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Italian Pages 482 S. [483] Year 1992
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Frane esco Adorno LA FILOSOFIA ANTICA I. La formazione del pensiero filosofico dalle origini a Platone VI-IV secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA II. Filosofia, cultura, scuole, tra Aristotele e Augusto IV-II secolo a.C. LA FILOSOFIA ANTICA III. Pensiero, culture e concezioni religiose II secolo a.C. -II secolo d.C. LA FILOSOFIA ANTICA IV. Cultura, filosofia, politica e religiosità II-VI secolo d.C.
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FRANCESCO ADORNO lA FnDSOFIA ANriCA m. Pensiero, culture e concezioni religiose n secolo a.C.- n secolo d.C.
~ Feltrinelli www.scribd.com/Baruhk
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione agosto 1961 Prima edizione nell"'Universale Economica" marzo 1992 ISBN 88-07-81137-5
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Parte prima
Le componenti del pensiero dal Il secolo a. C. ad Augusto
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Capitolo primo
Il compimento del pensiero greco e Roma
l. Cultura e tradizioni greche a RMna Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei filosofi greci a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di "categoria" che è divenuto il termine eclettismo, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica philosophiae, Il, Lipsia, 1742-44, p. 193) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosf parlato di eclettismo per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.) successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'eclettismo sarebbe, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidòne, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito Lucrezio Caro (98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il .secolo in cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa; che permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diver~ significato rispetto a quello di Car-
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neade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto ~ Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i termini de! mondo r.omano, della sua cultura e della sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della Repubblica) ha operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da città-stato, avente una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in impero, in mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e culture. · D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare con esattezza l'esistenza di una linea originaria e originale della tradizione romana, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale (168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che furono Cuma e l'Etruria prima (fin dall'viii secolo a.C.), Taranto, la Magna Grecia (282-266), la Sicilia (264-210) poi. A ·tal proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichiarare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una "filosofia," vede una tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della Città e un tipo di éthos, in una struttura di Stato aristocratico e contadino-militare, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione aristocratico-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime origini .di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo; il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare; però, quando lo Stato fu liberato dal regime monarchico, si verificò un progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni
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specie di primato. Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri antenati né della costituzione e del governo dello Stato... Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri antenati avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pltagora, che visse in Italia al tempo in cui liberò la patria Lucio Bruto... Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetrò anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni indizi. Infatti le grandi e potenti città greche dell'Italia meridionale, che appunto fu chiamata Magna Grecia, erano al culmine del loro splendore ed ivi aveva grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei Pitagorici: chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i Pitagorici anche il re Numa [che avrebbe regnato tra il 714 e il 671, molto prima del tempo di Pitagora] fu stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti .conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro progenitori avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re; ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perdeva nella lontananza del tempo, credettero che colui che primeggiava per sapienza fosse un alunno di Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'indizi sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente discussione, Si· dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica: e Catone, scrittore autorevolissimo, disse nelle sue Origini che presso i nostri antenati vigeva nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esisteva il canto applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche le Dodici Tavole rivelano che già allora si coltivava la poesia: una legge [tab. VIII) sanciva che non era lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono della lira: e questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di Appio Cieco [console nel 307 e nel, 296), che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone [di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi], è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai Pitagorici; ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi... Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a Lelio [detto sapiens, oratore, stoico, console nel 140] e Scipione [Emiliano]. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati dagli Ate-
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niesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade [155 a. C.] (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata l'unilateralità della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica austerità romana, cui poteva servire il t6pos della "vita pitagorica," e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della cultura greca, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si presentavano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'~atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal giovanile De inventùme, un manuale di retorica, al maturo De Orillore), non può concretamente agire, determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo greco e il mòndo romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di cicerone è incomprensibile, quando non si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche e giuridiche a _quelle in cui si· tenta di delineare il
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significato del vir bonus, dell' orator che, mediante il suo sapere, la sua virtus, sa inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta honestas. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e ·di società, si preoccupi dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da Cicerone - da quella di Sulpicio e di Scevola, a quella di Cotta, di Crasso e di Antonio, a quella dei Gracchi e di Ortensio, di Bruto - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal De inventione al De Oratore, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in oratoria, cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (eloquenza) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che "ragionevolmente" - anche dell'ordine del tutto e della realtà e del divino - può essere accettato (consensus gentium ), donde, nel conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla Retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle "ipotesi" (discussione giuridica di casi particolari), alle "tesi" (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli Stoici - la cui casistica e discussione scclastica, offriva larga mèsse per le "tesi " -, ma anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto contrasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità... (Tusc. disp., IV, 4).
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Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza portava Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi elaborati dai greci, aveva cercato di dare una consapevolezza critica (filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né meramente precettistica e scolastica: Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1).
Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cos( via), ché, sempre, anche quando Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro punti fondamentali : l) La cultura greca, in senso stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in Roma sotto forma di insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci, soprattutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~reci erano richiesti dai romani
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delle classi superion, m quanto strumento per una formazione culturale che servisse alla vita politica. 3) Anche i maestri piu noti e i capiscuola di Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente. 4) Nessun romano, discepolo di piu di un maestro greco e attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare, consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della "vita contemplativa," o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato e dell'Impero.
