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Italian Pages 223 [224] Year 2007
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Jean-Luc Nancy
Decostruzione del cristianesimo I
Cronopio
Farla finita innanzitutto con lo schema unilaterale di Un certo razionalismo secondo il quale l'Occidente moderno si sarebbe affermato contro il cristianesimo e sottraendosi al suo oscurantismo (curiosamente, lo stesso Heidegger ripeterà, a modo suo, qualcosa di questo schema): perché si tratta di comprendere come il monoteismo in generale e il cristianesimo in particolare abbiano contribuito a generare l'Occidente. Bloccare, però, anche ogni tentativo di "guarire" i "mali" del mondo attuale (la sua privazione di senso) con un ritor no al cristianesimo in particolare, o alla religione in generale: poiché si tratta di comprendere come siamo già usciti dal rciig -o Domandarsi quindi nuovamente che cosa, senza negare il cristianesimo ma senza neanche tornare a esso, potrebbe » ci verso ; > ma rise ri > sommersa s il ci • stianesimo, sotto il monoteismo e sotto l'Occidente, che bisognerebbe ormai mettere in luce: perché questo punto aprirebbe, insomma, a un avvenire del mondo che non sarebbe più né cristiano, né anti-cristiano, né monoteista né ateista o politeista- ma capace di andare proprio al di là di tutte que• : e c > ego; » • - d( >po ? vet - ; :se atte pos; i »ili Jean-Luc Nancy
Di Jean-Luc Nancy Cronopio ha pubblicato: La comunità inoperosa (20033)> La comparizione, in Aa. Vv., Politica (1993), Corpus (20043), Hegel L'inquietudine del negativo (1998), L'intruso •;'2QQ62), Tre saggi sull'immagine (2002), Sull'agire Heidegger e
>35).
ISBN 978-83-89446-19-6
Euro 20,00
I
Jean-Luc Nancy
La dischiusura Decostruzione del cristianesimo I
traduzione di
Rolando Deval Antonella Moscati
titolo originale La Déclosion (Déconstruction du christianisme,
1)
l
Opera pubblicata con il contributo dell'Ambasciata di Francia/ B.C.L.A. e del Ministero degli Affari Esteri francese.
£) 2005 Éditions Galilée E) 2007 Edizioni Cronopio balata Trinità Maggiore, 4 - 8 0 1 3 4 Napoli rel./fax 0815518778 www.cronopio.it :-mail: [email protected] [SBN 978-88-89446-19-5
Indice
Ouverture
7
Ateismo e monoteismo
25
Decostruzione del monoteismo
43
Il giudeo-cristiano
59
Una fede da niente
81
Lontano dalla sostanza: fin dove?
97
L'esperienza di un cuore
111
Verbum caro factum
119
Il nome di Dio in Blanchot
123
Resurrezione di Blanchot
129
Consolazione, desolazione
141
Di un Wink divino
149
Un'esenzione di senso
173
"Preghiera demitizzata"
183
La decostruzione del cristianesimo
195
La dischiusura
219
Ouverture
1. L'assenza
di eredi e la pietà
Non si tratta di risuscitare la religione, neppure quella che Kant voleva contenere "nei limiti della semplice ragione". Ma si tratta di aprire la semplice ragione all'illimitatezza che ne costituisce la verità. Non si tratta di mitigare una deficienza della ragione, ma di liberarla senza riserve: una volta rese tutte le ragioni, indicare ciò che resta al di là della restituzione. Non si tratta di ridipingere i cieli, né di riconfigurarli: si tratta di aprire la terra oscura e dura e perduta nello spazio.
Non si tratta di salvare la religione, e ancor meno di farvi ritorno. Il "ritorno del religioso", di cui tanto si parla e che indica un fenomeno reale, non merita maggiore attenzione di qualsiasi altro "ritorno". Nei fenomeni di ripetizione, di ripresa, di rilancio o di riapparizione, ciò che conta non è mai l'identico ma il diverso. Ritornando, infatti, l'identico perde immediatamente la sua identità, e ci si dovrebbe piuttosto continuare a chiedere, in modo nuovo, che cosa la secolarizzazione possa significare, e inevitabilmente significhi, di diverso da un semplice transfert dell'identico. (Già da tempo Blumenberg ha posto il problema, anche se non l'ha risolto). Il ritorno della religione o il ritorno ad essa non potrebbe che aggravare - come è facile vedere - il suo stato già critico e, così, i pe7
ricoli che sempre rischia di far correre al pensiero, al diritto, alla libertà e alla dignità degli uomini. Ma si tratta anche di comprendere - e anche qui, in modo nuovo, con sforzo e coraggio di pensiero - che cosa voglia dire questa semplice parola: "uomo". La questione è quella dell'umanesimo. Dietro questa parola, dietro quanto dice e nasconde - dietro quanto non vuole, non può o non sa dire - ci sono oggi le esigenze più imperiose del pensiero. Può non piacere il tono di una tale frase, lo si può giudicare sufficiente, arrogante, si può diffidare di colui che pretenda di indicare sovranamente i problemi essenziali del tempo. Si può e si deve. Tuttavia a volte è tempo di alzare un po' il tono. A volte accade che il tempo stringa. Oggi accade che la presunta civiltà dell'umanesimo sia in fallimento o in agonia, come si vuole - il secondo termine è forse preferibile. È proprio allora, quando una forma di vita ha finito di invecchiare, che il pensiero deve levarsi: non è un caso che la vecchia lezione di Hegel sia stata pronunciata all'inizio del mondo contemporaneo, all'inizio, cioè, della decomposizione o della decostruzione visibile del cristianesimo. La forma di vita che Hegel considera invecchiata e in procinto di spegnersi nel grigiore è la forma nella quale la religione - la sicurezza di una salvaguardia provvidenziale del mondo e dell'esistenza - perde, con la sua legittimità, il senso della propria risorsa: ciò che costituiva la vitalità e la vivacità di un atto di fede appare ormai solo come un controllo dogmatico e istituzionale. Ciò che, quindi, nella fede, apriva il mondo in se stesso al proprio fuori (e non a un retromondo, paradiso o inferno) si richiude e si immiserisce in una gestione interessata del mondo. Non è una novità, e questa ambivalenza è costitutiva di quanto si istituisce come religione o del carattere religioso contenuto in ogni istituzione (il suo legame interno, la sacralità della sua edificazione, il carattere superiore, sublime, della sua destinazione). Ciò che il pensiero deve allora raccogliere è il vuoto dell'apertura in assenza di eredi. Hegel, Schelling.e Hòlderlin furono i primi a comprendere come, dopo la parola d'ordine kantiana - fare posto a una fede della ragione - fosse necessario aprire la razionalità alla 8
dimensione propria dell'assoluto o di "un pensiero più alto" (traducendo così ì'bòher Besinnen di Hòlderlin1). La lezione di due secoli di storia è che filosofia e poesia non sono state sufficienti a garantire questo compito, mentre la scienza, da parte sua, si è allontanata decisamente e definitivamente da ciò che, per un momento, sembrava profilare in essa questa elevazione della ragione (quando si era creduto che la scienza potesse rendere ragione del mondo). Non è stato sufficiente che il pensiero e il dire si facessero carico della pietà essenziale - cioè dell'osservanza del dovere - che si impone alla ragione nei confronti dell'incondizionato che essa esige. Questa pietà della ragione, questo servizio che deve rendere a sé la grande ragione (Nietzsche) in nome della sua destinazione assoluta, non ha saputo comunicare il proprio fervore. Essa ha trovato i suoi mistici soltanto nella matematica e nell'astrofisica - mentre la metafisica si ripiegava su di sé.
2. Ld minaccia
(iper)religiosa
La civiltà della "morte di Dio", cioè dell'emancipazione della ragione, ha insomma abbandonato la Ragione per affidarsi all'intelletto. Non è che il pensiero o l'arte abbiano cessato di fare appello all'esigenza che essa rappresenta. Ma questo appello - che abbia preso la voce di Nietzsche, di Wittgenstein o di Heidegger, o che abbia usato i toni di Cézanne, di Proust, di Varèse o di Beckett (per nominare solo alcuni) - non è probabilmente riuscito a toccare il luogo esatto in cui era aperto il vuoto. Non è riuscito a indicare il cuore vuoto del vuoto stesso, oppure ha lasciato che si confondesse con il nichilismo che è un'apertura ostruita e satura di se stessa. Se così stanno le cose, quel che si lascia intravedere davanti a noi (nel senso in cui Gérard Granel poteva scrivere che "gli anni trenta sono davanti a noi") non è il permanere esasperato del nichilismo: noi siamo alla fine, alla sua agonia (che tuttavia non dà segni di es-
1 Hölderlin, Der Gang auf das Land; trad. it. Camminata in campagna liriche II, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977, p. 13.
in Le
sere breve...). Ciò che si delinea è invece la passibilità di un ritorno religioso e iperreligioso. Laddove le razionalità ristagnano nell'intelletto (razionalità, a volte raziocini delle tecniche, dei diritti, delle economie, delle etiche e delle politiche), e laddove le religioni istituite fanno fatica a continuare le loro tradizioni (nell'irrigidimento integralista o nel compromesso umanista), superate come sono già da quattro o cinque secoli, e là quindi dove il vuoto è scavato - proprio nel cuore della società, dell'umanità o della civiltà, nell'occhio del ciclone della globalizzazione - continua a crescere un'attesa ancora più o meno silenziosa che, nell'oscurità, si dirige verso la possibilità di infiammarsi. In altre parole, quel che l'illuminismo non ha finora illuminato, quel che di sé non ha saputo illuminare, non chiede che di infiammarsi in maniera messianica, mistica, profetica, divinatoria e vaticinatoria - non entreremo qui nei dettagli delle differenze fra questi epiteti - i cui effetti incendiari potrebbero essere ancora più impressionanti di quanto non lo siano stati quelli delle esaltazioni fasciste, rivoluzionarie, surrealiste, avanguardiste o mistiche di ogni specie: neppure qui faremo caso ai dettagli semantici, e d'altronde neppure quell'incendio, se scoppiasse e si propagasse, entrerebbe nei dettagli della sua devastazione... Sono date le condizioni per un delirio che potrebbe propagarsi in maniera proporzionale al deserto di senso e di verità che abbiamo fatto o lasciato crescere. Lo spazio aperto per il suo scoppio è infatti quello che l'appello sempre reiterato alla "politica" vuole ostinatamente indicare. È in una rifondazione politica o della politica che torna sempre di nuovo l'esigenza di rendere giustizia alla ragione nella sua integralità. Ma non è un caso che la politica manchi di se stessa: manchi di ciò che l'espressione "religione civile" significa in Rousseau, manchi, cioè, di quell'elemento nel quale dovrebbe potersi esercitare non soltanto la razionalità del governare, ma quella, infinitamente più alta e più ampia, di un sentimento o addirittura di una passione dell'essere-insieme verso o secondo la propria esistenza. Tra la religione religiosa e l'assunzione di una salvezza apolitica, da una parte, e la lotta di classe e l'assunzione di una salvezza storica dell'umanità (salvezza non manifestamente "politica" in senso stretto) 10
dall'altra, la "religione civile" ha continuato a mancare i suoi obiettivi. E oggi non saranno certo i concetti approssimativi e labili di "soggettivazione" o di "moltitudine" a poter riscaldare l'intiepidimento democratico. Forse la democrazia, da Atene in poi, non è stata altro che l'aporia rinnovata di una religione della città, capace di assumere la successione o la supplenza (ammesso che uno di questi due termini convenga...) delle religioni precedenti, delle religioni cioè che di per sé costituivano legame sociale e governo. Atene stessa, poi Roma, poi lo stato sovrano moderno hanno di volta in volta rinnovato quest'aporia2. La religione dei preti (come diceva Kant) e la religione civile hanno fatto entrambe il loro tempo, laddove la seconda, nata dal ritrarsi della prima (fin dalla Grecia) ma mai in grado di sostituirla, è ormai chiaramente estinta. Forse la democrazia, man mano che estende la sua forma su scala mondiale, rivela il fatto che la politica potrà ridefinirsi o ritracciarsi soltanto secondo una delle possibilità di quest'alternativa: o essa stessa rifondata in religione (Dio non voglia!) - e allora nemmeno "teologico-politica" come si dice3, ma senz'altro teocratica (come piace agli integralisti) - o secondo un determinato rapporto
Bisognerà riflettere altrove sul ruolo svolto dal cristianesimo in questa storia. È significativo che ci si sbagli quasi sempre nell'uso di questa espressione. Si vuole indicare una collusione tra il teologico e il politico ("l'alleanza della spada e dell'aspersorio") che, dopo tutto, potrebbe essere il senso di questo duplice epiteto. Accade però che la "teologia politica" di Cari Schmitt non designi in realtà niente di simile, ma la "secolarizzazione del teologico". Quanto al titolo di Spinoza, esso rinvia alla disgiunzione, secondo lui necessaria, fra i due poteri. Sarebbe meglio dire che la nostra politica è senza teologia, cosa che la definisce e allo stesso tempo ne indica, forse, il problema cruciale. Bisognerebbe arrivare a capire che i problemi della miseria e dello sfruttamento, della giustizia e dell'uguaglianza, non possono di per sé non aprire alla questione della "trascendenza" - tanto per chiamarla direttamente con questo nome - di cui la politica è in effetti chiamata a dire se ne è capace oppure se la trascendenza la riporta - e come - sul suo limite esterno, su di un bordo di cui si dovrebbe costruire politicamente la possibilità. Tutto il resto è... letteratura politica. Altrettanto si potrebbe dire dell'arte: non è un caso se oggigiorno essa riesca solo di rado a trovare legittimazioni che non siano "politiche" o "etiche", negandosi cioè, di fatto, ogni legittimità propria. Eppure c'è una sola legittimazione possibile, l'attestazione e l'iscrizione sensibile dell'eccesso del senso. 2 3
11
con un elemento distinto, secondo una dimensione o un'istanza propria nell'ordine del senso e, di conseguenza, secondo una ridefinizione della tensione interna/esterna alla politica tra il governo della società e la proiezione dei suoi fini e delle sue ragion d'essere. Iperfascismo nel primo caso, invenzione radicale tutta da fare nel secondo - reinvenzione, forse, di ciò che vuol dire "laicità"4. Ciò dovrebbe significare se non altro che la politica assume una dimensione che la oltrepassa e che non riesce a integrare, la dimensione di un'ontologia o di un'etologia dell'essere-con, articolata su questa eccedenza assoluta del senso e della passione del senso che, dopo tutto, la parola "sacro" ha sempre designato. Evocando la minaccia di una predicazione, che definirei "iperreligiosa" per situarla al di là dell'usura delle religioni istituzionali, non vorrei io stesso fare la parte di una Cassandra che proferisca oracoli. Ma mi sembra difficile sottrarsi alla constatazione del prosciugamento umanista e della relativa tentazione di un diluvio spiritualizzante. Difficile ugualmente, per un filosofo, non assumersi la responsabilità di indicare un limite: quello in cui la filosofia non riesce a fare propria l'eredità dell'operazione kantiana, del suo superamento speculativo, del suo oltrepassamento kirkegaardiano o della sua esasperazione nietzscheana. La filosofia (e con essa la scienza) è rimasta in qualche modo intimidita dall'esclusione che essa stessa ha decretato nei confronti di una religione di cui, sotto banco, continuava a nutrirsi, senza per questo - ci ritorneremo - interrogarsi realmente su questa "secolarizzazione" né quindi, e per ripetere questa parola, sulla "laicizzazione". Si potrebbe anche dire con un altro termine, quello di "mondo": quando il mondo diventa globale e, insieme, completamente mondano (senza "retromondi", senza "cielo" né "potenze celesti"), come e dove s'iscrive la necessaria affermazione secondo la quale il senso del mondo dev'essere fuori di esso5? A cui conviene aggiungere che la dissoluzione o la decostruzione della nozione di senso e
4 Come indica J. Baubérot in Laìcité 1905-2005, entre passioni et raison, Seuil, Paris 2004. 5 "Der Sinn der Welt muss ausserhalb ihrer liegen" (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus [1918], 6.41; trad. it. Einaudi, Torino 1979).
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della richiesta che essa cela (l'attesa di un significato) non contraddicono quell'affermazione, ma la confermano.
3. La dischiusura a. La metafisica dischiusa Bisognerà lavorare sui limiti e sull'intimidazione che il pensiero razionale si autoprescrive e che gli diventano intollerabili. Non è che il pensiero contemporaneo non ci sia di alcun aiuto. Con Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein, nella piena immanenza mondana si è aperto in varie forme un "fuori del mondo"; da Freud in poi, l'affetto è affetto dall'incommensurabile e il senso dall'insignificabile; da Derrida e Deleuze, che concordano almeno su questo punto, viene l'invito a pensare un segreto nel quale il pensiero si fa segreto anche per sé (invito a pensare, in segreto, un pensiero nel vuoto del suo sottrarsi). Si potrebbe anche dire che è in questione l'altro - stavolta piuttosto di provenienza levinasiana - ma l'altro in quanto eccede ogni determinazione in un altro qualunque, con una grande o con una piccola a. Non soltanto l'alter - l'altro di due - ma Yalienus, ì'allos, l'altro da tutti e l'insensato. In tutte queste maniere, e anche in qualche altra, si mostra con insistenza la stessa necessità, la stessa esigenza della ragione: illuminare la propria oscurità, non inondandola di luce, ma acquistando l'arte, la disciplina e la forza di lasciare che l'oscuro emetta il proprio chiarore. È tuttavia proprio il contenuto di una tale espressione - del suo paradosso, del suo ossimoro, della sua dialettica o del suo Witz - a richiedere qualche chiarimento. Perché in questa maniera non s'indica che la zona critica del lavoro da fare. Mi limiterò qui a un'indicazione preliminare. Ciò che dev'essere messo in gioco non potrà esserlo, se non per effetto di una mutua dischiusura dell'eredità della religione e della filosofia6. La di-
6 Traduciamo con "dischiusura" il termine francese déclosion, un quasi neologismo derivato dal verbo piuttosto raro déclore che significa togliere una chiusura,
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schiusura designa l'apertura di un recinto, l'eliminazione di una chiusura. La chiusura che ci interessa è quella che è stata indicata come "chiusura della metafisica". Questa espressione vale innanzitutto come una tautologia: "la metafisica", nel senso che hanno dato a questo termine prima Nietzsche e poi Heidegger, definisce la rappresentazione dell'essere in quanto ente e in quanto ente presente. Così essa istituisce al di là del mondo una presenza fondatrice e garante (Idea, ens summum, Soggetto, Volontà). Questa istituzione consolida e richiude l'ente sul suo carattere ontico: tutto - letteralmente e propriamente tutto - si gioca nel reciproco rinvio dei due registri dell'ente o della presenza: P"immanente" e il "trascendente", il "quaggiù" e l'"aldilà", il "sensibile" e 1'"intelligibile", l'"apparenza" e la "realtà". La chiusura è il compimento di questa totalità che si pensa conclusa nella sua autoreferenza. Questo compimento equivale a un esaurimento: da una parte, infatti, l'autoreferenza immobilizza e paralizza l'essere stesso o il senso dell'evento che nomina; dall'altra parte, la separazione dei due registri che la chiusura legava l'uno all'altro finisce per rivelarsi una separazione fantasmatica tra un inconfutabile reale empirico e un inaccessibile reale, o surreale, intelligibile. Così ha avuto inizio e si è compiuto il "crepuscolo degli idoli". Nella misura in cui può e deve essere considerato come una potente conferma della metafisica - perché accentua il carattere ontico dell'essere producendo un Essere supremo arci-presente ed efficiente - il cristianesimo, e con esso tutto il monoteismo, non fa che confermare la chiusura e renderla più soffocante. Sta di fatto, però, che la lettura scrupolosa dei più esigenti demolitori della metafisica (Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein, Derrida e, a modo suo, Deleuze) mostra facilmente come essi non abbiano mai condiviso la semplicità un po' grossolana di questa rappresentazione. Ognuno di loro sa invece che è dall'interno stesso la recinzione di un campo per esempio. Di uso più comune sono invece il sostantivo éclosion e il vebo éclore (dal tardo latino exclaudere), che ha più o meno tutti i significati del nostro schiudere. Soprattutto nell'ultimo saggio, déclosion ed éclosion sono messi in stretto rapporto (N.d.T.).
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della metafisica che nasce il movimento di destabilizzazione di tutto il sistema dell'ente - senza il quale, d'altronde, sarebbe difficile comprendere come mai avrebbe potuto verificarsi il cedimento di questo presunto sistema monolitico. La metafisica, in verità, si decostruisce costitutivamente e, decostruéndosi, dischiude in sé la presenza e la certezza del mondo fondato in ragione. Essa libera in sé sempre di nuovo l'epekeina tes ousias, l'"al di là dell'ente": essa stessa fomenta l'eccesso del suo principio di ragione. (Detto di sfuggita, l'illusione di una storia edificante della liberazione della ragione moderna, che nasce armata dalla testa di Bacone o di Galilei e con le sue sole forze libera tutto il territorio asservito alla credenza metafisica, è probabilmente l'illusione più tenace e insidiosa, sempre in agguato in qualche recesso della maggior parte dei discorsi). Ciascuno di coloro che ho nominato - e ben oltre, tutto il movimento autentico del pensiero attraverso l'intera storia della metafisica, cioè a partire da Parmenide e Platone - sapeva benissimo che la chiusura, se c'è "chiusura", non attraversa il corso della storia trasversalmente (non è né una rivoluzione, né una rivelazione) ma longitudinalmente: fin dall'inizio e senza soluzione di continuità, la filosofia e ogni forma di sapere e di discorso razionale individuano, indicano e meditano il punto estremo della ragione in un eccesso della ragione e sulla ragione (dove il "della" e il "sulla" si intrecciano l'un l'altro). La chiusura si dischiude sempre da sé: questo è il senso dell'esigenza dell'incondizionato che struttura la ragione kantiana, questo è anche il senso della Destruktion heideggeriana dell'ontologia e della "decostruzione" derridiana - come pure il senso delle "linee di fuga" in Deleuze. Lo si potrebbe dire con le parole di un razionalista intransigente: non perdiamo mai "questo tenue arco che ci lega all'inaccessibile"7. C'è della malafede nel negare questa certezza umile e inconfutabile. Questa constatazione ci riporta subito a quell'altra, a cui abbiamo accennato in precedenza: la costituzione della metafisica non 7 C. Lévy-Strauss, Tristes Tropiques, Plön, Paris 1955, p. 448 (trad. it. Mondadori, Milano 1985, p. 404).
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deriva da un'autocostituzione né dal "miracolo greco". Essa è nata da una trasformazione dell'intero ordine dei "legami con l'inaccessibile". L'Occidente non è nato dalla liquidazione di un oscuro mondo di credenze dissolto dalla luce di un nuovo sole - e questo né in Grecia né nel Rinascimento né nel XVIII secolo. Si è formato in una metamorfosi del rapporto generale con il mondo, nella quale l'"inaccessibile" assumeva forma e funzione, in quanto tale nel pensiero, nel sapere e nella condotta. Non c'è stata una riduzione dell'ignoto, ma un'esasperazione dell'incommensurabile (non è un caso che la soluzione del problema matematico detto "dell'incommensurabile" - ì'alogon della diagonale del quadrato - sia stata la figura emblematica della nascita del vero sapere e, con esso e in esso, il modello o la regolazione matematica della filosofia). L'alogon in quanto tale come dimensione estrema, eccessiva e necessaria del logos: non c'è mai seriamente altro in questione quando si parla di cose serie (la morte, il mondo, l'essere insieme, l'essere sé, la verità). È ì'alogon che la ragione ha introdotto con sé. b. Il cristianesimo dischiuso Alla constatazione precedente ne va aggiunta un'altra, che ne costituisce contemporaneamente un raddoppiamento e un ampliamento. Se, all'interno della metafisica, il cristianesimo non è sorto soltanto come filosofia (cosa che pure è avvenuta o intervenuta nella sua formazione - i primi cristiani, del resto, furono considerati come una specie o una scuola di "filosofi"), se il cristianesimo è sorto da una congiunzione del pensiero greco e di quello ebraico; se esso è stato, in definitiva, la risultante dei due o tre secoli durante i quali il mondo mediterraneo aveva raggiunto un disincanto completo tanto nei confronti delle religioni religiose quanto nei confronti di quelle civili; se esso, infine, ha rappresentato sia la collaborazione che il confronto fra la "ragione" e la "fede", non è certo perché è stato per l'Occidente come una malattia contratta tardi e deleteria per una salute che si annunciava florida. La sempre rinnovata condanna del cristianesimo da parte dei filosofi - e particolarmente da parte di quelli dell'illuminismo - non può che lasciare perplessi una volta che ne siano stati compresi e riconosciuti senza riserve tutti i buoni motivi. Il meno che si possa dire, infatti, è che è 16
poco verosimile che un'intera civiltà sia affetta da una grave malattia congenita. Utilizzare concetti medici in materia di civiltà non è più sicuro di quanto non lo fosse per Freud poter curare il "disagio" della nostra. Né, d'altronde, è possibile utilizzare ancora - in maniera più o meno visibile, più o meno dichiarata - il discredito connesso all'"oscurantismo" o alla "superstizione" di un "Medio Evo", il cui nome porta già il segno della distanza risoluta, se non arrogante, che la ragione dell'età moderna prende nei suoi confronti. Bisogna ammetterlo: la Riforma e l'illuminismo, con e malgrado tutta la loro nobiltà e il loro vigore, si sono abituati a comportarsi nei confronti del passato dell'Europa come i primi etnologi si comportavano verso i "primitivi". Il ripensamento oggi ben avviato dell'etnologia - o l'apertura del suo etnocentrismo - non può non valere anche per il rapporto dell'Occidente con se stesso. Sia chiaro, ma forse non occorre nemmeno precisarlo, che non predico il ripristino pubblico e pubblicitario delle indulgenze. Mi augurerei piuttosto che la Chiesa abolisse quel che ne ha conservato. Ma non ci si può accontentare di giudizi di "primitivismo" e di "clericalismo", cosa che equivale a rimettere in gioco e in questione i paradigmi della "razionalità", della "libertà" o dell'"autonomia", così come, almeno, ci sono stati trasmessi dall'epoca dell'emancipazione del genere umano. Forse bisogna riuscire a emanciparsi anche da un certo pensiero dell'emancipazione, che vedeva in essa la guarigione da una malattia vergognosa. Nietzsche, da questo punto di vista, non semplifica il compito. Ma neanche lui si ferma a questa semplificazione patologica di cui è l'autore. Attraverso Nietzsche, bisogna piuttosto individuare la questione di una malattia congenita (platonismo, giudeo-cristianesimo) dell'Occidente che, quindi, indica meno un accidente patogeno che una costituzione essenziale e pertanto un altro tipo di "salute". Una malattia congenita non è una malattia infantile; è spesso inguaribile, ma può anche determinare le condizioni di una "salute" che non si confaccia alle norme.
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Mi pare superfluo ripetere qui tutte le accuse che è legittimo imputare al cristianesimo, dall'asservimento del pensiero fino allo sfruttamento ignobile del dolore e della miseria. Bisogna spingere l'accusa anche più lontano - o meglio andare oltre l'accusa - per interrogare le condizioni di possibilità di un dominio religioso tanto potente e durevole, esercitato su un mondo che ha continuato a eludere e a destituire quel dominio, avendo trovato in esso delle armi contro di lui (la libertà, l'individuo, la ragione stessa). Non è di questo che tratteremo8. Per il momento sarà sufficiente un'osservazione, ma decisiva. Essenzialmente (cioè semplicemente, in maniera infinitamente semplice: in una semplicità inaccessibile), il cristianesimo non indica che l'esigenza di aprire in questo mondo un'alterità o un'alienazione incondizionata. Ma "incondizionata" vuol dire: non indecostruibile, e deve indicare la portata, de iure infinita, del movimento stesso della decostruzione e della dischiusura9. In altri termini, il cristianesimo assume nella maniera più radicale e più esplicita la questione dell'alogon. Tutto il peso - enorme - della rappresentazione religiosa non toglie il fatto che l'"altro mondo" o l'"altro regno" non siano mai stati un secondo mondo né un retromondo, ma l'altro del mondo (di ogni mondo: di ogni consistenza. legata nell'ente e nella comunicazione), l'altro da ogni mondo. Il cristianesimo si può riassumere, come Nietzsche ad esempio ben sapeva, nel precetto di vivere in questo mondo come fuori di esso - fermo restando che questo "fuori" non è, non è ente. Non esiste, ma (oppure poiché) definisce e mobilita l'esistenza: l'apertura del mondo all'alterità inaccessibile (e di conseguenza l'accesso paradossale a quest'ultima). Il cristianesimo, allora - che sia quello di Paolo o di Giovanni,
8 Così come non è il caso, per il momento, di esaminare il ruolo dei tre monoteismi in questa stessa storia: il cristianesimo indica qui se stesso e il nodo di questa triplicità di cui in seguito bisognerà districare le componenti. 9 Questa tesi che si distingue da quella di un "indecostruibile" in Derrida dovrà essere meglio precisata. L'"indecostruibile", se ce n'è (per parlare come Derrida), non può avere altra forma che quella dell'infinito attuale: l'atto, dunque, la presenza attuale e attiva del niente in quanto cosa {res) dell'apertura stessa. Qui e ora, la morte, la verità, la nascita, il mondo, la cosa e il fuori.
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di Tommaso o di Eckhart, di Francesco o di Lutero, di Calvino o di Fénelon, di Hegel o di Kierkegaard - dischiude nel suo gesto essenziale la chiusura che costruisce e porta a compimento, fornendo alla metafisica della presenza la più forte risorsa immaginaria. Ma ci voleva il senso più acuto dell'esigenza cristiana dell'alterità per smantellare la "prova ontologica" come pure per proclamare la "morte di Dio" aggiungendo, a voce più bassa, che "solo il Dio morale è confutato". Il cristianesimo è al cuore della dischiusura così come è al centro della chiusura. La logica o la topologia di questo intreccio dovrà essere smontata per se stessa: ma per prima cosa è importante riconoscerne la fondatezza. E questa, ancora una volta, si trova nell'esigenza dell'incondizionato, ossia àtWalogon, senza il quale o, meglio, senza aprirsi al quale, senza esporsi al quale non possiamo far altro che rinunciare a pensare. Questa affermazione o questa serie di affermazioni implicano non soltanto la possibilità di decostruire il cristianesimo - cioè di trascinarlo nel movimento con il quale la filosofia devia, complica e demolisce la propria chiusura - ma di cogliere in esso, uscendo da esso, ciò che lo eccede, il movimento di una decostruzione: la sconnessura delle pietre e lo sguardo rivolto verso il vuoto (verso la cosa-niente), la loro distanza. Che cosa questo possa significare precisamente, è ciò di cui dovremo occuparci. c. "Maius quam cogitari possit" Dopo tutto, il principio di una dischiusura è iscritto nel cuore della tradizione cristiana. Basta prendere a testimone il giustamente celebre Proslogion di sant'Anselmo, la cui spinta fondamentale non è quella di una "prova ontologica" (riservandoci il diritto di sottomettere altrove alla prova del pensiero la vera natura di una tale "prova"). Il culmine del Proslogion non è nel motivo secondo il quale Dio sarebbe ciò in rapporto a cui niente di più elevato può essere pensato (quo maius cogitari nequit). È piuttosto in questo grado supplementare del maius quam cogitari possit: più grande di ciò che può essere pensato10.
10
Anselmo d'Aosta, Proslogion, cap. XV.
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L'argomento riposa interamente sul movimento del pensiero che non soltanto non può non pensare il massimo dell'essere che gli è possibile pensare, ma anche un eccesso rispetto a questo massimo stesso, perché è capace di pensare appunto che c'è qualcosa che eccede il proprio potere di pensare. In altre parole, il pensiero (non il solo intelletto ma anche il cuore, l'esigenza stessa) può pensare - e non può non pensare - che pensa un eccesso rispetto a sé. Penetra l'impenetrabile o, meglio, ne è penetrato. È soltanto questo movimento che rende la ragione nella sua incondizionatezza o nell'assolutezza e infinità del desiderio nel quale l'uomo si supera infinitamente. Anselmo, in questo, è meno un adepto del cristianesimo che il portatore di una necessità che definisce il mondo moderno del pensiero, la prova esistenziale del pensiero. "Dio" è per Anselmo il nome di questa prova. Ci sono sicuramente molte ragioni per rifiutare questo nome. Ma non si può evitare la prova. Può sorgere allora la questione se questa prova esiga o meno il ricorso a una nominazione speciale, distinta da ogni nominazione di concetto, e se "dio" o "divino" possano o meno servire da indizio o da punto riferimento. Checché ne sia, la vera portata della "dischiusura" non può che misurarsi con questa domanda: siamo o meno capaci di riappropriarci - al di là di ogni dominio - dell'esigenza che conduce il pensiero fuori di sé, senza per questo confondere questa esigenza, nella sua irriducibilità assoluta, con una costruzione di ideali o con un coacervo di fantasmi?
4. Quanto
segue
Una semplice avvertenza per coloro che non abbiamo ancora buttato via il libro con rabbia, commiserazione o scoraggiamento: quanto segue non è lo svolgimento curato e organizzato che ci si dovrebbe aspettare. È solo una raccolta, del tutto provvisoria, di testi sparsi che ruotano intorno allo stesso oggetto senza affrontarlo di petto. Non mi è sembrato ancora possibile trattare più sistematicamente questo oggetto, ma ho pensato che fosse auspicabile met20
tere alla prova dei testi poco diffusi anche se per lo più già pubblicati. Non mi sento sicuro in questa impresa: dappertutto ci sono insidie. Non mi riferisco tanto alle opposizioni o agli attacchi, e neppure alle compiacenti approvazioni, quanto al margine di manovra estremamente stretto di cui dispone l'operazione (sempre che si possa dire tale) della quale cerco di parlare. Essa è filosoficamente stretta - per definizione - e socialmente stretta - presa com'è tra tensioni e compiacimenti d'ogni tipo. Ma così stanno le cose. Cercherò di andare oltre. Per il momento qui c'è solo un cantiere a cielo aperto: questo dice tutto.
È quasi impossibile per il momento proporre qualcosa di più di questo solo assioma: non vogliamo affatto neanche solo suggerire che un filosofo possa "credere in Dio" (o negli dei) - dove per "un filosofo" non si intende qui un tecnico del concetto, ma quanto oggi richiede e attende la coscienza comune. Si tratta piuttosto, e forse soltanto, di chiedersi se mai la fede si sia confusa in verità con la credenza. Basta in effetti osservare che la credenza non è affatto una caratteristica esclusiva della religione: vi sono molte credenze profane, ve ne sono persino tra i sapienti e i filosofi. Ma la fede?... Non costituirebbe forse il rapporto necessario con il niente: con il fatto che non ci sono sostegni, punti di riferimento, termini indecostruibili, e che la dischiusura non smette di aprire ciò che apre (l'Occidente, la metafisica, il sapere, il sé, la forma, il senso, la religione stessa)? Quanto alle altre due "virtù teologali", agli altri due ordini o potenze di rapporto all'oggetto di una fede - la speranza e la carità, per chiamarle con i loro nomi più tradizionali - , il loro turno arriverà più tardi, e ne saremo gratificati o affrancati.
L'ordine dei testi ha ura coerenza relativa. Non è necessario seguirlo, tanto più che, come si vedrà, sono stati scritti in circostanze molto diverse. Per cominciare, Ateismo e monoteismo, come pure la 21
conferenza Decostruzione del monoteismo (precedente e più didattica) dovrebbero precisare ed esplicitare la prospettiva che abbiamo delineato; seguono due testi sull'idea di "fede" - Il giudeo-cristiano e Una fede da niente, rispettivamente legati a Derrida e a Granel (del quale abbiamo incluso il testo che commento, Lontano dalla sostanza). L'esperienza di un cuore cerca di restituire l'esperienza "cristiana" dell'"ateo" Nietzsche; Verbum caro factum è una breve e provvisoria riflessione sull'"incarnazione". Il nome di Dio in Blanchot raccoglie qualche indicazione dell'autore che, più di ogni altro, si è avvicinato a un rapporto, vuoto di credenza, con ciò che "Dio" può (o deve?) nominare; sempre in Blanchot, viene poi esaminato il motivo della "resurrezione", oggetto di una discussione con Derrida di cui Consolazione, desolazione costituisce una traccia11. Dì un Wink divino considera il gesto al quale, per Heidegger, si riduce l'"ultimo dio", mettendolo in rapporto con la "différance". Un'esenzione di senso introduce, a partire da un'espressione di
11 II testo era stato scritto poco prima della morte di Jacques Derrida. La discussione che speravo di continuare con lui su questo tema e sull'insieme dei temi di una "decostruzione" o di una dischiusura del cristianesimo (e su altro ancora, più indietro o più avanti rispetto al "cristianesimo" stesso) non avrà luogo. Vorrei soltanto dire che egli si era mostrato molto sensibile alle questioni trattate nei testi raccolti qui con i titoli II giudeo-cristiano e Di un Wink divino, entrambi rivolti a lui. Non dubito, tuttavia, che avrebbe continuato a fare resistenza, come faceva resistenza ai temi per lui troppo cristiani della "fraternità" o della "generosità". Ma la questione non si limita a questa opposizione fra noi, perché la questione essenziale è ben al di là di questi dibattiti, e Derrida lo sapeva, credo, sia pure suo malgrado. È a un tale sapere che bisogna avvicinarsi, sempre che possa dirsi tale: quello di una semplice, elementare perfino, disposizione, nel bel mezzo del mondo, verso il "fuori del mondo", verso una trascendenza ¿^//'immanenza. Una recente pubblicazione mi costringe a una precisazione. Nel suo Traiti d'athéologie (Grasset, Paris 2005; trad. it. Fazi, Roma 2005), Michel Onfray usa le espressioni "decostruzione del monoteismo" e "decostruzione del cristianesimo", commettendo uno strano errore sul significato filosofico, ormai ben consolidato, di "decostruzione" che confonde con "demolizione", allo stesso modo in cui, d'altronde, utilizza "ateologia" in contraddizione con Bataille, creatore e unico utilizzatore del termine. Questi errori sono certo delle distrazioni, ma possono indurre a confusioni pericolose. Per quanto riguarda l'intera espressione "decostruzione del cristianesimo", come si vedrà più avanti, il primo testo che avevo pubblicato con questo titolo risale al 1998; da allora, questa espressione-titolo è stata più volte citata, soprattutto da Jacques Derrida e da me stesso. Tutte queste occorrenze sembrano essere sfuggite a Michel Onfray.
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Barthes, una riflessione ateologica sul senso. Preghiera demitizzata prosegue una riflessione di Michel Deguy sulla preghiera non religiosa; il testo La decostruzione del cristianesimo è stato scritto prima degli altri e rimane a mio avviso indietro rispetto agli altri: ma indica il primo varco nella stretta e difficile via che mi pareva necessaria. Indica anche la possibilità di un'analisi decostruttrice dei principali elementi del dogma cristiano che, nella presente raccolta, viene appena toccata (dovremo tornarci in seguito). La dischiusura, infine, fornisce nell'ambito della "conquista dello spazio", del cielo abbandonato e riaperto, una variazione formale sul tema - del divino in quanto apertura o spaziamento, spaziato da sé e in sé12.
12 Ringrazio i direttori delle riviste e i curatori dei volumi che hanno accolto le prime edizioni dei saggi qui raccolti.
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Ateismo e monoteismo
Il monoteismo è un ateismo. Schelling 1
Non soltanto l'ateismo è un'invenzione specifica dell'Occidente, ma deve anche essere considerato come l'elemento nel quale l'Occidente si è specificamente inventato. Anche se, infatti, ciò che chiamiamo la "Grecia" può essere attraversata e permeata da una grande quantità di atteggiamenti religiosi, ciò che innanzitutto distingue o addirittura costituisce il "greco" è uno spazio di vita e di pensiero che non è plasmato né segnato dalla presenza divina (se non da quella degli dei della città o degli dei della speculazione, che appunto non sono più presenze). I greci sono qui soprattutto i discendenti di Senofane che, ben prima di Platone, ironizza sull'antropomorfismo degli dei ed è quindi già coinvolto nell'invenzione dell'ateismo. (È vero, però, che nello stesso tempo le divinità misteriche proseguono i loro destini sotterranei - altra storia che lascio qui da parte, ma che entrerà poi in rapporto col monoteismo). Questa invenzione dell'ateismo risponde a un cambiamento del paradigma generale: a un ordine del mondo dato e ricevuto secondo la
* Una prima versione di questo saggio è stata scritta per la rivista italiana «L'espressione» (Cronopio, Napoli 2005, trad. it. di Marina Bruzzese), come pure per S. Zabala (a cura di), Weakening Philosophy: Festschrift in Honour of Professor Gianni Vattimo, Mac Gill-Queen's University Press, 2006. In una forma modificata, questo testo è stato letto all'apertura del convegno "Heidegger, le danger et la promesse", organizzato a Strasburgo nel novembre 2004 dal Parlement des philosophes.
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modalità di un destino (sottolineando in questo termine sia il versante della determinazione che quello dell'orientamento) si sostituisce il regime di una costruzione del mondo a partire da un'interrogazione sul suo principio o sui suoi principi. Se, infatti, ci si mette a parlare di "natura" nel senso di un sistema di elementi, di principi e conseguenze, ciò significa che il mondo non si divide più tra presenze di qualità e statuti diversi (mortali, immortali, inferiori, superiori, pure, impure), ma tra la totalità del dato e l'ordine delle condizioni che non determinano più soltanto la ricezione del dato, ma debbono anche darne ragione. Questa ragione può pure essere definita "divina", ma la sua divinità è dovuta solo all'eccellenza della sua posizione assiologica e non a una differenza intrinseca della sua natura: questa natura è invece considerata di diritto come accessibile al mortale, fosse pure al di là della sua morte (oppure, al contrario e preferibilmente, anche se la sua morte dovesse diventare la strada regia di questo accesso). Quando Platone scrive "o theos", questa designazione del "dio" al singolare e senza nome proprio ci rende la traduzione quasi impossibile perché dobbiamo scegliere se abbandonare il sostantivo e parlare di "divino", oppure conservarlo e parlare di un "dio" persona unica di cui Platone non ha alcuna idea (in tutti i sensi della parola). Si potrebbe dire che nel theos di Platone gli dei spariscono (anche se Platone stesso li nomina al plurale, poche righe dopo il theos al singolare). Il paradigma dell'universo dato, ordinato e animato ciò che sarà chiamato una mitologia per sostituirvi una fisiologia e una cosmologia — ha smesso di funzionare e le sue rappresentazioni e le sue storie di fondazione non sono più riconosciute come modelli plastici del mondo, ma solo come finzioni. Gli dei se ne vanno nei loro miti. Ma se queste finzioni valgono effettivamente solo attraverso le loro figure, i loro caratteri e le loro trame, cioè attraverso la troupe spettacolare dei personaggi divini dotati delle loro proprietà, genealogie, metamorfosi, furori e desideri, allora si può anche affermare che il theos unico, privo di figura e di nome, rappresenta in realtà un'invenzione e addirittura l'invenzione del "dio" in generale. Non c'è "il dio" o "il divino", e forse non ci sono neanche "gli dei": non c'è questo all'inizio, oppure non c'è da tanto tempo da quanto c'è il 26
popolo o la specie delle figure immortali. Ci sono i compagni immortali dei mortali e non la distanza ontologica che ormai la parola "dio" misurerà. Dobbiamo quindi ritenere che l'invenzione dell'"ateismo" sia contemporanea e correlativa all'invenzione del "teismo". I due termini hanno la loro unità nel paradigma del principio. Mai un dio - si chiamasse Urano, Iside o Baal - ha avuto la posizione o la natura di un principio. Gli dei agivano, parlavano o osservavano dall'altra riva della morte: non facevano passare i mortali su quella riva o, se lo facevano, mantenevano comunque, spalancato e minaccioso, il fiume che scorreva fra le rive: che scorreva, ad esempio, tra Diana e Atteone, e avrebbe continuato a scorrere tra gli uomini e le loro ombre morte. Il principio, al contrario - o i principi, ma il singolare qui è necessario e obbligatorio per principio - non ha altra funzione che gettare un ponte tra le rive. Questa è la funzione logica che si sostituisce alla finzione mitica: la duplice posizione di un'alterità radicale (dio e uomo non sono più insieme nel mondo) e di un rapporto del medesimo con l'altro (l'uomo è chiamato verso il dio).
2 Munirsi di questi dati iniziali è indispensabile per non sbagliarsi sul confronto, che quasi sempre si presuppone, tra "teismo" e "ateismo". Questo confronto sicuramente esiste, in quanto un termine è la negazione dell'altro. Ma non possiamo ignorare quanto questa negazione conservi l'essenza di ciò che nega: l'ateismo dichiara il principio di una negazione del principio divino, cioè del principio rappresentato nella configurazione di un esistente che si distingue da tutto il mondo degli esistenti e di cui detiene la causa prima e il fine ultimo. L'ateismo pone quindi per principio o che la causa e il fine dipendano da un altro ordine, immanente, o che questi concetti non debbano affatto essere messi in gioco. Nella prima ipotesi, l'immanenza (che la si chiami materia o vita, storia, società o arte) non cambia niente nello statuto ideale della causa e del fine, non solo: essa non cambia niente neanche nel loro statuto pratico, perché non c'è motivo per cui i loro principi non 27
diventino altrettanto costrittivi, o addirittura altrettanto coercitivi, quanto quelli di una "volontà divina" o di un'" economia della salvezza". L'Occidente del X I X e X X secolo ha fatto esperienza di questa possibilità di coercizione fino a un punto che non sarebbe difficile definire cruciale: sappiamo ormai che l'ateismo in questo senso è un disastro. (Se fosse necessario essere più precisi, accennerei al fatto che non ogni pensiero dell'"immanenza" si iscrive nel paradigma ateo che ho appena evocato. Ci sono pensieri dell'immanenza" che eludono l'opposizione tra l'immanenza e la "trascendenza", ma non è questa la sede per parlarne). In maniera paradossale, aporetica o discordante, sappiamo ora che l'ateismo è il solo ethos possibile, l'unica dignità del soggetto (dando a questo termine il valore di una praxis, e non di una riflessività), ma che, allo stesso tempo, l'ateismo lascia sprovvisto o minaccioso l'ordine del comune, della "cultura", dell'"insieme". A lungo termine (se c'è un termine) ne va di quell'esigenza insoddisfatta che è stata chiamata "comunismo". Ma non voglio soffermarmi su questo. Il comune è orfano di ogni religione, religiosa o civile - e anche questo, questa congiunzione dell'ateismo con l'individualismo, e quindi anche, come ormai appare evidente, con il capitalismo, deve far riflettere. Quanto alla seconda ipotesi - mettere fuori gioco le cause e i fini - è abbastanza evidente che un certo stato del pensiero, oggi piuttosto comune, non chiede di meglio che farla sua: abbiamo il presentimento che "causa" e "fine" non debbano o non debbano più essere concetti accettabili al di fuori delle sfere tecniche determinate all'interno delle quali hanno l'evidenza di un assioma. Tanto più che, se si considerano, non dei sistemi tecnici determinati, ma il regime del mondo che si può definire "la tecnica" (o "il capitale"), diventa evidente che questo regime non smette di distruggere nel proprio dispiegarsi ogni possibilità di trovargli, imputargli o inventargli delle cause o dei fini (a meno che non lo si identifichi sempre di più con la physis stessa, nella misura in cui la techne proviene in fin dei conti dalla physis prima di riorganizzarla per proprio conto: ma ciò condurrebbe soltanto a una teleologia tautologica del mondo, senza per questo mettere in luce la nuova mitologia che questa tautologia esigerebbe...). 28
Dovremmo quindi essere capaci di un pensiero rigorosamente an-eziologico e ateleologico. Sarebbe facile mostrare quanto questa esigenza già preoccupasse la filosofia dall'inizio del mondo contemporaneo. In fin dei conti Hegel, che passa per essere il modello di coloro che pensano un processo di compimento, esige anche di essere compreso (e Schelling con lui e prima di lui) come il primo che ha pensato al di là di ogni teleologia. Essere capaci di discernere i requisiti di questa interpretazione - che testimonia delle nostre aspettative e delle nostre esperienze dopo la sospensione di ciò che viene definita la "storia hegeliana" - non ci rende per questo capaci del pensiero an-eziologico e ateleologico - cioè ateo - che sappiamo di desiderare. Finora, infatti, un simile orientamento del pensiero pensiero senza fine, finitezza senza fine, l'infinito insomma - resta per noi privativo, sottrattivo, e in fin dei conti difettivo - come lo è ostinatamente e sordamente, suo malgrado, la tonalità prevalente di ogni forma di ateismo. (Il che, bisogna precisarlo subito, non autorizza a legittimare le rassicurazioni positive del teismo: si tratta soltanto di respingere contemporaneamente entrambe queste facce dello stesso Giano occidentale). Blanchot l'aveva capito perfettamente.
3 Verrà il giorno, forse non molto lontano, in cui l'intero pensiero contemporaneo potrà essere caratterizzato come un lento e pesante movimento di gravitazione intorno al sole nero dell'ateismo. Al crollo del principio - così come testimonia tutta Ponto-teologia classica fin nella sua deposizione kantiana e nei suoi funerali nietzscheani - non è seguita alcuna comprensione nuova, inedita (rivoluzionaria? creatrice? liberatrice? salvatrice? come vogliamo definirla?) di questo crollo e del vuoto che ne risulta. Una comprensione nuova, che avviene cioè attraverso prismi di pensiero diversi da quelli « ^che » molto banalmente fanno ricorso a parole come "crollo" o vuoto . Non voglio dire che la parte più vivace del pensiero contemporaneo non sia occupata a disorganizzare e a delegittimare questi pri29
smi. In fondo non fa altro. Tuttavia l'ateismo continua - in maniera veramente paradossale - a chiudere l'orizzonte. O forse sarebbe più giusto dire che continua a formare un orizzonte proprio là dove dovrebbe trattarsi d'altro. Perché orizzonti e principi fanno causa comune. L'orizzonte di una sottrazione, di un ritrarsi, di un'assenza e persino l'orizzonte di ciò che io stesso ho chiamato talvolta "assenteismo" per opporlo all'ateismo, continua a fare orizzonte - cioè limite, impasse e fine del mondo. Accerchiando tanto più il nostro pensiero, in quanto il mondo tocca ovunque i propri confini, in modo fisico e metafisico. Non è più possibile uscire dal mondo: ma non è un motivo per considerarlo come un orizzonte. In altre parole, la finitezza non limita l'infinito, deve dargli invece la sua espansione e la sua verità. Ecco la questione essenziale, non ce ne sono altre oggi. (Colpisce il fatto che oggi la fisica sembra dire qualcosa di analogo quando parla di un universo in espansione: ma non voglio addentrarmi in un'analogia che è forse solo formale). In definitiva, non si tratta di nient'altro che del nichilismo nel senso in cui l'ha inteso Nietzsche. L'ateismo è il nichilismo, ma il nichilismo, pur indicando che, attraverso di esso, a partire da esso e, in un certo senso, in esso, può esserci una possibilità di "uscirne" (se così si può dire), sembra però finora indicare solo la ripetizione del proprio nihil. Spesso - è vero - si tratta una ripetizione molto potente, coraggiosa, operativa e inventiva quella che si gioca intorno ai punti di riferimento del "vuoto", dell'"assenza", del "disastro", del "senza fine", dell'"aporia" o, in modo più ascetico, intorno a una rinuncia, più o meno enfatizzata, a quelle che sono solo combinatorie di "forme di vita" e di regimi differenziati di verità (talvolta con prospettive più o meno vicine alla "regolazione" kantiana). Si tratta sempre in qualche modo di "introdurre un senso nuovo sapendo che questa introduzione è essa stessa priva di senso", come scrive più o meno Nietzsche in un paradosso la cui logica nasconde tutta la forza di ingiunzione e tutta la difficoltà, per non dire l'angoscia, della nostra situazione. Ma come eliminare l'aporia, se la forzatura di un senso al di là del senso (senso insensato? senso assente? senso iperbolico o ipertrofico?) ci ha procurato l'orrore sterminatore, in tante forme, congiunto all'impotenza umanista, anch'essa in tante forme? 30
Quest'ultima parola ci respinge di nuovo verso il centro buio della nostra vertigine: l'umanesimo è stato l'ateismo, ne è stato la verità, il frutto, la proposta e l'operazione. Capovolgendo in essenza umana l'essenza del dio, non ha fatto che imprimere al principio una rotazione su se stesso (una rivoluzione?). Così facendo, l'umanesimo non ha modificato niente nella costruzione onto-(a)-teologica né situato la propria figura del principio in un posto degno di essa: "Si pensa contro l'umanesimo, perché esso non pone Yhumanitas dell'uomo a un livello abbastanza alto", ha scritto Heidegger. Che cosa vuol dire l'"altezza" a cui si accenna qui? Che cosa vuol dire, soprattutto se pensiamo che Heidegger scrive questa frase dopo essere passato per il noto accecamento nei confronti della "grandezza" di ciò che oggi la parola "nazional-socialismo" stigmatizza? Si deve davvero parlare di elevazione, di altitudine o di statura? Non è detto. Ma quali termini usare allora? Pascal ha scritto che "l'uomo passa infinitamente l'uomo": che cosa può voler dire questo passare? oltrepassare? superare? sormontare? eccedere? trasportare? trasfigurare? divinizzare? naturalizzare? tecnicizzare? esporre all'abisso? annientare? e anche: disumanizzare? inumanizzare? sovrumanizzare? Come si vede, in circa due secoli abbiamo percorso tutta la galleria di queste figure, alla maniera dello spirito hegeliano, e siamo esausti, nauseati da questo nostro sapere assoluto da cui, a differenza di quello dello Spirito, non sgorga verso di noi nessun altro "infinito", se non quello di un'infamia secondo la quale il "superamento" dell'uomo prende la forma di un dominio inesorabile degli uomini attraverso un processo d'insieme che non è neanche più la loro storia, ma un macchinario indifferente alla loro sorte e interamente occupato dal proprio sviluppo esponenziale e esponenzialmente tautologico. Questa tristezza riassume l'ateismo. Ci è rifiutata persino la possibilità tragica, quale fu quella dei greci nello scoprirsi privati, abbandonati o maledetti dagli dei. La tristezza non conserva niente della strana gioia tragica di cui Nietzsche o il giovane Benjamin furono ancora testimoni. Questo vuol dire anche, più chiaramente che mai, che l'uscita dal capitalismo - sempre che, di nuovo, si tratti di "uscita" (e con quale valore di questa parola?) - non può essere concepita che come uscita dal nichilismo. E questo in due modi stretta31
mente connessi l'uno con l'altro: da un lato, infatti, la struttura formale dell'"uscita" è la stessa (è un'uscita a partire dal di dentro, come avevano capito Marx e Nietzsche); dall'altro si tratta della stessa questione: quella che indico qui, provvisoriamente, come la necessità di un'alterazione effettiva della tautologia (la necessità, quindi, di un'eterologia).
4 Se ora intraprendo una riflessione sul monoteismo, non è per cercarvi la via d'uscita, il rimedio o la salvezza. La "salvezza", affermando la necessità di una redenzione, rappresenta invece una conferma del mondo del nichilismo. In questo senso, il monoteismo non è stato altro che la conferma teologica dell'ateismo: la riduzione del divino a un principio, all'interno di una logica della dipendenza del mondo. Come corollario, la tautologia del mondo si trasforma qui semplicemente in tautologia di Dio: il dio unico non è infatti nient'altro che la ripetizione del suo essere immutabile. Non ha storia né figura, e non è un caso che, in una delle sue ridefinizioni decisive, Dio sia stato designato e pensato come logos presente en arche. In realtà, questo momento risponde alla congiunzione dell'ateismo greco e del monoteismo ebraico nell'elaborazione di ciò che, sotto il nome di cristianesimo, ha prodotto la grande configurazione dell'onto-(a)-teologia (che si è diversamente giocata nell'islam, cosa che richiederebbe ovviamente ulteriori considerazioni). Con le religioni del Libro (giudaismo, cristianesimo, manicheismo, islam) si è dispiegata una storia estremamente complessa, persino contorta, il cui elemento motore o il cui nodo organizzatore si trova proprio nel punto di congiunzione del greekjew/jewgreek di Joyce - ma in quanto questo punto è anche un punto di disgiunzione e questa disgiunzione intima, nel cuore dell'ateismo stesso, chiede ancora di essere veramente messa alla prova. Da una parte, infatti, la congiunzione congiunge due formazioni dell'ateismo. Il monoteismo ebraico, così come si sviluppa e si diffonde nel mondo greco per sfociare nel pensiero cristiano (che si 32
potrebbe a buon diritto chiamare stoico-cristiano), non fa che disporre la sparizione di tutte le presenze e potenze divine, designando contemporaneamente un principio che di "divino" ha ormai solo il nome - un nome spogliato appunto di ogni personalità o della propria pronunciabilità. Considerata da questo punto di vista, l'intera storia di "Dio" del "Dio" dell'Occidente - non dispiega altro che il processo dell'ateismo stesso, nella sua progressione più rigorosa: passando, per fare soltanto qualche esempio, per l'idea di una "prova" della sua esistenza (che presuppone che possa essere dedotta a priori almeno un 'esistenza, dalla quale saranno poi dedotte tutte le altre esistenze, e che la presunta prova finisca in una tautologia ontologica) o per il deus sive natura di Spinoza (che tuttavia non spiega in che cosa consista l'unità di questo deus che esiste solo nell'infinità dei suoi modi) o infine per il Dio di Feuerbach, dei cui predicati l'uomo deve semplicemente riappropriarsi, abbandonandone la sostanza immaginaria. Si potrebbero aggiungere molti altri tratti, come l'idea del perfetto in Descartes o la libertà necessitata, con la quale il dio di Leibniz crea il migliore dei mondi possibili. Comunque il risultato sarà questo: Dio nomina il principio di una totalità presupposta fondata in unità e in necessità. Dio non nomina, quindi, che la tautologia dell'unitotalità così presupposta. In termini heideggeriani, nomina la consistenza dell'essere, concepita come principiale, fondatrice e essenziale. Rappresenta nel modo più manifesto l'essere che è al principio dell'ente: ens summum, verum, bonum. Non stupisce allora che Heidegger veda nel cristianesimo solo un epifenomeno, senza grande specificità, della storia destinale e epocale dell'essere (l'"essere" stesso inteso stavolta non come principio, ma al contrario come "principio d'anarchia", se ci si può accontentare qui del paradosso forgiato da Rainer Schurmann, o come decostruzione della principialità in generale). Ma, come è noto, il cristianesimo dell'onto-teologia non è quello di cui Heidegger ha continuato la "sua spiegazione silenzio-
1 Cfr. D. Franck, L'explication silencieuse. Heidegger Paris 2004.
et le christianisme,
PUF,
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Appare chiaro quindi che il monoteismo è stato insomma la seconda condizione di possibilità dell'(a)teismo. L'unicità del suo dio non è da mettere in rapporto numerico con la pluralità degli dei che è stata chiamata "politeismo". Piuttosto, l'unicità sposta o converte la divinità: da potenza o persona presente la converte in principio, in fondamento e/o in legge, assente per definizione o ritratto nel fondo dell'essere. Deus absconditum: come dire un "dio" che ritrae nell'"uno" l'integralità del suo numeri e tende a dissolvervi quel nomen di "dio" che appunto non era mai stato un nome divino! Se le cose stanno così, è tuttavia inevitabile chiedersi come mai la radice dell'ateismo abbia potuto - se non dovuto - avere una duplice costituzione. Il discredito del cristianesimo come epifenomeno della metafisica, come pure la sua riduzione - da parte di Kant o di Hegel - allo statuto di una trascrizione rappresentativa della logica della ragione o dello spirito non rende conto di questo fenomeno di duplicazione o di doppiaggio. Si dovrebbe dire: la ragione non rende ragione delle sue rappresentazioni. L'idea di trascrizione, di travestimento o di sviamento religioso di operazioni della ragione, questa idea che domina, in definitiva, con molte variazioni sui temi della "rappresentazione", del "sentimento", dell'"illusione" e dell'ideologia, l'essenziale della denuncia filosofica, se rende conto per molti aspetti dell'infamia morale, politica e spirituale che le religioni indiscutibilmente condividono (specialmente quelle monoteiste, cosa su cui bisognerebbe riflettere, ma lo faremo in altra sede), non rende conto di questa singolare deiscenza del logos e del principio - a meno che non ci si accontenti di chiamare in causa un grado inferiore della ragione, un'incapacità di elevarsi all'altezza del pensiero o di deplorare, più direttamente ancora, una vera e propria perversione o una malattia (del pensiero, della cultura, della società). È strano pensare che tutta la nostra civiltà ponga come principio l'essenza cagionevole, corrotta o straniera (cioè non greca...) di ciò che non ha smesso di costituirne da più di venti secoli come la duplicazione interna. È come se l'ateismo si rifiutasse di considerare la possibilità che questa duplicazione potesse essere compresa altrimenti che attraverso l'infermità, la malattia o la perversione dei preti. 34
È certo, però, che infermità, debolezza, malattia e cattiveria sono all'opera - alternativamente o congiuntamente - non appena si tratta di assicurare un dominio e una presentazione del principio. L'insigne debolezza della logica del principio (forse della logica tout court}) si dichiara nel punto cruciale in cui teismo e ateismo si coappartengono: nella misura in cui il principio viene affermato o, viceversa, negato, esso non può che sprofondare nella propria posizione o deposizione. Poiché - questo è il punto decisivo - dovrebbe spettargli, come si accennava prima, di eccedere in quanto principio la principialità stessa o anche, e forse piuttosto, di sfuggirvi, di ritirarsene, di sottrarvisi o anche di decostruirla a partire da essa. Un principio o un principato (per chiamare in causa questa parola) non può che eccettuarsi da sé - almeno questa è una delle possibilità dell'alternativa di fronte alla quale il principato è posto ineluttabilmente: o si conferma da sé, infinitamente, o si eccettua da sé, altrettanto infinitamente. (La politica della sovranità come potere d'eccezione riproduce esattamente questa logica, con l'estrema finezza del suo equilibrio instabile, sempre in bilico tra la legittimità di un (principe) illegittimo e l'illegittimità di un (principe) legittimo). Quindi, per riprendere i termini usati in precedenza, o il principio conferma la sua tautologia eziologica e teleologica, o si espone da sé come eterogeneo a ogni tautologia: sottraendosi in un'eterologia.
5 Non sarebbe allora auspicabile esaminare se la duplicazione e la deiscenza tra monoteismo e ateismo non comunichino con questa eterogenesi? In altre parole, possiamo essere così tranquillamente certi, senza ulteriori interrogazioni, che il monoteismo sia soltanto la faccia malata e clericale dell'ateismo - entrambi in fondo sempre riuniti nella contrazione del principio (o dell'Uno), il che vuol dire anche nella derelizione del nichilismo? È ormai tempo di comprendere la nostra storia in modo diverso da come essa ha voluto sinora comprendersi sotto il dominio del proprio principio. L'ateismo greco e il monoteismo ebraico si sono incontrati in un punto in cui l'unità del principio e l'unicità del dio si sono recipro35
camente rafforzate e contrapposte attraverso una stessa contrazione - attrazione e repulsione reciproca - attraverso un duplice e violento movimento i cui effetti continuano a innervare e irritare la nostra storia. Da un lato, infatti, l'unicità del dio si faceva chiaramente sussumere o assorbire dall'unità del principio: il cristianesimo diventava così, da sé, umanesimo, ateismo e nichilismo. Il mantenimento sempre più difficile delle sue forme propriamente religiose (della sua Chiesa, del suo culto e dei suoi miti) finiva per diventare l'oggetto di una lotta o di una lacerazione interne. (Come questo schema operi o meno, sia rovesciato o meno, nel giudaismo e nell'islam, e nel rapporto o nel non-rapporto fra i tre monoteismi, è ciò che andrà esaminato altrove). D'altro canto, però, l'unicità del dio si rifiutava di entrare nell'ordine del principio. Non è un caso che, nella piena fioritura della razionalità moderna, Pascal abbia sentito con tale forza la necessità di separare il Dio "dei filosofi e degli scienziati" dal "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, Dio di Gesù Cristo". Questa separazione, e la contrapposizione o la contraddizione che ne derivano, risiedono nel cuore dell'ateismo, proprio nel luogo in cui il principio stesso del principio, come ho suggerito prima, crolla da sé e in questo crollo indica la possibilità, e persino l'esigenza e l'appello, di una configurazione anarchica di tutt'altro tipo. Basti qui ricordare alcuni dei tratti principali attraverso i quali il monoteismo si contrappone al regime del principio, almeno nella stessa misura in cui lo afferma. (Questi tratti - questa è la mia ipotesi o la mia scommessa - sono presenti, almeno silenziosamente, in Heidegger, e ancora più silenziosamente in Wittgenstein: lo indico per sottolineare che ciò che è qui in questione tocca la necessità del pensiero già dal secolo scorso). Al rapporto tra un principio e le sue conseguenze o tra una condizione e ciò che essa condiziona si oppone il rapporto tra il creatore e la creatura, di cui va innanzitutto detto che esso rompe in modo netto con il rapporto precedente, perché, mentre quest'ultimo è un rapporto d'identità, di inerenza o conseguenza (se A allora B, se alfa allora omega), la creazione è un rapporto di alterità e contingenza (se "Dio", allora non c'è nessuna ragione che egli crei). L'idea di creatio ex nihilo, quando è distinta da ogni forma di produzione 36
o di fabbricazione, corrisponde essenzialmente al duplice motivo dell'assenza di una necessità e dell'esistenza contingente del dato, che non ha ragione, fondamento né principio del suo darsi (un "darsi" o un "dono" al quale probabilmente nessun concetto di dono risulta appropriato). Ex nihilo, cioè: niente al principio, un niente di principio, nient'altro che ciò che è, nient'altro che ciò che cresce (creo, cresco) senza principio di crescita, nemmeno (soprattutto nemmeno) il principio autonomo di una "natura" (salvo a rivalutare questo concetto attraverso Spinoza). Si potrebbe dire, il nihil è posto. Ed è forse il solo modo per uscire seriamente dal nichilismo. "Nichilzsrao" in realtà vuol dire: fare principio del niente. Ma ex nihilo vuol dire: disfare ogni principio, ivi compreso quello del niente. Svuotare, cioè, il niente (rem, la cosa) di ogni principialità: è la creazione2. Senza esaminare oltre le implicazioni o gli obblighi di un simile "disfare", aggiungeremo soltanto altri due tratti. Innanzitutto questo: il rapporto di creazione si riflette nel rapporto tra il santo e il peccatore. Ancora una volta, non è l'identità ma l'alterità che è in gioco. Il santo è l'altro dal peccatore, nel senso che il peccatore si costituisce nel suo essere attraverso il rapporto con questa alterità: pecca di non essere santo, ma è alla santità che deve consacrarsi. Ora, la santità non è un principio. La santità non è né determinabile o rappresentabile, né prescrivibile. Essa apre all'uomo o nell'uomo (a meno che non si debba dire: apre al mondo e nel mondo, non soltanto per l'uomo) la dimensione e il movimento o il gesto di un "superarsi (se passer) infinitamente" - che non sarebbe impossibile chiosare giocando su queste due possibilità del francese: "l'uomo supera (passe) infinitamente l'uomo" e "l'uomo fa infinitamente a meno (se passe de) dell'uomo" ("Dio" o il santo fanno o no a meno degli uomini? Come è noto, questa è una questione che ha continuato a circolare nel cristianesimo). L'ultimo tratto che ricorderemo qui sarà quello della fede. Se il principio deve essere noto o ben conosciuto, come d'altronde do2 Cfr. J.-L. Nancy, La création du monde -oula 2002; (trad. it. Einaudi, Torino 2003).
mondialisation,
Galilée, Paris
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vevano esserlo gli dei, e se inoltre la religione è una forma di sapere - quella dell'osservanza e dello scrupolo - è invece alla fede che si rivolge il santo. La fede non è un sapere debole, ipotetico o soggettivo, inverificabile e ricevibile per sottomissione, non per ragione. Non è una credenza nel senso ordinario del termine, è al contrario l'atto della ragione che si rapporta da sé a ciò che può fare infinitamente a meno di essa: la fede si tiene proprio nel punto dell'ateismo più coerente, cioè spossessato della credenza nel principio e nel principato in generale. È il punto già esplicitamente riconosciuto da Kant quando parla, ad esempio, dell'"incapacità della ragione di bastare a se stessa rispetto al proprio bisogno"3. La ragione non è sufficiente a se stessa: non è ragione sufficiente di sé. Ma è nel riconoscimento di tale insufficienza che essa si fa interamente diritto. Poiché così riconosce non una mancanza o un difetto di cui dovrebbe attendere la riparazione da parte di un altro, ma piuttosto il fatto che la logica della sufficienza e/o della mancanza non è quella che le si adatta. Ecco perché ciò che lo stesso Kant chiamava "una fede morale" (e non "metafisica", "speculativa" o "dottrinale") ha la sua essenza non in una deficienza della ragione ma, al contrario, nella fermezza con la quale la ragione si confronta con la propria insoddisfazione. Non vedendovi un'insufficienza, un difetto o una mancanza che la condannerebbe al nichilismo, essa vi scopre una "non sufficienza" proprio nel senso che ormai non si tratta più di "essere sufficienti" o di "soddisfare", perché non ci sono né sufficienza né soddisfazione possibili là dove non c'è neanche un principio al quale dovrebbe essere resa soddisfazione. La fede è allora la ferma fedeltà della ragione alla propria ateologia. Ciò che il nome di "Dio" o quello del "santo" designano in questo regime ateologico - se si accetta di usare questo termine di Bataille per indicare un ateismo chiaramente liberato dallo schema di un teismo rovesciato - non soltanto rinvia a una rovina del principio ma, in una maniera ancora più opposta alla logica del princi3 Kant, Lettera a Fichte del 2 febbraio 1792, in Briefwechsel, Meiner, Hamburg 1972, p. 553.
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pio, rinvia a "qualcosa", a "qualcuno" o a "un niente" (forse allo stesso nihil ex quo...) di cui la fede è essa stessa il luogo di nascita oppure l'evento creatore. Che "Dio" stesso sia il frutto della fede, la quale a sua volta non dipende che dalla sua grazia (si esime cioè dalla necessità e dall'obbligo), ecco un pensiero decisamente estraneo e forse il più estraneo alla coppia del teismo e dell'ateismo. È il pensiero dell'alterità aperta dalla medesimezza ed esposta fuori di essa, come ciò che l'eccede infinitamente senza per questo esserle in nessun modo principiale. Ora, questo pensiero non era del tutto estraneo alla meditazione cristiana - come pure ad alcune meditazioni ebraiche e islamiche. Citeremo solo Macario di Magnesia: "Chi fa la volontà di mio Padre mi genera partecipando a questa azione ed è generato con me. Chi infatti crede che io sia il Figlio unico di Dio in qualche modo mi genera attraverso la fede"4. Concludendo mi limiterò alla seguente constatazione: il precetto platonico era quello di "assimilarsi al divino", mentre il precetto monoteista era di osservare in noi la similitudine divina. Homoiosis, mimesis e methexis insieme. Ora, ci sono due modi possibili dell'assimilazione: l'appropriazione degli attributi di un soggetto presunto altro e principiale o l'alterazione del medesimo in un'alterità propriamente infinita, quindi inappropriabile, imprescrittibile e an-archica. Resta da capire se "Dio" o "il santo" possano o debbano ancora, e a che titolo, essere dei nomi per questa alterità della ragione. Anche se resta fermo che l'"ateismo" è un termine equivoco e senza avvenire, questo non fornisce alcuna risposta alla questione.
6 Coda Per finire introdurrò direttamente questa questione: è forse venuto il momento di riflettere - e come - su quella che è stata in fondo l'ultima parola di Heidegger: "Ormai solo un dio ci può salvare"? 4 Macario di Magnesia, Le Monogénès, tomo II, p. 23.
a cura di R. Goulet, Vrin, Paris 2003,
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Non è politicamente corretto trattare questa frase senza un certo disprezzo. Ma è filosoficamente necessario. Che cosa dice in effetti? Essa enuncia innanzitutto una tautologia: se si tratta di salvare, è chiaro che "solo un dio" può farlo, se la salvezza deriva da un ordine divino. Tautologia, quindi, e vuota, a meno che non venga elaborato un pensiero della salvezza. "Salvare", però, non è pensato. "Salvare" non significa "guarire". Non è un processo, e non è regolato su una "salute", finale (salvus e sanus non sono la stessa parola). È con un solo, repentino, gesto che si riesce a trattenere chi è già nell'abisso. "Salvare" non annulla l'abisso, ma ha luogo in esso. (In maniera forse simile, il "risveglio" del buddismo ha luogo, se ha luogo, nel bel mezzo del mondo e non fuori di esso). Anche questo - l'essere-nell'abisso o l'essere-dell'abisso (Geworfensein, "miseria", "derelizione", "peccato") - non è il luogo da cui si ritorna mediante una dialettica, né il luogo di cui ci si potrebbe fare una rappresentazione mimetico-catartica, ma quello in cui (più che di cui) c'è salvezza. Almeno è in questa direzione che bisogna pensare. Mi piacerebbe indicare questa direzione con le parole di Rachel Bespaloff (che è stata tra l'altro una straordinaria lettrice di Heidegger): "Non bisogna chiamare Dio la nostra impotenza e la nostra disperazione" (che è poi una citazione di Nietzsche), né cercarvi un "rimedio", ma esporsi "al pericolo della salvezza"5.
Ma come abbordare un tale pensiero? Sicuramente non con la filosofia come "scienza dei principi", come "sapere razionale" o come produzione di rappresentazioni del mondo. È quanto Heidegger suggerisce in quella stessa intervista con lo Spiegel ("La filosofia 5 R. Bespaloff, Cheminements et carrefours, Vrin, Paris 2004, p. 150. (Con i miei ringraziamenti a R. Klapka e M. Jutrin). Deguy, da parte sua, a proposito di questa frase di Heidegger dice: "Vi intendo semplicemente che ciò che salva si sottrae al nostro potere" (M. Deguy, Un homme de peu de foi, Bayard, Paris 2002, p. 57).
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è alla fine" ). E il "dio" di cui parla indica innanzitutto questo, questo "nient'altro" di cui la filosofia come tale non è né il luogo né il regime. Questo dio, quest'"ultimo dio" - come Heidegger dice altrove - questo "dio", perché ogni dio è l'ultimo, cioè dissipa e dissolve l'essenza stessa del divino - è un dio che winkt, che fa cioè un segno senza significato, un cenno di invito o di saluto6. Questo dio ha la sua essenza nel "winken". E questo far-segno, questa strizzata d'occhio avviene a partire dall'£ragm's e in direzione dell'£rezgnis - dell'evento appropriarne attraverso il quale l'uomo appropriato all'essere o dall'essere può essere disappropriato (ent-eignet) di un'identità rinchiusa nella propria umanità e "propriarsi", rivolgersi, dedicarsi (zu-eìgnen) a infinitamente più che a se stesso. È forse semplicemente questo, questa e-levazione dell'uomo che l'uomo troppo umano non riesce neanche a immaginare e alla quale nessuna essenza filosofica dell'uomo può paragonarsi (ma c'è davvero mai stata un'"essenza filosofica" dell'uomo? forse no, forse la filosofia supera sempre la propria fine...) - è forse semplicemente questo che nomina o, meglio, che segnala o a cui "accenna", la parola "dio". Vuol dire se non altro questo: che l'e-levazione ha luogo senza un sapere e fuori del senso. Né sapere forte (scienza) né sapere debole (credenza). Né credenza in Dio né credenza nell'uomo, nel sapere o nell'arte. Ma una fermezza, sì, e una fedeltà - o addirittura una devozione in un senso straordinariamente forte della parola (un "votarsi", come ci si vota a un compito o al diavolo)7. Saremmo ricondotti allora a qualcosa che assomiglia molto alla "fede pratica" di Kant che abbiamo evocato poco fa. È per questo che non sarà senza interesse proporre qui questa conclusione provvisoria: la frase "Ormai solo un dio..." - o una qualunque altra frase che nomini oggi "dio" o il "divino" — non è altro che una riformulazione - arrischiata, ma necessaria, imperiosa addirittura (e non
Cfr. più avanti Di un Wink divino. Non si insisterà mai abbastanza sulla differenza, per non dire sull'incompatibilità radicale fra la fede e la credenza. Qui, e altrove, continuerò a tornare su questo punto. 6
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più arrischiata né meno necessaria, a pensarci bene, di ciò che essa riformula ) - di questa famosa frase: Io dunque ho dovuto sopprimere il sapere per fare posto alla fede-, e del resto, il dogmatismo della metafisica, cioè il pregiudizio di progredire in questa scienza senza una critica della ragion pura, è la vera fonte della mancanza di fede che si contrappone alla moralità ed è sempre fortemente dogmatica8. Ciò che la frase di Kant mantiene aperto per noi non è altro che questo: una critica della ragione, cioè un esame esigente e privo di compiacimenti della ragione da parte della ragione stessa, richiede incondizionatamente, nella ragione stessa, un'apertura e un'e-levazione della ragione. Non è in questione una "religione", ma una "fede", come segno di fedeltà della ragione a ciò che di essa eccede il fantasma di rendere ragione di sé quanto del mondo e dell'uomo. Che sia qui necessario o meno il segnale "un dio" - oppure il "segnale di un dio"- resta, ancora una volta, indeciso. Resterà forse indecidibile - o forse no, ma per il momento almeno questo è sicuro: che dalla nostra ragione atea ci viene rivolto un segnale, qualunque esso sia.
8 Kant, Critica della ragion pura, Prefazione alla II edizione (B X X X ) ; trad. it. Laterza, Bari 1963, mod.
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Decostruzione del monoteismo
Resta tenace l'eredità del monoteismo, delle religioni abramitiche, come le ha giustamente chiamate Louis Massignon. A cominciare dall'ebraismo e dal cristianesimo, ciascuno succede all'altro, ossessionato da quanto è venuto prima: per i musulmani l'islam compie e conclude la lettera della profezia. Ancora non esistono né una vera storia né una demistificazione della multiforme competizione fra questi tre discepoli - nessuno dei quali costituisce, da vicino o da lontano, un terreno uniforme e monolitico - del più geloso di tutti gli dei, benché la sanguinosa convergenza moderna sulla Palestina offra un grande esempio secolare di quanto essi hanno di tragicamente inconciliabile. Non stupisce, allora, che a musulmani e cristiani piaccia parlare di crociate e di jihad, eludendo, gli uni e gli altri, talvolta con una sublime incoscienza, la presenza ebraica. Un tale programma, dice Eqbal Ahmad, "è molto rassicurante per gli uomini e le donne bloccati nelle acque profonde, tra tradizione e modernità". Ma nuotiamo tutti in queste acque profonde, occidentali, musulmani e anche gli altri. E poiché queste acque fanno parte dell'oceano della storia, è vano cercare di dividerle alzando barriere. E. Said, Lo choc dell'ignoranza, «Le monde», 27 ottobre 2001.
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L'Occidente non può più chiamarsi l'Occidente da quando ha visto estendersi al mondo intero la forma di ciò che, fino a poco tempo fa, poteva apparire come il suo profilo particolare. Questa
* Conferenza tenuta al Cairo nel 2001, presso il Centre d'Études et Documentation Économiques Juridiques et sociales (CEDEJ), pubblicata poi, in una seconda versione, nella rivista «Dedale», diretta da Abdelwahab Meddeb.
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forma comprende tanto la tecnoscienza quanto le determinazioni generali della democrazia e del diritto, come pure un certo tipo di discorso e di argomentazione che accompagna anche un certo tipo di rappresentazione nel senso lato del termine (ad esempio il cinema e la musica post-rock e post-pop). L'Occidente, pertanto, non si considera più come il detentore di una visione del mondo o di un senso del mondo che dovrebbe accompagnare questa globalizzazione (la sua globalizzazione) con il ruolo privilegiato che credeva di poter attribuire a ciò che aveva chiamato il suo "umanesimo". La globalizzazione sembra al contrario ridursi, in sostanza, a ciò che Marx aveva già perfettamente individuato come la produzione del mercato mondiale, e il senso di questo mondo sembra consistere soltanto nell'accumulazione e nella circolazione dei capitali, accompagnate da un netto aumento della differenza tra dominatori ricchi e dominati poveri, nonché da un'espansione tecnica indefinita che ormai solo raramente, e con inquietudine o angoscia, si dà finalità di "progresso" e di miglioramento della condizione umana. L'umanesimo sfocia nell'inumanità, questo potrebbe essere il riassunto spietato della situazione. E l'Occidente non comprende come si sia arrivati a questo punto. Eppure è stato proprio lui ad arrivarci: è stata proprio la civiltà, come si suol dire, costruita inizialmente intorno al Mediterraneo dai greci, dai romani, dagli ebrei e dagli arabi, che ha portato questo frutto. Non può quindi essere sufficiente andare a cercare altrove altre forme e altre altri valori (come pure si dice) da innestare su questo corpo ormai mondiale. Non c'è più altrove, o comunque non ci può più essere altrove nel senso occidentale antico (come l'altrove di un Oriente filtrato dal prisma dell'orientalismo oppure l'altrove di mondi rappresentati come vivi nell'immanenza "originaria" del mito e del rito). Il nostro tempo è quello in cui è urgente che l'Occidente - o quel che ne resta - analizzi il proprio divenire, tornando indietro sulla propria provenienza e sulla propria traiettoria e interrogandosi sul processo di decomposizione del senso al quale dà luogo. È sorprendente pertanto constatare che, all'interno di quello che fu l'"Occidente", se ci si interroga sulla filosofia dell'illuminismo (sul modello di una progressione continua della ragione umana) o sulla volontà di potenza del X I X secolo industriale e conqui44
statore, per rivalutarle, o sulle deiscenze dell'Occidente - nel mondo slavo e ortodosso o in quello arabo e islamico - con le loro complessità e le loro occasioni mancate, ci si interroga invece poco sul corpo di pensiero che ha organizzato, in maniera costitutiva e dominante, se non l'Occidente stesso, almeno la sua condizione di possibilità: voglio dire il monoteismo. Si sa - e come non saperlo? - che il triplice monoteismo di una triplice "religione del Libro", (alla quale si potrebbe aggiungere, a titolo indicativo, l'antico manicheismo) definisce una specificità mediterraneo-europea e, di qui, diverse forme di espansione mondiale almeno dei due rami cadetti, il cristianesimo e l'islam. Ma si pensa forse troppo spesso e troppo facilmente che la dimensione religiosa (o che si ritiene, forse a torto, solamente "religiosa") si comporti insomma come un accidente rispetto ai fatti e alle strutture di una civiltà. Più precisamente, questa dimensione appare estrinseca dal momento in cui visibilmente non è più essa a determinare l'aspetto dell'Occidente globalizzato - sebbene, ancora una volta, questa globalizzazione sia anche, per molti versi, globalizzazione del monoteismo nell'una o nell'altra delle sue forme. Giacché, in fin dei conti, se l'economia capitalista e tecnologica costituisce oggi la forma generale del valore o del senso, ciò è possibile attraverso il dominio mondiale di una legge di scambio monetario (o di equivalenza generale) e di produzione indefinita di valore aggiunto nell'ordine di questa equivalenza - valore la cui valutazione resta impossibile se non, appunto, nei termini di equivalenza e di crescita indefinita. Ora, però, questa monovalenza del valore, cioè questo senso unico della circolazione del senso, si comporta come la trascrizione apparentemente non religiosa di quella monocultura che ha prodotto la concezione monoteista: in particolare, la cultura di Roma nella sua espansione europea e moderna, da Bagdad e Teheran fino a Londra e a Los Angeles. Il mistero di questa storia risiede nel carattere assoluto e invisibile insieme, incalcolabile, indeterminabile e universale del valore o del senso unico, posto ora in "Dio", ora nell'"uomo", ora nella tautologia del "valore" stesso. Forse è impossibile fare un passo ulteriore nella comprensione e nella trasformazione della nostra storia senza condurre l'interrogazione fino al cuore di questa struttura di monovalenza. 45
2 Da quando abbiamo assistito al dispiegarsi della razionalità moderna e delle sue modalità più recenti, sempre atee almeno implicitamente, cioè indifferenti alla questione di "Dio" (nell'ambito del sapere o del diritto, dell'estetica o dell'etica), può sembrare inutile riferirsi al monoteismo in una forma che non sia mediata o dal rinvio alla sfera delle convinzioni "private" o da una prospettiva solamente storica. Eppure si sa - cioè, si dovrebbe sapere, ma sapere in un modo attivo, mobilitante e "decostruttore" nel senso che cercherò di spiegare - fino a che punto i tratti più rilevanti della comprensione moderna del mondo, e a volte i suoi tratti più visibilmente atei, ateisti o ateologici, possano e debbano essere analizzati nella loro provenienza strettamente e fondamentalmente monoteista (l'universale, jj diritto, l'individuo, nonché, in maniera più sottile, il motivo di un superamento dell'uomo e nell'uomo attraverso una trascendenza infinita). Qui come altrove la "provenienza" non è mai semplicemente un passato: essa informa il presente e vi produce senza soluzione di continuità i propri effetti. E certamente importante perciò sapere come il monoteismo, pur riproducendosi altrove o sopravvivendo a se stesso (e a volte radicalizzandosi) in figure religiose, sia la provenienza dell'Occidente in quanto globalizzazione sulla quale sembra librarsi qualcosa che è tutt'altro che una provvidenza divina, cioè la fosca ala del nichilismo. Chiamerò "decostruzione del monoteismo" l'operazione che consiste nel separare gli elementi che lo costituiscono, per tentare di distinguere - tra loro e come dietro di essi, dietro la costruzione ciò che ha reso possibile il loro assemblaggio e che paradossalmente ci resta forse ancora da scoprire e da pensare come l'ai di là del monoteismo che si è globalizzato e ateizzato.
3 Va da sé che un tale programma non è riducibile a una sola conferenza, della quale restringo subito la prospettiva. Lo farò in due modi: 46
In primo luogo, darò un'indicazione molto breve e molto sommaria su un punto che bisognerebbe sviluppare a parte: parlando di monoteismo includo subito, nella sua composizione, l'eredità greco-romana, cioè filosofica e statal-giuridica. Il giudeo-cristianesimo non sarebbe stato possibile se, in età ellenistica, non si fosse prodotta una stretta simbiosi tra la coscienza greco-romana e la disposizione monoteista. La prima si caratterizza come la coscienza di un'universalità logico-tecno-giuridica e come separazione tra questa stessa coscienza e la sfera di una "salvezza" (guarigione, liberazione da un male del mondo) concepita come sollecitudine soltanto interiore o privata. La seconda non si distingue per il fatto di avere un solo dio al posto di molti, ma perché l'unicità divina è il correlato di una presenza che non può più darsi in questo mondo, ma al di là (essendo la presenza in questo mondo quella dell'"idolo", il cui rifiuto è probabilmente il grande motivo che genera e unifica la triplice tradizione abramitica). Il nesso tra queste due provenienze è stata la possibilità di mettere "dio" al singolare, come era avvenuto tanto in Platone quanto tra gli ebrei, per quanto notevoli fossero le differenze tra quei due singolari. In secondo luogo, limiterò qui l'analisi a quella forma del monoteismo che è diventata la più europea - e che quindi ha maggiormente accompagnato, almeno fino alla metà del X X secolo, l'occidentalizzazione del mondo - il cristianesimo. E anche la forma di cui sono meno incapace di parlare, perché è quella della mia cultura di francese e di europeo (cosa che implica d'altronde anche una certa distanza nei confronti del cristianesimo ortodosso). Ma lo farò solo a due condizioni che sottolineo: 1) In primo luogo bisognerà tenere in serbo, per il successivo lavoro di decostruzione, le altre grandi forme del monoteismo che sono l'ebraismo e l'islam: non tanto per trasferire dall'una all'altra la stessa operazione d'analisi, quanto per non perdere di vista, alla lunga, l'interazione costante, nel monoteismo, della sua triplice determinazione o del singolare plurale che lo costituisce; bisognerà quindi anche, in un altro momento e in un altro luogo, decostruire questa interazione, comprendere ciò che, nell'Occidente, appartiene al movimento attraverso il quale il monoteismo si è, per almeno tre volte, ridefinito, ripreso o riappropriato di sé e spostato o tra47
sformato. Anche questo, infatti, costituisce la nostra provenienza: la mescolanza e la separazione dell'ebreo, del cristiano, del musulmano; 2) In secondo luogo, seguendo il filo conduttore del cristianesimo, bisognerà stare attenti a non lasciare in ombra ciò che lo lega all'ebraismo e all'islam in tante diverse maniere - corrispondenza, contrasto, conflitto: anche questo, infatti appartiene tanto al cristianesimo come tale, quanto a ciò che, attraverso il vettore cristiano, ha costituito l'occidentalizzazione del monoteismo e quindi anche la sua globalizzazione profondamente complessa e ambigua.
4 Tratterò adesso dei lineamenti di una "decostruzione del cristianesimo". Per collegarmi con quanto ho detto all'inizio, preciserò innanzitutto che l'importante non sta nei segni cristiani, così numerosi e visibili, che porta l'Occidente e di cui il simbolo della croce è una sorta di compendio. L'importante è che il cristianesimo è presente anche - e forse soprattutto - là dove non è più possibile riconoscerlo. Il segno della croce può ben ornare luoghi o pratiche cristiane ormai esangui, e, come si sa, non da oggi. Invece, e per esempio, una certa concezione dei "diritti umani", come pure una certa determinazione del rapporto tra politica e religione, provengono direttamente dal cristianesimo. Importa quindi individuare in che cosa l'Occidente sia cristiano in profondità, in che cosa il cristianesimo sia occidentale come per vocazione, e dove, in questa occidentalità cristiana, entri in gioco una dimensione essenziale dell'intero monoteismo. Importa pensarlo perché il mondo occidentalizzato - o l'Occidente mondializzato - si esperisce come privo di senso - di senso o di valore, se si vuole mettere l'accento sul fatto che ogni valore è stato sostituito da quell'equivalenza generale che Marx ha chiamato l'equivalenza della "merce". Per certi aspetti, infatti, e al prezzo di una semplificazione grossolana, ma capace di toccare un punto essenziale, la domanda potrebbe assumere questa forma: che cosa lega il monoteismo e la monovalenza dell'"equivalenza generale"? Quale segreta 48
risorsa tiene nascosta la propria ambivalenza nello schema organizzatore del mono? Cercando di rispondere a questa domanda - ma per far questo bisognerebbe certo affinare la forma rozza che le ho dato - potremmo sperare di ottenere almeno tre risultati: 1) Farla finita innanzitutto con lo schema unilaterale di un certo razionalismo secondo il quale l'Occidente moderno si sarebbe affermato contro il cristianesimo e sottraendosi al suo oscurantismo (curiosamente, lo stesso Heidegger ripeterà, a modo suo, qualcosa di questo schema): perché si tratta di comprendere come il monoteismo in generale e il cristianesimo in particolare abbiano contribuito a generare l'Occidente. 2) Bloccare, però, anche ogni tentativo di "guarire" i "mali" del mondo attuale (la sua privazione di senso) con un ritorno al cristianesimo in particolare, o alla religione in generale: poiché si tratta di comprendere come siamo già usciti dal religioso. 3) Domandarsi quindi nuovamente che cosa, senza negare il cristianesimo ma senza neanche tornare a esso, potrebbe condurci verso un punto, una risorsa, sommersa sotto il cristianesimo, sotto il monoteismo e sotto l'Occidente, che bisognerebbe ormai mettere in luce: perché questo punto aprirebbe, insomma, a un avvenire del mondo che non sarebbe più né cristiano, né anti-cristiano, né monoteista, né ateista o politeista, ma capace di andare proprio al di là di tutte queste categorie (dopo averle rese tutte possibili). Chiamerò "decostruzione del monoteismo" la ricerca che consiste nel separare e analizzare gli elementi costitutivi del monoteismo, e più direttamente del cristianesimo, e quindi dell'Occidente, allo scopo di risalire (o di procedere) fino a una tale risorsa che potrebbe costituire, allo stesso tempo, l'origine sommersa e l'avvenire impercettibile del mondo che si dice "moderno". Dopo tutto, mondo "moderno" significa un mondo sempre in attesa della sua verità di mondo, un mondo il cui senso non è dato, non è disponibile, ma è come un progetto, una promessa o forse al di là: un senso che consiste nel non essere dato, ma soltanto promesso. Non è però forse una caratteristica del cristianesimo e del monoteismo in generale il 49
contratto o l'alleanza di promessa, l'impegno che impegna prima di tutto a impegnarsi in esso? Nel cristianesimo la promessa è, insieme, già realizzata e ancora a venire (ma non è questo un tema che si profila in tutti i monoteismi?). Un tale spazio paradossale non è forse quello in cui la presenza del senso è assicurata, acquisita e, allo stesso tempo, sempre ritratta, resa assente nella sua stessa presenza? Un mondo, il cui senso è dato nel non essere - ancora e forse mai - senso, è un mondo nel quale il "senso" sfida ogni senso accettato e accettabile. Questa sfida potrebbe essere quella che il monoteismo ci ha lanciato e che una decostruzione del monoteismo dovrebbe raccogliere?
5 Intraprendendo una "decostruzione del cristianesimo" nel senso che ho appena indicato, ci imbatteremo innanzitutto in questo che dovrà restare al centro di ogni ulteriore analisi e valere come principio attivo per ogni decostruzione del monoteismo in generale: il cristianesimo è per se stesso, in se stesso, una decostruzione e un'auto-decostruzione. È anche per questo che esso rappresenta la forma più occidentalizzata - e/o occidentalizzante, se così si può dire - del monoteismo e, allo stesso tempo, uno schema che bisognerà imparare a utilizzare per l'insieme del triplice monoteismo. Il cristianesimo, in altre parole, indica nella maniera più attiva - ma anche più rovinosa per se stesso e per certi versi più nichilista - come il monoteismo alberghi in sé - o, meglio, in un luogo che gli è addirittura più intimo di se stesso, al di qua o al di là di sé - il principio di un mondo senza Dio. Oggi, in questa breve conferenza, mi limiterò ad indicare, in maniera sommaria, i tratti principali di questo carattere auto-decostruttore del cristianesimo. Ne distinguerò cinque: 1. Il primo è un carattere che è iscritto nel principio stesso del monoteismo. Di esso il cristianesimo mostra lo sviluppo paradossale, mentre i rapporti fra le tre religioni del Libro, nella loro prossimità così tesa e così divisa, ne espongono la contraddizione interna. 50
Lo enuncio così: il monoteismo è in verità ateismo. La sua differenza con i "politeismi" non dipende dal numero degli dei. La pluralità degli dei corrisponde, infatti, alla loro presenza effettiva (nella natura, in un'immagine, in uno spirito posseduto), e la loro presenza effettiva corrisponde a dei rapporti di potenza, di minaccia o di assistenza, che la religione organizza mediante l'insieme dei suoi miti e dei suoi riti. L'unicità del dio indica, invece, il ritrarsi di questo dio luori della presenza e quindi anche fuori della potenza così intesa. Se il Dio d'Israele è un Dio Onnipotente (qualità che lascia in eredità ai suoi successori), non è nel senso di una potenza attiva in un rapporto differenziale di potenze: la sua "onni"-potenza significa che egli è il solo a poterne disporre interamente a suo modo, e può tanto ritrarla quanto ritrarsene, e che è soprattutto il solo a poter stringere alleanza con l'uomo. Non esige pertanto sacrifici destinati a ottenere la benevolenza del suo potere, ma soltanto la fedeltà incondizionata alla sua alleanza - fedeltà a nient'altro che all'elezione "gelosa" che fa del suo popolo, dei suoi fedeli o dell'uomo in quanto tale. Con la figura di Cristo è la rinuncia stessa alla potenza divina e alla sua presenza a diventare l'atto proprio di Dio e a fare di quest'atto il suo divenire-uomo. In questo senso il dio ritratto, il dio "svuotato" secondo la parola di Paolo, non è un dio nascosto nel fondo del ritrarsi o del vuoto. (Deus absconditus): là dove si è ritratto non c'è né fondo né nascondiglio. È il dio la cui divinità è costituita proprio dall'assenza o il dio la cui verità è proprio il vuotodi-divinità. (Si pensi alla frase di Eckhart: "Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio", oppure a quella di Harawi che imita al-Hallaj: "Nessuno può testimoniare veramente del Dio unico 'che è unico'" 1 ). Il monoteismo, nel suo principio, demolisce il teismo, cioè la presenza della potenza che aggrega il mondo e ne assicura il senso. Msso rende quindi assolutamente problematico il nome di "dio" - lo rende non-significante e soprattutto gli toglie ogni potere di assicurazione. La certezza cristiana non può aver luogo che al prezzo di
1 Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, trad. it. Adelphi, Milano 1985, p. 133; Al 1 Iallaj, Diwan, trad. fr. a cura di Massignon, Cahiers du Sud, Paris 1955, p. 83 (trad. il. a cura di A. Ventura, Marietti, Genova 1987).
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una categoria completamente opposta a quella della credenza religiosa: la categoria della "fede", che è la fedeltà a un'assenza e la certezza di questa fedeltà nell'assenza di ogni assicurazione. In questo senso l'ateo che rifiuta fermamente ogni assicurazione consolatrice o redentrice è paradossalmente più vicino alla fede che non il "credente" stesso. Ma questo vuol dire anche che l'ateismo, che determina ormai la struttura occidentale ed è inerente al suo modo di sapere e di esistere, è esso stesso il cristianesimo realizzato. (Ciò non toglie che ci siano grandi differenze tra i diversi cristianesimi: quello dell'America latina, ad esempio, non è affatto, a questo proposito, nella medesima posizione di quello dell'America del Nord o di quello europeo. Ma le dinamiche fondamentali restano le stesse). 2. Secondo carattere auto-decostruttore e che deriva dal precedente: la demitologizzazione. Con un percorso diverso da tutte le altre religioni del mondo (fatta eccezione per il buddismo, che non è una religione vera e propria e ha perciò alcuni tratti in comune con il monoteismo), il triplice monoteismo, e al suo interno soprattutto il cristianesimo, si auto-interpreta nella sua storia in maniera sempre meno religiosa, nella misura in cui la religione implica una mitologia (un racconto, una rappresentazione delle azioni e delle persone divine). Il monoteismo traduce se stesso in termini che non sono più quelli di una narrazione fondatrice ed esemplare (la Genesi, Mosè, Gesù, la sua resurrezione, ecc.), ma quelli di una simbologia decifrata nella condizione umana (la ragione umana, la sua libertà, la sua dignità, il suo rapporto ad altri...). Il cristianesimo cancella tendenzialmente ogni segno religioso distintivo e ogni sacralità a favore di quella che Kant chiamava una "religione nei limiti della semplice ragione", oppure di ciò che Feuerbach enuncia dicendo che "la fede in Dio è perciò la fede dell'uomo nella sua propria essenza, nell'infinità di se stesso"2. Ormai l'etica democratica dei diritti umani e della solidarietà - con la questione dei fini da attribuire a questo "umanesimo" o della conquista da parte dell'uomo della propria destinazione - costituisce insomma il sedimento durevole del cristianesimo.
2 L. Feuerbach, L'Essenza del cristianesimo (1841), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1997, p. 198.
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3. Il cristianesimo si presenta storicamente e dottrinalmente come un insieme composito. Esso, cioè, non si presenta soltanto come un corpo di narrazioni e di messaggio (benché, inizialmente, metta in primo piano una "buona novella" annunciata attraverso una narrazione esemplare), ma esplicitamente come un'elaborazione complessa che sorge e si distacca dall'ebraismo, ma anche dalla filosofia greca o greco-romana, tanto sul versante dell'ontologia quanto su quello della politica. Inoltre esso si definisce anche attraverso un rapporto, non meno complesso, con l'islam che respinge, pur riconoscendone la co-appartenenza alla fede abramitica, nonché il ruolo svolto nella storia del pensiero filosofico-teologico. Questa complessità storica dichiarata - e in particolare dichiarata attraverso i rapporti problematici tra la "fede" e il "sapere" o tra la "rivelazione" e la "ragione" - porta già di per sé il segno di un regime diverso da quello di una religione strìctu sensu: come se questo regime avesse in sé la possibilità continua di scindersi o autointerpretarsi su due registri distinti. D'altra parte, la costruzione teorica o dogmatica cristiana è quella di un pensiero che ha al centro "il verbo di Dio fatto carne". Il dogma dell'incarnazione mette in gioco le idee di "natura" o di "essenza", di "ipostasi" o di "presentazione sensibile" per stabilire che la persona di Gesù è - in maniera identica - quella di un uomo e quella di Dio in un'unica manifestazione. Certo, il cuore di questo dogma viene dichiarato "mistero", ma il mistero non ha il carattere di un mito: esso si rivolge allo spirito dell'uomo, chiedendogli di prendere in considerazione ciò che, pur restandogli incomprensibile, l'illumina in se stesso e su di sé (ancora una volta, cioè, su una destinazione infinita dell'uomo). Evidentemente l'incarnazione è il punto di separazione assoluta dall'ebraismo e dall'islam. Ma non è inutile osservare che questo punto di discordia è in primo luogo anche quello intorno al quale si discute la questione centrale del monoteismo (vale a dire: che cos'è l'alleanza tra Dio e l'uomo?), il punto quindi dell'auto-esplicazione (del dispiegamento in sé da sé) del monoteismo e, in secondo luogo, il punto in cui ogni monoteismo può e deve ritrovare negli altri qualcosa di sé (la resurrezione, per esempio, corollario dell'incarnazione, appartiene anche all'islam, mentre il perdono del peccato, altro corollario, viene dall'ebraismo, 53
anche se, d'altronde, l'incarnazione non abolisce di fatto l'assolutezza incondivisibile del dio giudeo-islamico...). Questa unità scissa del monoteismo costituisce, nella maniera più propria e dunque anche più paradossale, l'unità dell'unico dio. Si potrebbe dire, con tutte le risonanze possibili, che questo dio si divide - o si ateizza al crocevia del/dei monoteismi... 4. Il cristianesimo, quindi, è meno un corpo di dottrina che non un soggetto in rapporto con se stesso, in una ricerca di sé, in un'inquietudine, un'attesa o un desiderio della propria identità (si pensi al grande tema dell'annuncio e dell'attesa, che ricorre nei tre monoteismi, ma è paradossalmente sviluppato nel cristianesimo come speranza dell'evento avvenuto). Ecco perché il cristianesimo, pensando un dio in tre persone la cui divinità consiste nel rapporto con sé, si divide storicamente almeno in tre (divisione della comunità che dovrà alla fine riunirsi) e presenta la logica del triplice monoteismo come soggetto scisso da sé (religione del Padre, religione del Figlio, religione del Santo nel senso islamico). Il rapporto con sé definisce il soggetto. La struttura del soggetto appare come la cesura tra il mondo antico e il mondo cristianooccidentale. (Bisognerebbe qui soffermarsi sulla sua provenienza greca, sulla sua elaborazione agostiniana, avicenniana, cartesiana, hegeliana e sul fatto che si tratta della storia di tutti i sensi e di tutte le figure di ciò che si è chiamato "spirito"). Questo soggetto è il sé in quanto istanza dell'identità, della certezza e della responsabilità. Ma la legge della sua struttura è che non può essere dato a sé, prima di essersi esso stesso messo in rapporto con sé: il suo rapporto con sé - o "il sé" in generale - non può essere che infinito. Essendo infinito, da una parte, assume una dimensione temporale (si mette ad avere storia, passato e avvenire come dimensioni del senso e della presenza - o anche: la presenza non è semplicemente al presente) e, dall'altra, non può in fondo che sfuggire a se stesso. Questa fuga da sé definisce insieme, in questo spazio di pensiero, la vita del creatore e la morte della creatura. Ma così sono entrambi, l'uno nell'altra o mediante l'altra, affetti dall'in-finito nel senso della finitezza. 5. Il cristianesimo (e, di nuovo in quest'ottica, anche il monoteismo) è impegnato fin dall'inizio in un processo continuo (in un processo e in una disputa) di autorettifica o di autosuperamento, 54
per lo più nella forma di un'autoretrospezione in vista di un ritorno a un'origine più pura - processo che si ritrova, esempio eminente, fino allo stesso Nietzsche e che continua ancora oggi, ma che comincia già tra i Vangeli e Paolo, tra Paolo e Giacomo, alle origini del monachesimo, e poi, ovviamente, nelle diverse Riforme, ecc. È come se il cristianesimo avesse sviluppato, più di chiunque altro, una volontà di potenza, di dominio e di sfruttamento teologico-economico-politico, di cui Roma è stata un simbolo che ha pesato quanto una parte della realtà, e contemporaneamente un desiderio di spoliazione e abbandono di sé il cui punto di fuga è l'auto-dissoluzione. La questione sarà, allora, quella della natura e della struttura di questa auto-dissoluzione: superamento dialettico, disfacimento nichilista, apertura dell'antico all'assolutamente nuovo... Comunque sia, ciò che è in questione è solo questo: come il monoteismo si sia generato come umanesimo e come l'umanesimo abbia affrontato la finitezza entrata così nella storia.
6 Mi fermerò, per oggi, a questa breve caratterizzazione. Non ne traggo alcuna conclusione. Mi sembra che essa indichi una direzione di pensiero senza la quale è impossibile considerare seriamente, ormai, la questione del senso del mondo che l'Occidente ci lascia in eredità - o in giacenza. La questione - se ci si limita all'essenziale a sua volta schematizzato - potrebbe essere questa: il nostro compito non è quello di portare a compimento un nuovo regno divino, né in questo mondo né in un altro; e non è nemmeno quello di ritrovare l'unità immanente propria di un mondo del mito che si è dissolto nell'occidentalizzazione-monoteizzazione del mondo; ma è pensare un "sensodi-mondo" in un mondo diviso dal proprio essere-mondo, in un mondo acosmico e ateologico, che resta però pur sempre "mondo" in qualche modo, pur sempre nostro e della totalità degli enti, pur sempre quindi totalità di senso possibile - purché quella possibilità sia sempre anche esposta da sé all'impossibile.
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Post-scriptum (febbraio 2002) Il testo che precede è quello di una conferenza tenuta al Cairo nel febbraio del 2001. Un anno dopo, cioè un "11 settembre" dopo, essa esige qualcosa di più di un complemento (senza contare che il mio lavoro su questo soggetto ha subito spostamenti, aprendo nuove piste). Se F " l l settembre" ha chiarito qualcosa è questo: il mondo si lacera attorno a un'insopportabile divisione della ricchezza e del potere. Questa divisione è insopportabile perché non si fonda su nessuna gerarchia accettabile né del potere, né della ricchezza. Una "gerarchia" significa, secondo l'etimologia, un carattere sacro del principio o del comandamento. Il mondo della tecno-scienza o il mondo che metto sotto il nome di ecotecnica - cioè un ambiente naturale interamente composto dal succedaneo umano di una "natura" ormai scomparsa - e che è anche il mondo della democrazia, dei diritti universali di un uomo presunto universale, il mondo della laicità o della tolleranza religiosa, estetica e morale, non solo impedisce di fondare in maniera sacralizzata differenze d'autorità e di legittimità, ma fa apparire come intollerabili le disparità e le ineguaglianze che violano apertamente i suoi principi di uguaglianza e di giustizia. Ciò che si chiama la strumentalizzazione delle religioni, oppure la deviazione, la perversione o il tradimento di questa o quella religione (ivi compreso il teismo nazionale degli Stati Uniti), non è affatto una spiegazione sufficiente. Ciò che è strumentalizzato o tradito fornisce, da sé, materia di strumentalizzazione o di perversione. Questa materia è data, in maniera paradossale ma evidente, dal motivo dell'Uno: sono l'Unità, l'Unicità e l'Universalità ad essere chiamate in causa, da una parte e dall'altra, nello scontro mondiale o piuttosto nel mondo strutturato in uno scontro che non è affatto quello di una "guerra di civiltà" (poiché l'islam è anche una parte dell'Occidente, intessuta nella sua storia, benché non sia solo questo). Alla mobilitazione totale (non a caso utilizzo un concetto che è stato fascista), proclamata e telecomandata in nome di un Dio unico, la cui unicità trascendente opera una gerarchizzazione assoluta 56
(Dio, il paradiso dei credenti, la polvere di tutto il resto — dove tutto il resto è fatto anche di molti dollari, missili e petrolio...), si pretende di rispondere con l'immobilizzazione totale della situazione (il capitale mondiale) in nome di una pretesa universalità, il cui Universale è chiamato "uomo", ma che, nella sua evidente astrazione si rimette subito a un altro Dio ("in God me trust, [in this God who] bless America"). L'uno e l'altro Dio sono due figure, che si fronteggiano, dell'identico Unico, quando la sua Unicità è colta come presenza assoluta, consistente in sé e per sé come il vertice perfetto e quindi invisibile di una piramide di cui riassume e riassorbe l'essenza. (Si potrebbe dire qui, visto che proseguo un discorso tenuto al Cairo: il valore delle piramidi dei Faraoni non consisteva nel punto zero del loro vertice, ma nel segreto di morte e vita sepolto nella loro massa. Esse valevano per il profondo ritrarsi in un'oscurità criptica, non per il culmine di una presenza eretta in evidenza). È lecito dire senza essere "anti-americani" (categoria ridicola) che è stato proprio il modello Uni-ficante, Unitario e Universale, anche Unidimensionale e infine Unilaterale (il che è la sua contraddizione interna), ad aver reso possibile la mobilitazione inversa e altrettanto nichilista di un modello monoteista e altrettanto unilaterale. E se vi si presta attenzione, è solo perché è diventato lo strumento ideologico di quel "terrorismo" che sappiamo. Ma il "terrorismo" è la congiunzione della disperazione e di una volontà Uni-ficante che affronta l'altra faccia dell'Uno. Ciò che così è andato perduto dell'essenza del monoteismo in tutte le sue forme è proprio il fatto che in esso l'"uno" del "dio" non è affatto l'Unicità sostanziale, presente e riunita a sé: al contrario, l'unicità e l'unità di questo "dio" (o la divinità di questo "uno") consistono proprio nel fatto che l'Uno non può essere posto, presentato né figurato come riunito in sé. Nell'esilio e nella diaspora, nel divenire uomo e nell'essere trino-in-sé, nella distanza infinita di colui che non ha né uguali né simili (quindi nemmeno l'unità in nessuna delle sue forme), questo "dio" (e in che cosa o come è divino? questo bisogna pensare) esclude assolutamente la propria presentazione e bisognerebbe perfino dire la propria valorizzazione in quanto presenza. 57
Questo i grandi mistici, i grandi credenti, i grandi "spirituali" dei tre monoteismi l'hanno sempre saputo e l'hanno sempre saputo negli scambi e nelle dispute molteplici con i filosofi coi quali dovevano misurarsi pur nella loro differenza. I loro pensieri, cioè i loro atti, i loro ethos o le loro praxis, ci aspettano ancora.
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Il giudeo-cristiano Della fede
1 "Giudeo-cristiano" è una denominazione precaria. La parola compare nel Littré, che ne fornisce una definizione storica che la limita alla religione dei primi ebrei cristiani, di coloro che ritenevano che i cristiani non-ebrei avrebbero dovuto "essere incorporati nella nazione d'Israele". Questa accezione esclude i partigiani delle disposizioni decise a Gerusalemme sotto la presidenza di Giacomo e riportate negli Atti degli Apostoli (15). Questa definizione non è già più condivisa, alla fine del secolo, da Harnack che si limita a indicare una posizione preferenziale per il popolo ebreo come tratto distintivo dei giudeo-cristiani che distingue così dai "pagano-cristiani" (che saranno chiamati anche "elleno-cristiani" o "cristiani ellenisti"). Oggi l'uso del termine è ancora meno restrittivo, nel rispetto della complessità messa in luce dagli storici. Alcuni di costoro, inoltre, avanzano dubbi sulla validità della categoria, se non altro per la diversità dei movimenti e delle posizioni che abbraccia. Nel frattempo l'uso ha accreditato un impiego più largo e non storico, quando si parla ad esempio di cultura o di tradizione giu* La prima versione di questo testo è una conferenza tenuta al convegno "Judéités. Questions à Jacques Derrida", organizzato da Joseph Cohen e Raphael Zajury-Orly a Parigi nel 2000, i cui atti sono stati pubblicati con lo stesso titolo da Galilée nel 2003. Il testo si riferisce quindi a due "Jacques": l'uno, autore dell'Epistola neo-testamentaria e l'altro, Derrida, specialmente per il suo saggio Foi et savoir. Les deux sources de la "religion" aux limites de la simple raison, in La Religion. Séminaire de Capri, Paris, Seuil 1996; (trad. it. in La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995).
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deo-cristiana per indicare un certo intreccio, al centro della civiltà europea, fra le due nemiche - sorelle o madre e figlia - la Sinagoga e la Chiesa. In verità, questo termine composto ha finito per designare un'articolazione essenziale della nostra identità e del nostro pensiero, o "l'abisso più impenetrabile che il pensiero dell'Occidente racchiuda" 1 , come ha scritto Lyotard a proposito del trait d'union, del tratto di congiunzione che tiene insieme questo composto o che lo s-compone al suo centro, facendo del suo centro una disunione. L'enigma di questa incomponibile composizione ci deve interessare per vari motivi e, in effetti, ci interessa per questi cinque motivi: 1. Poiché il termine "giudeo-cristiano" può arrivare a porre un - se non il - tratto saliente, incisivo e decisivo, se non essenziale, di una civiltà che è stata chiamata "occidentale", ciò che in esso è in gioco è proprio la composizione e/o la scomposizione, in sé e per sé, di questa "civiltà". 2. Poiché il suo nome scompone ciò che nella nostra cultura abbiamo stabilito di chiamare "religione", esso implica nella determinazione del pensiero occidentale (e nella sua autodeterminazione) un tratto di congiunzione tra "religione" e "pensiero", proprio là dove il pensiero, sotto il nome anch'esso, benché altrimenti, autocomposto di "filosofia", si è determinato come non religioso, o addirittura antireligioso, facendo un tratto sulla religione per distruggerla o per scomporla; questo nome implica quindi un punto di contrarietà dell'Occidente in sé e per sé. 3. Poiché implica la filosofia, sia pure come contrarietà o come contraddizione, questo nome comunica in qualche modo con un altro composto: il greco-ebreo e/o l'ebreo-greco. Questo nome, prima di essere un termine forgiato nella lingua joyciana della s-composizione, non denomina altro che il pendant del giudeo-cristianesimo, in quanto pagano-cristianesimo o ellenismo-cristiano (quest'ultimo, da cui partì l'espansione missionaria del cristianesimo, 1 J.-F. Lyotard, D'un trait d'union, in J.-F. Lyotard e E. Gruber, Un trait d'union, Le Griffon d'argile/Presses Universitaires de Grenoble, Montréal 1993, p. 23.
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potè anche dirsi di ebrei che parlavano e pensavano in greco e che indicavano inoltre la loro nuova religione come un'altra filosofia, e per questo motivo non c'è, tendenzialmente, giudeo-cristianesimo che non sia anche giudeo-greco-cristianesimo, e la filosofia non può prescindere da questo duplice tratto di dis-unione). 4. Poiché questo tratto si moltiplica da sé almeno una volta, la sua moltiplicazione continua: trae o traccia, a partire da sé, una s-composizione generale; questa, dis-unisce innanzitutto le tre religioni dette "del Libro", formando quindi con l'islam un altro composto e un'altra discontinuità dell'Occidente, un altro disorientamento e ri-orientamento (si sa, d'altronde, che epigoni del giudeo-cristianesimo storico esercitarono un'influenza sulla nascita dell'islam come, qualche secolo prima, sulla formazione del manicheismo); la moltiplicazione è ancora quella che s-com-pone tra loro gli ebraismi, i cristianesimi e gli islamismi, mettendo in gioco ogni volta una nuova forma di contrarietà o di attrazione nei confronti della filosofia, la quale, da parte sua, si presume una, anche perché, pur nella sua estrema diversità sincronica e diacronica, si pone come distinta dalla religione (o anche, all'interno della religione stessa, come essenzialmente distinta dalla fede). 5. Poiché la composizione giudeo-cristiana nasconde o attiva ciò che si potrebbe chiamare la dis-posizione (o dys-posizione) generale dell'Occidente, ne deriva che essa sposa formalmente uno schema che ricorre spesso in tutta la nostra tradizione di pensiero: è lo schema della coinridentia oppositorum, la cui declinazione comporta, tra l'altro, l'ossimoro, il Witz, la dialettica hegeliana e l'estasi mistica. Non è il caso di chiedersi da quale di queste specie derivi la composizione giudeo-cristiana, perché essa deriva forse da tutte insieme o le contiene tutte. Ma è certo che la legge più generale di questo schema (come d'altronde la struttura dello schematismo kantiano, che costituisce a sua volta un'altra specie dello stesso genere) consiste nel comportare al proprio centro uno scarto intorno al quale si articola. Il tratto di congiunzione passa su un vuoto che non colma. Su che cosa apre questo vuoto? È la domanda che una riflessione attenta sulla com-posizione giudeo-cristiana non può eludere. Una simile riflessione è forse, virtualmente, una riflessione sulla composizione della nostra tradizione e nella nostra tradizione, cioè, 61
in fin dei conti, sulla possibilità del cum considerato per se stesso. Come il cum, come la comunione - intesa come un termine generico (questa parola di Cicerone ripresa più tardi dal cristianesimo per assorbire e superare la koinonia, la societas e la communicatio2 comporti costitutivamente lo svuotamento del suo centro o del suo cuore. Come, quindi, questo svuotamento chiami in causa la decostruzione della composizione: la penetrazione, cioè, in seno alla possibilità in sé contrariata - contratta e contrariata - della composizione. (Parentesi per due assiomi: 1. Una decostruzione è sempre una penetrazione; non è né una distruzione, né una risalita all'arcaico, né una sospensione dell'adesione: è un'intenzionalità dell'avvenire chiuso nello spazio nel quale si effettua la costruzione; 2. La decostruzione appartiene quindi alla costruzione come la sua legge o il suo schema: non sopraggiunge da altrove). La decostruzione, qui, non è altro che la logica, storica e teorica insieme, della costruzione di ciò che si potrebbe intitolare, come nel caso di un quadro, "Composizione al trait d'union". La composizione, il carattere composto o composito, non è certo un tratto esclusivo del cristianesimo né dell'Occidente. Il cristianesimo tuttavia non fa che designare, da se stesso e come se stesso, una comunicazione o una messa in comune, una koinonia che appare tendenzialmente come la sua essenza o come il suo acme, ed è proprio questo che ha inculcato nell'Occidente, o addirittura in quanto occidentalità, il disegno di un "pleroma delle genti" (pleroma ton ethnon, plenitudo gentium, Rm 11, 25), di cui la comunità rifatta con Israele deve essere, secondo questa lettera di Paolo, la pietra di paragone. Questo è anche il motivo per cui l'ebraismo pre-cristiano o para-cristiano di Qumran considera la comunità come il vero Tempio. Nel passaggio dalla religione del Tempio alla fede comunitaria o comunionale, dalla religione dei figli alla religione dei fratelli, fi2 Semplice allusione a un'evoluzione linguistica che è possibile seguire nei primi testi della storia cristiana.
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no alla fraternità repubblicana e fino all'accostamento fatto da Engels tra i primi comunisti e i primi cristiani3, cioè, più precisamente, quegli ebrei che egli chiama "cristiani non ancora coscienti" (riferendosi soprattutto al Giovanni dell'Apocalisse), in questo passaggio dunque che produce anche un abbandono generale dei templi dell'antichità a favore della costituzione di una "chiesa" che significa innanzitutto "assemblea" (come, d'altronde, la "sinagoga"), fino alla questione di che cosa possa significare, oggi, la koinonia del nostro divenire-mondiale e il suo essere-comune nei vari sensi del termine, c'è la continuità insistente di una com-posizione che comporta in se stessa, nel suo stesso curri, la legge di una decostruzione: che cosa c'è sotto il tratto e al centro vuoto della composizione?
2 Da questa enumerazione dei motivi dell'incomponibile composizione che ci interessa, non traggo, per il momento, nessuna conclusione. Mi limiterò qui ad esaminare una delle disposizioni più importanti del giudeo-cristianesimo: quella che ha finito per essere incorporata nel canone cristiano del cosiddetto "Nuovo Testamento", nonostante i molti dubbi e le molte resistenze, continuate talvolta fino a noi. Parlerò dell'Epistola attribuita a Giacomo. Questa lettera è la prima di quelle che una tradizione molto antica chiama "cattoliche". Questa definizione non indica all'origine una particolare obbedienza nei confronti della Chiesa romana, ma piuttosto, come nell'espressione katholike ekklesia, la loro destinazione generale o, se si vuole, universale: invece di rivolgersi a una determinata comunità, sinagoga o chiesa (come le Epistole di Paolo), questi testi si rivolgono a un insieme più largo che, ogni volta, nasce dalla diaspora. Che la cattolicità e la diaspora abbiano avuto inizialmente a che fare, è qualcosa su cui riflettere: il "tutto" e la "dispersione", ciò significa un tutto di dispersione, una dispersione del tutto o un tutto in dispersione? In un certo senso tutta la que3 Cfr. F. Engels, Zur Gescbicbte des Urchristentum, 22, Dietz Verlag, Berlin 1972.
in Marx/Engels Werke, Bd.
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stione è qui: tutta la questione dell'Occidente come totalità e/o come disseminazione. Oggi, per noi, il giudeo-cristiano sarà Giacomo. E, come vedremo, ci potrebbe essere un filo o un legame segreto che congiunge il Giacomo storico a quest'altro Jacques, intorno al quale e in occasione del quale siamo qui riuniti, e che è un altro giudeo-cristiano o, meglio, un altro giudeo-elleno-cristiano. Questo legame segreto non sarebbe né inventato né arbitrario, e non sarebbe neppure una forzatura a sostegno della causa. Bisogna provare, se non altro, la possibilità della sua pertinenza che dipende soltanto dalla risposta a questa domanda: se alla fine del X X secolo un filosofo, e quindi in linea di principio un greco, sente la necessità di reinterrogare la categoria di fede o dell'atto di fede, nonché di parlare del reale come resurrezione 4 , e se lo fa utilizzando contemporaneamente riferimenti ebraici (la santità, ripresa da Lévinas) e cristiani (un "miracolo dell'attestazione" 5 ), in che rapporto sta questo con il giudeo-cristianesimo storico e che cosa ci fa capire e decostruire nella nostra provenienza? (Parentesi: prima di affrontare l'epistola, tengo a precisare che procederò senza fornire materiali eruditi, perché sarebbero solo eccessivi. Abbondantissimi sono gli studi, soprattutto recenti, sul giudeo-cristianesimo e sui messianismi di quell'epoca. Probabilmente è un segno. Ma non voglio, né ovviamente posso, fare un lavoro da storico). Il Giacomo al quale viene attribuita la lettera è quello che è stato chiamato "il Minore", per distinguerlo dal Giacomo Maggiore che tutta l'Europa avrebbe venerato a Compostela. E anche quello che la tradizione chiama il "fratello di Gesù" e che è stato identificato come quel capo della Chiesa di Gerusalemme o della "santa Chiesa degli Ebrei" 6 che pronuncia la decisione, riportata negli At4 Cfr. J. Derrida, Foi et savoir, cit., come pure, Voiles, (in collaborazione con H. Cixous), Galilée, Paris 1998. Q u e s t i sono solo due esempi fra tanti, ma non ho intenzione di fare l'elenco completo dei riferimenti. 5 Q u e s t o è il tema di tutta la parte finale di Foi et savoir. 6 Cfr. Lettera apocrifa di Clemente di Roma a Giacomo.
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ti (15), a favore dei non-ebrei, dichiarando che Dio si è scelto "un popolo che portasse il suo nome [...] 'affinché il resto degli uomini cerchi il Signore, come pure tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome'". Queste parole di Giacomo confermano, con la sua autorità (e con quella di una citazione di Amos), le parole che Pietro ha appena pronunciato: "Dio ha reso testimonianza alle genti, dando loro lo spirito santo come a noi". Dio è testimone, cioè rnartyr, per tutti gli uomini: testimone della loro santità o del loro appello alla santità (alla propria santità). Questo è il messaggio che l'assemblea, attraverso Paolo, Barnaba e alcuni altri, farà giungere ad Antiochia dove bisogna calmare gli spiriti a proposito della divisione tra gli ebrei e gli altri. Dio testimonia per tutti gli uomini perché è colui che "conosce i cuori" (o kardiognostes). Israele è quindi il luogo particolare che Dio ha scelto per testimoniare sul cuore: il luogo visibile e visibilmente segnato (dalla circoncisione) a partire dal quale il Santo attesta la santità invisibile di tutta l'umanità, o del pleroma delle sue genti. È da questa prospettiva che affronterò l'Epistola di Giacomo. In 1,18, vi si legge che Dio "ci generò... con la parola di verità, per farci essere come primizie tra le sue creature". "Noi", qui, sono anzitutto "i fratelli" delle "dodici tribù che sono nella diaspora", ai quali si rivolge la lettera. Sono quindi gli ebrei che devono essere "le primizie tra le creature". Le primizie sono la parte di un raccolto o di un gregge riservata agli dei. II rapporto fra le chiese ebraiche e il resto degli uomini è contenuto in quest'unico versetto. Gli ebrei che hanno fede in Gesù consacrano a Dio la sua creazione. Ora, la lettera ricorda più avanti che gli uomini sono "stati fatti a immagine di Dio" (3, 9). (È possibile che il "noi" di questo versetto tenda a designare tutti gli uomini come primizie dell'intera creazione: ci ritorneremo). La somiglianza dell'uomo con Dio, e con essa una tematica e una problematica dell'immagine infinitamente complesse, appartengono al nucleo essenziale del monoteismo biblico. Essa occupa un posto importante nel pensiero di Paolo, per il quale Gesù è "immagine dell'invisibile Dio" (Col 1,15). Ma la lettera di Giacomo resta al noto versetto della Genesi e non dice niente sul rapporto tra l'uomo-immagine e Gesù. In un certo senso, la mediazione di Gesù 65
rimane in secondo piano. Come si vedrà, non è l'economia di una salvezza cristocentrica che organizza il pensiero: è un rapporto diretto, se così si può dire, fra l'uomo e la santità che in lui si fa immagine.
3 Prima di continuare è necessario fare qui una considerazione di metodo. L'assenza di cristologia, e anche di teologia in generale, caratterizza questo testo che si potrebbe definire parenetico o spirituale più che dottrinale, a tal punto che si è dubitato della sua autenticità o che lo si è considerato come un testo soltanto ebraico. È interessante, ad esempio, che Harnack nella sua Storia dei dogmi non menzioni affatto Giacomo: gli si può concedere in effetti che questa epistola, contrariamente a quella di Paolo, non contribuisca gran che allo sviluppo di un discorso sui contenuti della fede (potrei dire: sui contenuti di sapere della fede, ma non anticipiamo). Essa è tutta rivolta - ci arriviamo - all'atto di fede. Non pretendo di ricostituire (altri l'hanno fatto molto meglio di quanto potrei farlo io) ciò che sta sullo sfondo e rimane implicito (soprattutto il contesto essenico) in questa lettera. La prendo così come si dà. E si dà come un testo di scarsa speculazione teologica ("epistola di paglia", diceva Lutero) e, al tempo stesso, come un testo la cui intenzione non è quella di opporsi a Paolo, ma di correggere un'interpretazione tendenziosa di Paolo, che rischierebbe di separare la fede dalle azioni. Il ritegno teologico di Giacomo è quindi anche intenzionale. Questo vuol dire che bisogna vedervi, non una mancanza, ma un ritrarsi della teologia o una teologia che si ritrae, un ritrarsi della rappresentazione dei contenuti a favore di un'affermazione attiva della fede - di ciò che soltanto è in grado di attivare i contenuti. Non è un'altra posizione teologica e tanto meno una tesi avversa: è la posizione che si mantiene esattamente tra due elaborazioni teologiche, e quindi forse anche tra due religioni, l'ebraica e la cristiana, come il loro tratto di congiunzione e di separazione, ma anche però come la loro com-possibilità, quale che sia lo statuto di questo "con-": come la loro costruzione e decostruzione insieme. Come uno dei pun66
ti, cioè, come una delle situazioni, in cui la costruzione di cui qui ci occupiamo, come ogni costruzione e secondo la legge generale delle costruzioni, si espone da sé, costitutivamente, alla sua decostruzione.
4 Ritorniamo quindi alla logica interna di questa lettera. Se gli esseri umani sono generati secondo l'immagine di Dio (gegonotes kath'homoiosin theou), qual è questa homoiosisì A chi o a che cosa sono "omogenei"? Il Dio della lettera si può descrivere molto brevemente. È unico, certo, ma non è questo l'essenziale della fede, che concerne molto più le opere dell'uomo che non la natura di Dio (2, 19: "Tu credi che Dio è uno solo? Fai bene. Anche i demoni lo credono, e ne hanno terrore". Come dire che questo non basta a qualificare la tua fede). Questo Dio non è il Dio d'Israele nella sua gelosa esclusività - senza però essere propriamente né il Dio né della Trinità né dell'amore (anche se nella lettera l'amore verso gli altri ha un ruolo capitale). Dio è "Signore e Padre" (3,9), come viene detto sempre nel versetto dell'homoiosis, come pure in 1, 17-18, dove si dice che "ci generò... come primizie tra le sue creature". Il padre è il padre della e nella somiglianza (si potrebbe anche dire: paternità e somiglianza si corrispondono), proprio come nella Genesi dove, nel secondo racconto della creazione, la somiglianza fra Adamo e Dio passa nella somiglianza fra Adamo e suo figlio Set: così si apre la genealogia che, attraverso Noè, giunge a Sem, Cam e Iafet. Questa somiglianza distingue l'uomo nella creazione, fa di lui la primizia della creazione; essa è quindi - come pure l'uomo attraverso di essa - il segno o la traccia omogenea, che consacra il mondo al suo creatore. Questa somiglianza non dipende quindi dalla generazione (come siamo abituati a pensare), ma è la generazione che consiste nella trasmissione della traccia. Il mondo creato non è tanto un mondo prodotto quanto un mondo segnato, tracciato, impresso e, nello stesso tempo, attraversato da vestigia (come dirà più tardi Agostino), cioè da quel che resta nel ritrarsi e del ritrarsi di un'origine. 67
Di che cosa è fatta allora Yhomoiosis, la traccia del creatore in quanto tale? La lettera lo chiama "Padre delle luci" (1, 17) - colui che apre il mondo separando la luce e ciò che essa illumina (secondo uno schema cosmogonico molto antico). Subito si dice che da lui viene "ogni buona donazione e ogni dono perfetto" (pasa dosis agathe kaipan dorema teleion): cioè ogni azione che dà e ogni cosa data, dove la prima è detta "buona" e la seconda "compiuta", "terminata". Dio è innanzitutto il donatore. Come tale egli è il "Padre delle luci, presso il quale non vi è variazione né ombra di mutamento". Egli dona in quanto luce, e ciò che dona è innanzitutto, è essenzialmente la sua luce (il latino permetterebbe di precisare: lux, luce che illumina, e non lumen, lucore della cosa illuminata). Egli non dà qualcosa, ma piuttosto la possibilità della chiarezza, nella quale soltanto possono esserci le cose. Se la logica del dono è quella, come l'altro Jacques ama sottolineare, per cui il donatore si abbandona nel suo dono, è proprio questo che succede qui. Donando, compiendo il dono, egli si dona mentre resta in sé senza ombra, perché ciò che egli dona - e che "dona a tutti" (1, 5) - è proprio questo dissolversi dell'ombra, questo schiarirsi. Dare e trattenere, darsi e trattenersi non sono qui termini contraddittori - e, analogamente, essere e apparire sono qui identici: teologia fenomenologica7. . La logica del dono e quella dell'homoiosis si sovrappongono: Yhomoiosis è dello stesso genos di colui che la genera (questo tema, che sposta il rapporto fra l'uomo e il divino, va da Pitagora attraverso Platone fino a Cleante, dal quale Paolo lo riprende, quando si rivolge agli Ateniesi8), e ciò che genera o ciò che si genera, si dà, dona appunto il suo genos. Più avanti la lettera nomina la cosa donata. In 4, 6 si legge: "Egli dà una grazia maggiore" della brama e "agli umili dà la grazia" (che è una citazione tratta dai Proverbi, 3, 34). La grazia è il favore, cioè contemporaneamente l'elezione che favorisce e il piacere o la gioia che così è data. La grazia è una gratuità (Benveniste mostra come 7 Allusione a un'altra analisi del dono, quella di J.-L. Marion, Étant PUF, Paris 1997. 8 Cfr. Atti, 17, 28.
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donné,
gratin, nel tradurre charis, abbia dato gratis e gratuitas). È la gratuità di un piacere dato per se stesso. Nel versetto 4, 6, la charis è opposta alla brama pros phtonon, brama d'invidia, di gelosia. Essa è associata ai piaceri (hedonai). Ma la logica del testo non si riduce alla condanna della philia tou kosmou (l'amore del mondo). Oppure, forse, questa condanna va compresa nella logica più ampia e più complessa nella quale è inserita. Giacomo dice, infatti, che l'invidia deriva dalla mancanza: "Bramate e non avete; uccidete e invidiate e non potete ottenere"(4, 2). Lo "phtonos" è l'invidia nei confronti del bene o del benessere altrui (com'è noto, lo phtonos degli dei greci si rivolge contro l'uomo, la cui riuscita o il cui benessere li indispone). Giacomo prosegue: "Non avete, perché non domandate". Poi: "Domandate, e non ricevete perché domandate male, al solo fine di sperperare nei vostri piaceri". C'è pertanto una logica della mancanza e dell'appropriazione gelosa, e una logica della richiesta per ottenere ciò che non si può ottenere che col dono o come dono, cioè il favore della grazia. Questa charis non è l'opposto né del desiderio né del piacere: essa è il desiderio e il piacere in quanto ricettività del dono. Quest'ultima deve eguagliare in gratuità la donazione. Questo dono non dà niente che sia dell'ordine di un bene appropriabile (bisogna anche ricordare, a rischio di doverci ritornare, che questa epistola è il testo più veemente contro i ricchi di tutto del Nuovo Testamento). Questo dono dona se stesso, dona il proprio favore di dono, cioè il ritrarsi nella grazia del donatore e del dono stesso. L'homoiosis è una homodosis. Essere a immagine di Dio significa quindi, chiedendo la grazia, darsi al dono a propria volta. Ben lungi dal derivare da un'ascesi, si potrebbe dire a buon diritto che questa logica della grazia deriva dal godimento, e questo godimento da un abbandono. Ciò presuppone probabilmente, come dice letteralmente il testo, "tribolazione" e "tristezza", "pianto" e "umiliazione", che non sono però un sacrificio: sono la disposizione dell'abbandono, nel quale la gioia è possibile. Certo qualcosa è abbandonato, la mancanza, e con essa il desiderio di appropriazione. Ma non viene sacrificata: non è offerta e consacrata a Dio. Giacomo non predica una rinuncia: espone una logica che è lontana sia del desiderio che dalla rinuncia. E questa logica è quella di ciò che egli chiama fede. 69
5 Se la lettera di Giacomo non si oppone al pensiero di Paolo tanto quanto è stato detto, è anche vero, però, che, come è noto, se ne distingue nettamente se non altro per la decisa insistenza sulle opere della fede. (Questo è d'altronde il motivo principale della severità di Lutero nei confronti di questo testo). Ma è importante capire bene che le opere in questione non si oppongono alla fede e che, anzi, esse sono la fede stessa. Il rapporto fra la fede e le opere è esposto nel capitolo 2, il cui versetto più noto è il diciottesimo: "Dimostrami la tua fede senza le opere, ed io ti dimostrerò dalle mie opere la fede". L'ingiunzione, o la sfida, non concerne la necessità di provare la propria fede. D'altronde il versetto precedente diceva: "Così anche la fede, se non ha opere è morta in se stessa" (kath 'heauten, in se stessa, per se stessa, quanto a se stessa). Le opere non rientrano nell'ordine né della manifestazione esteriore né della dimostrazione mediante il fenomeno. La fede non sussiste in sé. Ecco perché si tratta di dimostrarla ek ton ergon, a partire dalle opere, mentre esce da esse. Non è che le opere derivino dalla fede o la esprimano, è piuttosto la fede che non esiste se non nelle opere: in opere che sono le sue e la cui esistenza costituisce tutta l'essenza della fede, se così si può dire. Il versetto 20 enuncia che la fede jenza le opere è arge, cioè, vana, inefficiente e ineffettiva (curiosamente la Vulgata traduce questa parola con mortua, come il nekra del versetto 17). Argos è una contrazione di aergos, cioè senza ergon. Giacomo enuncia una quasi tautologia. Ma questa quasi tautologia significa: l'ergon è qui l'esistenza. Questo significa anche che l'ergon è compreso, generalmente, come effettività piuttosto che come produzione, e come essere-in-atto piuttosto che come operari di un opus. Questa logica è così precisa e stringente da obbligarci a modificare una certa comprensione dell 'ergon che ci è abituale, come pure la nostra accezione platonica e aristotelica della poiesis - parola che appare in 1, 25, in connessione con l'ergon, e che sembra avere, come sostengono molti traduttori, il senso di una "pratica" (e quindi di una praxis), sepraxis è l'azione in quanto azione dell'agente e non su un oggetto. 70
Si potrebbe dire: la pistis è la praxis che ha luogo in e comepoiesis degli erga. Se volessi tradurre nei termini di Blanchot, direi che la fede è l'inoperosità che ha luogo nella e come opera. E se volessi passare all'altro Jacques, direi che la fede come praxis della poiesis apre in quest'ultima quell'inadeguatezza a sé, senza la quale non possono esserci il "fare" e/o l'"agire" (dove entrambi questi concetti implicano la differenza con sé di ogni concetto o la differenza irriducibile tra una lexis e la praxis che voglia renderlo effettivo) 9 . Estrapolando a partire da qui, direi che la praxis è ciò che non può mai essere la produzione di un'opera adeguata al suo concetto (quindi di un oggetto), ma che essa è in ogni opera e ek tou ergou ciò che ne eccede il concetto. Non, quindi, come comunemente si pensa, ciò che è in difetto rispetto al concetto, ma ciò che, eccedendolo, mette il concetto fuori di sé, dandogli più da concepire o, meglio, più da afferrare e da pensare, più da toccare e da indicare di quanto concepisca. La fede sarebbe qui l'eccesso di prassi della e nell'azione o nell'operazione, un eccesso che si sottomette solo a se stesso, cioè anche alla possibilità per un "soggetto" (per un agente o per un attore) di essere di più, infinitamente di più ed eccessivamente di più di quanto sia in sé e per sé. In questo senso, questa fede, così come la sua "opera", non può essere una proprietà del soggetto: deve essere chiesta e ottenuta cosa che non impedisce, anzi, che debba essere chiesta con fede (in 1, 6, bisogna "chiedere con fede senza esitare": al cuore della fede c'è una decisione di fede che si precede e si eccede). E in questo stesso senso, la fede non può essere adesione a dei contenuti di credenza. Se la credenza va compresa come una forma debole di sapere o in analogia con il sapere, allora la fede non è dell'ordine della credenza. La fede non ha niente a che fare con il sapere o con la saggezza, nemmeno per analogia - e non va intesa in questo senso neanche l'opposizione paolina fra la "follia" cristiana e la "saggezza" del mondo: questa "follia" non è una ipersaggezza, né un correlato della saggezza o del sapere. Giacomo, da parte sua, lascia in-
9 Cfr. J. Derrida, Politiques de l'amitié, Galilée, Paris 1994, p. 135 e sgg. (trad. it. Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 138 e sgg.).
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tendere che la fede è la propria opera. Essa è nelle opere, essa 1 e fa e le opere la fanno. Si potrebbe quasi far derivare da Giacomo una dichiarazione come questa: " È falso sino all'assurdo vedere in una 'fede', per esempio nella fede della redenzione per mezzo di Cristo, il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano..." - dichiarazione che si può leggere in Nietzsche 10 . Che la fede consista nella sua pratica è la certezza che guida l'interpretazione che Giacomo dà del gesto di Abramo o di quello di Raab (2, 21-25). Contrariamente a Paolo (Rm 4), Giacomo ritiene che Abramo sia giustificato dalla sua opera che, in questo caso, è proprio l'offerta di Isacco. Paolo invece non menziona quest'episodio, ma quello della sterilità di Sara (Eb 11, 1 sgg. il sacrificio è menzionato, ma l'argomento di fondo resta lo stesso). Secondo Paolo, l'importante è che Abramo abbia creduto che Dio potesse, contro l'evidenza naturale, dargli un figlio. Il suo atto dipende quindi da un postulato del sapere (o consiste in esso; nella lettera agli Ebrei c'è la parola "logisamenos": Abramo riteneva Dio capace). Per Giacomo, invece, Abramo ha fatto: ha offerto Isacco. Non si dice quel che egli ha giudicato, ritenuto o creduto. (Analogamente la prostituta Raab ha salvato i messaggeri, e Giacomo, a differenza di Paolo, non dice niente della sua fede nella promessa fattale dai messaggeri, mentre la lettera agli Ebrei ricorda che Raab si aspettava di aver salva la vita). In un certo senso l'Abramo di Giacomo non crede niente, non spera neppure (Paolo dice "sperò contro ogni speranza": qui è assente persino questa dialettica). Questo Abramo non è nell'ordine della certezza né di un sostituto della certezza. Egli non è persuaso o convinto: il suo assenso non è nel logismos. È solo nell'ergon. Se la nozione della "fede" deve essere situata nell'ordine "logico" o "logistico" (come suggerirebbe l'origine di pistis da peitho: persuadere, convincere), allora questa fede sta nell'inadeguatezza a sé del proprio logos. Le ragioni che essa ha di "credere" non sono delle ragioni. Non ha niente, insomma, per convincere se stessa. Essa è so-
10 Nietzsche, L'Anticristo (1895), § 39; trad. it. in Opere complete, Voi. VI, tomo III, Adelphi, Milano 1975, p. 214.
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lo la "convinzione" che, in atto, si rimette non a un "incomprensibile" (secondo la logica del "non posso capire, ma devo o posso credere"), ma a un altro atto: a un comandamento. La fede non è l'argomentativo, ma il performativo del comandamento - o gli è omogenea. Essa consiste nell'inadeguatezza a sé come contenuto di senso: ed è così che è verità in quanto verità di fede o fede come verità e veri-ficazione. Non la sacri-ficazione ma la veri-ficazione. Il concetto di un "fidarsi di" o "affidarsi a" ha due versanti: da una parte, una forma di sicurezza, una certezza postulata, promessa, di una fiducia che si fonda su anticipazioni arrischiate di un fine (analoga ai postulati kantiani, che sono proprio quelli di una credenza razionale o ragionevole, nella quale si trasforma o si eclissa la fede cristiana). Ma la fede secondo Giacomo si effettua interamente nell'inadeguatezza del suo atto a ogni concetto di quest'atto, anche al concetto per analogia, al simbolo o al "come se". L'opera di Abramo è l'agire o il fare di questa inadeguatezza: praxis, la cui poiesis è l'incommensurabilità fra un'azione (offrire Isacco) e la sua rappresentazione o il suo senso (immolare il proprio figlio). La fede in quanto opera potrebbe essere il sapere - o il non-sapere - dell'incommensurabilità dell'agire con se stesso, cioè, dell'incommensurabilità dell'agente o dell'attore in quanto si eccede e si fa o si fa fare eccedente o ecceduto: così, radicalmente, assolutamente e necessariamente, l'essere-all'-altro del suo essere-a-sé. In questo la fede sarebbe proprio l'atto AeWbomoiosis al dono inteso nel senso del suo atto. Questa fede - o meglio, la fede giudeo-cristiana e anche islamica - sarebbe l'atto di un non-sapere in quanto non-sapere della necessità dell'altro in ogni atto e in ogni sapere dell'atto che si tenga all'altezza di ciò che Giacomo chiama qui (2, 21, 24-25) la "giustificazione": ciò che rende o fa un giusto (il quale non può essere nell'adeguazione del sapere della propria giustizia). Quest'atto risulterebbe innanzitutto dalla fede nell'altro - da ciò che l'altro Jacques chiama "il rapporto all'altro, come segreto dell'esperienza testimoniale" 11 , se per "testimonianza" si intende, come in questo caso,
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J. Derrida, Foi et savoir, cit., p. 84 (trad. it. cit., p. 72).
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l'attestazione di verità che ogni parola postula nell'altro o dell'altro, e in me in quanto altro da me (in quanto platonico "dialogo con me stesso"). Il giusto o il giustificato sarebbe colui che si lascia attestare nell'altro. Questa verità e questa giustizia si aprirebbero proprio là dove ad assicurare, a garantire, non è più una presenza sacra, ma il fatto stesso - l'atto e l'opera - di non essere sicuri di alcuna presenza se non di quella dell'altro, e altra da sé, altra dalla presenza degli dei sacri: il sacro o il santo, se si vuole, (confondendoli per un momento), ma in quanto non dato, non posto, non presentato in un ordine di presenza divina - " D i o " "stesso", invece, dissimile da ogni dio, in quanto dono e in quanto dono della fede che si dona all'altro e non crede a niente. Così, dunque, il giudeo-cristianesimo di Giacomo come decostruzione della religione e quindi anche come autodecostruzione: che lascia sussistere, sempre che si tratti ancora di sussistenza, solo il tratto di congiunzione e la sua spaziatura.
6 È proprio per questo motivo che quell'opera che è qui la fede, la poiesis-praxis della pistis, si presenta nella lettera solo sotto tre aspetti: l'amore verso il prossimo, il discredito della ricchezza, la parola veridica e risoluta. In queste tre diverse forme, ogni volta è in questione un'esposizione a ciò di cui non ci si può appropriare, a ciò che ha fuori di sé - infinitamente fuori di sé - la giustizia e la verità del sé. È quanto la lettera chiama "la legge perfetta della libertà" (1,25 e 2,12). A differenza di Paolo, Giacomo non converte la legge (che si presume antica) in libertà e/o in legge (che si reputa nuova). La "legge di libertà" - di cui nessun precetto è veramente estraneo all'ebraismo - è la disposizione che vuole che l'agire si esponga all'altro e che non sia nient'altro che questa esposizione - agire del rapporto o della prossimità piuttosto che fare del desiderio o dell'appropriazione, agire della parola e della verità piuttosto che fare "logistico" della rappresentazione e del senso. In questa espressione "legge di libertà" (nomos tes eleuterias), che è forse un hapax nelle 74
Scritture, si potrebbe forse rintracciare una risonanza stoica, segno dell'implicazione della filosofia nel cristianesimo in statu nascendi. Se si potesse dimostrare qualcosa del genere, ci sarebbero ripercussioni sulla comprensione più profonda dello stoicismo: non l'accettazione sottomessa di un ordine che mi sfugge, ma la partizione (nomos) dell'evento come occasione di un divenire-sé. Q u i il testo di Jacques su Abramo si può accostare ad alcune frasi di Deleuze sullo stoicismo: "Diventare degni di ciò che ci accade, volerne dunque e liberarne l'evento, diventare il figlio dei propri eventi [...] e non delle proprie opere, poiché l'opera stessa è prodotta soltanto dal figlio dell'evento" 12 . Il nomos allora è questo: a liberarci è solo la verità che non ci appartiene, che non ci compete e che ci fa agire secondo l'inadeguatezza e l'inappropriazione della sua venuta.
7 Sarebbe troppo lungo, in questa conferenza, analizzare la triplice determinazione della "legge di libertà" secondo l'amore, la parola e la povertà. Per oggi vi rinuncio, pronto a tornarvi in futuro, e concluderò soltanto con quello che, invece, non può più essere differito: cioè con Gesù Cristo. In un certo senso la sola attestazione indubitabile della composizione giudeo-cristiana della lettera è la menzione di Gesù. La si trova fin dal primo versetto con la formula che è impiegata anche da Paolo, "Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo", poi, al primo versetto del capitolo 2: "Fratelli miei, non vogliate ritenere la fede del Signor nostro Gesù Cristo di gloria...". Da una parte, e come ho già ricordato, questa menzione del cristo (dell'unto) resta al di qua di ogni cristologia. D'altra parte, e nello stesso tempo, è essa soltanto che determina la fede, non più secondo la sua natura (pratica o operativa), ma secondo la sua referenza, il suo sostegno o la
12 G. Deleuze, Logique du sens, Minuit, Paris 1969, pp. 175-176 (trad. it. Milano, Feltrinelli 1979, p. 134); citato anche in F. Ildefonse, Les Stoiciens I, Les Belles Lettres, Paris 2000, p. 189.
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sua garanzia. Come si è visto, infatti, la fede nell'unicità di Dio da sola non basta. Per poter essere veramente fede, cioè per agire, la fede deve derivare la sua consistenza da altrove: da un nome proprio. Ma questo nome, poiché non è il portatore di una teologia specifica, non si trasforma in un concetto. Non introduce a una logica dei misteri dell'incarnazione e della redenzione. Tutt'al più si può supporre che, sotto il nome di Gesù, ci sia un rinvio implicito alla predicazione trasmessa dai Vangeli e soprattutto al "discorso della montagna". Per il resto, questo nome serve qui soltanto a identificare il cristo, il messia. Se il messia è nominato, vuol dire che è venuto, che è presente in un modo o nell'altro. Che si è presentato. Il nome dice la venuta di questa presenza. Un lettore che non sa non ha alcun motivo di pensare che questo Gesù non sia più di questo mondo. Questa presenza non è quella di un testimone che dà dei motivi per credere o un esempio di fede. La presenza nominata qui rimanda soltanto alla qualità di messia. L'espressione "messia di gloria" potrebbe essere anch'essa un hapax. Il messia è l'unto. In Israele, che l'eredita da altre culture, l'unzione è il gesto che conferisce e segna la funzione regale, sacerdotale o profetica (la cristologia più tardiva attribuirà a Gesù queste tre funzioni). Chi, in Israele, dice "messia" intende sicuramente questa triplice funzione, e soprattutto la prima, quella del regno nominata qui nel versetto 2, 5, quando si parla del "regno che Dio promise a quelli che lo amano" (quattro versetti dopo il "cristo di gloria"). Una riflessione sul messianesimo non può prescindere dalla considerazione di questa regalità. (Senza voler entrare qui in un'analisi dettagliata, direi che la tendenza a ridurre il senso del termine "messia" all'idea del "salvatore" trascuri le funzioni dell'unzione e il fatto che la "salvezza" passa attraverso di esse - il che implica anche, eventualmente, deiscenza o disparità tra quelle funzioni, come tra sacerdozio e profezia 13 ). Un messia "di gloria", sia egli unto dalla gloria o sia la gloria lo splendore della sua unzione, è un messia assolutamente regale: splendente della magnificenza che la
13 Ricordiamo en passarli che alcuni testi di Q u m r a n distinguono due messia, l'uno sacerdotale e l'altro regale.
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Scrittura sempre attribuisce a Dio, e che l'olio luminoso e profumato che cola sui capelli e sulla barba dell'unto riflette. La regalità secondo la gloria non è inizialmente dell'ordine del potere. O, meglio, è dell'ordine del potere, solo essendo anche dell'ordine della luce e dell'elargizione, della "buona donazione e dono perfetto". (La gloria, la magnificenza o lo splendore, è un antichissimo attributo divino e/o regale delle rappresentazioni assire e babilonesi, dove la si trova spesso associata alla seduzione e al piacere, specialmente nel caso delle divinità femminili: è lo splendore associato al favore. A questo proposito un grande ellenista ha scritto: " È alla nozione greca di charis che bisogna fare riferimento: fascino, grazia esteriore, potenza di seduzione, ma anche scintillio luminoso dei gioielli e delle stoffe, bellezza del corpo, integrità fisica, voluttà, dono che la donna fa di se stessa all'uomo" 14 ). La gloria, puramente, si dà proprio come ciò che non è appropriabile - forse nemmeno da parte di colui dal quale emana - ma che si può soltanto ammirare - e forse ammirare fino al punto che non la si può guardare. La fede nella gloria o della gloria (pistis tou Kyriou lesou Christou tes doxas) è la fede nell'inappropriabile: dell'inadeguatezza dell'opera o dell'inadeguatezza all'opera. Questa fede si riceve dalla gloria inappropriabile; è in essa perché viene da essa, perché questa gloria le dà la sua certezza che non è una credenza. La doxa di Gesù è il suo apparire: il fatto che sia venuto, che la gloria del regno sia apparsa, già data in quanto fede. "Gesù" è allora il nome di questo apparire - ed è questa doxa in quanto nome: nome proprio dell'inappropriabile (cioè, come si sa, la proprietà stessa del nome o, se si vuole, la sua divinità). Ed è quindi un nome per ogni nome, per tutti i nomi, per il nome di ogni altro. Il versetto intero dice: "Fratelli miei, non vogliate ritenere la fede nel Signor nostro Gesù Cristo di gloria con favoritismi", per introdurre le osservazioni sui poveri. Favoritismi, considerazione delle persone. Si può solo intendere che la fede debba prescindere anche dalla considerazione per la persona (la faccia, il prosopon, la persona) di Gesù.
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p. 522.
J.-P. Vernant, Splendeur divine, in Entre mythe etpolitique,
Seuil, Paris 1996,
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Si produce qui una decostruzione prima della costruzione o durante la costruzione e nel suo cuore. Essa non annulla la costruzione, e non ho intenzione di rifiutare, in nome di Giacomo, l'esame ulteriore della costruzione cristiana - seguendo quel gesto del "ritorno alle origini" e della "purificazione" dell'origine, così ossessivo nel cristianesimo, nel monoteismo e nell'Occidente. Ma questa decostruzione - che per l'appunto non sarà un gesto che ritorna a una sorta di chiarore mattutino - appartiene al principio e al piano della costruzione. Essa è nel suo cemento: è nel e del tratto di congiunzione. Qui, per il momento, del tratto di congiunzione fra Gesù e Cristo (Jésus-Christ) non resta che il tratto che lega un nome alla gloria: un nome - che è sempre il nome di un altro, come è il nome di molti Jacques (come direbbe l'altro), sempre il nome di un altro, fosse anche il mio - e la doxa di ciò che si mostra, la rinomanza del nome in quanto mette in opera la fede, e la fede che fa opera, fin dall'inizio, di decostruzione della religione, come pure dell'onto-teologia che l'attende ancora nella sua storia - che l'attende per decostruirsi in essa. Ma in fondo la gloria è quel che è, solo in quanto non brilla d'oro e d'argento (a differenza degli anelli e delle vesti dell'uomo ricco in 2, 2). Essa è l'esposizione della fede nell'atto (il deixon del "mostrami la tua fede" ha lo stesso semantema di doxa), e proprio per questo è l'esposizione dell'inadeguatezza o dell'incommensurabilità. È così che essa è l'unzione del messia: il messia espone, cioè, il ritrarsi di colui del quale è l'unto. Questo ritrarsi non è una separazione sacra: è proprio il ritrarsi del sacro e l'esposizione del mondo al mondo. L'unzione, certo, è una consacrazione. Ma è una consacrazione non sacrificale che non suggella nell'offerta una trasgressione della separazione sacra, ma versa sul mondo, nel mondo e come mondo - come opera della creazione - il ritrarsi stesso del divino. Verso la fine (5, 8), la lettera dice che "la venuta del Signore è vicina" (letteralmente: "si è avvicinata", "si è fatta vicina"). Laparousia è vicina: essa, cioè, è, e non è, nella prossimità. La prossimità è ciò che continua a chiudersi e ad aprirsi, ad aprirsi chiudendosi (non è la promiscuità che è invece mescolanza). Essa è fatta dell'essere allontanata proprio da ciò che si avvicina, dell'essere l'allontanamen78
to da sé. La parusia - la presenza accanto - differisce e si differisce: è così che è là, imminente come la morte nella vita. Quello che sta cambiando, nella configurazione fondatrice dell'Occidente, è che l'uomo non è più il mortale di fronte all'immortale. Diventa il morente di un morire che percorre tutto il tempo della sua vita. Il divino si ritira dalle sue dimore - siano esse sulla cima dell'Olimpo o del Sinai - e da ogni sorta di tempio. Diventa, ritirandosi, l'imminenza perpetua del morire. La morte in quanto fine naturale di un modo dell'esistenza è essa stessa finita: il morire diventa il tema dell'esistenza secondo l'imminenza sempre sospesa della parusia.
8 La conclusione della lettera raccomanda l'unzione dei malati con la "preghiera della fede" e la confessione reciproca dei peccati. Più tardi la Chiesa cattolica fonderà su questo testo quello che sarà chiamato il sacramento dell'estrema unzione. L'unzione che deve "guarire", come dice il testo, guarisce però l'anima e non il corpo ("E la preghiera della fede salverà l'infermo e il Signore lo solleverà; e, se ha commesso dei peccati, gli saranno rimessi" 5, 15). L'unzione, quindi, non segna ciò che successivamente si chiamerà una vita eterna al di là della morte, ma l'ingresso nella morte come ingresso nella parusia finita che si differisce infinitamente. L'ingresso nell'inadeguatezza incommensurabile. In questo senso, ogni morente è un messia, e ogni messia è un morente. Il morente non è più il mortale che si distingue dagli Immortali. Il morente è il vivente nell'atto della presenza incommensurabile. Ogni unzione è estrema, e l'estremo è sempre vicino: lo tocchiamo continuamente. La morte è legata al peccato: cioè alla deficienza di una vita che non pratica la fede - che non può praticarla senza affievolirsi - all'altezza incommensurabile del morire. Ma, nonostante tutto, la fede dà, dona appunto il morire ("donare la morte", dice lui) nella sua incommensurabilità: un dono che non è possibile conservare, così come l'amore, la povertà o la veridicità (che sono, in fondo, la stessa cosa del morire). 79
Né sacrificio, né tragedia, né resurrezione - oppure, per essere più precisi, nessuno di questi tre schemi, che darebbero alla morte, in una maniera o in un'altra, uno spessore e una consistenza proprie, mentre essa è l'in-consistenza assoluta, ammesso che si possa dire che è (Hegel: "la morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà" 15 ). Ciascuno di questi tre schemi dà consistenza alla morte: il sacrificio suggella nel sangue la conciliazione di un ordine sacro, la tragedia immerge nella morte il ferro rovente di un destino (la lacerazione dell'inconciliabile), la resurrezione guarisce e glorifica la morte nella morte stessa. In un modo o nell'altro, ciascuno di essi dà figura al morto e sostanza alla morte. Forse ognuno di questi schemi può essere compreso in maniera diversa - ognuno, oppure i tre insieme in una composizione da sviluppare e che potrebbe essere proprio il cristianesimo nella sua forma più elaborata. Se ne potrebbe trarre un altro filo o un'altra scheggia: una in-consistenza della morte tale che il mortale non vi "sprofonda", e ancor meno vi si salva o se ne salva, ma piuttosto ne resta indenne proprio nel momento in cui scompare come mortale. Nel punto in cui muore, il mortale tocca con l'unico contatto possibile la sola immortalità possibile, che è proprio quella della morte: inconsistente, inappropriabile. Essa è la prossimità della presenza. La sola consistenza è quella del finito in quanto finisce e si finisce. Per questa ragione, la morte non può fare niente all'esistente se non, a modo suo, cioè in modo inconciliabile e inadeguato, farlo esistere, dopo che una nascita l'ha espulso in essa. La morte mette l'esistente in presenza dell'esistere . Nella lettera di Giacomo è come se la fede, lungi dall'essere credenza in un'altra vita, credenza, cioè, in un'infinita adeguazione a sé della vita, fosse la messa in opera dell'inadeguatezza nella quale e come la quale l'esistenza esiste. Come la fede abbia intaccato un giorno, con l'Occidente, la composizione di una decomposizione della religione: ecco quel che mette quel giorno ancora davanti a noi, - né ebrei né cristiani, né musulmani - ma come un tratto tirato per separare ogni congiunzione.
1 5 Hegel, Fenomenologia lia, Firenze 1974, p. 26
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dello spirito (1807J, Prefazione; trad. it. La nuova Ita-
Una fede da niente
1 Fra le caratteristiche singolari di Gérard Granel ce n'è una più singolare delle altre: quella di essere uno dei rarissimi filosofi contemporanei, se noli l'unico, ad aver dichiarato, per un certo periodo, la sua appartenenza alla confessione e alla chiesa cattolica, pur praticando una filosofia chiaramente legata a Heidegger, da una parte, e a Marx, dall'altra. Più in generale si potrebbe dire che Granel è uno dei pochi, se i 1011 l'unico, che sia riuscito a coniugare, per un momento e senza confusioni, fede religiosa e impegno filosofico (senza produrre nessuna "filosofia cristiana", anzi!), senza inoltre mantenere tra questi due ordini l'esteriorità e l'eterogeneità auspicate (se non già ben consolidate) in altri filosofi (Lévinas o Ricoeur, per esempio). È come se un singolare punto di contatto, mai esplicitato, avesse tenuto insieme, per circa vent'anni, un connubio senza nome. Questo punto è esistito de facto. Ma come si è costruito de iure (visto che Gerard non è certo il tipo da affidarsi all'alea dell'empirico)? È quanto qui mi chiedo, ma lo farò prendendo le mosse da un'altra questione: questo punto lascia una traccia visibile anche in seguito, fino a ll a f i n e della sua opera? E questa traccia, se esiste, dà la misura del segno iniziale? Prima di passare alla " f i n e dell'opera" come ho annunciato, vor* Pubblicato i n i z i a l m e n t e i n Granel - L'éclat, le combat, l'ouvert, a cura di J.L. Nancy e É. Rigai, Bel'n, Paris 2001, questo saggio propone una lettura dell'ultimo articolo di G. Grafl e l> substance: jusqu'où?, che pubblichiamo più avanti.
