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Italian Pages 160 Year 2012
piani
NOME DEL PROPRIETARIO
Cronopio
Collana diretta da Gianfranco Borrelli (Università degli Studi di Napoli) Bruno Moroncini (Università degli Studi di Salerno)
Comitato scientifico Simona Forti (Università degli Studi del Piemonte Orientale) Thierry Menissier (Università di Grenoble) Stefano Petrucciani (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) Valerio Romitelli (Università degli Studi di Bologna) Cornel Zwierlein (Università di Bochum) Dare voce alla ricerca che opera su instabili piani di confine. Indagine creativa e multidisciplinare, impegnata a sovvertire l’insostenibile rigidità di “ragioni fondanti” e intenzionata a riconvertire angoscia e spaesamento nell’annuncio di un nuovo inizio per singolarità diverse e inedite soggettivazioni. I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review
Nicola Russo
La cosa e l’ente Verso l’ipotesi ontologica
© 2012 Edizioni Cronopio Via Broggia, 11 – 80135 Napoli Tel./fax 0815518778 www.cronopio.it shop.cronopio.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-89446-84-3
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Indice I Introduzione. La coimplicazione di ontologia e nichilismo I.1 Alcune precisazioni a mo’ di premessa
9 9
I.2 Il nesso ontologico: le due tradizioni
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I.3 Logica dell’ente e genealogia
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I.4 Ente e niente
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II L’incipit di Essere e Tempo
35
II.1 L’essente e il senso dell’essere
35
II.2 I pregiudizi intorno al “concetto” di Essere
46
III Il Sofista di Platone
59
III.1 Le aporie elementari dell’ontologia
59
III.2 Nietzsche lettore di Platone
64
III.3 «Salvare i fenomeni»: epistemologia ed epistemica
66
III.4 Verità e qewr…a
70
III.5 La neutralizzazione dell’interdetto parmenideo
74
III.6 Omologia ed eterologia del logos
81
III.7 Eguagliamento ed alterazione della cosa
92
III.8 La natura messa in opera
99
IV Il I libro della Fisica di Aristotele
103
IV.1 Generazione e divenire
103
IV.2 La teoria dei principi
113
IV.3 tÕ gignÒmenon ¤pan ¢eˆ sÚnqeton
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IV.4 Omnia Deo comparata nihil sunt
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Introduzione La coimplicazione di ontologia e nichilismo La logica negazione e nullificazione del mondo segue dal fatto che dobbiamo contrapporre l’essere al non essere, e che il concetto di «divenire» viene negato («qualcosa» diviene), quando l’essere… F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-88, 9[62]
I.1 Alcune precisazioni a mo’ di premessa Le pagine che seguono non sono, in ultima analisi, che una didascalia, in senso proprio e in senso figurato, dell’«ipotesi ontologica», espressione con cui non si indica una teoria (leggendo «ipotesi» come congettura circa l’ontologia, vale a dire come proposta di una tesi da corroborarsi), ma si cerca piuttosto di dire il modo in cui è costituito il nesso ontologico stesso, ossia appunto come hypotesis. Intorno a tale concezione si daranno qui alcune delucidazioni, con l’avvertenza però che essa attende ancora una sua compiuta formalizzazione, una vera e propria «teoria dell’ipotesi ontologica»1, compito che richiede co1 Alcuni suoi elementi sono stati presentati in N. Russo, Polymechanos Anthropos. La natura, l’uomo, le macchine, Guida Editore, Napoli 2008, pp. 163 ss. Un’esposizione più ampia e tematica è stata pubblicata, però, solo in russo, in N. Russo, Теоретическое мышление: от его греческих корней, между онтологией, метафизикой и нигилизмом (Teoreticheskoe myshlenie: ot ego grecheskikh kornei, mezhdu ontologiei, metafizikooi i nigilizmom), a cura di Дмитрий Пикуль (Dmitry Pikul), Kanon+, Mosca 2012. Tra le varie lezioni dedicate all’argomento, le più accessibili si possono leggere in www.federica.unina.it/corsi/filosofia-teoretica.
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me una delle sue premesse indispensabili la ricapitolazione della tradizione metafisica occidentale. In tal senso, la rilettura che qui viene provata di alcuni testi di autori chiave della storia della metafisica è al tempo stesso preliminare a quella teoria e posteriore ad essa, nella misura in cui è sulla base di certe sue anticipazioni che il discorso si orienta sin dall’inizio nella sua stessa direzione. Il circolo ermeneutico è evidente e ineliminabile, euristicamente positivo giacché sottratto all’arbitrarietà proprio dal riferimento costante al testo, che non è mai solo l’oggetto dell’interpretazione, ma anche il suo giudice e banco di prova, spesso la sua migliore ispirazione. Il procedimento è dunque metodologicamente per nulla incoerente, ma addirittura opportuno, non solo necessario, ma anche fecondo, mai pregiudicato interamente sin dall’inizio, ma anzi sempre esposto al mutamento delle prospettive e dunque alla riformulazione delle tesi guida, una riformulazione che non può che implicare un nuovo inizio, il riavvolgersi del circolo. Naturalmente è solo in linea di principio che la via diviene in tal modo infinita: lo sarebbe se fosse infinita, come ovviamente non è, anche la nostra capacità di percorrerla. È per questo che abbiamo bisogno, di tanto in tanto, di fermarci e segnare alcuni punti del tragitto già compiuto, condensarne alcune tappe, inciderle su una mappa e così ridisegnarla. Una mappa di cui è però opportuno, in chiave introduttiva, indicare almeno alcune delle coordinate, affinché anche il successivo lavoro di tracciatura si svolga entro limiti di comprensibilità e ammissibilità espliciti. Innanzitutto, giacché è subito emersa sul proscenio la dimensione ermeneutica del discorso, è necessario precisarne i limiti, o meglio la sua particolare declinazione: anche il confronto con Heidegger, infatti, è condotto a partire dalla convinzione della necessità di tornare a Nietzsche avendo attraversato l’esperienza ermeneutica, tornarvi con la persuasione che lì siano ancora custodite e solo da mettere in luce alcune delle risposte alle domande fondamentali sollevate dal pensiero heideggeriano e che, nell’ambito della sua successiva elaborazione, sono rimaste aperte. Come la domanda circa la relazione tra «ontologia e ni10
chilismo», che trova nel confronto post-ermeneutico tra Nietzsche e Heidegger un suo luogo naturale e indicazioni metodologiche e sostanziali per procedere oltre le impasse in cui si è arenata la questione, irrisolvibile e quasi improponibile, del «superamento del nichilismo». Il presente discorso, infatti, che se non esaurisce lo spettro dell’«ipotesi ontologica» è comunque intimo ad essa e sua parte costitutiva, condivide con l’impostazione heideggeriana uno dei suoi strumenti e orizzonti eminenti – la storia della metafisica –, ma trova in alcune intuizioni nietzschiane i suoi assunti di fondo, a partire dalla sottolineatura, sin dall’inizio, del carattere metaforico del logos, inteso esclusivamente come logos umano. È proprio in funzione di questa sua impostazione che l’articolazione della questione ontologica come storia della metafisica, oltre ad essere qui estremamente parziale, non segue un percorso cronologico lineare, quello che le converrebbe naturalmente: ammessa la perfettibilità di una lettura completa, infatti, essa andrebbe impostata a partire dalla fondazione antica dell’episteme, e quindi dal confronto di Platone e Aristotele con i fisiocratici e i sofisti, per poi seguirne le linee di sviluppo attraverso i tentativi neoplatonici di conciliazione tra logica aristotelica e teologia platonica – penso ovviamente innanzitutto a Porfirio –, che consegnano al medioevo i termini fondamentali delle dispute intorno agli universali e ancor più di quella sul carattere univoco, equivoco o analogico della predicazione dell’essere, contesto teorico che rimane saldamente, seppur inavvertitamente, al fondo di tutta la metafisica moderna, tanto dei suoi vicoli ciechi, come Bruno, quanto delle correnti dominanti, fino al collasso che si realizza sulla linea di discendenza di Nietzsche da Kant. Ebbene, un simile andamento progressivo del discorso, svolto nei limiti di una singola monografia, sarebbe impossibile non solo perché troppo affrettato, episodico e quindi discutibile nelle sue conclusioni, ma ancor più perché quasi fatalmente privo del criterio della sua possibile unità sintetica. Criterio che viene qui preposto tramite un procedimento a ritroso, ossia partendo non dall’inizio, ma da uno dei suoi momenti postumi, dalla Frage nach dem Sein di Heidegger, per poi tornare indietro, 11
facendo leva su Nietzsche, verso alcuni snodi cruciali della storia dell’ontologia, in particolare il Sofista di Platone e la Fisica di Aristotele: un’Odissea piuttosto che un’Iliade. A contenere in unità una materia molto ampia di certo non basta metterne insieme la fine e l’inizio, se ciò non avviene a partire da un punto di vista chiaramente orientato, da una prospettiva unitaria, che è ciò cui allude precisamente il riferimento: ontologia e nichilismo. Riferimento che non ha nulla di arbitrario, ossia che non menziona un argomento a piacere, magari anche importante, entro una gamma di argomenti possibili all’interno dello spettro della questione ontologica – come potrebbe essere ontologia ed etica –, ma che dice propriamente il nesso costitutivo che fa di tale questione una questione filosofica reale e viva. Tesi che per il momento semplicemente asserisco, ma che vorrò anche argomentare, rendendo conto almeno di alcune delle ragioni per le quali una reimpostazione dell’ontologia non può eludere la questione del nichilismo e anzi, almeno nelle sue mosse iniziali, vi coincide. Come cercherò di mostrare, infatti, nella fondazione dell’ontologia è sin dall’inizio insito il compimento nichilistico, che è peraltro ambivalente e non si riduce solo ad un esito negativo o terminale, poiché nello spazio che esso apre la filosofia può ancora, o finalmente, abitare in conformità con il suo atteggiamento originario. Riguardo all’«ipotesi ontologica», poi, è necessario precisare ancora preliminarmente che una simile determinazione della natura della coappartenenza tra logos e on è da lungo tempo implicita, e talora anche quasi del tutto esplicita (penso ad Avicenna e Tommaso), nella tradizione filosofica, entro la quale ha assunto varie forme e varie declinazioni, per arrivare al momento di maggiore radicalità forse proprio in Nietzsche, che è peraltro il primo a riconoscere in maniera compiuta la logica intimamente nichilistica della metafisica, il nichilismo che sin dall’inizio essa è2.
2 A riguardo è lapidario Heidegger: “La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico. L’essenza del nichilismo è storicamente la metafisica; la metafisica di Platone non è meno nichilistica della metafisica di Nietzsche. So-
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Dato tale contesto problematico è stato dunque naturale volgere lo sguardo innanzitutto al luogo ove la questione ontologica e quella del nichilismo, nella loro unità, hanno acquisito piena pregnanza filosofica e quindi dedicare la prima parte del discorso ad alcune pagine di Heidegger. Mettendo però sin dall’inizio in guardia rispetto a un altro possibile fraintendimento: l’«ipotesi ontologica», infatti, pur essendo nella sua formulazione impensabile senza Heidegger, nella sua sostanza nasce da un contesto differente, ovvero dalla riflessione sul problema della verità, che è di matrice schiettamente nietzschiana (e, se si vuole, platonica). Se qui, dunque, la questione viene ricontestualizzata a partire dalla domanda sul senso dell’essere di Heidegger, è perché in quella domanda troviamo l’ultimo sforzo decisivo di condensazione del suo nucleo problematico, oltre che il luogo a partire dal quale è divenuta per noi nuovamente visibile nei suoi propri termini. Nuovamente, poiché l’unità della domanda sull’essere e sul nulla è ciò da cui aveva trovato impulso già la prima ontologia, è la sua aporia fondamentale. Da tale punto di vista, risulta essere null’affatto un caso la circostanza che, sin dai suoi primi inizi e quasi come da sé, la riflessione sull’ipotesi ontologica mi abbia costretto ad un confronto, che oramai dura da diversi anni e non si è ancora concluso, con la filosofia antica, innanzitutto quella platonica: nei suoi problemi e nelle sue soluzioni, infatti, viene stretto il nodo dei pensieri e dei concetti, la cui trama attraversa tutto il pensiero occidentale e giunge sino a noi, ancora capace di porci domande essenziali. Ed è alla luce di quei pensieri che si fa trasparente anche l’intima necessità, e insieme l’originalità, delle decisioni teoriche fondamentali dei grandi autori del medioevo e della modernità, quelle che avvengono nelle opere cruciali dell’ontologia, come la Logica di Hegel e ovviamente Essere e Tempo.
lo che in quella l’essenza del nichilismo rimane occulta, in questa viene pienamente alla luce” (M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 816).
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Un simile reinquadramento, dunque, se pur avviene in qualche misura a posteriori, è comunque non solo opportuno, ma quasi inevitabile, poiché pone la questione a partire dai suoi interlocutori naturali, quelli che rimangono ancora gli interlocutori di Heidegger: Platone, Aristotele, Tommaso, Kant, Hegel, Nietzsche... E tuttavia, al di là di alcune considerazioni iniziali sulla Frage nach dem Sein, che varranno anche a delucidare in maniera sintetica o se non altro ad alludere allo spazio problematico il più brevemente possibile, non vorrò andare, e soprattutto non intendo vincolarmi anche nel seguito del discorso a una tale cornice teorica e concettuale, per una ragione semplicissima. Infatti, se da un lato l’ipotesi ontologica, o meglio il modo in cui è formulabile, non è comprensibile prima di Heidegger e deve moltissimo al suo insegnamento, soprattutto come lettore del pensiero antico, tuttavia la sua ispirazione di fondo è sin dall’inizio e rimane, per l’essenziale, non heideggeriana: in essa parla anzi un’autentica insofferenza per l’ipostatizzazione tanto dell’Essere, quanto del Logos, che anche in quella Frage, per quanto in maniera estremamente sottile, problematica, intelligente e profonda, viene realizzata3.
3 Nella sua bella prefazione a M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, trad. it. di A. Fabris, il Melangolo, Genova 1999, p. IX, Adriano Fabris, identificando nella finitezza dell’essere il “nucleo essenziale” del pensiero di Heidegger, parla della “originaria istanza antimetafisica che lo caratterizza”: “la finitezza dell’essere è dunque il presupposto primo e ultimo della scepsi antimetafisica di Heidegger, la conseguenza più radicale dell’annuncio nietzschiano della morte di Dio. Ateismo filosofico e finitezza dell’essere sono aspetti cooriginari di un’unica opzione teoretica da cui procedono tanto il progetto iniziale di una distruzione dell’ontologia quanto quello successivo di un superamento della metafisica”. Vero e proprio “dogma” del suo pensiero, che avrebbe avuto però la mancanza di eludere così ogni confronto con l’infinito e l’eterno: è evidente già da questo appunto, che solo da una posizione molto più vicina alla metafisica il pensiero heideggeriano può apparire più radicalmente antimetafisico di quello di Nietzsche e quasi il suo autentico compimento. Certo, proprio nelle lezioni di questo corso troviamo espressioni molto più trasparenti di quanto non sia dato leggere in Essere e tempo sul non-essere dell’essere e sul suo darsi esclusivamente entro la comprensione umana – “l’essere si dà soltanto se esiste la verità, cioè se esiste l’esserci” (ivi, p. 17) – e tuttavia ciò è inteso in un senso molto meno negativo di quanto non
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In relazione a ciò, l’aver riafferrato la questione ontologica, provenendo da un’impostazione di pensiero radicalmente antimetafisica, come ricomposizione innanzitutto del nesso ontologico, e averlo fatto in ambiti diversi, spesso del tutto distanti da quello heideggeriano, è derivato forse proprio dalla precisa volontà di non rimanere invischiato nel suo linguaggio, per sua natura adesivo, come ogni linguaggio fortemente teorizzato, e già formalmente e terminologicamente autoconfermativo: nel cosmo linguistico di Heidegger è impossibile oltrepassare tanto la sua impostazione della domanda, quanto le sue risposte fondamentali. E sia ben chiaro che questa non è affatto una critica, ma solo una constatazione ampiamente generalizzabile: nella sua espressione formale anche l’ipotesi ontologica è autoconfermativa, al suo interno e nei suoi termini è una grande tautologia, il che è proprio di ogni teoria compiutamente formata e non ne rappresenta né una convalida, né una confutazione – come vuole chi intende ogni tautologia come un circolo vizioso –, essendo invece solo un indice della sua coerenza e del perimetro della sua completezza. Lo stesso vale, in misura più o meno stringente – ed è semplice constatarlo – per ogni complesso terminologico sistematizzato, nella maniera più compiuta e perfetta per quello della Logica di Hegel, al punto che non è azzardato asserire che proprio così si costituiscono per lo più gli indirizzi filosofici: come comunità di linguaggio. È stato dunque per evitare di rimanerne assorbita e interamente pregiudicata che la riflessione sull’ipotesi ontologica è maturata nella distanza dalla Frage nach dem Sein, che tuttavia deve infine necessariamente affrontare, non solo per tornare sul sia nella vera e propria dissoluzione nietzschiana del concetto di essere (vedi infra, note 10, 21). Da questo punto di vista, insomma, avviene se non altro nella prima fase del pensiero di Heidegger, che è l’unica che prenderemo in considerazione, un arretramento piuttosto che una radicalizzazione della critica nietzschiana alla metafisica. Così anche J. Derrida, Fini dell’uomo, in Margini della Filosofia, a cura di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 185, ove “l’oblio attivo dell’essere” di Nietzsche/Zarathustra è contrapposto alla “questione della verità dell’essere come l’ultimo sonnolento sussulto dell’uomo superiore”.
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luogo del delitto, voglio dire lì dove la questione è stata effettivamente posta in quanto questione ontologica, ma anche perché rimane all’interno della stessa tradizione e così in un rapporto di stretta affinità. È per chiarire questo punto che, in chiave introduttiva, provo a definire brevemente due accezioni primarie del termine «onto-logia».
I.2 Il nesso ontologico: le due tradizioni La riapprensione della metafisica in direzione della «ricomposizione del nesso ontologico»: è questo quel che qualifica già l’impostazione hegeliana e poi quella heideggeriana, ognuna a modo proprio legate a una tradizione più originaria dell’ontologia, molto distante dall’ontologia di ispirazione analitica attualmente di moda, che è una sorta di teoria e tassonomia degli oggetti4, un’ontica avrebbe detto Heidegger, ma non per questo prossima alla ontologia generalis di ispirazione dogmatica, quella di Wolff per intenderci, che si richiamava, pur mutandone riferimenti essenziali, alla riflessione medievale sui transcendentes5. Per chiarire opero una distinzione molto schematica tra due differenti atteggiamenti dell’ontologia, premettendole però alcune avvertenze. Innanzitutto, che non è una storia del nome che voglio fare, ma di come l’ontologia è stata di fatto intesa e praticata, anche laddove non ne esisteva ancora o più la denominazione. In secondo luogo, che a entrambe le tradizioni che distinguo appartengono correnti anche molti distanti tra loro e addirittura in conflitto, che dunque non è di due linee di discendenza entro cui si tramanda consapevolmente una specifica direzione che parlo, bensì di due modalità elementari, che trovano
4 Nella sua Introduzione a AA.VV., Storia dell’ontologia, Bompiani, Milano 2008, p. 8, Ferraris definisce l’ontologia “una maniera per organizzare e classificare gli oggetti presenti nel mondo”. 5 Cfr. P. Kobau, Ontologia, in ivi, pp. 98 ss., 119 ss. Anche Kobau parla di “due storie” riguardo alla “nascita dell’ontologia”, articolandone però la differenza in relazione al prevalere di un’impostazione metafisica o logica.
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espressione in varie forme e tempi, che spesso anche coesistono e si intrecciano all’interno di singole impostazioni teoriche, soprattutto di tipo metafisico, talora anche in rapporto di stretta ed esplicita analogia. La distinzione che propongo, insomma, non è propriamente storiografica, bensì concettuale e operata a posteriori a partire da un punto di vista determinato, ma acquisisce concretezza storica per il fatto che una qualche ontologia, in una delle due modalità che differenzio, è rinvenibile pressoché in ogni speculazione filosofica di rilievo, anche del tutto non metafisica, o da essa è più o meno rigorosamente deducibile6. La distinzione è teoricamente molto semplice e riguarda il modo in cui può essere pensato e inteso il senso stesso della onto-logia: da un lato come logos intorno allo on, nei molteplici significati che quest’espressione può avere, dall’altro come riflessione intorno all’unità di «logos e on», ossia appunto come discorso intorno al nesso ontologico. Nel primo caso, nelle varie forme che assume, per esempio come ontologia dogmatica o analitica, essa è compresa come «teoria dell’ente» o «dell’essere», data l’ambiguità del termine on, che vale propriamente come «essente» e dice all’inizio semplicemente la «cosa», ma che viene poi reinterpretato, soprattutto nella tradizione moderna, appunto come «l’essere». Questo è anche il modo in cui siamo portati a intendere – in maniera eccessivamente semplicistica e sostanzialmente errata – l’ontologia antica e innanzitutto la «filosofia prima» di Aristotele, che nel quarto libro della Metafisica (Met. 1003a20) si definisce come un discorso circa l’ente in quanto tale, “tÕ ×n ï ×n kaˆ t¦ toÚtJ Øp£rconta kaq’aØtÒ: l’ente in quanto ente e ciò che a esso in quanto tale sottostà”7. 6 È dunque condivisibile, e va anzi esteso a medioevo e modernità, quanto si legge in M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 11: “è possibile mostrare sul piano storico che in fondo tutte le grandi filosofie dell’antichità si sono cercate e si sono comprese, in maniera più o meno esplicita, come ontologie”. 7 Nella maggior parte dei casi le traduzioni sono mie. Qui traduco Øp£rconta con «sottostanti» per rimanere vicino alla forma originale, ma con
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Guardata, però, alla luce della critica kantiana e poi nietzschiana della metafisica, una speculazione pura, un qewre‹n intorno all’ente posto come per sé essente, anche se inteso come ente noetico e anche se nella forma di un’analisi di ciò che è generalmente proprio a ogni essente o al puro essere, è inagibile, per ragioni che a modo suo Heidegger stesso parzialmente chiarisce, quando nota – e questa è una delle sue mosse teoriche fondamentali – che dal momento che l’essere è sempre l’essere di un ente, per sé l’essere non è un ente, ossia non è un che intorno al quale noi possiamo disquisire circa le sue determinazioni essenziali – t¦ toÚtJ Øp£rconta –, ossia non è possibile un discorso ontico sull’essere8. Che è una via traversa per dire, in fondo, che l’essere non è, giacché non essere un ente significa a rigori non essere un qualcosa che è, non essere essente, dunque non essere e basta – e Heidegger, pur dando alla questione un indirizzo teorico completamente differente da quello che aveva animato la disputa intorno all’esistenza di Dio come Summum Ens ed ipsum Esse, trarrà esplicitamente questa conclusione, che in qualche misura richiama quella che era già la conclusione di Nietzsche. Come vediamo, pur tenendo il discorso, nell’introdurlo, in termini molto elementari e generali, già da questo seml’avvertenza che il verbo Øp£rcw ha in greco un’ampiezza semantica enorme: “iniziare”, “dare inizio”, “apparire per primo”, “essere a disposizione”, “reggere”, “comandare”, “sussistere”, “esistere”, “avere facoltà”, etc. Qui è in fondo un sinonimo di essere (altrove, come per esempio in Met. 1069b6, Aristotele usa la forma Øpe‹nai): t¦ Øp£rconta sono ciò che è proprio all’ente in quanto tale, le sue molteplici determinazioni essenziali. Ma certo non è privo di significato, che Aristotele scelga proprio questa espressione: in Øp£rcw è presente il termine cruciale della Fisica, la ¢rc», il principio reggitore, qui ciò che da sotto (ØpÕ) dà inizio, si mostra per primo e regge l’ente. Qualcosa di intrinsecamente plurale: t¦ Øp£rconta. Sia detto del tutto incidentalmente e preliminarmente, senza nessuna pretesa di esaustività, anzi solo come accenno, che le ragioni per cui in tanti modi e forme Aristotele pensa il «sotto» degli enti, come Øpoke…menon, come ØpomenoÚsa fÚsij e così via, per quanto diverse sono strettamente connesse alle ragioni per le quali qui si parla di «ipotesi» ontologica. 8 Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 9 s. Ciò non toglie, qui, che l’ontologia debba avere un “fondamento ontico” nell’analitica dell’esserci (ivi, p. 18).
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plice incipit si fa evidente un nesso tra ontologia e nichilismo: un’ontologia, come quella heideggeriana, che abbia constatato sin dall’inizio che l’essere è sempre l’essere di enti e che quindi, per sé, non è, ha già posto la questione dell’essere insieme e come la questione del nulla9. La conclusione di Nietzsche, però, è d’altra natura, poiché non deriva da considerazioni ontologiche, bensì genealogiche: l’«essere», penso al Crepuscolo degli idoli10, è qualcosa di puramente pensato, propriamente di inventato dal logos, finto in analogia con certe sue esperienze fondamentali – l’io, il soggetto, la volontà agente – e in accordo con la sua funzione vitale. E insieme all’essere, dunque, anche «l’ente in quanto tale» o, meglio, l’entità delle cose, il fatto che le cose siano pensate e dette come enti: sin dai suoi primi scritti, in maniera tematica e compiuta in Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche smaschera la natura puramente logica, o se vogliamo bio-logica, degli enti, che riduce a “metafore”11. Al di là della dimensione genealogica e vitale di questo discorso, ossia della connessione che Nietzsche pone tra l’attività metaforica del logos e le condizioni di vita dello zoon logon echon, che è tratto propriamente nietzschiano12, la sua critica 9 Ancora del tutto esplicitamente in M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 59 ss., prolusione circa la quale sono cruciali le riflessioni posteriori: Id., Introduzione a “Che cos’è metafisica?”, in ivi, pp. 317 ss., in particolare 333. Ciò non toglie, e questa è una differenza molto significativa rispetto a Nietzsche, che Heidegger, pur mettendo in discussione la dicibilità dell’essere dell’essere, cerchi comunque un modo per dire la determinazione peculiare del suo modo di darsi, per esempio come Ereignis. 10 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, Vol. VI, t. III, Adelphi, Milano 19863, p. 86: “L’uomo ha proiettato fuori di sé i suoi tre «fatti interiori», ciò in cui egli più saldamente credeva, la volontà, lo spirito, l’io – ha cavato per prima cosa dal concetto dell’io il concetto di essere, ha dato l’essere alle «cose» secondo la sua immagine, secondo il suo concetto dell’io come causa”. 11 Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, tr. it. di G. Colli, in Opere..., cit., Vol. III, t. II, pp. 355 ss. 12 In effetti già schopenhaueriano: vedi la definizione della conoscenza come “mhcan» per la conservazione dell’individuo e la propagazione della spe-
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percorre però una via in fondo già lungamente battuta, in tanti modi, a partire dai suoi primi accenni nella sofistica13, per acquisire corpo nella dottrina stoica del lektÒn, passando nel medioevo attraverso le diverse esegesi nominalistiche dell’Isagoge di Porfirio, che riducono il transcendens, e quindi innanzitutto l’ens, a un atto in definitiva meramente logico – per Ockham una “ipsamet intellectio”14 –, interpretazione da cui si diramano molte e diverse correnti del pensiero moderno, dall’empirismo, al positivismo, al pragmatismo, fino al criticismo, entro le quali l’ente trascendente medievale è ritradotto in termini di astrazione, generalizzazione, trascendentale, ens rationis, che Kant definisce vuoto, e così via. Proprio Kant, nell’affrontare tematicamente entro la Critica della ragion pura l’ontologia medievale dei trascendenti, è lapidario nel ricondurli a una “qualche regola dell’intelletto, la quale sia stata soltanto, come spesso accade, falsamente interpretata. Questi presunti predicati trascendentali delle cose non sono altro che esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale”, di cui gli antichi “facevano incautamente proprietà delle cose in se stesse”15. Sembra di leggere ancora Nietzsche, che così appare essere l’ultimo rappresentante di una corrente parallela a quella dell’ontologia che potremmo dire «oggettiva», intendendo con ciò solo che pone tÕ Ôn, indifferentemente se in senso sostanzialistico o essenzialistico, come oggetto del logos, ontologia che si costituisce consapevolmente in dottrina a partire dal Seicento proprio come indagicie” in A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 215. 13 In Gorgia ben più che accenni, se è legittimo considerare il suo Perˆ toà m¾ Ôntoj À perˆ fÚsewj come un vero e proprio trattato di ontologia negativa piuttosto che come mero esercizio retorico. Cfr. al riguardo le annotazioni in M. Untersteiner (a cura di), Sofisti. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2009, p. 235. 14 G. de Ockham, Scriptum in librum primum Sententiarum. Ordinatio. Distinctiones II-III, edidit S. Brown, adlaborante G. Gàl, St. Bonaventure, N.Y. 1970, Sent. I, d. 2. q. 8, pp. 289, 291. 15 I. Kant, Critica della Ragion pura, tr. it. di G. Gentile e G. LombardoRadice, Laterza, Roma-Bari 19916, pp. 100 s. riguardo ai trascendentali e p. 231 per l’ens rationis.
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ne razionale intorno all’ente: per la prima volta in maniera compiuta negli Elementi di Filosofia di Clauberg16. Lungo la linea che possiamo dire invece «critica», per il ruolo centrale che vi ha l’impostazione di Kant, e che nei suoi sviluppi ultimi è meglio chiamare «negativa», di un’ontologia in senso stretto frequentemente non si può quasi più parlare, poiché essa si trasforma in una qualche forma di logica, che per lo più sottolinea il proprio carattere non metafisico, come avviene nel modo più chiaro proprio nella logica trascendentale di Kant17. Ossia sottolinea la propria differenza, in quanto indagine su concetti e forme del logos, quindi come logos intorno al logos, da ogni ontologia che assuma l’essere o l’ente come referente reale, come significato oggettivo del suo dire, come qualcosa di effettivamente esterno al logos, per quanto raggiungibile per vie puramente speculative. Essa può essere tuttavia considerata ancora come una forma radicale di ontologia, intesa proprio come riflessione intorno all’unità di «logos e on», nella misura in cui ha riassorbito tÕ Ôn nel logos, anche se in tal modo ha propriamente cancellato il loro nesso. La ricomposizione post-critica avviene nella Logica di Hegel, che supera senza annullare la differenza tra esterno e interno, riconoscendo nelle forme dinamiche del logos e nella loro dialettica la trama stessa del reale. Ed è proprio qui che l’ontologia – giacché la Logica di Hegel è nel modo più radicale e compiuto possibile un’ontologia, ne è anzi la somma realizzazione moderna – diviene l’ostensione completa non dell’essere o dell’ente, né solamente del logos, bensì nel nesso ontologico stesso, della coincidenza di logos e on: ontologia come teoria dell’unità di logos e on, come ontologica.
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Cfr. P. Kobau, Ontologia, cit., pp. 115 ss. Cfr. ivi, p. 133, dove si parla opportunamente di “concezione logicistica dell’ontologia”. 17
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I.3 Logica dell’ente e genealogia In anni cruciali del suo sviluppo teorico, poco dopo aver pubblicato Essere e Tempo, dunque negli anni in cui matura la Kehre, Heidegger si confronta a fondo con Hegel e Nietzsche, proponendo una sintesi della loro posizione molto inusuale e che trova il suo fulcro proprio nel modo in cui i due avrebbero portato a termine, in maniere diverse ma entrambi radicali, l’ontologia come ontoteoegologia: sintesi compiuta e finale della metafisica occidentale, in cui si realizza il progetto platonico, culminando e andando a finire nella teoria della volontà di potenza come logica inerente del nichilismo e quindi dell’epoca della tecnica. Inusuale, soprattutto per l’interpretazione di Nietzsche, poiché abbiamo visto come egli, in sostanza, scartasse il discorso intorno all’essere come intrinsecamente privo di senso, per sostituirlo con una genealogia critica e una assiologia positiva, che è quella che conduce alla trasvalutazione di tutti i valori. E tuttavia proprio il confronto strettissimo e per certi versi drammatico con Nietzsche è per molti interpreti il momento cruciale della svolta che conduce Heidegger, non a caso attraverso un «cammino verso il linguaggio», quindi attraverso un’accentuazione del ruolo del Logos, a rinunciare a scrivere la seconda parte di Essere e Tempo: un confronto, che però non lo porta ad abbandonare la sua impostazione ontologica, ma semmai a radicalizzarla ancora di più. L’indice forse più semplice, e al tempo stesso più sensibile e centrale, di questa radicalizzazione è nel modo in cui egli legge una frase molte volte ricorrente nelle lezioni aristoteliche: “tÕ ×n lšgetai pollacîj: l’ente si dice in tanti modi” (Met. 1003b5, Phys. 186a25). Considerazione che in Aristotele non è limitata al termine Ôn, ma potenzialmente estendibile a qualsiasi concetto di una qualche portata: il V libro della Metafisica, definendo i vari termini fondamentali della filosofia prima, elenca tutta una serie di lšgetai pollacîj, a partire dalle nozioni elementari dell’epistemologia aristotelica e della sua filosofia della natura: ¢rc», a‡tion, stoice‹on… Avvertenza dunque solita, che è naturalmente anche un segno dell’attenzione dello stagirita alla va22
rietà e complessità del linguaggio, di una sensibilità per la polisemia delle parole, complementare alla precisione nella definizione dei concetti, che ha anche una valenza polemica, poiché consente di non subire nel confronto dialettico i giochi di parole tipici degli eristi. Che l’uno e l’ente, in particolare, si dicano molteplicemente, è poi decisivo nella critica di Aristotele all’eleatismo e all’idealismo, e la sua confutazione della possibilità di intendere i due termini come generi introduce un complesso di innovazioni teoriche di portata vastissima. Heidegger, tuttavia, spinge la lettura del tÕ ×n lšgetai pollacîj ben oltre il testo, vedendovi un’asserzione di natura fondamentale intorno all’essere: non «la parola “ente” si dice in tanti modi», bensì: «l’essere si dice»… e il pollacîj per il momento è messo da parte, per essere poi recuperato nella teoria delle epoche della verità18. L’essere si dice, l’essere è qualcosa di detto, è detto dal logos, lšgetai…: non sembra molto distante da quel che asseriva Nietzsche e probabilmente non è molto distante da quel che diceva Aristotele, eppure Heidegger non si limita a mettere in secondo piano il pollacîj, ma intende il lšgetai in senso riflessivo e non come il passivo che è: non dunque «l’essere viene detto», ossia «lo diciamo» in tanti modi, bensì «l’essere dice se stesso», «si dice», si pronuncia. Tesi nella quale è piuttosto evidente che risuoni ancora il Verbum della tradizione giovannea. Che tale Sage des Seins avvenga poi ancora tramite il logos umano, non può più impedirgli di pensare, prima e dietro di esso, un altro Logos, questa volta con la lambda maiuscola, cui poi cercherà negli anni di dare tanti nomi: da ciò il tema dell’ascolto, del de-
18 Cfr. M. Heidegger, Aristoteles, Metaphysik Q 1-3: Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft, Freiburger Vorlesung Sommersemester 1931, Gesamtausgabe Band 33, hrsg. von H. Hüni, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. Main 19902, p. 15, ove nel discutere tematicamente del pollacîj, Heidegger individua nella kathgor…a “das ausgezeichnete Sagen des Seienden in jeder einzelnen Aussage über je dieses oder jenes Seiende; die Kategorie: die Sage des Seins im Aussagen (lÒgoj) des Seienden” (tr. it. di U. Ugazio in Id., Aristotele, Metafisica Q 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, Mursia, Milano 1992, p. 16: “il dire per eccellenza l’ente in ogni singola enunciazione su questo ente e su quello; la categoria, ossia il dire dell’essere nell’enunciazione (lÒgoj) dell’ente”).
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stino, dell’Ereignis e così via in un vortice di implicazioni e complicazioni, che porteranno la sua ontologia sempre più vicino alla mistica e alla poesia. E tuttavia tramite ciò – invero soprattutto tramite il modo in cui questa intuizione di fondo si concretizza in una lunga serie di letture e analisi acutissime, non solo intorno alla tradizione metafisica – si consolida una comprensione certo più profonda dell’ontologia, di ciò che è stata e di ciò che può essere, dell’ontologia non come mero discorso metafisico intorno all’ente, come voleva ancora Nietzsche, ma come coimplicazione originaria di logos e on, come la realizzazione, lunga due millenni e mezzo e pervasiva di ogni dimensione dello spirito occidentale, della massima parmenidea: tÕ g¦r aÙtÕ noe‹n ™st…n te kaˆ e|nai (DK 28B3). Ma cosa vuol dire realmente che noe‹n e e|nai sono lo stesso, cosa si nasconde in questa equazione, in questo punto interrogativo se vogliamo, che la filosofia trova ai suoi inizi e che arriva ancora fino all’opera, a modo suo monumentale e inaggirabile, di Heidegger? Ebbene, è qui che la questione heideggeriana supera la revoca nietzschiana della metafisica, che tale questione si autonomizza realmente dalla metafisica e assume un altro carattere, che le è del tutto proprio, poiché nell’implicazione primaria ed elementare tra logos e on è implicita l’impossibilità di ridurre e risolvere il problema in chiave gnoseologica, logica o semantica. Che è precisamente quel che Hegel, contro Kant, aveva visto e a cui aveva risposto, nell’organismo teorico perfetto della sua Logica: non si può rendere conto logicamente dell’essere, poiché l’essere (invero l’unità di essere e nulla) è l’inizio del logos stesso, la sua condizione. Per questo la logica dell’essere è filosofia prima, ontologia e metafisica al tempo stesso. La tesi hegeliana rappresenta la soluzione più perfetta, complessa, organica, compiuta e inattaccabile della teoresi moderna, la sua Logica è l’unico libro paragonabile, per perfezione formale e radicalità speculativa, all’insieme dell’Organon e della Metafisica di Aristotele, che contiene compiutamente in sé, superandone ogni asperità ed esteriorità al concetto. E proprio per questo è il libro più ingannevole della tradizione filosofica occidentale: l’ipostasi compiuta, nonostante il suo carattere processuale 24
o magari grazie ad esso, e l’equazione senza residui dei suoi pregiudizi fondamentali, dell’uno, dell’ente, del tutto, dell’idea e di dio. Che questa opera sia stata possibile dopo l’illuminismo e Kant, e proprio in nome della ragione, è forse un indice del fatto che la critica ai pregiudizi o alle forme a priori dell’intelletto non aveva colto le loro radici più profonde, le ragioni più profonde. Può dirsi forse lo stesso relativamente alla critica nietzschiana alla metafisica, se dopo di essa è stato possibile Essere e Tempo? Che certo ha messo agli atti la «Fine della Metafisica», ma per far risorgere proprio dal suo disfacimento l’ontologia come teoria della coimplicazione essenziale tra essere e logos, come teoria dell’«essere che si dice e come si dice». L’impostazione nietzschiana, in effetti, a differenza di quella illuministica, empiristica, razionalistica o kantiana, ha una natura più vicina a quella hegeliana e, per certi versi, a quella aristotelica, proprio nella misura in cui è genealogica: non si chiede solo per quali forme o per quali abitudini, per quali necessità o errori, sviste e pregiudizi, siamo condotti a dire cose che non hanno un significato, come ancora farà molto ingenuamente il neopositivismo, ma si chiede come nasce e come evolve, come muta e come si cristallizza un concetto, un’idea, un pensiero, un pregiudizio o una precomprensione, e che capacità ha non solo di afferrare, ma anche di agire sul mondo. E cerca di rispondere vedendo perché ciò avviene, non in senso meramente causale, bensì in vista della ragion d’essere, della necessità concreta cui rispondono certe creazioni del linguaggio e dello spirito. Se si vuole, è una spiegazione anche strutturale, dove però la struttura non è quella marxiana dell’ordine dei rapporti di produzione e la sovrastruttura non semplicemente l’ideologia, ma la prima è la vita e la seconda sono le forme elementari del pensiero stesso così come si costituiscono nella lingua, quel che Nietzsche chiamava la “metafisica della grammatica”. «Cosa ha avuto bisogno di credere, di consolidare e fissare, un essere vivente come l’uomo per sopravvivere? Come in realtà ha fatto, giacché è sopravvissuto»: questa, parafrasando, è l’impostazione della domanda di Nietzsche. Che egli pone riguardo ai concetti e sentimenti morali, così come riguardo ai 25
primi elementi di ogni teoria e metafisica, a partire dall’essere. E la risposta la conosciamo: ha avuto bisogno di un mondo fisso, affidabile, riconoscibile. Innanzitutto in vista della sua gregarietà, del suo essere animale sociale, quindi a partire dall’origine dialogica del linguaggio, che non è inizialmente strumentario per la descrizione del mondo e degli enti, come lo pensa la genealogia positivistica, bensì armamentario per l’intesa reciproca, a partire dalla comprensione del comando e dell’avviso, dell’indicazione. Quel che si indica è l’oggetto condiviso del mondo comune, è la cosa qual è per tutti noi, è quel che tu devi riconoscere quando te la indico, soprattutto quando è carica di minaccia, quando incute paura e porta pericolo. È in questa radice sociale e dialogica del discorso, è nella sua interpellazione e indicazione, che Nietzsche trova le ragioni genetiche dei concetti fondamentali, delle forme elementari del logos: nient’affatto, dunque, in un appello dell’essere, quanto in un’interpellazione del tu19. Eppure, il discorso genealogico non esaurisce quello ontologico: certo lo precede quanto all’oggetto e, infine, lo sussume nella teoria, e tuttavia è così stretto il nodo tra l’essere e il logos, che un’ontologia rimane non solo possibile, ma anche necessaria e logicamente preliminare. Per una ragione sostanziale: che il logos non riesce neanche a dire la genealogia senza dire l’essere, non riesce a dire l’uomo, non riesce a dire il tu, non riesce a dire la parola o la cosa, il mondo comune, l’indice, l’intesa, il pericolo. Il logos, in effetti, non parla senza l’essere: come spiegare, dunque, l’essere a partire dal logos? Questa è la ragione cruciale, per cui un’ontologia deve precedere la genealogia, anche se poi viene riassorbita in essa, anche se poi rientra nella storia dell’uomo come quello strano animale che a un certo punto comincia a 19 Riguardo all’origine del linguaggio, Nietzsche insiste soprattutto sugli elementi del “comando” e sul “diritto signorile di imporre nomi” (cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di F. Masini in Opere..., cit., Vol. VI, t. II, p. 15). Per un’elaborazione del tema dell’interpellazione in chiave di paleoantropologia della tecnica, cfr. N. Russo, Genealogia del linguaggio, in M. Castagna (a cura di), Interdit. Essays on the origin of Language’s, monographic issue of “Sistemi Linguistici”, 1/2012, Paris-Cluj 2012, pp. 161 ss.
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parlare. E non può rientrarvi solo come, ipotetica e difficilissima, teoria (prei-)storica e genealogica, se si vuole anche psicosociale, della nascita del linguaggio, non solo perché al riguardo ne sappiamo troppo poco, ma perché già per poter cominciare a parlare di qualcosa del genere noi dobbiamo fare luce su quel che il linguaggio porta inscritto in sé, poiché la sua eredità prefigura sempre ciò di cui parla, ovviamente anche quando questo sono le sue stesse origini. In altri termini: se noi cominciassimo a dire: «Quando l’uomo appena nato voleva indicare una cosa emetteva suoni articolati in maniera ordinata e riconoscibile» – ecco un’impostazione che Nietzsche avrebbe chiamato da genealogisti inglesi –, forse descriveremmo quel che noi vedremmo, se mai potessimo assistere ad una scena del genere, ma è del tutto plausibile, che pur vedendola e sapendola descrivere in maniera tale che un nostro contemporaneo possa farsene una rappresentazione piuttosto verosimile, non avremmo compreso niente di quel che, in effetti, stava accadendo. E questo perché quel processo è già avvenuto e noi stessi ne siamo il risultato, da capo a piedi: cos’è, infatti, un uomo, cosa un’indicazione, cosa un suono articolato, cosa l’ordine e la riconoscibilità, cosa una cosa? Parole il cui senso ci appare lampante – anche se magari poi non sappiamo renderne concettualmente conto e rimaniamo ancora perplessi –, solo perché quel processo è avvenuto, solo perché grazie a ciò siamo sopravvissuti e divenuti quel che siamo. Noi siamo sopravvissuti nominando enti, indicandoceli, riconoscendoli, comunicandoceli, agendo di conseguenza: ma che cosa sia avvenuto precisamente con ciò, noi non possiamo saperlo solo da ciò, anzi non possiamo saperlo affatto da ciò, poiché tutto quel che sappiamo lo sappiamo grazie a ciò. Quando, insomma, comprendiamo la spiegazione genetica in maniera astorica, e quindi non genealogicamente, noi comprendiamo lo sviluppo a partire dai suoi esiti, grazie ai suoi esiti, il che implica necessariamente che non comprendiamo proprio i suoi inizi, poiché il presupposto e il senso stesso di quella spiegazione è che agli inizi qualcosa non c’era e che c’è dovuto essere per assolvere alla funzione per cui c’è poi stato, funzione 27
che prima del suo esserci non era possibile. Presupponiamo insomma la funzione di ciò di cui vogliamo intendere l’inizio come causa del suo inizio, confondendo tšloj e ¢rc», immaginandoci una mancanza dove c’era semplicemente un’assenza, la mancanza di un mezzo per uno scopo impossibile senza di esso come origine di quel mezzo. Per fare un esempio, banale ma istruttivo, non possiamo rendere conto della nascita del linguaggio come strumento per comunicare informazioni (o anche semplicemente «cose»), poiché una cosa simile è stata resa possibile proprio dal linguaggio, non esisteva come possibilità prima di esso e non poteva quindi neanche essere un’esigenza o un’opportunità, prima di esistere20. Eppure è questa la via normale delle spiegazioni, anche di quelle scientifiche, una via che non fa i conti con la storia e neanche con la logica. Relativamente al nostro discorso, questo significa che la tesi di Nietzsche ha bisogno di un’integrazione, che egli in realtà nell’ultima fase del suo pensiero cercò anche di fornire, indicando gli impulsi fondamentali, fisiologici ancor prima che gnoseologici, tramite i quali si condensano, nel logos come nel mondo, “puntuazioni” relativamente individuali e durevoli e quindi prefigurazioni delle cose e degli enti. Eppure una spiegazione di questo tipo, per quanto potesse essere allora, almeno in una certa misura, coerente con i dati delle scienze positive, per quanto possa essere resa ancor oggi coerente con quel che sappiamo dell’estrema mutabilità e compositezza degli enti naturali, che a stento possiamo identificare in quanto unità o forse niente affatto, neanche nella loro dimensione atomica e subatomica o in termini puramente dinamici, per quanto dunque anche plausibile noi volessimo considerare questa immagine filosofico-scientifica delle cose, di questi composti mutevoli che il pensiero in
20 Lascio da parte, qui, l’enorme superfetazione che ha subito il concetto di «informazione», che oramai viene applicato ovunque, anche fino agli scambi chimici negli organismi: evidenzio solo il fatto che in ogni occasione, dalle informazioni scambiate nei linguaggi animali alla comunicazione cellulare o ecosistemica, è sempre quel che avviene alla fine che viene usato per spiegare i suoi inizi, con un circolo vizioso in re che è logicamente del tutto insensato.
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qualche modo sintetizza in «cose», tuttavia rimarrebbe incompleta. Sia che noi pensiamo alla genealogia dell’idea di essere dal soggetto o dall’io o dalla volontà, sia che pensiamo alla sintesi delle cose dalla loro individuazione concreta e dinamica entro uno spazio di interazione di forze, energie o anche mere possibilità, noi rimaniamo sempre radicati nell’ente, non possiamo eluderlo, radicalmente non possiamo. Nietzsche scrive: “Noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione. Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto di «cosa»… L’essere viene ovunque pensato, interpolato come intima causa delle cose”21. E altrove: “Per poter calcolare, abbiamo bisogno di unità, ma non per questo è da accettare che tali unità esistano. Abbiamo preso a prestito il concetto dell’unità dal nostro concetto dell’«io», il nostro più antico articolo di fede. Se non ci ritenessimo delle unità, non avremmo mai formato il concetto di «cosa»”, la cosa, nei limiti in cui ha senso parlarne, è sempre una struttura complessa di durata relativa entro il divenire, ossia entro l’assenza di cose come una cosa…22. Queste conclusioni a cui arriva la scepsi radicale di Nietzsche intorno ai concetti fondamentali della metafisica sono, a mio vedere, irrinunciabili. E tuttavia è evidente che esse approc-
21 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 72, ove si legge anche: “Il pregiudizio della ragione ci costringe a fissare unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere”. 22 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di S. Giametta, in Opere…, cit., Vol. VIII, t. III, fr. 14[79], pp. 48 ss. In F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, tr. it. di S. Giametta, in Opere…, cit., Vol. VIII, t. II, fr. 9[91], p. 42, leggiamo: “Se rinunciamo al soggetto agente, rinunciamo anche all’oggetto su cui si opera. La durata, il restare uguale a sé, l’essere non ineriscono né a ciò che si chiama soggetto, né a ciò che si chiama oggetto: sono complessi dell’accadere, apparentemente duraturi in relazione ad altri complessi”. Cfr. anche ivi, fr. 9[62], p. 29 e fr. 11[73], p. 247.
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ciano un limite del linguaggio23 e necessitano perciò di un chiarimento: che significa, infatti, proiettare in tutte le cose qualcosa che crea il concetto di cosa? E, al di là del fatto che esista o non esista e di come possiamo mai farne un uso se non esiste, che cos’è un’unità? Tutto ciò ci appare come da sempre già saputo e ovvio, e tuttavia non sappiamo bene di cosa si tratti, anzi, non riusciamo neanche a porre la domanda, quando chiediamo di cosa si tratta nella cosa… Ecco: questo è quel che Heidegger, citando proprio all’inizio di Essere e Tempo il Sofista di Platone, ha riscoperto, che ha messo in luce in maniera inequivocabile e insuperabile, ossia che senza una risposta alla domanda circa l’essere, ogni altra domanda e risposta è come appesa a un punto interrogativo. E, in qualche modo, sempre pregiudicata, proprio da quel che crediamo di sapere sin dall’inizio e sempre e che tuttavia non sappiamo dire. E allora, nonostante ogni decisione antimetafisica e propensione per l’indagine genealogica, l’ontologia, nel senso di questo nesso inscindibile della domanda sul logos e sull’ente, rimane, anche in un’ottica indirizzata a Nietzsche, la «filosofia prima», quella che almeno formalmente, logicamente, viene innanzitutto, poiché non riguarda nulla e tuttavia riguarda tutto, come è invero proprio anche alla filosofia nel suo complesso. Ma che sia, appunto, la domanda non sull’ente, bensì sulla coimplicazione di logos ed ente, sul modo, sul senso e sulle conseguenze, del fatto che il logos dice innanzitutto e sempre l’ente24. Questo il primo senso in cui parlo di ipotesi: essa è ciò che viene prima, è la premessa del logos, la sua mossa originaria. In tal senso l’ontologia non è più teoria dello on, ma è il logos dell’ente. 23 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, in Opere…, cit., Vol. VIII, t. I, fr. 5[22], p. 183: “Noi cessiamo di pensare se non vogliamo farlo nella costrizione linguistica, giungiamo persino al dubbio di vedere qui una frontiera come frontiera”. 24 Che è poi già la tesi guida della Metafisica di Avicenna, cui Tommaso non si stanca di fare riferimento: cfr. Tommaso, L’ente e l’essenza, a cura di P. Porro, Bompiani, Milano 20093, p. 76; Id., Sulla Verità, a cura di F. Fiorentino, Bompiani, Milano 2005, pp. 118 ss. e Avicenna, Metafisica, a cura di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 20062, p. 69.
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I.4 Ente e niente Da questo punto di vista, è evidente che l’ontologia come la si intende oggi è solo uno dei modi in cui si sviluppa una particolare tassonomica, del tutto legata a un modo determinato in cui si dice l’ente, ossia l’ente come «oggetto», per cui è qualcosa di completamente differente, posteriore, derivato e storicamente iperdeterminato, rispetto all’ontologia in senso radicale, rispetto al senso che proprio la storia dell’ontologia, dall’antichità, al medioevo fino alla modernità, mostra essere stato sempre intimamente presente, anche laddove era meno evidente. Quel che infatti dimostra la rilettura dei classici della filosofia antica e medievale è proprio questo: che una sorta di «ipotesi ontologica», almeno nella sua impostazione problematica elementare appena determinata, serpeggia ovunque e in alcuni punti arriva quasi alla sua piena definitezza, anche nei luoghi dove meno ce l’aspetteremmo: penso soprattutto a Tommaso d’Aquino, ove è inconfondibile, oltre che allo stesso Platone, che era certo consapevole anche della sua dimensione più problematica25. Un dato per nulla banale, che da un lato dimostra come in filosofia non si inventa mai niente, come ogni ricerca, per quanto personale e radicale voglia essere, si trova sempre di fronte agli stessi problemi e alle stesse soluzioni, e dall’altro che la grande sintesi nietzschiana della storia della metafisica, la storia di Come il «mondo vero» finì per diventare favola, cui poi Heidegger dà una struttura complessa e variamente articolata, la sintesi che vede l’inizio nella verità di Platone e la fine nella cancellazione zarathustriana della differenza tra verità e apparenza26, è in qualche modo incompleta, in qualche modo ignora un’evidenza, l’evidenza, per dire solo quella più eclatante, che il creatore della metafisica è stato sin dall’inizio il suo più grande critico. E che lo è stato proprio quando più direttamente si è confrontato con la questione ontologica, nella maniera più chiara nel Sofista e nel Parmenide27. 25
Esemplari le considerazioni in Tim. 38a9-b5. Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 75 s. 27 Al riguardo cfr. N. Russo, Nichilismo del logos. Il «veramente falso» nel 26
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Sia chiaro che non è solo una questione storiografica, anzi non lo è affatto, è invece una questione teorica rilevante, poiché riconoscere quella vena che, tramite il nominalismo e il criticismo, porterà all’annuncio del nichilismo in Nietzsche, già nei primi passi della fondazione platonica della metafisica, dimostra come il nesso tra ontologia e nichilismo non è peculiare solo di una certa fase della filosofia, ma agisce sin dall’inizio come sua tensione di fondo: la questione dell’ente, in altri termini, è sin dall’inizio la questione del ni-ente, che è per il logos uno spettro, poiché mette in discussione la sua stessa consistenza, nella misura in cui il logos è innanzitutto e sempre logos dell’ente. Sulla portata di questa minaccia si misura la grandezza dell’opera di Platone, grande innanzitutto nel rendersi conto che qui era la minaccia, grande nel confrontarsi instancabilmente e sempre in maniera nuova con essa, ancor più grande nel riscoprirla ancora intatta nella sua teoria delle idee, con la quale aveva cercato di sventarla, teoria che una volta costruita comincia egli stesso a smontare. Quale esigenza teorica porta con sé questa evidenza? Quella di mostrare come nell’ontologia stessa, intendo dire proprio nel nesso logos-on, sia implicita la negazione, come già solo in quanto tale il logos dell’ente sia logos del niente. E poi, in seconda battuta, come ciò si articoli teoricamente nei suoi momenti strutturali e cosa complessivamente ne derivi. Nell’affrontare questo compito tramite una ricapitolazione della storia della metafisica, si percorre evidentemente una via in qualche modo a ritroso rispetto a quella seguita nell’effettivo dispiegamento dell’ipotesi ontologica, che si muove all’inizio in un ambito puramente teorico, se vogliamo anche puramente speculativo, per arrivare da questo a confrontarsi con la tradizione metafisica e oggi nuovamente con Heidegger. Complessivamente, però, i due momenti non sono separabili, poiché sin dall’inizio l’intento non è stato quello di proporre una qualche teoria ontologica originale – di originale nell’ipotesi ontologica c’è solo la sottolineaSofista di Platone, in AA.VV., La filosofia come esercizio del render ragione, Loffredo Editore, Napoli 2012, pp. 615-627.
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tura di un tratto di quel che tutta la tradizione ha saputo –, ma di fare i conti con l’ontologia, di affrontare il suo nodo reale, cercando di comprendere intorno a cosa si stringesse e cosa lo rendesse un ostacolo necessario, o se vogliamo anche un’occasione, per ogni pensiero filosofico radicale. È per questo che il suo svolgimento complessivo chiama sempre in causa la tradizione e si intreccia indissolubilmente con essa.
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II L’incipit di Essere e Tempo
II.1 L’essente e il senso dell’essere Non di rado ciò che rende un filosofo decisivo è la sua capacità di porsi radicalmente contro il proprio tempo, vale a dire non solamente la necessità interiore che lo spinge a tale contrapposizione e che condivide sempre con molti dei suoi contemporanei, ma il fatto che egli appunto vi riesca, che proprio nel momento in cui ne prende le distanze, egli incida nel proprio tempo un segno destinato a mutarlo. Per quanto di certo non sufficiente, la prima condizione di un simile successo è ovviamente nella comprensione profonda della propria epoca, di cui proprio l’apostata diviene così un interprete privilegiato, al punto che a distanza di generazioni – pensiamo a Hegel – non risulta neanche più evidente la profondità del contrasto iniziale. Qualcosa di simile è avvenuto anche con Essere e Tempo, l’opera con cui, per molti versi inopinatamente, Heidegger ha risollevato nel ’900 la questione ontologica, in apparenza messa oramai agli atti, ponendosi sin da subito ed esplicitamente nel solco della tradizione che va da Platone ad Aristotele fino alla Logica di Hegel1, tradizione di cui ha reso visibile l’unità nel segno di un’ontologia come teoria del nesso ontologico, piuttosto che dell’essere o dell’ente. Un’opera che rimane, però, incompiuta, nel senso forte che non realizza il suo progetto per ragio1 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 19765, p. 17.
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ni che derivano dalla sua stessa impostazione iniziale, come Heidegger in sostanza riconosce nella nota preliminare alla 7a edizione, scritta a 25 anni dalla pubblicazione, ove prende atto dell’impossibilità di completare con la prevista seconda parte il capolavoro del ’27, senza la riesposizione della prima, ossia senza una sua sostanziale rielaborazione. Compiutamente egli non farà né l’una, né l’altra cosa, pur sostenendo che “la via aperta resta ancor oggi necessaria, se il problema dell’essere deve ispirare il nostro esserci”2 – wenn die Frage nach dem Sein unser Dasein bewegen soll: deve muovere il nostro esserci, di un movimento che è condotta, ¢gwg» e periagwg». Quella nota segna dunque un’impasse della domanda, il suo rimanere aperta e ancora cruciale, per il nostro stesso esserci cruciale, eppure non più esauribile nel contesto della sua posizione iniziale; constatazione che dobbiamo avere chiara nell’affrontarla, per cercare di comprenderne sin dall’inizio i limiti intrinseci. Nella stessa nota, “per un’ulteriore delucidazione”, Heidegger rimanda alla Einführung in die Metaphysik del ’35, corso universitario coevo al confronto sistematico con Nietzsche e che inizia con la celebre “domanda metafisica fondamentale”, la più “vasta”, “profonda” e “originaria”, la prima per “rango”: “Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?”3. Questa domanda, come avviene in tante altre circostanze nella tradizione filosofica, e per ragioni intrinseche alla logica dell’ente, pone sin dall’inizio insieme la questione dell’essere e del nulla, anzi, pone propriamente la questione dell’essere come domanda sul nulla: perché non il nulla? La metafisica è nel suo complesso la risposta, ogni volta diversa, a questa stessa domanda sull’essente e sul non non-essente, sul perché dell’uno e dell’altro, dell’uno in quanto l’altro. Eppure in questo suo rispondere, sostiene Heidegger, la metafisica perde di vista proprio l’essere, nella misura in cui prende le sue misure solo dall’ente: anche a ciò allude l’esergo 2
Ivi, p. 13. M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, tr. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1968, pp. 13 ss. 3
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di Essere e Tempo, con la sua famosa citazione dal Sofista di Platone: “… dÁlon g¦r æj Øme‹j mûn taàta (t… pote boÚlesqe shma…nein ÐpÒtan ×n fqšgghsqe) p£lai gignèskete, ¹me‹j dû prÕ toà mûn ñÒmeqa, nàn d’ºpor»kamen…: è infatti chiaro che voi queste cose (che cosa intendete designare quando pronunciate la parola essente) le conoscete da tanto tempo, noi invece prima credevamo di conoscerle, ma ora ci siamo arenati nel dubbio” (Soph. 244a5-8)4. Due annotazioni sono subito necessarie, non solo per amore di precisione, ma perché aiutano a comprendere meglio il contesto dell’ontologia antica al quale si riferisce Heidegger e quindi a giudicare meglio l’operazione teorica che sta compiendo. Innanzitutto, “queste cose” (taàta) di cui qui lo Straniero di Elea parla non sono affatto il significato di «essente», come Heidegger sostiene aggiungendo quella frase in parentesi, bensì la dottrina fisiocratica dei contrari come principio primo delle cose, dottrina che appare allo Straniero di Elea incomprensibile, o meglio incoerente, perché pone due essenti originari differenti senza chiarire in che modo sono entrambi gli originariamente essenti – e dunque uno stesso – e tuttavia differenti – e dunque l’uno non essente l’altro. Da ciò deriverebbe che sono tre i principi, i due contrari più l’ente, se è mai possibile pensare una simile triade, oppure uno solo, l’ente stesso, in cui i due principi si riuniscono e da cui si separano (cfr. Soph. 243d9-244a2). Per questo egli chiede loro: “ma cosa volete designare quando dite essente?”, riferendo questa parola a entrambi i contrari primi.
4 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 14. Il testo che Heidegger mette tra parentesi per esplicare l’oggetto di cui si tratterebbe, nell’originale precede il passo citato e non è ciò a cui esso propriamente ed esclusivamente si riferisce. Nella traduzione heideggeriana i due pezzi sono inestricabilmente fusi: “Denn offenbar seid ihr doch schon lange mit dem vertraut, was ihr eigentlich meint, wenn ihr den Ausdruck «seiend» gebraucht, wir jedoch glaubten es einst zwar zu verstehen, jetzt aber sind wir in Verlegenheit gekommen” (nella tr. it. di Chiodi: “è chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità”).
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In questa aporia si mostra in tutta evidenza uno dei tratti fondamentali dell’«ente», il suo dirsi necessariamente di ogni cosa, anche dei contrari, ossia dei reciprocamente non essenti, dunque anche del non-ente. Proprio perché si dice di tutto, proprio perché è prima e sovrastante rispetto a ogni distinzione, si dice anche della sua negazione, ossia afferma anche la sua negazione: questa la sostanza dell’aporia parmenidea così come l’affronta Platone. E, infatti, la domanda che Heidegger isola intorno a ciò che si designa dicendo «essente» è posta nel Sofista come questione preliminare per rispondere esattamente all’aporia del non-essente, del ni-ente: solo poche righe prima lo Straniero di Elea aveva espresso una considerazione del tutto analoga a quella citata da Heidegger non rispetto allo Ôn, bensì al m¾ Ôn, e aveva connesso le due questioni. Citando brevemente e alla rinfusa alcune tesi dei fisici – “quando qualcuno di loro si pronuncia dicendo che sono o sono divenuti o divengono i molti o l’uno o due…” –, esce nell’esclamazione: “toÚtwn, ð Qea…thte, ˜k£stote sÚ ti prÕj qeîn sun…hj Óti lšgousin; ‘Egë mûn g¦r Óte mûn {n neèteroj, toàtÒ te tÕ nàn ¢poroÚmenon ÐpÒte tij e‡poi, tÕ m¾ Ôn, ¢kribîj õmhn sunišnai. Nàn dû Ðr´j †n’™smûn aÙtoà pšri tÁj ¢por…aj […]. T£ca to…nun ‡swj oÙc Ãtton kat¦ tÕ ×n taÙtÕn toàto p£qoj e„lhfÒtej ™n t? yuc? perˆ mûn toàto eÙpore‹n famen kaˆ manq£nein ÐpÒtan tij aÙtÕ fqšgxhtai, perˆ dû q£teron oÜ, prÕj ¢mfÒtera Ðmo…wj œcontej: Ma per gli dei, Teeteto, riguardo a tutto ciò tu intendi ogni volta qualcosa di quel che dicono? Da parte mia, infatti, quando ero giovane, quando qualcuno diceva ciò che ora lascia senza vie di uscita, il non essente, credevo di intenderlo esattamente. Ora vedi invece in che situazione senza vie di uscita ci troviamo rispetto a ciò […]. Forse allora, pur portando nell’anima la stessa identica sensazione non di meno circa l’ente, rispetto a questo diciamo di avere la via aperta e di sapere compiutamente quel che uno dice quando lo pronuncia, mentre dell’altro no, pur essendo nello stesso stato riguardo a entrambi” (Soph. 243b3-c6). È da questa constatazione, da questo p£qoj dell’anima, che parte poi l’indagine circa l’ente, dal riconoscimento che l’aporia 38
del non essente è l’aporia dell’ente e che quest’unica aporia è decisiva riguardo alla conoscenza dell’essere e del divenire delle cose: “dicendo che sono o sono divenuti o divengono…”. La questione, dunque, non riguarda astrattamente l’essere, ma la difficoltà in cui ci troviamo dicendo le cose, la difficoltà che nasce dal fatto che, proprio dicendo che sono (o anche che divengono), intrinsecamente le neghiamo, e viceversa. E Platone sottolinea chiaramente e in più modi il carattere logico di tale difficoltà, nel senso proprio della parola, del dire e pronunciare, dell’ascoltare e recepire: usa, infatti, il verbo fqšggomai – emetto un suono, chiamo, nomino – e pone la questione di cosa noi sentiamo e quindi recepiamo in quel suono, usando molto precisamente un verbo, sun…hmi, che è l’esatto corrispettivo di fqšggomai. †hmi, infatti, significa «mandare», ma già a partire dall’Iliade è usato anche nel senso di «mandare un suono», emettere una fwn», uno fqÒggoj, addirittura parlare una lingua; se dunque †hmi è «mettere fuori» una parola, sun…hmi è qui «metterla dentro», accoglierla: e il verbo, infatti, oltre al significato elementare di «mandare insieme», significa esattamente «udire», «sentire», «ascoltare», ancora in Omero propriamente «una voce», «una parola», tinÕj œpoj, fqÒggon5. Da ciò derivano le accezioni: «accorgersi» e quindi «capire», «intendere» e così via. Cosa che va sottolineata, perché Heidegger, nel tradurre il passo platonico citato in esergo a Essere e Tempo e nell’interpretarlo, pone invece la questione nei termini della comprensione, del Verständnis, termini che sono molto differenti e distanti dagli originali. Per shma…nein, «designare», usa infatti meinen, che vuol dire «intendere» con forte accentuazione della componente soggettiva (la Meinung è in ultima analisi l’opinione). Per rendere poi coerente la sua interpolazione, in sostanza raddoppiando meinen nel suo corrispettivo, sostituisce semplicemente gignèskein, «conoscere», con verstehen, «comprendere»6. Sono 5 Cfr. Il. 2,182; Od. 6,289; e inoltre, solo uno dei tanti riferimenti ancora possibili, Soph., Ant. 1218. 6 È evidente, infatti, che nel testo greco ñÒmeqa si riferisce a gignèskete (e questo a taàta e non a t… pote boÚlesqe shma…nein…) e non certo a
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segni evidenti di quella che Heidegger stesso ci ha poi insegnato essere una delle caratteristiche della metafisica moderna e degli slittamenti concettuali che vi si verificano nella traduzione dei termini cruciali dell’ontologia antica, ossia il ripiegamento sul logos soggettivo e intenzionale della domanda sullo on. In dipendenza da ciò, egli imposta la questione come “domanda su ciò che noi propriamente intendiamo con la parola «essente»”: die Frage nach dem, was wir mit dem Wort «seiend» eigentlich meinen (e, incidentalmente, anche questo passaggio da “quel che voi indicate” a “quel che noi intendiamo” è molto significativo). Questa è la prima formulazione di quella che diviene immediatamente già qui, con uno scarto sul quale torneremo, la Frage nach dem Sinn von Sein, sul «senso» dell’essere, sul senso in cui intendiamo l’essere, domanda per rispondere alla quale, dice, vorrà interpretare il “tempo come orizzonte di ogni tale comprensione dell’essere”, Seinsverständnis7. Ora, poiché nel rileggere queste pagine non si ha di mira un’esposizione di Essere e Tempo, bensì un’indagine sul momento iniziale in cui la questione ontologica viene nuovamente posta, svolta al fine di comprendere in che senso rimane ancora aperta, vanno aggiunte alcune altre note al testo, che necessariamente lo superano. Ancor più del modo in cui Heidegger compone la citazione platonica, in qualche modo eludendo il contesto della posizione originale della domanda, infatti, è necessario sottolineare come nel tradurla operi due spostamenti essenziali rispetto a Platone: per quanto inizialmente traduca on con seiend, poi dice senz’altro Sein – e da lui stesso sappiamo che si tratta di due cose ben diverse. Circostanza che per il momento ci limitiamo a notare, con l’unica avvertenza che con questa semplice mossa egli è già andato completamente oltre l’impostazione dell’ontologia antica, che dunque assume come segnavia e al tempo stesso mette sostanzialmente da parte. In secondo luoshma…nein, che lì vi è semplicemente assente. L’affinità etimologica, più o meno plausibile, tra shma…nein e meinen è da un punto di vista teorico qui del tutto irrilevante, se non fuorviante. 7 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 14.
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go, come già notato, rende shma…nein con «intendere», laddove il significato originario è «designare», se si vuole anche «significare», ma nel senso di «indicare qualcosa contrassegnandola», non «assumere qualcosa in un certo senso», ma «nominarla» e in tal modo «mostrarla» a chi ci ascolta8. Si comprende che la differenza è enorme e che il testo platonico è così reso in un senso che non poteva avere nell’originale, poiché lì non era in questione il senso dell’essere, ma ciò che indichiamo dicendo essente, dicendo le cose essenti, innanzitutto dicendo gli opposti «essenti» e quindi al tempo stesso, l’un l’altro, non essenti. Posta, invece, la questione entro l’ambito della comprensione, evidentemente è già anche predisposto che il tempo, come orizzonte di tale comprensione, divenga la temporalità dell’esserci e non del divenire, come era proprio della tradizione antica, non il tempo dell’ente in quanto tale, ma di quell’ente, l’uomo, che alberga in sé la comprensione dell’essere9: così il progetto complessivo di Essere e Tempo è già compaginato sin dal suo primo inizio. Questi due spostamenti non sono per nulla marginali e non riguardano solo un’imprecisa resa dell’originale greco, ma annunciano una decisione fondamentale: il senso dell’essere si dà nella nostra comprensione, si dà nello spazio di ciò che noi intendiamo con la parola essere, ed è questa una ragione decisiva per la quale la questione ci riguarda così intimamente10. Resterà da vedere di che tipo è questa comprensione, quanta e quale la sua consapevolezza, e quali i luoghi e i modi per farla emergere, soprattutto quale il suo fondamento e se è davvero un fondamento, ma di fatto con ciò è anche già assunto che il senso dell’essere non riguarda il suo significato in quanto tale, ma colui per cui ha un senso o che gli dà un senso o che magari anche lo accoglie, ossia è intenzionale e storico nella stessa misura in cui lo è l’uomo. 8
Al riguardo è utile confrontare anche Met. 1006b9 ss. Nell’impianto di Essere e Tempo a tale differenza corrisponde, per certi versi, quella tra Zeitlichkeit e Temporalität, ma l’analisi compiuta di quest’ultima, demandata alla terza sezione della prima parte, ne condivide la sorte. 10 Cfr. ancora M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., pp. 9 ss. 9
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Ciò che una simile impostazione, che deve evidentemente ancora molto alla fenomenologia e ancor prima a Brentano, rischia però di lasciarsi sfuggire – che è poi ciò su cui il suo intento si infrangerà e in fondo proprio ciò rispetto a cui Heidegger a modo suo opererà una correzione, cercando di superare l’ipoteca antropologica di Essere e Tempo –, è che l’Essere precompreso in ogni essente, se assumiamo con radicalità il pre- della precomprensione, non è in alcuna misura «ciò che intendiamo», ma tutt’al più ciò che abbiamo già sempre inteso, ossia non ha alcun carattere propriamente intenzionale (se nell’intenzione deve risuonare un qualche tendere a qualcosa, una direzione orientata a…11): qualcosa come il senso dell’essere non può essere l’esi11 «Intentio» appartiene alle innovazioni terminologiche medievali, traduce termini arabi usati per nozioni antiche disparate come nÒhma o anche e|doj, e tuttavia non perde mai del tutto il suo significato originario: tensione, applicazione, attenzione, proposito. Implica dunque un qualche movimento: verso una prassi o verso un oggetto della conoscenza. Nel secondo senso, facendo prevalere le accezioni più «oggettive» di intentio (come «intelligibile» o «significato»), i medievali distinsero tra primae intentiones: le intellezioni delle realtà esterne (ossia dell’essentia rei extra), e secundae intentiones, che Tommaso chiama intentiones logicas: intellezioni di intellezioni analoghe ai nomina nominum (come genere, specie e differenza; cfr. Tommaso, L’ente e l’essenza, cit., p. 76 e Id., In Metaph., IV, lect. 4, n. 574: “l’ente è duplice: e cioè ente di ragione ed ente di natura. Ente di ragione si dice propriamente di quelle intenzioni che la ragione rinviene nelle cose considerate, così come l’intenzione del genere, della specie e simili, che non si ritrovano nella realtà, ma dipendono dalla considerazione della ragione. E l’ente di questo tipo, cioè l’ente di ragione, è propriamente l’oggetto della logica”). Sulla funzione di tale nozione per il passaggio da una logica come scienza del significato dei termini (scientia sermocinalis) ad una logica come scientia rationalis, ossia metalinguistica, cfr. A. Saccon, Intentio e intenzionalità nella filosofia medievale: il commento di Alberto Magno al De Anima, in «Rivista di Estetica» n. 14 (2/2000), pp. 71 ss. Evidente è comunque, nel passaggio dalla tradizione araba a quella medievale, l’accentuarsi dell’attenzione verso l’atto noetico piuttosto che verso la rappresentazione in cui si realizza: nonostante l’ambiguità residua della nozione, che continua a oscillare tra questi due poli, l’intentio va determinandosi sempre più, p.e. ancora in Tommaso, come termine del processo conoscitivo nel senso di id quo intelligitur e non id quod intelligitur, ciò grazie a cui si conosce e non quel che si conosce, che non è contenuto nell’intelletto, ma appunto intenzionato da esso. L’atto noetico rimane, proprio in tal senso, strettamente ontologico, ossia inscindibilmente relato ad un essente come suo riferimento esterno, così come lo è ancora in Husserl. Proprio per tale ragione appare impossibile
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to di una Sinngebung, di una «donazione di senso». Ovvero: noi non abbiamo alcun bisogno, anzi a rigori non possiamo neppure intendere attivamente – che non vuol dire consapevolmente – l’essere nelle cose, poiché al contrario possiamo intendere le cose solo perché abbiamo già, per rimanere solo per il momento entro il lessico heideggeriano, una precomprensione dell’essere. Si danno per noi «enti», cose che sono, solo nella misura in cui l’essere è già preliminarmente lì, non intenzionato nelle cose, che semplicemente, prima del loro essere, non vi sono già in quanto enti, ossia non vi sono affatto se gli enti sono gli essenti. Detto in una formula, da un punto di vista in senso ampio logico12 e in qualche modo rievocando il modo platonico di porre la questione: noi non possiamo intendere le cose come enti, perché se non sono già enti non sono e basta! Non abbiamo, insomma, un qualche oggetto di cui intendere in qualche modo l’essere, se non è per noi già un qualche cosa, ossia già un essente, qual è già sempre per ogni logos. Il che, a rigori, significa semun’intenzione dell’essere quando esso sia posto enfaticamente come non-essente: a rigori, proprio heideggerianamente, voler «sensare l’essere» significa essere rimasti nell’oblio dell’essere, della differenza ontologica. Al riguardo si veda lo snodo cruciale del corso del ’35, nel quale si annuncia la Kehre (cfr. M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, cit., pp. 83, 93 ss.): posta la distinzione tra parola, significato e cosa, Heidegger nota che alla parola «essere» evidentemente non corrisponde nessuna «cosa», non essendo l’essere un essente. La parola «essere» avrebbe sì un qualche significato, vi sarebbe conservata un’“intenzione significativa”, significato determinato e indeterminato al tempo stesso che rileviamo nella sua precomprensione; ma manca la cosa, c’è solo “l’essere stesso”... Tuttavia è evidente, nei termini della intentio, che se manca la cosa non può esservi neanche la sua significazione: è alla cosa che si appone un segno, che viene designata e significata nella sua essenza. Se si parte dalla cosa, allora, come si fa qui e ben più radicalmente che a partire dalla intentio, l’essere non ha senso, non è sensabile. Solo se si parte dalla «parola “essere”» e si assume che un qualche significato, giacché la (pre-)comprendiamo, deve pur averlo anche se non sappiamo bene qual è, allora appare plausibile un «senso dell’essere»... Per questa ragione, proprio dalla Kehre in poi, il linguaggio diviene così centrale, poiché in ultima istanza è proprio la parola «essere» che richiede e dà senso alla Seinsfrage. 12 Vale a dire non nel senso ristretto della logica formale, bensì in conformità con l’interezza e la complessità delle accezioni che ha il sostantivo logos da cui deriva.
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plicemente che non si può intendere il senso dell’essere di un essente, perché l’essente è già sempre. Ossia che il senso dell’essere è un controsenso, che non ha senso parlare del senso dell’essere di un ente13. Noi, infatti, possiamo intendere il senso di una cosa come una sua certa relazione, qualità, significato, etc., per noi o in generale, anche il senso della cosa che è la parola «essere», ma non il senso del suo essere, perché il suo essere è semplicemente il fatto che questa cosa è e non non-è, è un ente e non un non-ente. Il problema non è intendere il senso di ciò, ma capire cosa è posto insieme a ciò, sun…etai, cosa conviene e si accorda con ciò, cosa ciò comporta per il logos, in che misura è la sua condizione di possibilità fondamentale, ciò che sempre lo precede e che tuttavia, senza il logos, non c’è, poiché solo nel logos è detto l’essere. È in questo nodo che tiene uniti logos e on la 13 L’irriducibilità della precomprensione dell’essere all’intenzionalità ha la stessa radice dell’irriducibilità, constatata da Aristotele, dell’essere a genere sommo delle cose, quella che i medievali dissero la sua trascendenza, che gli deriva dall’essere assolutamente preliminare rispetto a ogni distinzione dell’intelletto. E tuttavia proprio nella speculazione medievale, soprattutto tomista, si estende lo spazio teorico entro cui è pensabile il «senso dell’essere», propriamente nella distinzione tra termini univoci, equivoci e analoghi. Posto l’essere come il primo analogo, ciò che si predica analogicamente di ogni cosa, e in tal senso non genere sommo (che si predica invece univocamente delle sue specie), è aperta la possibilità di pensare diversi modi dell’essere e dunque diversi sensi della sua predicazione: altro il modo d’essere della creatura, infinitamente altro quello di Dio, per quanto entrambi siano (è qui evidentemente il preludio delle distinzioni cartesiana e spinoziana tra i modi della sostanza). È invece molto netta la critica di Duns Scoto che contro quella dottrina dell’analogia ribadisce l’unità e univocità dell’ente, senza per questo ridurlo a genere. Il riferimento tradizionale della dottrina dell’unità dell’analogia alla Metafisica di Aristotele (1016b31-32; 1093b19) è comunque molto dubbio: Aristotele avrebbe forse detto che quella dell’ente è un’analogia del tutto accidentale e priva di contenuto. Ciononostante, all’origine di quelle speculazioni, che nel medioevo ovviamente sono anche condizionate teologicamente, è il processo che chiamo «verticalizzazione dell’ontologia» e che prende inizio con la distinzione dei gradi dell’essere nell’ontologia antica, in particolare in Platone e nello stesso Aristotele. Sull’insufficienza di un’indagine sul senso dell’essere nei termini, ancora rappresentativi, di un’ontologia fondamentale è comunque ben in chiaro lo stesso Heidegger (cfr. M. Heidegger, Introduzione a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, cit., pp. 328 ss.). Per una critica alla “riduzione al senso”, cfr. J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., pp. 153 e ss., in part. 183.
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vera questione, anche se è il logos stesso il luogo ove il nodo si stringe. Una chiara relazione con tutto ciò, da cui le deriva quella che chiamavo prima la sua impostazione post-ermeneutica – ma qui lo dico solo incidentalmente, limitandomi giusto a questo minimo accenno –, ce l’ha anche l’«ipotesi ontologica», nella misura in cui fa consapevolmente i conti con l’ipoteca in un certo senso propriamente ontologica che consiste nel pensare un’operazione del logos sulle cose, prima che le cose vi siano14.
14 Nella misura in cui l’impostazione dell’ipotesi ontologica comporta esplicitamente un ritorno dalla questione del senso dell’essere a quella della struttura dell’entità, in qualche modo rievocando la tinologia medievale, essa parrebbe implicare un arretramento della domanda. La domanda sul senso dell’essere non guarda alle categorie dell’ente, ma prima ancora alla categoria dell’essere (genitivo soggettivo), e quindi chiede cosa significa per un ente essere, a partire da ciò che lo invia nel suo essere. Ciò che significa per un ente essere appare una domanda sensata, per esempio, a partire da una possibile risposta: essere per un ente significa essere presente, esser venuto nella presenza; oppure essere ideale; oppure essere in atto (™nerge…v), etc… Ma innanzitutto è evidente che in ogni risposta si usa di nuovo l’essere (essere significa «essere x»). Inoltre (o meglio, proprio perché), l’ente deve già essere, perché si possa chiedere che significa il suo essere, ma così il suo essere precede già sempre il senso del suo essere, e quindi non viene mai colto dalla domanda sul senso! La questione non è evidente se poniamo la domanda così: che significa per una cosa essere? Che cosa comprendiamo per l’essere di una cosa? Quando riteniamo di poter dire che una cosa è? A quali condizioni? Quest’ultima è la domanda a cui il Sofista risponde con la dynamis, una domanda effettivamente sensata, che riceve lì una risposta notevole e in larga parte condivisibile, e tuttavia non è la domanda sul senso dell’essere. Rispetto all’intera questione, nell’ipotesi si predilige un’altra via: cercare non cosa significa essere, cosa di volta in volta pre-comprendiamo come essere degli enti, ma ancor prima come vi sono enti per noi e cosa questo porta con sé. Ciò che così trova può poi anche essere il sostrato sul quale porre una domanda circa il senso, ma non il senso dell’essere, bensì il senso dell’entità, dell’essenza! In che senso noi comprendiamo l’essenza (wesen e Wesen) degli enti? Questa è una domanda sensata, possibile solo ove gli enti già siano. Questo loro esser-già è invece sottratto alla domanda sul senso, poiché si costituisce in una struttura del logos precisamente determinata, è tale costituzione stessa. Andare oltre tale costituzione non è più affare dell’ontologia in senso stretto, ma della genealogia dell’essere, dell’antropologia del logos, della sua physiologia.