2. Filosofia, retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone Rispetto al primo punto sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui Cicerone riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla conquista del mondo greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei maestri greci, fu veramente con incredibile studio che i romani s'infiammarono per l'eloquenza ... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) aveva la retorica, e poiché incontrarono presso i greci e le scuole gr.eche la piu ampia discussione e pre-
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cisazione di quell'arte, si servirono dei greci, trovand6 numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto ('Zl2), quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegnamento privato del greco, ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegnava Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola greca, 'l'insegnamento secondario. L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storio dell'èducazione nell'antic/Utà, trad. it., Roma 1950, p. 333). "L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m secolo a. C .. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che non possedeva una letteratura nazionale? Di qui il paradosso, che non è forse stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente data in greco. Il primo poeta latino, che ~ anche il primo professore di letteratura latina, è quello stesso Livio Andronico di Taranto che abbiamo segnalato come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli tradusse in latino l'Odiss.ea, servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio... Tale traduzione era per Andronico un testo che egli spiegava, praelegehat, parallelamente ai classici greci (Svet., Gram., 1, 1). Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia latina, ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario: due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci, continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango di .classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò definitivamente la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano benissimo il greco e già lo usavano come lingua diplomatica, per cui non ebbero· piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata per tutto il secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i! discorso, sul piano del conte-
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nuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento superiore, servi ai romani, che avevano possibilità di fare carriera politica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione, .s1 come per l'insegnamento secondario serviva la grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indi~ scriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica, indipendentemente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse mediante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toccavano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si discuteva il pro e il contro di casi particolari in relazione a testi di. legge, in modo astratto e precettistico; ma questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in T eofrasto, esse vennero poste in primo piano da Ermagora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici. L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i giovani colti, col suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica, dunque, non presentava soltanto l'insegnamento di una precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discussioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuridici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato, poi, a seconda dell'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio (XXXI, 24) testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero di maestri greci. Del 161 è il Senatoconsulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore della razza del celebre Catone "il Censore" (234-149) 1 si preoccupasse del1
Nato nella Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio Catone, di una famiglia
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l'introduzione in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo tempo, ch'egli considerava dei degenerati.
t sf bene - scriveva nei celebri Praecepta ad filium - avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. Razza cattivissima e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei Greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice questo: se, quando che sia, codesta gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se verranno qua i suoi medici. Hanno congiurato di ammazzare con la loro medicina tutti i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne temeva le possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )>ata non sia diminuita da parte dello Stato ... _, L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Gli Stati furono costituiti e le comunità cittadine furono ordinate appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomi~i": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine
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dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere... Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste proprietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto, sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come ordine gerarchico e armO. nico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere assoluto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon ), nella cui attuazione consiste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci .lo chiamano xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov. E cosf
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definiscono questi doveri, in modo da stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune .quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel prendere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé 1 (co gnitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realizzazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre il complesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali1 (De ofJ., I, 7-34) all'educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle abitazioni (1, 39) e cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, esteticamente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e misura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa ... consiste il decoro, che in greco si dice 7tpé7tov, prépon" (De off., l, 27, 93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rapporto di equilibrio e di rispetto, in cui sta l' humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro, che, in quanto armonico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. Qualunque
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cosa infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assennatezza e prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero... La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa nobiltà... A noi la natura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura stessa essendo state assegnate le parti della costanza, della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle: .membra attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri ... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza ... (Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
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di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di realizzazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quell'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza morale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttarele indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come un'enciclopedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce : la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di ciascuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità razionale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formulando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in particolare si erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto costruzione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel co-
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stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, diverso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve essere, potendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costituito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradualmente, da quella Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come malinconicamente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole situazioni politiche delle città greche, condizione della possibile realizzazione dell'armonia delle genti ed internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esaltato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che Polibio, rifacendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Scipione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di lui, Polibio accompagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine ( 146), sia in quella contro Numanzio ( 134 ). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58),
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libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui fatti, • pragmatica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata? (I, l)... Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una unitaria visione d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo... (I, 4).
E nel VI libro si legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi bastano a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse considerato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora .ai nOstri giorni, sono le stesse (VI, 11)... Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia.
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necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la. loro costituzione è perfetta sotto tutti i riguardi. Quando poi, liberati dai timori esterni, essi godono del benessere seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa ... (VI, 18).
Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10). Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella oclocrazia (potere della plebe). "La moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca" (VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano, decadono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu alta forma di democrazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costituito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con-
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tro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) - fa dire Cicerone a Scipione - è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo potrebbe rimanere isolato 1. Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la società... Tutta la popolazione, che è costituita da un raggruppamento di gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente, onde essere duraturo... [Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi. 1 Da questa suole sorgere il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordinamenti politici; è proprio del filosofo conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al governo dello Stato, moderandone il corso e mantenendolo in propria potestà, questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento, moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1 che ho menzionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29).
Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto razionalmente ordinato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il tentativo di un ordinamento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua giustificazione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine naturale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se formalmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto
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naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di una nazione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti : e la risposta non può essere rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effettuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica, quando l'influenza della filosofia politica greca era forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma. e delle vicine tribu da ultime assoggettate - con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a considerare come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp. 136-37). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe dirigente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scan-
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disce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retoricamente espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per gli epicurei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razionalità è conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rielaborazione del concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo, Panezio) vien data del diritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rappresenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle particolarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI).
Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e convenzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice: ·
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Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo... ; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono considerati supplizi (Cic., De rep., III, 33).
Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali de) T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occorrendo anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa .per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione... (Leggi, l, 19-20).
Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epicurea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - " non temo che mi senta alcuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico, infatti,
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la comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa mediante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve mantenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la funzione cosmica (ordinatrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere convenientemente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, rispetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della parola "della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giustizia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giustizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fondamento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per· altro verso, studio delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruotarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a cominciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa), avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. FanDio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Augure (174 circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro di V arrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giustizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cicerone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le concezioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-
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giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Valerio Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico compiuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo suicidio è rimasto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.).
4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo. quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una. pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città grecosiriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a. C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove, ·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scientifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato dalle maggiori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò appositamente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli tramandati: Fisica {~cnxòç ).6yoç l; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OU l; Sugli dèi (IIe:pt &t:wv l; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\l l; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJç l; Sulla divinazione (IIt:pl I'(XVTLlrijc;; l; Sulla anima (IIcpl ~U)('ijt; l; Introduzione al linguaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl criterio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(XyV.CC mpt 6py'ijç l; Sulle virtu (IIa:pl~~'lipCTW\1 l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc; l ; Protrepttci (IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc; l; Esege# del Timeo di Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10ste che i settantadue sapienti traduttori ebrei avrebbero dato a settantadue
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domande poste dal re su come si debba governare, dimostrano da un lato l'artificiosità della lettera, ma dall'altro che al tempo in cui essa fu scritta, entro. il quadro di ·un'interpretazione, ormai consolidatasi, della concezione ebraica in chiave di un qual certo diffuso platonismo e stoicismo, anzi di certi diffusi motivi religiosi, era possibile alla comunità ebraica di Aless~ndria inserirsi, anche politicamente, nell'àmbito della struttura soc~ale delle monarchie ellenistiche. I motivi di fondo sono simili a quelli che abbiamo già veduto. Essere e divinità coincidono: dio è ordine e legge, e, in quanto tale, è provvidenza e bontà. Uno, dio, egli è monarca dell'Universo. Divino, in terra, è il monarca, in quanto imita dio, è del suo stesso genere. "Come posso mantenere saldo il regno sino alla fine? " chiede T olomeo, e a lui rispondono i saggi ebrei: "Imitando la continua bontà di Dio" (188, ed. W endland), volgendosi sempre a dio e adorandolo, ma non con doni e sacrifizi, bens1 con animo puro {tò TtfL«v -ròv &e6v· -ro\ho 3'èCJTtv où 3wpott; où3è .&ualncezione e .Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina quello della morte: "Nascentes morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cumont, Les religions orienta/es, Parigi, 1906, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di· contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità ·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dall'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibilità di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risolveva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divinazione e predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze
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astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo documentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si solevano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro origine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divinazione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui particolarmente al mazdeismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel, autore di Babilonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avvenimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle influenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si riconosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciar li" (F. Cumont, Les religions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto,
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non vanno dimenticate le suggestioni di certi rituali egiziani, che mediante la precisione delle parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che poi rifluirono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intravedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n secolo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assumendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"), -donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di provenienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I secolo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s( come non è un .caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astrologiche, interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oongettusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto (Augusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di com-
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tra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura dell'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infiniti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.).
Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una interpretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu : in Manilio è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orientale. In un codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dottrina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a. C.: cfr. B. A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, secondo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oroscopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekatemoria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la sistemamedie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico liberamente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da includere nei Fenomeni, a loro completamento.
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zione del tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, orizzonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro natura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei dodici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e microcosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto domina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo.
"Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attraverso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo discende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, sistemando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del
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suo mordente magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vogliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali perciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rivelata a chi sappia contemplarla : Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32).
Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14).
Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stellari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare riferimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistemazione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determinando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini,
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senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il significato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appariva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacrifici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10).
E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione dell'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama : Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto contro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di persuasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine
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egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, interpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espressione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irrevocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le pràtiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenusque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66) ... Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chiederle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tuttavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di contro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egiziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la causalità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storicamènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla imposizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi-
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bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizzazione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico dell'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divinazione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisicomatematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, 1908, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati dell'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-matematici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, riprodotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte? ... ] non giunsero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante destino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' ( Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candidamente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4).
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3. Lo «stoicismo" nella prima metà del l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste concezioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt istituzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esigenze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono realmente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vogliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal principio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel II secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Calvisio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d 'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche
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esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato all'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova imperatrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrippina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messalina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d 'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane imperatore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita · allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scrivere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come
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I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la· tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati accusato di a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Sencca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carattere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, Ad Marciam de consolatione, De uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir