che la sua vita ha un senso.

Un giorno, verso fine mattinata, sono fuori in terrazzo, le tavole già accaldate dal sole estivo, e vedo Harry sull'estremità della piattaforma, il punto più vicino a me. Muove le braccia per salutarmi, gli rispondo, e poi mota le dita a cerchio come per dirmi qualcosa. Alzo le spalle in modo interrogativo, perché non capisco. Disegna un cerchio con tutta la mano, ma ancora non afferro il concetto. Continua il movimento per un po' e poi si arrende, rimettendosi le mani sui fianchi. Dopodiché si volta, dandomi la schiena, e mi guarda da sopra le spalle. Io faccio lo stesso, mi giro tenendo gli occhi su di lui. Scuote la testa, e vedo che le sue spalle si alzano e si abbassano, come se stesse ridendo. Alla fine mi fa cenno di andarmene e torna dagli altri, mentre io mi siedo come al solito, con i piedi penzoloni, e apro un vasetto di confettura di fichi, spalmando la marmellata dolce su una fetta di pane fresco. Dimeno i piedi, lasciando che l'aria fresca mi sollevi la gonna, e contemplo la distanza che separa la nostra casa dal recinto. La distanza che separa il mio terrazzo dalla piattaforma di Harry. L'affollamento di Sconsacrati sotto di noi. Cerco dei modi per evadere, perché ogni giorno che passa aumenta il mio desiderio viscerale di continuare a cercare l'oceano. Provo a non pensare all'album pieno di fotografie nascosto nel baule del solaio. Non ho detto di quelle foto a Travis, per paura che pensi che potrebbe essere di nuovo come con l'abito verde. Che mi creda ossessionata dalle persone che vivevano qui prima di noi e dalle loro storie. Chissà se la ragazza della foto sapeva ciò che stava per accadere. Che il mondo sarebbe cambiato così drasticamente. Da un lato mi piacerebbe credere che la foto sia stata scattata dopo il Ritorno, che madre e figlia siano ancora sane e salve, circondate dalle onde

dell'oceano. Ma non c'è paura nei loro occhi. E nessuno vive dopo il Ritorno senza quella paura. La paura della morte che ti strattona sempre. Ti reclama, ti supplica sempre. Per sviarmi da questi pensieri, esploro il villaggio con gli occhi. Mi domando come fosse camminare lungo le strade, come fosse quando pullulava di vita. La nostra casa troneggia in fondo alla strada, e da entrambi i lati si espandono altre case di legno, piccole ma curate. Poco distante vedo gli esercizi che avevo notato il primo giorno, le insegne che annunciano la merce in vendita - vestiti, cibo, servizi - che ondeggiano nella brezza, intatte. È una scena strana da vedere, perché nel nostro villaggio era la Congregazione delle Sorelle che forniva tutto, e non c'era bisogno del commercio. Per quanto abbia cercato, non riesco a trovare riferimenti a Dio incisi sugli edifici. Vedo solo Sconsacrati che si trascinano fuori da case e negozi. La scena è troppo surreale da comprendere, perciò distolgo lo sguardo, riportandolo su Harry, Jed, Cass e Jacob. Quando il sole è abbastanza alto da picchiarmi in faccia e comincio ad avere sete, mi alzo e mi giro per rientrare. Lì la vedo - la freccia che sporge dal legno della mia porta. Avvolto intorno all'asta e stretto con uno spago c'è un foglietto di carta. Lo stacco dalla freccia con le dita appiccicose di marmellata e lo srotolo. Riconosco subito la calligrafia minuta e obliqua di Harry. 'Un contatto, finalmente' dice il biglietto, e non riesco a trattenere un risolino. Il risolino si trasforma in una risata fragorosa quando mi accorgo che ci sono altre frecce infilzate nel legno intorno alla casa, tutte fuori dalla mia portata, tutte con un pezzettino di carta legato intorno all'asta. Ci saranno almeno dieci frecce conficcate sulla fiancata della casa. E poi guardo oltre la balaustra del terrazzo, e vedo che alcuni Sconsacrati brulicano tra la polvere con frecce che escono da varie parti del corpo, ciascuna con un bigliettino. Rido così di gusto che devo appoggiare le mani sulle ginocchia, con la schiena che sussulta mentre libero la risata. Mi volto per cercare Harry e lo vedo in fondo alla piattaforma che agita le mani come al solito, con un ampio sorriso stampato in faccia. Finalmente comprendo i suoi movimenti di prima: cercava di farmi girare su me stessa per guardare dietro di me. Mi rimetto a ridacchiare.

Malgrado la distanza vedo che è fiero di sé. Fiero di essere finalmente riuscito a trovare un modo per comunicare, a prescindere dalle tante lacune che può avere dimostrato. Rispondo ai suoi segni e mi pianto il foglietto contro il petto. Chissà cosa c'era scritto nel foglietto della prima freccia, chissà se aveva scritto delle missive più lunghe per poi accorciarle a ogni tiro che falliva il bersaglio. Chissà quanti Sconsacrati lì sotto staranno girando con addosso dei piani di evasione. A questo punto devo rispondere, quindi mi precipito dentro casa, scendo la scala e corro giù in cucina al piano terra, dove trovo Travis nel ripostiglio che conta i vasetti e prende appunti in un registro. «Abbiamo comunicato!» esclamo, agitando il foglietto di carta davanti a lui. Contrae leggermente il viso, forse smarrito dal fatto che sono troppo agitata e non mi spiego bene. Ma poi sorride al mio sorriso, mi prende il biglietto dalla mano e lo legge. «E’ di Harry» gli dico. «L'ha fissato a una freccia e poi l'ha lanciata qui da noi. Ha mancato qualche colpo» gli racconto. «Un bel po' di colpi, a dire il vero. A quanto pare ero fidanzata con il tiratore più scarso del villaggio!» Mi accorgo di quello che ho detto solo dopo aver pronunciato la parola 'fidanzata'. Ogni singola lettera sembra fluttuare nell'aria come grasso che risale nell'acqua. Come una promessa che resta in sospeso. I nostri sguardi si incrociano e mi sembra di leggere del dispiacere nei suoi occhi. La consapevolezza che, a prescindere da questa nostra bolla di vita, io e Harry abbiamo un passato insieme. Un legame. «Travis» gli dico, senza sapere che parole usare per rassicurarlo. Per rimediare. «Cosa risponderai?» mi chiede, colmando il vuoto. Mi consegna il biglietto e riprende a contare i vasetti. «Non so» gli dico. Ed è la verità. Da un lato avrei voglia di scrivergli tutto. Di quanto eravamo amici da piccoli, di quanto eravamo vicini in passato, della notte del Vincolo. Di quanto eravamo prossimi a diventare marito e moglie prima dell'invasione. Tutta un tratto, stranamente, mi sento sola. Ed è terribile sentirlo di fronte a Travis. Travis che mi fa battere il cuore, che mi fa pizzicare le dita al solo pensiero. Travis a cui conto i respiri quando dormiamo, che con il

suo cuore mi cadenza la vita. Lascio cadere il foglietto a terra, che scivola sul legno con un sospiro. Travis si gira per raccoglierlo, e lo fermo quando è chino a metà. Mi avvicino a lui per terra e lo guardo negli occhi. Faccio scorrere un dito lungo il profilo del suo viso, tentando di ricordare come mi sono sentita la prima volta che ho avuto una tale libertà con questo ragazzo. Conosco il momento in cui la mia vicinanza lo turba. Lo riconosco dal rumore del suo respiro, da come l'aria gli resta intrappolata in gola, da come dischiude la bocca. Lo riconosco da come sbatte le ciglia, da come mi vede attraverso un velo di desiderio. Attira il mio viso al suo, le sue labbra toccano le mie, poi mi posa la testa sulla sua spalla. Stretta fra le sue braccia, capisco quanto abbia bisogno di me. Mi accoccolo su di lui, lascio che attorcigli le dita tra i miei capelli. E chiudo gli occhi, perché in fondo mi sento ancora sola e smarrita, in fondo non so che futuro sperare per tutto questo, che felicità potremo estorcere da queste giornate. Che futuro potremo avere se siamo gli ultimi umani rimasti? Quelli che hanno l'onere di andare avanti, di ricreare il mondo? Questa responsabilità mi schiaccia. La responsabilità nei confronti di Travis, di Argos, delle promesse che ho fatto a Harry e che ci legano ancora, sebbene non siano mai state suggellate con la cerimonia finale. Il peso di tutto questo, il panico di un possibile fallimento, mi fa accasciare il petto. Sguscio dalle braccia di Travis senza guardarmi indietro, per non vedere gli interrogativi che potrei trovare nei suoi occhi. Lui non dice nulla per fermarmi. Poi attraverso di corsa tutta la casa per trovare della carta, e con le dita tremanti ne porto un mazzetto in una delle camere al piano di sopra. Mentre fisso la pagina bianca, la mia mente viene travolta da una marea di parole, ma non so quali usare. Non so quali parole possano esprimere il tumulto che mi frastorna. E allora inizio scrivere tutto quello che avrei sempre voluto dire a Harry. E poi a Travis. E a Jed e a Cass. A mia madre, a mio padre, al mio futuro. Scrivo tutto, riempiendo pagine e pagine di carta sottile con parole addensate e gettate d'impulso, senza preoccuparmi delle sbavature.

Quando ho finito, porto il mazzetto di fogli sul solaio e mi siedo a ridosso del muro, con una scatola di frecce accanto ai piedi. Con le dita tremolanti macchiate di inchiostro avvolgo ogni foglio intorno a una freccia e lo lego con uno spago che ho trovato nel cesto da cucito. Esco in terrazzo e prendo la mira. Durante la nostra infanzia, al villaggio, abbiamo imparato tutti a usare le armi, compreso l'arco. È una sensazione familiare quella che provo mentre faccio scorrere un dito lungo l'asta e carico la freccia. Per un breve istante mi chiedo quanto incideranno la carta e lo spago sulla traiettoria, se il volo sarà comunque preciso. Incocco il dardo e poi, con una forte vibrazione, la corda dell'arco ritorna in posizione, scagliando in volo la freccia. La osservo mentre curva nell'aria per poi finire infilzata nel cranio di una Sconsacrata. La donna cade e non si rialza. Raccolgo un'altra freccia con un'altra lettera, e scaglio anche quella. Freccia dopo freccia, pagina dopo pagina, pianto la mia storia nelle teste degli Sconsacrati che ci circondano, e che malgrado tutto continuano ad affluire. Si trascinano per la fame, incuranti di calpestare i veri caduti della loro legione. Alla fine, quando ho lanciato tutte le frecce tranne una, ho abbattuto venti Sconsacrati. Eppure non c'è tregua. Nessun progresso. Niente che attesti il mio conseguimento. Prendo l'ultima freccia con l'ultimo bigliettino e la lancio. Questa volta segue una traiettoria diritta e si sprofonda nel legno ai piedi di Harry, che è sul bordo della piattaforma e osserva il mio bottino di caccia. Si china e strappa il foglio dall'asta, lasciando la freccia lì dov'è. Srotola la lettera e la legge. Gli dico che stiamo bene e gli chiedo come se la cavino loro. Poi gli chiedo se abbiano valutato l'idea di scappare. Attendo la sua risposta.

25 [eBL 036 by Marika & Elena77]

«Cominciano a sfondare la porta» mi dice Travis quando tomo dentro. È seduto davanti al grande tavolo vuoto nel salone principale della casa, e sta guardando la porta. Argos è accucciato vicino a lui, mentre Travis gli solletica distrattamente le orecchie. Sentiamo gli Sconsacrati che raschiano contro il legno. Incessantemente. «Pensavo avessi detto che avrebbe tenuto» gli dico. Provo a non avere un tono di accusa, tuttavia non riesco a non sentirmi un po' tradita. Come se Travis avesse promesso di proteggermi e ora si stesse arrendendo. «Sapevamo entrambi che non poteva durare» mi risponde, e mi domando se si riferisca non solo alla porta e alle nostre difese. «Come fai a sapere che stanno sfondando la porta?» gli chiedo con voce sommessa, avvicinandomi alla porta e mettendo una mano sulle travi di legno che ci separano dal mondo esterno. Al tatto parrebbero resistenti, eppure riesco a percepire la sollecitazione di ogni singola scheggia, lo sforzo costante a cui vengono sottoposte queste travi. «Lo sento. Da come scricchiola il legno sotto il loro peso. Quando resto qui da solo, non sento altro che questo.» Alle sue parole di accusa chino la testa sul petto. «Sto cercando di trovare dei modi per evadere» gli dico. «Ma non sono riuscita a studiare un piano che funzioni.» «Ah» si limita a commentare. Faccio scorrere il dito lungo un'ampia crepa nel legno. «Perché uno di noi riesca ad andare dall'altra parte. Ma non è questo il problema. È...» esito per un momento, un momento troppo lungo. «È la mia gamba» conclude lui. Annuisco. «E il cane» aggiungo. Travis scoppia quasi a ridere, ma è più un sospiro, e dà un colpetto ad Argos sulla testa. In risposta, Argos si appoggia sulla sua gamba, gli occhi chiusi per l'appagamento. Lui, compagno fedele. Mi volto a guardare entrambi, le mani dietro la schiena, e mi appoggio sulla porta. «Io

non ti lascio» gli dico. «Lo so» mi dice Travis. «Non lo dici come se mi credessi» osservo. «Lo so» mi risponde. «Ma ti credo.» «Riusciremo a uscire da qui.» Quando sto per avanzare verso di lui per prendergli la mano, perché ho bisogno che mi creda, dice: «E dopo? Cosa succederà dopo?» «Dopo troveremo un modo per uscire da questo villaggio, potremo tornare sul sentiero e scoprire il mondo che c'è fuori» gli rispondo in un impeto di parole. «Come abbiamo sempre detto...» «Come tu hai sempre detto» mi interrompe Travis. Evitando il mio sguardo. Deglutisco, assalita di nuovo dal senso di vuoto. Ho il cuore che palpita, il respiro debole. Abbandono il corpo contro la porta. «Travis, non capisco. Ne abbiamo parlato quel giorno sulla collina. Anche quando eri in Cattedrale, e io ti raccontavo dell'oceano, e...» Faccio cenno alla sua gamba, e lui posa una mano sopra il punto della ferita. «Perché speravo che fossi felice» ribatte. «Su quella collina, quando ci siamo finalmente baciati, ti volevo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Più del villaggio, dell’amicizia di mio fratello o della mia fidanzata.» La parola gli fa fare una smorfia, come se avesse un gusto amaro sulla lingua. «E ti voglio ancora più di qualsiasi altra cosa al mondo» sussurra. «Rischierei ancora tutto per te.» Appoggia i gomiti sul tavolo e si prende la testa tra le mani, immergendo le dita nei capelli. Di fianco a lui c'è Argos che piagnucola, disturbato dallo sfogo del suo nuovo padrone, disturbato dall'aria improvvisamente instabile. «E allora perché non sei venuto da me?» gli dico, con la voce appena udibile. Stringo i pugni, attanagliata dalla rabbia e dalla vergogna per il fatto che non è mai venuto a cercarmi. Per un po' non parla. Poi mi chiede: «Ma sai almeno come mi sono rotto la gamba?»

Scuoto la testa. Non me l'ha mai raccontato, e io non gliel'ho mai chiesto, supponendo che al momento opportuno me l'avrebbe detto. Senza alzare la testa dalle mani, continua: «È stato sulla torre. Quella vecchia torre di vedetta sulla collina del villaggio. Ci salivo sempre per guardare oltre il recinto, nella Foresta, e mi chiedevo cos'altro ci fosse nel mondo. Trovavo strano che il nostro piccolo villaggio potesse essere l'unica cosa rimasta di quello che un tempo era stato un grande universo. Com'era possibile che fossimo i soli? Com'era possibile che fossimo quelli a cui Dio aveva affidato il futuro della razza umana?» Alza gli occhi per guardarmi. «Non siamo Noè, non siamo Mosè. Non siamo profeti. Perché proprio noi? «E così ho iniziato a interrogarmi sul perché le Sorelle ci dicessero che eravamo gli unici rimasti. Che finito il recinto finiva il mondo. Quindi salivo sulla torre e pianificavo una fuga.» Il suo sguardo si perde nel vuoto, come se stesse immaginando di essere ancora al villaggio, sopra quella torre. Come se stesse vedendo i vecchi scenari e sentisse il vento che gli accarezza le punte delle orecchie. «Sai che quando eravamo bambini Cass mi raccontava sempre le tue storie? Quanto rideva di te. Non in modo cattivo, nel modo in cui Cass rideva sempre di tutto prima che...» Fa un gesto per indicare noi al presente in questo mondo. Scrollo il capo. «Pensavo che a Cass non fossero mai piaciute le mie storie. Che non le avesse mai ricordate.» «Oh sì invece! E quando ne avevi di nuove, la supplicavo di ripetermele.» «Perché non lo chiedevi a me?» bisbiglio. «Perché tu eri di Harry» mi risponde. «Non sempre.» «Sì, sempre» dice. «Sempre nei suoi occhi» aggiunge con un tono più sommesso. Comincio a fare qualche passo davanti alla porta, e aumento progressivamente i passi fino ad attraversare la sala. «Perché ti importava delle mie storie?» gli chiedo infine. «Perché lo sapevi anche tu. Sapevi che esisteva un mondo di fuori. Oltre le reti.»

«E quindi?» «Quindi avevo bisogno di crederci. Avevo bisogno di...» Alza le spalle. «Avevo bisogno di quella fede.» «Ancora non capisco» gli dico. Sbatte le mani sul tavolo, spaventando sia me che Argos. «Quel giorno ero salito alla torre per dire addio alla Foresta. Per rinunciare a quei sogni e accettare la vita che avevo scelto. Per dimenticare il mondo fuori dalle reti. Per dimenticare te.» Smetto di camminare. «Cosa è successo?» «C'era ghiaccio. Ero distratto. Pensavo a te e ai tuoi racconti sull'oceano, al fatto che ci avevi sempre creduto fermamente.» Lascia cadere una mano sulla testa di Argos. Senza alzare gli occhi, aggiunge: «Sono scivolato.» Sprofondo su una sedia con un tonfo. «Non lo sapevo.» Scuote la testa, tenendo ancora lo sguardo su Argos. «All’inizio, quando mi ero rotto la gamba e il dolore mi faceva delirare, pensavo che Dio avesse voluto punirmi per aver voluto di più. Perché non ero felice delle scelte che avevo fatto. Perché avevo osato immaginare una vita fuori dalla Foresta.» Alza lo sguardo e incrocia il mio. «In quel momento ero pronto a rinunciare a tutto. A seguire la Sua via, qualsiasi fosse. Ma poi sei venuta nella mia camera quella notte, mi hai raccontato dell'oceano, mi hai aiutato a sopportare il dolore, e non sapevo più a cosa credere. Non sapevo se Dio mi stesse tentando o invece mi stesse indicando la strada giusta.» Si passa le mani sul viso. «Devi capire che Harry è sempre stato innamorato di te. Che farebbe di tutto per te.» «Non sono sicura che basti» gli dico. L'angolo della sua bocca si contrae, come in un accenno di sorriso. «Io non sono sicuro che ti potrà mai bastare nessuno dei due, Mary» ribatte. So che spera che lo contraddica. Lo vedo dal modo in cui trattiene il respiro aspettando che lo corregga. Invece riguardo la porta, le schegge, le crepe, il modo in cui il legno si solleva sotto il peso

degli Sconsacrati che non smetteranno mai di spingere, di tentare di entrare nel nostro mondo. Che non si fermeranno mai finché non saremo morti anche noi. Un brivido mi percuote il corpo, e batto la mano sulla gamba per richiamare Argos, perché venga a consolarmi. Ma lui non si smuove dal fianco di Travis. Anzi, appoggia la testa sul suo grembo, fissandomi con i suoi grandi occhi marroni. Ricordo solo l'attesa. Ogni respiro, ogni battito di cuore nell'attesa che lui venisse da me. «Vorrei saperlo, Travis» gli dico. «Vorrei capirlo anch'io.» «Lo so» mi risponde. Perché lui lo sa. Conosce i miei desideri meglio di me. In quel momento ripenso a mia madre. Mia madre era cresciuta ascoltando i racconti sull'oceano che poi aveva tramandato a me, ma non era mai andata a cercarlo. E ci credeva a quelle storie. Ricordo la passione con cui me le narrava, il tremore nella sua voce quando mi parlava dei tempi prima del Ritorno. La delicatezza con cui teneva la fotografia della nostra antenata tra le onde. Non le ho mai chiesto perché non se ne fosse andata. Perché non fosse partita in cerca dell'oceano. Perché ci abbia solo tramandato quei racconti senza dirci cosa fare di quell'enormità di ricordi, a parte tramandarli a nostra volta. Ora mi chiedo se non fosse mai partita a causa nostra. A causa mia e di Jed. In fondo al cuore, però, so che non è così. Lei non è partita in cerca dell'oceano a causa di mio padre. Perché lui le bastava. Lui era abbastanza per farla restare segregata dentro il recinto tutta la vita. Fino al giorno in cui lui è finito dall'altra parte. Solo allora ha lasciato il villaggio, solo allora ha rischiato. Per l'uomo che amava è stata pronta a vagare nella Foresta, condannata alla fame eterna. Ma non per l'oceano. Non per sé stessa. «Ora cosa facciamo?» sussurro, già temendo la risposta. La casa trema sotto i colpi degli Sconsacrati che fanno pressione da fuori. Ritorno alla porta e mi ci appoggio sopra, quasi per tenerli a distanza con il mio peso. «Troviamo un modo per uscire» mi dice. «Riprendiamo il cammino.»

Annuisco con un cenno della testa, e per un po' restiamo zitti. Ci guardiamo senza realmente vederci. Entrambi persi nei nostri pensieri, nel nostro mondo. «Pensi che sappiano di noi là fuori?» gli chiedo infine. Quando vedo la confusione che gli pende sul viso, mi spiego meglio. «Non intendo Harry e gli altri. Intendo quelli che vivono là fuori. Oltre il recinto. Sul sentiero.» Tendo la mano verso le finestre chiuse. Travis scrolla le spalle. «Non credo di aver mai considerato la questione in questi termini. Ho trascorso così tanto tempo su quella torre a riflettere su come andarmene dal nostro villaggio che non ho mai pensato potesse esserci gente che tenta di entrarci.» Tamburello le dita sul legno della porta, con le mani ancora dietro la schiena, e rifletto. «Secondo te Gabrielle voleva trovarci? Secondo te lei sapeva che eravamo là? Oppure ha semplicemente seguito il sentiero a caso, come abbiamo fatto noi?» «Non lo so» mi risponde. «Forse è solo fuggita da questo villaggio quando è stato preso d'assalto, come noi siamo fuggiti dal nostro.» Inclino la testa all'indietro finché non tocca la porta e ho gli occhi rivolti al soffitto. Ripenso alla notte in cui ho scoperto le impronte di Gabrielle nella neve. «Prima pensavo che avesse lasciato il suo villaggio per scelta, pensavo che avesse avuto la forza che a me mancava. Quando ero alla Cattedrale e tutto taceva di notte, sognavo sempre di seguire le sue orme. Di uscire dalla finestra e ripercorrere il sentiero fino a trovare il suo villaggio.» Mi accorgo di avere le lacrime agli occhi, e con un po' di imbarazzo le sento scorrere sulle guance. «Tutti mi accoglievano a braccia aperte, e io chiedevo dell'oceano e loro mi portavano a vederlo. Ero libera dalla Congregazione, dagli Sconsacrati, da tutta quella vita fatta di regole, impegni e voti.» Nella mia testa è ancora tutto così nitido che mi sembra di sentire le loro braccia che mi avvolgono, il sale nell'aria. «Sarei fuggita» dico con un filo di voce. «Ma poi quando siamo arrivati qui ho capito.» Il vecchio risentimento riaffiora, e batto la testa contro la porta. «Mi sono resa conto che se n'era andata perché il suo villaggio era stato invaso. Non era un'eroina né un'esploratrice. Era come me - obbligata a fuggire dalla sua casa, spaventata, senza alternative.» Mi mordo il labbro, poi aggiungo: «E allora mi domando... sarei mai partita se non si fosse aperto il varco nel recinto? O sarei rimasta al villaggio tutta la vita a struggermi per te?» Travis è seduto, mi osserva. Aspetto che protesti, che mi dica che mi sbaglio. Ma poi sento

uno strano rumore. Lo sente anche Travis; tutti e due giriamo la testa e cerchiamo di individuarne l'origine. Uno scricchiolio diventa così acuto che non riesco più a distinguerlo, poi un colpo secco e un rumore di legno che si spezza. Argos inizia ad abbaiare, e sento la porta tremare sotto le mie mani. Travis è di fianco a me. Mi tira verso le scale. Argos ci gira intorno, insiste per farci procedere. Sempre dietro di noi, a proteggerci. Quando siamo a metà delle scale, esplode un fragore così forte che devo portarmi le mani alle orecchie. Sento il rumore delle unghie di Argos che si inerpicano fino al piano di sopra. Dietro di lui l'eco di gemiti che si ripercuote sulle pareti della casa. Sento altri scricchiolii e cedimenti, e dei mobili che grattano sul legno. Poi gli Sconsacrati ci sono addosso.

26 Spingo Travis su per gli ultimi gradini, guardo sotto e vedo uno sciame di Sconsacrati. Il legno che rinforzava la porta si è spaccato, ne manca metà, e loro si infiltrano attraverso l'apertura come sangue che schizza fuori da una ferita. Ho mille pensieri per la testa. Come fermarli. Come combatterli. Dove andare. Come nasconderci. Come sopravvivere. La gamba di Travis, Argos, la scala, il solaio. Travis attraversa il corridoio, ma ogni suo sforzo di correre con la gamba zoppa si risolve in un'andatura maldestra. «Le lenzuola!» gli dico. «Prendi le lenzuola!» Senza discutere, entra in una delle camere. Io mi precipito nell'altra e provo a rimuovere il materasso dal letto. E pesante e voluminoso, e impiego un po' di secondi per farlo uscire dalla porta. Quando ritorno in corridoio lo spingo giù per le scale, creando un ostacolo per gli Sconsacrati che avanzano verso di noi. Troveranno comunque un modo per oltrepassarlo. Si ammasseranno contro di esso con una pressione tale da farlo rovesciare, e poi si ammucchieranno su per le scale con i loro goffi corpi finché non saranno arrivati al piano di sopra e ci cercheranno ancora. Mi lancio di nuovo sul corridoio per raggiungere Travis, e gli prendo le lenzuola dalle mani. Ne avvolgo uno intorno ad Argos, che ancora ringhia, guaisce e trema. Senza nemmeno rassicurarlo, unisco le estremità del lenzuolo e le annodo per bloccarlo, al che si contorce convulsamente mostrando denti e unghie. Mi getto il fagotto sulla spalla e mi spingo su per la scala fino al solaio, lasciando il cane per terra. Lui si divincola con il pelo tutto dritto e si rifugia in un angolo, gli occhi spalancati e le orecchie appiattite. Guardo giù e vedo Travis ai piedi della scala. Il tempo sembra restringersi e concentrarsi su questo momento, e l'unica scansione del tempo che passa è il battito del mio cuore. Sento il rumore degli Sconsacrati che si raggruppano intorno al materasso e avanzano nel corridoio. Lentamente si dirigono verso Travis, verso la scala. Travis tiene una mano su un piolo, le dita lasche intorno al legno. Si dà un'occhiata alle spalle e vede gli Sconsacrati avanzare minacciosi nella propria direzione.

Faccio per girare le gambe e ridiscendere ad aiutarlo. Lui scuote la testa una volta in un energico 'no'. Non sapendo cos'altro fare, mi precipito verso le file di armi appese al muro e prendo un'ascia a manico lungo con una lama ben affilata a doppio taglio. La trascino fino alla botola e la calo lungo la scala perché Travis la prenda. Lui alza la testa per guardarmi; la sua mano non è più sul piolo. Avevo dimenticato quei suoi occhi verdissimi. Quell'iride bordata di marrone chiaro. Quella cicatrice nascosta sotto il sopracciglio sinistro. Quello sguardo che ha il potere di riempirmi. Prima che riesca a fermarmi, mi lancio dalla botola, ignorando la scala. Atterro vicino a lui con un tonfo, cadendo su un ginocchio per la pressione del volo. Strappo l'ascia da Travis, mi giro a guardare gli Sconsacrati e urlo a Travis: «È meglio che trovi un modo per salire quella scala, e velocemente!» Quando percepisco che è sul punto di protestare, faccio uno scatto verso il corridoio, stringendo l'impugnatura dell'ascia con entrambe le mani. In vita mia non avevo mai ucciso un essere umano. Una cosa è restare seduta su un terrazzo e scagliare frecce contro gli Sconsacrati di sotto. Un'altra cosa è sentire la lama che penetra dentro la carne. Perché per quanto la mente razionale sappia che gli Sconsacrati non sono più esseri umani, c'è sempre una parte di cervello che si ribella a questa verità. Che insiste sul fatto che quella donna, quell'uomo, quel bambino che si avvicina ha ancora delle sembianze umane. Questo vale in modo particolare per gli Sconsacrati che si sono trasformati da poco. Quelli che non hanno perso membra o brandelli di carne con il passare del tempo o errando nella Foresta. Quelli che non si sono rotti le dita a furia di tentare di sfondare recinti e porte. Vedere avvicinarsi una donna incinta, con il corpo ancora tondo e compatto, gli occhi ancora chiari, e sapere che è morta, ma deve essere uccisa, richiede una forza di volontà quasi ^verosimile. Ciononostante colpisco. Con tutta la forza che ho in corpo, sferro colpi d'ascia attraverso il corridoio, staccando testé dai colli, decapitandoli, mettendo fine alla loro esistenza disperata. Mi accorgo di urlare solo quando mi ritrovo a dover inghiottire boccate d'aria.

L'ascia si pianta nel muro, la rimuovo e riprendo a sferrare colpi, mentre dalla lama vola via sangue ovunque. Colpisco e colpisco e colpisco ancora fino ad abbattere tutti gli Sconsacrati che riempivano il corridoio. L'ascia si conficca nella parete opposta, tento nuovamente di liberarla, scivolando sul manico reso viscido dal sangue, ma a quel punto qualcosa mi distrae. Una ragazza della mia età compare in cima alle scale. Indossa un gilè di un color rosso acceso, come quello di Gabrielle. Rilasso la mano, mi deconcentro e perdo lo slancio. Tentenno un istante di troppo. Sento una pressione al piede. Scalciando, barcollo all’indietro. L'ascia mi sfugge di mano. Senza quel punto d'appoggio perdo l’equilibrio. Cado. Una mano mi afferra la caviglia. Grido, agito i piedi, inizio a spingermi dall'altra parte del corridoio con i palmi. Altre mani sui piedi, sulle gambe. Mi tirano, accanite. Sconsacrati che continuano ad affluire al piano superiore, ciondolando nella mia direzione, inciampando sui corpi di quelli che ho ucciso, i veri morti, ma venendo ostinatamente verso di me. Vedo solo un'ondata di Sconsacrati che mi sovrasta, e mi sento impotente, alla loro mercé. Pronta a essere sballottata dai flussi dei loro desideri. In quel momento mi chiedo se proverò dolore. Se resterà ancora qualcosa di me che si trasformerà. Mi chiedo se la fame di carne umana sarà come la fame di oceano. Vorrei chiudere gli occhi e aspettare che arrivi. Lasciare che la fine mi prenda, mi travolga, mi affoghi nel mare di Sconsacrati. Ma nel momento in cui la fitta di mille pungi glioni d'ape mi trafigge le gambe, sento il mio nome. Evito di guardare il punto da cui proviene il dolore, perché non voglio vedere denti di Sconsacrati che forse mi stanno lacerando la carne, che forse stanno propagando l'infezione in tutto il mio corpo. Guardo su e vedo Travis sulla scala, la bocca aperta in un urlo, gli occhi sbarrati. Mi tende una mano, mi allungo verso di lui tentando disperatamente di toccare le punte delle sue dita, quando noto un movimento nel solaio. Nemmeno il tempo di realizzare e mi ritrovo seppellita da un ammasso furioso di pelo e zanne. Sento il rumore di unghie che si appigliano al pavimento, poi un ringhio feroce che si riverbera nel corridoio: è Argos

che attacca gli Sconsacrati ai miei piedi. In un turbine di azione li sbrana, strappando loro tocchi di carne, squarciandoli. Improvvisamente libera, tento di avvicinarmi alla scala, e la mia mano incontra quella di Travis, che è soltanto a metà salita. Risalgo i pioli a due a due finché non gli sono direttamente sotto. Dopodiché, con la forza di chi ha visto la morte in faccia ed è sopravvissuto, mi getto con tutto il peso su di lui e lo catapulto fino al solaio. Sotto di me sento ancora Argos lottare contro gli Sconsacrati. I gemiti si amplificano al loro proliferare. Sento un guaito e guardo giù: è Argos che batte in ritirata verso di me. Senza pensarci, riscendo la scala e lo afferro per la collottola. Lui rilassa subito il corpo, come se sapesse che opponendosi rischierebbe di farmi mollare la presa. E così risaliamo fino al solaio. Travis chiude la pesante botola e reinserisce velocemente i grossi perni per bloccarla. Argos, tremante e insanguinato, comincia a leccarmi le gambe, e Travis è costretto a spingerlo via per venirmi vicino. Si inginocchia davanti a me, che sono seduta con le gambe piegate e mi sorreggo dietro con le mani. Ho paura di affrontare il suo sguardo. Restiamo entrambi così, a guardare i miei piedi e le mie gambe ricoperti di sangue, la gonna ridotta a brandelli. «Ti hanno morso?» La parola gli incrina la voce. Le sue dita mi tastano freneticamente la pelle per trovare eventuali ferite. «Non lo so» gli dico. «Ti hanno morso?» mi urla, e io gridando gli ripeto: «Non lo so!» Rimane un attimo in silenzio e guarda il sangue, che in qualche punto gocciola sul pavimento. Mi prende i polpacci fra le mani, le dita avvolte intorno al muscolo. Chiude gli occhi, come per sentire se l'infezione degli Sconsacrati mi sta consumando l'organismo. Se mi sta uccidendo. «Ti amo, Mary» mi dice, e in quel momento libero le lacrime. Un pianto convulso di terrore e di dolore che mi scuote il corpo, tanto che devo sorreggermi a lui. Quando mi attira a sé, mi rannicchio intorno al suo corpo, piangendo. Con le sue dita tra i miei capelli, le guance ancora bagnate, il corpo che sussulta, mi abbandono alla notte.

Nei miei sogni sento mani che mi tirano da tutte le parti, strappandomi brandelli di carne che si staccano dalle ossa, e dovunque guardi è mia madre che cerca di afferrarmi.

27 «Mary.» Qualcuno mi tira un braccio e mi sveglio di soprassalto, con l’immagine del sogno ancora vivida in testa. «Mary, non abbiamo tempo per dormire ora.» Dischiudo faticosamente gli occhi e vedo Travis rannicchiato al mio fianco. Mi sento pesante, dolorante, poi al primo barlume di ricordo mi risveglio del tutto e sollevo la gonna dalle gambe. Sono avvolte in bende di tessuto sottile, e su alcune vi sono chiazze color cremisi che tradiscono la presenza delle ferite sottostanti. «C'erano segni di morsi?» Le parole mi escono confusamente dalla bocca. Si alza e si dirige verso i bauli, che sono aperti; il loro contenuto è disseminato su tutto il pavimento. Tutti quegli abiti meravigliosi che avevo provato sono buttati alla rinfusa a un lato, in parte strappati per ricavarne le mie fasciature. «Non saprei» mi risponde, passandosi una mano tra i capelli come se stesse cercando qualcosa. Osservo la sua schiena, il modo in cui i muscoli della sua mandibola si contraggono quando lo vedo di profilo. Mi domando se riuscirei a capirlo, se fossi infetta. Mi passo la lingua sui denti, chiedendomi che sapore potrebbe avere la morte. Chiedendomi come potrebbe essere la fame eterna. Mi rigiro le fasce tra le dita tremanti e sollevo i bordi. Per un istante restano attaccate alla pelle, poi cedono in un colpo di dolore acuto. Travis ha ragione: è impossibile stabilire se ci siano dei morsi. Risvegliandomi, però, lo so. So che l’infezione non si sta propagando a ogni battito del cuore, che non mi sta uccidendo respiro dopo respiro. So che le ferite sono state procurate da unghie e ossa rotte, non da denti. So di stare bene. So di essere sopravvissuta a quel mare di Sconsacrati che voleva inghiottirmi. Travis si mette in ginocchio e fruga tra i vestiti sparsi accanto ai bauli, esaminandoli uno

per uno, mettendosene alcuni sulle spalle e gettandone altri in un angolo buio. Di tanto in tanto Argos si incuriosisce e rincorre i tessuti scartati mentre volteggiano e cadono a terra, ringhiando e lacerandoli con le sue vigorose fauci. Sotto di me sento le vibrazioni degli Sconsacrati che si ammucchiano nel corridoio, pulsando quasi come un battito cardiaco. Continueranno ad affluire finché non saranno così numerosi da arrivare fino al soffitto e raggiungere la botola, mettendosi tutti uno sul corpo dell'altro. Al pensiero, mi sfrego le mani sulle gambe. Sento il rumore dell'album di fotografie che slitta sul pavimento. Travis si muove di corsa da un baule all'altro, e sta gettando tutto quello che gli sembra inutile. «Che succede, Travis? Cosa stai facendo?» gli chiedo. Mi trascino fino agli album. Ci sono foto sparpagliate ovunque, e il percorso di vita della bambina si è trasformato in un mucchietto disordinato. Lancia un altro album - uno che non avevo visto - a terra facendo esplodere una nuvola di carta, pagine gialle che svolazzano tutt’intorno. Ne afferro una: nella parte superiore c'è scritto USA TODAY a grandi lettere. Prima di poter leggere altro Travis mi interrompe. «Dobbiamo trovare un modo per uscire da qui, Mary. Non abbiamo molto tempo.» Guardo la porta che dà sul terrazzo. E ancora chiusa. «Hai parlato con Harry?» gli domando. «Solo per dirgli che siamo ancora vivi» mi risponde. Vedo che la paura sta esaurendo la sua pazienza. Mi alzo e vado alla porta. Quando la apro, vedo che è ricoperta di frecce, e una brezza leggera entra nel solaio, facendo volare di nuovo i fogli. Guardo oltre il bordo del terrazzo e vedo che Harry e Jed mi mandano segnali frenetici. Hanno visto che la nostra casa è stata invasa. Hanno visto tutto e si sono chiesti cosa ci fosse successo. Mi rigiro verso Travis, e una freccia mi sfiora la testa sibilando per poi entrare nel solaio. Sento un urlo di dolore, e Travis riappare dalla penombra, con la mano su un braccio e del sangue che gli cola dalle dita. Getta uno sguardo furibondo a Harry, che è dall'altra parte con la balestra ancora in mano. Harry fa spallucce con un'espressione imbarazzata. «È un peccato che Argos sia qui» dice Travis digrignando i denti. «Mi sentirei molto più sicuro se fosse lui a tenere la balestra.»

Provo a tirargli via la mano per guardare la ferita. «Solo un graffio» mi dice, dandomi un colpetto per allontanarmi. Toma alla sua cernita di vestiti, e non riesco a non sorridere quando vedo che strappa una striscia di tessuto da un vestito rosa pieno di fronzoli e se la avvolge intorno al braccio per tamponare il sangue. Tolgo la freccia dal pavimento e srotolo il biglietto. 'E ora che si fa?' c'è scritto con una grafia tremolante. Non conoscendo la risposta, getto la freccia e mi unisco a Travis accanto ai bauli. Mi metto in ginocchio vicino a lui, gli poso una mano sulla spalla. Si siede nuovamente sui talloni e si sfrega le cosce, come se gli facessero male. Quando alza la testa per guardarmi vedo nei suoi occhi tutto il peso dell'angoscia. «Ce la faremo» lo rassicuro. Ma sappiamo entrambi che potrebbe non essere così. Che questo solaio potrebbe diventare la nostra tomba. Argos lancia un latrato e vedo un'altra freccia volare dentro e conficcarsi sul pavimento. «Forse è meglio chiudere la porta finché Harry tenta di spedire i suoi messaggi» commenta. «Sono preoccupati» gli dico. «Vogliono aiutarci.» Travis estrae la freccia dal pavimento e la getta in un angolo buio senza nemmeno leggere il biglietto. «Non abbiamo tempo per loro. Dobbiamo uscire da qui.» All'improvviso si affloscia contro i bauli e, nell'istante in cui mi appare il suo profilo, noto la tensione che ha tentato di celarmi. «Mary.» Abbassa lo sguardo sulle sue mani serrate a pugno, dove le nocche sono bianchissime. «Riesci a capire qualcosa? Voglio dire...» Deglutisce, e vedo la sua gola contrarsi. «La senti?» È una domanda che lo terrorizza, una domanda che resta sospesa nell'aria come un cattivo odore. «Non sono infetta» gli rispondo, con una voce decisa e forte. Ma non lo vedo convinto. «Pensi che non lo saprei se fossi infetta? Pensi che gli infetti non la sentano, la morte che prosciuga loro il sangue?» Riflette su quanto gli ho detto, dopodiché sembra accettarlo. «Me lo diresti se lo fossi?» mi chiede, voltandosi a guardarmi.

Sto per dirgli che certo, glielo direi, ma non ci riesco. «Non prima di essere prossima alla fine» gli rispondo. Perché non sopporto l'idea di spezzargli il cuore prima di essere costretta a farlo. Apre la bocca per protestare, ma poi la richiude e dà un'occhiata ai vestiti sul pavimento. I colpi degli Sconsacrati vibrano di nuovo sotto di noi, e il suo viso assume un'espressione tesorizzata e determinata al tempo stesso. «Dimenticati di loro» mi dice, e non so se intenda gli Sconsacrati o gli altri sulle piattaforme. «Aiutami a strappare queste lenzuola e questi abiti, dobbiamo annodarli. O intrecciarli, se non sono abbastanza resistenti. Li useremo come fune.» Annuisco e prendo posizione accanto a un mucchio di vestiti. Strappo le lenzuola, cercando di legarle in robusti nodi. Il primo vestito che prendo in mano è l'abito verde che avevo indossato parecchie settimane prima, e mentre lo riduco a brandelli, e il tessuto quasi si lamenta, devo reprimere il pensiero della donna che lo indossava. Travis toma sul terrazzo e comincia a sollevare le spesse corde che prima di penzolare inutilmente a terra facevano parte di un ponte. Con la gamba buona prende a calci le stecche di legno per rimuoverle, quindi arrotola sommariamente la corda facendone una montagnola. «Ci arriva fino a loro?» gli strillo. «Faremo in modo che ci arrivi» risponde, senza distrarsi dal proprio lavoro, e continuando ad annodare i vari pezzi di corda a una velocità tale che le sue dita diventano una macchia indistinta. Sento il pavimento sussultare sotto di me, e so che lo sente anche Argos, perché ha la coda infilata tra le zampe ed emette un ringhio basso e soffocato. Viene ad appoggiarsi sulle mie gambe, posizionando il suo corpo caldo tra me e la botola. Come acqua che riempie un secchio, gli Sconsacrati affluiscono nello spazio sotto di noi. Mi chiedo quanto tempo ci resti prima che riescano a forzare la botola, e questi pensieri rendono ancora più solerte il mio lavoro. Quando ho strappato tutti i vestiti e legato tutte le strisce, mi alzo e distendo i muscoli, facendo una smorfia per il dolore alle gambe, quindi raggiungo Travis sul terrazzo. Gli chiedo cos'altro posso fare e lui mi risponde con un grugnito.

Resto lì con le mani giunte a guardarlo, sentendomi inutile. Il vento che soffia intorno a noi si riversa dentro il solaio, sollevando la carta dal pavimento e facendola fluttuare verso gli Sconsacrati di sotto

Provo ad afferrarla, a salvarla, ma i fogli mi si sgretolano in mano, polverizzandosi. Raccolgo delicatamente una pagina che è atterrata ai miei piedi. Ha i bordi irregolari, come se fosse stata strappata da una pagina più grande. In cima leggo the New York Times scritto a grandi lettere. Sotto, con lettere altrettanto grandi, c'è scritto: ‘Stati centrali devastati dall'infezione: abitanti evacuati verso nord. Sotto c'è la foto di un'immensa orda di Sconsacrati visti dall'alto, quasi fosse stata scattata da un uccello. Avvicino la foto per tentare di distinguere i dettagli nella grana. In vita mia non avevo mai visto così tanti Sconsacrati. Sono un esercito folto e risoluto. Sconvolta, ritorno nel solaio e cerco altre immagini, disseminando i fogli per terra. Su ogni pagina vedo gridare quelle parole enormi, scritte in nero:

Governo trasferito in località segreta; Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie incapace di determinare la causa dell'infezione; Espugnata l'ultima roccaforte nelle Montagne Rocciose; Focolai dell'epidemia in tutto il mondo; Aree ripulite messe a repentaglio dagli infetti veloci.

Con le dita tremanti, raccolgo una pagina che urla New York in stato di assedio e vedo una foto di edifici di un'altezza immaginabile. Sono giganteschi, ammassati uno sull'altro a perdita d'occhio. Solo a guardarli mi vengono le vertigini, e ripenso a mia madre quando mi parlava di edifici che toccavano il cielo. Mai avevo pensato a edifici del genere, mai avrei potuto immaginare qualcosa di simile! Deglutisco, il fiato intrappolato in gola, e mi rendo conto di ciò che implica questa foto. Significa che mia madre aveva ragione. Che i racconti che mi ha trasmesso sono veri. Che esiste un oceano. E che deve essere immenso. Mi rialzo goffamente e corro da Travis fuori in terrazzo.

«Questa devi assolutamente vederla» gli dico, tirandolo per una manica. Mi guarda come da lontano, con un'increspatura tra gli occhi che denota la sua profonda concentrazione. «Sei pronto?» Mi passa davanti per rientrare nel solaio. Lo seguo e gli mostro il fragile foglio di carta. «Travis, guarda questa foto. Guarda cosa vuol dire.» Mi guarda di nuovo con un'aria assente, come se non capisse il senso delle mie parole. Poi una forte botta fa scricchiolare le tavole sotto i nostri piedi. Il pavimento si melina al punto da farmi vacillare, e devo buttare le mani avanti per reggermi in piedi. La pagina si sgretola tra le nostre mani mentre Travis mi tende il braccio per tenermi. «Dobbiamo sbrigarci, Mary» mi urla, afferrando la mia fune improvvisata e portandola fuori in terrazzo. Il mio cuore tuona in sintonia con il rumore degli Sconsacrati che si contorcono sotto di noi. Avendo rovinato la foto, mi metto in ginocchio e passo al setaccio le altre pagine per tentare di raccogliere altre prove. Per rivedere quegli edifici. Ma al mio tocco tutto scompare, crolla, si riduce a nulla. Lacrime di frustrazione mi appannano gli occhi. Non riesco più a vedere né le parole né le immagini, e alla cieca provo a cercare qualcosa da conservare. Un ricordo. Poi le mie dita finiscono su qualcosa di liscio, di più resistente. È l’immagine di una muraglia di edifici altissimi, simili all'immagine che ho appena distinto. Non avrei mai pensato che potessero esisterne così tanti al mondo, figuriamoci in un unico luogo. Attorno alla foto c'è un bordino giallo chiaro con scritto 'New York' in lettere arrotondate. Mi alzo in piedi sorridendo, e il mio piede urta contro un libretto che slitta sul pavimento, arrestandosi accanto alla porta. Lo raccolgo. Rispetto alla Sacra Scrittura è minuscolo, appena più grande della foto di New York e non più spesso di un pollice. Infilo la foto al suo interno e lo metto al sicuro dentro la gonna. In terrazzo, Travis ha già fissato un'estremità della mia fune improvvisata alla corda più grossa, e l'altra estremità a una freccia. Incocca la freccia, prende la mira, trattiene il fiato e tira. La freccia plana nell'aria, lasciando la scia della lunga coda di tessuto colorato dietro di sé, quindi si impianta sul bordo della piattaforma ai piedi di Harry.

«Bel tiro» gli dico. L'angolo della sua bocca si solleva in un cenno d'intesa, e risponde: «Una delle tante cose in cui supero mio fratello.» Infilo la mia mano nella sua; dal collo mi parte una vampata di calore che si propaga fino alle guance, e osserviamo Harry che prende la corda dalla freccia e comincia a tirarla. Travis trattiene la nostra estremità con la mano libera, in modo tale che non si allenti e si impigli tra gli Sconsacrati. Cominciano a scorrere anche le strisce che avevo intrecciato e la grossa corda si allunga per la distanza che ci divide. La osservo dipanarsi, tremando per la paura e continuando a confrontare quel che rimane sul terrazzo rispetto alla distanza da coprire. Sto quasi per scoppiare in un pianto di sollievo quando vedo Harry che comincia ad avvolgere la corda robusta intorno a un grosso ramo del loro albero. Travis tende la sua estremità e la fissa a una trave del solaio. Sotto di noi il pavimento trema con una tale violenza che devo aggrapparmi a lui per non perdere l’equilibrio. Getto un'occhiata dentro: la botola sta cedendo, Argos le corre intorno abbaiando e ringhiando. Abbiamo pochissimo tempo.

28 Senza perdere nemmeno un secondo, Travis si precipita nel solaio. Sento un gran fracasso: ha ribaltato un grosso barile pieno di farina per svuotarlo, e ora una leggera nuvola di polvere lo nasconde alla mia vista. Trascina il barile fino al bordo della piattaforma, il corpo interamente cosparso di bianco. Vorrei ridere del suo aspetto fantasmatico, ma la sua pelle ha il colore della morte. Il colore degli Sconsacrati. Poso una mano sulla sua e la stringo. Lui tenta di rispondermi con un sorriso. Mentre convinco Argos a saltare dentro il barile, Travis ci avvolge intorno altra corda per creare un'imbracatura, quindi la fissa alla fune che copre l'intera distanza tra le piattaforme, così che possa scorrere dal nostro terrazzo al loro. Argos piagnucola, gratta contro le pareti, ma è l'unico modo che ho per impedirgli di saltare fuori. «Devi andare con lui» mi dice Travis. «E tu?» «Per favore, Mary, non discutere. Ti prego, fallo per me.» Gocce di sudore si mescolano alla farina sul suo viso, e vedo che ha i muscoli tutti irrigiditi. Vedo tutta la sua paura. Annuisco e mi introduco nel barile, stringendomi al petto il povero Argos che si contorce «Abbassati» mi urla Travis, e ritiro la testa dentro il barile. Subito dopo sento un forte tank. Sbircio con gli occhi appena fuori dal bordo e vedo una freccia che fuoriesce dal barile nel punto in cui avevo la testa fino a qualche istante prima. Argos libera un profondo latrato, come risentito dalla pessima mira di Harry. Attaccata alla freccia c'è la fune che avevo fatto, che Travis mi ficca nel palmo. L'altra estremità è tesa verso la piattaforma. «Tieniti forte» mi raccomanda, e poi spinge il barile oltre il terrazzo catapultandomi nel vuoto prima ancora che abbia il tempo di urlare, protestare o dargli un bacio. Devo tenere a bada Argos che scalcia, piange, raspa contro la mia pelle. Mentre Harry continua a dare colpetti alla fune intrecciata per farci avanzare nel vuoto, per poco non mi sfugge la presa. Quando arriviamo dall'altra parte, Harry mi solleva dal barile e Argos si mette a correre

intorno a noi, sollevando sbuffi di polvere a ogni zampettata. Sto ancora tossendo, il corpo scosso da forti brividi, quando sento l'ansimo di Cass, che è intenta a osservare la casa da cui sono appena sbarcata. Mi volto a guardare. Travis si sta issando sulla fune, goffo e maldestro. Tenta di aggrapparsi alla fune con la gamba zoppa per sorreggersi, ma scivola e fa cadere entrambe le gambe, rimanendo appeso solo con le braccia. Dopodiché le sue dita cedono e precipita di nuovo sul terrazzo. Si passa le mani sui pantaloni, generando nuvole di farina. «Dobbiamo rispedirgli il barile» dico. «Non c'è tempo» dice Jed. Anche da qui, dal bordo della nostra piattaforma, riesco a sentire l’insistenza con cui gli Sconsacrati battono contro le pareti di quello che era il nostro rifugio. Travis si dà un'occhiata alle spalle, e vedo che il suo volto diventa livido e il suo corpo rabbrividisce. Quando allunga una mano verso la fune e la stringe con le dita per la seconda volta, mi si chiude la gola. Harry mi afferra le spalle, per consolarmi, per proteggermi o per tenermi in piedi, ma avrei voglia di scrollarlo via, perché è una distrazione inutile, è qualcosa che mi distoglie dal compito del momento, che è focalizzare tutta la mia attenzione su Travis per poterlo aiutare con la forza del pensiero. Barcolla, e subito finisce sospeso nel vuoto, con le due gambe che scalciano e si rigirano. Dietro di lui, dalla porta del solaio, emergono gli Sconsacrati, diretti verso il terrazzo. Travis si morde il labbro, ed è come se fossimo appesi allo stesso respiro. Una di loro - una giovane donna con i capelli color aragosta - tende la mano verso Travis, che penzola come un'esca. Nel tentativo di acciuffarlo, cade dal terrazzo, fa scivolare le mani sulle sue gambe e gli afferra i piedi, e tutto a un tratto Travis resta aggrappato alla fune con una sola mano. La Sconsacrata si solleva, e il suo viso è sempre più vicino al piede di Travis. Vedo già chiazze di sangue nel punto in cui le sue unghie seghettate si immergono nella carne. Avvicina sempre di più la bocca. Le dita di Travis cedono, alcune si sono già distaccate.

Come scossa da una scarica elettrica faccio uno scatto verso la fune. Vorrei gridare, ma l'urlo è intrappolato in gola e mi sta strangolando. Dalle mani della Sconsacrata comincia a colare del sangue, che la fa scivolare e la costringe a raddoppiare gli sforzi. Un altro Sconsacrato balza verso Travis, cade dal terrazzo e si trascina dietro la donna che gli era appesa al piede. Sbarazzatosi del peso, Travis riesce a spingere in avanti il corpo e ad aggrapparsi con entrambe le gambe alla fune. Lascia cadere la testa leggermente indietro, e so che guarda l'orda di Sconsacrati a poco più di un metro di distanza «Dai» vorrei urlargli, ma di nuovo resto in silenzio. Mi sembra di sentire anche Jed e Harry ripetergli mentalmente la stessa parola. Una mano dopo l'altra, Travis avanza verso di noi. Tra i gemiti assordanti degli Sconsacrati che ci inondano, la fune si abbassa sotto il suo peso, avvicinandolo all'orda sottostante. Allora capisco che il barile che ha trasportato me e Argos era troppo pesante. Quasi sicuramente abbiamo allentato i nodi o sovraccaricato le fibre. In quel momento il mondo è troppo luminoso: è la luce del giorno che muore, il sole che mi acceca mentre guardo Travis che si tira verso la nostra piattaforma. La fune si abbassa ancora, sollecitata dal suo peso, e all’improvviso sento un nuovo rumore. Lo strappo della vecchia corda che comincia a spezzarsi. Mi sposto in avanti, ma le mani di Harry mi trattengono. «Non possiamo fare nulla» mi dice, ma io mi divincolo con una scrollata. Raggiungo il bordo della piattaforma e mi sporgo con il petto nel vuoto fin dove riesco. «Travis» lo richiamo. «Travis, devi sbrigarti.» Scuote la testa, le mani paralizzate. Dal solaio, uno degli Sconsacrati esce sul terrazzo e si scaglia verso di lui. Cadendo, colpisce la fune, che oscilla e produce ulteriori strappi. Ora la fune è ancora più bassa, assurdamente bassa. Gli Sconsacrati sotto Travis sono in delirio. Si allungano verso di lui, e con le dita sembrano avvicinarsi ogni istante di più. «Travis, devi ascoltarmi.» Scuote ancora la testa. Sento le lacrime che mi strozzano le parole, mi chiudono la gola. «La fune si sta rompendo» mi dice Jed con voce sommessa, per non farsi sentire da

Travis. «Non ce la farà.» «Mary, è meglio se non guardi.» È Harry, la voce bassa, come un mormorio gentile, e mi viene davanti. «No, io non lo lascio!» Mi raddrizzo e prendo la fune tra le mani, come per tirarlo su, come per sollevarlo dall’orda di sotto. La fune si scuote tra le mie dita, riverberando fibra dopo fibra le vibrazioni dei muscoli in sussulto di Travis. Vorrei chiudere gli occhi e spingermi fino a lui, essergli accanto e riportarlo indietro da sola. Ma so che sarebbe inutile andarlo a riprendere. La corda si romperebbe sotto i nostri pesi, e moriremmo entrambi. Lo guardo, e vedo che trema come un'esca gettata nell’acqua. «Travis.» Ho la voce che gorgoglia ancora in un ringhio, intollerante di dissensi. «Travis, ascoltami! Dimenticati gli Sconsacrati, dimenticati la fune. Dimenticati tutto tranne che la mia voce. Chiudi gli occhi e ascolta la mia voce.» Non fa quello che gli dico, e allora afferro bruscamente la fune con le dita. «Fallo! » Non ho mai gridato così forte in vita mia. I suoi occhi si chiudono all'istante. «Ora tendi la mano verso di me e prendi la corda.» Vedo che lentamente la sua mano comincia a muoversi. Dapprima a una velocità infinitesimale, poi sempre più sicura. «Sì, bene, continua così» lo rassicuro, mentre sposta l'altra mano avvicinandosi a noi. Ai suoi movimenti la fune comincia a oscillare, e tra le mie dita sento che cede ancora un pochino, perde tensione, si strappano altre fibre. «Più veloce, Travis. Un po' più veloce.» Sta sudando, ma annuisce e continua a issarsi lungo l'avvallamento. Sotto di lui gli Sconsacrati sono infervorati dal sangue che gli gocciola dalla caviglia, lungo la coscia e fino al ginocchio. I gemiti sono come una forza fisica che si rovescia su tutti noi, ma Travis continua ad avanzare.

Dietro di me sento la tensione di Harry e Jed che assistono alla scena, che incoraggiano Travis con un filo di voce per paura di verbalizzare la loro speranza e deconcentrarlo.

«Aiutatelo!» ordino a entrambi, e all'unisono si portano nel punto in cui la fune si ricongiunge alla piattaforma e sono lì quando Travis arriva alla nostra portata. Alla fine Travis giunge sano e salvo sul nostro lato della voragine, e lì, infinitamente più leggera, stramazzo al suolo.

29 Quando riprendo i sensi, è buio. Sono sola in un letto, sotto strati di coperte che quasi mi soffocano. Comincio a dimenarmi per uscirne quando sento delle dita che mi accarezzano la guancia. A quella sensazione familiare chiudo gli occhi. «Ci sei riuscito» sussurro, sollevando una mano per appoggiarla sulla sua. Sento il mio corpo sprofondare di nuovo nel letto per il sollievo. E poi ricordo. «La tua gamba» gli dico, tentando di rialzarmi. Mi spinge indietro le spalle, con un tocco leggero ma insistente, per farmi tornare nel nido caldo di coperte. Ma io resisto alla pressione e resto seduta. «Tutto bene» mi rassicura. «Qualche graffio.» Ridacchia sottovoce. «Aveva certe unghie!» Nella penombra vedo che scuote la testa per allontanare il ricordo. Ha il viso un po' teso, gli occhi velati da una punta di disperazione. «Però ci sei riuscito» gli dico. «Già» mi risponde. Per un momento restiamo in silenzio. Ascoltiamo il mondo che si risveglia. I gemiti degli Sconsacrati di sotto. «Quanto dureremo qui?» gli domando infine. Alza le spalle. Ora tiene le mani sul grembo. «Parlano di allestire lo stesso sistema che abbiamo utilizzato per venire qui per raggiungere un altro sentiero. Per uscire dal villaggio e fuggire dalle piattaforme.» Si interrompe, si alza dal bordo del letto, guarda fuori dalla finestra. «Per funzionare, però, deve esserci qualcuno dall'altra parte.» Si volta di nuovo verso di me. «Uno di noi dovrebbe andare alla Foresta. Dovrebbe essere là per fissare la corda.» «Ma come? Come farebbe? È troppo lontano il recinto, ci sono troppi...» Il resto della frase resta sospeso nell'aria. Senza annuire o dire alcunché, Travis prende una sedia vicino alla spalliera del letto, facendo raschiare le gambe sul legno delle piattaforme. Si siede e accavalla le gambe. Noto che ha una striscia di tessuto avvolta intorno alla caviglia sinistra, che si tira distrattamente.

«Quando?» domando. «Quando ci proveranno?» Evita ancora di guardarmi. I suoi occhi sembrano errare in giro per la stanza, vedere tutto tranne me. «Per ora l'idea è di aspettare fino a questo inverno. Sperando sia un inverno duro che rallenti o immobilizzi gli Sconsacrati. Jed e Harry hanno fatto l'inventario delle scorte. Se piove abbastanza da riempire le botti d'acqua dovremmo riuscire a resistere.» «Mesi» dico sottovoce. «Sì, ci sarà da aspettare» replica lui. Si tira di nuovo la bendatura intorno alla caviglia, come se fosse troppo stretta. Poso una mano sulla sua. Al contatto, il muscolo del suo braccio si contrae. «Mi chiedo cosa significherà per noi due» gli dico. Lui non risponde. La sua pelle sembra quasi fredda sotto la mia, vuota. Continua a non guardarmi. Mi distacco da lui e mi avvolgo le coperte intorno alle spalle. C'è qualcosa di strano tra me e Travis. Qualcosa è cambiato, ma non ho ancora capito cosa sia. «Dimmi» bisbiglio. Temendo il peggio. Si sposta sulla sedia, e vedo che riappoggia a terra il piede bendato facendo una smorfia. Si alza, va alla finestra e poi torna alla sedia. «Ieri non riuscivo a pensare ad altro che a salvarti. A salvarci.» Si interrompe, come per riflettere su cosa dire, come per riordinare i pensieri e trovare le parole. «Solo ieri?» gli chiedo. Lui sorride, allentando per un secondo la tensione. «Mary» continua «quando ti ho visto in quel corridoio con tutti quegli Sconsacrati addosso...» Scuote la testa come per cancellare il ricordo. «Una parte di me voleva morire in quel momento. Volevo essere al tuo posto perché fossi tu a sopravvivere, a farcela.» Afferra lo schienale della sedia, e le sue nocche diventano bianche. «Allora ho capito una cosa, Mary.» Rilascia la presa e tamburella le dita sul legno. Torna alla finestra, come per perdere tempo. Alzo le ginocchia al petto, mi preparo a sentirmi dire qualsiasi cosa. «Non sono stato corretto con te» mi dice infine. Mi formicola la pelle, ogni senso si aguzza.

Sento il modo in cui respira, l'aria che entra nei suoi polmoni, il cuore che gli pompa nel petto. Sento ancora la sua paura. «Avrei dovuto dirti prima quello che mi ha raccontato Gabrielle. Sull'oceano.» Ora mi guarda, gli occhi addolorati e supplicanti. Tutto quello che mi circonda sembra scomparso, e siamo solo io e Travis in questa minuscola stanza tra gli alberi. «Come?» gli chiedo, con una vocina che suona debole. Il mio cuore comincia a martellare violentemente. «Pensavo che non ti avesse detto nulla. Che non aveste parlato.» Picchietta un dito sul telaio di legno della finestra aperta. Per un istante la brezza del mattino gli solleva i capelli, circola nella stanza e poi defluisce. Chiude gli occhi come per assaporare la sensazione dell'aria fresca sulla pelle avvizzita. «Gabrielle era andata sull'oceano» mi confessa infine. Inspiro, e per un istante il mondo sembra rovesciarsi. «Quando?» chiedo, espirando. «Come?» In quel silenzio mi dico che se c'è stata lei, deve essere vicino. Significa che esiste e che ci posso andare anch'io. Butto via le coperte e mi impiglio con le gambe tra il tessuto, le piaghe dell'attacco di ieri si riaprono e faccio una smorfia. Vacillo in avanti, ma Travis non accenna a prendermi. Quando ritrovo l'equilibrio, corro da lui alla finestra e gli prendo le braccia. «Ma lo sai cosa significa?» gli dico. li mio corpo è leggero. Tutto ad un tratto, da dopo la morte di mia madre, sono felicissima. «Significa che possiamo andarci» continuo. «Se ci è andata lei, possiamo andarci anche noi.» Comincio a camminare, carica dell'energia che mi ribolle nel sangue. «Ti ha detto quanto è lontano? Ti ha detto come ci si arriva?» Mi fermo e vado a piazzarmi davanti a lui, petto contro petto. «Ti ha detto com'era? Delle onde? Del profumo?» Travis mi afferra le braccia, facendomi restringere su me stessa, quasi sollevandomi dal legno grezzo della piattaforma. «Mary, mi ha detto che è pericoloso!» Ora vedo che ha il torace ansante, il respiro serrato, la faccia rossa e la mascella contratta. Mi scuote, leggermente. «Mi ha detto che è pericoloso» mi ripete con una voce più sommessa. Come se l'unico modo per farmelo capire fosse quello di continuare a ripetermelo.

Mi sento pizzicare il viso per la confusione. «In che senso pericoloso?» gli domando. Libero le braccia dalla sua stretta e le incrocio al petto. «Mi ha detto che gli Sconsacrati spuntano fuori dall’acqua e invadono le spiagge. E non c'è modo di costruire recinti, di proteggersi. Ha detto che i pirati devastano le coste, che nessuno può essere mai al sicuro laggiù.» Vorrei protestare, dirgli che ha torto. Invece guardo gli alberi fuori dalla finestra, le foglie che ondeggiano nella Foresta. L'unico oceano che abbia mai conosciuto. «Non può essere vero» sussurro. «Invece sì» ribatte. «Lo sai che è vero. L'oceano di cui ti parlava tua madre era prima del Ritorno. E cambiato tutto da allora. Tutto.» «Ma l'oceano è troppo grande» contesto. «Troppo vasto, troppo profondo. Non capisco come possa essere stato contaminato dal Ritorno.» Attende un momento prima di rispondere. «Non c'è nulla al mondo di così profondo da resistere agli Sconsacrati.» Mi guarda negli occhi, fa scorrere un dito lungo il mio profilo. «Nemmeno noi.» Sono quasi sul punto di credergli, ma poi scrollo il capo, mentre mi monta un'ondata di rabbia. «Ti sbagli, Travis. Ti sbagli.» Chiudo le mani a pugno e le picchio sul suo torace. «Non so perché mi stai dicendo queste cose, ma ti sbagli.» Mi prende le mani fra le sue, avvolge le dita intorno ai miei pugni. «Mi ha detto che se ti avessi lasciata andare sull'oceano, non ti avrei più rivista.» «Allora si sbagliava anche lei!» gli strillo. Mi scosto da lui e indietreggio verso la porta, per interrompere il contatto tra noi. «Se dici la verità, allora perché non me l'hai detto prima? Perché mi hai dato la speranza per poi distruggerla?» «Perché pensavo di riuscire a proteggerti» risponde. «Perché pensavo che ti sarei bastato.» «No.» Scuoto forte la testa. «Io credevo che volessi vedere l'oceano anche tu. Credevo che fosse il nostro sogno. Credevo...» Deglutisco e respiro a fondo. «Credevo che saresti venuto da me.» Senza guardarmi, scrolla il capo. Mi crolla il mondo addosso. Prendere coscienza di quello che mi sta dicendo - di quello che non mi sta dicendo - mi scava un buco nell’intimo. Nella

mia testa rimbombano queste parole: Non è mai venuto da me, non è mai venuto da me. Mi gira tutto; tutto diventa insopportabilmente chiarissimo e poi indistinto. Il mio mondo vacilla, e faccio qualche passo indietro, urtando con le ginocchia contro il bordo del letto e sedendomi. Sto così male che vorrei vomitare. «Tu non saresti mai venuto da me, vero?» gli chiedo. «Mary, mi dispiace» risponde, ed è come se mi avesse detto 'no'. Dentro di me tutto si rompe, si frantuma in mille pezzi. «Non capisco, perché mi dici tutte queste cose ora? Perché mi fai questo?» Mi metto le mani sulla testa, mi raggomitolo. «Perché io...» Si ferma a metà frase e tace. Un muscolo della sua mascella guizza. «Mary, io ti volevo troppo. E quel giorno sulla collina è stato tutto per me. Mi ha mostrato cosa poteva essere la vita, cosa poteva essere la speranza. Volevo credere che potessimo stare insieme. Volevo credere che avremmo potuto infrangere i voti e tutto si sarebbe risolto in qualche modo.» Il suo sguardo si perde lontano, scuote la testa. «Volevo venire da te, Mary. Anche sapendo che non potevo essere il tipo di marito che sarebbe stato Harry. Anche se ero un uomo menomato, volevo venire da te. Stavo lasciando che la passione prendesse il sopravvento sulla ragione. Ma poi ho visto Gabrielle ed è cambiato tutto. Ho visto quello che accadeva a chi deviava dalla via delle Sorelle. Ho visto cosa sarebbe successo a noi - a te. E non potevo sopportarlo. «Ti vedevo con quel gilè rosso, ti vedevo inveire contro i recinti. Non potevo permettere che succedesse.» Si lascia cadere la testa sul petto. L'angoscia di quello che sarebbe potuto accadere mi strozza le parole. «Avremmo potuto farcela» gli dico. «Avremmo potuto scappare.» Quando mi guarda, ha gli occhi bagnati di lacrime. «No, non avremmo potuto» mi risponde in tono sommesso. «Non saremmo mai riusciti a scappare.» Si posa una mano sulla gamba. «Sono ridotto troppo male. Ci avrebbero trovato, non avremmo mai potuto andarcene.» Si inginocchia davanti a me, mi prende le mani e le stringe fra le sue. «Non capisci, Mary? Da Gabrielle in poi non ho fatto altro che tentare di proteggerti, perché avevo troppa paura di perderti.»

Scrollo il capo, mentre i pensieri girano, rigirano, infuriano nella mia testa. «Perché non mi hai detto tutte queste cose prima? Perché me le dici ora?» «Perché ti ho protetto per troppo tempo. Gabrielle mi aveva detto che l'oceano era pericoloso, e io pensavo di poterti tenere a distanza. Ma ieri, quando ti ho visto travolta dagli Sconsacrati, mi sono reso conto che non posso più farlo. Non posso prendere queste decisioni per te. «Ieri ho capito che non è tanto l'oceano il problema. Perché anche se non lo trovassimo mai, tu non avresti comunque più bisogno di me. Prima pensavo di poterti proteggere. Di potermi occupare di te. Ma tu sei già forte. Quello che hai fatto ieri... Non avevo mai visto niente di simile. Non avevo mai visto nessuno sopravvivere in quel modo. Combattere contro gli Sconsacrati e restare vivo!» Scuote la testa, e i suoi occhi sono grandi e luminosi. «Mi sentivo in soggezione.» È come se avesse staccato una spina dal mio corpo, e tutto il dolore e la rabbia stessero fuoriuscendo, lasciando il nulla. «Avrò sempre bisogno di te» mormoro. «Ti ho aspettato così tanto. E tu non arrivavi mai. Perché mi hai fatto aspettare così?» Travis sospira, piegando le dita contro il davanzale. «Forse sapevo già all'epoca che non ti sarei bastato, Mary. Non si tratta più dell'oceano. Si tratta di te, di quello che vuoi, di quello che ti serve. Forse con me saresti felice per qualche anno...» Si interrompe, e vedo che i suoi occhi si riempiono di nuovo di lacrime. «Non posso essere il tuo ripiego.» A quelle parole vorrei urlare, buttarlo a terra, fargli rimangiare quello che ha detto. Invece gli passo di fianco e vado alla finestra. Mi sporgo, piantando le anche sul davanzale. Per un attimo mi chiedo se si senta l'odore di sale dell'oceano anche da lì. Se, chiudendo gli occhi e concentrandosi abbastanza, si senta il rumore delle onde che si infrangono lungo la costa. Se si senta il gusto dell'aria, il gusto dell'oceano. Da quel giorno sulla collina, da quando aveva promesso che sarebbe venuto da me, l'oceano doveva essere il nostro sogno da condividere. Non una scelta che escludeva l'altra. «Mary» mi dice, avvicinandosi da dietro. Mi appoggia una mano sulla spalla, ma la scrollo via. Non può avere ragione. Non posso credere a quello che dice, non posso pensare di

essere così crudele ed egoista. Avverto il suo calore sopra il mio corpo, sento che prova a riempire il vuoto che ho dentro, ma mi stringo le braccia intorno per farmi scudo. Mi volto e mi dirigo verso la porta. Mentre sto attraversando la soglia, mi chiede: «Rinunceresti mai all'oceano per me?» Indugio, e poso una mano sullo stipite. Una volta speravo che l'amore potesse supplire a tutti gli altri sogni, così come era stato per mia madre. Ora ho capito che non è così. Esco dalla porta senza rispondergli.

30 [eBL 036 by Marika & Elena77]

È difficile ritagliarsi un po' di solitudine sulle piattaforme tra gli alberi, perciò mi incammino lungo i ponti di corda per allontanarmi il più possibile da Travis e dal resto. Mi siedo con le gambe penzoloni, e sento il pizzicore delle piaghe delle ferite che si stanno cicatrizzando. Vorrei piangere, ma non mi escono lacrime. Vorrei urlare, ma preferisco evitare scenate. Così resto a fissare la Foresta, e ripenso a quello che Travis ha ammesso, che non sarebbe mai venuto da me. Che mi avrebbe lasciato sposare Harry. Tiro fuori il libretto con la fotografia di New York. Alla luce del giorno l'immagine ha colori più spenti rispetto a quando l'avevo vista nel solaio, ma non ci bado, e continuo a passare le dita sugli edifici, a interrogarmi su di loro. Chissà quante persone ci vogliono per riempirli, chissà cos'è successo a quelle persone. Chissà quante storie si sono perse. Metto la foto da una parte e mi concentro sul libro. Non ne avevo mai visto uno così piccolo, nel nostro villaggio gli unici libri erano la Sacra Scrittura e i volumi di genealogia. Sollevo delicatamente la copertina rossa di cuoio e tasto le eleganti lettere della prima pagina, senza capirne il significato: Sonetti di Shakespeare. La carta è spessa e gialla, e sento i bordi che si sgretolano fra le dita. Incapace di resistere, sfoglio il libro, pagine e pagine di testo perfettamente allineato. All’inizio di ogni pagina c'è una lettera. Ho le mani congelate, e il vento fa volare le pagine davanti a me. Deglutisco e tomo all’inizio del libro. Lì, sopra il primo blocco di testo, vedo la lettera I. Sulla pagina successiva, sopra il secondo blocco di testo, vedo le lettere II. Seguo la sequenze di lettere, tremando, e all'improvviso tutto mi diventa chiaro. Le lettere sono numeri. Ripenso a quelle che aveva scritto Gabrielle sulla finestra e passo al blocco di testo corrispondente, scorrendolo velocemente. Parla di giudizio, di piaghe, di bene e male, di verità e di destino. Ricordo le lettere incise sul baule vicino al nostro villaggio e giro le pagine finché non le trovo: XVIII, numero diciotto. Mi balza subito all'occhio una riga che mi inceppa il respiro: 'Né Morte vanterà di averti in ombra...' Faccio cadere il libro. Troppe lettere, troppi numeri, troppe parole che mi turbinano in testa.

Mi è tutto talmente chiaro che non capisco come non ci sia arrivata prima. I sentieri erano segnati con dei numeri. E sicuramente hanno una logica, un ordine che dobbiamo ancora decifrare. Sono così logorata da questi pensieri che non mi accorgo della presenza di un'altra persona finché non parla. Infilo subito la foto nel libro e la nascondo sotto la gonna. «Mary, morirai anche tu come gli altri?» mi chiede Jacob con la sua vocina da bambino. «Ti trasformerai e verrai a mangiarmi?» Urta un dito del piede contro le tavole grezze fissate a un grosso ramo. Scoppio a ridere e gli dico: «Ma no, tesoro. Non sono infetta. Chi ti ha detto questa cosa?» Corruga la fronte, e mi rendo conto che non dovevo ridere. «La zia Cass» mi risponde. «Lo zio Travis le ha raccontato quello che è successo quando siete scappati. Lei ha detto che si domandava come hai fatto a non morire mentre tutti quegli Sconsacrati erano sopra di te dentro la casa. E ora dice che devi essere malata.» La sua pronuncia blesa gli fa dire 'Caff' invece di 'Cass', e 'Fconfacrati' invece di 'Sconsacrati'. «Ma lo zio Travis le ha detto che tu ti sei difesa e sei stata molto coraggiosa. E vero, zia Mary? Sei riuscita a difenderti?» Si interrompe per un istante, e la sua vocina diventa persino più flebile. «Mi insegni come difendermi? Perché mi fanno paura.» Gli prendo una mano e lo spingo fino al mio ventre. Ha le labbra che tremano, quindi gli cingo le braccia intorno e lo stringo a me. «Nessuno di noi vuole diventare come loro» gli dico. «E ti prometto che faremo tutto il possibile per proteggerti.» «Io non voglio aver paura» dice. «Ma a volte è più forte di me.» «Lo so, amore. Tutti abbiamo paura» gli dico io. E per qualche motivo tenerlo stretto a me mi fa avere meno paura. «Sai,» aggiungo subito dopo «è Argos che mi ha salvata, in realtà. È lui che mi ha soccorso quando sono caduta.» Ridacchia. «Mi piace Argos.» «Allora è tuo.» Alza la testa per guardarmi con i suoi occhioni. «Veramente?» La speranza che traspare dalla sua voce mi riempie di gioia.

«Sì, veramente. Puoi tenerlo tu; con lui vicino avrai meno paura.» Mi abbraccia, e le sue piccole dita mi premono forte sul collo. Sento i passi di qualcuno che si avvicina. «Jacob,» gli dice Cass «lo zio Jed ti stava cercando per preparare la cena. Ti va di andare ad aiutarlo?» «Zia Cass, indovina?» esclama, balzando via dal mio ventre. «La zia Mary ha detto che posso tenere Argos, così mi proteggerà dagli Sconsacrati!» Cass sorride e gli arruffa i capelli. «L'hai ringraziata, spero» gli dice. Quando vedo che Jacob arrossisce, intervengo. «Certo che mi ha ringraziata.» Gli faccio l'occhiolino, e allora lui ritorna saltellando sulla piattaforma e attraversa i ponti chiamando Argos, come se il regno di morte che abbiamo sotto non esistesse più. «Grazie» mi dice quando se n'è andato. Faccio un cenno con il capo. Si avvicina al punto in cui sono seduta e si appoggia alla balaustra scrutando l'orizzonte. Non abbiamo più realmente parlato da quando c'è stata l'invasione. Da quando mi ha detto che dovevo sposare Harry. «Sai,» riprende «non sarebbe così difficile se non fossero entrambi così innamorati di te. Se non fossi sempre al centro di tutto. Anche quando eravamo piccoli, c'era sempre Mary al centro di tutto.» «Non è vero» le dico, senza risultare convincente, perché sono troppo vuota per avere la forza di contraddirla. «Oh, sì che è vero» continua. Ha un tono leggero, riflessivo, non sembra arrabbiata. «Quando eravamo piccoli, Travis voleva sempre sentire le tue storie. Voleva sapere quello che ti raccontava tua madre e che poi tu ripetevi a me. Harry voleva sapere cosa ti piaceva e cosa non ti piaceva. Esistevi sempre e solo tu. Quello che volevi. Quello che sapevi.» «Mi dispiace» le rispondo, perché non so cos'altro dire. Fa spallucce. «Non lo dico per litigare» precisa. «Voglio solo farti capire. Farti capire perché sono cambiata. Perché siamo tutti cambiati. Forse voglio solo che torniamo amiche come prima, ma questo non può succedere finché io resto arrabbiata con te e tu continui a fingere che io non esista.» «Non ho mai finto che tu non esistessi» le rispondo.

Libera una risata, che è quasi come un respiro. «Non dico che sia colpa tua, ma c'era un tempo in cui io venivo prima di tutto per te, ero più importante di qualsiasi altra cosa o persona. E quando non è stato più così mi sono arrabbiata. Perché oltre ad aver perso Travis e Harry quando si sono innamorati di te, ho perso anche te. Ancora prima dell'invasione. E l'ho capito solo quando ho trovato Jacob. Perché ora è lui che viene prima di tutto per me.» Non so ancora cosa dirle. «Forse sto cercando di perdonarti. E voglio che tu sappia che non m'importa più nulla né di Harry, né di Travis, né di tutta questa storia. M'importa solo che Jacob abbia una sua vita. Che possa crescere e trovare la sua strada in questo mondo. Ora Jacob è come un figlio per me, la famiglia che ho sempre desiderato.» Scrolla le spalle. «Ora che ho lui, tutta la disputa su Harry e Travis mi sembra assurda. Un inutile spreco di emozioni.» Mi distendo sulla piattaforma, e sento il legno riscaldato dal sole attraverso i vestiti. Delle grosse nuvole bianche attraversano il cielo blu seguendo il loro percorso, come se nel mondo sottostante nulla fosse cambiato. Come se il mondo fosse tutt’altro che morte, rovina e dolore. «E che a volte, quando non resta granché da sperare nella vita, ti sembra giunto il momento di sistemare le cose» mi dice. «Possiamo ancora sperare» le dico. «Stanno mettendo a punto un piano.» Provo a scorgere delle sagome fra le nuvole, ma tutto mi sfugge. Scoppia di nuovo a ridere. «Intendi il piano di aspettare l'inverno per provare a raggiungere le reti? Non ho grande fiducia. Penso che più probabilmente finiremo i nostri giorni così, qui sulle piattaforme.» Non era così pragmatica la Cass che conoscevo da bambina. Questo mondo ci ha cambiati tutti, ci ha costretti a prendere decisioni a cui non eravamo pronti. «Io non voglio smettere di sperare» dico infine. «E non voglio rinunciare all'oceano.» «Non avevo dubbi» mi risponde. «Ma volevo ti fosse chiaro che se si tratterà di scegliere tra te e il tuo sogno dell'oceano e la sicurezza di Jacob, io sceglierò Jacob.» «Lo so» le dico. E dopo un po' aggiungo: «Sarai una madre fantastica, Cass.» Vorrei dirle anche che la mia speranza è quella di trovare un modo per andarcene da qui, di scoprire

un posto sicuro dove potrà sposarsi e avere una famiglia numerosa. Ma resto zitta. Le chiedo solo se ha voglia di aiutarmi a trovare delle sagome tra le nuvole. E trascorriamo il pomeriggio così, a osservare il cielo l'una accanto all'altra, come se il mondo che ci circonda non fosse quello che è sempre stato.

31 «Al fuoco!» Mi sveglio di soprassalto e allargo le braccia ai lati, per cercare Travis o Harry, chiunque. Ma sono sola, e ogni respiro mi brucia i polmoni. Cerco di ricordare cosa mi abbia strappato dai miei sogni. «Al fuoco!» Quando risento quelle parole, mio fratello è alla porta con Jacob appeso alle spalle, e mi rendo conto che è avvolto dalla nebbia, tutto il mondo è avvolto dalla nebbia, e in quel momento inizio a tossire. «Mary, devi venire subito» mi dice, e poi scompare dall’uscio lasciando una scia di volute fumose che spiraleggiano, come se anche loro fossero disturbate dal trambusto della notte. Tenendomi la gonna sulla bocca con una mano, scendo dal letto e trascino i piedi nudi sul pavimento per verificare che non ci siano ostacoli. Quando sono vicina alla porta, qualcuno mi afferra e mi tira via per farmi uscire all'aperto, quindi, prima ancora di riuscire a orientarmi, vengo spinta giù verso le piattaforme, dove vedo che si sono raggruppati gli altri. Dietro la schiena sento l'incendio ardere, fiamme avide che consumano il nostro rifugio boccone dopo boccone. Sventrano le altre case tra gli alberi, ravvivandosi mentre divorano le provviste e corrono lungo i rami. Siamo tutti sul bordo della piattaforma dove ho trascorso il pomeriggio a guardare le nuvole con Cass. Ora lei sta tenendo Jacob, che trema, piange, si scusa. Jed, Harry e Travis sono tutti in piedi che osservano le fiamme, le maniche rimboccate e le fronti luccicanti di sudore. L'aria è talmente secca che crepita, velando i gemiti degli Sconsacrati. Siamo in trappola, fatalmente in trappola. Davanti a noi c'è il nulla, solo l'ampia distesa del villaggio di sotto con pozzanghere di Sconsacrati. Dietro di noi c'è il fuoco, che lentamente corrode le lunghe piattaforme.

Di tanto in tanto le fiamme cadono come liquido sopra gli Sconsacrati, che si trasformano in fornaci ambulanti e si arroventano a vicenda propagando l'inferno tra gli edifici del villaggio. «Forse le fiamme li uccideranno e potremo fuggire» dice Cass, il mento posato sul corpo scosso dagli spasmi di Jacob. I ragazzi non rispondono e restano paralizzati, come se agire fosse troppo rischioso. Vedo già delle vesciche sul braccio destro di Jed. Mentre il mondo si trasforma in calore e luce, Travis dice qualcosa così sommessamente che le sue parole sono quasi impercettibili. «Uno di noi deve affrontarli. Uno deve andare fino al sentiero a fissare la corda. Dobbiamo lasciare le piattaforme e raggiungere quel sentiero.» Cass stringe forte Jacob e gli tappa le orecchie, mentre Jed e Harry annuiscono. «E quello non puoi essere tu,» dice Harry a Travis «per via della gamba.» Mi giro e rigiro le sue parole in testa cercando un'accusa, ma non la trovo. «Potrei andare io» sussurro. Attendo le loro obiezioni, prego che arrivino, e dopo alcune frazioni di secondo troppo lunghe arrivano. Semplici, dirette. «No, tu non ci vai» dicono. «Ci andrà uno di noi due.» Senza guardarsi, Jed e Harry riflettono su chi di loro si sacrificherà per gli altri. «Almeno vado a recuperare la corda» borbotta Travis, saltando giù sulla piattaforma e incamminandosi verso l'incendio, che gli è sempre più vicino. Jed posa un braccio sulla spalla di Harry, Harry mette il braccio intorno alla vita di Jed, e così si allontanano un po', tenendo ciascuno la testa verso l'altro. Sembra che stiano pregando. E allora mi domando: È tutta colpa mia, questa situazione? È perché ho smesso di credere in Dio tanti e tanti mesi fa? Se avessi rinunciato all'oceano, se avessi rinunciato a Travis, se avessi rinunciato a tutto ciò che si interponeva fra Dio e me, avrei potuto salvarci? Avrei potuto salvarli? Travis passa intorno a Jed e Harry, che sono stretti l'uno all'altro, e si inginocchia goffamente sul bordo della piattaforma più vicino alla Foresta degli amori perduti e al

sentiero che potrebbe salvarci. Vado da lui e lo aiuto a fare i nodi. «Non capisco come potrà funzionare» gli dico, maneggiando la corda con dita tremanti «Funzionerà esattamente come ha funzionato per venire qui. Ma deve esserci qualcuno dall'altra parte che fissi la corda» mi risponde. Appoggia una mano sulla mia, ed è una sensazione calda, familiare. «I giorni che abbiamo trascorso dentro la casa. Sono stati il mio mondo. Sono stati la mia verità» mi dice. «Sono stati il mio oceano.» Dai suoi occhi traspare il groviglio di parole che gli rimbombano in testa, e quando apre la bocca si limita a dire: «Avrei voluto poterti proteggere.» Mi passa un dito sulle labbra e poi si rialza per portare la corda a Harry e Jed, per prepararli alla traversata. Mi cedono le gambe e non sono più in ginocchio, e poi, prima ancora di comprendere quello che sta accadendo, una figura mi passa di fianco correndo con un passo irregolare, si lancia dal bordo della piattaforma, vola sopra il gruppo di Sconsacrati ai nostri piedi e atterra con un tonfo, rotolando per qualche metro. Tiene un coltello in ogni mano, il metallo riflesso dalla luce del fuoco. Si riprende, si rimette in piedi e si incammina con passo incerto verso la Foresta, verso il cancello e il sentiero, con la mia fune colorata cinta intorno alla vita che gli fa da scia. Lì per lì è solo, e gli Sconsacrati non notano la sua presenza. Poi però cominciano a deambulare verso di lui. Lo sentono, lo vogliono. «Nooo!» urlo, strisciando in avanti e afferrando il bordo della piattaforma, come per riprendere la fune tra le mani e riportarlo indietro al sicuro. I singhiozzi mi lacerano il corpo, ma non li faccio uscire. Dalle mie labbra esce solo una serie concitata di preghiere, e continuo a ripetere: «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego.» Lui barcolla, cade, si rialza, ma non riesce più a tenere lo stesso ritmo. La sua gamba è troppo debole. La sua andatura troppo sbilenca. Il suo corpo troppo malridotto. «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego...» Gli Sconsacrati fanno per avvicinarsi, lo cercano con le dita, calpestano la fune intrecciata. Lo tirano costantemente indietro, tendendo la fune e facendolo cadere in ginocchio.

«Ti prego ti prego ti prego ti prego...» Quando il primo lo raggiunge, lo sento urlare. Li attacca, ma sono in troppi. Pianta un coltello in uno di loro, ma prima di riuscire a staccarlo viene spinto di nuovo indietro, vacillante. Vedo una chiazza di sangue che si allarga sulla sua camicia. Mio fratello inizia a tirarmi una spalla, prova ad allontanarmi dalla scena, ma io so solo che devo continuare a guardare Travis, perché così non gli accadrà nulla, così riuscirà a raggiungere le reti indenne e senza infezioni. Inciampa di nuovo, e gli Sconsacrati cominciano ad ammassarsi sopra di lui. «Ti prego, ti prego, ti prego.» Pronuncio ogni parola con tutta l'anima, pronta a dare la mia vita per la sua. Una freccia mi passa accanto alla testa sibilando, e poi un'altra e un'altra ancora. Si infilzano ciascuna in uno Sconsacrato diverso. Cominciano a cadere uno dopo l'altro, finché Travis non riemerge da sotto il mucchio e riparte traballante alla volta del cancello. Dietro di me, Harry è un susseguirsi frenetico di movimenti con la balestra; è pallido, ha le guance sudate, ma è lucido e determinato, concentrato sull'obiettivo. Jed mi lascia per unirsi a lui, prende una seconda balestra e insieme cominciano ad abbattere uno dopo l'altro la massa di Sconsacrati. Scoppio di gioia: sento una fede e una speranza talmente pure che mi sembra di sprigionare luce da ogni centimetro del corpo. Per un momento, uno squisito e fulgente momento, sono intimamente convinta che Travis riuscirà ad arrivare fino alle reti illeso. Che sopravvivremo e che vedrò cosa c'è dopo la Foresta. Che vedrò l'oceano. Chiudo forte gli occhi, sperando di contenere la sensazione. In quel momento Travis cade di nuovo. In quel momento le sue urla raggiungono le mie orecchie, disintegrandomi; le mie braccia non sono più abbastanza forti da sostenere la carcassa vuota del mio corpo. «Ti prego» sussurro un'ultima volta. Travis si rialza, vacilla, arriva al recinto e apre il cancello. Alcuni Sconsacrati lo raggiungono prima che riesca a chiuderlo, ma Harry e Jed li fanno fuori in un battibaleno con una raffica di frecce. Travis è finalmente solo, al sicuro. Ha i vestiti ricoperti di sangue, e vedo che respira in

modo convulso. Alza una mano per mandarci il segnale, e sento la piattaforma vibrare: Harry e Jed sono crollati in ginocchio dietro di me. «No» bisbiglio, incapace di accettare la situazione. Dopo dieci lanci, riesce a far passare la fune intrecciata oltre il robusto ramo dell'albero di fianco al sentiero. Quando inizia a tendere la corda nel vuoto, le fiamme dietro di noi sono sempre più alte. All'unisono, tratteniamo tutti il fiato. Il calore ci sta ustionando. Argos piagnucola, Jacob è in preda ai fremiti. Centimetro dopo centimetro la fune avanza finché non è completamente tesa. Dopodiché Travis la fissa. Oscilla da una parte all'altra. È la nostra salvezza. Travis si accascia sull'albero e, prima ancora che qualcuno riesca a fermarmi, mi aggrappo con le gambe alla fune, incrocio le caviglie e comincio a tirarmi con forza allontanandomi dalle piattaforme avvolte dalle fiamme. Sento Harry che mi chiama, sento che cerca di acciuffare il mio piede, ma lo respingo con una pedata, rifiutandomi di essere riportata indietro. «Non è ancora sicuro! » mi richiama Harry. «Lascia che ci vada prima uno di noi, non si sa mai!» Scrollo il capo. Concentrandomi su una mano e poi sull'altra. Senza badare alla pelle che mi brucia sotto le ginocchia. «Non hai nemmeno una corda di sicurezza» strilla. Mi stringo più forte alla fune e lascio cadere leggermente la testa per guardare Travis. Il mondo è tutto al rovescio. Vedo che è appoggiato contro l'albero e lentamente, mentre lo osservo, la sua testa si abbassa sul petto. «No!» grido. «Non hai nemmeno un'arma se dovesse trasformarsi!» mi urla Harry. Ma io non mi faccio distrarre dalle loro parole, mi concentro esclusivamente su una mano davanti all'altra. Sullo sforzo dei muscoli. Sulla fune che mi taglia la pelle. Mi focalizzo su Travis e sul bisogno che ho di toccarlo, di sentirlo, di guarirlo. Quando arrivo dall'altra parte, lascio cadere le gambe, e il sangue torna a confluire sui miei piedi. Guardo la piattaforma e vedo Jed, Harry, Cass e Jacob illuminati dalle fiamme.

Abbasso gli occhi, il collo teso tra le braccia. Alla mia sinistra c'è la Foresta degli amori perduti, dove gli Sconsacrati cominciano a riunirsi, a deambulare dinoccolati verso di noi. Alla mia destra c'è il sentiero che prosegue fino all'oscurità. Direttamente sotto di me c'è Travis, il corpo sanguinante, le braccia sollevate. All'improvviso sono paralizzata dalla paura. Dalla paura di come si regge, di come si allunga verso di me, di come il sangue si rapprende sulla sua pelle, di come mi attende lì sotto: quasi per divorarmi.

32 Apro la bocca per gridare ma non esce alcun suono. Sono appesa con la mani, il corpo pesante, il respiro difficoltoso. Sento le dita che cominciano a cedere, il sangue impregnato sulla fune che mi scava la pelle mi fa scivolare. Provo a recuperare la presa, ad aggrapparmi con le gambe, ma ho le braccia troppo stanche. Lo sforzo di restare appesa mi fa tremare i muscoli, e mi rimprovero la fretta con cui ho rifiutato che Harry mi armasse di un'imbracatura. Con le lacrime che mi annebbiano la vista metto a fuoco l'immagine di Travis sotto di me. Le sue dita si aprono e si chiudono. Poi, allo stremo delle forze, abbassa le braccia e le lascia pendere inerti lungo i fianchi. Atterro con un puff e mi porto fino a lui strisciando. E appoggiato contro il ramo dell'albero appena dentro il cancello. Ha il corpo che trema. Il respiro discontinuo, affannoso. Ma è ancora vivo. «Travis!» gli urlo, attirandolo a me. Lo cullo come un neonato. «Andrà tutto bene» gli dico. «Stai bene.» Poso il mento sui suoi capelli, mi stringo la sua testa al petto. Sento il suo sangue infiltrarsi nella mia carne. «Perché l'hai fatto, Travis?» gli chiedo. «Perché?» La mia voce si incrina, e lo sento muovere le labbra, ma non capisco cosa dice. I suoi occhi si rivoltano all'indietro. Comincio a scuoterlo, quasi con violenza. «Non puoi!» gli grido sul viso. «Non te lo permetterò!» Una smorfia di sorriso gli fa sussultare un angolo delle labbra, dove un rigagnolo di sangue comincia a colare verso il mento. «Risolveremo tutto» gli dico. «Forse c'è un altro villaggio. Forse c'è un guaritore. Sei sicuro che ti abbiano morso? Sei sicuro che non siano graffi come i miei?» La sua risatina ferma il tempo e ci riporta nel nostro mondo, prima di questo villaggio e dell'invasione. Prima della gamba menomata. A quando eravamo bambini. Prima che conoscessimo il mondo. «Graffi o no, non sarebbe cambiato nulla» mi dice, con una voce liquida. «Mi avevano

morso durante la fuga dalla casa.» Le mie membra si indeboliscono, tutto dentro di me si ripiega su sé stesso e collassa. «Ero già morto» dice, aprendo gli occhi. Riesco solo ad articolare in silenzio la parola 'perché'. Non trovo la voce, non ho la forza di far uscire il suono dal mio corpo fremebondo. Deglutisco. Gli passo una mano sulla fronte, sulla pelle viscida di sudore e sangue. Chino la testa per toccare la sua. La mia bocca si sofferma sopra le sue labbra, e non penso ad altro che ai momenti che abbiamo trascorso insieme nella Cattedrale, quando gli raccontavo le storie sull'oceano. «Lasciami pregare per te» sussurro. Ho il naso che cola, gli occhi gonfi di lacrime. «Non sei mai stata molto brava a pregare» mi dice con una debole risata. «Non era quello che ti faceva andare avanti. Sono sempre stati i racconti.» Scuoto la testa, chiudendo forte gli occhi. «Sei sempre stato tu» gli dico. Ride di nuovo, sommessamente, ed è più un respiro che una risata. «Mi sarebbe piaciuto» dice. Lo stringo ancora più forte sul mio ventre, come per strizzargli fuori l'infezione dal corpo, come per pulirgli il sangue con il mio amore. «Mi dispiace» bisbiglio. «Mi dispiace tanto.» Tra i singulti del pianto, lo sento a malapena rispondere che lo sa. E ora mi chiedo soltanto: Perché ho sprecato il mio ultimo giorno con Travis covando rancore nei suoi confronti? Perché non l'ho trascorso memorizzando il suo viso? Contando le lentiggini sulle sue spalle? Quando mi sorride, sotto il sole che gli irradia il viso, e strizza gli occhi formando quelle piccole rughe agli angoli, mi rendo conto che non lo rivedrò mai più. Non lo rivedrò mai più camminare con quel suo passo zoppicante. Non sentirò mai più il contatto del suo palmo sulla mia guancia. Tutta un tratto penso solo a tutte le cose che non conosco di lui. A tutte le cose che non ho mai avuto il tem po di imparare di lui. Non so se i suoi piedi soffrano il solletico, non so quanto siano lunghe le sue dita. Non so che incubi facesse da bambino. Non so quali siano le sue stelle preferite, che sagome scorga fra le nuvole. Non so quali siano le sue paure più grandi o i suoi ricordi più importanti.

E ora non ho tempo, non l'avrò mai più. Vorrei vivere questo momento con lui, sentire il suo corpo sul mio senza pensare ad altro, ma ho la testa che esplode per il dolore di tutto quello che non so. Di tutto quello che mi mancherà. Di tutto quello che ho sprecato. Non trascorreremo le nostre vite insieme. Non avrò il tempo di imprimerlo nella memoria, anzi, già ora lo sto dimenticando. Non sono pronta, non sono pronta alla sua morte. «Raccontami dell'oceano, Mary» mi dice. «Dell’ultimo posto inviolato da tutto questo.» Scrollo il capo. «L'oceano non è nulla» gli rispondo. «È come il resto del mondo.» Mi prende il mento tra le mani, con una presa sorprendentemente forte. «Promettimi che andrai a vedere l'oceano» dice. Scrollo di nuovo il capo. «Ma tu dicevi...» «Dimentica quello che ho detto. Promettimi che assaporerai il sale anche per me.» Vorrei riavvolgere il tempo, vorrei fermarlo e impedirgli di scorrere. Vorrei stringerlo a me, tenerlo vicino e non permettere a questo momento di sfuggire. Ma non posso. E la mano di Travis si distacca dal mio viso. «No» esclamo, aggrappandomi a lui, tentando di tenerlo ancora con me. «Scelgo te. Scelgo te, non l'oceano.» «Promettimelo, Mary» mi ripete. Ora ha una voce debole, rantolosa. «Ti amo» gli dico. Ma lui non risponde. Perché è morto. Poi vengo allontanata da lui. «No» dico per ribellarmi, ma le braccia che mi tirano indietro sono troppo forti. Harry mi butta dall'altra parte del sentiero. M rialzo vacillando. «Devi lasciarlo» mi dice Harry spingendomi di nuovo giù. «Vai via!» gli grido, affondando le dita nella terra per tornare da Travis. Harry mi afferra le spalle. «Non capisci? Travis è stato infettato. Si sta trasformando!» Jed è dietro di me con una falce in mano. Sta aspettando che Travis si trasformi. Per finirlo. Provo a prendere la lama luccicante. Forse pensa che voglia fermarlo, che voglia impedirglielo, perché mi oppone resistenza.

«Mary!» Harry tenta di distaccarmi da Jed, ma io lo allontano con una tale forza che lui barcolla sul sentiero, urta contro Cass e cade a terra. «Dammela» dico a Jed. «Dobbiamo abbatte...» «Dammela!» «Mary, è meglio che non sia tu a...» Mi getto sulla falce, urlando, e questa volta riesco ad afferrare il manico. Sono io che lo amo. Sono io la causa della sua infezione. Sono io quella che voleva salvare, quella per cui si è sacrificato «Mary, lasciami...» «Mollala.» La mia voce è un ringhio. La sua mano rilascia l'impugnatura, e in un solo movimento la allontano da lui per rivolgerla a Travis. Vorrei chiudere gli occhi, fingere che non ci sia nulla di reale. Che sia tutto un incubo. Ma quando oriento la lama verso Travis, vedo i suoi occhi aperti. Quegli occhi verdissimi. Quegli occhi che mi hanno sempre desiderato, ma non con l'espressione malata di adesso. Affondo la falce nel suo collo, la sento recidere la colonna vertebrale e tremo. I suoi occhi si perdono nel vuoto, mi trapassano. Il suo corpo diventa una massa molle, i suoi muscoli si rilassano nello stesso istante. Se n'è andato. Per sempre. Resto per terra a piangere, mentre dal petto gli cola altro sangue. Jed prende la falce e mi risolleva. Sono troppo debole per oppormi. Vorrei prendere una mano di Travis, sentirlo un'ultima volta, lasciare che le sue dita si chiudano fra le mie. Ma è troppo lontano. Tra il fumo dell'incendio che divampa ovunque ho già dimenticato il suo profumo. Jed mi allontana dal suo cadavere.

«No!» sbraito. Grido. Colpisco Jed. Mi manca l'aria per piangere. I miei ricordi di Travis si confondono, si avviluppano, si attorcigliano, si corrodono. «Hai fatto quello che bisognava fare» mi dice. Come se quelle parole potessero essermi di qualche conforto. «Lo amavo» dico piangendo. «Lui era tutto. Perché non ho capito che era tutto?» Il rimpianto mi consuma, mi scortica le vene come per scorrere al posto del sangue. «Lo so» dice Jed. Mi prende sulle spalle, sento il suo corpo tremare e so che sta piangendo. Per me, per Beth. E mi domando se sia mai esistito un mondo più crudele di questo, che ci obbliga a uccidere le persone che amiamo di più.

33 Passano i giorni e non facciamo altro che camminare, tentando di guadagnare distanza dall'incendio che avanza nella nostra direzione. Stiamo elaborando, ognuno a proprio modo, la perdita di Travis. Cass si dedica a Jacob con un amore accanito. Lo tratta come se fosse suo figlio. Come se non fosse mai appartenuto a un'altra donna, e lei fosse la prima. Si aggrappa a lui. Lui è l'unico che riesce a penetrare il suo velo di silenzio. Harry si prende cura di Cass. È quello che controlla che mangi le magre razioni che abbiamo salvato dall'incendio, e che diminuiscono passo dopo passo. È quello che sorregge Jacob quando le braccia di Cass sono troppo deboli. Quando lei vacilla sotto il peso della situazione. Io cammino sul sentiero da sola. Come una vagabonda. Senza notare nulla. Inciampo sulle più piccole radici, deviando verso le reti e gli Sconsacrati. Ho lo sguardo perso nel nulla. Non mi capacito di aver perso tutto nella vita tranne questo viaggio. Questa speranza che esista una fine. Che questo sentiero ci condurrà proprio là. E Jed che mi riporta al centro del viottolo. Che mi prende la mano quando devio verso le reti e che con dolcezza mi fa procedere. È lui che riconosce il dolore sul mio volto. Che comprende perché verso lacrime silenziose anche ora, tre giorni dopo che abbiamo lasciato Travis. Tutti e due abbiamo perso i nostri amori tra gli Sconsacrati. Tutti e due siamo stati obbligati a uccidere. Il fuoco continua ad ardere dietro di noi, spingendoci avanti. Tutto è ricoperto di cenere, e il mondo si è trasformato in un quadro grigio e desolato. L'aria è densa, difficile da respirare, e questo rende i nostri passi sempre più lenti. Nessuno parla di Travis, né dell'incendio, né delle esigue provviste che abbiamo recuperato dalla piattaforma, insieme alle armi, prima che venisse consumata dalle fiamme. Nessuno si domanda a voce alta come il fuoco stia bruciando sulle reti, se stia

fondendo o indebolendo il metallo. Se gli Sconsacrati lentamente si stiano riversando sul sentiero dietro di noi, infiltrandosi tra i varchi del recinto ceduto al calore. Per ogni cancello che attraversiamo e richiudiamo dietro di noi tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Ma poi il fuoco ci raggiunge anche durante il sonno, e siamo costretti a ripartire di tutta fretta. Accaldati, stanchi, esausti, affamati, assetati. Un piede e poi l'altro. Tentiamo di sorvegliarci a vicenda tra il fumo. Tentiamo di non respirare l'aria pervasa dal fetore di carne carbonizzata, rinsecchita. Ci limitiamo a sopravvivere. A esistere. A non voler cedere per primi. A volte, quando i miei piedi si rifiutano di proseguire e le gambe mi tremano per la spossatezza, mi passo un dito sul collo sudato e scrivo il nome di Travis sulla cenere che mi ricopre il braccio. So che non posso deluderlo fermandomi. Lui è morto per me, e non posso disonorare il suo sacrificio smettendo di avanzare. Una sera, quando i sogni di Travis minacciano di sommergermi di lacrime e collera, mi allontano dal gruppo alla disperata ricerca di aria e solitudine. All'orizzonte la notte si colora di un arancio incandescente; tremo, sapendo che il fuoco si propaga ostinatamente verso di noi, e che domani sarà un altro lungo inseguimento. Nel buio sento il rumore di qualcuno che tira su con il naso; mi guardo intorno e vedo una piccola figura rannicchiata che fissa le fiamme in lontananza. E Jacob. Lo raggiungo, mi siedo accanto a lui e lo attiro, malgrado la sua resistenza, al mio grembo. Argos, che da dopo l’incendio non l'ha più abbandonato, viene a strusciare il suo naso freddo sulla mia mano. «Io non volevo» mi dice, di nuovo. Da quando siamo fuggiti non ha fatto altro che scusarsi per aver provocato l'incendio sulle piattaforme. Gli faccio sssh, le mie labbra sui suoi capelli. «Scusa» dice singhiozzando, e allora lo stringo più forte. Il rimpianto è qualcosa che ci accomuna, e odio l'idea che debba portarsi il peso della colpa per tutta la vita. «Posso confidarti un segreto?» gli sussurro. I suoi singhiozzi si placano in respiri rumorosi, e sento che fa cenno di sì con la testa. «Mia madre mi raccontava storie che parlavano dell’oceano, di edifici più alti degli alberi che toccavano il cielo, di uomini che camminavano sulla luna.» Ridacchia. «Te le stai inventando, zia Mary» mi dice. Ma vedo che avrebbe voglia di

credermi. Mi piego verso di lui e bisbiglio: «Sono vere. E ne ho la prova.» Tiro fuori dalla camicetta il libretto con la fotografia di New York per mostrargliela. La tiene vicina al viso, strizzando gli occhi. La luce dell'incendio consente giusto di distinguere le sagome degli edifici. Sento che il suo respiro si inceppa e si ferma. «Cos'è?» mi chiede. Ripercorre le lettere con le dita. «E’ la foto di un posto che esisteva prima del Ritorno. Che forse esiste ancora.» «Come fai a sapere che c'è ancora?» Alzo le spalle. «Fede. Speranza» gli rispondo. «È per questo che ora la affido a te. Così avrai delle storie che ti aiuteranno ad andare avanti. Qualcosa in cui credere oltre a questo sentiero.» Gli scosto i capelli della fronte come faceva mia madre con me. Dopo un po' mi rialzo, lo tiro per i piedi e lo accompagno dove dormono gli altri. Per la prima volta mi addormento facilmente e i sogni non mi fanno soffrire. L'indomani mattina, quando riprendiamo il nostro faticoso cammino sul sentiero, noto che Jacob tiene la testa un po' più sollevata, le spalle un po' più dritte, e sorrido. Ma le giornate continuano a essere lunghe, difficili, senza fine. Le poche provviste che Harry e Jed avevano salvato dalle piattaforme si stanno riducendo a un nulla. Poi finalmente, proprio quando comincio a pensare di non riuscire più a continuare, sento scorrere sulla fronte la prima goccia di pioggia. Intorno a noi rimbombano tuoni e balenano lampi. Cominciano a cadere pesanti gocce che ci colpiscono come sassolini, quasi facendoci male. Mentre procediamo, so che ci stiamo chiedendo tutti la stessa cosa: Sarà la pioggia che spegnerà l'incendio? Che ci permetterà di rallentare il passo? Che ci regalerà un po' di riposo, un po' di sollievo, un po' di tregua? Le gocce aumentano e alzo il viso al cielo. Lascio che l'acqua mi scivoli sulla faccia, si mescoli alle mie lacrime e mi lavi via la rabbia. Lascio che lavi via la cenere sul mio corpo, che confonda il nome di Travis scritto sul braccio fino a farlo scomparire. Allargo le braccia e lascio che l'acqua mi inondi. Cass e Harry con Jacob rannicchiato tra di loro, corrono a cercare un riparo. Un ramo, un

cespuglio, qualsiasi cosa che possa attenuare i colpi pungenti di questo flagello di pioggia. Abbandono il corpo, lascio che crolli a terra mentre l'acqua mi scivola addosso. Jed mi viene vicino e si mette in ginocchio. Mi posa una mano sulla guancia, mi chiede cosa sto facendo. Sorrido, un sorriso ampio e deciso. Gli dico di lasciarmi stare. Lui mi guarda per un lungo momento, mentre l'acqua gli cola dai capelli, dal naso, dal mento. Infine mi lascia da sola, comprendendo il mio dolore. Intorno a me si formano delle pozzanghere d'acqua; divento parte del flusso. Mi immagino nell'oceano, dove ogni respiro è fatto d'aria mescolata ad acqua. I miei polmoni si rivoltano come se stessi affogando. Il sentiero sotto di me diventa una molle fanghiglia, e io ci rotolo sopra, facendomi ricoprire, dimenandomi nell’acqua, nella melma, nelle lacrime. Urlo contro i tuoni. Grido contro i fulmini. Inveisco contro gli Sconsacrati, pretendendo di sapere perché mi hanno tolto tutto. Ma gli Sconsacrati si limitano a gemere e ad agguantare le reti. Mi alzo, corro da una parte e dall'altra del sentiero, agitando i pugni. Per adescarli. Ma loro abbassano le mani. Si allontanano, trascinandosi fino da Harry, Jacob e Jed per tormentarli con la loro fame. Infuriata, corro fino alle reti, pianto le dita attraverso le maglie delle reti e le scuoto con tutta la forza che ho in corpo. Sbatto contro il metallo. Ma loro mi lasciano stare. Gli Sconsacrati mi passano davanti come se non esistessi. L'acqua e il fango mascherano il mio odore. Alla fine Harry riaffronta impavido la pioggia e mi raggiunge al recinto, dove mi sono accasciata. Mi scosta giusto nel momento in cui le dita di uno Sconsacrato stanno scivolando tra i miei capelli, come un ricordo fugace. Con dei movimenti dolci mi pulisce il viso sporco di fango. Poi mi attira al suo petto e, tra la furia del temporale e gli Sconsacrati che battono sulle reti, mi sussurra all'orecchio: «Manca anche a me.»

Per un momento siamo uniti dallo stesso lutto, dopodiché udiamo le urla. Alzo gli occhi e vedo Jed slittare sul sentiero, agitando la falce nell'aria sopra la testa. Quando i nostri sguardi si incrociano, si ferma e ci fa segno di avvicinarci. Non riesco a sentire quello che sta urlando. Harry e io ci alziamo, riprendiamo equilibrio e lo seguiamo. Passiamo vicino a Cass e Jacob, che stanno tremando sotto un grande cespuglio. Argos accenna di seguirmi, e ho un attimo di esitazione, poi lo spingo di nuovo verso Jacob. Il piccolo gli si aggrappa alla collottola e affonda la testa tra il pelo del suo collo. Argos mi guarda e si lamenta debolmente. Gli prendo le orecchie tra le dita, gli gratto la punta, e allora lui socchiude gli occhi appagato, accovacciandosi a terra contro Jacob. Distrattamente il bambino gli tiene una mano sulla pancia e ci tamburella sopra le dita, facendo muovere convulsamente la zampa posteriore sinistra di Argos. Cass mi lancia un'occhiata, articola un 'grazie' muto con la bocca e si tiene stretto Jacob fra le braccia, riavvicinando le labbra alle sue orecchie come per raccontargli qualcosa di segreto. Corro a raggiungere Harry e Jed e li trovo fermi in silenzio. In questo punto il sentiero è abbastanza largo da consentirci di stare in fila, spalla a spalla, con Jed al centro. Solleva la falce indirizzandola verso il sentiero, poi la fa cadere come se fosse uno sforzo troppo grande. Faccio un passo per avvicinarmi, senza sapere bene ciò che sto vedendo, senza sapere bene se i miei occhi mi stiano tradendo. Sento il respiro discontinuo di Harry che si è precipitato fin qui di corsa. Sprofondo sulle ginocchia; la punta aguzza di un sasso si conficca nella mia pelle, e un rivo di sangue si mescola alla pioggia che mi cola dallo stinco. È la fine del recinto. La fine del sentiero. Dall'altra parte non c'è altro che foresta. Un'altra strada senza uscita. Sfioro il fango con le dita, le spalle prostrate. «Mi dispiace, Mary» dice Jed. Perché sapeva che ci speravo. «Possiamo aspettare che finisca di piovere» suggerisce Harry. «Sperando che spenga l'incendio. Poi torniamo indietro fin dove il sentiero si divide e prendiamo un'altra

strada.» Scrollo il capo, facendo schizzare gocce d'acqua dalle punte dei capelli e delle orecchie. «Era questo il sentiero» dico. La mia voce è poco più di un bisbiglio. «Ne troveremo un altro» replica Harry per provare a calmarmi. Per provare a farmi stare meglio. Ma non funziona. Ero così convinta che fosse il sentiero giusto. Che ci avrebbe portato fuori dalla Foresta e poi all'oceano. «Forse...» dico, rialzandomi e facendo una smorfia per il dolore che dal ginocchio risale lungo la gamba. Muovo un passo in avanti. «Non fare stupidaggini, Mary» mi dice Harry. «Questa è solo un'altra strada senza sbocco. Ne abbiamo già incontrate. E di sicuro ne incontreremo ancora. Questo sentiero non era nulla di speciale. Non ci sono sentieri speciali.» Scuoto di nuovo la testa. Questo sentiero ha qualcosa di diverso, questa strada ha qualcosa di diverso dalle altre. Passo le dita intorno ai bordi della rete fino a toccare la placchetta di metallo. «E un cancello» dico, e in quel momento un tuono rimbomba sopra di noi. Mi volto verso Harry e Jed, verso le loro figure oscurate dalla fitta pioggia. «E un cancello!» grido. Tasto la placchetta di metallo per trovare le lettere e la volto per leggere quello che reca: I, numero uno. Questo è il primo cancello. Si guardano e mi raggiungono. «Ma non ci sono reti dopo il cancello» osserva Harry. «Si entra nella Foresta. Perché dovrebbe esserci un cancello se il sentiero termina qui?» Il cuore mi batte fortissimo, con una violenza tale da ritmare i piccoli sbuffi del mio respiro. Se questo è il primo cancello, deve essere l’inizio e la fine. «Perché dobbiamo entrare nella Foresta» rispondo. E so che è così, lo so a ogni battito di cuore. Ma Harry scoppia a ridere. «E ridicolo» commenta. E poi vede il mio viso. Mi vede considerare la Foresta al di là delle reti. Mi afferra le spalle. «Non ci crederai sul serio,

spero.» I miei respiri accelerano, e gli faccio cenno di sì. In quel momento avanza Jed. «Mary, non puoi dire sul serio!» Mi tira via da Harry. «Come si può pensare che qualcuno si avventuri là dentro?» mi dice, indicando con un gesto l’immensa foresta buia. «Non lo so» gli rispondo. «Ma non importa. Questo è il cancello che ci porterà all'oceano. Alla fine della Foresta.» Punto il dito verso la placchetta di metallo. «È segnata con il numero uno. Le lettere corrispondono a numeri, e questo è il primo cancello. E questa la strada.» Sentendomi, Harry butta le mani in aria, si gira di spalle e si massaggia le tempie con le dita, come per controllare l'evidente collera. «Mary» mi dice. Si volta a guardarmi e mi posa una mano sulla guancia, che scivola lungo il viso sotto la pioggia viscida. Poi mi prende la mano. Vedo le nostre dita intrecciate, e ripenso a quel giorno giù al fiume in cui iniziò tutto. A quando ci tenemmo la mano sotto l'acqua del ruscello e mi chiese di essere sua. Improvvisamente mi rendo conto di tutto il dolore che gli ho procurato da allora. Il tradimento, l'incertezza. «Scusami» gli dico. Mentre parlo, la pioggia mi gocciola in bocca. «Scusami davvero di tutto.» Piega la testa. «Perché dovresti scusarti?» mi domanda. «Saresti stato un buon marito per me» gli dico. Comincia a sospettare che abbia l'intenzione di attraversare il cancello e lasciarlo, quindi stringe la presa sulla mia mano. «Ti ho sempre avuta a cuore, Mary.» Sorrido, solo un po'. Per un istante mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita se quel giorno non avessi tenuto la mano di Harry sott'acqua. Se avessi finito il bucato in tempo e avessi raggiunto mia madre sulla collina mentre cercava mio padre. Se le avessi impedito di avvicinarsi troppo alle reti e farsi infettare. Non avrei mai fatto parte delle Sorelle, non mi sarei mai innamorata di Travis e non avrei conosciuto Gabrielle. Non avrei mai scoperto i loro segreti e non avrei mai desiderato una

vita al di fuori delle reti. Avrei sposato Harry; i nostri figli sarebbero cresciuti insieme a quelli di Cass e Travis, e a quelli di Jed e Beth. Avrei potuto sentirmi appagata. Forse persino felice. Ma realizzata? Harry lascia il mio braccio. «Sapevamo entrambi che non volevi stare con me.» Apro la bocca per protestare, ma lui scrolla il capo. «Non l'hai mai voluto» aggiunge. Scuoto la testa per sgomberarla. «Quel mondo non esiste più» gli dico. «Ora dobbiamo trovare la nostra strada. E per me significa andare oltre il cancello.» Getto un'occhiata a Jed, poi continuo. «Ti prego» dico a Harry. «Toma da Cass. Resta vicino a lei e a Jacob, ora. Lo sai che odia i tuoni.» «Ma se fossimo gli ultimi superstiti?» mi chiede. «Se fossimo tutto quello che resta? Se ci abbandoni non condanni solo noi, ma anche tutta l'umanità.» «Se siamo tutto quello che resta,» gli rispondo «allora forse non eravamo destinati a sopravvivere. Forse abbiamo solo posticipato l'inevitabile restando nella trappola del nostro villaggio.» «Cass aveva ragione: tu stai solo rincorrendo delle stupide favole, sei un'egoista» mi dice, quindi scaraventa a terra la propria ascia a doppia lama, gira i tacchi e si allontana da me per tornare sul sentiero immerso nelle umide tenebre. Raccolgo l'ascia, sondo quel peso in mano, il manico scivoloso a causa della pioggia e del fango. «C'è un altro modo» mi dice Jed quando Harry non può più udirci. «Ci sono altri sentieri, forse ci saranno altri villaggi. Non può essere l'unico modo per raggiungere l'oceano, se esiste.» Osservo l'acqua che gli cola sulle guance gocciolando dalla mascella. «No, questo è l'unico modo.» Di nuovo, vedo un lampo di irritazione che gli attraversa il volto. «Ma come fai a saperlo, Mary?» strilla. Ha i muscoli tesi per la frustrazione. Alzo le mani in aria, frustrata tanto quanto lui. «Perché ho capito il codice e mi toma. Perché questo, secondo il codice, è il primo cancello» urlo a mia volta. «Perché Loro non

avrebbero mai messo un cancello senza motivo...» «Mary, non sappiamo nemmeno chi siano Loro! Come facciamo a essere sicuri che abbiamo messo un cancello per qualche motivo? Hanno messo reti e sentieri ovunque. Non pensi che avrebbero creato un sentiero anche qui se ci fosse qualcosa di importante che volevano farci trovare?» «Jed, io so solo che...» «Tu non sai niente! Ci hai chiesto di credere in fede che stavamo seguendo il sentiero giusto e siamo finiti al villaggio...» «Ma era il sentiero giusto. E non era in fede. Lo sapevo, dove stavamo andando, sapevo come leggere i segnali del sentiero. Ci ha portati al villaggio di Gabrielle.» «Ci ha portati in una trappola mortale, Mary.» «Non avevamo alternative, Jed!» Ho il fiatone, il petto ansante e le mani serrate a pugno. «E poi perché dovrebbe importarti anche se superassi quel cancello?» gli chiedo. Vedo che la mia domanda lo coglie alla sprovvista. «Sei stato capace di mandarmi via dopo che è morta nostra madre!» Fa un passo indietro, ha le spalle un po' curve. Guarda verso la Foresta, e per un momento ascoltiamo la pioggia che sbatte tutto intorno. «Perché sei la sola famiglia che mi resta» dice.

34 «Mary, possiamo ancora fare marcia indietro» mi dice Jed, agitando le mani e lanciando gocce di pioggia con le dita. «Possiamo aspettare che la pioggia spenga il fuoco. Tornare indietro, prendere un altro sentiero. L'incendio avrà ucciso la maggior parte degli Sconsacrati. Abbiamo qualche arma, possiamo riuscire a passare.» Vedo che la prospettiva gli fa brillare gli occhi. «Potremmo trovare un altro villaggio, un villaggio sano. Potremmo farci una vita...» Lascia smorzare la voce. «È questo che vorrei.» Ha un tono così sommesso che sotto i colpi di tuono quasi non sento quello che dice. «Mary, perché rincorrere dei vecchi sogni? Cosa può darti l'oceano più di noi?» Mi chiedo se non abbia ragione. Forse i miei sogni sull’oceano sono solo questo: sogni infantili. Fantasie. Mi chiedo come abbia potuto credere che esista un posto inviolato dal Ritorno. Una vita al di fuori della Foresta. Medito sulla possibilità di tornare, di ripercorrere a ritroso il sentiero attraverso i suoi meandri, senza mai sapere se sia la direzione corretta. «Almeno aspettiamo domattina prima di decidere» mi dice Jed con una voce gentile, percependo la mia esitazione. Sento le sue mani che mi cingono il polso, mi tirano indietro verso il sentiero. E una parte di me avrebbe voglia di cedere. Sento un gemito; sento il rumore familiare di ossa che si rompono, e vedo degli Sconsacrati che infilano a forza dita e mani tra le maglie del recinto. «Domani sarà troppo tardi» dico a Jed, liberandomi il polso. «Domani degli Sconsacrati ci saranno addosso. Saranno addosso al cancello.» Jed trascina una mano sulla rete, le dita gocciolanti. «Ci sono addosso anche ora e tu vuoi andare di là?» «Ma ora sta piovendo, Jed. La pioggia maschererà il mio odore. E l'unico momento buono che ho per andare.» Ho già i brividi per il terrore, quindi appoggio un pugno sull'anca, sperando che Jed non noti come trema l'ascia che tengo nell'altra mano. Magari sta pensando che non avrò il coraggio di attraversare il cancello. Magari arriverò al cancello e indugerò. Magari mi

perderò d'animo e tornerò indietro. «Mary, non funzionerà. Ci ho provato con Beth sotto la pioggia, ma è stata attaccata comunque.» «È stata attaccata da Gabrielle» controbatto. «E Gabrielle non c'è più.» Ripenso all'ultima volta che l'ho vista, al suo corpo rinsecchito. Mi chiedo se abbia finalmente trovato pace, o se continui a vivere, incapace di muoversi, gli occhi fissi al cielo. Jed scrolla di nuovo la testa ma io mi raddrizzo, tiro indietro le spalle. Resisto all'impulso di chiudere gli occhi e appoggio una mano sul chiavistello che chiude il cancello. «Ho promesso a Travis che non avrei smesso di sperare» gli dico. «Gli ho promesso che non mi sarei accontentata della tranquillità e della sicurezza. Non sacrificando i miei sogni.» «Cosa valgono i sogni quando sei morta?» mi chiede, con la voce sommessa. In risposta giro il chiavistello e mi infilo attraverso l'apertura. Dopo qualche passo, sento Jed che mi richiama, ma non mi fermo. Ecco, sono dentro la Foresta degli amori perduti. Senza più reti che mi proteggano. Non vedo Sconsacrati accanto al cancello, e non ne vedo e non ne sento neppure nelle immediate vicinanze immerse nell'oscurità. Per la prima volta nella mia vita sono quella che si trova dall'altra parte del recinto. Inizio a correre, con le braccia che pulsano all'impazzata, le mani salde sull'ascia. H temporale si scatena tutto intorno, e sento alberi che sbattono, rami scossi dal vento. Non saprei dire se i rumori che mi circondano siano legati agli Sconsacrati. Tengo gli occhi incollati a terra, tentando di vedere, tra le lucenti tenebre, se c'è qualcosa che potrebbe farmi cadere, indebolirmi. Trasformarmi in una potenziale preda. Quando ho fatto una cinquantina di passi, mi concedo di respirare, lascio che la speranza cancelli la paura che scandisce ogni battito del cuore. Mi dico che ci sto riuscendo. Dopodiché il fragore intorno a me diventa più intenso, e capisco che, pur essendo ricoperta di melma e fango, gli Sconsacrati continuano a fiutarmi. Lì mi toma in mente il ginocchio. Ricordo la caduta, il forte dolore, il sangue. Mi sono alle costole, seguono l'odore pungente del sangue che traspira dalla notte

inzuppata di pioggia. Sento i loro gemiti. Sento i loro echi. Il mio cervello comincia a urlarmi di tornare, finché sono in tempo. Di correre di nuovo al recinto. Di scegliere una vita con Harry e tornare al nostro villaggio. Ma proseguo. L'aria umida mi ustiona in gola, i miei polmoni gridano. Ho i muscoli delle gambe che bruciano, e già mi sento più debole. La mancanza di cibo e la folle fuga dall'incendio degli ultimi due giorni prende il sopravvento. Divento sempre più distratta le miei braccia si agitano convulsamente intorno al corpo, il manico dell'ascia mi sfugge dalla presa. Sento delle dita rotte arrotolarsi intorno al mio polso, indietreggio di scatto, lancio un urlo. Ovunque guardi vedo Sconsacrati sbucare fuori dalle tenebre. Sono accerchiata. Mi impongo di non farmi prendere dal panico. Afferro l'ascia con entrambe le mani e comincio a sferrare colpi, correndo lungo il corridoio libero che mi sono creata con l'arma. Intorno a me cadono brandelli di carne, e il cic ciac dell'acciaio che incontra la putrefazione si mescola al rumore della pioggia che martella il suolo, dei miei piedi che slittano nel fango. Ma non basta. Barcollo. Delle mani mi agguantano i piedi. Rotolo sulla schiena. Mi batto. I muscoli delle mie braccia gridano per lo sforzo. Pianto i piedi, tentando di indietreggiare sul suolo fracido. Dappertutto, sono dappertutto. Sono incastrata, risucchiata con il corpo, in un pacciame di foglie, rami e terra inzuppata. Non riesco a liberarmi. Sono perduta. Alla fine, la Foresta, il suo potere ineluttabile, ha vinto. E lì sento le grida. Non di terrore, ma di rabbia. Sento la voce che mi dice di correre, e all'improvviso gli Sconsacrati sono scomparsi. Una mano si abbassa verso di me, mi solleva in piedi. Mi spinge in avanti. E Jed. Sta infuriando a colpi di lama di fianco a me. Dalla Foresta emerge un nuovo rumore: il rumore di acqua che scroscia. «Di qua» sollecito Jed tirandolo verso di me, e insieme corriamo nella direzione del

rumore. Tuffa un tratto il terreno digrada bruscamente sotto di noi, e ruzzoliamo lungo un ripido pendio, aggrappandoti l'uno all'altra. Mollo l'ascia e uso le mani per arrestare la caduta, tentando di appigliarmi alle zolle di terra. Pianto piedi, gomiti e ginocchia nel suolo, mentre la pelle delicata all'interno delle braccia viene scavata dai rami, le gambe raschiate dai sassolini, la guancia percossa da un rovo. Infine mi fermo. Faccio un respiro profondo, che sotto la pioggia quasi mi strozza. Ho il corpo che pulsa in troppi punti, non saprei nemmeno contarli. Vorrei solo restare qui ferma, capire l'entità delle lesioni che ho subito cadendo. Ma quando sento i gemiti, e l'acqua che scroscia ancora più da vicino, mi spingo sulle ginocchia. Alzo gli occhi e vedo l'orda di Sconsacrati in cima alla collina, la osservo precipitare verso di noi. Arrivano rotolandomi intorno, le braccia larghe e le bocche aperte. In mezzo a tutti quei corpi è impossibile trovare Jed. Terrorizzata, comincio a gridare il suo nome. Alla fine lo vedo. È in piedi sul punto in cui è riuscito a fermarsi, e mi sta guardando. Proprio in quel momento uno Sconsacrato corpulento che sta piombando attraverso la viscida collina si schianta in pieno su di lui. Jed balza in aria e atterra di schiena con un rumore sordo. Mi lancio verso di lui. Lo Sconsacrato riprende equilibrio, mentre io scivolo e resto con i piedi intrappolati nella melma. Non trovando più l'ascia, prendo un ramo e lo scaglio contro gli Sconsacrati che mi strisciano intorno. «Jed!» urlo. «Sto arrivando, Jed, tieni duro!» I miei occhi si riempiono di lacrime inutili, che mi accecano. Le asciugo con un braccio, il che aggrava solo il problema, perché mi ritrovo con le ciglia tutte imbrattate di fango. Jed giace immobile. Lo Sconsacrato gli si avvicina. Quando li ho quasi raggiunti, gli è praticamente sopra. Mi metto a urlare, sperando di distrarlo, sperando di evitare che morda mio fratello. Fa per abbassarsi, allora gli lancio addosso il grosso ramo che ho in mano. Gli rimbalza sulla testa, e lui alza gli occhi verso di me. Per un momento credo di esserci riuscita. Penso di averlo adescato.

Ma poi, con la ferocia di una belva, si getta su Jed e abbassa la testa. In quel momento inciampo e cado su un ginocchio, quello già ferito. Il dolore mi fa vedere le stelle. Sento una mano che mi gratta la schiena; mi giro e sferzo un pugno contro una Sconsacrata con tutta la forza che ho. Lei indietreggia, barcollando. Giusto il tempo di accorgermi che sono inciampata proprio sulla falce di Jed. Stringo le dita intorno al manico di legno liscio e ritrovo la sensazione che avevo avuto quando l'avevo usata per uccidere Travis. Con un grande colpo circolare faccio fuori la donna Sconsacrata, quindi mi dirigo verso Jed e colpisco anche lo Sconsacrato. E' una morte sanguinolenta, e non capisco se Jed sia stato morso. C'è sangue ovunque; la caduta ci ha procurato tagli sulle braccia, sul volto, sulle gambe. Jed non ha ancora ripreso conoscenza, ma ha il torace che si alza e si abbassa. Lo strattono, gli scrollo la spalla. In quel mentre avanzano verso di noi un paio di Sconsacrati bambini. Abbandono Jed e vado loro incontro, le dita lasche intorno al manico della falce. Gli Sconsacrati non hanno avidità, non hanno talento per la caccia. La loro unica forza è data dall'abbondanza numerica: è quella che li fa prevalere sugli umani. Così, quando i due bambini si avvicinano, non ho alcun problema a colpirli. A osservare la lama che recide i loro crani. Entrambi crollano a terra, diventando un mucchio di vestiti intorno a carne rinsecchita. «Andiamo, Jed» dico. Tomo al suo fianco e riprendo a strattonargli le braccia. «Dobbiamo muoverci!» Riapre gli occhi, ma non riesce a rialzarsi con le gambe. I suoi movimenti sono lenti, scoordinati. Continuo a tirargli le braccia, a cimarmi nel fango, ma scivolo troppo per arrivare a un dunque. Viene avanti un altro gruppo di Sconsacrati, e devo lasciare Jed per continuare a combattere. E un flusso senza fine. Guardo in cima alla collina e vedo che ne stanno arrivando altri. Ora sono certa che morirò così. Che ho scelto male. Che questo non era il sentiero che dovevo prendere. Il cancello era soltanto un cancello. Non era una risposta. Ci sono troppi Sconsacrati che incombono. Troppi per potermi difendere.

35 [eBL 036 by Marika & Elena77]

Una mano mi afferra per i fianchi, e sto per sferrare un colpo quando mi accorgo che è Jed. La lama si arresta giusto prima di aprirgli la gola. È ricurvo in avanti, il viso tirato in una smorfia di dolore. «Di qua» dice. Mi guardo alle spalle, vedo l'orda che avanza minacciosa verso di noi. È troppo buio per vedere quanti sono, ma so che sono abbastanza da schiacciarci. «C'è un fiume qui vicino» dice. «Là saremo più sicuri.» Annuisco, e Jed prende la guida, zoppicando. Provo a sorreggerlo, ad aiutarlo, ma i miei piedi non trovano aderenza e continuo a scivolare. Lo scroscio dell'acqua si infrange nelle mie orecchie e Jed finisce col rallentare, facendo scorrere i piedi come per testare qualcosa. «Dobbiamo andare più veloci» gli dico. «Sono di nuovo troppo vicini.» Alza una mano, e taccio. «Qui» mi dice. Faccio per passargli davanti per vedere cosa mi stia indicando, ma mi trattiene all'ultimo momento, proprio quando sento il piede destro sprofondare nel nulla. Si mette in ginocchio, io faccio altrettanto. Procediamo entrambi in quel modo, poi a un certo punto sento il vuoto sotto le mani. C'è una gola, erosa dal fiume. Proprio sopra il fiume vedo un'enorme cascata che rimescola e vomita detriti nell’oscurità. Lo scroscio dell'acqua è assordante, alimentato dal temporale. A valle, le onde scintillano nel fiume schiumoso, spumeggiante, affamato. E uno spettacolo spaventoso da qui sopra, e devo conficcare le dita nel fango. Jed oscilla un piede nel vuoto, oltre la cresta del precipizio vicino alla cascata. Gli prendo una mano. «Cosa fai?» gli domando. La tensione mi incrina la voce. «E troppo alto per saltare» mi dice. «Potrebbero esserci rocce che non vediamo. Dobbiamo calarci.» Sto già scrollando il capo. «Il terreno è troppo molle, non ce la faremo mai.»