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II.2 I pregiudizi intorno al “concetto” di Essere Riprendiamo dunque il testo, con l’unica annotazione che nel passaggio dal “senso della parola «essente»” al “senso dell’Essere”, passaggio che come già notavo Heidegger attua con un’unica mossa proprio all’inizio di Essere e Tempo, avviene uno scarto, che in realtà apre un abisso. Ma è propriamente da qui che egli prende le mosse: la sua prima constatazione è che la domanda sul senso di Essere (von Sein) è caduta in oblio, nonostante il contemporaneo revival della metafisica, che procede inconsapevole della necessità di una rinnovata gigantomac…a perˆ tÁj oÙs…aj, espressione ancora del Sofista. Per cui Heidegger si dispone innanzitutto a mostrare il rango superiore e la necessità della domanda, sgombrando il campo da quelli che ritiene “pregiudizi” consolidati, in pagine che vanno qui ripercorse, sia perché proprio in questi “pregiudizi”, proprio nel loro carattere preliminare e generale, si esprimono alcuni dei modi elementari in cui l’essere si lascia pensare, sia perché Heidegger tratteggia qui magistralmente e con pochi riferimenti essenziali, anche rispetto alla tradizione filosofica del passato, il quadro entro il quale si pone la domanda e, al tempo stesso, mostra limpidamente la sua intenzione. Il primo pregiudizio riguarda l’universalità ed estrema generalità del “concetto” di essere: “Das «Sein» ist der «allgemeinste» Begriff: L’«essere» è il concetto «più generale»”15. Generalità, che renderebbe inutile interrogarsi su di esso: proprio perché è ciò che diciamo sempre e di ogni cosa, esso sarebbe ovvio e comprensibile da sé. Quel che noi propriamente diciamo, però, nel dirlo di ogni cosa, nota Heidegger, non è affatto ovvio ed evidente, anzi ci rimane per lo più celato nella sua provenienza e lo assumiamo senza conoscerlo. Questo cosiddetto pregiudizio, cui in realtà si riconnettono e riducono anche gli altri, e la sua esplicazione, sono di un’importanza assolutamente radicale, poiché già nella sua semplice posizione, nel suo rilevamento, è data una risposta di ordine preliminare, che Heidegger àncora
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M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 18.
con poche mosse alla tradizione. Vale la pena, però, di vedere da vicino queste mosse, poiché nella stessa misura in cui esse mettono in luce una sostanziale concordanza, cancellano però differenze molto importanti. Heidegger cita in sequenza Aristotele e Tommaso: tÕ Ôn ™sti kaqÒlou m£lista p£ntwn e Illud quod primo cadit sub apprehensione est ens, cuius intellectus includitur in omnibus, quaecumque quis apprehendit. E traduce insieme: “Una comprensione dell’essere è già implicita in tutto ciò che si conosce dell’ente”, per la precisione “Ein Verständnis des Seins ist je schon mit inbegriffen – concepito insieme dentro – in allem, was einer am Seienden erfasst”. Si comprende subito che la traduzione è a uso e consumo dell’impostazione heideggeriana della domanda come domanda nach dem Sinn, poiché in nessuno dei due originali c’è neanche lontanamente qualcosa come la comprensione dell’essere, così come non vi si parla affatto di concetti, Begriffe. E tuttavia Heidegger coglie il punto centrale e comune: l’ente è ciò che ogni cosa è, l’ente è ciò che è comune a tutto ciò che è e che viene conosciuto – koinÕn dû p©si tÕ Ôn ™stin (Met. 1004b20). In entrambe le citazioni, infatti, il nesso decisivo, sia nella forma della maggiore generalità – kaqÒlou m£lista – che in quella della preliminarità – primo –, è tra l’ente e i tutti: p£ntwn e in omnibus. Tutto, i tutti, ogni cosa, qualunque cosa, quaecumque, ›kaston – questo il termine fondamentale! – è un essente. Una cosa talmente ovvia, una tale cattiva tautologia in apparenza, che non se ne coglie tutta la portata e che, se non avessimo la testimonianza nientedimeno che di Aristotele e di Tommaso, ci apparirebbe come una chiacchiera insulsa. Il primo dice: “l’essente è il più generale di tutti”; e il secondo: “ciò che per primo, innanzitutto e preliminarmente, viene appreso nelle cose è l’ente, la cui intellezione è inclusa in tutto ciò che qualcuno apprende”. Intellezione che non è in alcun modo comprensione e intenzione, null’affatto. L’ente, in effetti, per Tommaso è il primo “oggetto proprio” dell’intelletto e l’ultimo “oggetto adeguato”: come puro ente fonda la possibilità stessa del passaggio dall’intelletto potenziale a quello agente, nella misura in cui costituisce il principio di unità intorno a cui è possibile correlare i 47
fantasmi della cosa e quindi conoscerne per astrazione l’essenza universale, mentre nella sua piena attualità, come actualitas omnium actuum e perfectio omnium perfectionum, ossia come esse ipsum subsistens, è l’assoluta e infinita verità, ossia Dio stesso16. Peraltro, ed è molto indicativo, Tommaso conclude questa sua tesi citata da Heidegger asserendo che “perciò il primo principio indimostrabile è che l’affermazione e la negazione sono incompatibili, poiché si fonda sulla nozione di ente e di non ente”. Come vediamo, immediatamente anche qui la preliminarità dell’ente è posta subito in relazione all’opposizione col non-ente e quindi in relazione alla negazione17. Detto questo, va però ribadito e chiarito che in entrambi i casi ciò di cui si tratta non è in alcun modo un concetto, nozione questa che entra in gioco solo molto più tardi, nel modo più compiuto proprio nella Logica di Hegel, ove la piena indeterminazione dell’essere lo rende un concetto potremmo dire non ancora concetto, ancora da concepirsi, quell’umbestimmte Unmittelbare che egli poneva sostanzialmente come «nulla» all’inizio del movimento del Logos, quasi come mera premessa di un cominciamento assoluto18.
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Cfr. Tommaso, Summa Theologiae I, q. 5, a. 2; I, q. 84, a. 7 e I-II, q. 3,
a. 4. 17 Cfr. anche Id., Sulla Verità, cit., pp. 120 s., ove affermazione e negazione vengono poste come possibilità elementari dell’ente in sé e da esse derivano i suoi primi trascendentali: la res dall’affermazione e l’unum dalla negazione (analogamente, rispetto all’ente non in sé, ma in ordine ad altro, divisione e convenienza, ossia ancora due modi dell’affermazione e della negazione, portano ai trascendentali aliquid e bonum-verum). A ben vedere, seguendo tale deduzione schematica dei trascendentali, Tommaso non fa che ricostituire la coppia parmenidea, platonica e aristotelica dello ›n e dello Ôn, dell’uno e dell’ente, seguendo peraltro un procedimento del tutto analogo a quello della gymnasia del Parmenide platonico (che si sviluppa appunto considerando di volta in volta l’uno-ente in sé e rispetto agli altri secondo l’affermazione e la negazione; cfr. Par. 136a5 ss.). L’analogia è chiara, però, solo se si ricorda che nella sua accezione greca Ôn non è, come ens in Tommaso, semplicemente il nome derivato ab actu essendi, ma ha già in sé tutta la pienezza dell’unità di ens, res e aliquid. 18 Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 20048, pp. 51 ss., 69 ss.
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In Aristotele, invece, per quanto il più generale di tutti, tÕ ×n non è una simile indeterminata immediatezza del pensiero, quanto piuttosto la prima e più generale determinatezza dello ›kaston, di qualsiasi cosa, del quodcumque che ancora Tommaso qui ripete e che è il nome più indeterminato dell’aliquid, non a caso uno dei trascendenti oltre l’ens e l’unum. E come altrimenti potrebbe proporsi Aristotele di dire t¦ toÚtJ Øp£rconta kaq’aØtÒ, se l’ente fosse privo di ogni costituzione e forma? L’ente, allora, potremmo dire un po’ generalizzando, è qui piuttosto il principio di unità della cosa, l’esser ogni cosa una cosa, ogni-uno dei qualunque uno che è, e insieme il suo principio di identificabilità, il suo concreto e oggettivo principium individuationis entitatis19, ma nient’affatto un concetto. Il che trova un conforto testuale molto importante proprio nel luogo della Metafisica che Heidegger cita ancora solo parzialmente: ciò che lì Aristotele si propone di indagare, infatti, è la natura dell’ente e dell’uno, non solo dell’ente, bensì congiuntamente di questi due termini assolutamente cruciali dell’ontologia antica, che già Platone aveva messo insieme al centro del suo Parmenide. E di in19 Propongo questa formula che è assente nella tradizione medievale e vi è tuttavia allusa nella critica alla materia come unico principium individuationis: l’ens è identificabile e individuabile innanzitutto a partire dalla sua essenza e forma, che rimane il primum anche relativamente ad ogni singolo «questo qui» individuato da una materia designata (cfr. Tommaso, L’ente e l’essenza, cit., p. 84 ss.). Ovviamente, come soggetto di tale «individuazione» non vanno pensati solo i singoli concreti, ma tutto ciò di cui si dice l’unità: in Aristotele anche i generi e le specie. In Tommaso, Sulla Verità, cit., p. 120, si legge che non invenitur aliquid affirmative dictum absolute quod possit accipi in omni ente nisi essentia eius secundum quam esse dicitur! Ossia, la prima affermazione del logos rispetto ad ogni ente è che tale ente è questo tale, che non si dà atto di essere se non di enti determinati, che ogni ente è in grazia della sua essenza, c’è in quanto è. È la sua essenza, di tutti e di ognuno, ciò secondo cui si dice essere: res, la cosa, questa tal cosa, questo reale esser così, essere questo. Non si può dire il c’è se non di un quid che c’è, di un quid quod est. La prima affermazione dell’intelletto, dunque, è l’essenza, la quidditas, attraverso cui il quasi notissimum che è l’ente (e di cui in sostanza non è noto niente) comincia a prendere forma, ad essere conosciuto veramente. Il primo trascendentale è dunque la res, che differisce da ens, e qui di nuovo Tommaso cita Avicenna, “quod ens sumitur ad actu essendi sed nomen rei exprimit quidditatem vel essentiam entis”.
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dagarli in ordine al loro essere o meno essenze delle cose, oÙs…ai tîn Ôntwn, problema che definisce nientemeno “di tutti tanto il più difficile da teorizzare, quanto il più necessario in vista del conoscere il vero” (Met. 1001a4 ss.), poiché evidentemente non si dà verità di un che se non conoscendo cos’è20. È un problema che Aristotele solleva spesso in chiave antiplatonica e che qui affronta – circostanza che vedremo essere rilevante – discutendo delle dottrine degli idealisti e dei fisici circa i principi di tutte le cose, che è poi ancora la questione della gšnesij intorno a cui si combatte la gigantomac…a perˆ tÁj oÙs…aj. Svolgendo aporeticamente il discorso, nota: “Ora, se uno non vorrà porre che l’uno e l’ente – tÕ Ÿn kaˆ tÕ Ôn – siano una qualche essenza, non lo sarà neanche nessun altra cosa tra quelle generali – tîn kaqÒlou –; questi, infatti, [l’uno e l’ente] sono i più generali di tutti – taàta g£r ™sti kaqÒlou m£lista p£ntwn –, e se non sono un che né l’uno stesso, né l’ente stesso – e„ dû m¾ œsti ti Ÿn aÙtÕ mhd’aÙtÕ Ôn –, è difficile che degli altri siano un che, oltre a ciò che viene detto singolare – kaq’›kasta” (Met. 1001a20-24). Espressione, quest’ultima, che indica la modalità del qualunque che singolo, ciò che è «secondo il ciascuno» preso nella sua isolatezza, e che poi diviene nel linguaggio della scolastica il «particolare» opposto all’«universale». In sostanza, lo si comprende bene, qui Aristotele già pone quella che sarà la questione centrale della disputa medievale intorno agli universali: se siano qualcosa o no, e la fa dipendere dalla risposta intorno all’essenza dell’uno e dell’ente, risposta che in Aristotele è negativa (cfr. Met. 1053b9 ss.)! Ed è negativa precisamente in funzione del fatto che qui l’avere una “qualche essenza” – tina oÙs…an – è posto chiaramente nel senso di essere «un che», un ti, un qualche cosa. Ma come possono essere gli stessi uno ed ente «un che», ossia ognuno «un ente»? “Se l’uno e l’ente stessi sono un che – e„ d’œsti ti aÙtÕ Ÿn kaˆ Ôn – per 20 Intendo dire solamente che il problema dell’essenza è necessariamente connesso con quello dell’unità dell’ente di cui si dice l’essenza, ossia la verità; non che i due problemi vadano confusi, come proprio Aristotele cerca di evitare.
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necessità la loro essenza è l’uno e l’ente – ¢nagka‹on oÙs…an aÙtîn e|nai tÕ Ÿn kaˆ tÕ Ôn –; tramite essi, infatti, non si predica un che di diverso, ma questi stessi”. In tal caso, però, è difficile vedere come potrebbe esservi qualcosa di diverso oltre l’uno e l’ente: “poll¾ ¢por…a pîj œstai ti par¦ taàta ›teron” (Met. 1001a27-31). Questo è il problema, che l’uno e l’ente sono già sempre in ogni che, il che implica che essi stessi non possano essere «un che», considerazione che poi finisce per implicare ulteriormente, ma qui non è esplicito, che ogni che è in se stesso, in quanto tale, nulla, se non si riesce a radicare la sua essenza oltre l’uno e l’ente. Nel breve confronto che segue con l’aporia parmenidea, che Aristotele cristallizza nell’asserzione “Ÿn ¤panta e|nai t¦ Ônta kaˆ toàto e|nai tÕ Ôn: uno sono tutti gli essenti e questo è l’ente”, egli risolve la questione ponendola in una semplice alternativa: “¤panta dû t¦ Ônta À Ÿn À poll¦ án Ÿn ›kaston: tutti gli enti o sono uno o sono molti di cui ognuno uno”, dove è ovviamente la seconda possibilità che egli sceglie, che mostra come evidente (Met. 1001a33-1001b6). Ÿn ›kaston: ›kaston Ÿn Ôn. Ogni-uno un ente, qualsiasi cosa è un essente, un ente è ogni cosa che è, qualunque cosa esista o sia pensata è uno Ôn, che non è affatto, per Aristotele, un concetto, quanto la prima e generalissima determinatezza dello ›kaston, e non qualcosa di vuoto, anzi tutta una pluralità di determinazioni, differenze, specie e affezioni, che è compito della filosofia prima sceverare (cfr. Met. 1003b33-1004b8. In 1003b32-33 leggiamo chiaramente: “¹ ˜k£stou oÙs…a ›n ™stin oÙ kat¦ sumbebhkÒj, Ðmo…wj dû kaˆ Óper Ôn ti: l’essenza di qualsiasi cosa è un uno non per accidente, così come è anche un qualche ente vero e proprio”). Anche in Met. 1054a13 ss., come in 1003b22 ss., troviamo esplicita l’equazione tra uno ed ente: “Óti dû taÙtÕ shma…nei pwj tÕ Ÿn kaˆ tÕ Ôn, dÁlon: che lo stesso designi in qualche modo l’uno e l’ente è chiaro”, in ultima analisi dal fatto che “tÕ ˜nˆ e|nai tÕ ˜k£stJ e|nai: che l’essere proprio all’uno è l’essere proprio al qualsiasi”, allo ›kaston. Ma già nel Parmenide di Platone (158a1-3), ove si discute dell’“uno intero composto di par51
ti” (ma si potrebbero citare tanti altri suoi luoghi), leggiamo: “e„ g¦r ›kaston aÙtîn mÒriÒn ™sti, tÒ ge ›kaston e|nai Ÿn d»pou shma…nei, ¢fwrismšnon mûn tîn ¥llwn, kaq’aØtÕ dû Ôn, e‡per ›kaston œstai!: se infatti qualsiasi di queste è porzione, tale «essere qualsiasi» significa ovviamente uno, distinto sì dagli altri, essente però in quanto tale, se sarà davvero un qualsiasi”. Ossia, qualsiasi cosa è una, distinta dalle altre in funzione del proprio essere se stessa. Unificazione, autoidentità e differenza dell’ente, senza di cui non si dà pensiero, come Aristotele scrive chiaramente proprio laddove vuole dimostrare il principio di non contraddizione, la “bebaiot£th d’¢rc¾ pasîn: il principio più stabile di tutti”, ciò che “è necessario già possedere” prima che si apprenda qualsiasi cosa (Met. 1005b11-17), e che Aristotele qui mostra evidente proprio in considerazione del fatto che: “oÙqûn g¦r ™ndšcetai noe‹n m¾ nooànta ›n: niente è infatti dato pensare non pensandolo uno”! Ossia questo e non non questo ente! (Met. 1006b10). È dunque in questa semplice espressione, ›kaston ›n, che potremmo tradurre in latino con quodcumque unum o aliquid unum, che si condensa nella maniera più pura ed elementare il luogo dell’uno e dell’ente nell’ontologia aristotelica, nel «ciascuno uno», nel «qualsiasi uno», che tiene in sé l’unità dello Ÿn p£nta – poiché il qualunque è «uno dei tutti» – e la molteplicità degli Ônta – poiché i qualunque sono «tutti i molti» –, senza rinunciare né allo Ôn, né allo ›n, e senza dover far ricorso, come principio, al m¾ Ôn, al niente, come erano costretti a fare in qualche modo e per qualche verso tutti i pensatori precedenti. Ma questo modo di risolvere il problema “più necessario in vista del conoscere il vero”, per quanto venga qui in luce in maniera del tutto chiara, non è un’invenzione aristotelica, anzi non è affatto un’invenzione, poiché in effetti non fa che enunciare, nei suoi due termini elementari e interconnessi, ciò che avviene ogni volta che il logos pronuncia una parola, l’unificazione e identificazione di un che. Quel che rispetto a questo dato elementare resta al gioco del pensiero è definire la natura e l’origine di tale identificazione: in queste pagine l’ipotesi del logos, come quel che appunto “è ne52
cessario già possedere” prima che si apprenda qualsiasi cosa. Ma quale sia il suo contenuto è dato nel logos stesso: inizialmente null’altro la banalità che ogni cosa è «una cosa», banalità che contiene però in sé un gran numero di articolazioni ontologiche, di categoriali. In questo, insomma, consiste il “primo pregiudizio” analizzato da Heidegger, nella posizione stessa del nesso tra logos e on: l’ente è sempre il primo e il più generale per il logos, ciò che egli incontra ovunque incontri qualcosa, ovvero il qualunque del pensiero è sempre un ente, un qualcosa che è e che non non è; e che, in quanto già è, possiamo anche intendere21. Una banalità che, per la sua stessa natura, è molto difficile da dire, come emerge chiaramente proprio nel secondo pregiudizio che affronta Heidegger, dopo aver concluso l’analisi del primo con la constatazione che “il concetto dell’«essere» è piuttosto il più oscuro di tutti”. Der Begriff «Sein» ist undefinierbar: il concetto Essere è indefinibile22. Il che deriva proprio dalla sua estrema generalità ed è giustificato se la definizione deve essere per genere prossimo e differenza specifica: evidentemente, da quanto detto, l’essere non ha un genere prossimo. A questo riguardo Heidegger cita Pascal, per il quale nel definire l’essere si cade nel circolo vizioso di usare nella definizione ciò che va definito: “l’essere è…”. Heidegger, però, interpreta questa impossibilità logica in maniera ben più radicale, cogliendone l’implicazione ontologica più profonda, che prelude alla “differenza ontologica” ed è, come si è già visto, uno dei pilastri della sua costruzione: “Sein kann in der Tat nicht als Seiendes begriffen werden: L’essere non può, in effetti, essere concepito come essente”, che poi specifica: “l’«Essere» non può arrivare ad una tale determinatezza (Bestimmtheit), che di esso si predichi qualcosa di essente”, per concludere: “«Sein» ist nicht so etwas wie Seiendes: «Essere» 21 Molto belle e adeguate le definizioni dell’ente in Tommaso come “condizione del pensare” e “atmosfera in cui avviene il pensiero”, proposte da A. Saccon, Metafisica, in AA.VV., Storia dell’ontologia, cit., p. 82. 22 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 18.
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non è qualcosa come l’essente”. Il che, però, rileva, non dispenserebbe dalla domanda circa il suo senso. Al di là di quanto notavamo prima su questo punto, va rilevato che ovviamente la radicalità di tale conseguenza è tale solo perché in ballo è proprio l’essere. Di per sé, infatti, non c’è nulla di straordinario nel fatto che l’essere non sia essente, così come, analogamente, il correre non è corrente. Mettiamo che esista una filosofia quarta, che si ponga i problemi della filosofia prima ma relativamente ad ambiti più ristretti, non gli enti, ma per esempio i “procedenti”, t¦ pro#Ònta del Parmenide (152b6 ss.), tutte le cose che procedono. Ebbene, tale filosofia chiederebbe intorno al corrente in quanto corrente e a ciò che gli sottende in quanto tale, t¦ toÚtJ Øp£rconta kaq’aØtÒ. Ma non si sognerebbe mai di attribuire i caratteri del pro#Òn al prÒeimi stesso. Il che però non significherebbe granché, potendo tranquillamente il prÒeimi, come modalità determinata del divenire, essere qualcosa di differente. Il semplicissimo su cui Heidegger volge l’attenzione è che se l’essere è qualcosa di differente dall’essente, esso semplicemente non può essere un’altra cosa, poiché non vi è nulla al di fuori di ciò che è, dunque l’essere non è. Questo vuol dire che l’essere non è come l’essente: che dell’essere non si può dire l’essere, ossia non si può dire nulla di onticamente determinato, poiché esso non è un che, ma tutt’al più il come di ogni che. Anche rispetto a ciò resta certo tutto da capire che senso possa avere parlare del suo senso, ma si comprende anche la difficoltà di un discorso ontologico che si proponga di dire l’essere, il cortocircuito che esso necessariamente comporta e che deve essere superato, se non andando verso l’essere stesso, via che pare inagibile, tornando piuttosto verso l’ente, vale a dire esattamente verso le cose. m¾ ™k tîn lÒgwn t¦ pr£gmata ¢ll’™k tîn pragm£twn toÝj lÒgouj23: massima antica che possiamo leggere intendendo che è nell’ente, in ciò che ne è della cosa quando la diciamo ente, che bisogna cercare le determinazioni elementari 23 Cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, ed. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2005, p. 118, ove il detto è attribuito a Misone di Chene.
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del nesso ontologico. Su questa via, però, non incontreremo la differenza ontologica, bensì la differenza cosa-ente, lo scarto che immancabilmente si apre, non appena la diciamo, tra la cosa e il suo essere quella cosa che è. Da tale punto di vista, la questione potrebbe riformularsi così: compreso che l’essere non è, non abbiamo certo con ciò annullato il suo logos, anzi, è proprio il suo logos quel che ci rimane; l’essere non è, perché l’essere si dice. Ma cosa si dice con l’essere? Gli enti! E così la domanda diviene: cosa si dice nell’entità degli enti? Passiamo al terzo pregiudizio: “Das «Sein» ist der selbstverständliche Begriff: l’«essere» è il concetto ovvio”. Pregiudizio che si radica ancora nell’onnipresenza dell’essere: in tutto quel che conosciamo, diciamo, in ogni rapporto con l’essente, anche in ogni relazionarci a noi stessi, noi facciamo uso dell’essere – wird von «Sein» Gebrauch gemacht –, cosa che lo renderebbe immediatamente comprensibile. La premessa è sempre la stessa, solo la conseguenza muta e ciò che Heidegger ulteriormente ne trae. Egli, infatti, non premurandosi di sottolineare che questo “uso” è comunque logico, del dire e del pensare, anche del dirsi tra sé e sé, come non è affatto implicito nell’espressione “in jedem Verhalten zu Seiendem”, che invece allude a qualcosa di molto più vasto, estende la premessa ad una conseguenza che essa non implica: non solo che il logos è sempre circa l’on, ma che in ogni dimensione della nostra stessa vita, certo la vita di animali che hanno il logos, noi siamo in relazione all’essere, come dimostrerebbe la sua “comprensibilità media”, quella che poi chiamerà «precomprensione dell’essere», che di per sé è peraltro indice di un’incomprensione: “essa rende evidente, che in ogni atteggiamento ed essere verso l’essente in quanto essente giace a priori un enigma. Che noi viviamo già sempre in una comprensione dell’essere e al tempo stesso il senso dell’essere è avvolto nell’oscurità, dimostra la necessità fondamentale, di ripetere la domanda sul senso di «Essere»”24. Ma che significa “essere ver24
M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 19.
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so l’essente”? Domanda non banale, poiché è proprio questo che fa dell’uomo un esserci, un Dasein, è proprio questo che secondo Heidegger ci qualifica ontologicamente e che sarà poi l’oggetto principale della disamina dell’analitica esistenziale di Essere e Tempo. Una questione che, come dicevo, non intendo sviluppare al di là di queste prime premesse, nelle quali, però, è evidente che sono già posti i capisaldi della concezione heideggeriana: la differenza ontologica e la precomprensione dell’essere. Quel che in conclusione si può ancora mettere qui in evidenza, ma che in effetti ritorna in tutto il testo, è un uso sempre a metà strada o ambiguo dei termini «essere» ed «essente», che a volte valgono come parole o concetti, a volte per il loro significato (o mancanza di significato), un’oscillazione tra «sein» e Sein, che qui si mostra in particolare come ambiguità tra «dire l’essere» e «porsi rispetto agli enti», ambiguità sulla quale Heidegger, assumendola certo consapevolmente e anche dandole poi un fondamento teorico, costruisce queste sue prime mosse. E che, ripeto, non è nulla di ovvio, nulla di posto da sé in quei pregiudizi e in quella comprensione che invero non comprende e che, tuttavia, rimane l’indice di un primato dell’esserci ancora tutto radicato nel logos. A ben vedere, infatti, la via scelta da Heidegger pare contenere ancora in sé il primo pregiudizio della filosofia moderna, poiché comporta, di fatto e a dispetto degli intenti dichiarati, l’identificazione della dimensione essenziale dell’uomo nella sua facoltà logica. Se l’esserci è quell’ente nel cui essere ne va di questo essere stesso, il che significa che “in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere”25, se l’esserci è determinato in tutto l’essenziale dalla sua relazione con l’essere, che richiede una qualche apertura e comprensione, allora l’esserci non ha essenzialmente a che fare, per esempio e banalmente, con la concretezza del nostro corpo e delle sue relazioni esterne e interne: nel nostro apparato circolatorio, per dirne una, non è propriamente dell’essere che ne va, se non nel modo in cui diciamo anche ciò. Vale a dire che il nostro
25
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Ivi, p. 28.
stesso corpo rimane uno degli enti intramondani verso il cui essere ci poniamo in un qualche atteggiamento: in tal modo la consapevolezza di quel pregiudizio dell’essere diviene una vera e propria ipoteca antropologica, giacché si traduce in una tesi in ultima analisi metafisica intorno all’essere dell’esserci. Tutto ciò non è ovviamente deducibile dall’onnipresenza dell’essere nell’esperienza che l’uomo ha di ogni cosa, compreso se stesso – onnipresenza che è in fondo il portato ancora positivo dell’analisi dei pregiudizi intorno all’essere –, ma è l’esito di una decisione teorica fondamentale, che va ben oltre ciò che possiamo sapere: quel che sappiamo, infatti, è solo che nel sapere e nel dire non possiamo fare a meno di dire l’essente, ma che ciò che così diciamo «sia essente» non riusciamo di fatto quasi neanche a dirlo. Ha perciò certamente ragione Heidegger, notando che siamo di fronte a una questione teorica di prim’ordine, addirittura un enigma, ma il passo che egli compie va al di là di quanto in quei “pregiudizi” si lascia vedere. Pregiudizi che, invero, possono definirsi tali, solo nel senso di essere una condizione preliminare del logos, ciò che per esso è già da sempre pregiudicato, circostanza cui Heidegger stesso allude, citando proprio a conclusione di questa sua analisi una pregnante definizione di Kant, che li dice i “giudizi segreti della ragion comune: die geheimen Urteile der gemeinen Vernunft”26. Giudizi segreti incarnati nelle stesse strutture elementari del linguaggio, in quella «metafisica della grammatica» cui Nietzsche riduceva l’ordine concettuale della filosofia.
26
Ivi, p. 19.
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III Il Sofista di Platone
III.1 Le aporie elementari dell’ontologia Prima di procedere oltre è opportuna, al fine di isolare le domande su cui si orienterà il discorso successivo, una breve ricapitolazione dei termini elementari intorno ai quali abbiamo visto costituirsi la questione circa il nesso tra «ontologia e nichilismo». Come si diceva, è possibile distinguere due modi di intendere l’ontologia e due tradizioni corrispondenti: da un lato l’ontologia come teoria dell’ente o dell’essere, che finisce per ridursi nei suoi ultimi esiti a una tassonomica degli oggetti, dall’altro come riflessione1 intorno al nesso ontologico, all’unità di logos e on, a quell’equazione parmenidea che viene posta sin dall’inizio del pensiero filosofico come il suo vero punto interrogativo. Nell’ambito di questa tradizione, le cui domande pervadono la speculazione platonica e aristotelica, ma anche la sofistica, e poi il pensiero stoico e quello medievale, fino al criticismo kantiano e oltre verso Nietzsche, l’ontologia diviene spesso un logos intorno al logos stesso, una logica del logos o una riflessione intorno ai “criteri di ogni conoscenza delle cose in generale”, come 1 Riflessione del logos stesso: Tommaso parlava di una vera e propria reditio ad essentiam suam come movimento conseguente alla riflessione dell’intelletto sull’atto della propria conoscenza dell’ente, grazie a cui si conosce come principio attivo della conoscenza e così intende anche la rationem veri di ogni conoscenza, ossia la verità in quanto tale: “Perciò l’intelletto conosce la verità nella misura in cui riflette su se stesso” (Tommaso, Sulla Verità, cit., p. 171).
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scrive Kant2. Il problema dell’essere diviene dunque integralmente il “problema della verità”, che è in Nietzsche, così come invero lo era stato in Platone, la domanda filosofica più radicale, la vera “filosofia prima”: su questa via, l’essere diviene una metafora del logos. Tuttavia, dopo Kant Hegel, e dopo Nietzsche Heidegger, l’uno in chiave metafisica, l’altro post-metafisica, entrambi in qualche modo proseguendo sulla via aperta dai loro predecessori, riconoscendoli come tali, hanno revocato l’interdetto contro un discorso sensato intorno all’essere, discorso che però non sarà nell’uno e nell’altro un’ontica dell’essere, bensì ontologia del nesso logos-on. Ma come sono stati possibili, ci chiedevamo, Hegel dopo Kant e Heidegger dopo Nietzsche? Giacché in Kant e Nietzsche il pensiero critico arriva alla sua espressione più radicale e insuperabile, espressione che poi trova la sua compiuta realizzazione nell’epistemologia e nella prassi sperimentale della scienza positiva, che si liberano interamente di ogni interesse ontologico. Ebbene, quel che, ognuno a suo modo, Hegel e Heidegger hanno mostrato, è che l’ontologia non può ridursi a logica e gnoseologia, poiché sempre le precede, poiché anche il logos intorno al logos, nella sua pretesa di verità, ha già sempre in sé e dinanzi a sé l’essente. Per dirlo nei termini della metaforica nietzschiana della verità: per poter essere interpretazione il logos deve già avere un che da interpretare, che è per esso già sempre un essente, anche nella forma più evanescente della «cosa in sé» o del suo annullamento zarathustriano nella pura parvenza. Proprio queste due mosse teoriche, la riduzione kantiana dell’essere a mera “esigenza logica” e “criterio di conoscenza”, ma in quanto ens rationis del tutto vuoto, e la cancellazione nietzschiana della differenza tra mondo vero e mondo apparente, mostrano come la domanda sull’essere sia intrinsecamente connessa a quella sul niente e operi costantemente l’equazione tra essere e nulla. Da ciò il nesso tra «ontologia e nichilismo», i cui interpreti fondamentali sono ovviamente ancora Nietzsche e Heidegger: il pri2
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I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 101.
mo per aver non solo elevato a concetto filosofico il termine «nichilismo», ma ben più per aver riconosciuto che sin dal suo inizio platonico la metafisica è in tutto e per tutto nichilismo. Il secondo per aver radicalizzato ed esteso all’intera ontologia questa conclusione: in tal senso, la filosofia stessa, e non solo la metafisica, è un’ininterrotta riflessione intorno all’essere come nulla, che culmina nelle opere in qualche modo gemelle di Hegel e Nietzsche, ove l’identità di essere e nulla è posta nelle sue due forme pure come Spirito Assoluto e Volontà di Potenza. In questo compimento, secondo Heidegger, si realizzerebbe il perfetto oblio dell’oblio dell’essere: nella sua pretesa di essere il compiuto ostendimento e produzione della verità, il logos perderebbe di vista la differenza tra l’essere e l’essente, potremmo dire la differenza tra la verità del logos e quella dell’essere. Da tale constatazione parte il suo progetto di un pensiero rammemorativo, di quell’Andenken che cerca di corrispondere, risollevando la gigantomac…a perˆ tÁj oÙs…aj, al carattere disvelativo e destinale dell’essere. Una riproposizione del problema, che per quanto se ne possano non condividere gli sviluppi, rimane inaggirabile per il pensiero filosofico e quindi ancora un suo punto di riferimento. Per questa ragione abbiamo preso le mosse precisamente dal luogo in cui Heidegger pone di nuovo la questione, le prime pagine di Essere e Tempo, ove in pochi tratti egli allaccia una serie di legami con la tradizione ontologica, dal Sofista di Platone, alla Metafisica di Aristotele, alla Summa di Tommaso, fino alla Logica di Hegel. Il suo scopo è mostrare che la conseguenza dell’oblio che si realizza nella storia della metafisica è la trivializzazione del concetto stesso di essere, che ai moderni non appare più quel nascosto che teneva nell’inquietudine il pensiero antico, come dice proprio nella prima pagina di Essere e Tempo, bensì il più ovvio e in fondo superfluo dei concetti. Una conseguenza che egli ritiene però già implicita nei fondamenti dell’ontologia antica e di cui cerca di dimostrare la debolezza presentando quelli che definisce i suoi pregiudizi di fondo, che però abbiamo detto essere tali nel senso forte di essere il pre- di ogni attività del logos, la sua stessa condizione di possibilità. 61
Dalle poche pagine lette ci limitiamo ora a trarre non elementi finiti per un’interpretazione complessiva del progetto di Essere e Tempo, come ho detto sin dall’inizio non essere negli intenti, quanto piuttosto alcuni fattori minimi della questione ontologica come questione del nesso logos-on. Li abbiamo incontrati man mano nella discussione precedente, ma è opportuno elencarli sinteticamente, poiché saranno il nostro segnavia per le analisi successive e, ancor più, perché sinora sono più domande che risposte, quesiti che dobbiamo ancora chiarire. Con l’avvertenza che queste non sono, in senso stretto, articolazioni dell’ipotesi, quanto piuttosto le sue premesse, anzi, quasi solo formule che accennano a problemi, la cui esposizione richiede analisi ben più lunghe e faticose. 1) Partiamo dallo stesso nesso logos-on, rispetto al quale abbiamo isolato la tesi che l’essere non è, perché l’essere si dice, lo diciamo, e propriamente lo diciamo degli enti. Da ciò deriva la domanda: cosa si dice nell’entità degli enti? 2) Una prima risposta a tale domanda, non completa, l’abbiamo trovata nel nesso ›n-Ôn-›kaston: il logos è possibile, così leggevamo anche in Aristotele, solo previa unificazione e identificazione di un che. Asserzione che contiene tre domande: cos’è unità?, cosa identità?, e infine la domanda preliminare e fondamentale, su cui si reggono le altre due: cos’è un che? Che è poi la domanda aristotelica t… tÕ Ôn;, che non significa: «che cos’è l’essere?», ma «che cos’è un qualsiasi ente, uno ›kaston? Cosa conviene a qualsiasi cosa che è nella misura in cui semplicemente è?». 3) Questa domanda ci conduce in prossimità della differenza cosa-ente e della sua indicibilità: ossia al fatto: a) che nel dire le cose le abbiamo già sempre poste come enti, alienandole – e sarà da vedere esattamente quel che questo significa, come avviene e in che modo possiamo conoscerlo –; b) che proprio per questo non possiamo dire la differenza, banalmente perché non possiamo dire le cose… Da qui emerge dunque una domanda ancora più fondamentale, che però, per certi versi, è impossibile, ossia è una domanda che non ammette una risposta vera: che co62
s’è la cosa? E non ammette una risposta vera, assunta la verità come l’adeguazione del logos all’essere dell’ente, proprio nella misura in cui ci sforziamo di pensare la cosa enfaticamente nella sua differenza dall’ente – come vediamo qui si innesta il «problema della verità», che ho già detto essere geneticamente il primo. Ciò che al più si può raggiungere su questa via, come Platone pure aveva visto, è uno e„këj lÒgoj, un discorso verosimile (cfr. Tim. 29b2ss.). 4) L’alienazione della cosa nell’ente, la differenza così istituita nello stesso, ci porta infine a vedere il nesso tra ente e nientificazione. La domanda qui è: che ne è della cosa? E una prima risposta, il cui senso complessivo pure va chiarito, è che nell’entità come essenza in fondo si dice sempre – anche quando la si vuole salvare, come avviene proprio nella prima fondazione dell’ontologia – il nulla della cosa, poiché essa viene prima fondata oltre se stessa – e questo è già un primo momento di alienazione – e poi privata del fondamento e quindi in qualche modo isolata nella sua alterità da se stessa, abbandonata al niente di sé. Anche qui si tratta di vedere come ciò effettivamente si configuri, nei suoi diversi modi e gradi, e a quali conseguenze infine conduca. Che è propriamente il tema del nichilismo in chiave ontologica. Tante questioni, tutte importanti, cui non si può pretendere di rispondere qui analiticamente: va quindi scelta una via, che in qualche modo attraversi questa messe di problemi, gettando almeno un po’ luce su alcuni di essi. La via è quella indicata dal nesso: «ontologia e nichilismo», ma poiché su di essa incontriamo l’ultima delle domande che ponevamo, che invero coinvolge tutte le altre, essa risulta essere anche la più adatta per un inquadramento complessivo. In vista di ciò, vorrò cercare di svilupparla proprio isolando alcuni snodi cruciali entro la storia dell’ontologia, per mostrare come in essi si realizzi ciò che si è definito «alienazione della cosa».
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III.2 Nietzsche lettore di Platone Anche se questo non impedirà di risalire ancora più indietro, se non altro per accenni, verso la fisica dei presocratici, partiamo da Platone per due semplici ragioni: a) innanzitutto perché, per quanto già nei presocratici si andassero prefigurando e condensando i termini fondamentali della futura ontologia e metafisica, è propriamente in Platone che essa viene fondata, tramite tutta una serie di innovazioni terminologiche, concettuali e teoriche di enorme portata. b) E, in secondo luogo, perché nella ricostruzione nietzschiana della storia del nichilismo è di nuovo da Platone che si comincia, dalla sua intronizzazione della Verità tramite l’istituzione di un “mondo dietro il mondo”, un mondo vero e invisibile dietro quello visibile e sempre in qualche misura falso, intronizzazione che realizzerebbe nel modo più chiaro una svalutazione del secondo a favore del primo. Si tenga presente che mi esprimo volutamente in termini molto elementari, poiché qui non è in gioco una compiuta esegesi della lettura nietzschiana di Platone, ma ancora solamente l’acquisizione di certi termini minimi di confronto, che servano solo come indirizzo per un’indagine entro la quale quegli elementi verranno integrati e problematizzati. Sia detto, però, che l’interpretazione nietzschiana non è per nulla estemporanea o di seconda mano, come dimostrano le sue lezioni universitarie, che testimoniano un’attenta e assidua lettura dei testi originali, al punto che non è azzardato dire che, a parte forse Schopenhauer, Platone è il filosofo che Nietzsche ha letto in maniera più diretta e completa. La sua interpretazione, tuttavia, è in qualche modo unilaterale: sin dalle sue lezioni giovanili e poi lungo tutto l’arco del suo pensiero, per Nietzsche Platone è stato innanzitutto dominato da esigenze di carattere politico e morale: un uomo in incessante e feroce lotta contro il proprio tempo e contro l’ordine politico, etico e inoltre estetico della polis, un rivoluzionario animato da un profondo disagio morale. A dimostrarlo bastino stralci delle sue lezioni giovanili, nei quali non sarà difficile vedere la forma embrionale delle ben più 64
note critiche che egli sviluppa negli scritti della maturità. Il punto di partenza, da cui Nietzsche deduce geneticamente l’intero sviluppo del pensiero platonico, è che egli sia stato “etico in tutto e per tutto: la genesi della teoria delle idee non si può comprendere senza questa pulsione etica”, asserzione che Nietzsche spiega dicendo che “il compito era trovare il mondo che colui che è veramente buono riconosce come il proprio mondo”, un compito, dice, intimamente legato al “disprezzo della realtà” e “degli uomini”, che Platone avrebbe ereditato da Socrate3. A partire da tale impostazione Nietzsche contesta una lettura ampiamente diffusa, che pone il primum, rispetto alla teoria delle idee, in un processo di astrazione del generale dal molteplice sensibile, movenza argomentativa che in Platone non si darebbe affatto, nella misura in cui la dialettica non procede per astrazione, bensì per deduzione da concetti che non sono “prima in sensu, ma subito in intellectu”, innanzitutto da concetti morali. Si darebbe dunque uno sviluppo inverso rispetto a quello presunto: dalla certezza delle idee morali e dalla loro conoscibilità entro l’™pist»mh dialettica egli avrebbe dedotto la loro realtà: “Come la dÒxa si rapporta alla ™pist»mh, così il mondo empirico del divenire si deve rapportare a un mondo dell’essere. L’esistenza dell’™pist»mh dimostra un mondo dell’essere”, ove qui l’™pist»mh è propriamente quella socratica delle idee invisibili del bene, del giusto e così via4. Andando ancora oltre in questa direzione, Nietzsche abbozza una vera e propria genealogia della teoria delle idee dalla constatazione di una difettività etica dell’anima: posto che “l’essere naturale di una cosa, corrispondente allo scopo, è ciò che noi denominiamo la sua ¢ret»”, anche l’¢ret¾ dell’anima non sarà che una simile corrispondenza. Ma tale virtù, si chiede Nietzsche, è per Platone “essenza” o “compito”? Se fosse essenza, argomenta, l’anima sarebbe sempre virtuosa, non essendolo però di fatto, essa potrà essere solo il compito. Su cosa può fondarsi, però, 3 F. Nietzsche, Plato amicus sed, a cura di P. Di Giovanni, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 79, 89 s. 4 Ivi, pp. 80 s.
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un simile compito? Da dove può trarre le sue misure, se l’anima non le trova più in se stessa? “Platone non trae le sue conclusioni dal carattere del genere (ciò che rende anima tutte le anime), ma dal carattere ideale. L’anima perfetta, l’idea di anima è nel medesimo tempo la vera essenza, è reale. L’¢ret¾ di ogni cosa consiste nell’essere conforme a questa realtà. Alla base di tutto dunque si trova la teoria delle idee, secondo la quale solo l’idea ha vero essere e vera essenza”5. E così lo spazio ontologico è fondato su quello etico. Una simile conclusione, però, entro la quale non è più un problema trovare la misura perfetta del bene e quindi dello scopo, rende problematiche le sue stesse premesse, giacché deve rendere conto della difettività dalla cui constatazione era partita: “Perché non tutte le anime corrispondono al loro carattere ideale? Per ignoranza […]. La domanda è dunque rinviata alla domanda: come è possibile l’errore?”6. E così Nietzsche arriva a una delle questioni davvero cruciali della filosofia platonica, che è proprio quella incarnata dal sofista, l’artista della menzogna, che si difende dietro lo schermo parmenideo dell’indicibilità del falso. Nel Sofista, però, non è in questione solo la sofistica, anzi lo è solo in secondo grado: nella sua polemica, infatti, Platone affronta il punto critico ove l’ontologia trova la sua aporia fondamentale, che deve superare per essere autentica fondazione, appunto il problema della verità e della falsità, in una parola della ™pist»mh, che è ciò che qui più da vicino ci riguarda.
III.3 «Salvare i fenomeni»: epistemologia ed epistemica In effetti, come afferma Nietzsche, è proprio in funzione dell’™pist»mh che Platone scopre l’ontologia, operando, come si diceva, un’innovazione radicale rispetto ai primi fisici. A diffe-
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Ivi, pp. 102 s. Ivi, p. 103.
renza di quanto riteneva Nietzsche, però, che guardando solo all’™pist»mh delle idee morali enfatizzava molto l’“odio” platonico “contro la sensibilità”7, deducendone un’intrinseca tendenza a degradare i sensibili stessi, pare invece evidente nel pensiero platonico una fortissima e più volte esplicita esigenza di «salvare i fenomeni», anziché degradarli. E non semplicemente come via per fondare le idee etiche: nel Timeo leggiamo espressioni che non possiamo in alcun modo ricondurre ad un’avversione verso il mondo, che vi viene definito “qeÕj a„sqhtÒj, mšgistoj kaˆ ¥ristoj k£llistÒj te kaˆ teleètatoj: dio sensibile, massimo e ottimo, bellissimo e perfettissimo” (Tim. 92c7-9). È vero, anche qui esso rimane “e„kèn toà nohtoà”, un’immagine dell’intelligibile, immagine in senso ontologicamente forte però, ossia non una mera parvenza, bensì una realtà, dotata di una sua consistenza ontologica, una raffigurazione concreta delle idee. E a questa immagine, almeno nella sua percezione teorica e nelle intenzioni, Platone non ci arriva degradando una visione più alta del mondo, bensì cercando di dare sostanza e innanzitutto dicibilità ai sensibili, che l’eracliteismo radicale cratileo vietava anche di nominare, una dicibilità affidabile, se non del tutto vera, e sottratta all’arbitrio logopoietico di coloro – li indica proprio nel Sofista – che si propongono come sapienti di tutto e non sono, invero, neanche capaci di un’arte imitativa fedele al modello, alla ¢lhqin¾n summetr…an, arte imitativa di genere buono che chiama appunto, da icona, “icastica” (Soph. 235d5-e7), contrapponendola all’arte di produrre “idoli” e “fantasmi” dei fenomeni (Soph. 236a5 ss.). In gioco è dunque un logos, che sappia essere almeno commisurato alle cose, che abbia nelle cose la sua misura e non nel proprio arbitrio, che abbia dunque in una qualche forma di verità l’unico criterio di paragone della conoscenza e della teoria, e non nella persuasività e nel fascino della parola. L’espressione «salvare i fenomeni», in realtà, non la troviamo in Platone, ma in Simplicio, che gliene attribuisce però la pater7
Ivi, p. 80.
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nità. Lungo un percorso complesso, che ha le sue origini in Proclo e attraversa il medioevo, fino alla prefazione di Osiander al De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, per arrivare alla disputa tra il cardinale Bellarmino e Galilei, tale espressione assume un carattere che non poteva avere in Platone. «Salvare i fenomeni» finisce, infatti, per indicare la capacità di una teoria di rendere matematicamente o comunque formalmente conto dei dati empirici, a prescindere dalla sua verità, anzi pur concessa la sua non verità: qui la teoria diviene strumento epistemologico di descrizione e previsione quantitativamente esatta dei fenomeni naturali. In Platone, però, il discorso è epistemico e non epistemologico: esso riguarda la conoscenza salda degli essenti e non il rapporto tra formalismo teorico ed empiria. Perciò esso pone tematicamente e incessantemente il problema della verità, giacché la verità è l’unico metro e criterio di paragone della conoscenza e della teoria, e non l’utilità, la coerenza, la capacità predittiva e così via. Da questo punto di vista, riportare la conclusione del Timeo, che attribuisce al sapere intorno alla natura il carattere dello e„këj lÒgoj, di un discorso verisimigliante, per l’appunto icastico, ad un’epistemologia del «come se» e della corrispondenza matematica e descrittiva al dato, è una grave incomprensione, che ignora tutto il lavoro di fondazione ontologica che consente a Platone di dare a tale e„këj lÒgoj non il carattere della mera dÒxa, bensì quello della p…stij, di un’opinione affidabile, poiché radicata nella conoscenza delle cose, commisurata alle cose, simmetrica ad esse. Contro l’“antilogica” dei sofisti (Soph. 225b11), insomma, capaci di contrapporre un discorso a qualsiasi discorso e per questo “saggi di tutto” (Soph. 233c5), ma solo in negativo, salvare i fenomeni significa, invece, essenzialmente parlare di essi in maniera tale da poter essere contraddetti da ciò che le cose ci mostrano e non da un altro discorso. Anche rispetto allo e„këj lÒgoj, insomma, rimangono le cose, t¦ Ônta, la misura della verità e non il solo logos. Lo Straniero di Elea è su ciò estremamente chiaro: evocando la saggezza apparente di coloro che producono discorsi su tutto e affascinano i giovani ancora lontani 68
“dalla verità delle cose concrete” – tîn pragm£twn tÁj ¢lhqe…aj –, “tanto da far credere di dire il vero” – ¢lhqÁ doke‹n lšgesqai8 –, afferma che i loro “idoli sostanziati di sole parole” sono destinati a infrangersi quando si faccia esperienza delle cose stesse. L’espressione che usa è particolarmente significativa, poiché è evidente che qui non si parla della contemplazione delle idee, ma dell’esperienza del mondo: “to‹j te o}si prosp…ptontaj ™ggÚqen kaˆ di¦ paqhm£twn ¢nagkazomšnouj ™nargîj ™f£ptesqai tîn Ôntwn: quando vengano a scontrarsi da vicino con le cose e siano costretti attraverso sofferenze a rimanere in contatto lucidamente con le cose che sono” (Soph. 234c1 ss.). Il contatto lucido, chiaro, che deriva dalla possibilità di scontrarci con il mondo, uno scontro che capovolge le nostre opinioni e fantasmi logici, i nostri e‡dwla legÒmena perˆ p£ntwn, fino a che ci appaiano piccolezze le cose un tempo ritenute grandi e difficili quelle semplici (Soph. 234e 1 ss.): quel che tale possibilità richiede e che va dunque acquisito nella critica alla sofistica non è, a ben vedere, la capacità di conoscere il vero, che i sofisti stessi riconoscono e anzi si arrogano, quanto di rendere conto del falso, di dare un saldo fondamento allo yeud¾j lÒgoj, per poterlo distinguere in maniera netta e inequivocabile dal quello vero, un fondamento che dovrà essere esso stesso di natura ontologica, radicato nelle cose, affinché il falso che così viene ritrovato sia veramente falso: tÕ yeàdoj Ôntwj ×n yeàdoj9. È questo il problema intorno a cui ruota tutto il Sofista e che rende necessario un confronto risolutivo con l’aporia del nonente. Così come, infatti, in prima approssimazione vero è il logos che dice l’ente, falso deve essere il logos che dice il niente. Ma tale possibilità di dire il niente era stata esclusa radicalmente da Parmenide, o almeno questo era il modo in cui Platone e i sofi8
Verità apparente cui vedremo andrà contrapposta la falsità autentica. Soph. 266e1. Il discorso di Res. 382a4 ss. sullo ¢lhqîj yeàdoj come ¹ ™n t? yuc? ¥gnoia perˆ t¦ Ônta, pur avendo lì una differente funzione argomentativa, è analogo a quello in Soph. 263d6-264b4. 9
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sti intendevano il contenuto del suo interdetto, che va quindi neutralizzato. Quel che sarà da mostrare tramite la lettura del Sofista, è come proprio in questo sforzo di riconoscimento e fondazione della concretezza del reale, Platone finisca suo malgrado per introdurre nella cosa il solvente che infine la dissolverà.
III.4 Verità e qewr…a Per inquadrare il Sofista nell’ottica del problema del «veramente falso», è utile gettare uno sguardo su certi termini elementari del problema della verità in generale, che avviciniamo a partire dal discorso sinora svolto. L’ontologia come teoria del nesso ontologico pensa l’unità inscindibile di logos e on, che si costituisce come ipotesi dell’on entro il logos e che vale come «filosofia prima», nella misura in cui il qewre‹n è sempre anche logos, ossia nella misura in cui lo sguardo del filosofo è sempre teso a divenire parola e in questa tensione incontra innanzitutto l’essente: il primo e più generale di tutti per il logos. Tensione alla parola il cui metro è la verità, la fedeltà dello sguardo e del pensiero a ciò che gli si mostra e che vuole dire. Per questa ragione la questione ontologica è radicata nel «problema della verità», che è un problema integralmente ontologico e non meramente logico, che è anzi il vero problema ontologico, poiché la verità non è null’altro che il nesso stesso logos-on, è il logos che dice l’on. Porsi il problema della verità, in tal senso, è porsi il problema della filosofia stessa: anche quando riconosciamo, infatti, che nel dire il vero il logos mente sempre, poiché cancella la differenza tra cosa ed ente, anche qui il nostro metro rimane la verità, ossia la cosa. Quando invece la filosofia riduce il problema della verità a problema logico, perde la sua intenzione fondamentale e diviene una qualche forma di sofistica, vale a dire, così come l’intende Platone, una tecnica dell’argomentazione, tšcnh e non autentica mšqodoj del logos, ossia non il suo indirizzo e via verso l’evidenza. Diviene, per esempio, analitica del discorso e si allontana così radicalmente dal suo compito originario, che rima70
ne quello di pensare cose e non parole: la filosofia è pensiero del mondo e solo in funzione di ciò, necessariamente e primariamente, si pone il problema della verità, che è insieme il problema dell’ente. Nella sua tensione a vedere le cose e dirle, discriminarle e riconoscerle nel loro venire alla luce e svanire, la teoria è sempre sguardo sul mondo come la totalità di ciò che si mostra e di ciò che si nasconde, niente affatto solo un gioco sulle forme del discorso e sugli strumenti della persuasione, sulle macchinazioni della retorica. Anche in tal senso essa non è mera logica, bensì radicalmente ontologica, parola che dice gli enti: il mondo, infatti, lo incontriamo sempre come totalità di enti, come un «uno tutto» fatto di molti essenti. Questo sin dall’inizio della speculazione greca il pensiero fondamentale, che fa della filosofia quel che è. Ne La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Nietzsche individua con grande chiarezza quel che è avvenuto all’inizio: “La filosofia greca sembra cominciare con un’idea inconsistente, cioè con l’affermazione che l’acqua è l’origine e il grembo materno di tutte le cose. È veramente necessario soffermarci su questo punto e prenderlo sul serio? Sì, e per tre ragioni. In primo luogo, perché tale proposizione dichiara qualcosa riguardo all’origine delle cose; in secondo luogo, perché fa ciò prescindendo dalle immagini e dalle favole; in terzo luogo, infine, perché in tale proposizione è contenuto – sia pure allo stato embrionale – il pensiero: tutto è uno. La prima delle ragioni nominate lascia ancora Talete in compagnia della religione e della superstizione, mentre la seconda lo fa uscire da questa compagnia, mostrandolo come indagatore della natura: in base alla terza ragione, peraltro, Talete viene considerato come il primo filosofo greco”. Questo, per il giovane Nietzsche, caratterizza ogni filosofia, antica e moderna, e la distingue dall’indagine scientifica: il suo essere orientata, sin dall’inizio, a partire da tale “idea di unità”10, che non è null’altro che l’apertura dello sguardo su tutto: la filo10 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, tr. it. di G. Colli in Opere, cit., vol. III, t. II, pp. 279 s.
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sofia non si interessa, infatti, se non in seconda battuta, di qualche oggetto particolare o ambito definito, poiché essa è lo sguardo aperto sul mondo, o – che è lo stesso – poiché essa vuole dire la verità. Le due cose coincidono, perché la visione dell’uno-tutto non è affatto una teoria o una dottrina, che vuole spiegare nei termini dell’unitotalità un ambito già dato di fenomeni empirici, ma è il modo in cui è precostituito per lo sguardo del filosofo l’ambito di tutti i fenomeni, come i molti entro la totalità che li racchiude, è il modo in cui per lo sguardo sin dall’inizio si possono dare fenomeni. Ed è precostituito precisamente in funzione del suo orientamento alla verità: Talete vuol dire la genesi delle cose, la loro origine e grembo materno, ossia quel che anche Esiodo volle raccontare, ma egli lo fa a partire da un orientamento del tutto differente, non il racconto, non la favola, ma l’evidenza delle cose, che solo a partire da tale sguardo diventano quel che noi indichiamo con la parola natura. Quando parliamo dei primi filosofi, chiamandoli «naturalisti», spesso non comprendiamo affatto la portata di quel che diciamo: li consideriamo al più una specie di prefigurazione embrionale dello scienziato moderno, che in effetti senza di loro non sarebbe stato possibile, ma una prefigurazione arcaica e ingenua. Il naturalismo dei primi filosofi ci appare fantasioso e metodologicamente del tutto immaturo, privo dei più elementari, per noi, principi di aderenza all’empiria, un modo affrettato e ancora quasi mitico di spiegare la natura. E non vediamo il fatto, che solo a partire da quel pensiero si dà qualcosa come «la natura», che solo a partire da quello sguardo il mondo mitico diviene fÚsij. E non perché quello sguardo sarebbe stato più empirico, non perché, insomma, costoro avrebbero guardato alla natura piuttosto che agli uomini o agli dei: la natura non esisteva ancora come ambito distinto da quello degli uomini e degli dei, la cosmogonia era integralmente intrecciata alla teogonia e all’antropogonia. Piuttosto, è a partire da uno sguardo orientato alla verità, che il mondo si manifesta come natura, ossia come la totalità di ciò che nasce e perisce, di ciò che spontaneamente, per la sua «natura», si mostra e si nasconde. È dunque il secondo momen72
to che individua Nietzsche, l’affidamento del filosofo non al mito, ma all’evidenza, che porta con sé l’idea di unità del tutto: lo sguardo si apre alla totalità di ciò che da sé si lascia vedere, non alle favole e alle immagini che ci raccontiamo, vuole essere la piena e integrale fedeltà a tutto ciò che è evidente, vuole dire tutta la verità e per questo si trova di fronte da subito e sempre «tutto»: l’uno-tutto, quindi, non è un’idea che il filosofo pensa e mette nelle cose, ma il modo in cui le cose si danno allo sguardo che vuole la verità, che vuole essere fedele ad esse. È un atteggiamento, quindi, completamente diverso da quello dei «sapienti di tutte le cose», di cui parla Platone proprio nel Sofista, ossia di coloro che pretendono di essere saggi e saper disputare intorno a qualsiasi argomento possibile: il filosofo non è il sapiente, non il sofÕj che ha acquisito un’esperienza e conoscenza del mondo ricca e completa, la sua verità non è innanzitutto il sapere le cose, bensì il guardarle! È il qaum£zein, l’apertura stupita dello sguardo sul qaàma, su ciò che si dà a vedere. È questa la Qe¦ che è insieme qša di Parmenide: la verità, che egli dice in questa parola che significa al tempo stesso “dea” e “visione” e che condivide la radice sia con il qaàma, il miraculum, che con il qewre‹n, la contemplazione e teoria del miraculum, della stupefacente bellezza di tutto ciò che appare11. Per questo il primo filosofo parla del tutto, non perché è uno scienziato poco accorto e propenso a illazioni metafisiche e generalizzazioni azzardate, né per presunzione, ma al contrario perché si affida alle cose, perché le vuole dire nella loro evidenza: le cose, però, sono sin dall’inizio t¦ ™Ònta, gli essenti, e proprio in ciò il filosofo trova quel che è comune in tutto, koinÕn dû p©si, e quindi l’unità del tutto, tÕ ×n che è Ÿn e che ancora Parmenide pone come lo stesso del noe‹n, del pensiero. Lo sguardo orientato alla verità è il logos che dice innanzitutto l’on, l’essente come 11 Non a caso, dunque, Platone avvicinerà l’atteggiamento del filosofo a quello dei filoqe£monej, agli amanti degli spettacoli, a coloro che sono desiderosi di gustare e insaziabili nel prendere piacere dalle rappresentazioni teatrali, da cui i filosofi autentici si distinguono in quanto sono “tÁj ¢lhqe…aj filoqe£monaj” (Res. 475e4, ma cfr. anche ivi, 480a11 e 484c1 ss.).
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l’uno del tutto. Per questo la posizione di Parmenide nella prima filosofia greca è così importante, per questo Platone e Aristotele non smettono mai di fare i conti con lui, anche se la sua dottrina, in particolare la negazione dialettica del movimento, è così palesemente in contraddizione con l’evidenza stessa, per questo: perché in Parmenide emerge in tutta la sua assolutezza il problema della verità, ossia il fatto, che proprio nel tentativo di dire la verità su tutte le cose, il logos si imbatte nello on e rischia di esaurirsi in esso, di perdere in esso le cose e così anche la verità. Il Sofista di Platone è uno dei luoghi ove più forte la prima filosofia fa i conti con questa ipoteca ontologica, col tentativo di superare l’interdetto parmenideo e risolvere il problema della verità, che è il problema dell’essente e del non essente, implicito nell’unità dei molti. Nell’affrontarne la lettura di alcune sezioni, come si diceva, abbiamo di mira le domande fondamentali dell’ontologia, le sue prime questioni, quelle che si aprono immediatamente al pensiero che si fa consapevole della coimplicazione di logos e on, che è al tempo stesso la condizione di possibilità della verità, ossia della capacità del logos di corrispondere alle cose, e insieme l’implicazione che rende la verità costitutivamente infedele alle cose, giacché ogni omologia del logos è alterazione, ogni assimilazione e adaequatio è istituzione della diafor¦ e così tradimento. La domanda che quindi ci guida è: «cosa ne è della cosa quando essa viene detta dal logos?» Una domanda che poniamo in vista del nesso tra ontologia e nichilismo.
III.5 La neutralizzazione dell’interdetto parmenideo Inquadriamo innanzitutto l’ambito del discorso, poiché è utile mostrare sin dall’inizio che Platone in questo dialogo non guarda solo alla logica dei sofisti, bensì all’intero complesso del sapere filosofico e, in particolare, come dimostrano molti luoghi importanti del testo, anche a quella che Aristotele chiamerà la fusik¾ ™pist»mh. Nel definire l’arte dei sofisti come tecnica antilogica, infatti, lo Straniero di Elea elenca così gli ambiti intorno a cui il sofista dice e contraddice: “Intorno alle cose divine, 74
quante sono invisibili ai più”, intorno a “ciò che è visibile della terra e del cielo”, “intorno alla generazione e all’essenza relativamente a tutte le cose” e poi “intorno alle leggi e a tutta la politica” e “a tutte e a ciascuna delle arti”; “p£nta p£ntwn aÙtoˆ sofètatoi: i più sapienti di tutti su tutto” sono i sofisti (Soph. 232b5-233b3). Tra i vari cosmi del discorso citati in queste pagine, ve ne è uno che ha particolare pregnanza filosofica, innanzitutto perché è esplicitamente l’oggetto di quei “discorsi privati”, dialettici, ossia brevi e articolati in domande e risposte, che descrivono il logos propriamente filosofico, ma ancor più perché racchiude tutti gli altri: “ÐpÒtan genšseèj te kaˆ oÙs…aj pšri kat¦ p£ntwn lšghta… ti: quando costoro dicono qualcosa intorno alla generazione e all’essenza relativamente a tutte le cose”. Nel Timeo (27d5ss.) la discriminazione prima, il prîton diairetšon, è precisamente tra t… tÕ ×n ¢e…, ciò che è sempre essente, e t… tÕ gignÒmenon ¢e…, ciò che è sempre diveniente, quindi tra oÙs…a e gšnesij, che sono i modi elementari e fondamentali entro cui si danno gli enti, i poli di quella gigantomac…a di cui Platone vuole venire a capo non cancellando la loro differenza, ma ricomponendola. È questo il nesso cruciale e l’ambito complessivo del logos, quell’ambito che va salvato dal sofista e aperto alla ™pist»mh. Un salvataggio che avviene, come detto, non a partire dal logos, ma dall’ente, dalla verità dell’ente, e che si configura, qui come altrove in Platone, precisamente come fondazione della gšnesij – l’oggetto proprio dell’indagine dei fisiocratici – sulla oÙs…a12. Posto così l’ambito, Platone riassume i termini cruciali della questione in un’unica asserzione: “doxastik¾n ¥ra tin¦ perˆ p£ntwn ™pist»mhn Ð sofist¾j ¹m‹n ¢ll’oÙk ¢l»qeian œcwn 12 Fondazione e non risoluzione di un polo nell’altro, come vogliono non solo i sostenitori della natura esclusivamente somatica dell’ente, ma anche i loro avversari accademici, quegli “amici delle idee”, che non hanno compreso che il passaggio ¢pÕ genšsewj ™p’¢l»qeian te kaˆ oÙs…an, di cui si parla già nella Repubblica, non implica l’annullamento di ogni consistenza ontologica del sensibile (cfr. Res. 525c5 e Soph. 246a5-249d4).
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¢napšfantai: di una certa scienza opinativa intorno a tutte le cose il sofista si è dunque dimostrato a noi possessore, ma non della verità” (Soph. 233c10 s.). I termini messi in gioco sono quindi la dÒxa, la ™pist»mh, t¦ p£nta, ¹ ¢l»qeia, tÕ yeàdoj, che seppur qui non esplicitamente nominato è implicito in oÙk ¢l»qeian. Tra tutti gli altri termini così ben connotati rischia di sfuggire e non risaltare all’attenzione il più indefinito, t¦ p£nta, tutte le cose, tant’è che lo Straniero di Elea, rispondendo alla precisa domanda di Teeteto “pîj p£nta e|pej; in che modo dici «tutte le cose»?”, indica con un’espressione molto significativa quel che intende: “t¦ sÚmpanta: tutte le cose insieme”, i contutti, ossia quell’uno-tutto molteplice che era stato al centro dell’interrogazione dei naturalisti e che comprende me e te, gli animali e le piante, e inoltre il mare e la terra, il cielo e gli dei: e„j Ÿn p£nta sullabèn, dice Teeteto, “riassumendo in uno tutto” (Soph. 233c10-234b4)13. È evidente che questa “certa scienza opinativa” di tutto il molteplice non è vera ™pist»mh, proprio perché priva di verità, ma appunto dÒxa, non nel senso della mera opinione, bensì come un’arte e tšcnh logica affabulativa e creatrice di idoli, una paidi£, una bambinata, dice qui Platone, sicuramente ironizzando con l’affine paide…a, l’educazione dei fanciulli, di cui il sofista intendeva essere maestro14. La gohte…a del sofista, la sua malia, come abbiamo detto, conduce poi lo Straniero alla distinzione tra e„kÒna e f£ntasma (Soph. 236a9-b8) ed è proprio con l’entrata in scena di questo fantasma, dell’apparenza priva di sostanza e asimmetrica rispetto al mondo e tuttavia dotata di una
13 Peraltro, in questo stesso luogo (Soph. 233d9-234b11), troviamo a mo’ di cenno un esile indice di ciò che sarà di tali sÚmpanta: “Se uno affermasse non che dice o che contraddice, ma che sa produrre e fare tutte le cose con un’unica arte – poie‹ kaˆ dr©n mi´ tšcnV sun£panta ™p…stasqai pr£gmata”... Il richiamo, qui polemico, ma altrove di ben altra natura, è dunque a una po…hsij sump£ntwn come “¢potele‹n œrgJ: mettere compiutamene in opera”, produzione dei con-tutti che è esattamente l’opera del demiurgo del Timeo e che diverrà, in un senso molto più radicale, la creatio ex nihilo. Vedi più avanti, infra, § III.8 14 Soph. 233c10-234a10. Sull’antilogica come paidi£, cfr. pure Res. 539a1 ss.
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propria evidenza persuasiva, di un proprio apparir vera, che si arriva al problema cruciale. Problema che Platone formula in modo da rendere evidente, che ciò che qui si ha di mira è anche, o forse addirittura innanzitutto, la conoscenza del mondo sensibile, e che è quindi in vista di essa che si arriva poi al discorso sui generi sommi: ritraducendo il nesso propriamente ontologico sul piano dei fainÒmena, infatti, lo Straniero pone la domanda fondamentale nella forma di una correlazione tra due domande, una rivolta al piano dello on, l’altra a quello del logos: “Veramente siamo nel mezzo di una riflessione in tutto e per tutto difficile. Infatti, questo apparire e questo sembrare, ma non essere, e d’altro canto il dire certe cose, ma non vere, tutto ciò è da sempre gravido di difficoltà, aporia in passato e ora. In che modo bisogna dire, infatti, che il dire o l’opinare cose false sono veramente e, pronunciando questo, non incorrere in una contraddizione in termini, è cosa del tutto difficile” (Soph. 236d9 ss.). È evidentemente il problema del «veramente falso», questa la ™nantiolog…a, un problema posto esplicitamente entro l’ambito del dire, del pronunciare – toàto fqegx£menon –, del come poter dire, del come è necessario dire: Ópwj e„pÒnta cr». Un problema quindi logico, che però non trova soluzioni se non si fa ontologico. L’aporia del lšgein ¢lhqÁ dû m» – dire e tuttavia non veramente – è infatti inscindibile da quella del fa…nesqai e|nai dû m» – apparire e tuttavia non essere –, col che la questione del falso è posta sul fondamento di quella dell’apparenza inconsistente, del fenomeno ingannevole. Da tale correlazione risulta poi evidente, che anche rispetto ai fainÒmena, così come rispetto agli Ônta in generale, tÕ yeàdoj implica il m¾ Ôn, implica dire ciò che non è o, come si dice qui, sostenere quell’antilogia che ha osato – di nuovo la corrispondenza tra piano logico e piano ontologico – Øpoqšsqai tÕ m¾ ×n e|nai!, porre che il non ente sia. Infatti, dice, in nessun altro modo tÕ yeàdoj viene ad essere (Soph. 237a3 ss.). Il falso è nel logos che osa ipotizzare – ma nel senso greco di «porre innanzitutto», «premettere» – che il non essente sia. Questo passaggio è fondamentale: il falso non è semplicemente l’enunciazione del non ente, ma anche sempre l’afferma77
zione che il non essente sia, e questo perché il logos pronuncia in ogni cosa che dice l’essente, anche quando dice il niente. Affinché dunque il falso sia possibile, anzi affinché si possa dire che un certo logos è veramente falso – che è in fondo ancora il problema intorno a cui Platone polemizzava con Protagora –, bisogna dire come è possibile non semplicemente enunciare il non ente, ma che il non ente sia essente, senza cadere nella pura antilogia che distrugge il discorso. Il problema, dunque, sarà trovare nello stesso ×n il m¾ Ôn, perché certo non sarà nel m¾ ×n per sé che si darà la possibilità di un suo essere: in ciò, infatti, Platone rimane fedele a Parmenide (cfr. Soph. 258e5 ss.), di cui proprio in questo luogo ha citato l’interdetto: mai ciò sarà domato, dice, che cose che non sono siano – e|nai m¾ ™Ònta ma tu nel tuo ricercare da questa via distogli il pensiero.
A dire il vero – lo dico staccandomi per un tratto dal testo – questa possibilità del falso è già inscritta sin dall’inizio nell’ontologia platonica, precisamente nella sua comprensione lucidissima della struttura dell’identità: come emerge poi anche qui, l’ente, tÕ Ôn, è immediatamente o addirittura preliminarmente «il questo», tÕ aÙtÒ, che ha già sin dall’inizio in sé l’identico, il taÙtÒn. TÕ Ôn, tÕ aÙtÒ, taÙtÒn: cosa è intrinseco a questa struttura identitaria dell’ente, a questa unificazione che identifica «un ente», Ÿn Ôn?, un che, ›n t…? – come Platone nota anche qui poco più avanti, dove rileva che senza un «tal che» il pensiero non pensa, o meglio pensa ni-ente, che in greco si dice precisamente mhdšn, ni-uno, nessuno. TÕ aÙtÕ significa contemporaneamente «questo», «esso» e «lo stesso», «un questo stesso», enfaticamente come toàto kaˆ oÙk ¥llo, come si legge per esempio nel Timeo: “questo e non altro” (Tim. 49d2). La stessità di un questo è guadagnata dalla negazione dell’alterità, è il riflesso sullo stesso della negazione del diverso, è la non negazione di sé15.
15 E precisamente in tal senso anche Tommaso interpreta lo aliquid come aliud quid: “infatti si dice aliquid quasi che fosse un’altra quiddità. Per conse-
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Il questo stesso è dunque identico come doppio negativo: «quest’uno e non i non quest’uno». Non è difficile ritrovare ciò anche nella successiva analisi del Sofista intorno alla partecipazione dei generi dell’identico e del diverso, così come non è difficile ritrovare l’analisi della dualità intrinseca all’identità e dell’implicita negazione a essa inerente nelle varie deduzioni del Parmenide. Se così stanno le cose, però, non è neanche difficile vedere come il m¾ ×n e|nai: e anzi non accidentalmente o solo qualche volta, ma è in ogni ente che è – “kat¦ p£nta t¦ Ônta diesparmšnon: disparso in tutte le cose”, si dirà qui più avanti (Soph. 260b7) –, tal ché il diverso, tÕ ›teron, è genere sommo che insieme all’ente si pronuncia di tutto, anche se deriva questa sua potenza proprio dall’ente stesso, esattamente dal fatto che esso stesso è (Soph. 259a4 ss.). Ma proprio in tale derivazione, proprio nel fatto che il non ente come l’ente può dirsi di tutto esattamente perché è, si fa evidente come esso sia intrecciato nell’ente, posto con l’ente stesso, inseparabilmente. E anzi secondo una dinamica proliferativa, che lo moltiplica fino all’infinito, nella misura in cui ogni ente è identico una sola volta, è un che, ma infinitamente diverso da tutti i diversi; ossia poiché ogni volta il questo qui è solo un numero limitato di cose, quindi è secondo un numero finito, mentre non è infinitamente tutto ciò che non è (Soph. 256d10 ss.). Ma non abbiamo detto ancora tutto e tratte tutte le conseguenze. Affinché il logos falso si dia, infatti, esso non deve solo dire che il non ente è, o meglio lo deve fare in un certo modo: affermando che ciò che è non è o che ciò che non è è, o negando che ciò che è è e che ciò che non è non è, come poi lo Straniero di Elea integra esplicitamente (Soph. 263b4-e13), possibilità dell’affermazione e della negazione che si dà proprio perché il logos può dire il non ente. Ossia: così come tÕ ×n è intrinsecamente e insieme affermazione dello stesso tramite la negazione
guenza, come un ente è detto uno in quanto è indiviso in sé, così è detto qualcosa in quanto è distinto dagli altri” (cfr. Tommaso, Sulla verità, cit., p. 120).
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dell’altro, quindi contemporaneamente positivo e negativo, così lo è il logos, definito secondo queste sue due modalità fondamentali, f£sij e ¢pÒfasij. Il logos non solo dice l’ente, ma proprio nel dirlo lo afferma e lo nega al tempo stesso, afferma lo stesso che il questo è e nega l’altro che lo stesso non è. All’ente che è sempre non ente corrisponde il sì che è sempre no. Il vero e il falso sono così il sì e il no all’essere dell’essente. Il rispecchiamento logos-on è così compiuto: sono entrambi potenze insieme affermative e negative, che in ogni loro manifestazione affermano solo al costo di negare e negando ancor sempre affermano! Cosa ne è però della cosa dopo questo rispecchiamento? – e così torniamo alla nostra domanda iniziale, per cominciare a darle una prima, piccola risposta. Facendo notare che qui non è, né può ancora essere, in questione solo l’“aporia degli antichi”16, che consiste nella difficoltà di pensare il «divenire altro» di ciò che è questo e non altro, a partire dalla sua nascita, problema del divenire che Platone risolve nel Parmenide (155e4 ss.) inventando un tempo fuori dal tempo, lo ™xa…fnhj, tempo entro cui possa avvenire il passaggio dallo stesso all’altro, un tempo non tempo che si infila dietro ogni momento del divenire e lo consolida della sua atemporalità, lo intesse compiutamente e in maniera continua dell’essere che al tempo del nàn sempre manca. Già nell’essente stesso, infatti, già nella sua identità istantanea e non solo nel suo mutare, la cosa è posta come difettiva e, ancora una volta, non solo come fainÒmenon, ossia e„kèn della sua „dša, o meglio solo mediatamente tramite ciò, solo successivamente. Già nella prima mossa, invece, già nell’ente in quanto tale, ossia come essente questo qui e non altro, la cosa è decomposta e radicata fuori di sé, alienata, alterata. Infatti, questo Ÿn Ôn, un ente, identificato nella sua unità come questo stesso, c’è per il logos in grazia della sua stessità e non della sua presenza, c’è perché è un che, un ente che può essere uno stesso, un ente determinato dal suo essere questo e non altro, ossia da
16 Come la definisce Aristotele in Phys. 191a23, ove si affronta la stessa questione.
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quella che Platone per primo chiamò in tal senso la sua essenza! La oÙs…a, che proviene dal t… ™stin; socratico, questo termine che abbiamo visto sovrapporsi nell’ontologia platonica alla gšnesij, che era il termine primo della filosofia della natura presocratica, indica precisamente l’alienazione di ogni cosa nel suo esser questa stessa che è così e non altrimenti! In tal modo, la cosa non è più semplicemente questa, un t…, ma essa, tÕ aÙtÒ, è ciò che è, è la sua essenza, appunto il suo t… ™stin. Il piatto è «un piatto», dove l’«un» è oramai più nulla rispetto all’esser piatto di quest’uno. Qui nasce l’idea. Nell’affermazione del logos, nella verità come questo dire sì e ribadire, che dicendo il questo nel suo essere lo stesso, esso stesso e non quell’altro, siffatto e non diverso, nella sua Ðmolog…a e taÙtolog…a, il dire lo stesso dello stesso, nel raddoppiamento di questo nel suo esser tale, dissolve l’unità nell’entità, la cosa nell’essenza, nel suo essere questa cosa, questo ente.
III.6 Omologia ed eterologia del logos Valga, quanto appena detto in maniera sintetica e generale come inquadramento preliminare alla lettura della parte centrale del Sofista, dalla quale ci attendiamo qualche conferma, che in effetti troviamo già nelle sue prime mosse e premesse. Nell’affrontare l’interdetto parmenideo, infatti, lo Straniero di Elea si propone di mostrare come in esso non parli solo l’autorità di un maestro, ma come quel che dice sia intrinseco al logos stesso, purché lo si torturi un po’ affinché confessi: Ð lÒgoj aÙtÕj ¨n dhlèseie mštria basanisqe…j! (Soph. 237b2-3). E dunque comincia a fare a Teeteto alcune domande apparentemente di scarsa rilevanza, nelle quali però pone indistricabilmente quell’unità preliminare dello Ÿn ›kaston Ôn, di cui dicevamo prima, unità nella quale si consuma compiutamente l’entificazione del qualsivoglia e con essa la sua duplicazione in un che che è questo e non altro. Percorriamo queste pagine in estrema brevità (Soph. 237b5 ss.): noi osiamo pronunciare (il solito fqšggesqai) “tÕ mhdamîj 81
Ôn: l’ente null’affatto”. Ossia, molto banalmente, sappiamo dire che una cosa è per nulla, che non è. Ma cosa intendiamo con con questa parola, a cosa riferiamo il nome non essente – po‹ cr¾ toÜnom’™pifšrein –, verso cosa, in quale modo e cosa diciamo con esso – e„j t… kaˆ ™pˆ po‹on kaˆ t^; – questi tutti i termini che poi sono sintetizzati nel shma…nein mal tradotto con meinen da Heidegger. Difficile a dirsi, ma certo non a qualcosa di ciò che è – tîn Ôntwn ™p… ti – si deve riferire il nome «non ente», pena l’immediata contraddizione del logos: «essente non essente» –; e in ciò, ripeto, Platone non infrange l’interdetto parmenideo. Sarebbe come dire, nel linguaggio che noi parliamo, poiché è di questo che lo Straniero chiede qui a Teeteto, di un qualcosa che è qualcosa e al tempo stesso che è niente, il che è ovviamente un non dire. Ma, aggiunge, se non si può dire di un ente, allora nemmeno di un che – ™pe…per oÙk ™pˆ tÕ Ôn, oÙd’™pˆ tÕ t… –: il «che», tÕ t…, è lo ›kaston, un qualsiasi che, una qualsiasi cosa. E il non essente non si può dire né dell’essente, né del che, giacché – ed ecco l’ipotesi ontologica, che qui risulta come testimonianza del logos stesso: – il che lo diciamo ogni volta di ente: tÕ tˆ ™p’Ônti lšgomen ˜k£stote! (Soph. 237b7-d2). Qualsiasi cosa è ente, il «che» è sempre ciò di cui diciamo l’essere o il non essere, e l’essere questo e tale o non essere questo e tale: “Dire infatti solo lo stesso (che), come nudo e isolato da tutti gli enti, è impossibile: mÒnon g¦r aÙtÕ lšgein, ésper gumnÕn kaˆ ¢phrhmwmšnon ¢pÕ tîn Ôntwn ¡p£ntwn ¢dÚnaton”… La cosa, ogni cosa, ogni-uno entro il tutto, è ente. Ma non solo, giacché lo Straniero non tralascia qui neanche l’uno stesso come ›n ti, che è ogni che che è. “E nel dichiararti d’accordo”, chiede a Teeteto dopo l’ultima considerazione, “stai vedendo che necessariamente colui che dice qualcosa dice un qualcosa?” – nel testo greco l’uno risulta enfatizzato dalla sua posizione: tÒn ti lšgonta ›n gš ti lšgein; (vedi pure Teeteto 188d189a). “`EnÕj g¦r d¾ tÕ ge tˆ f»seij shme‹on e|nai, tÕ dû tinû duo‹n, tÕ dû tinûj pollîn: di uno, infatti, dirai che è segno – ossia indice, indicazione – il che, di due il tinš – che è il duale di t…, intraducibile in italiano –, di molti i che”. Posta in tal modo l’equivalenza: ›kaston-Ôn-›n, la conclusione è ovvia: “Colui 82
che dunque dica il «non che» – qui a m¾ ×n si sostituisce oramai senza difficoltà il m¾ t… – è assolutamente necessario, come è evidente, che in tutto e per tutto dica nulla – mhdûn lšgein: il nonuno, niuno, nessuno”. Ma dire nessuna cosa è non dire: chi pronuncia il non-ente non parla affatto – oÙdû lšgein: e così parrebbe giustificato l’interdetto di Parmenide (Soph. 237d3-e7). Senonché, proprio in questa conclusione si cela “la prima e più grande delle aporie”: anche in tÕ m¾ Ôn, infatti, e non tanto tramite lo Ôn, ma innanzitutto tramite il tÒ, l’articolo, che rimandando a «un che» dice sempre anche l’uno, noi abbiamo detto l’essere del non essente e l’uno del nessuno. Ossia, il non ente è sempre «un non ente» e, in quanto uno, sempre un ente: detto dal logos, anche il non essente è un che di essente. L’antilogia è inevitabile, è intrinseca al logos stesso: “m¾ Ôn dš, _ra, oÙ tÕ Ÿn a};: dicendo non ente non aggiungiamo dunque l’uno?”. Ma anche se volessimo perciò negare il non ente e dire che “né lo si può pronunciare correttamente, né dire, né pensare, esso stesso di per se stesso, ma è invece impensabile, indicibile, impronunciabile, inesprimibile”, ebbene, proprio con ciò lo abbiamo pronunciato, detto, pensato, espresso! E propriamente come un uno e un ente che è – “Ÿn aÙtÕ e‡rhka: tÕ m¾ Ôn g¦r fhm…: Uno l’ho detto: dico infatti il non ente”. E del non ente dico che «è» impronunciabile: ¥fqegkton e|nai. Anzi già aggiungendo il tÕ lo abbiamo detto come uno: “TÕ tÒ pros£ptwn oÙc æj ˜nˆ dielegÒmhn;” (Soph. 238a1-239a3). TÕ m¾ Ôn, insomma, dice il logos da se stesso, Ÿn ×n e|nai. In questa forma, dunque, esso si contraddice, come lo Straniero chiosa, notando che, stando a quanto si diceva di esso, non potremmo dire né la oÙs…a, né l’uno, né i molti e invero neppure “esso”: aÙtÒ! (Soph. 239a8-b9). La ragione di questa contraddizione, sia chiaro, è la stessa dell’interdetto parmenideo, che in qualche misura risulta superato, ma anche convalidato. Il logos, infatti, proprio nella misura in cui dice sempre l’ente, realizza costantemente l’interdetto, non lo deve semplicemente rispettare, poiché non può non rispettarlo: il non ente non riesce affatto a dirlo, giacché anche quando pronuncia “m¾ Ôn”, lo dice e lo pensa come “tÕ m¾ Ôn”, 83
il non ente, ossia come un ente. Questa contraddizione è, in effetti, la più intima coerenza e accordo con se stesso del logos. Tuttavia nell’antilogia del non ente il sofista si nasconde, poiché ne deduce l’indicibilità del falso, posto il falso come enunciazione del non-ente. Il problema rimane, allora, come pronunciare in maniera corretta qualcosa intorno a questo strano che che non è: kat¦ tÕ ÑrqÕn fqšgxasqa… ti perˆ aÙtoà (Soph. 239b4-b11). Una vera e propria “Ðrqolog…a perˆ tÕ m¾ Ôn”, che, come sappiamo, è quella che lo chiamerà ›teron, ossia propriamente il diverso che ogni ente è rispetto agli altri diversi da esso, ove qui ente dice, oltre alla cosa, anche tutte le sue caratteristiche e qualità, tutto ciò che ha un nome o che è comunque identificabile dal logos come questo che di cui si dice. Prima di arrivarvi, però, lo Straniero riproduce l’argomento ontologico, qui appena svolto direttamente sul piano dello Ôn, riportandolo su quello più strettamente logico degli e‡dwla legÒmena e quindi dell’arte fantastica del sofista, ossia alla questione del «veramente falso», questione entro la quale si intreccia nuovamente la trama tra ×n e m¾ Ôn – peplšcqai sumplok¾n tÕ m¾ ×n t^ Ônti (Soph. 239c9-240c6). Non è comunque necessario ripercorre puntualmente questa sezione, poiché si finirebbe per ripetere cose già dette e perché conduce alla stessa conclusione di prima, ossia alla domanda su qual è la mhcan», l’artifizio, la via traversa che ci consenta di asserire che il logos può dire l’indicibile, il m¾ Ôn, e così anche essere veramente falso – posto che falso è dire, pensare, immaginare il non ente –, o meglio può dire che sono i non enti o che non sono gli enti: t£ te Ônta lšgwn m¾ e|nai kaˆ t¦ m¾ Ônta e|nai (Soph.. 240d6-241a4 s.). Con questa specificazione, che si sviluppa in alcune battute e che ha varie sfumature sulle quali qui non ci dilunghiamo, lo Straniero preannuncia quella che sarà la sua soluzione, che rimanda però ad una fase successiva del dialogo, dopo il discorso sulla dÚnamij e quello sui generi sommi. L’introduzione del concetto di “potenza” deriva precisamente dal confronto con le tesi dei naturalisti e con quelle degli idealisti. Le prime sono descritte come riflessione sull’uno tutto e come mito intorno alla 84
generazione di tutte le cose da parte di un numero limitato di enti tramite la polemica dei contrari, argomenti sui quali torneremo parlando della Fisica di Aristotele e che quindi si possono per ora tralasciare, facendo salva l’unica annotazione, che è proprio dopo aver elencato quelle tesi, terminando con la dottrina dei contrari, che lo Straniero pone le due domande sul non ente e sull’ente, alla seconda delle quali fa poi riferimento Heidegger nell’esergo a Essere e Tempo. Le tesi degli idealisti, invece, sono introdotte nei termini della gigantomac…a perˆ tÁj oÙs…aj, ossia intorno alla determinazione corporea o incorporea dell’essenza. Il riferimento complessivo è, quindi, al nesso tra gšnesij e oÙs…a, anzi, in quella gigantomac…a, propriamente all’alternativa tra gšnesij o oÙs…a, poste da materialisti e idealisti rispettivamente come verità dell’ente (Soph. 246a5-c2: gšnesin ¢nt’oÙs…aj…). Alternativa rispetto alla quale Platone cerca qui una via intermedia tramite la dÚnamij, che è il come di tutto ciò che è in quanto può agire o patire in qualsiasi relazione con altro (Soph. 247e1ss.). La dÚnamij, in altri termini, non dice l’essenza dell’ente in quanto tale, ma la condizione (Óroj) alla quale è ente e non niente, è un che e non nulla. La condizione alla quale fa parte del tutto! Alla quale per noi un qualsiasi che, un qualsivoglia, c’è, comprese le idee: c’è, a condizione di avere una qualsiasi relazione, anche minima e anche una volta sola (¤pax), con un qualsiasi altro che. Altrimenti non la possiamo indicare da nessuna parte, non si presenta in nessun modo, non è identificabile da nessuno, e quindi, poiché è questo propriamente che qui Platone ha di mira, neanche conoscibile17. È anche per questa ragione che il discorso sulla gšnesij e sulla oÙs…a, pur essendo nel suo complesso uno snodo fonda17 Tuttavia Platone qui forse non vede, che in tal senso il tutto non c’è…: in quanto uno e unico, non è localizzabile e non ha relazione con niente… Come che sia, è evidente che la dÚnamij dice anche l’esistenza come localizzazione rispetto ad un’alterità, ossia in relazione ad altro: anche per esserci in qualche modo, in qualsiasi modo possibile, l’ente ha bisogno dell’altro. Quindi sia sul piano ontologico, che su quello esistentivo.
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mentale nella fondazione platonica dell’ontologia, non verrà approfondito qui, poiché in questa parte del dialogo la gigantomac…a, per quanto venga descritta nei suoi tratti principali, è affrontata non tematicamente, ma sempre in vista dell’ortologia dell’ente e del non ente, sfociando nella questione del rapporto tra anima ed essenza, che è ancora la questione della ™pist»mh: come è possibile conoscere le idee, se esse, poste in quanto perfettamente autoidentiche ed esenti da qualsiasi mutamento, unità compiutamente essenti e autarchiche, separate, intangibili, non sembrano poter subire neanche la passività dell’esser conosciute? (Soph. 248c11-e5) È, insomma, una declinazione della questione della mšqexij o koinwn…a del logos con le idee. Per questo il discorso, arricchito dalla discussione sulla comunicazione dei generi, poi ritorna e confluisce in quello conclusivo e risolutivo su verità e falsità. Prima di passare oltre, però, anche solo incidentalmente è opportuno dire che, se è pur vero che Platone prende qui una posizione per certi versi critica rispetto ad alcune rigidità della teoria delle idee come essa era espressa nella Repubblica18, il nesso che in quella teoria era pensato tra gšnesij e oÙs…a, ossia propriamente la fondazione, e non la cancellazione, della gšnesij sulla oÙs…a, non muta, come dimostra poi ampiamente il successivo Timeo. Dal secondo argomento, invece, la koinwn…a tîn genîn, assumiamo solo la conclusione che qui più ci riguarda e che abbiamo già sufficientemente accennata, ossia la declinazione del m¾ ×n come ›teron, il non essente come «non essente questo e così», ossia il diverso e non il contrario dell’essente (ivi, 257b3c4). E andiamo quindi subito alla conclusione di tutto il discorso, al momento in cui lo Straniero riprende la questione del falso da dove l’ha lasciata, per darle una soluzione definitiva, grazie alla quale, poi, può continuare nella sua caccia al sofista e, infine, afferrarlo.
18 Di cui, infatti, cita ironicamente molte espressioni caratteristiche, attribuendole agli “amici delle idee” (cfr., per esempio, Soph. 248a12 e Res. 484b5 s.).
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Terminata l’analisi dei 5 generi sommi, entro la quale è incidentalmente già emerso che l’™pist»mh è, al pari dello ›teron, una e tuttavia spezzettata nelle cose (ivi, 257c7-d2), lo Straniero richiede a Teeteto un’ammissione a prima vista problematica, ossia che il logos stesso sia “uno dei generi essenti: tîn Ôntwn ›n ti genîn e|nai” (ivi, 260a5 ss.). E lega poi quest’asserzione alla constatazione che, privati del logos, saremmo privati della filosofia stessa e di ogni possibilità di conoscenza, anzi di parola; il che equivale a risollevare la pregiudiziale epistemica. Ad ogni modo, l’ammissione ci pare problematica, poiché siamo portati a pensare il termine «genere» in maniera esclusivamente logica, mentre qui è termine ontologico; per quanto, infatti – ma sia detto solo incidentalmente –, proprio nella fondazione platonica dell’ontologia si consumi il passaggio dal gšnoj come genere della generazione naturale al gšnoj come genere universale, tuttavia il significato originario e ben più concreto della parola continua ad essere in parte attivo: essere un genere degli enti significa ancora in Platone essere un certo tipo di cosa, dotata di quella dÚnamij di agire e patire rispetto alle altre. Relazione che è necessaria affinché il logos incontri le cose e così possa dirle: “Ci verrebbe sottratto”, dice lo Straniero, “se ammettessimo che non si dà nessuna mescolanza di niente con niente”, ossia se appunto non vi fosse comunicazione tra gli enti. In particolare, è la sua comunicazione con il diverso, che è stato posto come genere “disseminato in tutte le cose”, che conta: “Se [il diverso] non si mescolasse con essi [dÒxa e lÒgoj]19 di necessità tutto sarebbe vero, mischiandosi invece si danno opinione e logos falsi: infatti il falso nell’opinione e nel logos è opinare e dire i non enti”. Falso che fonda la possibilità dell’inganno e della produzione di idoli, in cui eccelle il sofista (ivi, 260c1 ss.). 19 Come si vedrà subito, è significativo e importante che qui si parli anche di dÒxa: non solo dire, ma anche opinare, ossia affermare e credere il detto, tenerlo per vero, ri-tenerlo nel sì o nel no ad esso, nell’adesione o nel rifiuto. Sono infatti f£sij e ¢pÒfasij che rendono un dire opinione (cfr. Soph. 263e12 ss.).
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Affinché il falso sussista, insomma, non c’è bisogno solo che il non ente in qualche modo sia, ma anche che il logos abbia una comunicazione con tale non ente, potendolo dire (Soph. 260e2 s.; in 261c8 si parla di un vero e proprio contatto: il logos ¤ptetai tÕ m¾ Ôn). Comunicazione che, in effetti, è una potenza del logos nella misura in cui esso, pur non essendo un genere sommo20, partecipa di tutti, poiché li dice tutti, giacché dice innanzitutto l’ente che tutti li regge e tiene insieme – ›kaston ¢forisqšn, per rubare qui e generalizzare un’espressione riferita prima all’™pist»mh (Soph. 257c7 s.). Non è a questo argomento, però, che lo Straniero qui si appella, perché non sarebbe sufficiente a discriminare con nettezza tra vero e falso, pur ponendoli entrambi come potenze del logos. La domanda che va posta, quindi, è come si costituisce e che forma ha questa “comunicazione con ciò che non è” che rende anche il falso qualcosa di essente (Soph. 261a2: tÕ yeàdoj ×n ¢pode…xwmen), sottraendo in tal modo il logos alla necessità di essere sempre vero e così, in ultima analisi, una mera bambinata. Per rispondere a tale domanda, Platone prende le mosse da un esame intorno ai nomi (Soph. 261d1 ss.), cosa che fa per una ragione semplice: poiché i nomi “dichiarano l’essenza della cosa”, come aveva mostrato nel Cratilo e come ripete anche qui dicendoli “perˆ t¾n oÙs…an dhlèmata”21. In ultima istanza, ciò vuol dire che a ogni nome semplice corrisponde uno Ôn, ove tale «essente» sia inteso in tutto lo spettro entro cui sarà poi posto con il lšgetai pollacîj aristotelico, ossia anche come qualità essente, quantità, luogo, e poi azione e passione e così via… I nomi di cui Platone parla, infatti, non sono solo i sostantivi, ma 20 Ma è innegabile che abbia una tendenza a divenire tale, proprio per il suo ruolo risolutivo rispetto alla questione del vero e del falso, oltre che per la sua capacità di cogliere tutti i generi e invero tutte le cose (capacità che verrà riconosciuta nella sua pienezza nel De Anima di Aristotele, 431b21, laddove questi asserisce che l’anima è in un certo senso tutte le cose: ¹ yuc¾ t¦ Ônta pèj ™stin). Qui in qualche modo è gettato il seme, il cui frutto sarà nella concezione cristiana dell’intelletto agente (divino) come garanzia ultima di ogni sostanza e di ogni verità (cfr. Tommaso, Sulla verità, cit., p. 128). 21 Soph. 261e5-6 e Crat. 393d4.
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anche i verbi e in generale tutte quelle parole che chiamiamo categorematiche, ossia per sé significative, che indicano un qualcosa. Qui, però, che a differenza del Cratilo l’indagine non è sulla «correttezza del nome», ma sulla «verità del logos», il riferimento al nome dovrà essere solo il primo passo, poiché un autentico logos non si dà in un nome solo, ma ne richiede almeno due e in una forma indicativa, in una autentica sunarmog», commessione, armonia, o sumplok», intreccio (Soph. 261e1, 262c6). Il logos minimo, insomma, non si limita a dichiarare un ente nella sua essenza, non ne dice solo il t… ™stin, ma anche il come è, il pîj ™stin, intendendo questo non solo come indice della qualità, ma nell’intera ampiezza che aveva lo Ópwj così come lo avevano pensato i presocratici, ossia come l’intero complesso delle caratteristiche, disposizioni e relazioni, accidenti che determinano un certo ente22. Il logos, dunque, di un ente dice un ente, altrimenti non è vero logos. Scrive Platone: altrimenti “oÙdû oÙs…an Ôntoj oÙdû m¾ Ôntoj dhlo‹: non dichiara né un’essenza essente, né una non essente” (Soph. 262c4). Questo raddoppiamento, essenza essente o non essente, qui è molto importante, poiché allude alle due possibilità elementari del dire l’essenza di un essente, il suo esserci e il suo essere o non essere così e così: il nome dice solo l’ente, il logos che c’è e com’è. Di una qualsiasi cosa, dunque, il logos dice sempre qualcos’altro, per esempio “Teeteto siede” (Soph. 263a2). Solamente così “non solo nomina, ma anche porta a compimento e racchiude entro i suoi limiti un che: oÙk Ñnom£zei mÒnon, ¢ll£ ti pera…nei, perˆ tîn Ôntwn À gignomšnwn À gegonÒtwn À mellÒntwn: circa – e questo «circa» è tra le parole qui 22 Cfr. Res. 478a7: ™pist»mh mšn gš pou ™pˆ t^ Ônti, tÕ ×n gnînai æj œcei. Così anche in Empedocle, nel suo nÒei d’Ãi dÁlon ›kaston (DK31B3) ed Eraclito nel fr£zwn Ókwj œcei (DK22B1). Ãi e Ókwj, naturalmente, sono forme equivalenti a Ópwj. Aristotele spesso userà ›xij in questo senso del tutto generico, piuttosto che nel senso più ristretto che ha come categoria singola. In seguito, per definire più rigorosamente le diverse forme possibili della predicazione, Porfirio introdurrà come sue determinazioni gli universali del proprio e dell’accidente inseparabile, distinguendoli dalla differenza specifica (cfr. Porfirio, Isagoge, tr. it. a cura di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, pp. 86 ss.).
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più importanti! – le cose che sono e che divengono e che sono divenute e le venture”: tutte le cose. Il plšgma, l’intreccio, è dunque tra il nome che indica il t…, il sostantivo, e il verbo che indica la sua modalità, il perˆ toà Ôntoj, la pr©xij – che mal traduciamo con “azione”, poiché invero dice la realtà, la concretezza della cosa, del pr©gma23, il suo essere in uno Ópwj e in una ›xij, disposizione e habitus. In questo intreccio consiste il logos apofantico, manifestativo, e quindi lo spazio della verità e della falsità: più avanti, infatti, lo Straniero chiede a Teeteto di quel discorso minimo secondo cui “Teeteto siede”, “perˆ oÏ t’™stˆ kaˆ Ótou: intorno a che è logos e di che”, ossia di cosa dice e cosa dice intorno a quel che dice, su quel che dice (Soph. 263a5 s.). Tale plšgma che è il logos, nell’essere lÒgoj tinÒj, “di un che” – giacché abbiamo detto chiaramente che non potrà comunque essere il logos di un non ente e, se del non ente, solo in quanto essente24 –, che però non si limita a indicare il che, ma dice anche intorno ad esso, avrà un suo stesso poiÕn come modalità determinata d’essere (Soph. 262e9), in realtà come alternativa tra due qualità distinte, appunto la sua verità e falsità. Che gli derivano, in ultima analisi, dal fatto che, nel dire di una cosa una cosa, sunqeˆj pr©gma pr£xei (Soph. 262e13), il logos ha sempre due possibilità fondamentali, che Platone indica poco più avanti, l’affermazione e la negazione, f£sij e ¢pÒfasij (Soph. 263e12). Questo è un punto molto importante, dove il cerchio in effetti si chiude: nella distinzione, entro il logos e il pensiero, dell’affermazione e della negazione, che portano alla sua ¢poteleÚthsij, al suo compimento, il logos come dÒxa – che qui non significa mera opinione, ma «tener per vero», assenso al detto, accordo con ciò che è pensato (Soph. 264b2)25. Rispetto ad ogni 23 In Soph. 262d9 ss. leggiamo, infatti, che come t¦ pr£gmata si armonizzano tra loro, così gli indicatori della voce, le parole. 24 Soph. 262e7: m¾ dû tinÕj ¢dÚnaton; 263c9 s.: mhdenÕj ge ín oÙd’¨n lÒgoj e‡h tÕ par£pan […]; tîn ¢dun£twn {n lÒgon Ônta mhdenÕj e|nai lÒgon. 25 Semplifico un movimento più complesso, che coinvolge la di£noia come di£logoj entro l’anima, che si fa opinione con l’affermazione e la negazio-
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cosa, il logos può affermare che è così o negarlo, essendo nell’uno o nell’altro caso vero o falso. Affermazione e negazione, però, che forse non traduciamo nel modo migliore con tali termini, poiché qui non sono pensate in senso strettamente logico, non necessariamente, per esempio, come la contraddizione tra le asserzioni «siede»–«non siede», bensì in un significato più ampiamente ontologico. L’affermazione afferma come l’ente è e se veramente c’è, la negazione se ne distacca: ¢pÕ-fasij, dove questo ¢pÕ indica una distanza del dire e differenza dal come è dell’ente. La f£sij, insomma, afferma una pr©xij del pr©gma, l’¢pÒfasij afferma qualcosa di diverso, non necessariamente il contrario o l’opposto. A “Teeteto siede”, infatti, lo Straniero oppone “Teeteto vola”: il t…, lo Ótou, è lo stesso e anche il perˆ oÏ, ciò intorno a cui, ma è proprio ciò che è detto intorno a ciò di cui è detto a essere differente, ciò che si afferma intorno a questo t…, distaccandosene. Il discorso vero dice “t¦ Ônta æj œstin perˆ…”: gli essenti come sono intorno a ciò di cui si dicono; il falso “›tera tîn Ôntwn”: diversi da come sono, e dunque “t¦ m¾ Ônt’¥ra æj Ônta: i non essenti come essenti”, ove questi non essenti sono le pr£xeij, i modi in cui certi enti non sono (Soph. 263a8-b9). t¦ Ônta æj œstin – m¾ Ônta æj Ônta: in queste due semplici forme è posto il sÚmplegma che il logos è nelle sue due possibilità elementari, dire di un ente come-in quanto è o non è. Ove anche questi m¾ Ônta non sono affatto ¤plwj mhdšn, il semplicemente nulla che il logos non sa dire, ma a loro volta pr£xeij che hanno una propria essenza, essenti, che non sono però quelli che convengono al pr©gma di cui si parla, bensì altri: “Ôntwn dš ge Ônta ›tera perˆ…!: enti diversi intorno a…, ma essenti” (Soph. 263b11). È dunque nella sÚnqesij che pone “q£tera æj t¦ aÙt¦ kaˆ m¾ Ônta æj Ônta: i diversi come gli stessi e i non essenti come essenti”, che si genera il discorso veramente falso, Ôntwj te kaˆ ne di qualcosa, che si esprime poi nelle forme materiali e nominali del logos fonetico (Soph. 263d6 ss., 264b3).
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¢lhqîj g…gnesqai lÒgoj yeud»j (Soph. 263d1-5). È così chiaro che questa negazione del logos che dice i non essenti non è la contraddizione della logica, bensì è essa stessa affermazione, solo che afferma ciò che non è intorno all’ente di cui dice, ciò che non gli si confà. Si comprende quindi così a fondo, che la negazione deve essere una possibilità prima nelle cose, nel loro essere e al tempo stesso non essere, per poter essere anche veramente nel logos; e si comprende per questa ragione perché lo straniero ha prima dovuto trovare l’essere del non essente, la negazione intrinseca nell’ente. Salvo considerare il fatto, che nelle cose è il logos stesso che l’ha ipotizzata, e proprio insieme al loro essere. Posta dunque l’ortologia del m¾ ×n come quella che corrisponde al suo essere in quanto q£teron, la differenza tra vero e falso è quella tra Ðmolog…a e ˜terolog…a: il primo di un che dice lo stesso che è, dello ¢utÕ taÙtÒn, Ðmologe… la sua identità e disposizione; il secondo il diverso da ciò che è, che può dire in quanto l’ente è l’autoidentico differente, toàto kaˆ oÙk ¥llon.
III.7 Eguagliamento ed alterazione della cosa Come si è visto, il problema ontologico è insieme e innanzitutto il problema della verità: il qewre‹n che si affida all’evidenza del mondo per esservi omologo, per dire cos’è e come è, può essere ™pist»mh vera solo dicendo l’essere delle cose, ma nel dire l’essere delle cose si allontana dalla loro evidenza. È l’opposizione che Nietzsche ritradurrà nella differenza tra «mondo vero» e «mondo apparente» e che Platone, esemplarmente ma non solo nel Teeteto, pone come differenza tra fa…nesqai ed e|nai, differenza che lega a quella tra gšnesij e oÙs…a, il mondo sensibile dei procedenti e quello intellegibile dei sempre essenti, t¦ pro#Ònta e t¦ Ônta. La verità, che è ciò che indirizza lo sguardo filosofico sin dall’inizio, che lo costituisce come tale, è in questa stessa opposizione: è ciò che si mostra nella sua propria spontanea evidenza, cui corrisponde il dire omologo che dell’evidenza dice cos’è. Rispetto a ogni cosa, così come rispetto a tutte le cose, dire la ve92
rità è dire cos’è e come è ciò che così si manifesta da sé: ma nel «ciò» e nel «come», nel t… e nello Ópwj, il logos dice innanzitutto l’ente, ossia ha già sempre operato l’equivalenza tra il qualunque che si mostra e l’un ente che questo qualunque deve essere per poter essere pensato e detto. Nell’entità di quest’uno, insomma, è tradita la parvenza del che, come la storia della filosofia mostra in molti modi. Ciò non avviene, però, per un arbitrio o un errore, poiché è nel logos stesso che si radica l’interferenza dell’ente, che è posta questa ipoteca ontologica. Tra le opere della filosofia antica è forse proprio il Sofista che lo dimostra nella maniera più chiara, con la sua indagine sul logos, sottoposto a un interrogatorio e “moderatamente torturato”, per strappargli la propria testimonianza sull’ente e il non ente, sul vero e sul falso. Abbiamo già seguito gran parte del suo sviluppo, non ci resta in effetti che trarre le ultime conseguenze rispetto alla nostra domanda, leggendone ancora solo pochi paragrafi. A questo punto, però, è opportuno ricapitolare un attimo i suoi movimenti principali, in maniera che risalti con chiarezza il nesso tra la polarità che racchiude le potenze primarie del logos apofantico – omologia ed eterologia – e la coppia analoga che descrive l’alienazione della cosa: Ðmo…wsij e ¢llo…wsij. Lo Straniero di Elea vuole comprendere come è possibile un’™pist»mh che opina, ossia tiene per vero, e tuttavia non ha verità: “di una certa scienza opinativa intorno a tutte le cose il sofista si è dunque dimostrato a noi possessore, ma non della verità” (Soph. 233c10 s.). L’™pist»mh è la conoscenza salda dell’essere dell’ente, la dÒxa è l’affermazione di un discorso nel pensiero, è quella movenza fondamentale della di£noia, del dialogo interiore dell’intelletto, che dà il suo assenso a una tesi piuttosto che a un’altra e così la pone per sé come vera, vi crede e vi si affida. La verità, dunque, è così sia un modo del logos, il suo dire l’ente come veramente è, sia un modo del pensiero, il suo affermare questo logos vero. Il problema del sofista, dunque, è come si può affermare un logos falso, oÙk ¢l»qeian œcwn, come è possibile una dÒxa che tiene per vero il falso, che crede, così come fanno i giovani affascinati dal discorso sofistico, in ciò che non è. 93
Il problema, dunque, è quello dell’apparir vero di ciò che è falso: si vede bene come qui i due modi della verità, l’apparire e l’essere, entrino in conflitto, in questo mostrarsi vero, ossia essente, di ciò che non è26. L’apparire, che è il modo originario del darsi di un che per un logos che vuol dire cos’è, diviene in tal modo precisamente il modo in cui al logos si mostra ciò che non è: “Davvero siamo nel mezzo di una riflessione in tutto e per tutto difficile. Infatti, questo apparire e questo sembrare, ma non essere e d’altro canto il dire certe cose, ma non vere, tutto ciò è da sempre gravido di difficoltà, aporia in passato e ora. In che modo, infatti, bisogna dire, che il dire o l’opinare cose false sono realmente, e pronunciando questo non incorrere in una contraddizione in termini è cosa del tutto difficile” (Soph. 236d9 ss.). Qui, in effetti, il problema non è tanto il logos falso di per sé, ma come poter affermare che è falso. In qualche modo ancora il problema di Protagora, nella forma in cui Platone lo declina: ciò che a me appare vero è per me vero, ossia l’essere degli enti si dà solo come parvenza per me. Perso in tal modo il radicamento nell’esser così degli essenti, la verità come parvenza rende ogni discorso vero, anche i discorsi contrari tra loro: ciò che è per me vero rimane vero, anche se per te è vero il contrario e viceversa. Il sofista, maestro delle antilogie, è così salvo. Per uscire dal suo cerchio magico, come si è visto, bisogna allora dare un fondamento a quell’azzardo che osa “ipotizzare che il non ente sia” (Soph. 237a3 ss.): solo se il non ente è, il logos che dice l’essere del non ente sarà veramente falso e quindi falsa anche la dÒxa che lo afferma. Questo il modo in cui lo Straniero pone la questione, questo il senso in cui si propone di superare l’interdetto parmenideo, cosa che fa innanzitutto mostrandone le radici nel logos stesso. La domanda che pone è: a
26 Ancora Tommaso, sulla scorta di Aristotele (Met. 1024b21), intenderà precisamente in tal modo la presenza del falso nelle cose stesse, problematica a partire dalla tesi sulla convertibilità dei trascendenti ens et verum, che parrebbe non lasciare alcuno spazio al falsum in re. In effetti, dice Tommaso, relativamente false possono dirsi proprio le cose, la cui apparenza rimanda ad un’essenza diversa dalla propria (cfr. Tommaso, Sulla verità, cit., pp. 172 ss.).
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che cosa riferiamo il nome “non essente”? Certo non a un ente, poiché il nome nega precisamente questo. Ma se non a un ente, neanche a un qualsivoglia che, giacché “il che lo diciamo ogni volta di ente: tÕ tˆ ™p’Ônti lšgomen ˜k£stote”. Ogni che del logos, qualsiasi cosa esso dica, è detto sempre come ente, di un ente, e precisamente come «un che», «un ente»: se non dice uno, il logos non dice nessuno, ma l’uno è sempre un ente, essente27. Da ciò deriverebbe che il logos che dice il niente non dica affatto, come vuole appunto Parmenide. Epperò, come nota lo Straniero di Elea, l’interdetto parmenideo stesso è viziato da una contraddizione fondamentale: nel dire che non si possono dire “essenti i non enti”, esso dice precisamente il non ente e lo dice, necessariamente a causa di tale costituzione del logos, come un ente: “Ÿn aÙtÕ e‡rhka: tÕ m¾ Ôn g¦r fhm…: Uno l’ho detto: dico infatti il non ente” (Soph. 237e4-238e3). In tal modo l’interdetto parmenideo è superato e al tempo stesso confermato: il logos dice l’ente, non può non dire l’ente, anche quando dice “non ente”, dice ancora l’ente, l’essere del non ente e il non essere dell’ente28. Il problema è come esprimere correttamente questa ipoteca, in maniera tale che il falso sia posto come tale e distinto dal vero. L’ortologia del m¾ Ôn, il modo corretto di dirlo come ›teron, come il diverso, come il non identico. Dopo un lungo excursus, tramite il quale guadagna proprio «t¾n qatšrou fÚsin» (Soph. 258d7), Platone a questo punto ragiona sulla forma del logos, del discorso che di qualcosa dice qualcosa, unendo almeno due nomi, un sostantivo e un verbo, ognuno dei quali è dichiarativo di un’essenza, ossia identifica un essente e un modo d’essere, un pr©gma e una pr©xij. Un logos che non dica un ente di un ente non è vero logos, poiché non dice “né un’essenza essente né una non essente” (Soph. 262c4).