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rei situare molto brevemente l'esordio. Per un periodo che va fino ai primi anni '70, Granel rappresenta la figura singolare di un heideggeriano marxista e cristiano (e che per giunta riconosce subito in Derrida una di quelle "opere che segnano il tracciato essenziale della loro epoca" 1 ). Non intraprenderò l'analisi di quell'insieme che viene così sintetizzato e sincretizzato - una specie di mostro, per usare una parola che gli piaceva. C'era però un principio organizzatore di questa mostruosità, probabilmente meno teratologica che mostrante: quello secondo il quale la distruzione o la decostruzione (Granel utilizza i due termini) della metafisica - intesa come ontoteologia, cioè come determinazione ontica dell'essere (e quindi della sua sostanzialità e della sua fondazione in una realtà suprema e causa sui) - coincideva sia con la critica radicale (cioè a partire dall'"uomo" come "radice") dell'economia politica che con la riforma non meno radicale (ma niente affatto protestante) della chiesa, dal cui interno egli chiamava a una "lotta" senza concessioni. Nel poco spazio a mia disposizione, non posso ripercorrere il tragitto di questo pensiero e del suo atteggiamento verso la chiesa (dogma, morale e pastorale). Noto soltanto che egli cerca di congiungere - cosa singolare per un heideggeriano - la decostruzione dell'onto-teologia e l'affermazione della fede. Nel 1971 Granel scrive: " L a possibilità della fede resta sempre aperta, perfino la sua realtà è spesso viva, sia pure sotto la cenere. Per farla apparire e rimetterla in movimento basta o che una vita cristiana lasci intravedere qualcosa della verità di Dio (imitando anche solo minimamente quei due segni dei primi tempi: "Vedete come si amano" e "Non hanno paura di niente") o che ridiventi praticabile il cammino della verità dell 'opera di Dio semplicemente in se stessa (come verità "ontologica") e senza riferimenti alla subordinazione a Dio" (7T, p. 278). La fede, quindi, come amore e coraggio, e/o come pensiero dell'ente nella sua totalità in quanto "opera" separata da ogni operaio... (creata, quindi? se la "creazione" non è un prodotto? chiedo al lettore di tenere da parte queste osservazioni fino alla fine di queste pagine).
1 G. Granel, Traditionis Traditio, Gallimard, Paris 1972, (d'ora in poi indicato come 7 T ) , p. 175. L'articolo su Derrida è del 1967.
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Con l'uno o con l'altro di questi tratti, e con tutti e tre insieme, la fede in questione - il "quid proprium della fede" (7T, p. 238) non può essere che un rapporto con il dio, non soltanto "nascosto", ma che "si è voluto nascondere", come dice Pascal (citato in TT, p. 239). Un rapporto con una volontà di nascondersi e di restare nascosto è un rapporto diverso da quello che si instaura con un'essenza trascendente e inaccessibile. Non è di un Deus absconditus (di un soggetto di cui si predica che è abscons) che si tratta, ma della divinità dell'absconditas. Il rapporto di fede è allora accesso a quel "volersi nascondere" in quanto tale: accesso, quindi, a ciò che impedisce o sottrae l'accesso. Si sarà già capito che è di questa "fede" che voglio interrogare la traccia o il lucore sotto la cenere, nel pensiero dell'ultimo Granel, del Granel che ha rotto definitivamente con la chiesa e la confessione di fede. Più tardi, infatti - poco più tardi - egli abbandonerà il cattolicesimo, la teologia e anche ogni volontà di "distruzione". Abbandonerà il cristianesimo al suo destino metafisico e al sospetto di rinnovare, con la "globalizzazione", il dominio di una "cristianità" accuratamente travestita da modernità2. Ma non determinerà espressamente la sorte della "fede". In un manoscritto ritrovato (non si sa se pubblicato o meno, datato a mano primavera 1970), Granel parlava di Dio come del "vecchio blasfemo dell'iipsum esse subsistens"*. Da questa formula si deduce un'opposizione fra la fede e l'ontoteologia del Dio-ente supremo. In un testo pubblicato nel 1973, Granel scrive: "Poiché non si vede che cosa potrebbe significare un'"unità generale della pratica" (come pratica collettiva storica concreta, politica) - poiché almeno non la si vede più (e non la si vuole vedere più) in quella forma in cui la Fede cristiana, degenerando in "cristianità", ha a lungo usurpato - e assolto - questa funzione..." 4 . Come si vede, questo discorso, che intende sfociare nell'idea di una politica non-metafisica come politica della "Differen-
Cfr. G. Granel, Études, Galilée, Paris 1995, p 71. G. Granel, Daniélau-Garaudy: un combat pour rien (analisi di una trasmissione televisiva), manoscritto ritrovato da É. Rigai. 4 G . Granel, L'effacement du sujet dans laphilosophie contemporaine, in « C o n cilium», n. 86, giugno 1973. 2
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za", rimane in qualche modo indeciso intorno a questa Fede che avrebbe anche potuto non "degenerare". In quanto "degenerata", essa ha svolto e usurpato il ruolo di un soggetto collettivo concreto (che già non è poco). Ma che cosa ha fatto in quanto non degenerata, se mai è stata attiva? Ma non insisterò ulteriormente sui pochi testi, nei quali si riesce a distinguere il tremolio di un'infima brace. Mi limiterò a dire che la "fede" come tale non è formalmente distrutta né radiata dal pensiero. E mi rivolgo subito all'ultimo testo pubblicato da Gérard Granel, Lontano dalla sostanza: fin dove?5.
2 Questo testo è sottotitolato "Saggio sulla kenosis ontologica del pensiero dopo Kant". Esso si pone dunque esplicitamente sotto il segno e il concetto di questa parola consacrata (è il caso di dirlo) da Paolo nel suo uso teologico (Dio che in Gesù Cristo si svuota della sua divinità). Dichiarando di attribuire a questo termine un valore "ontologico e non più teologico" (535), Granel si propone di spingere quanto più è lontano possibile un pensiero del vuoto ontologico. Quanto più lontano è possibile: fino a quell'estremo che il titolo spinge verso l'irrisolto di una domanda, fin dovei - domanda nella quale il "lontano" continua ad allontanarsi sempre di più, fino, insomma, a esaurire se stesso. Fin dove? Forse da nessuna parte, in nessun luogo determinabile, in un eccesso di pensiero sull'intera presa del pensiero. Ma seguiamo il filo di Granel. Questo pensiero è quello che egli, in vari altri testi, ha chiamato "lo svuotamento dell'essere" e che qui chiama, a proposito di Kant, "svuotamento trascendentale" (535). Con queste espressioni Granel trascrive il "senso dell'essere" di Heidegger, che va inteso come un essere non sostantivo ma verbale, e verbale, per giunta, in modo transitivo. Se l'essere è pensato come ciò che è l'ente (come se lo "facesse", lo "raccogliesse" o l'esponesse senza per questo con-
5 Cfr. più avanti pp. 97-109. Si troverà l'indicazione delle pagine della rivista, alle quali mi riferisco qui.
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fondersi con nessuna di queste azioni), oppure se l'essere non " è " niente, se non l'evento (Ereignis) proprio dell'ente, allora l'essere nell'ente si svuota di ogni sostanzialità. Granel afferma che questo svuotamento è il filo conduttore del pensiero moderno, da Kant fino a Heidegger, passando per Husserl. Alla fine del testo apprenderemo che lo svuotamento si può intendere anche come finitizzazione dell'essere: è "la finitezza pura e semplice dell'Essere stesso" (544) che designa in conclusione il pensiero più lontano, al quale è stato possibile avvicinarsi. È possibile analizzare lo sviluppo di questo avvicinamento perché esso opera su tre registri, legati fra loro, ma anche relativamente distinti, che funzionano ora insieme ora in alternanza, dandosi in qualche modo il cambio nella costruzione dell'argomento. C'è un registro strettamente filosofico e c'è un registro fatto di varie trasposizioni, metafore e citazioni di varia natura, prese a prestito da un registro teologico, esso stesso alternativamente cristiano o "pagano" 6 . Il terzo registro è di tutt'altro genere: è quello con il quale Granel si presenta qui, in proprio e in prima persona, come colui che nutre l'ambizione e rischia l'"awentura" (535) di andare più lontano degli altri e dello "stesso Heidegger" (535) nel pensiero della kenosis. Più lontano quindi di ogni filosofia fino a questo momento. Granel s'inoltra da "solo" (535): fin dove? Fino a quale esperienza pensante del "vuoto" e in un "vuoto dell'essere" (535)? È lui stesso a porci la domanda, come se ci sfidasse a indovinare o come se c'invitasse a seguirlo in quel lontano dove tuttavia si avventura da solo. Questi tre registri hanno statuti ben diversi quanto alla posizione che occupano nel testo: il primo costituisce il vero tessuto, il secondo occupa poco più di una decina di frasi in quelle nove pagine, e il terzo ancora meno. Ciò di cui vorrei parlare lega invece i tre registri in un intreccio serrato che organizza il vero funzionamento del testo. 6 Che parola usare? Siamo talmente strutturati dal monoteismo che non abbiamo termini per parlare di ciò che non coincide con esso.
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Non mi pare, infatti, che si tratti qui di un'analisi strettamente filosofica abbellita inoltre da alcune immagini (casualmente teologiche) e dall'espressione contingente di un'ambizione (la cui superbia non è estranea, probabilmente, a nessun pensatore, ma che raramente si espone in una simile bravata di convenzioni di falsa modestia). Supporre di avere a che fare con un simile amalgama di registri eterogenei, significherebbe d'altronde fare torto a Granel. Bisogna capire, invece, come qui l'esigenza orgogliosa - o coraggiosa? (è possibile fare una distinzione?) - e la figura teologica - o ateologica? (è possibile fare una distinzione?) - s'incorporino (non uso questa parola a caso, come si vedrà) nell'investigazione filosofica e, più precisamente, ontologica. Bisogna capire come la rivendicazione (l'Anspruch auf, per parlare kantiano) di un estremo proprio del pensiero e la risorsa apparentemente allegorica del teologico stringano fra loro, e all'interno del discorso filosofico, un'alleanza tanto discreta o segreta quanto necessaria. E come quest'alleanza sia necessaria a condurre il più lontano possibile l'argomentazione, fino alla sua "ultima tappa" (543), per quanto "strana" sia (542).
3 L'analisi dello "svuotamento trascendentale" equivale innanzitutto a confutare successivamente Kant e Husserl a causa di un residuo di sostanza o sostanzializzante. A questo proposito il testo presenta alcune digressioni la cui ampiezza non pare sempre necessaria, tanto più che esse prendono le mosse da risultati che Granel ha già acquisito da tempo. Egli stesso dice d'altronde di riprendere diversi esempi di ciò che in passato aveva chiamato "l'equivoco ontologico del pensiero kantiano" (535), e sottolinea inoltre di aver "mostrato altrove" (542) come Husserl "ricada continuamente nel regime sostanzializzante di un presunto discorso descrittivo" (542)7. Il testo che abbiamo di fronte è quindi un testo di autosupe-
7 Wittgenstein non appare esplicitamente in questo testo. N o n bisogna però sottovalutare l'importanza che ha avuto per Granel, e si potrebbe indovinarne la presenza in filigrana, intrecciata al monogramma di Heidegger, in ciò che il testo chiama la "formalità dell'apparire". Ma non è questa la mia intenzione.
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l'amento: Granel vuole andare più lontano di quanto Granel non abbia fatto fino a quel momento, cioè più lontano di "tutta la Tradizione" (540). Traditionis traditio: egli stesso si tira fuori dalla tradizione, con la tradizione, più lontano di essa: "trascinarsi" (535), tirarsi, estrarsi, promettere eccessi decisivi. ("Ma non è il caso di fare troppe promesse..." (535) dice con ritegno, e come se non sapesse che ogni promessa comporta un eccesso strutturale). Questo oltrepassamento della tradizione e di sé corrisponde a un "discorso [...] ahimè, più ambizioso di tutte quelle critiche" (542), rivolte ai diversi sostanzialismi dell'oggetto o, soprattutto, del soggetto (perché "ahimè!"? probabilmente perché questa ambizione si espone a una dismisura che Granel deplora (sinceramente? è un'altra questione) e desidera allo stesso tempo: tutto il segreto del testo è qui, indicato e nascosto. Al di là delle critiche è necessario "cercare la radice stessa di questa ostinazione della Sostanza" (542) in tutta la Tradizione. " E la risposta che azzarderei consiste nel dire che quanto ci sfugge si potrebbe chiamare l'Inafferrabilità dell'Essere" (542). In un certo senso, il rischio di questa risposta consiste nel non rispondere: sottraendo l'essere a qualsiasi presa, Grane! lo scava e lo svuota di ogni sostanza e di ogni "stare" in generale. Svuota l'essere di ogni essere, svuotando così l'intera Tradizione di ogni sua pretesa di afferrare un essere qualsiasi. Vuoto dell'essere e dell'ontologia o della filosofia, quindi - ma a vantaggio di che cosa? È qui che si gioca, più sottilmente, il superamento dello "stesso" Heidegger. Questo superamento è abbozzato, suggerito, piuttosto che mostrato con la certezza imperiosa con cui si enunciava l'esperienza acquisita delle "critiche". L'abbozzo si delinea quando Granel dichiara che "per 'le cose' esiste anche un altro modo originario di essere, diverso da quello descritto dall'analisi esistenziale, il modo percettivo con il quale esse ci sono, come si usa dire, 'date'" (539). Non posso soffermarmi qui sulle considerazioni suscitate da un riferimento che si limita all'Heidegger di Essere e tempo. L'essenziale è cogliere come Granel opponga a ciò che, per tentare di restituire la sua intenzione, chiamerò la norma esistenziale della "cu87
ra" (una "pragmatica" del mondo) un'altra trascendentalità o esistenzialità: la percezione compresa non come una pragmatica, ma come una poietica del mondo.
4 (È necessaria qui una precisazione alla quale non posso però dare l'ampiezza che vorrei. La "poesia del Mondo" appare presto nel testo (536). La proverbiale capacità del poeta di "nominare [...] il pudore del mondo" (536) è definita come una sfida sovrana a ogni tentativo filosofico. Questa sfida nasce dalla "scrittura" (536), e di questa scrittura la pagina abbozza alcuni esempi ("il grido della poiana che solca il cielo grigio", ecc.) che costituiscono, in maniera non esplicita, la scrittura in verità ultima di una "descrizione" fenomenologica che per l'appunto non sarebbe più fenomenologica. Questa poesia o "poiesia" non è altro, come mostrano gli esempi, tutti disegni, colori e immagini sensibili (freddo, rosso, profilo dei rami...) - che il regime dell'arte in generale. L'arte come percezione, ecco che cosa dovrebbe andare più lontano di Heidegger. Quest'ultimo, d'altronde, sarà citato più avanti solo a proposito di ciò che, secondo lui, coinvolge l'arte in una partizione del cielo e della terra, dell'"aperto e del chiuso" (540). Ciò che riprendo qui con il nome di poietica di Granel è una tale partizione di cielo e terra: un'insorgenza del mondo. Ma, come vedremo, il testo menziona anche un'altra partizione di cielo e terra, che ripete o prolunga ulteriormente quella dell'arte, a meno che non sia la stessa, ma considerata da un altro punto di vista). Se in questa maniera sottile, delicata, si va più lontano di Heidegger, è per toccare - se così si può dire - "l'inafferrabilità dell'essere" e per toccarla in una "percezione poietica", cioè anche "creatrice", per usare ancora una volta questa parola. Questa inafferrabilità non ha niente del "mistero sublime, analogo all'Inconoscibilità di D i o " (542). È "piuttosto", scrive Granel, "in ogni campo fenomenico il ritrarsi del "come" - la sua finezza, la sua totale novità e la sua improducibilità" (542). Come il mondo " è " - e non "come è il mondo" - , o il fatto che è, sempre nuovo e non prodotto, non 88
fondato su di un sostrato né in un soggetto di "coscienza" (544), ma "raccolto" in "una specie di cavità" (542) o nell'"Aperto", (542) che ogni volta lo apre e lo raccoglie: è ciò che il vuoto dell'essere mette in gioco. È qui allora che avviene l'avanzata solitaria di Granel: è qui che egli si "avventura" (536) ed è qui che si tratta di stabilire una condizione dell'esperienza, un'"idealità" o una "formalità" del mondo che "nessuna filosofia è stata capace di dire" (540). Questa "formalità" dovrà stabilire come sia possibile che mi appaia un mondo senza che ci sia "da parte mia alcun movimento di appropriazione del reale", ma "nemmeno, da parte del reale, alcun movimento di riferimento a me". Dice allora Granel: "Coraggio, bisogna dire lo strano o fermarsi qui" (542). La "cavità raccoglie [...] ciò che è visto" (542) e forma tanto l'Aperto dove "io sono" nel luogo stesso dell'apparire delle cose, senza essere "al centro" di esse, né di fronte ad esse come un soggetto. Granel identifica questo luogo - luogo non localizzato ma localizzante di ogni aver-luogo - nel da di Heidegger (543). Ma l'ultimo passo si compie quando questo da si vede a sua volta interpretato da un termine che non è più heideggeriano, quello di "corpo". Granel non tematizza esplicitamente quest'ultimo gesto che lo distingue dalla tradizione nel suo ultimo rappresentante. Ma è proprio là che lo compie. Il "corpo" in questione non è certo il complemento materiale di un'anima, ma il "corpo proprio" di MerleauPonty (543). Questo corpo è la "formalità" prima del mondo in quanto "luogo di diversificazione degli a priori del visibile" (544). È "una specie di rettangolo nero al centro del quadro che ha la funzione di ripartire le regioni" (543). Il termine "quadro" non è casuale: la pittura si rivela da lontano come il vero luogo della formalità-corpo e dell'esposizione del mondo. Con la pittura, e in essa, ancora un volta, la "poiesia" di una "descrizione" ultra-fenomenologica (al di là o al di qua dell'intendere, in un'apertura visiva non intenzionale), è propriamente all'arte che si allude. Il "rettangolo nero", "principio e macchia cieca in questa regionalizzazione spaziale che sempre rinasce dal percettivo" (544), non è un occhio, è un'arte: l'arte nella quale o come la quale si apre un quadro/un mondo (il quadro di un mondo o il 89
mondo di un quadro). Che il tempo non sia menzionato indica, ancora una volta, in eccesso su Heidegger, che la diversificazione spaziale - distanziamento, spaziamento, "regionalizzazione" - presiede all'espansione in quanto apertura dell'aperto. Immagino, per cercare di render conto di quanto Granel non dice, che la diversità delle regioni s'imponga come una forma assolutamente anteriore a qualsiasi successione e a qualsiasi movimento (cosa che non impedisce di presagire in essa anche l'estensione del tempo).
5 Questo corpo, quindi, non sarebbe altro che la diversificazione dell'aperto, ed è questo il tratto pluralizzante che Granel vorrebbe iscrivere come aggiunta (piuttosto che come correzione) del da del Dasein. Ne deriva "questo risultato molto sorprendente [...] che proprio ciò che costituisce il campo più puro del pensiero è per così dire posto o posato sul nostro corpo" (544). Questo "posto sul" ha il compito di respingere sia l'autonomia di un puro soggetto di coscienza che l'idea di uno "spirito incarnato" (543). Il corpo non è qualcosa in cui e con cui lo spirito ha a che fare. È "piuttosto totalmente fuori campo" (543): è in fin dei conti esso stesso il vuoto ontologico, la vacuità come apertura diversificante dell'apparire. Il principio del mondo è posto o posato su questo vuoto: nient'altro lo dispone. Granel conclude: "Voler sapere di più su questo, sarebbe come voler entrare nel gesto creatore di Dio" (544). Non si può sapere niente sulla posizione dell'apparire del mondo sul "rettangolo nero". Non si può porre niente sopra l'essere-su dell'aperto posato sul vuoto. Non è possibile perciò sapere niente di quest'arte del vuoto o di questo vuoto-artista del mondo e del suo poiein "creatore". Furtivamente avviene qui un duplice spostamento. Da una parte, Granel introduce il registro teologico senza pronunciarsi chiaramente su come avvenga questa introduzione: "Sarebbe come voler entrare..." è una similitudine che lascia l'oggetto della similitudine (il teologico) in uno statuto di realtà che può essere tanto separato 90
quanto in un'analogia puramente figurativa (ma figurativa di che cosa? che cosa figura la "creazione", se non l'uscita dal vuoto?). D'altra parte, scrivendo "voler sapere..." Granel non rinvia tanto a un'impossibilità quanto a un'interdizione. Non bisogna cercare di penetrare il vuoto artista. Il tono ricorda quello di un interdetto sacro. Non c'è allora un altro "risultato molto sorprendente", di fronte al quale dobbiamo dire a nostra volta: "Coraggio, bisogna dire lo strano..."? Subito, però, nell'ultima frase, Granel sembra disinnescare e sconfessare quanto aveva suggerito questa lettura. In un sussulto dichiara: "Ma come! E se invece l'invenzione di una creazione divina non fosse che una nostra fuga davanti a ciò che c'è di terribile nella finitezza pura e semplice dell'Essere?" (544). Come trattenersi dal fare due osservazioni? La prima è di ordine retorico: perché introdurre, qualunque ne sia il registro argomentativo, "il gesto creatore di Dio", per poi espellerlo subito dallo spazio del pensiero? Perché, se non per la ragione - almeno per la ragione - che questo "gesto creatore" offriva l'analogia meno scadente, nella nostra cultura, per indicare la questione del corpo-vuoto-artista? Ma allora, non bisognava dire qualcosa di più del "gesto creatore", che lo si intenda come un'immagine o come una verità di fede (poiché il suo contenuto resta lo stesso)? La seconda osservazione costringe invece a ripetere questa domanda e ad accrescerne la portata. Essa concerne stavolta i concetti. La "creazione" dell'ultima frase evoca manifestamente, secondo un'accezione corrente della parola "creazione", un'operazione che produce mondo, fornendogli la base e la garanzia del suo produttore o fondatore. Il "gesto creatore" della penultima frase era invece non meno manifestamente legato, attraverso la sua funzione di similitudine, al tema del vuoto ontologico. Da una creazione all'altra, Granel ha cambiato concetto. Da un ex nihilo, inteso nel senso di un nihil aperto al mondo, passa alla favola di un produttore che si presume che produca senza materiale (ma come soggetto e sostrato della sua opera). La teologia più esigente nei tre monoteismi, e comunque la mistica, non hanno mancato di sottolineare l'opposizione fra questi due concetti. Non posso soffermarmi su questa que91
stione8: ma la differenza non può sfuggire. O Dio si svuota di sé nell'apertura del mondo o Dio si sostiene, essendo da solo soggetto e sostanza del mondo. Non è affatto lo stesso "Dio". Rifiutando il secondo - il Dio della rappresentazione religiosa - forse Granel non si è reso conto che questo non significava rifiutare il primo? Oppure, al contrario, se ne è reso conto in una maniera infinitamente discreta, segreta, complessa, delicata - posta in gioco dèlia sua audacia nei confronti della tradizione? Oppure, e più precisamente: rifiutando il secondo "creatore", Granel rifiuta sicuramente Dio. Ma non rifiuta un dio che si svuota di Dio o un "divino" che esaurisce ogni sostanza divina (cioè ogni sostanza in generale, se è vero che l'autosufficienza divina definisce la sostanzialità stessa, assolutamente). Ma questo divino esaurito è proprio quello della kenosis di cui questo testo porta l'emblema. Improvvisamente, però, il cambiamento di segno della kenosis - intesa ormai "in senso ontologico e non più teologico" (536) — si rivela un'operazione più complicata di quanto non sembrasse. Non possiamo evitare di chiederci la ragione del ricorso al termine paolino, se questo termine abbia qui semplicemente il compito di trascrivere in greco ciò che non si potrebbe chiamare facilmente "svuotamento", e se, per giunta, la trascrizione non rischi di appesantire (come si vede) l'intero testo (cui dà il titolo), gravandola di una difficoltà a districare l'esatta portata del congedo dalla teologia9 in un regime tuttavia ancora "teologico", se non altro in quanto parla di Dio (oppure: in quanto fa di " D i o " un tratto della sua scrittura...).
8 Mi permetto di rimandare a De la création, in La création du monde ou la mondialisation, cit. Avevo dato a Granel il manoscritto della prima versione di questo testo, d o p o aver avuto da lui Loin de la substance, e alla fine ci eravamo trovati d'accordo sull'essenziale a proposito della "creazione". Ma la sua malattia non mi ha permesso di discutere con lui- l'analisi che tento qui. 9 Avevo chiesto a Gérard: " C h e cosa significa questo cambiamento di segno?" e mi aveva risposto: " M a , caro mio, si congeda la teologia!". Poi la sua stanchezza impedì la discussione.
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5 Che questo regime non sia onto-teologico, nel senso che questo termine ha in Heidegger, lo si può ammettere senz'altro. Che, in questo senso, esso non sia né teologico né ontologico è quanto bisognerebbe dire, volendo essere più precisi. Granel non lo dice, ma avrebbe potuto dirlo. Avrebbe potuto cercare di dire, per esempio, che qui una "kenologia" destituisce ogni onto-teologia. Azzardo l'ipotesi che, se non lo fa (e se il termine kenosis rimane relegato nel sottotitolo del testo), è perché una "kenologia" l'avrebbe costretto - costringerebbe tutti noi - a dire che cosa succede del logos. È verosimile che non ci sia un logos del kenos, così come c'e un logos dell'"essere" o del "dio", quando l'essere o dio vengono considerati come oggetti di discorso (di un discorso fondatore e razionale), cosa che il kenos, forse, tollera difficilmente. Che cosa succede allora del logos? Probabilmente un duplice spostamento. Da una parte, come si è visto nel corso del testo, esso deve identificarsi in qualche modo con la "descrizione" dell'apparire del mondo secondo la "cavità" e secondo "il 'come' irreale di ogni reale" (538). Questa descrizione può avvenire soltanto come "scrizione": "poesia" e "scrittura" (536). Delineando alcuni aspetti di questa "compartecipazione al luogo dello schiudersi" (542) in ogni cosa del mondo, come il "grido della poiana" o "quel raggio di luce che non si separa dallo scintillio del mare" (538), Granel ha cercato, ha desiderato, ha sperato (si è ripromesso? temendo di ripromettersi troppo?) di mettersi dalla parte della poesia (e non della letteratura, da cui prende le distanze a pagina 542, con uno "spero di no" che rivela il suo sentore di un possibile abbaglio, di una possibile pesantezza decorativa e dell'estrema fragilità dell'approccio al poetico da parte della filosofia, benché questo approccio, che arriva fino al contatto, appaia qui come inevitabile e più che mai pressante. Di fatto esso incalza Granel, lo preoccupa, ma si dirige verso quel punto di contatto, fuggitivo e folgorante, in cui "Misura del raccogliere" è proprio il senso del termine greco logos (542)). Ma d'altra parte, e nello stesso tempo, il discorso e le sue fughe poetiche mutuano le risorse da una metaforica del divino che resta 93
ancora da decifrare. A due riprese sono stati accantonati i "misteri" della teologia cristiana: quello dell'Incarnazione (535, a proposito della kenosìs) e il mistero sublime "dell'Inconoscibilità di Dio" (542). Se bisogna accantonarli, è perché potrebbe nascere una confusione. In entrambi i casi la confusione equivarrebbe a identificare ciò che nel cristianesimo procede da un fuori del mondo (Dio che viene nel mondo, Dio che resta inaccessibile al mondo) con ciò che del mondo deve essere compreso come la "formalità" della sua "apertura": l'apertura non è fuori del mondo, benché non sia neppure dentro di esso, l'apertura non è un altro mondo né un oltremondo, poiché essa apre questo mondo a se stesso. Se c'è rischio di confusione, è perché c'è somiglianza, e se ce n'è, è perché essa testimonia forse di una qualche filiazione che dal cristianesimo conduce al pensiero del vuoto ontologico, cioè di un paradossale compimento del cristianesimo proprio nel suo esaurirsi. Ma non voglio proseguire ora per questa strada, che niente in Granel autorizza a percorrere. Mi fermo a questa distinzione chiara: ciò che è del mondo non ha niente a che vedere con un fuori del mondo, niente a che vedere con un "puro spirito" né con una "sovranatura" (e niente a che vedere è qui l'espressione giusta, in questo testo dove tutto si concentra intorno al vedere e alla sua possibilità). Ma ciò che è del mondo e ne fa l'apertura - come il bordo, il limite dis-cernente - comporta nondimeno il "divino". Il divino non fa mai difetto in Granel 10 , al punto che egli può parlare, in un altro testo, del "dio-mondo" che è l'opposto del "dio dei filosofi" (ma questo, che è sicuramente il dio dell'onto-teologia, non è necessariamente il dio della fede: in un certo senso non parlo di nient'altro, in Granel, che di quest'ombra pascaliana). Questo divino è sempre un modo di nominare, a proposito del mondo, l'alterità costitutiva della sua apertura. Divina è la partizione che fa mondo. Qui, questa denominazione - divino - è posta come nominazione propria a favore di un'appropriazione della metafora all'opera nella parola 10 Potrei moltiplicare i riferimenti, ma non serve... L a citazione che segue si trova in G . Granel, Etud.es, cit., p. 104.
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"dio": dies, "la luce del giorno, l'Alone (Cernè) di cui parlavamo come della condizione del dis-cernimento percettivo e che, pertanto, non è niente che si possa discernere" (540). Dies che è anche, per i latini, una dea "madre del Cielo e della Terra", vale a dire del "tutto di questa partizione che è propriamente originario e quindi divino", questa partizione secondo la quale ci possono essere l'ordine delle cose e l'ordine, che se ne distingue per poterle distinguere, della "non-cosa del Cielo" (540): cioè, insomma, l'apertura del vedere come corpo formale o come la forma-corpo di cui abbiamo parlato.
7 Benché il divino non discenda per "incarnarsi", esso è comunque - secondo una logica del divino diversa, ma non del tutto eterogenea (che permette di modificare il segno della kenosis) — la forma-corpo dell'apertura luminosa (o illuminante): "la nascita del divino" (540) come alba del mondo. Non incarnato, "il campo più puro del pensiero", cioè l'apertura percettiva, "è per così dire posto o posato sul nostro corpo" (544). "Per così dire": che c'è da dire? Che cosa vuol dire "posto"? Nel testo è già apparso questo participio, all'inizio, per evocare o per (de)scrivere "la sera, sui campi che dileguano, un colore intenso della terra, come se fosse appena stato posto" (536). Posto è ciò che il tocco di un pennello posa: è appunto il tocco di un vedere che apre un colore - un "dettaglio", una "sospensione", uno "schiudersi". Un simile tocco è consustanziale - se si può usare qui questa parola - all'apertura stessa. Il "puro pensiero" direttamente sul corpo spazializzante è la simultaneità dell'aperto e del cerchiato (cerne), di ciò che si è potuto dis-cernere, e la simultaneità del vuoto e dello spaziato o del diviso - diviso dal ritrarsi del "come" - "la sua finezza, la sua totale novità e la sua improducibilità" (542). Improducibile è il creato nel senso di ciò che esce dal nulla. Posto è il tocco inafferrabile di un ex nihilo, la chiarezza di un dies divus formalis che fa spazio al mondo. Dio vi si svuota di sostanza e il divino vi diventa la misura della partizione tra la luce e l'ombra, tra il vedere e il visibile. Questo luogo, questo corpo, è quindi il luogo, la cavità del dio svuotato e 95
del vuoto divino. Oppure: ciò che resta del divino - ciò che resta divino del divino - sarebbe ancora questo nome, dies/divus, che raccoglie in sé una kenosis nella quale Pateologia si rivela spoliazione e verità del "mistero". Non voglio insinuare il sospetto che in Granel ci sia un residuo di pietà. Anzi. Voglio soltanto fare questa domanda a cui egli mi spinge: come si riconosce 1*"inafferrabilità dell'essere"? Come si accede a questo corpo cavo del quale non si deve "voler sapere" niente di più? Come si tocca l'aperto del mondo/al mondo, o come ci si lascia toccare da esso? Come, se non con un gesto che pone (o che depone) più e meno del sapere, con un gesto che passa oltre il sapere senza sragionare, con una giusta ragione che si accorda col "manifestamente divino" (540) della... manifestazione stessa e della sua partizione? Questo gesto che non misura né il sapere né la certezza di una coscienza, gesto né oggettivante né soggettivante, complice necessario di una scrittura (di un canto, di un tono, di un tocco), non potremmo, non dovremmo chiamarlo "fede"? Una fede che deriverebbe direttamente da un ateismo senza riserve, dove essa non sarebbe altro che il "coraggio" richiesto per dire lo "strano". Lo strano: un divino corpo dis-cernente. È così che intendo il ruolo svolto in questo testo dall'apparente orgoglio di un Granel avventuratosi da solo più lontano di tutti i filosofi - più lontano fin dove? Fino a questa fede da niente: fedeltà pensante, al di là del concetto, al "niente di questo Tutto originario" (535), pensiero affidato a ciò che gli viene da altrove perché non viene da nessuna parte, dalla parte nulla del niente, fede, insomma, che non è niente - se non quest'infimo, estremo tocco di pensiero posato su quel niente. E soprattutto, niente religione! niente credenza - correlato di una sostanza rappresentata - ma certezza senza soggetto né sostanza che si riceve e si raccoglie dalla "finitezza pura e semplice". Solo fino alla fine, rettangolo nero aperto.
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Gérard Granel
Lontano dalla sostanza: fin dove?
Saggio sulla kenosis ontologica del pensiero dopo Kant
[535] In origine la kenosis è il movimento con il quale Dio si svuota della sua divinità nel mistero dell'Incarnazione. Cambiato di segno e inteso in senso ontologico e non più teologico, il termine vuole indicare in primo luogo la direzione - sarebbe forse meglio dire il destino - del pensiero moderno in Kant e in Husserl e in secondo luogo l'orientamento dell'interrogazione heideggeriana. Forse, alla fine, riusciremo ad avventurarci, da soli, in un "vuoto dell'essere" nel quale neanche Heidegger è riuscito a farsi trascinare. Ma non è il caso di fare troppe promesse... Come indica il nostro titolo, tutto questo movimento si misura come un allontanamento, più o meno cospicuo, dalla Sostanza. Quel che intendo per "Sostanza" ("S" maiuscola) non si riduce affatto alla prima categoria della relazione nella tavola kantiana delle molteplici ptosi dell'essere. Si tratta del senso dell'Essere stesso, così come esso s'impone nella metafisica moderna già prima che essa entri nella sua età critica (gli esempi di Descartes e Spinoza saranno sufficienti a mostrarlo), così come esso continua poi a dominare segretamente nonostante il suo svuotamento trascendentale (lo vedremo riprendendo diversi esempi di ciò che altrove ho chiamato l'equivoco * Saggio pubblicato in «Études philosophiques», n. 4, Paris 1999. Granel teneva molto a questo testo: me l'aveva spedito chiedendomi di pubblicarlo. L o proposi a J.-M. Courtine che lo fece pubblicare subito in quella rivista. Le pagine, cui fa riferimento il mio saggio, sono indicate qui fra parentesi quadre. Il testo è stato riprodotto senza alcuna modificazione.
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ontologico del pensiero kantiano), così come esso, infine, vanifica tutti gli sforzi di radicalità metodologica della fenomenologia husserliana nel faccia a faccia di un soggetto onni-ponente, e tuttavia puramente posto, e di una fenomenalità arci-costruita, e tuttavia dipendente da una materia impressiva. Quando, però, dobbiamo determinare questo senso dell'essere in se stesso, e non semplicemente designarlo ricorrendo a esempi storici, ci troviamo di fronte a un'enorme difficoltà: quella che l'ermeneutica della banalità comporta. "Ciò che sta sotto" - questo è letteralmente il senso del termine sostanza - non è altro, infatti, che la profanazione tetica della più banale delle evidenze, quella della presenza del reale. Quella presenza sulla quale apro le mie finestre ogni mattina, nella quale mi occupo delle faccende della vita o mi addormento senza curarmi di ciò che associa Hypnos e Thanatos, e della quale, nonostante tutto, non mi rendo mai conto. Tranne, forse, che in una specie di arresto, un infimo e silenzioso arretrare davanti al niente di questo Tutto originario - diciamo un sentimento del [536] Mondo o di esistere (non è un'alternativa e nemmeno una differenza). È sempre e soltanto un dettaglio nell'immensa popolazione delle cose a provocare questa infinitesimale sospensione: il grido della poiana che solca il cielo grigio; il freddo improvviso che mi rimette nella mia pelle; il vento tiepido che accarezza i capelli. E poi. Il sole rosso che scende a picco dietro le cose, l'inestricabile profilo dei rami di quell'albero che l'ombra replica sul muro bianco, con una proiezione perfetta di cui niente tradisce l'operazione, e la sera, sui campi che dileguano, un colore intenso della terra, come se fosse stato appena posto. Si dirà che questa è la poesia del Mondo, e che la filosofia non è poesia. Ma io dico che in ciò che la scrittura addita regna niente di meno che una logica della fenomenalità, un tessuto di a priori insospettati che screditano tanto l'espressione che abbiamo usato ("la presenza del reale") quanto quella che usa la metafisica ("la Sostanza"). È infatti l'evidenza della presenza a veicolare la presenza della rappresentazione, da cui derivano la metafisica della Sostanza, ma anche le filosofie del fenomeno, quella kantiana e quella husserliana, nonostante i loro sforzi per interrogare, descrivere e sistematizzare "lontano dalla sostanza". 98
La parola stessa lo dice: prae-ens, pre(s)ente è ciò che "è là davanti" - e davanti a che cosa, se non a me? Il quale "me" è di conseguenza già là, punto di riferimento assoluto del reale presente. Ma ugualmente ineluttabile è anche il contrario: ci vuole già un "reale" perché abbia luogo un me, presente a se stesso tra le cose presenti. C'è qui una sorta di pericolosa frattura, una denegazione originaria dell'affermazione originaria. Di modo che l'inizio non comincia che ri-cominciando e la presenza non si presenta che rappresentativamente. Considerata la pesantezza di tutto questo linguaggio, verrebbe la voglia di dire "ben gli sta!". Il poeta - di nuovo lui - è capace addirittura di nominare ciò che si vendica così dell'impazienza filosofica: la Nemesi più terribile, il pudore del Mondo. Il mondo, infatti, è scomparso non appena l'ho distribuito in una materia e in una forma, in parti e tutto, in cose e qualità, in sostanze e azioni - parlando come l'estetica trascendentale, e poi come l'analitica dei concetti di quantità, di qualità e di relazione. Cerchiamo di seguire per un momento il percorso di questa sparizione cominciando dallo spazio e dal tempo. Essi sono, com'è noto, le due forme a priori della sensibilità. La loro "esposizione", come dice Kant, rivela un pensiero della forma che - ed è l'unica volta in tutta la Critica della ragion pura - eccede o, meglio, spezza, rifiuta espressamente la validità della prima coppia che abbiamo nominato, la coppia materia-forma. In questa coppia, infatti, l'evidenza della materia precede sempre quella della forma che, a meno che non sia la forma di niente, va compresa come la disposizione spaziale (cioè in questo caso nello spazio) di una [537] molteplicità di parti date. Ma non si potrà mai pensare lo spazio stesso - la spazialità come tale - se le sue evidenze vengono attinte dall'intra-spaziale. Il presupposto ontologico di una realtà presente, che è data in primo luogo alla sensibilità, cioè come una molteplicità di sensazioni, costringe a concepire ogni forma come una disposizione delle sensazioni nello spazio. Ma prodotta come? Nessuna sensazione può uscire dalla sua chiusura assoluta e dare inizio a un rapporto delle sensazioni fra di loro. Il carattere spaziale del percepito è formale, e nessuna forma è l'avventura di un contenuto. Ciò che abbiamo ricostruito con la lentezza dei principianti è quanto la maestria kantiana afferma fin dall'inizio: " L a rappresen99
tazione dello spazio non può essere ottenuta per esperienza da rapporti del fenomeno esterno" e " L o spazio non è [...] un concetto universale dei rapporti delle cose in generale"1. La Critica ha dunque l'audacia di dichiarare "a priori" il carattere spaziale dell'esperienza che facciamo del Mondo, e di considerare che il "molteplice" di questa spazialità "si fonda esclusivamente [...] su limitazioni" 2 . Che questo concetto di limitazione sia proprio l'opposto di quello di "parte" o, in altri termini, di "materia" e che, di conseguenza, la nozione di "forma" usata per qualificare lo spazio stesso ("forma a priori della sensibilità") diventi qui totalmente enigmatica, è ciò che Kant sembra quasi voler minimizzare, quando "espone" tutta questa novità ("esposizione trascendentale dello spazio e del tempo"), soltanto in opposizione alla concettualità leibniziana, come se temesse di doversi esporre, lui, il pensatore, a una novità per la quale "le parole ci mancano". Come dire, infatti, (risulta difficile perfino impiegare il termine "descrivere", mancando un qualsiasi modello in pittura) ciò che egli chiama l'universum qua universum, a cui noialtri diamo quel nome banale, il suo vero nome: il Mondo? Eppure è necessario, perché le "forme a priori" che sono lo spazio e il tempo sono le forme del Mondo. Ma il Mondo non ha forma, perché non è niente di dato; è la formalità del dare, che è qualcosa di completamente diverso. E per pensare questa differenza, bisogna necessariamente allontanarsi dal registro della realtà (nel senso proprio dell'essere res di una res). Bisognerà quindi pensare il Tutto (il Mondo è infatti il Tutto) resistendo all'attrazione della molto metafisica omnitudo realitatis. Pensare inoltre la sensibilità prima e contro l'evidenza delle "sensazioni", per sostituirle con una sorta di effusione di limitazioni. Si vede, in quest'ultima perifrasi, che una certa stranezza s'impossessa del linguaggio o cerca il suo linguaggio. Proviamo allora a trovarglielo. Cartografia del vuoto. a) Il tutto. Ma no: intanto bisogna dire "tutto", e non "il" Tutto. "Tutto è pieno di sole stamattina", così esprimiamo, per esempio, come si dà, sotto forma del tempo che fa, il darsi stesso, il do1 2
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Kant, Critica della ragion pura, B 38; trad. it. cit., p. 69. Kant, Critica della ragion pura, B 39; trad. it. cit., p. 70.
no unico dell'[538]apparire nella sua interezza. Puro "come" che preserva la propria irrealtà evitando, per così dire "di misura", di nominarsi secondo quelle che sono già "cose". Perché se "tutto è..." - questo o quello, solatìo o nebbioso e grigio, ecc. - ciò significa, è vero, l'unità di una dispensazione, il Mondo come puro dispendio di "ogni cosa (tonte chose)", tuttavia "ogni cosa" non vuol dire - ancora una volta di misura - né "ciascuna cosa" (dal dono, infatti, non è ancora emersa nessuna cosa, non più di quanto quel raggio di luce si possa separare dallo scintillio del mare), né "tutte le cose". È riconoscere che l'antecedenza, prudentemente nascosta da Kant nel latino "apriori", non vuol dire "prima". Il che la libera anche dal "nello stesso tempo" e dal "dopo". Lo spazio-mondo vuol dire (o piuttosto tace) che ogni dato spaziale è aperto (a se stesso e per me), non in, ma secondo un'Apertura che non è essa stessa aperta da nessuna parte o, meglio: senza alcuna "essa stessa". Lo spazio "stesso" non vuol dire niente. Eppure certamente c'è, se non "il Tutto", almeno la forma-tutto. Anche se non dobbiamo pensarla come il Cerchio onni-comprensivo, dobbiamo tuttavia pensarla (trovarle, mentre affiorano sotto le immagini delle parole, gli schemi, i movimenti di senso che le convengono). Sostituire, per esempio, "cerchio" con "alone (cerne)". Ciò che Kant chiama così male "la sensibilità" significa in effetti che sempre discerniamo (dis-cernons) i fenomeni - cioè abbiamo a che fare con essi a partire dal loro alone. Di cui nessun dubita. Ci preoccupiamo forse di sapere se quel poco che vediamo qualche casa, un lembo di cielo, una strada o un segmento di strada - non si fermi per caso al bordo di un grande niente; al bordo del gran canyon del Nulla? Si dirà che, se siamo così certi della nostra buona vecchia terra, la cui rotonda esistenza è indubbiamente compiuta, le distanza astronomiche che separano i corpi celesti della nostra galassia e le galassie stesse (le quali, per giunta, si allontanano le une dalle altre) hanno invece di che risvegliare in noi il terrore dell'infinità. In-finità. Mai, mai, mai verrà il momento di un Mondo. "Che cos'è mai l'uomo nell'Infinito?" ecc. Ma la frase di Pascal è solo la retorica di un desiderio apologetico, privo di ogni fondamento fenomenologico. Quando alzo gli occhi verso il cielo notturno, ho probabilmente la sensazione che le stelle siano "lontano", ma 101
non è una questione di grandi numeri, e niente viene a distruggere la prossimità familiare del soggiorno. È anche ciò di cui confusamente mi meraviglio, come ha detto Kant senza dirlo: "Il cielo stellato sopra di me", esatto pendant - o anche forse semplicemente l'altro versante - della "legge morale in me". Come se l'universalità del cosmo e quella della massima, sotto l'apparente ingenuità di un riferimento all'uomo, venissero a ricordare che l'umanità stessa di quell'uomo è deferita al Mondo. Là abitiamo, là siamo, ed è per questo che abbiamo uno sguardo universale, aperto sul "come" irreale di ogni reale. Situazione che si conferma se, dal Mondo, passiamo adesso alle cose. [539] b) "Le cose" - espressione che tuttavia non bisognerebbe usare più di quell'altra "il Tutto". Heidegger giustamente nota che ciò con cui abbiamo a che fare "innanzitutto e per lo più" non sono "cose" (sorta di unità-di-realtà oggettivamente date, che le scienze trovano già pronte "nella natura"), ma con "Zeuge" (o, se si vuole, pragmata), unità di ancoraggio della "cura": non questo "oggetto" che si può anche chiamare sedia, ma fin dall'inizio questo elemento-del-mobilio che è la sedia; non l'irradiazione termica di quel corpo celeste, ma il calore materno del(/^) Sole (die Sonne). Eppure per "le cose" esiste anche un altro modo originario di essere, diverso da quello descritto dall'analitica esistenziale, il modo percettivo con il quale esse ci sono, come si usa dire, "date". In altri termini "ciò che" (espressione volontariamente indeterminata) ha di fronte il pittore. Neppure in questo caso si tratta di oggetti. Dall'altra parte della mia strada c'è un edificio universitario, lunga mezzaluna di quattro piani che vedo di scorcio. Se lo dovessi dipingere, la sua finalità universitaria sarebbe la prima determinazione a scomparire, perché essa non è niente che possa apparire; ma anche l'"edificio" (l'insieme architettonicamente costruito) non è niente per l'occhio. " N o n rimane allora che lo scorcio", si dirà subito, mostrando di aver capito. Ma non si è capito proprio niente! Il "qualcosa di visto", infatti, che per il sapere di chi lo considera è effettivamente lo scorcio e il lato di un edificio, non è niente di tutto questo per nes102
sun vedere. Ciò che il vedere dà è piuttosto (letteralmente "più tosto") un insieme di differenze del bianco e del grigio, con avvallamenti più scuri, ritmicamente spezzato da tratti rosso mattone e sottolineato da una lunga striscia di verde vegetale. Il tutto termina verso l'alto con linee geometriche, più lunghe che alte, che formano una specie di cremagliera slanciata in avanti. E, quando scrivo "termina", non si tratta di un sapere sull'esistenza di un edificio che, nonostante la nostra volontà di epoché, continuerebbe a governare la descrizione, ma è la differenza visiva tra l'insieme formato dai toni e dalle forme che abbiamo detto, da una parte, e ciò che forma in effetti un'altra parte del dato, un'altra altezza (piuttosto un'elevazione) nella quale si dispiegano liberamente un altro bianco e un altro grigio, quelli del vasto e del luminoso (il vasto e il luminoso di niente - che si chiama "il cielo"). Dove nasce quindi o, se si preferisce, come si segna la differenza di appartenenza di ciò che soprattutto non va chiamato "il contenuto visivo", ma (piuttosto, e molto maldestramente, lo ammetto) qualità e forme? Niente di quel che abbiamo detto permette di eludere la domanda. Che cosa intendiamo quando indichiamo come un "insieme" percettivo ciò che non deve niente alla nozione pragmatica di "edificio", né al concetto trascendente di "oggetto", ma che continua tuttavia a distinguersi da quegli altri "insiemi" formati dagli alberi intorno, dalle automobili allineate al bordo delle strade, dalle stradine stesse, ecc.? La differenza, infatti, tra questo insieme e il cielo era in fondo la più facile da cogliere, dal momento che il cielo appunto non si presenta mai come una "cosa", [540] rispetto alla quale forme e qualità verrebbero a trovarsi in un rapporto di appartenenza. Il cielo è la non-cosa paradigmatica. E, di conseguenza, emblematica del Mondo come tale. Fermiamoci per un momento - ritroveremo le "cose" più tardi (a meno che non siano definitivamente introvabili) - perché qui siamo alla nascita del divino, così come lo pensa la lingua latina. "Dies" è il giorno, più precisamente la luce del giorno, l'Alone (Cerne) di cui parlavamo come della condizione del discernimento percettivo e che, pertanto, non è niente che si possa discernere: non cernitur dies, come dice Plinio. Secondo il poeta Igino, amico di Ovidio, 103
Dies, figlia di Caos, è la madre del Cielo e della Terra. Ed è vero che la luce del giorno, diffondendosi poco a poco fuori dal caos notturno, "genera" questa prima dualità del visibile secondo la quale esso si "divide" fra la non-cosa del Cielo e una Terra-delle-cose. L'Aperto e il Chiuso, dirà Heidegger nell' Origine dell'opera d'arte. In verità è il tutto di questa partizione che è propriamente originario e dunque divino. Fin dall'inizio (l'"inizio" del dire latino), però, il divino si concentra per così dire nel Cielo: "dius" o "divus" vuol dire indifferentemente la luce del giorno, il cielo e il divino. "Sub divo"'. in pieno giorno, sotto il cielo. Va da sé, in effetti, che questo Aperto nel quale soggiorna la luce, questa evidenza delle evidenze, eppure inaccessibile e imprendibile perché non può essere in alcun modo una cosa, è manifestamente di ordine divino. Non bisogna dimenticare inoltre che non ci potrebbe essere la Luce senza ciò che essa, a sua volta, manifesta. Varietà che finora abbiamo provvisoriamente chiamato "cose", ma di cui è tempo di riconoscere che il modo di essere resta molteplice e generalmente ininterrogato in tutta la Tradizione. L'unità di appartenenza, da cui sempre deriva l'elargizione del sensibile, solo di rado ha stile "cosale". L'albero, ad esempio, che la luce del giorno fa brillare andandovisi a infrangere, afferma sotto i nostri occhi l'unità di una profusione che evidentemente non accatasta, l'una sull'altra, una "cosa" che sarebbe il tronco, altre "cose" che sarebbero i rami e i ramicelli, fino alla molteplicità inquieta e cangiante delle piccole-cose-foglie. L'albero è un'unità di appartenenza di tipo non cosale. Ce ne sono molte altre, totalmente diverse dalla profusione vegetale: l'unità per dispiegamento del pendio di una collina, ad esempio, oppure le due specie dell'unità-di-passaggio, quella di un passaggio-che-rimane (il fiume) e quella in cui il passaggio stesso passa (il volo di un uccello). Profusione, dispiegamento, passaggio: sono stili, vere formalità, insomma — tiriamo pure fuori la parola — idealità del visibile che riconosciamo senza doverci nemmeno pensare, come sempre succede con gli a priori dell'esperienza. La questione è: perché allora nessuna filosofia è stata capace di dirle? E nemmeno di supporle? Innanzitutto scoprire e poi esprimere ciò che abbiamo chiamato le "idealità" non è forse il compito proprio del discorso filosofico? Ci sono forse idealità "sottili", co104
sì sottili che tutta la Tradizione le ha semplicemente mancate? Si fa fatica a crederlo, perché è evidente che quello [541] che scandisce appunto la Tradizione è un affinamento progressivo del suo sapere intorno alle condizioni di disvelamento dell'ideale. Si potrebbe mostrare che in questo c'è già il senso della critica aristotelica all'esordio platonico. Ancora più chiaramente, inoltre, questo è anche il senso del criticismo kantiano e del radicalismo husserliano, per limitarci qui ai moderni. Il primo, in effetti, nel suo tentativo di allontanarsi dall'evidenza della Sostanza, va a cercare il senso dell'Essere in quello che chiama "l'unità sintetica originaria dell'esperienza", da cui deriva un senso "schematico" dell'insieme delle idealità categoriali. Il secondo - Husserl - cerca da parte sua di dotare il pensiero di un'irremovibile fedeltà ai fenomeni attraverso la riduzione dell'"oggetto" (cioè, ripetiamo, di quello che per tutti i moderni è il senso stesso dell'Essere) al suo "come" (das Object-imwie), che si presume dato assolutamente, una volta "sospesa" (epoché) ogni tesi di esistenza e ogni costruzione rappresentativa. In entrambi i casi i frutti sono stati numerosi. Direi che sono stati più numerosi, e soprattutto di una novità più strana, in Kant che in Husserl. Prima di tutto perché, se è vero che il concetto non dice l'a priori dell'esperienza che riduce a uno schema, lo schema, da parte sua, è senza immagine - cioè irrappresentabile. Nella Critica se ne trovano almeno due indizi: 1) il fatto che il potere di "categorizzare" il fenomeno d'esperienza appartiene in proprio, in ciascuna delle triadi dei "concetti puri dell'intelletto", non a questo o a quel concetto preso isolatamente, ma a ciascuno di essi «e//'unità originaria dei tre. Non c'è unità, ad esempio, che non sia già in una pluralità, la quale, quindi, non è più volte l'uno, così come non c'è pluralità che non sia anticipata in una totalità, la quale, quindi, non è la somma di un certo numero di parti. La triade categoriale detta "della quantità" non è in effetti un pensiero del numero: è un pensiero del numeroso. Altrimenti non potrebbe sfuggire alle antinomie. Bisogna capire inoltre che l'essere-numeroso, proprio nella sua differenza con il numero, è una sfida alla descrizione. Provate e vedrete! 2) Questa "irrappresentabilità" della schematizzazione trascendentale dell'ente fenomenico è inoltre riconosciuta (negata/riconosciuta) nell'espressione di cui Kant si serve per nominare l'unità origi105
nanamente sintetica dell'esperienza: la chiama "Qualcosa = X " . Il ricorso al segno matematico dell'incognita non è affatto casuale. Perché che cosa mai potrebbe essere (secondo quale modo d'essere) questo "oggetto in generale" (altro nome dell'unità sintetica), se esso non è né un oggetto empiricamente dato (si tratta infatti del dono stesso dell'empiria), né il correlato noumenico del concetto di oggetto preso in una generalità semplicemente logica? Q u i finiamo bruscamente in un vuoto di significato. Lo stesso accade con il pendant dell'oggetto trascendentale, l'altro polo della sintesi, quello che Kant, in maniera genuinamente cartesiana, chiama l'"Io penso". È vero, però, che lo "sostituisce" in qualche modo con qualcosa come l'unità di un'appartenenza per accompagnamento: "L"io penso' deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, ecc.". Ed è anche vero che, in un certo senso, il Cogito perde così ogni sostanzialità, [542] , cessando di essere il nome moderno dell'anima, a rischio di paralogismo, e finendo per designare solo la necessità logica di un'unità dell'esperienza. Tuttavia, siccome questa "logicità" non è soltanto formale ma trascendentale (ontologica), essa, anch'essa, nomina l'efficacia di un vuoto che si può certo inferire (attraverso la deduzione), ma che non si riesce a dire. Io = X. Questo è, evidentemente, anche il caso della filosofia husserliana. Combattere, ancora più sistematicamente di Kant, lo "psicologismo" che grava su ogni noetica "ingenua", questo lodevole sforzo non le impedisce di ricadere continuamente nel regime sostanzializzante di un presunto discorso descrittivo. L'ho mostrato a sufficienza altrove, a proposito del colore, ad esempio, della dottrina delle sfumature e della coscienza-del-tempo, e perciò non vi ritornerò. Il mio proposito qui è, ahimè, più ambizioso di tutte quelle critiche: si tratta piuttosto di cercare la radice stessa di questa "ostinazione" della Sostanza a trattenerci nei suoi vincoli, proprio quando pensiamo di averli sciolti o quanto meno allentati. E la risposta che azzarderei consiste nel dire che quanto ci sfugge si potrebbe chiamare l'Inafferrabilità dell'Essere. Con questo non intendo nessun sublime mistero, analogo all'Inconoscibilità di Dio, ma piuttosto, in ogni campo fenomenico, il ritrarsi del "come" - la sua finezza, la sua totale novità e la sua improducibilità. E poiché stavamo 106
parlando del "soggetto", esso sarà l'esempio attraverso il quale mi sforzerò di seguire questo ritrarsi, rimanendo però sempre nell'ambito dell'esperienza percettiva. Se qui c'è qualcosa di certo, è che l'esperienza percettiva è la mia esperienza. Essa è addirittura, si potrebbe dire, l'esperienza-di-me. Che qualcun altro possa guardare con i miei occhi, questa supposizione è il non-senso assoluto. Non perché i miei occhi siano "miei", ma perché lo sguardo non si fa "con" gli occhi: lo sguardo, come anche i miei occhi e me stesso, mi è dato a partire da ciò che guardo. E sia. Ma proprio qui cominciano le difficoltà: che cosa significa che il vedere, il "mio" vedere, mi è "dato a partire da ciò" di cui è visione? Così come non si produce, da parte mia, alcun movimento di appropriazione del reale, non c'è, da parte del reale, alcun movimento di riferimento a me. Che cosa allora? Coraggio, bisogna dire lo strano o fermarsi qui. Una specie di cavità raccoglie sempre ciò che è visto, facendo sì che esso sia soltanto una parte del visibile, sebbene questa frontiera non abbia niente di reale: essa si disfa e si rifà, al primo movimento della testa, al minimo cambiamento d'angolatura. Essa significa appunto che "vedere" non è mai un'avventura del (o nel) reale, né per chi vede, né per ciò che è visto. L'Aperto è sempre una Misura-del-Raccogliere, dove vengo a me stesso come la prateria verdeggia o, piuttosto, con essa, su di essa - compartecipando al luogo dello schiudersi. "Misura del raccogliere" è esattamente il senso del greco logos. Non c'è nessuna quantità oggettiva in questa "misura" che libera invece la percezione dalla valanga delle cose. Ciò che, descrittivamente (letterariamente? - spero di no), ho appena chiamato "una specie di cavità" è ciò che Heidegger tematizza come il [543] "ci" o il "là" (il "Da") del Da-sein. Il modo d'essere di ciò che chiamo "io" è infatti un "esserci" o un "essere là", non in mezzo alle cose, ma là dove esse stesse hanno "luogo", là dove il loro apparire trova misura. Il dispiegamento percettivo comporta sempre, non soltanto la differenza fra un "dato" e il suo "orizzonte" (Husserl), ma anche una specie di centraggio che - cosa difficile da comprendere - non presuppone, né pone, nessun "reale centrale", bensì la necessità di una forma che (non) è essa stessa nessuna forma, ma una formalità dell'apparire. In questa cavità, in que107
sto "là", in questo "centramento", "io" sono. In un modo strettamente mallarmeiano: "l'assente da tutti i bouquets". Se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, forse sarete disposti anche a percorrere l'ultima tappa. Si tratta di render conto del fenomeno del corpo. Perché uno dei modi di sfuggire alla critica radicale della soggettività consiste nel fare appello alla robusta evidenza del "mio corpo", per render conto di questa marcatura dell'esperienza che chiamo "io". Bisogna quindi dimostrare che "io", che non ho anima, non ho nemmeno corpo. Non per me, in ogni caso; ma neanche agli occhi degli altri, almeno finché non posano su di me uno sguardo secondo, oggettivante e riflessivo, come, ad esempio, lo sguardo clinico. Si dice: "sono malato", non "il mio corpo è malato"; si dice: "mio Dio, quant'è alto!", non "quant'è alto il suo corpo!". E soprattutto, il vedere non sa niente dei miei occhi, così come il senso delle tue parole trascende decisamente l'acustica. Non intendo, ovviamente, sostenere che siamo puri spiriti; si tratta piuttosto di riconoscere che non siamo neppure spiriti incarnati. Il mio corpo non è per me né un punto di partenza né un punto di arrivo, né un mezzo né un ostacolo: esso è piuttosto totalmente fuori campo, anche quando una parte di esso entra nell'immagine (quando mi tolgo una spina dal piede, per esempio). Proprio perché non si è reso conto di questa irrilevanza del corpo per il fenomeno della percezione preso nella sua essenza, Merleau-Ponty, allo scopo meritorio di evitare, qui come altrove, ogni oggettivazione, ne ha inventato una specie di doppio che chiama "il corpo proprio" o "la carne". In una fenomenologia della percezione è fatica sprecata. Il mio corpo, infatti, non diventa "corpo proprio" che nell'esperienza cinestetica dello sforzo muscolare, ad esempio, o nelle "sintesi passive" della sofferenza. In questo caso, però, non soltanto sono violentemente distratto dal mondo percepito che ricade nell'astrazione di un "mondo esterno", ma neanche si riesce per questo a restringere la percezione a quella del mio proprio corpo. Sforzi e dolori si sentono, non si percepiscono. Che cosa dire allora della questione che continua ostinatamente a presentarsi nonostante tutti i nostri tentativi per eluderla, che dire di ciò che non si può non chiamare "il ruolo del corpo nell'esperienza percettiva"? Probabilmente questo: che, di fronte allo 108
schermo in cui iscrivo le mie perplessità, di fronte al muro e all'apertura della finestra, "il mio corpo" ("io" - o, meglio, "il luogo di me") è una specie di rettangolo nero al centro del quadro, che ha la funzione di ripartire le regioni: la regione del "di fronte" [544], appunto, che si offre chiaramente, e ai cui bordi fugge continuamente avanti o indietro la duplice regione della destra e della sinistra, in modo tale che soltanto l'inizio di questo profilo partecipa ancora al "propriamente percepito" (ma in maniera "sfocata"), mentre il "resto" si perde molto presto nella terza regione: quella di ciò che è "dietro di me", cioè percettivamente-non-percepito. È chiaro che il corpo non fa niente, non subisce niente, insomma non si fa sentire in alcun modo in questa regionalizzazione spaziale che sempre rinasce dal percettivo (percepito/percettibile), di cui esso è, insieme, il principio e la macchia cieca. Il corpo è il luogo di diversificazione degli a priori del visibile. È il luogo ontologico puro. Si dovrebbe allora dire che il corpo è la verità materialista della certezza della "coscienza"? No, nemmeno, perché nessuna "materia corporea" entra nella regionalizzazione spaziale che abbiamo appena descritto: essa è infatti formale. Credo che dovremo (almeno per questa volta, ma forse per sempre) fermarci a questo risultato, molto sorprendente, ne convengo: ciò che costituisce il campo più puro del pensiero è per così dire posto o posato sul nostro corpo. Voler sapere di più su questo, sarebbe come voler entrare nel gesto creatore di Dio. Ma come! E se, invece, l'invenzione di una creazione divina non fosse che una nostra fuga davanti a quanto c'è di terribile nella finitezza pura e semplice dell'Essere stesso?
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* L'esperienza di un cuore
Non parleremo qui di Nietzsche, né di un tema specifico del suo pensiero, ma cercheremo di rispondere alla domanda: "Che cosa ci dice Nietzsche oggi"? Per rispondere a questa domanda vorrei assumere l'atteggiamento che Bataille ebbe nei confronti di Nietzsche, e che vorrei a mia volta assumere non solo nei confronti di Nietzsche, ma anche di Bataille stesso (da cui non dissocerei Blanchot, e forse se ne capirà il perché). Semplicemente cioè l'atteggiamento che ha il pensiero nei riguardi di ogni pensatore: né citarlo, né studiarlo, ma impararlo a memoria, con il cuore, cioè con quell'organo che, per comprendere, deve prendere ed essere preso. È una banalità, ma è proprio essa che chiede di essere ravvivata: questo è anche, e soprattutto, il senso che ha oggi nominare "Nietzsche", senza per questo nominare un capitolo di storia della filosofia. (Ma, per l'appunto, non è semplicemente di filosofia che si tratta). Nietzsche non mi dice niente senza comunicarmi anche un'esperienza. Questo contagio tra il discorso e l'esperienza segna interamente un'opera che, per questa ragione, non cessa di esasperarsi, di esaltarsi e di vacillare, incerta, tra l'eccesso e la sofferenza. L'esperienza è sempre quella della morte di Dio. La morte di Dio è sempre il fatto di questa grandiosa destituzione della rappresentazione del principio e, con essa, della rappresentazione in generale. Una volta crollato il principio, infatti, non può più essere in questione nessuna rappresentazione. Tutto mette allora in gioco direttamente la presenza. Tutto si gioca in essa e tutto la gioca. Genio maligno. * Pubblicato in «Lignes», n. 7, Léo Scheer, Paris 2002. Ili
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Nietzsche è stato il primo a conoscere l'agitazione che nasce quando la presenza si mette a tremare nel ritrarsi del principio. (Il primo è forse troppo dire: è stato il secondo dopo Platone, o il quarto dopo Platone, Agostino e Kant. Ma benché da allora la nostra storia non conosca quasi più le forti scosse, continuiamo a tremare). La presenza non si stacca più dal suo fondo e nemmeno vi sparisce: essa si ti ene, vacillante, sul bordo dell'apparire in un mondo in cui non ce più lacerazione tra l'essere e l'apparire. La presenza stessa è diventata questa lacerazione. (Non c'è più lacerazione tra l'essere e l'apparire o, piuttosto, tra loro non c'è più che lacerazione). Presenza lacerata, presenza lacerante. Essa è al mondo non essendoci. Essa è in avanti o arretrata rispetto a sé. Ciò che accade alla presenza è ciò che accade anche all'ordine del mondo. Senza principio, il mondo non fornisce più giustificazioni all'ordine che organizzava i significati (l'alto, il basso, il saputo, l'insaputo). L'autorità, la virtù, i l valore sono consegnati all'anarchia. Essi non hanno più "archia", ma sono in gioco al di sotto e al di qua dell'"archia". L'anarchia che è qui in questione non è l'enfasi confusa contro ogni specie di costrizione, ma è il potere che deve cominciare tutto, significare tutto, senza alcun senso dato.
2 È così che si deve intendere Yumwerten. Si debbono um-werten i Werte:"un" hi sempre il significato di "fare il giro" e, come prefisso, indica spesso il capovolgimento, la ripresa che capovolge. Bisogna trasvilutare, rivalutare, controvalutare i valori. Non si debbono rovesciare (svalutare) i valori, ma si deve rivalutare il valore stesso. Lo si deve riformare (nei due sensi del termine) o rivoluzionare (in tutti i sensi del termine). Questo vuol dire che bisogna ripensare il suo prezzo, considerarlo come un prezzo assoluto che non dipende più da un principio che lo fissa. Il valore deve valere senza misura. Bataille l'ha chiamato il valore "eterogeneo": mentre l'"omogeneo" è lo scambio dei valori, l'e112
c] u ¡valenza generale. Per valere veramente, bisogna che il valore sia eterogeneo a questa equivalenza. (Cosi dicendo, si passa da Nietzsche a Marx via Bataille, rendendo anche giustizia alla contemporaneità di Marx e di Nietzsche che, non a caso, è la contemporaneità di due filosofie del valore che pure si sono reciprocamente ignorate). L'eterogeneo non è una questione né di uso né di scambio: è una questione di esperienza. 3 Chi è che fa esperienza del valore assoluto (sciolto, cioè, da una misura) e assolutamente estraneo all'ordine concatenato del mondo (dell'uso e dello scambio)? Chi è che introduce nel mondo questo ritrarsi dell'eterogeneo - al posto del principio che fondava e dava la misura? È colui che salva il mondo dalla sua assenza di valore, da questa equivalenza generalizzata nella quale il mondo sembra sprofondare. Nietzsche lo chiama il redentore1. Gli dà il titolo di Cristo, ed è così che fa dell'Anticristo il segno della salvezza: Nietzsche, infatti, nelle vesti dell'anticristo è colui che rovescia il cristianesimo per far sorgere da questo rovesciamento ciò che egli chiama "il tipo del redentore". Questo tipo è quello del "solo cristiano che ci sia stato", quello che "è morto sulla croce". Nietzsche è il solo a conoscerlo, il solo a saperlo riconoscere dietro le deformazioni interessate dei primi discepoli e degli evangelisti. Sicuramente è un "tipico decadente": ma è anche dalla decadenza che salva. Il redentore rappresenta una via d'uscita dal nichilismo: non la più attiva, ma una via d'uscita, e direi che è l'uscita debole, esangue, che viene però a contatto con un'uscita affermativa e vigorosa. (Tutta la questione dell'uscita dal nichilismo è sospesa tra una debolezza e un vigore, entrambi necessari ed entrambi rischiosi). 1 Q u a n t o qui segue ha come sfondo i paragrafi 2 8 - 3 5 de L'Anticristo; cit., pp. 2 0 0 - 2 1 0 .
trad. it,
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Questo redentore è quello che non fonda religioni, che non proclama alcun dio, che non chiede di credere in una dottrina, né in alcun tipo di credenza. È colui la cui fede è una condotta, non l'adesione a un messaggio. È nell'atto e non nel significato, oppure il suo significato è tutto nel suo atto. Opera il perdono, è il perdono dato e ricevuto, la redenzione realizzata qui come se venisse da altrove, perché la redenzione o il perdono consistono appunto nell'iscrivere l'altrove nel qui. Cancella il peccato, non fa, cioè, dell'esistenza un errore, al contrario. L'esistenza consiste nel fare, nel mondo, esperienza di ciò che non è di questo mondo senza per questo essere un altro mondo. L'apertura del mondo nel mondo è il risultato di una spoliazione o di una decostruzione del cristianesimo che risale o avanza in esso fino a quell'estremo in cui il nichilismo infrange la presenza e il valore di Dio, infrange il senso della salvezza come fuga dal mondo, cancella ogni valore iscritto nel cielo, cancella il cielo stesso, e lascia il mondo intatto e toccato da uno strano squarcio, grazia e ferita allo stesso tempo.
4 Nella dissipazione dei retromondi e delle loro brume si mantiene il segreto della salvezza. Questa salvezza salva altri mondi: rimette al mondo, mette al mondo di nuovo, a nuovo. Mette al mondo secondo la novità di un'esperienza che non è di questo mondo perché è quella del valore: i valori di questo mondo sono misurati, cioè valutati, secondo le necessità e gli interessi di questo mondo. Ma chi non si lascia misurare da questa valutazione, chi fa per sé l'esperienza del valore, si ritrae in pieno mondo dal mondo. Non è che così egli diventi la fonte soggettiva di un valore che gli sarebbe proprio: diventa piuttosto il luogo di un'esperienza che in se stessa è o crea il valore, assolutamente. Questa esperienza è l'esperienza "interiore" o interna, ma non è l'esperienza di un'interiorità come soggettività. L'"interno" non è qui una profondità nascosta da ritrovare o da esprimere, un senso sepolto da interpretare: no, è senza interpretazione il testo letterale 114
e semplice del ritrarsi dell'omogeneità dei valori equivalenti, misurabili e scambiabili2. Avviene qui come per chi ama: chi ama "non è solo che sposta il sentimento dei valori, ma ha più valore, è più forte 3. L'amore ("anche l'amore di Dio", precisa Nietzsche nello stesso frammento) non è che accrescimento di valore in sé, senza misura disponibile. L'esperienza interiore è l'esperienza di ciò che mi mette al di fuori del fuori dell'equivalenza dei valori, della valenza dei valori in generale, e così di ogni soggettività come di ogni proprietà, sia di merci che di beni spirituali (conoscenze o virtù). Questo fuori del fuori avvolge un "interno" nel quale le attese sono disarmate e i saperi, le certezze e i dubbi sconvolti. Alle rappresentazioni e ai significati si sostituisce l'affermazione dell'esistenza stessa. Non la speculazione sul suo valore, ma il valore in sé come affermazione ed esposizione dell'esistere - cioè l'esistere in quanto esistere, niente di più, ma soprattutto niente di meno. Questa affermazione afferma che l'esistenza è l'esperienza: afferma che essa, svincolata dallo scopo, dal progetto, dalla volontà, non fa che esporsi all'imprevedibile, all'inaudito del proprio evento. Essa non fa altro, bisognerebbe dire, che "evenirsi". Questo "evenire" apre nel mondo un fuori che non è un mondo al di là del mondo, ma la verità del mondo. 5 La verità è il valore rivalutato: svalutazione di ogni valore misurabile, svalutazione di ogni dato di valutazione. Il valore è l'esisten2 "... per esempio 'mi sento male' - un tale giudizio presuppone una grande e tarda neutralità di chi osserva; la persona ingenua dice sempre: questo e quello fanno sì che io mi senta male - il suo sentirsi male gli diviene chiaro solo quando vede una ragione di sentirsi male... Tutto questo io lo chiamo la mancanza di filologia-, saper leggere u n testo come testo senza inserirvi un'interpretazione, è la f o r m a più tarda dell"esperienza interna' - forse una f o r m a impossibile... " (Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, trad. it. in Opere complete, voi. V i l i , t o m o III, Adelphi, Milano 1974, pp. 247-248). 3 Ivi, p. 89.
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za che, diventando evento, si valuta: si fa valore senza equivalenza. È il prezzo assoluto dell'esistenza senza prezzo. Il prezzo che si dà l'esistente che non si lascia valutare da niente. L'esistente si dà un prezzo senza prezzo, che non può né misurare né pagare. Non ha niente da pagare: né errore né debito. Non ha né peccato né preso in prestito: il suo ritrarsi dal mondo lo redime dal suo essere al mondo. Ma questo ritrarsi si fa in mezzo al mondo: è contemporaneo dell'esistere, avviene con l'esistere e come esistere. Il redentore è quindi un "tipo" inimitabile: non è un tipo, è l'esperienza di esistere - senza nient'altro che questa esposizione a ciò che può assumere prezzo, peso, senso soltanto dal suo passo dentro/fuori del mondo. Questa breve battito vale: è esso stesso la valutazione senza misura. Questo redentore è quello che salva l'uomo da Dio, da questo morto mummificato in un mausoleo di senso. Il divino, ormai, è il sepolcro vuoto: è il vuoto di un sepolcro come affermazione di un eterno ritorno di ciò che non ha prezzo. Il valore ritorna eternamente, proprio perché non ha prezzo. L'assenza di prezzo è ciò che s'iscrive e si escrive con ogni esistenza come la sua presenza eterna, immediatamente nel mondo fuori dal mondo, istantaneamente eterna. E per questo che il mondo dell'omogeneo presenta la valutazione come equivalenza del valore tanto di una merce, quanto di un sacrificio dell'esistenza a un'onnipotenza suprema. Comunque è un traffico. Comunque è un integralismo di un valore contro un altro: un valore che vale come misura del principio, Dio o il denaro, valore spirituale o valore di borsa. Ma il valore eterogeneo non vale niente o vale ciò che vale il "valere" in sé: una es-posizione a una misura quando questa misura è soltanto l'altro da ogni misura o la sua infinità in atto. 6 Nient'altro, quindi, che il Bene epekeina tes ousias: bene che è al di là di ogni essenza, che non è dunque, che non è né ente né non ente, ma esistente. Né Dio né umanità, ma il mondo come ciò in cui 116
può aprirsi un fuori, e fare esperienza. Questa esperienza è Inesperienza di un cuore" - eine Erfahrung an einem Herzen4: un'esperienza che si fa direttamente col cuore, che è essa stessa questo cuore che batte il battito del dentro/fuori che lo fa esistere e, esistendo, si sente e si esperisce dentro/fuori del mondo, si sente e si esperisce come l'intervallo tra dentro e fuori, come il non-luogo di ciò che è il suo aver-luogo più proprio, e come l'invalutabile valore di questa proprietà assoluta e senza bene proprio. Secondo questo redentore, "Il 'regno di Dio' non è qualcosa che si attende; non ha un ieri e un dopodomani, non giunge 'tra mille anni' - è l'esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luo-
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Nietzsche, L'Anticristo, Ibidem.
cit., § 34, p. 2 1 0 .
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Verbum caro factum
Per il momento solo una breve nota per analizzare questa proposizione fondamentale del cristianesimo: verbum caro factum est (in greco logos sarx egeneto, nel Vangelo di Giovanni). È la formula dell'"incarnazione" con la quale Dio si fa uomo. Questa umanità di Dio è certo il tratto decisivo del cristianesimo e pertanto un tratto determinante dell'intera cultura occidentale - fino al cuore del suo "umanesimo" che questo tratto segna in modo indelebile o addirittura fonda (rovesciandosi - si potrebbe dire per essere molto sommari - in una "divinizzazione" dell'uomo). Il termine "incarnazione" viene inteso per lo più come l'entrata di un'entità incorporea (spirito, dio, idea) in un corpo, più raramente come penetrazione in una parte del corpo da parte di un'altra parte del corpo o di una sostanza, generalmente estranea, come quando si parla di un'"unghia incarnata". È un cambiamento di luogo, l'occupazione di un corpo come di uno spazio non connaturato alla realtà data, e questo senso si estende facilmente fino a quello di "figurazione" (l'attore "incarna" il personaggio). Secondo quest'accezione corrente (e che non è l'accezione teologica più importante), l'incarnazione è una forma di trasposizione e di rappresentazione. Ci troviamo nello spazio di un pensiero per il quale il corpo ncrn può che essere un'esteriorità e una manifestazione sensibile, per distinguerlo da un'anima o da uno spirito che si dà invece in un'interiorità e non è direttamente figurabile. Basta leggere letteralmente la formula del credo cristiano per accorgersi ch'essa non conduce affatto verso questa interpretazione. * Inedito, scritto nel 2002.
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Se il verbo è stato fatto carne, oppure se (come si dice in greco) lo è divenuto, se è stato generato o si è generato come carne, è proprio perché non doveva penetrare all'interno di una carne, data inizialmente fuori di lui: è lui stesso che è divenuto la carne. (La teologia ha prodigato sforzi sovrumani - è il caso di dirlo - per pensare questo divenire che produce, in una sola persona, due nature eterogenee).
Aggiungiamo qui - in serbo per future riflessioni - altri due dati che non è vano ricordare: nonostante le sfumature o le differenze importanti tra i vari cristianesimi "cattolico", "ortodosso" e "riformato", si può dire che la maternità umana del logos (con o senza verginità della madre) e la "transustanziazione" (reale o simbolica, qui poco importa) del corpo di Cristo nel pane e nel vino di una "comunione" rappresentano due possibili sviluppi e due intensificazioni dell'incarnazione: da una parte, dando all'uomo-dio una provenienza già nel corpo umano e nel corpo della donna (in un certo senso l'incarnazione tiene conto dei sessi) e, d'altra parte, fornendo al suo corpo divino la capacità di convertirsi in materia (facendo così investire da "dio" un'infima particella dello spazio-tempo, e una realtà - il pane e il vino - che è il prodotto di una trasformazione della natura da parte della tecnica umana).
In questo senso, il corpo cristiano è tutt'altro che un corpo che serve da involucro (da prigione o da sepolcro) dell'anima. Non è altro che il logos stesso che si fa corpo in quanto logos e secondo la sua logica più propria. Questo corpo non è altro che lo "spirito" uscito da sé o dalla sua pura identità, non per identificarsi con l'uomo ma come uomo (e come donna e materia). Questa uscita da sé dello spirito non è un accidente che gli sopraggiunge (ci permetteremo qui un'ampia ellissi a proposito del peccato e della salvezza, che per il momento accantoniamo). In sé lo spirito divino cristiano è già fuori di sé (è la sua natura trinitaria), e probabilmente bisogna 120
anche risalire fino al dio monoteista comune alle tre religioni "del Libro", per considerare che egli stesso è già essenzialmente un dio che si mette fuori di sé con e in una "creazione" (che non è per niente una produzione, ma precisamente la messa-fuori-di-sé). In questo senso il dio cristiano (propriamente monoteista) è il dio che si aliena: è il dio che si ateizza o si ateologizza, per usare questi neologismi. (È stato Bataille d'altronde a coniare la parola "ateologico"). L'ateologia come pensiero del corpo sarà quindi il pensiero che il "dio" si è fatto "corpo", svuotandosi di se stesso (altro motivo cristiano, quello della kenosis paolina: il divenire-vuoto di Dio o il suo "svuotarsi di sé"). Il "corpo" diventa il nome àeW'ateo, nel senso del "non c'è dio". Ma "non c'è dio" non vuol dire autosufficienza immediata dell'uomo o del mondo, bensì: non c'è presenza fondatrice. (Più in generale, il "monoteismo" non è la riduzione a "uno" dei numerosi dei del "politeismo": la sua essenza è lo svanire della presenza, di questa presenza che sono gli dei delle mitologie). Il "corpo" dell'"incarnazione" è quindi il luogo o piuttosto l'aver-luogo, l'evento di questo svanire.
Né prigione dell'anima (corpo sensibile o caduto), quindi, né espressione di un'interiorità (corpo "proprio" o "significante" che chiamerei anche il corpo "tolto" di una certa "modernità"), né tuttavia presenza pura (corpo-statua, corpo scolpito, corpo ri-divinizzato alla maniera politeista, dove la statua è essa stessa tutta la presenza divina): ma estensione, spaziatura, distanziamento dello svanire. Corpo come verità di un'"anima" che si sottrae (sottratta, denudata: messa a nudo di una fuga infinita). Ma questa sincope che il corpo è - e lo è in un unico gesto, teso tra un vagito di nascita e un sospiro di morte, un gesto che si modula in un fraseggio singolare, il discorso di "una vita" - non è semplicemente una perdita: è, come in musica, un battito che congiunge (sin-) tagliando(-cope). Congiunge il corpo con se stesso e i corpi tra loro. Sincope di apparizione e disparizione, sincope di enunciazione e di senso, la sincope è anche sincope di desiderio. 121
Il desiderio non è la tensione malinconica verso un oggetto che manca. È tensione verso ciò che non è oggetto: cioè verso la sincope stessa, in quanto ha luogo nell'altro, ed è "propria", solo essendo nell'altro e dell'altro. Ma l'altro è l'altro corpo, solo in quanto, nella sua differenza con il mio, riesce a toccare la differenza stessa, il corpo aperto sulla verità sincopata. Un'erotica (socratica) attraversa l'incarnazione (cristologica) come una piega interna al logos: questa erotica vuole che l'amore dei corpi conduca a "concepire la bellezza in sé", cosa che in Platone non è altro che l'afferrare la (o l'essere afferrati dalla) sola delle Idee che sia di per sé visibile1. Un circolo conduce così, infinitamente, dalla visibilità dell'Idea - cioè dalla manifestazione del senso - alla sincope dell'anima - cioè alla fuga del vero. L'una nell'altra e l'una attraverso l'altra, nel corpo a corpo in cui il corpo trema, soffre e gioisce.
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C f r . Platone, Fedro, 250 d; cfr. anche, ovviamente, Simposio,
210a-211b.
Il nome di Dio in Blanchot
Questo titolo non è una provocazione né nasconde un insidioso tentativo di appropriazione. Non si cerca di far scivolare Blanchot dalla parte di questa nuova correzione (dunque indecenza) politica che prende la forma di un "ritorno alla religione", debole e insipido come ogni "ritorno". Si cerca solo di riflettere sul fatto che il pensiero di Blanchot è troppo esigente, vigile, inquieto e in allerta per ritenere di doversi conformare a quella che, a suo tempo, si era imposta invece come una correzione atea o come la moda di una professione antireligiosa. Ma ciò non significa che questo pensiero sia rimasto catturato, per un motivo qualunque, in una professione o in una confessione di senso inverso. Blanchot afferma sicuramente un ateismo, ma lo afferma per poter mostrare più facilmente la necessità di congedare insieme sia l'ateismo che il teismo. (Questo avviene in uno dei testi più importanti dell'Infinito intrattenimento, "L'ateismo e la scrittura. L'umanesimo e il grido", dove l'ateismo è associato alla scrittura. Ci tornerò, senza però citare o analizzare questo testo più degli altri: nel contesto di questa breve nota, non è possibile intraprendere un'analisi vera e propria. Mi accontenterò di alludere ad alcuni topoi nel pensiero di Blanchot, abbozzando le linee per un lavoro successivo). Respingere insieme l'ateismo e il teismo significa riflettere innanzitutto sul motivo per cui l'ateismo dell'Occidente (o il duplice Pubblicato in «Le Magazine littéraire», n. 424, numero speciale "Maurice Blanchot", Paris, octobre 2003.
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ateismo del monoteismo: quello che esso suscita e quello che nasconde) abbia, finora, opposto o sostituito a Dio soltanto la figura, l'istanza o l'Idea di un apice del senso: un fine, un bene, una parusia - cioè una presenza compiuta e, soprattutto, umana. È per questa ragione che associare l'ateismo e la scrittura - anche se in maniera provvisoria e che prelude alla destituzione congiunta delle pretese teiste e atee - è un modo per trascinare l'ateismo sul versante di un assentarsi del senso, cosa che finora non è riuscita a nessuna figura decisiva dell'ateismo (se non, in parte, a quella figura, così vicina a Blanchot, dell'ateologia di Bataille - di cui però qui non dirò altro). Il "senso assente": questa espressione, azzardata talvolta da Blanchot, non indica un senso che avrebbe nell'assenza la sua essenza o la sua verità. In questo caso, infatti, l'assenza si trasformerebbe ipso facto in un modo della presenza non meno consistente della presenza più certa, più essente. Ma un "senso assente" ha senso nell'assentarsi e con il suo stesso assentarsi, cosicché, alla fine, non la finisce di non "avere senso". La "scrittura" indica in Blanchot - e in quella comunità di pensiero che lo lega allo stesso tempo a Bataille e ad Adorno, a Barthes e a Derrida - il movimento di esposizione a questa fuga del senso che sottrae significato al "senso", dandogli il senso stesso di questa fuga - uno slancio, un'apertura, un'esposizione instancabile che, quindi, non "fugge" nemmeno, perché fugge tanto la fuga quanto la presenza. Né il nichilismo né l'idolatria di un significato (e/o di un significante). Ecco ciò che è in gioco in un "ateismo" che si sente in dovere di sottrarre a se stesso la posizione della negazione che enuncia, nonché la certezza di ogni forma di presenza che potrebbe sostituirsi a quella di Dio cioè alla presenza del significante dell'assoluta significazione o significabilità. Ora, se è vero che il testo di Blanchot è esente da ogni interesse nei confronti della religione (al di là del fatto che traspare qua e là una cultura cristiana e più precisamente cattolica, cosa su cui dovremo tornare in seguito), il nome di Dio non è, invece, del tutto assente: si potrebbe anzi affermare che esso occupa, in questo testo, il posto molto particolare di un nome che fugge e tuttavia ritorna, che viene talvolta (di rado, ma non abbastanza per passare inosser124
vato) decisamente allontanato, poi evocato nel suo stesso allontanarsi come il luogo o l'indice di un forma di intreccio dell'assentarsi del senso. (Ancora una volta, poiché è impossibile addentrarsi qui nei testi, suggerisco semplicemente di rileggere rapidamente Thomas l'Obscur - prima e seconda versione - come pure L'infinito intrattenimento e La Scrittura del disastro, oppure L'ultimo a parlare, per verificare almeno formalmente la presenza, talvolta anche solo latente, del nome di Dio e gli aspetti manifestamente diversi, complessi, per non dire enigmatici del suo ruolo o del suo tenore). Se il nome di Dio viene al posto di un assentarsi del senso, come in una linea di fuga o nella prospettiva infinita, e allo stesso tempo senza profondità di campo, di questa stessa linea di fuga, è perché questo nome non concerne un'esistenza, ma appunto la denominazione - che non sarebbe la designazione né la significazione di questo assentarsi. Non c'è pertanto una "questione di Dio" da porre come la questione di rito sull'esistenza o la non-esistenza di un ente supremo. Una tale questione si annulla da sé (come sappiamo da Kant in poi, e in effetti già da molto prima di lui), perché un ente supremo dovrebbe a sua volta derivare il suo essere o l'essere stesso da un'istanza o da una potenza (termini evidentemente molto impropri) che non è possibile far rientrare nell'ordine degli enti. Ecco perché il dono più prezioso della filosofia consiste, per Blanchot, non in un'operazione che neghi l'esistenza di Dio, ma in un semplice svanire, in una dissipazione di questa esistenza. Il pensiero non pensa che a partire da lì. Blanchot non pone né autorizza alcuna "questione di Dio", e inoltre pone e sa che questa questione non si pone. Il che vuol dire che essa non è una questione e che non corrisponde allo schema di una domanda su una determinazione nell'essere ("che cos'è?" o "c'è?"). Dio non è passibile di una questione. Ciò non vuol dire che ci sia un'affermazione capace di rispondere in anticipo alla questione. E neppure una negazione. Non è che Dio ci sia o non ci sia. È che - ed è ben altra cosa - c'è, o meglio si pronuncia il nome di Dio. Questo nome risponde a una deposizione della questione, sia essa questione dell'essere (che cosa?), dell'origine (da che cosa?) o del senso (per che cosa?). Se è vero che ogni domanda mira a un "che 125
cosa", a un qualcosa, si potrebbe dire allora che il nome di Dio risponde all'ordine, al registro o alla modalità di ciò che non è o non ha alcuna cosa. D'altronde in Blanchot questo nome affianca talvolta parole come "essere" (ripreso da Heidegger) o "neutro". Ma nemmeno per queste parole la domanda si pone, perché, in esse, è già deposta. Esse sono, però, parole (concetti), mentre "Dio" è un nome (senza concetto). Il nome di Dio rappresenta qui un che di diverso dal concetto perché porta e acuisce un tratto proprio del nome come tale: condurre all'estremo e all'estenuazione del significato. Anche per questo nome vale probabilmente ciò che si può dire del nome di Thomas che potrebbe essere definito l'eroe eponimo della scrittura di Blanchot. Nel racconto intitolato Thomas l'Obscur, racconto nel corso del quale il nome di Dio appare e opera a più riprese, il nome di Thomas viene designato talvolta come "la parola Thomas". La parola thauma, in greco, significa la meraviglia, il prodigio, il miracolo. In quanto concetto, "Thomas" presenta il miracolo o il mistero del nome in quanto nome. Il nome di Dio viene talvolta definito da Blanchot come "troppo imponente". Questa qualifica, mista di timore o riverenza, apre a due interpretazioni. O questo nome è troppo imponente perché pretende di imporre e imporsi come la chiave di volta di un intero sistema del senso, o è maestoso e temibile per quello che rivela della non-significanza dei nomi. Nel secondo caso questo nome nomina una potenza sovrana del nome mediante la quale esso fa segno cosa che è completamente diversa dal significare - verso quest'assentarsi del senso, nel quale nessuna assenza può venire a sostituire una presenza che si presume perduta o ricusata. "Dio" allora non nominerebbe né il Dio soggetto del senso né la sua negazione a favore di un altro soggetto del senso o del non-senso. "Dio" nominerebbe ciò - colui o colei - che, nel nome, sfugge alla nominazione stessa, in quanto la nominazione può sempre sconfinare nel senso. Questo nome de-nominerebbe allora il nome in generale, pur continuando a nominare, cioè a chiamare. Ciò che è chiamato, e a cui è chiamato, appartiene a quell'ordine che Blanchot designa talvolta come "il vuoto del cielo". Ma l'appello a questo vuoto, e in esso, 126
mette in questo nome una sorta di accento ultimo - tuttavia senza ultima parola... - su questo abbandono del senso che costituisce anche la verità di un abbandono al senso in quanto questo si eccede. Il nome di Dio segnalerebbe o proferirebbe questo appello. Alla congiunzione dell'ateismo e della scrittura, Blanchot aggiunge, nello stesso testo e nello stesso titolo, quella dell'umanesimo e del grido. L'umanesimo del grido è l'umanesimo che abbandona ogni idolatria dell'uomo e ogni antropoteologia. Pur non essendo propriamente dell'ordine della scrittura, esso non è nemmeno dell'ordine del discorso - ma grida. "Grida nel deserto", come scrive Blanchot. Non è un caso ch'egli riprenda un'illustre formula del profetismo biblico. Il profeta è colui che parla per Dio e di Dio, colui che annuncia agli altri l'appello e il richiamo di Dio. Ma così non si insinua nessun ritorno alla religione: si cerca piuttosto di estrarre dall'eredità monoteista il suo tratto essenziale ed essenzialmente non religioso, il tratto di un ateismo o di ciò che si potrebbe chiamare un assenteismo al di là di ogni posizione di un oggetto di credenza o di miscredenza. Quasi suo malgrado, e come al limite estremo del suo testo, Blanchot non ha ceduto sul nome di Dio sull'inaccettabile nome di Dio - perché sapeva che bisognava ancora nominare l'appello innominabile, l'appello interminabile all'innominazione.
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Resurrezione di Blanchot
A prima vista non sembrerebbe che il motivo della resurrezione occupi un posto significativo nel pensiero di Blanchot. Lo si incontra raramente nei testi ritenuti "teorici". È più presente, forse, nei racconti, dove però è ovviamente più difficile isolare, come tali, le tematiche. Eppure in Blanchot la resurrezione è inseparabile dai temi della morte e del morire, ai quali siamo abituati piuttosto ad associare il suo nome. E se il morire è non soltanto inseparabile dalla letteratura o dalla scrittura, ma addirittura consustanziale ad esse, è solo perché s'impegna nella resurrezione, sposandone il movimento. Quale sia questo movimento, è ciò che cercherò di dire, rinunciando però al progetto di ricostituirne l'economia nell'integralità dell'opera di Blanchot, cosa che non potrebbe che essere l'oggetto di un intero libro. Alziamo subito il tono: la resurrezione di cui si tratta non sfugge alla morte, non esce da essa, né la dialettizza. Essa costituisce invece l'estremo e la verità del morire. Essa va nella morte, non per attraversarla, ma per risuscitarla affondando in essa in maniera inesorabile. Risuscitare la morte è completamente diverso dal risuscitare i morti. Risuscitare i morti vuol dire renderli alla vita, far risorgere la vita, là dove la morte l'aveva soppressa. È un'operazione prodigiosa, miracolosa, che sostituisce una potenza soprannaturale alle leggi della natura. Risuscitare la morte è un'operazione tutta diversa, ammesso che sia un'operazione. È invece sicuramente un'opera, la questione dell'opera, dell'opera nella sua essenziale inoperosità. * Conferenza tenuta al Centre Georges Pompidou nel gennaio 2004, nel ciclo dedicato a Blanchot, sotto la direzione di Christophe Bident.
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L'inoperosità stessa, infatti, non possiamo comprenderla che a partire dalla resurrezione della morte, se è vero che, con l'opera, "la parola dà voce all'intimità della morte"1. Ora la "resurrezione dalla morte" è in Blanchot un'espressione rara ma decisiva. È possibile perfino che l'abbia utilizzata una sola volta, ma in maniera così decisiva e sorprendente che quest'unica occorrenza gli sarà sembrata sufficiente - essendo inoltre troppo azzardata per non diventare pericolosa se ripetuta. È pericolosa, infatti, e può dare adito a equivoci di ogni sorta. Blanchot lo sa e ci tiene a prevenire questo rischio, assumendosene però una parte, accuratamente e, si potrebbe dire, finemente calcolata. Questa parte è quella che conserva, almeno in parte, la radice monoteista e, più precisamente, cristiana del pensiero della resurrezione. Cominceremo soffermandoci un momento su questa provenienza cristiana, sulla quale torneremo in modo più dettagliato. Blanchot, infatti, avrebbe potuto farla tacere o addirittura eliminarla completamente, sostituendo la "resurrezione" con uno di questi termini: l'"inoperosità" - l'"opera senza compimento" - o la "follia", l'"insonnia", il "rivolgimento"2, il "rovesciamento", o infine il "riconoscimento", di cui Christophe Bident ha analizzato il movimento e la "stravaganza"3. Fino a un certo punto questa sostituzione era pensabile, e avrebbe tolto ogni ipoteca religiosa. È chiaro però che così si sarebbe perso il legame immediato e manifesto con la morte da cui la resurrezione indica esplicitamente la liberazione e l'uscita. Ma è come se fosse stato impossibile esimersi da un termine destinato a funzionare come operatore logico, tanto in un rapporto con la morte essenziale per la scrittura, quanto in un rapporto con la scrittura (con la parola, il grido, il poema) essenziale per il morire o la mortalità dell'uomo. Questo, però, non basta: bisogna 1 M. Blanchot, L'Espace littéraire, Gallimard, Paris 1955, p. 193 (trad. it. Einaudi, Torino 1967, p. 127). 1 Senza fare ulteriori precisazioni, indico brevemente cinque riferimenti per questi cinque termini, tutti presi da L'Espace littéraire, cit., pp. 99, 227, 244, 367, 50 (trad. it. cit., pp. 31, 64, 148, 159, 237). 3 Cfr. C . Bident, Reconnaissances - Antelme, Blanchot, Deleuze, CalmannLévy, Paris 2003.
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anche fare i conti con ciò che, nella fattispecie, può funzionare solo assumendo un motivo teologico. Qui bisognerebbe estendere l'analisi all'insieme degli elementi teologici o, per così dire, teomorfologici, nel testo di Blanchot. Lo faremo in un'altra sede. Noto soltanto che stranamente questi elementi si precisano proprio nei paraggi del motivo della resurrezione. Si precisano attraverso un riferimento esplicito al Vangelo e a quello che può essere definito il personaggio eponimo della resurrezione: il Lazzaro del Vangelo di Giovanni. Lazzaro appare infatti per la prima volta insieme con la prima, e forse unica, occorrenza dell'espressione "morte risuscitata". Ciò avviene presto, perché siamo nel 1941, nella prima edizione di Thomas l'Obscur*. L'espressione sarà conservata nella seconda edizione, nella quale saranno invece modificate le due frasi che precedono e seguono quella che nomina Lazzaro. Questo dimostra l'attenzione che l'autore dedica a questa frase, il cui soggetto è Thomas: "Camminava, solo vero Lazzaro, di cui anche la morte era risuscitata". Precisiamo subito che sei righe più sopra il testo diceva: "... appariva sulla porta stretta del suo sepolcro, non risuscitato, ma morto e con la certezza di essere stato strappato, allo stesso tempo, alla morte e alla vita". Quest'ultima frase trasforma un po', alleggerendolo, il passo della prima edizione, in cui era invertito anche l'ordine delle parole: "alla vita e alla morte". L'alleggerimento consiste nel modificare la modalizzazione contenuta nell'inciso: "... avendo bruscamente, con il più spietato colpo di fulmine, il sentimento di essere stato strappato...". Queste precisazioni micrologiche sono istruttive: se la porta del sepolcro continua a ricordare, tanto quanto il nome di Lazzaro, l'episodio del Vangelo, la coscienza di Thomas è passata invece dal "sentimento" alla "certezza", che viene spogliata di ogni qualificazione "fulminea" e spettacolare. Da una specie di commozione si è passati all'affermazione di una certezza che, in generale, non è mai molto lontana dal regime di un ego sum
4 Edizione quasi introvabile che Christophe Bident ha avuto la gentilezza di procurarmi (Gallimard, Paris 1941). Il passaggio si trova a p. 49 e si ritrova a p. 42 della II edizione (Gallimard, Paris 1950).
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cartesiano. Da un'impressione sconvolgente, Thomas è passato a una sorta di cogito morto, nella morte o della morte. Si sa "strappato" tanto alla morte quanto alla vita (da cui l'importanza del cambiamento nell'ordine dei termini). Morto, ma non per questo precipitato nella cosa "morte": egli diventa il soggetto morto di uno strappare alla morte. È anche per questo che non è risuscitato, che non recupera la vita dopo aver attraversato la morte: restando morto, avanza nella morte ("camminava") ed è la morte stessa a vedersi risuscitata in questo "solo vero Lazzaro". La morte è il soggetto; il soggetto non è o non è più il proprio soggetto. Questo è quanto è in gioco nella resurrezione: né soggettivazione né oggettivazione. Né "il risuscitato" né il cadavere - ma "la morte risuscitata", come riversa sul cadavere, mentre lo solleva senza rianimarlo. Nient'altro. Wo ich war; soli es auferstehen. L'altro Lazzaro, quello del Vangelo, non è quindi il vero Lazzaro: è il personaggio di un racconto miracoloso, di una trasgressione della morte da parte del più improbabile dei ritorni alla vita. La verità non sta in un simile ritorno: essa risiede nella concomitanza della morte e di una vita in essa che non ritorna alla vita, ma che fa vivere la morte come tale. Il vero Lazzaro vive il suo morire come muore il suo vivere. È così che "cammina". Il testo continua concludendo il capitolo (e trasformando, alleggerendo la prima versione, nella quale, del resto, il capitolo non finiva qui): "Procedeva, passando sopra le ultime ombre della notte, senza perdere niente della sua gloria, coperto d'erba e di terra, andando sotto le stelle con passo uguale, con lo stesso passo che, per gli uomini che non sono avvolti da un sudario, segna l'ascensione verso il punto più prezioso della vita". Questo procedere sotterraneo e glorioso in mezzo al disastro ha il passo uguale a quello con il quale andiamo verso la morte. Thomas è avvolto nel sudario, così come Lazzaro, mentre l'andatura degli uomini è quella di un'" ascensione", altro termine cristiano che indica, questa volta, il procedere del Risorto per eccellenza. L'allontanamento dal Vangelo può avvenire quindi solo attraverso un nuovo riferimento ad esso. Il vero Lazzaro non è, senza resti, un altro da quello risuscitato da Cristo (da colui che, in quello stesso episodio di Giovanni, dice: "io sono la resurrezione"): rimane in lui ancora qualcosa di quel miracolato. 132
Ma non il miracolo. È piuttosto il senso che il racconto di Thomas dà al racconto miracoloso: questo senso o questa verità non è una traversata della morte, ma la morte stessa come traversata, come trasporto e come trasformazione, sottratta da se stessa e in se stessa alla sua cosalità, alla sua positività oggettiva di morte, per rivelarsi "il punto più prezioso della vita", l'estremità in cui si capovolge e si libera l'accesso della vita a ciò che non è né il suo contrario, né il suo al di là, né la sua sublimazione, ma soltanto e infinitamente, il suo rovescio e l'illuminazione della sua faccia più oscura, la faccia di Thomas, che riceve una luce di tenebra e che, quindi, sa rinunciare alla luce dei significati possibili. Bisogna ulteriormente precisarlo? Thomas l'Obscur non propone nient'altro che la storia di una resurrezione o, meglio ancora, la storia della resurrezione. Perché Thomas stesso è la resurrezione, a immagine di quel Cristo di cui si cita un'altra volta la parola, in occasione della morte di Anne5, laddove Anne è invece la risuscitata, la morta il cui "corpo senza consolazione"6 è la presenza che "dava alla morte tutta la realtà e tutta l'esistenza che costituivano la prova del suo nulla"7. Così continua il monologo di Thomas che la sta vegliando: "Né impalpabile né dissolta nelle ombre, ella s'imponeva sempre di più ai sensi (aux sens)"2. Ora quest'ultima frase, che lascia intendere la forte presenza sensibile del corpo, dev'essere letta anche secondo l'esplicita indicazione del narratore, il quale precisa che Tommaso parla "come se i suoi pensieri potessero essere uditi" 9 . Secondo questa oralità, quindi, il plurale "aux sens" - espressione d'altronde che qui risulta un po' insolita - diventa inudibile, elidendosi in un singolare (au sens) calcolato per farsi intendere, Senza per questo imporre formalmente il suo concetto. Blanchot ce lo confermerà in varie maniere: la resurrezione indica l'accesso all'ai di là del senso, il procedere in questo al di là con 5 6 7 8 9
M. Blanchot, Thomas l'Obscur, Ibidem. Ivi, p. 1 0 1 . Ibidem. Ivi, p. 99.
II edizione, cit., p. 100.
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un passo che non va da nessuna parte, se non verso la ripetizione della propria uguaglianza. Di questo passo, come sappiamo, la scrittura è la traccia o il marchio. Ma lo è solo in quanto apre a "uno spazio in cui, a rigore, niente ha ancora senso, e verso il quale tuttavia tutto ciò che ha senso risale come verso la propria origine"10. Tralasciamo per il momento il fatto che questo testo del 1950 parla una lingua leggermente diversa da quella che Blanchot parlerà più tardi. Questo scarto non è certo indifferente, come Blanchot stesso ha sottolineato11, ma non impedisce - anzi - l'impressionante ripetitività, la forte ostinazione di un pensiero che ha attraversato necessariamente delle variazioni. Resta quindi che lo spazio della resurrezione, quello che la definisce e la rende possibile, è lo spazio fuori del senso, che precede il senso e gli succede - considerato che qui interiorità e posteriorità non hanno alcun valore cronologico, ma designano un fuori-tempo tanto interminabile quanto istantaneo, l'eternità intesa essenzialmente come sottrarsi. (Ma l'osservazione sullo spostamento dei termini che avviene dopo Lo spazio letterario conduce a un'altra interrogazione: fino a un certo punto, infatti, Blanchot ha cercato probabilmente di realizzare una sospensione o un'interruzione del registro mitico. Tuttavia, al di là dell'interruzione, che cos'è che, forse o probabilmente, insiste e non può che insi-
1 0 M . Blanchot, Lire in L'Espace littéraire, cit., p. 258 (trad. it. cit., p. 169, m o dificata). 1 1 C f r . ad esempio, M. Blanchot, L'Écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980, p. 97 (trad. it. SE, Milano 1990, pp. 75-76). In questo stesso libro si trovano anche varie testimonianze del cosiddetto pensiero della "resurrezione". Cfr., ad esempio, p. 2 1 4 (trad. it. p. 161), dove si dice che il K. del Castello "è troppo stanco... per p o ter morire: affinché l'evento della sua morte non si trasformi in inevento interminabile", questo "inevento" è la "resurrezione". Tra il 1 9 5 0 e il 1980, avviene tuttavia una parziale cancellazione del lessico e dei riferimenti cristiani. C o m e nota C. Bident a proposito di Thomas, oltre la seconda edizione, "il suo nome cristico ormai si cancella di f r o n t e ad altre figure, atee, generose. Si chiameranno l'ultimo uomo, o l'amico". (C. Bident, Maurice Blanchot partenaire invisible, Champ Vallon, Seyssel 1998, pag. 290). Resta da valutare la portata di questa "cancellazione", la sua modalità, la sua possibilità, resta da valutare ciò che avviene nel passaggio da un nome p r o p r i o a un nome comune e, in generale, il tenore di una tale sostituzione "atea", che assicura tuttavia una continuità incontestabile, quella, appunto, del pensiero del morire.
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stere? Questa insistenza si ricollega in Blanchot a quella del nome di "Dio", sulla quale bisognerà ritornare altrove12. La vita sottratta al senso, il morire della vita che fa la sua scrittura - non solo quella dello scrittore, ma anche quella del lettore e, oltre, quella di chi né scrive né legge, analfabeta o lontano da qualsiasi attività colta, la scrittura definita insomma dal "morire di un libro in tutti i libri"13, al quale corrisponde anche questa definizione: "Scrivere, 'formare' nell'informale un senso assente" - questa vita è la vita sottratta al senso, che non risuscita come vita, ma risuscita la morte: essa sottrae la morte al suo avvenimento e al suo evento, essa sottrae al decesso della mortalità il morire dell'immortalità attraverso il quale, incessantemente, conosco quel ritrarsi radicale del senso e quindi la verità stessa. Lo conosco, lo condivido, sottraggo cioè la mia morte, la mia scadenza, a ogni proprietà, a ogni presenza propria. È da me stesso che così mi libero e trasformo "il fatto della morte"14. In una duplice maniera: da una parte, la morte non mi accade più come la recisione inflitta a "me", ma diventa quella sorte comune e anonima che essa non può che essere, dall'altra, la morte risuscitata, che mi assenta da me stesso e dal senso, mi espone non soltanto alla verità, ma come se fossi io stesso la verità - io stesso la gloria tenebrosa del vero in atto. In maniera sottile la vita di Blanchot, il cui intimo ritrarsi permetterà l'affermazione e l'esposizione di un'altra vita, la cui assenza dichiarata impegnerà la presenza pubblica insistente di una vita sottratta alla morte dell'esistenza oggettivata e identificata con una persona e con un'opera, questa vita di Blanchot non nascosta, ma, al contrario, più pubblica di ogni altra, è stata una vita risuscitata, ancora durante la vita, dalla pubblicazione della sua morte sempre af-
1 2 Cfr. sopra, Il nome di Dio, in Blanchot. Q u a n t o alla questione del mito in Blanchot, si potrà riprendere la discussione aperta da D. Hurezanu in Maurice Blanchot et la fin du mythe, Presses Universitaires du Nouveau Monde, Nouvelle Orléans 2003. 1 3 M. Blanchot, L'Ecriture du désastre, cit., p. 191 (trad. it. cit., p. 144). La citazione seguente è a p. 71 (trad. it. p. 57). 14 M. Blanchot, L'Espace littéraire, cit., p. 189 (trad. it. cit., p. 124, modificata).
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l'opera. In questo atteggiamento c'è forse dell'ambivalenza. Ma la sua coerenza e la sua tenuta fanno riflettere. Se non altro è una costante che Blanchot non si sia mai orientato secondo una reviviscenza o un miracolo, ma che abbia saputo comprendere (sempre che qui si possa dire, "comprendere", forse sarebbe meglio dire "prendere") la sua vita come morta fin da subito, e rovesciata così in resurrezione. Che non ci siano qui né reviviscenza né miracolo, è quel che precisa il testo intitolato "Lazare, veni foras nello Spazio letterario. Blanchot cerca di descrivere la lettura come l'atto di un accesso all'opera "nascosta, forse radicalmente assente, in ogni caso dissimulata, offuscata dall'evidenza del libro"15. Egli individua la "decisione liberatrice" della lettura nel "Lazare, veni foras" del Vangelo16. Questa identificazione apre infatti a un considerevole spostamento, perché non si tratta più di far uscire un morto dalla tomba, ma di individuare nella pietra stessa del sepolcro "la presenza", di cui non va dissipata, ma riconosciuta e affermata "l'opacità", in quanto verità della trasparenza attesa o "l'oscurità" (ancora una volta quella di Thomas) in quanto vera "chiarezza". Ora, se il leggere, in quanto operazione che rivela, può essere considerato come un "miracolo" (parola che Blanchot mette tra virgolette, per indicare, insieme, un comune modo di dire - "miracolo della lettura" - e l'operazione di Cristo nei confronti di Lazzaro), è però solo commisurandone la rivelazione al grado dell'opacità della pietra che possiamo forse anche essere illuminati "sul senso di ogni taumaturgia". Blanchot fa o fa passare quest'osservazione in maniera incidentale. Ma è solo una chiarificazione di che cosa voglia dire il miracolo. "Taumaturgia": questo termine prende le distanze dal miracolo evangelico, respingendolo sul versante di una scena magica o meravigliosa (quest'ultima parola compare qualche riga più avanti, anch'essa con un tono leggermente dispregiativo). Notiamo tuttavia, per ogni evenienza,
1 5 Ivi, p. 2 5 7 (trad. it. p. 169). Tutte le citazioni che seguono sono tratte da questa pagina e dalla seguente. 1 6 C h e Blanchot citi il latino della Vulgata piuttosto che il greco o il francese, testimonia di un'epoca e di una personalità impregnate di abitudini cattoliche. A n che altri passi in Blanchot lo testimoniano, cosa che un giorno varrà la pena di esaminare più a. fondo.
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che quel termine declina il nome di Thomas che, trattato a volte come una parola invece che come un nome nel libro eponimo, forse non fa che alludere a una "meraviglia" più meravigliosa, perché meno manifesta, di tutte le meraviglie del Vangelo o... della letteratura meravigliosa. Ne risulta comunque che "il senso di ogni" miracolo è dato da quello della lettura, cioè non da un'operazione che sfidi una natura data, ma da quella "danza con un compagno invisibile"17 che caratterizza, alla fine, la lettura "leggera", cioè anche non dotta, come viene precisato, non "pervasa di devozione, quasi religiosa"18; sola lettura che non faccia del libro un oggetto di "culto"e che può anche essere "incolta" e aprirsi così al ritrarsi dell'opera. Il senso del miracolo non è nel dare luogo a un senso che ecceda o allontani il senso comune, ma nel dare luogo alla sospensione del senso in un passo di danza. Questa immagine può infastidire. C'è in essa qualcosa di troppo immediatamente seducente per non risultare troppo facile. Ma ciò nondimeno essa indica meglio che può quel rapporto tra leggerezza e gravità intorno a cui Blanchot la delinea. Egli, infatti, conclude così: "... dove ci è data la leggerezza, non manca la gravità"19. Questa gravità, che non manca ma resta discreta, si oppone alla gravità pesante che fissa il pensiero alla cosa, all'essere, alla sostanza: si oppone quindi anche a quel pensiero che si fissa alla sostanza della morte e pensa di alleggerirla e consolarsene con la taumaturgia di un pesante ritorno alla vita. La gravità danzante non fa capriole davanti alla tomba, ma sente leggera la pietra, e mette dove sente, nella pietra pesante, l'alleggerimento infinito del senso. Questa è l'opposizione fra la morte risuscitata e la resurrezione del morto. Allora, come si dice in un altro testo, è "come se, in noi soli", la morte "potesse purificarsi, interiorizzarsi e applicare alla propria realtà quella potenza di metamorfosi, quella forza di invisibilità di cui costituisce la sorgente profonda" 20. In noi soli: dal contesto è Ivi, p. 261 (trad. it. p. 171). Ibidem. 19 Ibidem. 2 0 M . Blanchot L'oeuvre et l'espace de la mort, in L'Espace littéraire, (trad. it. cit., p. 126). 17 18
cit., p. 193
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possibile precisare che qui non si tratta soltanto di noi in quanto uomini, ma di noi in quanto morti. "Noi soli" è anche "noi" nella nostra solitudine e nella nostra desolazione di morti e di mortali, "noi, fra tutti gli esseri i più caduchi"21, come si dice più avanti. In questo testo dedicato a Rilke, alla poesia e al suo canto è affidata la gravità leggera della resurrezione della morte. "La parola dà voce all'intimità della morte"22. Questo accade "al momento della frattura", nel momento in cui la parola muore. Il canto del cigno sarà il basso continuo del testo di Blanchot. Ciò significa due cose, del cui nesso si compone il difficile, strano e ostinatamente sfuggente pensiero della resurrezione: Da una parte, questo canto non canta, questo passo non danza che nel momento in cui si spezza, in quanto si spezza, affidando quindi al proprio morire la cura di tenere la nota, di danzare il passo. È necessario che questo avvenga lungo tutta la scrittura, è necessario che in ogni punto vi si iscriva ciò che se ne escrive: che non c'è nient'altro da dire, che non c'è alcun indicibile né alcun ritorno di un'altra parola di verità, ma soltanto la cessazione del parlare. Ma questa escrizione non ha tregua, e la poesia - sive philosopbia — è una parola vana finché non muore anch'essa in questo modo. A questo punto, la danza o il canto non inseguono arabeschi e in qualche modo non figurano più. Il loro unico contorno è quello dell'apostrofe, un rivolgersi teso e affidato a ciò, a colei o a colui, che non si può raggiungere. Come scrive Philippe Lacoue-Labarthe a proposito di un altro testo di Blanchot: "... una sorta di confidenza o che è lo stesso - di confessione. Questo testo è semplicemente a f f i dato, fa appello a una fede e a una fedeltà"23. Bisognerà ritornare su questa "fede" che presume evidentemente tutto quanto la "resurrezione", r • qualunque altro sia il suo nome, la "poesia" o l'azzeramento di tutti i nomi mettono in gioco. Per il momento, diciamo soltanto he il morire a f f i d a ciò che la morte, di fatto, sottrae e seppellisce senza appello. Il morire è l'appello. 21
Ibidetr Ibidem (trad. it. p. 127). 2 3 Ph. Lacoue-Labarthe, Agonie terminée, agonie interminable in C. Bident e P. Vilar (a cur;- di), Maurice Blanchot - Récits critiques, Farago/Léo Scheer, Paris 2003, p. 448. 22
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D'altra parte, la resurrezione non è semplicemente presa in prestito, come un'immagine facile o provocatoria, dal lessico del miracolo. Essa si propone anche come una riscrittura della Sacra Scrittura: una santità sottratta alla meraviglia religiosa, ma che sottrae a questa stessa meraviglia ogni accesso senza fede e senza pietà a ciò che non si deve più chiamare "la morte" - realtà di un irreale - ma il "consenso" (consentement), realtà di una corrispondenza con il reale stesso del morire. Questa parola torna a più riprese in Blanchot, nei testi che abbiamo citato, ma anche altrove. Chiamato più tardi, "pazienza della passività"24, con cui si può rispondere "all'impossibile e dell'impossibile"25, il consenso non si sottomette né si rassegna: accorda un senso o un sentire. Si accorda proprio con il senso e con il sentire dell'insensibile e del senso in assenza. Non è altro che l'esperienza infinitamente semplice, e così indefinitamente rinnovata, indefinitamente reiscrivibile in noi, dell'essere senza essenza e quindi del morire. La resurrezione - oppure, come si dice in greco, Yanastasis, solleva il morire come la pietra spessa e pesante del sepolcro, come la stele su cui s'iscrive, per poi cancellarsi, il nome di un'identità imprescrittibile e iniscrivibile, sempre escritta. Questa stele alzata davanti al vuoto e senza aldilà, senza consolazione, conforta con tutta la sua massa una desolazione già molto lontana da se stessa e dalla deplorazione. Un'infinitesimale, delicata e insistente leggerezza che fa l'acconsentire di questo consenso all'insensibile. Che lo fa o lo scrive, se scrivere è il nome, inconsistente come ogni altro, ma inevitabile - quanto la "poesia", quanto la "santità" -, del rifiuto di ogni credenza in una consistenza estranea al mondo. Il consenso alla resurrezione acconsente innanzitutto al rifiuto della credenza, proprio come la fede ricusa e rigetta questa stessa credenza. Ma, in realtà, la credenza non è mai credibile, e sempre qualcosa o qualcuno di oscuro in noi lo sapeva per noi. Questo presentimento dell'assolutamente incredibile, che sfida senza appello ogni credulità e si affida assolutamente, ci ha preparato la via senza uscita del consenso. 24 25
M. Blanchot, L'Ecrìture du désastre, cit., p. 35 (trad. it. cit., p. 31). Ivi, p. 37 (trad. it. cit., p. 33).
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Se il consenso o la resurrezione - il sorgere che alza la morte nella morte come una morte viva - si mantiene nella scrittura o nella letteratura, ciò significa che la letteratura sopporta la cessazione o la dissipazione del senso. "Letteratura" non vuol dire qui "genere letterario", ma ogni forma del dire, grido, preghiera, riso o singhiozzo che tenga - come si tiene una nota, un accordo — quest'infinita sospensione del senso. Certo questa tenuta è più dell'ordine dell'etica che dell'estetica - ma alla fine elude e scompagina anche queste categorie. Si potrebbe anche dire in un altro modo: nella misura in cui queste categorie appartengono alla filosofia, esse ci indicano anche che l'onto-teologia filosofica pratica l'imbalsamazione, la metempsicosi, o anche la fuga dell'anima - ma mai la resurrezione. Le pratiche metafisiche designano così sempre un in-avanti, il futuro di una rinascita, un modo del possibile e della potenza, mentre la letteratura non scrive che il presente di ciò che ci è già sempre accaduto, cioè l'impossibile nel quale il nostro essere consiste nello scomparire.
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Consolazione, desolazione
Nella Prefazione al volume intitolato Ogni volta unica, la fine del mondo, raccolta di discorsi pronunciati per gli amici scomparsi, Jacques Derrida sottolinea come r"addio" debba salutare soprattutto "la necessità del possibile non-ritorno, la fine del mondo come fine di ogni resurrezione"1. L'" addio", in altri termini, non deve alludere a un eventuale ritrovarsi presso Dio, ma indicare invece un congedo definitivo, un abbandono inesorabile dell'altro che è morto alla sua cancellazione, e di colui che ancora vive alla rigorosa rinuncia di ogni speranza in una qualsiasi sopravvivenza - quella dell'altro oppure, a più lungo termine, quella del superstite stesso, dell'io che saluta l'altro e che un altro saluterà a sua volta. Questa necessità è connessa a quella che riconosce, in ogni morte, la fine del mondo, e non semplicemente la fine di un mondo: non una momentanea interruzione nel concatenamento dei mondi possibili, ma l'annientamento senza riserve né compensazione "del solo e unico mondo" "che fa di ogni vivente un vivente solo ed unico". Bisogna dire addio senza ritorno, nell'implacabile certezza che l'altro non si volterà più indietro e non ritornerà mai più. Un saluto "degno di questo nome" rifiuta quindi ogni salvazione2. Saluta l'assenza assoluta di salvezza, oppure "rinuncia in anticipo alla salvezza", come Derrida scriveva già in Le Toucber, Jean" Pubblicato in «Le Magazine Littéraire», n. 430, spécial Jacques Derrida, Paris, avril 2004. 1 J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Galilée, Paris 2003, p. 11 (trad. it. Jaca Book, Milano 2005, p. 12). 2 Ricordiamo che il termine francese salut significa sia saluto che salvezza. Esso è inoltre anche una formula di saluto (N.d.T.).
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Lue Nancy1. Così come allora egli mi rivolgeva quel saluto che congedava il saluto e la salvezza, ora mi rivolge di nuovo il monito di questo "libro d'addio". Egli precisa, infatti, che la resurrezione dev'essere rifiutata, non solo "nel senso comune, che fa alzare e camminare dei corpi ritornati in vita, ma anche dell'anastasis di cui parla Jean-Luc Nancy 4 ". Quest'ultima, infatti, "continua ad essere consolante, seppure con il rigore di una qualche crudeltà. Essa postula sia l'esistenza di un qualche Dio sia che la fine di un mondo non sia la fine del mondo"5.
1
Voglio qui salutare a mia volta questo saluto, senza rifiutare il suo rifiuto, ma tentando d'illuminarlo altrimenti, sempre che sia possibile portare una qualche luce in questa materia e non sia invece necessario restarsene con gli occhi chiusi, definitivamente e ostinatamente chiusi su tutto ciò che non si riferisca semplicemente a una notte e a un sonno senza domani né risveglio. Occhi aperti sulla notte, quindi, nella notte, occhi essi stessi notturni: occhi che vedono la fine del mondo, non perché essa si rappresenti davanti a loro, ma perché provoca in loro la distruzione di ogni visione e il contatto stesso della notte. La notte contro gli occhi come altri occhi che bloccano e accecano in loro ogni possibilità di visione, d'intenzionalità, di direzione, di orientamento e di appello che non sia l'addio senza ritorno. Per essere degno di questo nome, il mio saluto deve salutare senza salvezza, ma deve pur sempre salutare. Il termine "saluto" indica l'apostrofe, l'invito o l'ingiunzione a essere-salvo. Il salvo (salvus) è ciò che rimane intero, incolume, intatto. Il salvo non è pertanto ciò che è salvato, sottratto alla ferita o alla macchia che l'aveva colpito, ma è ciò (colui, o colei) che rimane intatto, fuori tiro.
J. Derrida, Le Toucher; Jean-Luc Nancy, Galilée, Paris 2003. II riferimento è a J.-L. Nancy, Noli me tangere, Bayard, Paris 2003 (trad. it. Bollati Borighieri, Torino 2005). 5 J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, cit., p. 11 (trad. it. cit., p. 13). 3 4
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Che non è mai stato toccato. Così il morto porta con sé, come si dice, il mondo unico e solo che egli è stato. Porta con sé il mondo intero, perché un mondo è mondo soltanto in quanto è unico, solo e interamente intatto. Solus, salvus: non c'è saluto se non di chi è solo, e il solo è il desolato per eccellenza: devastato, disertato, consegnato all'isolamento totale (desolari). Così come la parola "consolazione" non ha in comune con la parola "desolazione" che un'assonanza (solor, "confortare", non ha a che fare con solus), non ci può essere consolazione alla desolazione, se consolare significa alleviare il dolore, restaurare un possibile, ritrovare la presenza e la vita di coloro che sono morti. Tutto deve invece "consolare" nel senso di rafforzare la desolazione e renderne intrattabile e inattaccabile la durezza. Toccare l'intatto, ecco che cosa ci offre la morte, e questo significa che il morto scompare nell'isolamento assoluto della sua morte intoccabile, mentre il vivo che 10 saluta rimane su questo bordo qui, di fronte al quale non sta nessun altro bordo, nessuna riva a cui approdare e dove non è possibile nessun contatto (né sensibile, né intelligibile, né immaginario) con l'intatto. È proprio ciò che il saluto saluta: il saluto tocca l'intoccabile, sotto forma di un'apostrofe che gli conferma la sua scomparsa, che gli restituisce in qualche modo la sua assenza esclusa e il mondo finito in essa. Dire addio, come dice Derrida nel suo "Addio" a Lévinas, è "chiamarlo per nome, chiamare il suo nome"6. Il saluto saluta l'altro nell'intatto intoccabile della sua insignificante proprietà, il suo nome ormai precipitato nella non-significanza del nome proprio e, attraverso di esso o in esso, ogni volta del mondo nella sua totalità. Salutando il nome e il non posto su questo nome7, 11 saluto lo desola e si desola: sono solo, ogni volta assolutamente solo, di fronte a questo isolamento, a questa isolarsi dell'altro "di fronte" al quale, propriamente parlando, non posso stare più di quanto non possa toccarlo senza sentirmi mancare, privato di questo senso del tatto e, così, di ogni senso. 6
J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde,
7
Ricordiamo che in francese nom (nome) e non (non) sono o m o f o n i (N.d.T.).
cit., p. 252 (trad. it. cit., p.
225).
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Resta tuttavia che il saluto saluta e che, così facendo - pur non facendo niente, non producendo niente, ma soltanto desolando esso si rivolge e invoca, chiama, annuncia, ancora una volta oppure per la prima volta, convoca, dichiara e proclama qualcosa o, più precisamente, qualcuno. Così, qualsiasi cosa voglia e pretenda fare, non è possibile che non consoli e si consoli. Rafforza la desolazione, e questo conforto che l'abbatte e lo lascia senza voce ne costituisce nondimeno, o ne è tanto più, l'estrema debolezza che apre in esso il varco di una voce, quella del suo saluto a ciò che non si lascia salutare. Sedici volte modulato per sedici morti, il saluto di Derrida (altrove, altri saluti, ogni volta che qualcuno è là a dire "addio" - e sappiamo che terribile tristezza aleggi quando non c'è nessuno, e sappiamo, con un sapere che sconvolge, l'orrore che nasce quando viene negata, insieme con ogni saluto, anche la tomba che è la stele del saluto) - questo saluto salva ancora, comunque stiano le cose. Non salva niente dall'abisso, ma saluta l'abisso salvo. L'abisso così preservato, desolato e dichiarato nella desolazione, un abisso che è impossibile tanto richiudere quando sondare, dà al saluto la dignità strana, insopportabile, in lacrime - del mondo che crolla. Allo stesso tempo, il saluto dà al mondo caduto nell'abisso la sua dignità di mondo e al nome proprio privato di senso la totalità del senso, l'inverificabile e manifesta verità che "il mondo", ogni volta, vuol dire. 2 Ciò che volevo indicare con l'anastasis, nel tentativo di decostruirne o di accantonarne il significato di "resurrezione"8, non è altro che l'alzarsi (anastasis), la levata (e non il toglimento) del senso distrutto in una verità lanciata, chiamata, annunciata e salutata. La verità può solo essere salutata, ogni volta, e mai salvata, perché non c'è niente che si possa salvare o far risalire dalle profondità del trapasso: ma anche questo si saluta, ogni volta, nell'orazione funebre che non è un ornamento, ma un elemento necessario di quella strut-
8
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C f r . J.-L. Nancy, Noli me tangere,
cit.
tura o di quell'evento chiamato "morire". Con questa orazione, con questa salutazione, "la morte" - questa presunta entità, cosa o soggetto, a cui Hegel concede il nome solo condizionatamente, "se così vogliamo chiamare quella irrealtà" - viene salutata come il morire proprio di costui, di costei, di colui o di colei che era qui o là (che era il mondo qui o là), e che non è e non sarà più né in un luogo né in un tempo. Nel suo morire, ognuno è salutato per se stesso in tutta la misura in cui questo "se stesso" si desola, intatto, senza ritornare a sé più di quanto non ritorni o non ritornerà a noi. Non ritornando, giacendo, si alza in una verità salutata. Questo saluto non opera alcun ritorno surrettizio. Se la desolazione consola in questo modo tanto poco rassicurante quanto assolutamente ineluttabile, non lo fa attraverso una macchinazione dialettica capace di convertire la perdita in guadagno, o attraverso l'operazione fantastica che la religione sembra organizzare allo scopo di impadronirsi di una credulità pronta a prestar fede alla salvazione. Ma non è detto che nella religione la rappresentazione della salvezza giochi in ultima istanza quel ruolo consolatorio che, forse un po' affrettatamente, si crede di poterle attribuire come l'effetto di un'illusione. Non sarebbe affatto assurdo pensare che mai un vero credente sia morto o abbia visto morire un altro, immaginando puerilmente un passaggio continuo verso un altro mondo, in tutto e per tutto uguale a questo, ma solo privo di sofferenze. Certo le religioni, come le metafisiche, continuano a esercitare un'attrazione salvatrice e una consolazione rassicurante. Ma è evidente che né "Dio" né "l'altro mondo" nominano mai una continuità, tanto meno una continuazione di questo mondo attraverso un passaggio segreto. La tomba non è un passaggio, è un non-luogo che dà riparo a un'assenza. La fede non consiste mai - e questo, probabilmente, in ogni forma religiosa - nel voler credere a qualcosa, così come vogliamo credere che domani saremo felici. Per definizione, la fede può consistere soltanto nel rivolgersi a ciò che passa e annienta ogni credenza, ogni calcolo, ogni economia e ogni salvezza. La fede consiste - come sanno bene i mistici, senza aggiungervi alcuna esaltazione - nel rivolgersi o nell'essere rivolti all'altro dal mondo, che è P"altro mondo", solo in quanto è altro che il mondo che finisce Ogni volta inesorabilmente. "Dio" indica soltanto questa alterità 145
nella quale l'alterazione del mondo, di tutto il mondo, si fa assoluta, senza appello e senza richiamo. Il senza-appello chiama e richiama, apostrofa, ogni volta, i morti. Quest'apostrofe è saluto. Sarebbe troppo sprezzante rappresentarsi l'umanità come se l'immensa maggioranza dei nostri simili (e probabilmente bisognerebbe, variando i termini, estrapolare anche in direzione degli animali) passasse la propria vita - oppure la propria morte, come si preferisce a misconoscere più o meno consapevolmente, più o meno inconsciamente, il reale intrattabile del morire. In modo più sottile e infinitamente più degno, ognuno sa qualcosa del non-sapere che incombe su di lui, vietandogli rigorosamente di pretendere di appropriarsi di qualcosa di quell'oggetto chiamato "morte", perché un tale oggetto resta senza consistenza (in verità, è esso ad essere fantastico), mentre il soggetto che muore e quello che, salutandolo, si rivolge a lui là dove nessun appello può arrivare, si salutano senza salvarsi. Condividono l'anastasis, la cui elevazione o la cui dirittura taglia perpendicolarmente l'insollevabile giacere del corpo nella polvere. Non c'è alcuna sopravvivenza, alcun risorgere, alcuna reviviscenza. Ma "resurrezione" nel senso del levarsi del saluto, dell'addio: la partenza è il proprio annuncio, non rivela niente, non conduce ad alcun segreto, non opera alcuna taumaturgia né trasfigurazione. In un certo senso non c'è niente da dire di questo dire ultimo, di questa orazione nella quale brilla solo il saluto, il tempo di qualche parola fra i singhiozzi, di un nero bagliore. L'oratio è il discorso o la preghiera, il discorso in quanto preghiera. La preghiera non è né richiesta di aiuto o di favori, essa è supplica e lode. È lode che supplica: ogni volta, celebra e deplora insieme, chiede una remissione e dichiara l'irremissibile. È questo che il discorso diventa, quando il mondo liquidato non consente più di concatenare alcun significato. A quel punto, ogni volta, la preghiera senza attesa e senza effetto costituisce Vanastasis del discorso, e il saluto si erige e si dirige proprio nel momento in cui non resta niente da dire. È insopportabile: come non inchinarsi di fronte al fatto che i vivi continuano a sopportarlo e a salutarlo, facendone perfino, in ultima analisi, la loro ragione di vita, il solo assolutamente irrecusabile factum rationis, e l'impensabile senza il quale nessuno potrebbe morire, cioè vivere? 146
Chi potrebbe vivere senza praticare, sia pure senza saperlo, ciò che indico qui con una citazione presa di forza e messa fuori contesto: "un inno, una lode, una preghiera", rivolti all'altro dalla vita che è presente nella vita, "un'implorazione di sollevamento e di resurrezione"9 che finisce per essere essa stessa la resurrezione? Chi, d'altronde, evocava una musica (o addirittura la musica stessa) grazie alla quale "il me stesso morto, ma sollevato da questa musica, dalla venuta unica di questa musica qui, qui e ora, in uno stesso movimento, il me stesso morirebbe dicendo di sì alla morte e di colpo risusciterebbe, dicendosi: rinasco, ma non senza morire, rinasco postumo, mentre la stessa estasi unisce in lui morte senza ritorno e resurrezione, morte e nascita, saluto disperato dell'addio senza ritorno e senza salvezza, senza redenzione, ma saluto alla vita dell'altro che vive nel segno segreto e nel silenzio esuberante di una vita sovrabbondante"10, - chi, se non Derrida, lo stesso o un altro? E che cos'è una vita sovrabbondante se non la vita tout court, in quanto essa - sì, anche nella sua brevità - eccede tutto quello che possiamo riconoscere e salutare, in quanto si eccede e muore, affidandosi e affidandoci così alla sovrabbondanza e all'esuberanza? L'esuberanza non è altro che l'esattezza della vita quando l'esistenza vi si arrende. L'esattezza è una parola che Derrida mi imputa di aver "risuscitato"11. E troppo attribuire taumaturgia a un semplice tropismo lessicale. Ma diciamo semplicemente che, anche senza presupporre né Dio né salvezza, non manchiamo mai, morti o vivi, di una lingua per salutarci eternamente, immortalmente, l'un l'altro, gli uni gli altri. Un tale saluto, senza salvarci, almeno ci tocca e, toccandoci, suscita quella strana titubanza che coglie colui che attraversa la vita per niente - ma non esattamente in pura perdita.
9 J. Derrida, Mémoires d'aveugle, Réunion des musées nationaux, Paris 1990, p.123 (trad. it. Abscondita, Milano 2003, p. 147). 10 J. Derrida, Cette nuit dans la nuit de la nuit..., in «Rue Descartes», novembre 2003, pp. 1 2 4 - 1 2 5 . 11 J. Derrida, Le Toucher, Jean-Luc Nancy, cit., p. 17.
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Di un Wink divino
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Al numero 44 di un testo che, con una strizzata d'occhio filosofica, Derrida intitola Fede e sapere, titolo che, per giunta, ha come sottotitolo un'altra strizzata d'occhio - Le due fonti della "religione" ai limiti della semplice ragione - a sua volta duplice o triplice (se si pensa che "ai limiti" costituisce un'allusione maliziosa - nel senso forte del termine e quindi deviarne - a "nei limiti"), in quel paragrafo 44, dunque, Derrida allude a una strizzata d'occhio o abbozza verso di essa un gesto che è, allo stesso tempo, vago e preciso (così come dev'essere l'ossimoro di ogni strizzata d'occhio)1. È un cen-
* Conferenza pronunciata al convegno su Jacques Derrida, tenutosi a Coimbra nell'autunno del 2003, sotto la direzione di Fernanda Bernardo. Pubblicata in Derrida a Coimbra, Palimage, Viseu 2005. 1 Questa conferenza di Nancy potrebbe essere considerata come una sorta di meditazione sul termine francese clin d'ceil e sui suoi derivati, meditazione che tende a esaurirne tutti i significati. Il termine francese, infatti, indica il movimento del chiudere velocemente gli occhi, sia nel significato di cenno o segno di intesa (strizzata d'occhio o occhiolino), sia nel signifcato del breve lasso di tempo in cui il movimento ha luogo (batter d'occhio). Il verbo cligner (fare un cenno strizzando gif occhi) ha dato luogo inoltre a clignoter e clignotement che indicano il movimento intermittente, lo scintillare, il lampeggiare di una fonte luminosa. Nancy ha scelto di tradurre con il termine francese clin d'ceil il tedesco Wink, che in italiano è tradotto per lo più con cenno. Nel passo dei Beiträge di Heidegger, che Derrida cita nel paragrafo 44 di Foi et savoir, e a cui Nancy qui si riferisce, il termine Wink è stato tradotto invece da J.-F. Courtine con signe (segno). Ricordiamo inoltre che un capitolo de La voix et le phénomene di Derrida, che Nancy citerà più avanti, si intitola proprio " L e signe et le clin d'adi" (Il segno e il batter d'occhio), dove clin d'ceil traduce \'Augenblick di Husserl. Abbiamo tradotto clin d'ceil per lo più con strizzata d'occhio, raramente con cenno, e talvolta con batter d'occhio,
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no teologico, o piuttosto teofanico, perché nella strizzata d'occhio appunto non si parla, cosa che forse ci porta subito - in un batter d'occhio - "ai limiti della semplice" logia, quale che sia il suo prefisso o il suo pretesto. Derrida cita infatti Heidegger a proposito dell'"ultimo dio": "L'ultimo dio. Trova il suo dispiegamento essenziale nel cenno {im Wink), tanto nell'irruzione e nell'assenza della venuta (dem. Anfall und Ausbleib der Ankunft), quanto nella fuga degli dei passati e nella loro segreta metamorfosi" 2 . È la parola Wink che, almeno provvisoriamente, indico come strizzata d'occhio3. Questa parola è mantenuta, citata, in tedesco in quando era evidente il valore temporale o il riferimento al capitolo de La voix et le phénomène. Talvolta, inoltre, non abbiamo potuto che lasciarlo in francese. Il termine italiano usato di volta in volta per tradurre din d'oeil è stato messo in corsivo (N.d.T.). 2 Cfr. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, in Gesamtausgabe, Bd. 65, Klostermann, Frankfurt a. M. 1989, § 256, citato in J. Derrida, Foi et savoir, cit., § 44. Bisogna segnalare che nella prima edizione del testo di Derrida (inj. Derrida e G. Vattimo, La Religione, cit.), c'è un refuso nella citazione di Heidegger ("défection" per "accès") - refuso successivamente corretto. L'articolo di Courtine citato da Derrida (Les traces et le passage du Dieu dans les Beiträge zur Philosophie de Martin Heidegger, in «Archivio di filosofia», n. 1-3, 1994) costituisce, insieme con altri testi di Courtine e con una serie di riferimenti che analizza, una premessa solida e necessaria per lo studio dell'"ultimo dio" di Heidegger. Se la mia lettura sembra andare in una direzione molto diversa, per non dire opposta, non si tratta tanto di un conflitto fra interpretazioni, ma della differenza fra una vera e propria interpretazione, come quella di Courtine, e un uso libero, un'estrapolazione, come quella in cui io mi avventuro. 3 Questa decisione è sicuramente un po' arrischiata, e richiederebbe maggiori cautele. D o p o la conferenza di Coimbra, Ursula Sarrazin mi ha fornito alcune precisazioni, tanto fini quanto erudite, di cui la ringrazio. Possono essere sintetizzate così: Wink ha innanzitutto più il valore di un gesto (della mano o della testa) che non di un movimento degli occhi; il primo è un gesto deittico, imperioso, o anche d'addio: "Winke, Winke", fanno i bambini tedeschi quando salutano; il secondo è un gesto più complice: tuttavia l'accostamento dei due valori è certamente possibile e ha perfino delle attestazioni etimologiche attraverso l'inglese. Una poesia di Goethe, intitolata Wink, mostra un rapporto esplicito con la strizzata d'occhio. E interessante che gli esempi più antichi riportati nel dizionario dei Grimm provengano dall'ambito religioso. Così Ursula Sarrazin mi ha citato (da una Reformatorische Flugschrift)-. "Gott hat uns yetzt gewuncken/im folgt manch frommer Knecht (Dio ci ha ora fatto un cenno/qualche servo devoto lo segue)". Resta comunque il fatto che, nell'una o nell'altra accezione, la parola ha il suo centro di gravità in un indicare non verbale. Fernanda Bernardo, inoltre, mi ha detto che il portoghese ace-
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quella traduzione. Non è la sola, visto che è seguita da un'intera frase. Ma è questa parola che deve trattenerci, è questa parola che dobbiamo ancora una volta conservare e osservare. E questo per due ragioni: la prima è che un'analisi più elaborata della frase intera e di tutto il suo contesto in Heidegger mostrerebbe che le apposizioni di Wink - cioè, "l'irruzione e l'assenza della venuta" (dell'ultimo dio), e "la fuga e la metamorfosi degli dei passati" - in verità non sono delle vere e proprie apposizioni quanto piuttosto delle esplicitazioni del Wink. Questa analisi sarà elaborata più avanti, ma ne anticipo il risultato. La seconda ragione è che la citazione della parola Wink s'impone al traduttore, qualunque sia, in una maniera molto più imperiosa (oserei dire "sovrana") di quella degli altri termini. Wink, infatti, strettamente parlando, non è traducibile. In un contesto concettuale o laddove l'uso del francese "signe" (segno) o dell'italiano "cenno" sono abbastanza chiaramente ineluttabili, è un dovere del traduttore segnalare questa parola irriducibile. Strizzata d'occhio introdurrebbe, come vedremo, altre connotazioni altrettanto dubbie - ma d'ordine più torbido o più salace - quanto quelle del termine "segno", inteso come Zeichen, come segno che significa o vuol dire - perché certamente, qui, non si tratta di questo. Quando si cita una parola nella lingua originale (come, per esempio, restando in ambito tedesco, nel caso di Witz o di Wesen) si vuole in generale segnalare che la traduzione rende male e impropriamente il termine di partenza. Si segnala così un'improprietà, ma la si segnala senza spiegarne i motivi, le implicazioni o le risonanze idiomatiche. Il traduttore, quando deve o vuole risparmiarsi una nota esplicativa ed ermeneutica a proposito dell'intraducibile che resta così intradotto (nota che rischia spesso di diventare una specie di summa filologica e filosofica, o, come nel nostro caso, teologica), deve accontentarsi di questo gesto che non ha senso, ma che indica, invece, la prossimità di un senso altro, di un senso che non ha senno presenta una semantica molto vicina a quella di Wink: provenendo dal latino cinnus, indica un movimento della mano, della testa o degli occhi per suggerire o comunicare qualcosa senza ricorrere alla parola. È un segnale o un segno di disponibilità, di desiderio o di promessa. ("Bastava un aceno perché lei si precipitasse fra le sue braccia").
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so nella lingua di arrivo, di un senso che non arriva a significarsi di idioma in idioma - un senso la cui venuta si sospende - da capo "tra la sua irruzione e la sua assenza". Ora la condizione generale della traduzione è proprio quella di essere sottomessa, in una sorta di doublé bind, al duplice postulato della significabilità integrale e di un'insignificabilità residua che si rivela anche di principio, di un'eccezione che costituisce la regola perché espone e impone l'irriducibilità dell'idioma, la sua idiosincrasia senza la quale non ci sarebbero più traduzioni - e nemmeno lingue. A questa considerazione sulla citazione in tedesco del termine Wink - considerazione destinata, s'intende, ad aprire la strada verso la cosa o il ruolo che si "dispiega essenzialmente" sotto questo termine e a cui Derrida, qui, allude - conviene aggiungere due scoli: 1) Il gesto del traduttore che indica la parola impropriamente tradotta è esso stesso un Wink, vale a dire un "segno" (termine che può essere usato come traduzione), nel senso di un "segnale", di un "avvertimento", di un intersigne4, come si diceva un tempo. È un'indicazione data da lontano e di sfuggita, senza spiegazione, senza un vero significato, evasiva quanto al senso, ma precisa quanto alla direzione: di qua bisogna fare attenzione, bisognerà tradurre altrimenti, ma più tardi o altrove; per il momento ci si limita a mettere la parola in attesa - in attesa del suo senso. Ci ritorneremo: il Wink è un segno d'attesa o piuttosto mette l'attesa nella posizione del segno. Si sospende tra speranza e delusione. Fa attendere la sua interpretazione, ma quest'attesa è già di per sé una mobilitazione, e la sua mobilità o motricità conta più della sua interpretazione finale. Il modello più corrente del Wink (modello nel senso di esempio o di modalizzazione) è la strizzata d'occhio. Una strizzata d'occhio resta sempre da tradurre, ma ha già superato, con il suo gesto, la sua traduzione. È saltata di colpo, in un batter d'occhio, oltre il senso che essa fa attendere. Resta ancora, re-
4 La parola francese intersigne significa segno, marchio e una relazione misteriosa tra due fatti (N.d.T.).
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sterà sempre da tradurre. Non avrà mai un proprio senso compiuto, determinato o saturato. Il Wink - e la parola Wink, per il traduttore, ma anche, in fondo, per il lettore tedesco... - appropria l'improprietà costitutiva di un significato difettoso o eccessivo, labile, evasivo, allusivo o differito. (Scrivendo "differito", aggiungo qui tra parentesi un termine che è tanto meno traducibile in quanto non è una parola, il termine "différance"). 2) L'eccezione dell'intraducibile costituisce la legge della traduzione. Essa ha per logica un trasferimento di senso reso possibile da una legalità generale del linguaggio, secondo la quale il senso può dirsi in molteplici lingue, e reso necessario dal fatto che una certa parte di senso, se non il senso, si rifiuta o si sottrae a questa possibilità. Questo rifiuto o questo sottrarsi appare nelle eccezioni, sotto forma di questa o quella parola, Wink, Witz, Wesen, ma queste eccezioni rivelano la verità della lingua, cioè il ritrarsi dell'idioma al di qua o al di là della legge del senso. Quando c'è eccezione, c'è sovranità. Sovrano è l'idioma che si dichiara intraducibile. (E certamente, come si sa, si dichiara tale per poter finire in tutte le sue parole e tutte le sue pieghe. Ogni significante di una lingua significa e winkt nello stesso tempo. C'è sempre un eccesso, un difetto o una curvatura di senso: winken, infatti, è innanzitutto curvare o curvarsi, piegare, vacillare, barcollare, inclinare. Parliamo qui di quel clinamen del senso, senza il quale non ci sarebbero lingue, ma solo caratteristiche. Parliamo di quel clinamen che fa un mondo di senso di cui segnala la verità insensata). Sovrano è il traduttore che decide di sospendere la traduzione, indicando la parola dell'originale. Altrettanto sovrano è il traduttore che passa oltre e decide, come si usa dire, una soluzione per "equivalenza", attraverso una perifrasi, un'analogia o qualche altro procedimento. Ma anche la sua decisione consiste nell'abbandonare l'ordine del significato (ammesso che sia tale) per un altro ordine, quello del senso, nel senso che ogni lingua è un mondo di senso, e la traduzione salta di mondo in mondo per cenni, e senza strumenti né vie di passaggio. Da un genio della lingua a un altro, non possono esserci che cenni, strizzate d'occhio e lampeggiamenti nel153
l'universo del senso, la cui verità è il buco nero che assorbe tutte quelle luci. Sovrano è qui, come nello stato, chi si appropria dell'assenza di proprietà, di fondamento appropriato, di codice disponibile, di attribuzione garantita e di presenza assicurata. È quindi lecito affermare che, da una parte, il Wink è sovrano e che, dall'altra, il sovrano winkt (come si potrebbe dire in tedesco, lingua nella quale, invece, non si sa come rendere il termine "sovrano"). (Herrschaftsbereich des Winkes è un'espressione usata da Heidegger tre righe più avanti nello stesso testo). Di fatto un Wink, una strizzata d'occhio, deroga dall'ordine stabilito della comunicazione e del significato, aprendo una zona di allusione e suggestione, lo spazio libero per un invito o un'apostrofe, per seduzioni o smarrimenti: ma questa deroga accenna al senso ultimo del senso o alla sua verità. Qui, sovranamente, il senso si eccettua dal senso: questo è il monito. Di fatto, nuovamente e analogamente, un sovrano winkt. Niente è più topico della maestà sovrana dell'aggrottare le ciglia, dello strizzare l'occhio, del gesto che si definisce "impercettibile" e a cui risponde un segno di intesa, nel quale la connivenza precede ed eccede la comprensione, e la complicità comprende in anticipo ciò che, appunto, non va inteso, ma atteso. Il Wink apre contemporaneamente un'attesa e un'impazienza a cui risponde, in un batter d'occhio, la decisione di intendere senza attendere5.
2 Se è vero che la citazione del termine Wink è un gesto sovrano del traduttore, è anche vero che questo gesto conferisce al termine
5 Werner Hamacher analizza la potenza dominatrice dello sguardo imperiale e imperioso (potenza e violenza anche dell'ideale) come quella di uno sguardo che non vede più, "non perché si perda nella sua visione, ma perché la mostra"; è "la violenza dell'ostentazione del 'fissare' (Starren)" (W. Hamacher, Heterautonomien, in B. Liebsch e D. Mensink, Gewalt Verstehen, Akademie Verlag, Berlin 2003). L o sguardo fisso e pietrificante è la possibilità ultima o centrale della strizzata d'occhio, e di conseguenza l'ambiguità sempre presente di quest'ultima. Ci ritorneremo più avanti.
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tedesco una sovranità, di cui è subito evidente l'ambivalenza: vi si mescolano infatti una sottrazione di senso e una forma di accesso alla proprietà del termine, secondo uno di quei privilegi auspicati dal cratilismo e dall'idiomatismo implacabile dei filosofi (e di cui YAufheben hegeliano è la figura più insigne). E per la sua intraducibilità che Wink assume una carica (in- o iper-) significante. Ed è perché viene lasciato non tradotto dal traduttore filosofo che esso assume forza di concetto o di pensiero. Possiamo anche aggiungere en passant questa osservazione: tutte le interrogazioni sulla differenza, con o senza a, tra filosofia e letteratura, potrebbero essere riconsiderate e spiegate a partire dal fatto che chi traduce letteratura si rifiuta di solito di conservare i termini originali. La letteratura perde il senso per essenza, la filosofia insiste sul senso fino all'eccesso, fino all'incalcolabile sovrappiù in cui arriva a toccare il dispendio della letteratura. Ora, nel testo di Heidegger al quale abbiamo fatto riferimento, al termine Wink viene affidata proprio una sorta di sovranità filosofica6, cioè una posizione in eccesso di senso o sul senso (e quindi di "verità"). Potrei mostrare, ripercorrendo tutto il contesto dei Beiträge che questa parola non acquista mai un significato più specifico di quello che ha correntemente in tedesco. Non viene fatto nessun lavoro concettuale sul regime di senso e di significato che questo "segno" dovrebbe designare. Tutto quello che si può dire è che il Wink si trova spesso associato a qualche variante dell'espressione citata da Courtine e da Derrida: " A n f a l l und Ausbleib der Ankunft", espressione essa stessa difficile da tradurre e che indica l'irruzione improvvisa e il permanere dell'assenza della o nella venuta dell'ultimo dio (come d'altronde anche della "fuga degli dei" precedenti, come dice il seguito della frase che ripete quasi parola per parola una frase del paragrafo precedente). Senza penetrare ulteriormente nelle
6 L'uso della parola Wink nell'insieme dell'opera di Heidegger meriterebbe ovviamente uno studio particolare, il cui compito sarebbe fra l'altro anche quello di recensire con precisione alcuni lavori pubblicati fuori dalla Francia su questo tema. Sia nel commento a Parmenide che in quello a Hölderlin, o in riferimento a Rilke, da cui il termine è ripreso, nonché in altre occasioni, Heidegger ha fatto ripetutamente appello a questo termine.
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questioni essenziali di tutto questo contesto, ma per abbozzare comunque una maniera possibile di affrontarle, diremo soltanto che il Wink ha il suo concetto o il suo quasi-concetto, la sua abbreviazione di senso, attraverso e nel suo nesso con ciò che Heidegger chiama, sempre in quelle pagine, Vorbeigang (che significa "passaggio", come nell'espressione "di passaggio") oppure, nelle pagine precedenti, Blickbahn7, termine raro che alla lettera significa "direzione dello sguardo" e riunisce i significati di "prospettiva" e "colpo d'occhio". Il Wink, nella sua funzione di segno o segnale divino - di diosegnale, si potrebbe farfugliare - indica un che di fuggitivo, il battito dell'istante, nel quale colui che arriva parte e, partendo, rimane assente, fuori della propria venuta, mentre nel mezzo di questo battito o attraverso di esso è lanciata l'occhiata che dà o (e/o?) riceve il segnale. Il privilegio di Wink consiste insomma nel fatto che il suo significato si esaurisce nel passaggio subito sottratto, nello schizzo subito schivato di un senso che si eclissa e la cui verità consiste nell'eclissarsi. Sarebbe quindi per questo motivo che "l'essenza del Wink" (espressione usata al § 255) è analizzata o determinata solo secondo il battito o l'ammiccamento nel quale si cela ciò che lo stesso testo enuncia come "il segreto dell'unità della vicinanza più intima nella lontananza più estrema". (È mai possibile che Heidegger, scrivendo queste parole, non abbia sentito accendersi in lui un'allusione al Deus interior intimo meo, superior summo meo di Agostino? È una domanda che lascio aperta alla discussione). Ambivalenza, ambiguità, ossimoro, Witz come affinità degli opposti, Aufhebung o anche - perché no? - incontro del Witz con {'Aufhebung e della strizzata d'occhio con lo speculativo, questo è il carattere ultra-significante del Wink che gli conferisce, nel testo originale così come nella traduzione che lo lascia in tedesco, quel privilegio sovrano che, nella stessa pagina, fa scrivere a Heidegger, che qui si tratta "dell'irruzione e dell'assenza della venuta, della fuga degli dei e dei luoghi della loro sovranità (Herrschaftstätte)". 7 Cfr. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit., § 42. La parola Blickbahn, poco usata, sembra godere in Heidegger di un certo favore che meriterebbe un esame più approfondito.
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L'ambivalenza è costitutiva della sovranità. Essa congiunge infatti il potere assoluto e l'eccesso sulla legalità che necessariamente si coappartengono. Secondo la formulazione di Cari Schmitt, il diritto sospende se stesso nell'atto sovrano. Per essere totale, l'onnipotenza. deve giungere a quel punto in cui non c'è nessuna potenza che preceda, fondi o domini. Per essere assoluto, il potere deve assolutizzarsi, cioè assolversi da ogni legame e da ogni responsabilità che non sia quella di rispondere di sé e autorizzarsi da sé. Questa onni-potenza, d'altronde, non è affatto dell'ordine della "potenza" nel senso della potenzialità. Essa non è dynamis, ma energeia, atto effettivo che precede ogni possibilità, realtà del potere che non può mai essere semplicemente ridotta a una brutalità che ignora le leggi, perché sono invece le leggi, la costruzione giuridica in quanto tale che devono ignorare questo arcano del suo fondamento infondato 8 . Se la proprietà è sempre de iure, e mai solamente de facto, se il proprio (che si tratti di senso o dominio, di ricchezza, coscienza o corpo) è tale solo attraverso la mediazione di un diritto che significhi e garantisca l'appartenenza fondata ed esclusiva, allora il sovrano mette in atto - attualizza e agisce, nel senso giuridico del termine - l'immediazione di una proprietà che è meno o più di ogni appropriazione. Ecco perché il sovrano winkt: lancia un segnale, invece e prima di stabilirsi in un significato. Il sovrano apre senso possibile, mentre chiude o sospende i sensi già disponibili. È per questo che nel Wink o nel winken c'è un'energia, di cui il segno è sprovvisto, ed è per questo che, in definitiva, un winken accompagna ogni bedeuten - ogni voler-dire e fare-un-segno - che, altrimenti, non avrebbe la forza di rivolgere il suo segno e non avrebbe quindi neanche la forza del suo "volere" o del suo "fare". Nel senso c'è una forza attuale che si aggiunge al rinvio significante e che, in termini di senso, lo eccede e gli cede allo stesso tempo. Il Wink attiva, attua e aziona un gioco di forze sottomano o in contrappunto rispetto al senso. Una strizzata d'occhio, come si sa, 8 Come sa e afferma Kant, genio tutelare del diritto. Cfr. Metafisica dei costumi (1797), Dottrina del diritto, Parte II, Sezione I, Nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile, A; trad. it. Laterza, Bari 1970, p. 148
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può scatenare la più grande sorpresa, liberare un desiderio inopportuno, rompere la convenienza, così come esprimere il favore o il disfavore secondo il capriccio del principe, la cui "graziosa maestà" è maestosa proprio in misura del suo potere sovrano di grazia e disgrazia - un potere la cui forza si distingue per il fatto che la sua onnipotenza si esercita non soltanto con una strizzata d'occhio, ma in un batter d'occhio. La rapidità dello strizzare impegna l'effettività della presenza nel battito stesso del suo istante che passa.
3 A questo punto ci imbattiamo in un altro brano di Derrida, un brano di un testo scritto ben prima e nel quale, riferendosi a un passo di Husserl, egli diceva: "Dal momento che si ammette questa continuità dell'adesso e del non-adesso, della percezione e della non-percezione nella zona di originarietà comune all'impressione originaria e alla ritenzione, si accoglie l'altro nell'identità a sé dell'Augenblick: la non-presenza e l'inevidenza nel batter d'occhio dell'istante. Vi è una durata del batter d'occhio, e questa chiude l'occhio. Quest'alterità è perfino la condizione della presenza" 9 . Come si può vedere, questo non è un brano qualsiasi. Q u i sono in questione la struttura e il movimento, il movimento - l'inclinazione (clin) - come struttura di questa différance, il cui motivo o movente sta conducendo Derrida a ciò che sempre lo mobiliterà: all'assentarsi della presenza nel cuore stesso del suo presente e della sua presentazione e, in maniera analoga, al distanziamento del segno nel cuore stesso del rapporto con sé, e quindi all'apertura di un passaggio insignificante nel cuore o alla giuntura del segno. Il clin d'oeil dà la struttura della différance e, non soltanto la struttura, ne dà anche l'eccesso o il difetto di significato (non è "né una parola né un concetto", come dirà più tardi Derrida), facendone brillare lo splen-
9 J. Derrida, La voix et le phénomène, PUF, Paris 1967, p. 73 (trad. it. Jaca Book, Milano 1968, p. 102). Il capitolo è intitolato " L e signe et le clin d'oeil (Il segno e il batter d'occhio)".
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dorè d'eclisse. Sospende per un momento il momento presente, il tempo di una durata furtiva in cui si sospende l'onto-cronologia. Si potrebbero seguire in Derrida i destini del clin d'ceil, incrociati con quelli della différance nella quale la a ammicca, scintilla o winkt. Nel 1986, per esempio, in Parages, questo termine qualifica un altro elemento decisivo, il "tratto supplementare", che caratterizza il genere dell'opera d'arte o del testo, tratto che di per sé non appartiene a nessun genere, ma "appartiene senza appartenere", in modo tale che il "senza", qui, "non appare che per il tempo senza tempo di un batter d'occhio"10. Forse ci si potrebbe far guidare dall'ipotesi che il din d'ceil dà sempre la modalità di una donazione di verità supplementare o eccedente. In maniera analoga si potrebbero seguire in Heidegger i sentieri del Wink11. Ma il mio proposito è un altro. Come si è capito, ciò che di cui mi occupo e di cui, credo, dobbiamo occuparci necessariamente o in maniera imperiosa (sovrana) è il rapporto tra la a della différance e il Wink dell'ultimo dio. C'è bisogno di precisarlo? Non soltanto non cerco di teologizzare la différance (sarebbe difficile, perché è proprio la presenza del dio dell'onto-teologia ad essere svuotata o aperta con la forza), ma non cerco neppure di teologizzare l'"ultimo dio", la cui natura o essenza, la Wesung o la Gòtterung, come scrive Heidegger, non è, secondo me, teologica. In ogni caso non è teista, e lo stesso paragrafo 256 ci tiene a respingere "tutti i teismi", perché solidali con la "metafisica" e l'"apologetica giudeo-cristiana". (Che Heidegger ignori, consapevolmente o meno, un'altra dimensione della fede - e non dell'"apologetica" giudeo-cristiana, che egli misconosca, volontariamente o meno, ciò che di questa fede intraprende una Destruktion della teologia, 'è un'altra questione. Bisognerà ritornarci altrove).
10 Segue un commento sul fatto che il batter d'occhio permette di vedere ciò che per un momento occulta: la luce. (J. Derrida, Parages, Galilée, Paris 1986, p. 264; trad. it. Jaca Book, Milano 2000, p. 313, modificata). Più avanti, a p. 296, il batter d'occhio designerà il tempo di un'evidenza che è quella della "follia della legge (...) dell'ordine, della ragione, del senso, del giorno" (trad. it. cit., p. 333). 11 Cfr. sopra, p. 155, nota 6.
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Non cerco quindi di teologizzare ma, appunto, di discernere il divino del Wink in quanto differente, radicalmente differente dal theos e, allo stesso tempo, in quanto differisce irrimediabilmente il suo essere teologale. In altre parole quindi, cerco di discernere - sia pure strizzando l'occhio - un tratto divino nella différance, facendo però proprio il contrario di quanto è stato stigmatizzato, qualche tempo fa, come "svolta teologica della fenomenologia" 12 . E questo prima di tutto perché non si tratta di fenomenologia. Lo vedremo via via. Con il Wink e la a, con la a che winkt, la fenomenologia compie fino in fondo il suo rovesciamento: non soltanto l'apparire vi diventa l'apparire dell'inapparente - cosa che era già avvenuta ma tutta la problematica dell'(in)apparire cede il passo a una dinamica del passaggio, del Vorbeigang Aeìì'Augenblick. La questione non è più quella di essere o apparire, ed essa non è più una questione: sopraggiunge un'affermazione del passaggio, cioè del passante. Non l'essere e l'ente, ma l'ente e il passante. Riprendiamo. Lo scarto del batter d'occhio, il lasso del suo istante, l'intervallo aperto e chiuso, nel medesimo tempo e come la medesimezza del presente, come la medesimezza del tempo che non passa nel suo incessante passare, la medesimezza del passante e, così, l'identità a sé, afferrata in questo altro " a " che la riferisce a se stessa, ecco che cosa fa scintillare la a della différance. (Scintillio, batter d'occhio, balenare, ammiccare, sono i significati dei termini inglesi twinkle e to twinkle, mentre in tedesco der Winker è l'indicatore di direzione di un'automobile). Ponendo ed eclissando di volta in volta il valore di direzione dell W - proprio come va inteso il valore del zu nel Sein zum Tode, nell'essere-