Mi afferra la mano, mi tira di fianco e mi piega le dita intorno a qualcosa di solido reso viscido dalla pioggia. «Le radici» mi dice. «Possiamo usarle come corda. Fa' attenzione alle rocce,» aggiunge «la pioggia potrebbe averle rese un appiglio insicuro.» Sono ancora perplessa. Non posso scendere con la falce, e allo stesso tempo mi secca privarmene. Ma poi l'orda di Sconsacrati si abbatte su di noi e Jed mi spinge oltre la cresta prima che il primo di loro riesca a colpirmi, così lascio cadere l'arma nel buio di sotto e mi aggrappo alla terra molle per trovare un appiglio. Cominciano a rotolare intorno a noi, sbattendoci addosso, afferrandosi a noi durante la discesa del dirupo. «Tieniti!» mi urla Jed. Il flusso di Sconsacrati non si arresta; scivolano con le braccia tese verso di noi, costringendoci a scendere più in basso. E così ci caliamo strascicando i piedi, finché non trovo un piccolo strapiombo che mi ripari dalla valanga di corpi. Non li sento urtare contro l'acqua, e non mi azzardo nemmeno a guardare. Jed mi raggiunge sulla minuscola sporgenza, e insieme ci incolliamo al fianco della parete di terra, piantando le dita nel fango, tenendoci aggrappati a cespugli e radici. La pioggia ci batte ancora sulla schiena, e i tuoni si mescolano al rumore delle rapide riverberandosi tutto intorno. Durante le scariche di luce dei fulmini vedo gli Sconsacrati che si dimenano nell'acqua in fondo al precipizio. Dopo un secondo realizzo che Jed mi ha detto qualcosa, e mi allungo per sentire la sua voce. «...Scusa, Mary.» «Cosa?» strillo. «Ho detto 'scusa'» mi ripete. E questa volta lo sento. «Perché sei venuto al di qua del cancello?» gli domando. «Perché sono il tuo fratello maggiore.» Sorride, poi scoppia a ridere. «E voglio credere nella speranza.» E anch’io non riesco a trattenere un piccolo sorriso. E quasi comico ritrovarci appesi sul fianco di un dirupo durante un temporale, senza vedere nulla se non Sconsacrati che cadono insieme alla pioggia. Per un momento siamo solo noi due, come era prima di Beth, di Harry, di Travis. Prima

che nostro padre e nostra madre si trasformassero, e noi ci dividessimo. «Grazie» gli dico. Sta per rispondere quando uno Sconsacrato gli piomba addosso, urtandolo e sbattendolo via da me, facendolo sparire nel nulla. «Jed!» grido. Urlo il suo nome un'infinità di volte scendendo precipitosamente lungo il dirupo, tenendomi su radici, rami e rocce, talvolta perdendo la presa e slittando fino a frenare la caduta. Mi ritrovo in prossimità dell'acqua, che è un rimescolio di rami e di corpi. Creste che si accavallano. Nessun ordine, solo il caos. Talvolta riaffiora una testa in superficie, ma mai abbastanza a lungo da consentirmi di vedere la faccia. Delle braccia si agitano convulsamente, ma è impossibile capire se siano le braccia di Jed o degli Sconsacrati. E un cadere continuo di corpi nell'acqua, una sequenza incessante di schizzi che si mescolano alle onde. Mi rendo conto che in qualche punto la corrente è incredibilmente veloce, quindi comincio a discendere il dirupo lateralmente, tentando di progredire verso valle. Sperando che Jed abbia trovato un appiglio, qualcosa per tirarsi fuori dall'acqua. Più la notte si consuma, più le mie ricerche diventano frenetiche, disperate. Trovo un albero che si è riversato sull'acqua e lentamente mi trascino sopra di esso, sorreggendomi sulla corteccia ruvida con le cosce. Procedo sotto la pioggia che mi martella la schiena, tra le folate di vento che infuriano nella gola, tanto che devo stringermi all'albero per non cadere. Quando sono sopra l'acqua, esamino la superficie sottostante. Il fiume si ingorga in corrispondenza di un enorme tronco incastrato in una strettura della gola, e in quel punto l'acqua comincia a risalire. Si riversano onde anche sopra di me. Faccio per indietreggiare lungo l'albero, e sono così concentrata che non lo vedo. Un braccio esce dall'acqua. Mi prende. Mi tira dentro. Mi spinge giù. Tiro calci, mi dimeno, mi rigiro. Qualcosa mi tira i capelli. La mia testa riaffiora in superficie, e per un frangente di secondo credo che mi abbia soccorsa Jed. Che mi abbia riportata lui in superficie.

Ma poi vedo la testa, la fame, i denti. Reagisco, mi spingo sull'acqua con tutte le mie forze. Lotto contro la corrente che mi precipita addosso. Dei lampi fendono il cielo, e riesco a distinguere chiaramente quello che ho intorno. Vedo i corpi insieme a una miriade di rifiuti, in un vortice caotico. E poi il nulla.

Sogno di essere tornata nella radura della Foresta, quella dove mi aveva portato Sorella Tabitha attraverso i cunicoli sotterranei della Cattedrale. La Foresta tace. Non ci sono zanzare che ronzano, né uccelli che cantano. Sono sola. All'improvviso tutto crolla. Il rumore ritorna sotto forma di vocio, ed è mia madre che urla mentre si trasforma. Vedo Sconsacrati che si precipitano verso di me dalla Foresta, tutti veloci, tutti con gilè color rosso acceso. C'è mia madre, e ci sono Jed, Cass, Harry e Jacob. Continuo a vedere e rivedere i loro visi che si gettano su di me, hanno fame di me. Assalita dal panico, mi ricordo delle reti. Ci sono le reti che mi proteggono. Provo a grattare per trovare l'ingresso del cunicolo ma non c'è. Il suolo è liscio; non c'è nemmeno un bastone da usare come arma. Gli Sconsacrati colpiscono le maglie di metallo del recinto, le spingono, le tirano. I loro gemiti mi scoppiano in testa. Mi chiamano. «Mary... Mary... Mary.» Ed è come una nenia, una preghiera. Hanno le bocche che colano sangue. Tutti gli Sconsacrati sono mia madre, Harry, Jed, Cass o Jacob. Sollevano le mani verso di me, mi puntano contro le dita come artigli. Sento che mi accusano, ed è come un colpo, come un vento feroce che si abbatte su di me. Poi il recinto svanisce. Non c'è più nulla che ci separi. E loro mi vengono incontro strisciando. Strisciano come Gabrielle quando l'ho vista l'ultima volta. La mia unica speranza è che esauriscano le forze prima di raggiungermi. Ma li sento sulle gambe, mi tirano in basso. Mi sommergono, mi asfissiano. Non riesco a respirare. Affondano le mani su di me. È come se tutti insieme stessero tentando di infilarsi dentro la mia carne. Non riesco a fermarli, e loro arrivano, arrivano, arrivano, e alla fine mi inghiottiscono.

36 Mi risveglio al rumore del vento che corre tra gli alberi. Sono supina, le dita dei piedi irrorate dall'acqua. Il terreno mi sembra diverso. Madido. Morbido. Uniforme. Provo ad aprire gli occhi, ma il forte sole mi acceca, lanciandomi pugnalate di dolore acuto dentro la testa. Anche il resto del corpo urla per lo strazio. Libero un gemito. Per un po' resto distesa così. Respirando, ricordando il sogno, sentendomi in colpa per aver perso Jed. Vorrei accartocciarmi su me stessa, strapparmi i capelli. Ma il corpo mi duole troppo, e lascio che l'acqua mi solletichi i piedi, che il sole mi riscaldi le guance, che il corpo cessi di pulsare. L'aria che soffia tra gli alberi mi trasmette calma, serenità, e sto quasi riprecipitando nel nulla, felice di dimenticare il pensiero della Foresta, di Jed, della speranza, degli Sconsacrati, del sogno. Il rumore di qualcuno che scava mi ridesta. Il rumore di una vanga che spezza una radice, si immerge nella terra morbida ed esce di nuovo. È un rumore che conosco, e mi fa sorridere. La stagione del raccolto. Il momento di celebrare il sole e la primavera. Il rumore si avvicina sempre di più, e la sua ripetizione si unisce al ritmo del vento tra gli alberi componendo una sorta di ninnananna. Un'ombra mi cala sul viso, e apro gli occhi giusto in tempo per vedere un uomo sopra di me con una pala tra le mani. La solleva sopra la testa. D'istinto mi rotolo verso destra. La pala mi manca per un soffio e si conficca nella sabbia dove tenevo appoggiato il collo. L'uomo resta leggermente sbilanciato, con l'arnese seppellito nella sabbia. Mi butto indietro sui calcagni. Quando tira il manico con un colpo secco, alzo le mani. «Aspetti, aspetti!» gli urlo, e lui si ferma. Allenta la presa e mi guarda con un'espressione strana, incuriosita. «Tu non...» Si interrompe. «Tu non sei morta» dice infine. «Lo sarei, se fosse stato per lei» rispondo. Tengo le mani alzate e faccio per defilarmi. Qualcosa dietro di lui attira la mia attenzione: una donna Sconsacrata dai capelli stopposi avanza con passo incerto alle sue spalle. «Attenzione!» strillo. Si volta e la decapita con un abile colpo. Lentamente la donna cade a terra.

Volge di nuovo lo sguardo su di me e inizia a parlare, ma le sue parole non riescono a penetrare il mio stordimento. Tutto ad un tratto, scoprendo il mondo che ho intorno, ho le vertigini. Di fianco a me c'è una distesa d'acqua che si estende all’infinito. «L'oceano» sussurro. E subito mi ritorna in mente la notte appena trascorsa. «Jed» dico ansimando. Mi alzo, barcollo e inizio a correre lungo la spiaggia, esaminando i corpi gettati a riva. Hanno quasi tutti le teste mozzate; senza dubbio opera dell'uomo che mi sta richiamando. «Cosa cerchi?» mi strilla. «Mio fratello!» grido. «Era con me, e ora...» La spiaggia è ricoperta da centinaia di Sconsacrati. Sono sul punto di girarne uno per vederlo in volto, quando l'uomo mi raggiunge e mi tira indietro «Ehi!» mi dice. «Attenta a quello che fai. C'è ancora qualche Mudo pericoloso.» Mi spinge da una parte e capovolge il corpo con la pala. Io mi copro gli occhi con le mani, sbirciando fra le dita. Ma non è Jed. Ripetiamo la stessa operazione per tutti i corpi sulla spiaggia. Ogni volta mi si rivolta lo stomaco, e continuo a pregare di non aver causato la morte di mio fratello. L'uomo mi accompagna paziente da un corpo all’altro, girandoli per farmeli vedere, poi decapitandoli rapidamente, con la stessa disinvoltura con cui scava nella terra. Controlliamo tutti i corpi della spiaggia. Ma non troviamo Jed. «La costa è lunga» dice infine l'uomo. «Forse è risalito da un'altra parte. E pericoloso uscire da questa baia, ma ti ci posso portare, se vuoi. Oppure potrebbe ancora risalire qui. Non si sa mai. In genere dopo una tempesta come quella di ieri sera arriva roba per giorni e giorni.» Cammino fino al bordo dell'acqua, e lui mi segue. «Perché li chiama 'Mudo'?» gli chiedo. Sembra spiazzato dalla mia domanda. Arrossisce perfino un po'. «Forse mi piace di più» risponde, con una voce vagamente borbottata. «E così che li chiamano i pirati che cacciano lungo la costa. Significa 'muto'.» Alza le spalle. «Direi che calza.»

«Dove mi trovo?» chiedo, tenendo lo sguardo fisso sulla linea dove l'acqua incontra il cielo. «Questa spiaggia non ha realmente un nome. Non da dopo il Ritorno, ecco.» Pianto le dita dei piedi nella sabbia fine. Un'altra onda mi sbatte contro le caviglie, e sprofondo leggermente. Quando l'acqua salata lambisce la mia pelle ferita, i tagli che ho sui polpacci protestano stizziti. «Non avevo mai visto l'oceano» dico. Chissà cosa avrebbe pensato Jed di fronte a questa distesa d'acqua. Chissà se Travis sarebbe fiero del fatto che alla fine ci sono arrivata. Che sono sopravvissuta. Crollo sulle ginocchia, e l'uomo sobbalza, allarmato. Viene ad accovacciarsi accanto a me, e restiamo a guardare il sole che fa brillare l'acqua. «Di solito non è mai così pieno di detriti» mi spiega l'uomo. «Le tempeste come quella di ieri sera fanno scaricare un sacco di pezzi di legno dal fiume, rimescolano un po' le cose e l'acqua diventa torbida. Ma non avevo ancora mai visto così tanti Mudo.» Mi piace il suono della sua voce. La sua profondità, il suo timbro. Mi ricorda Travis, si fonde al mio ricordo della voce cha aveva, di come le parole uscivano dalla sua bocca. «Io vivo al faro, laggiù» mi dice, indicando un'alta torre a strisce oblique nere che sormonta la collina oltre la spiaggia. «Il mio lavoro, dopo le tempeste, è di venire a decapitare tutti quelli che risalgono, per impedire che entrino in città.» Mi guardo intorno. Guardo tutti i corpi degli Sconsacrati disseminati sulla spiaggia. «Che strage!» commento. Lui alza le spalle. «La marea li spazzerà di nuovo via» mi dice. «Tempo sei ore circa e nessuno direbbe più che ci sia stato dell'altro, oltre alla sabbia e alle onde. La spiag gia tornerà a essere quello che è sempre. Una spiaggia.» «Ma ne arriveranno altri» replico. «Ne arrivano sempre altri.» Scrolla le spalle. «Così è la vita. Ci sono giorni in cui ti svegli e la spiaggia è pulita, e ti dimentichi di tutto ciò che ci circonda. Altri giorni ti svegli e ti ritrovi davanti questo scenario. E la natura delle maree.»

Sposta leggermente il peso da un piede all'altro. «Questo non significa che non valga la pena stare qui.» Mi chino verso l'acqua per immergere le dita. «E sicuro?» gli chiedo. «Nell'acqua?» Scrolla di nuovo le spalle. «Abbastanza» risponde. «Questa è una marea calante; ha cessato di trasportare Mudo dall'oceano.» Entro in acqua. Le onde mi vengono addosso, e devo lottare contro la loro spinta per riuscire a coltrarmi. A un certo punto i miei piedi non toccano più terra. L'uomo resta sulla spiaggia a guardare, la punta della pala seppellita nella sabbia davanti a sé, le mani ripiegate sul manico. Aspetta che ritorni. Batto i piedi, mi metto sul dorso, mi faccio cullare dall’acqua. Mi tocco le labbra con le dita, le lecco per sentire il gusto del sale. Per un po' mi abbandono all'acqua che mi spinge, mi tira, mi risolleva, mi trattiene quando cado. Osservo il cielo, le nuvole, il sole, gli uccelli che mi sfrecciano sopra. Attendo un senso di pace e di felicità, ma riesco solo a pensare a Travis, a Harry, a Cass e a Jacob. Al fatto che ho perso tutto, a parte questo posto. Provo a pensare a Jed, ma la vergogna mi trattiene dal ricordo di come mi abbia raggiunto. Di come sia morto salvandomi. Poi penso che forse potrebbe essere fiero che ci sia arrivata, che sia sopravvissuta. Potrebbe essere fiero di avermi seguito in quella foresta sapendo quello che faceva. Mi sento il peso della sua speranza sulle spalle. Sollevo la testa dall'acqua e mi accorgo che sto rifluendo a riva. Mi spingo contro la corrente, lascio che le onde mi trascinino verso la sabbia. Mi incammino di nuovo verso l'uomo, con la sensazione di avere gli arti pesanti, smagriti, ora che sono uscita dall'acqua. Lui mi sorride, e io non riesco a non rispondergli con un altro sorriso. «Posso chiederti da dove vieni?» mi domanda guardando le onde che si infrangono a riva. «Dalla Foresta» gli dico. «Dalla Foresta degli amori perduti.» Mi guarda con la coda dell'occhio. «Mi sono sempre chiesto se ci fosse gente là dentro» dice. «Ma non l'avevo mai sentita chiamare con questo nome. Si presta bene, suppongo.»

«In che senso?» gli chiedo. «Cioè, io sono cresciuto qui. Ai margini di quella foresta. E tutti dicono sempre che non ci sono altro che Mudo dopo il fiume, al di là dei recinti. E per questo che hanno creato tutti quei sentieri protetti che portavano dalla foresta alla città, quando mio nonno era piccolo. Cerano troppi bambini che finivano nei guai pensando che il sentiero portasse in qualche posto interessante. Il ponte che attraversa la cascata c'è ancora, ma alla fine c'è un cancello e poi più niente.» Penso al nostro cancello, alla pioggia che ha mascherato il rumore della cascata finché non ci siamo arrivati proprio sopra. Con quel buio era impossibile vedere oltre il proprio corpo. Eravamo talmente concentrati sugli Sconsacrati, sulla fuga. Mi vengono i brividi a pensare che eravamo così vicini. Che c'era stato un sentiero, una volta, e che siamo finiti fuori strada scivolando nelle tenebre. «La gente non ama parlare di queste cose» dice. Si porta una mano davanti agli occhi per scrutare l'acqua, il mondo che ci circonda. «Forse hanno ragione» gli dico. Penso a Cass, a Harry e a Jacob, e mi dico che dovrà pur esserci un modo per salvarli dalla Foresta degli amori perduti. Penso ad Argos che sognava tempi migliori, agitando le zampe e sbattendo la coda ogni mattina, con un orecchio sollevato. Penso a Jed e a come mi ha sorriso stanotte. A come gli brillavano gli occhi mentre parlava di una possibile vita, di un possibile futuro. E poi rivedo Travis che mi avvicina a sé e mi parla di speranza. Nel mio ricordo ha una voce bassissima, che si disperde come un'eco esaurita. Chissà se sono ricordi che vale la pena conservare. Che valgono il loro fardello. Chissà a cosa servono. L'oceano già si riprende gli Sconsacrati dalla spiaggia: li trascina nell'acqua, li reclama. Per un po' resto a guardare. Quando la spiaggia è pulita, l'uomo mi prende per mano e mi conduce al faro.

[eBL 036 by Marika & Elena77]

Ringraziamenti Molti sostengono che la scrittura sia un mestiere solitario. Io ho avuto l'eccezionale fortuna di aver trovato amici e persone meravigliose che mi hanno sostenuta durante la fase di stesura, perciò ringrazio tutti coloro che mi hanno incoraggiata, consigliata e ascoltata nei miei deliri. Un ringraziamento speciale va al mio premuroso ed esilarante agente, Jim McCarthy, per aver scommesso su di me scegliendo La foresta degli amori perduti dalla pila di manoscritti di aspiranti scrittori, come pure alla mia geniale editor, Krista Marino, il cui entusiasmo e impegno sono stati stupefacenti. Mille grazie alla fantastica squadra di Delacorte Press, che ha lavorato infaticabilmente per verificare che ogni dettaglio fosse corretto; a Vikki Sheatsley e a Jonathan Barkat per il loro talento visivo, a Beverly Horowitz, Oriy Henry e Colleen Fellingham per tutto il tempo che hanno trascorso con Mary. Diana Peterfreund ed Erica Ridley mi hanno regalato entusiasmo, motivazione e critiche formidabili. La famiglia Davis ha saputo comprendermi quando avevo la testa fra le nuvole, e Jason Davis e JP hanno messo a disposizione le loro enormi competenze nei campi della biologia e della parassitologia per aiutarmi ad affinare l’universo del libro. Sono molto fiera e onorata del supporto ricevuto dalla mia famiglia. Non smetterò mai di ringraziare mia madre, Bobby Kidd, che ha sempre creduto che un giorno il mio libro sarebbe finito in una libreria; mio padre, Tony Ryan, che mi ha sempre sopportato durante le nostre lunghe discussioni su come si inventa un mondo; e le mie sorelle, Jenny Sell e Chris Warnick, da sempre le mie più grandi ammiratrici in tutti i percorsi che ho scelto. Grazie, vi voglio bene! Infine, ringrazio John Parke Davis per avermi portato a vedere quel primo film sugli zombie, per avermi tenuto la mano e avermi avvisata dei momenti più paurosi perché potessi reggere il colpo, e successivamente per aver trascorso innumerevoli ore a dibattere su come si possa sopravvivere a un'apocalisse di zombie. E, soprattutto, per avermi detto di scrivere ciò che amo, anche se comportava scrivere di zombie. Senza di te questo libro non esisterebbe.

Sull’ autrice Nata a cresciuta a Greenville, nella Carolina del Sud, Carrie Ryan si è laureata al Williams College e presso la Duke University Law School. Vive a Charlotte, nella Carolina del Nord, con il fidanzato scrittore/avvocato, due enormi gatti e un cagnolino un po' idiota. Nessuno di loro è preparato a un'apocalisse di zombie. Il suo sito è www.carrieryan.com.