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Soph. 237b2-e2. Cfr. pure Res. 478b5 ss. Vedi pure Soph. 241d5-8: “Nel difenderci sarà necessario mettere alla prova, torturandolo, il discorso del padre Parmenide e costringerlo con la forza ad ammettere che ciò che non è, sotto qualche rispetto è, e ancora, che ciò che è, a sua volta, in qualche modo non è: tÒ te m¾ ×n æj œsti kat£ ti kaˆ tÕ ×n aÙ p£lin æj oÙk œsti pV”. 28
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In questo raddoppiamento, come abbiamo visto, è la soluzione del problema: il logos è sempre lÒgoj tinÒj, di un che, ossia di un ente; e di un che dice sempre un che, un altro ente, non ha insomma in nessuna sua parte la potenza di dire un semplice «non che», non ha nomi per il puro non essente. Ma nel suo intreccio può dire intorno a un che il diverso da ciò che esso è: nell’affermazione del diverso, in cui il logos si compie come tenere per vero, è il veramente falso, Ôntwj te kaˆ ¢lhqîj lÒgoj yeud»j (Soph. 263b2-264b7). L’opposizione tra vero e falso è dunque l’opposizione tra omologia ed eterologia: la prima è l’affermazione dell’identità dello stesso, nelle sue varie estensioni, la seconda l’affermazione che se ne distacca, che dello stesso dice l’altro che esso non è. Questa la via maestra che seguirà anche Aristotele nella sua cosiddetta «definizione ontologica della verità»: il lÒgoj che afferma dello ×n ciò che è, è vero; quello che lo nega è falso. Qui non abbiamo più semplicemente il lÒgoj che dice lo ×n e non può dire il m¾ Ôn, come vuole il sofista, ma un lÒgoj, che posto un t…, un che intorno a cui dice e che è già in quanto tale «un ente», di tale ente dice quel che è o che non è, risultando quindi vero o falso. Si comprende che questa possibilità di affermazione e negazione del lÒgoj, però, si dà proprio sulla base della struttura articolata del che come «un ente»: di «quest’uno» che dico cos’è e com’è, t… ™stin e pîj ™stin. Quindi innanzitutto sulla sua autoidentità, prima ancora che sulla sua differenza dall’altro da sé: il toàto kaˆ oÙk ¥llo è tale perché è già raddoppiato nello aÙtÕ kaq’aØtÒ, nel questo in quanto lo stesso, perché ha già in sé la differenza. Solo grazie a ciò il logos può anche confermarla e dire lo stesso dello stesso, ciò che è conforme ad esso e gli conviene. Questa è la verità vera, non quella del sofista, capace di dire intorno a qualsiasi che ogni cosa e quindi che è così, ma anche il contrario di così: contro i “discorsi duplici” dei sofisti il veramente vero dice l’essenzialmente essente, come Platone afferma più volte e anche qui: tÕ ¢lhqinÕn Ôntwj ×n lšgwn (Soph. 240b3). Il problema è che questo realmente-veramente-essenzialmente essente – Ôntwj Ôn – evidentemente non è più la cosa, che 96
risulta scissa in se stessa, nei suoi due poli Ÿn e Ôn, proprio da quella mhcan¾ che doveva salvarne una dicibilità corretta. Nel t… ™stin di un qualunque t…, infatti, proprio nel dirlo kaq’aØtÒ, secondo lo stesso che è, e quindi in verità29, non dico più il «che», bensì, la sua oÙs…a, la sua essenza, che non è in esso, ma enfaticamente fuori di esso, cwr…j, è l’„dša di cui esso è solo imitazione ed eguagliamento: Ðmo…wma dice Platone30, in maniera estremamente corretta, data la sua impostazione ontologica, poiché la cosa come imitazione è precisamente l’«eguagliamento» al se stessa che essa non è come quest’uno qui, invero questi molti, bensì come questo ente in quanto tale, di cui il logos vero è a sua volta Ðmolog…a (e il nome Ðmwnum…a) – potremmo dire che così tÕ Ÿn Ómoion t^ Ônti e|nai, ma nella differenza da esso, ossia intimamente come ›teron31. In tal modo, dell’un ente il differente è proprio l’uno che lo fa questa cosa qui concreta che ho davanti, questo pr©gma, che infatti risulta sia ontologicamente, che epistemologicamente difettivo rispetto a ciò che non ho qui di fronte e che ne costituisce la vera essenza. La differenza, insomma, che nei termini dell’ipotesi ontologica è quella tra cosa ed ente, non è solo verso gli altri, ma innanzitutto verso lo stesso che è, una divaricazione tra la sua presenza e l’intrinseca mancanza di essenza, che annichila la cosa in se stessa. Aristotele, come vedremo, prendendone atto, cercherà di articolare e ricomporre tale divaricazione, senza tuttavia riuscirci compiutamente e anzi consegnando alla tradizione successiva proprio i termini 29 Anche nel Sofista (249b5 ss.), infatti, che pure pone la k…nhsij come genere sommo e immagina una partecipazione ad essa delle idee, il vero esige una st£sij della cosa, per poterla afferrare e dire. 30 Phaedr. 250a6, ma anche Soph. 266d8. 31 Una descrizione molto chiara dei “due generi degli enti […], §per ¢eˆ kat¦ taÙt¦ kaˆ æsaÚtwj œcei: quelli che sono sempre secondo l’identità e in quanto gli stessi” e “t¦ dû ¥llot’¥llwj kaˆ mhdšpote kat¦ taÙt£: quelli che invece sono ogni volta altrimenti e mai secondo l’identità”, soggetti sempre ad alterazione, ¢llo…wsin, e per questo solo omonimi dei primi, è in Phaed. 78c1 ss. Nel Parmenide (passim; p.e. 139b4 ss., 145e7 ss.) la dimensione degli ˜tšra ™n ˜tšrJ, che entra in gioco nell’ambito di un’aporia su movimento e quiete, è pure chiaramente distinta da quella degli inalterabili.
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costitutivi della separazione che rende ogni cosa un “composto”32. Questa scissione della cosa tra il suo che e la sua essenza, che emerge in maniera particolarmente chiara proprio quando si pensa il falso come logos del non ente, m¾ ×n che va trovato nell’ente stesso se non vi è niente oltre l’ente che il logos possa dire, si realizza dunque in due momenti: innanzitutto il logos pone l’essenza nella cosa, appunto dicendola e per poterla dire in verità, ma poi la sottrae a questa cosa, poiché il che non riesce mai ad essere all’altezza della sua essenza, è sempre e in vari modi difettivo rispetto a ciò che è. La cosa è dunque scomposta e raddoppiata in se stessa e poi ricomposta in un’autoidentità, entro la quale la differenza si fa sempre più marcata quanto più il pensiero la pensa rigorosamente. In Platone, come per certi versi anche nella tradizione a lui successiva, a partire da Aristotele, l’essenza è sottratta alla cosa principalmente in due maniere, che in qualche modo possiamo riportare a ciò che i medievali distinsero come essentia et existentia: come essenza in quanto e|doj nelle idee separate; e come essenza in quanto presenza nel dio artefice, causa esterna che compone le cose imprimendo la forma nella sostanza indeterminata della cèra, che solo così si individua in enti presenti. Dimensione, questa della presenza, che dipende da quella delle idee, che nell’ontologia platonica rimangono infatti preminenti al dio: questi plasma le cose guardando alle idee, che sono la garanzia ultima anche della presenza, poiché solo un qualcosa che è qualcosa, ossia un ente determinato, omonimo di un’idea, può anche essere presente. La cèra stessa, in effetti, non è presente33! 32 Ma sui sensibili come sÚnqeta (termine chiave della Fisica di Aristotele), composti che proprio in quanto tali sono soggetti per natura a decomposizione, scrive già Platone ancora in Phaid. 78c1 ss. 33 Cfr. Tim. 48e2 ss., 50b5 ss.: “bisogna pensare a tre generi, ciò che diviene, ciò in cui diviene e ciò a somiglianza di cui nasce il diveniente: tÕ mûn gignÒmenon, tÕ d\™n ú g…gnetai, tÕ d\Óqen ¢fomoioÚmenon fÚetai tÕ gignÒmenon”. Il problema è che, in fondo, non solo l’«in cui», la cèra come “ricettacolo e nutrice di ogni generazione”, è un “genere difficile e oscuro”, mai presente per sé ma solo nelle varie forme impresse; il problema è che neanche le
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La teologia platonica, proprio perché così intimamente connessa alla sua ontologia, è come questa in tensione rispetto alla tradizione precedente e realizza al suo pari uno spostamento concettuale di grande portata: così come nell’ontologia lo spazio della genesi è radicato in quello dell’essenza, in maniera analoga nella teologia il dio non è più il genitore, padre-madre delle cose, ma ne è l’artefice, che le compone esattamente come fa un artigiano, grazie ad una tšcnh, che è certo superiore a quella umana, ma non qualcosa di natura differente34. In tal senso questa scomposizione e ricomposizione della cosa, che si realizza sul piano ontologico come autoidentità differente, trova il suo corrispettivo nella concezione di tutte le cose come œrga qeoà, opere di dio. Ed è proprio con un accenno ai passi che alla questione sono dedicati ancora nel Sofista, che vorrei chiudere il discorso intorno a Platone.
III.8 La natura messa in opera Nel riprendere la sua discussione sul sofista, lo Straniero rievoca la distinzione dell’arte produttrice di immagini in icastica idee sono dimostrabili come “presenti” al di fuori dell’intelletto che le pensa e rimane comunque enigmatico il modo in cui le cose nascono eguagliandosi ad esse: “essa accoglie sempre tutte le cose, senza mai prendere in nessun modo e a nessuna condizione alcuna forma che assomigli ad alcuna delle cose che entrano in essa. Per sua natura, essa è come un materiale su cui si imprime l’impronta di ogni cosa, mossa e divisa in figure diverse dalle cose che vi entrano, a causa delle quali essa appare via via sempre diversa. Le cose che in essa entrano e che da essa escono sono immagini degli enti eterni, e da questi ricevono le loro impronte in un modo difficile a dirsi e stupefacente, su cui torneremo a indagare più oltre”, promessa poi non mantenuta. 34 Non mancano affatto nel Timeo le metafore sul “padre di questo universo” (Tim. 28c3-4) e tuttavia sono palesemente accessorie e secondarie (oltre ad essere incoerenti, poiché all’inizio è detto padre il demiurgo, mentre più avanti a svolgere il ruolo paterno è il modello eterno; cfr. ivi, 50d3). Nella coppia “poiht¾n kaˆ patšra”, insomma, è del tutto prevalente il primo termine: “produttore”. Questa innovazione platonica nella concezione del divino avrà un successo enorme, se ancora Tommaso non esita a esprimersi esattamente nei suoi termini: nell’intelletto divino “tutte le cose esistono come nell’intelletto dell’artigiano tutti gli artefatti” (Tommaso, Sulla verità, cit., p. 129).
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e fantastica (Soph. 264c4 ss.). In quanto arte produttrice tout court, poihtik», la fantastica rientra anche in un’altra divisione possibile di questa, quella tra produzione divina e umana. Per arte produttiva deve essere intesa quella “potenza” che sia causa del nascere o venire ad una forma determinata di ciò che prima non era essente o siffatto e dopo lo è divenuto (Soph. 265b9-11). dÚnamij è stato detto ciò che può agire su qualcos’altro o patire da qualcos’altro: qui è l’azione che fa nascere-mutare qualcosa, che lo spinge dal prima in cui non era o non era ancora così, al poi in cui è divenuto quel che è: a„t…a to‹j m¾ prÒteron o}sin Ûsteron g…gnesqai. È dunque concetto insieme ontologico, come fondamento dell’essere di un ente, e cronologico: il principio da cui un dopo viene da un prima, ¢rc» come a‡tion: tutti temi che ritroviamo poi nella Fisica, che si proporrà di sciogliere e ricomporre il nesso tra nascere e mutare, questo g…gnesqai che qui significa ancora tutte e due le cose insieme. Platone pone senz’altro tutti gli oggetti del p©n indagato dai fisici – gli animali e le piante che fÚontai e le cose inanimate che si compongono nella terra, etc. – come divenienti poi, prima non essendo, per opera di un dio demiurgo. Tesi cui contrappone quella propriamente fisica, che li ritiene nati dalla natura, partoriti da essa: “t¾n fÚsin aÙt¦ genn©n ¢pÒ tinoj a„t…aj aÙtom£thj kaˆ ¥neu diano…aj fuoÚshj; À met¦ lÒgou te kaˆ ™pist»mhj qe…aj ¢pÕ qeoà gignomšnhj;: la natura stessa li partorisce a partire da una qualche causa che fiorisce spontanea e senza intelligenza? Oppure da una causa che viene dal dio ed è per mezzo del logos e di una scienza divina?” (Soph. 265c1 ss.). L’opposizione, a ben vedere, non riguarda solo l’origine, ma come le cose sono: a seconda di come si pensa la loro origine, infatti, si pensa anche la loro costituzione ontologica. E viceversa. Una cosa già pensata in chiave ontologica come imitazione di un’idea, ossia bisognosa, per poter essere ed essere conosciuta, di una comunicazione con l’essenza che essa per se stessa non riesce a stabilire, andrà stabilizzata da una causa esterna e non spontanea. Correlativamente, pensata come po…hsij qeoà, “produzione divina”, non potrà essere concepita come un uno 100
aÙt£rkej ed aÙtÒmatoj, indipendente e spontaneo, ma come un’entità sin dall’inizio dipendente e manchevole. Un’entità che, in quanto prodotto di una “qe…a tšcnh”, tecnica e arte divina, è propriamente qualcosa di ¡rmostÒn, messo insieme e assemblato, in un modo che Platone mette direttamente in analogia con quello umano: “Le cose che diciamo essere per natura sono prodotte da una tecnica divina, mentre quelle che gli uomini compongono a partire da queste sono prodotte da una tecnica umana”. La differenza è nel tipo di artefice e nella bontà delle sue opere, ma non nel carattere di opera dell’opera, nel suo essere un sunist£menon, qualcosa che sta insieme, sun-…sthmi, sussiste nella sua stabilità, come unità di parti e commessione di parti (Soph. 265e3 ss.). Come avveniva precisamente nel logos come sÚnqesij e sÚmplegma di nomi, come avviene nella bottega del vasaio, che plasma la creta a immagine dell’idea e quindi imprime la forma nell’amorfo, paradigma artigianale, questo, che Aristotele riprenderà nel suo sÚnolon e sugke…menon. Ta\ pefukÒta, allora, “le cose che hanno in sé la propria natura”, una simile natura propria e spontanea, insomma, non ce l’hanno affatto, non sono affatto un fiorire, bensì, pur essendo ancora dette “qeoà genn»mata: generazioni divine”, lo sono in quanto “¢peirgasmšna: messe in opera”, “gegonÒta daimon…v mhcan?: nate da una macchinazione divina”, e “qe…aj œrga poi»sewj: opere di una produzione divina”, come vengono qui esplicitamente definite (Soph. 266b2-c6). Con questa duplice fondazione delle cose e della loro conoscibilità nelle idee e nella produzione divina, ossia nella loro essenza e nella causa della loro presenza, Platone ha stabilito le vie maestre di tutta la successiva metafisica, che già a partire da Aristotele – il quale le ha in qualche modo addirittura radicalizzate – si muove tra ontologia e teologia. È con Aristotele, quindi, che concludiamo queste pagine, tenendo fermo l’orientamento sulla domanda intorno alla cosa, a partire da quella prossima e concreta, intorno «a quel che ne è della cosa». E per questo è alla Fisica che ci rivolgeremo, alla scienza del molteplice in movimento, allo scopo di tratteggiare brevemente lo sviluppo compiuto 101
che vi si realizza del concetto di divenire come modo proprio di essere delle cose, sviluppo che, è superfluo anche dirlo, sarà determinante anche per tutta la successiva scienza della natura. Seguendo, in qualche modo, anche qui un indirizzo se non altro poco usuale: di Platone, infatti, abbiamo parlato intorno a questioni logico-ontologiche, che nella filosofia antica trovano il loro luogo d’elezione nell’Organon aristotelico, ma così ci siamo resi capaci di vedere meglio il laboratorio ontologico in cui si erano preparati tanti temi che successivamente divengono squisitamente logici. Affrontando Aristotele, invece, parleremo in fondo proprio di gšnesij e oÙs…a, che è argomento tipicamente platonico, se non già presocratico: in tal modo, però, mostreremo come questo tema si estenda fino al cuore della metafisica aristotelica, che lo sviluppa in una serie di nozioni che saranno, tradotte e ritradotte in varie forme, i concetti fondamentali della metafisica medievale e moderna.
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IV Il I libro della Fisica di Aristotele
IV.1 Generazione e divenire Nelle prime pagine della Fisica il discorso, seppur apparentemente distante da quello sviluppato sinora, è in effetti ancora incentrato sulle stesse questioni fondamentali, tant’è che nel contesto di un confronto ampio e serrato proprio con l’eleatismo vi viene affrontata anche quella che, come vedremo, è in sostanza una declinazione «fisica» dell’interdetto parmenideo. La prossimità teorica e tematica tra gli ultimi dialoghi platonici e il I libro della Fisica, che una ricostruzione attenta potrebbe dimostrare fin nei particolari, si può sinteticamente ricondurre all’unità dell’ispirazione problematica, che è in entrambi i luoghi epistemica e, dunque, insieme logica, ontologica e cosmoteologica. Aristotele affronta, evidentemente, quelle stesse aporie che Platone per primo aveva compreso e definito in tutte le loro dimensioni e implicazioni, risolvendole in una direzione, che quanto più superficialmente pare distaccarsi e contrastare quella platonica, tanto più in profondità vi è consonante e ne realizza l’intenzione. Tuttavia, i termini intorno ai quali si cristallizza la risoluzione aristotelica, pur se ognuno più o meno chiaramente di derivazione platonica, assumono una caratterizzazione e uno statuto teorico tali, quali forse nessun concetto particolare della dottrina di Platone acquisterà mai nella metafisica successiva1. Basti 1 Ovviamente ad eccezione di „dša, che però avrà una diffusione tutto sommato meno ampia rispetto ai termini aristotelici. La stessa oÙs…a, che è pur
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pensare a «materia e forma», «potenza e atto» o al nesso tra «principi, cause ed elementi», nozioni che qui si creano o si consolidano in quanto tali come fondamenti dell’indagine intorno alle cose e alla loro natura. Riguardo al nostro discorso, più significativa ancora è quella “triade” su cui si incardina l’intera Fisica e che viene articolata proprio nel suo I libro – Øpoke…menon, ¢ntike…mena, sugke…menon –, una triade che, nei vari modi in cui è stata intesa e tradotta, ha dato origine a tutta una progenie di idee guida della filosofia. Da Øpoke…menon, che viene solitamente reso con «sostrato», proviene innanzitutto il subjectum, termine che acquisisce solo nella fase moderna della metafisica la connotazione soggettivistica che non ha qui alla sua origine. Inoltre, nell’accezione di ØpomenoÚsh fÚsij, “natura che permane al di sotto” (Met. 983b10-13), Øpoke…menon viene tradotto con substantia, ancora una volta «ciò che sta sotto», ma in quanto materia costitutiva e natura intima della cosa. Cui si contrappongono gli «antistanti», t¦ ¢ntike…mena, objecta, Gegenstände, gli opposti che si fronteggiano sulla superficie della cosa, quelli che diverranno gli «oggetti» rispetto al «soggetto», ma a ben vedere anche i «fenomeni» rispetto al «fondamento» o l’esteriore rispetto all’interiore. L’unità dei primi due è il «composto», sugke…menon, la cosa in quanto sintesi di materia e forma, sÚnqeton: in effetti, in quella triade è già perfettamente leggibile anche il nesso tra ipotesi, antitesi e sintesi, per quanto anche in questa deriva si realizzi un notevole spostamento concettuale. Si tratta, insomma, di parole che portano in sé una tale ampiezza di lezioni possibili e di differenti tradizioni, che tradurle è compito ingrato; in maniera univoca impossibile: basti sottolineare, introducendole, che nelle varie dimensioni del positum che è detto in ciascuna di esse va inteso ciò che già sta lì per sé, sotto, contro o insieme2. Platone a introdurre sistematicamente come concetto fondamentale, acquisisce solo con Aristotele tutta l’ampiezza e distinzione rigorosa dei significati nei quali sarà successivamente usato. 2 ke‹sqai, una delle categorie (Cat. 1b26), vale come «giacere», «essere in una posizione» o forse meglio in una «postura» (in Cat. 6b11-14 i termini in-
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Lo sguardo che getteremo sulla Fisica, però, non sarà a partire da ciò che essa ha innescato e consegnato al pensiero metafisico successivo, bensì dal contesto problematico che Aristotele si è trovato ad affrontare. Conseguentemente, sia per evidenziare la linea di continuità con Platone, sia nella fiducia che ciò renderà una qualche giustizia alle traduzioni inusuali di alcuni suoi termini chiave, al testo arriveremo tramite un brevissimo excursus attraverso pochi snodi della fisica dei primi filosofi, ai quali Aristotele, non solo per ragioni polemiche, continuamente si riferisce. La filosofia greca si era interrogata sin da presto sullo on, questo participio che abbiamo detto significare «essente», declinato però per lo più al plurale: t¦ Ônta, p£nta t¦ Ônta. Si era dunque interrogata sulla totalità delle cose che sono, sui molti essenti che fanno il mondo, e innanzitutto sul modo in cui le cose vengono al mondo e vi trascorrono, mutando e scomparendo. Su quella che veniva detta e pensata come loro origine e genesi, che dal radicale √gen: «generazione», dice propriamente la nascita come «partorire» e «mettere al mondo»; nella forma media, «venire alla luce». In considerazione di ciò, presumere agli inizi una domanda sull’«essere» è anacronistico: neanche in Parmenide c’è una domanda sull’essere, forse addirittura neanche in Platone. I due termini, gšnesij e g…gnesqai, «nascita» e «divenire», hanno in greco pressoché lo stesso significato letterale e solo con dicativi di un «giacere» vengono detti “paronimi” derivati dalle posizioni, come lo star supino rispetto alla posizione supina). In tal senso lo Øpoke…menon è propriamente il «soggiacente», un tipo di traduzione che però non è possibile mettere in analogia con gli altri due termini: «antigiacenti» e «congiacente», infatti, sarebbero tanto precisi, quanto poco intelligibili. Un’alternativa sarebbe tradurre la triade con «sottostante», «antistanti» e «composto» («costante», per quanto preciso come conio, è semanticamente fuorviante), ove almeno i primi due termini sarebbero più fedeli all’originale. Si perderebbe, però, oltre all’analogia dei tre, anche il nesso tra ™n£ntia e ¢ntike…mena, «contrari» e «contrapposti», che pure gioca un ruolo significativo nello sviluppo del I libro della Fisica e, più in generale, rispetto al confronto di Aristotele con la tradizione della prima filosofia greca e con lo stesso Platone. Ci si regolerà, dunque, ogni volta come apparirà più opportuno dal contesto.
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il tempo acquisiscono in filosofia usi più distinti, pur risuonando ancora affini al tempo di Aristotele, che anche per questo è posto di fronte al problema di pensare in maniera chiara la loro differenza3. Lo farà non contrapponendoli, così come Platone non aveva contrapposto la gšnesij alla oÙs…a, bensì cercando di riassumere la gšnesij ¡plîj, la “generazione semplice” che dice propriamente la nascita, entro il g…gnesqai, ossia di intenderla come una modalità particolare del divenire, di quel processo tramite cui qualcosa, dal non esserlo prima, diviene quel che è poi4. 3 gšnesij, che sappiamo indicare nel greco dei LXX la Creazione, ha nei suoi significati originari proprio quello di ¢rc»: “principio”, “sorgente”, “origine”. Come gran parte dei termini legati alla radice √gen – diciamo, per esempio, gšnna: il parto, gene¦ e lo stesso g…gnomai –, rimanda propriamente alla procreazione, alla discendenza, alla stirpe, alla progenie e alle generazioni, anche alla nobiltà della nascita (genna‹oj): da ciò i latini generosus, genialis, genitalis, gens, gentilis, genuinus, genus e ingenuus. Dal canto suo, g…gnomai, che è uno dei verbi più comuni e usati del greco, dall’originario “nascere” passa a significare: “avvenire”, “manifestarsi”, “compiersi”, diciamo pure “essere”, “diventare”, “prodursi” e tante altre cose. Sostantivato, dà origine a parole come tÕ gignÒmenon: “il fatto”, tÕ genÒmenon: “l’avvenuto” o anche “la cosa”, t¦ gegonÒta: “gli avvenimenti passati”, tÕ genhsÒmenon: “l’avvenire”, “il futuro”. Rimanda, insomma, alla totalità degli eventi in ogni tempo, l’analogo dinamico di ciò che Esiodo, come si vedrà subito, e prima di lui già Omero indicavano con t£ t’™Ònta t£ t’™ssÒmena prÒ t’™Ònta, le cose che sono, quelle che saranno e quelle state prima (Teog. v. 38). 4 Già in Platone la questione del divenire è quella del passaggio di un ente dal non essere un che all’esserlo, ossia è una questione schiettamente ontologica. Impostazione che, alla luce della soluzione del problema del non-ente data nel Sofista, almeno riguardo ai mutamenti di forma e alle alterazioni, non comporta più problemi significativi (se non circa il tempo del divenire, tÕ ™xa…fnhj; cfr. Par. 156d3 s., luogo in cui Platone elenca molti dei termini della fisica, che poi Aristotele tratterà in maniera sistematica: metabol» e k…nhsij, g…gnesqai e ¢pÒllusqai, diakr…nesqai e sugkr…nesqai, aÙx£nesqai e fq…nein...). Risulta però ancora problematica rispetto alla nascita, ossia al divenire un ente quel che è dal non essere affatto e non dall’essere diverso. Il non-ente qui in gioco non appare uno ›teron, poiché lo ›teron è pur sempre Ôn: il compito che si propone Aristotele nella Fisica – e che è anche al centro del De generatione et corruptione – è in fondo proprio dare una qualche consistenza ontologica al non-ente (la Ûlh) da cui nasce ogni diveniente, e così rendere compiutamente conto delle cause della “generazione e corruzione delle cose che per natura nascono e periscono” (De gen. 314a1. Sulla ricezione aristotelica del tema della gšnesij e della oÙs…a è utile confrontare De part. an. 640 a10-640 b3 e 646 a25-646 b2).
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Non si tratta, ovviamente, di una questione marginale, e non solo perché ha a che fare con la dinamica complessiva delle cose, il loro venire alla luce, mutare costantemente e infine svanire. Al di là dell’ambiguità linguistica, infatti, che già di per sé richiede una chiarificazione sia della differenza, sia dell’affinità, agli occhi di Aristotele la distinzione e insieme connessione tra nascita e mutamento è tanto più urgente, quanto più la prossimità dei termini si era risolta, nella tradizione precedente, di volta in volta nella cancellazione dell’uno a favore dell’altro. In effetti, anche i fisici che chiamiamo pluralisti, Empedocle, Anassagora, Democrito, ossia coloro che più di tutti gli altri si erano sforzati affinché le premesse ontologiche non divorassero il mondo dei fenomeni, avevano infine negato la generazione e corruzione delle cose, ridotte a processi di concrezione e disgregazione di enti non divenienti, intendendo cioè le cose come m…gmata, miscugli di elementi semplici: una via fisica alla dissoluzione della gšnesij a favore della oÙs…a…5 Nel contrapporsi a ciò, dunque, anche Aristotele, come il suo maestro, vuole salvare la generazione, riconoscendone la specificità rispetto ai processi di concrezione e disgregazione, ma come vedremo non riesce a sfuggire del tutto a un’impostazione di quel tipo6. Se entro il contesto della fisica pluralistica la dimensione della gšnesij viene cancellata o assorbita da quella del g…gnesqai (come summ…sgesqai) e della oÙs…a (lo stoice‹on come ente semplice immutabile, almeno rispetto alla propria essenza), nel pensiero più antico, invece, una domanda sul g…gnesqai in senso stretto, e la parola stessa, mancano del tutto: anche in Eraclito, che è passato alla storia come il filosofo del «divenire», non ve ne è traccia! Qui, infatti, del tutto predominante non è il pro5 Cfr., per esempio, DK 31A44, 31B8. 59B17: “Il nascere e il dissolversi i greci non li hanno compresi correttamente: nessuna cosa, infatti, nasce o si dissolve, ma dalle cose che sono si mischia insieme e si discerne – ¢pÕ ™Òntwn crhm£twn summ…sgeta… te kaˆ diakr…netai”. È lo stesso Aristotele a notare come in tal modo i fisici “sopprimano ogni generazione” (Phys. 191b10-13). 6 Anche la soluzione di Aristotele è infatti compositiva, per quanto egli ponga una differenza di natura ontologica tra gli elementi e le forme che compongono la cosa, laddove i “miscugli” dei fisici sono tra parti omogenee.
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blema del divenire altro di un ente nel tempo, bensì proprio quello della generazione di tutte le cose e del loro ordine e kÒsmoj, che per primo Eraclito chiama con il nome di lÒgoj. Nel pensiero ancora più arcaico, la gšnesij è l’esito del g£moj, parola che ha la sua stessa radice e indica l’unione sessuale generatrice, il principio di quella serie delle generazioni che è detta gšnoj: il genere, la stirpe7. I “primi filosofi”, che Aristotele stesso distingue proprio in relazione a ciò dai “primi teologi” (cfr. Met. 983b6-984a2), si confrontarono direttamente, in maniera per lo più polemica, e tuttavia entro un discorso per certi versi comune, con la tradizione precedente delle teogonie, cosmogonie e genealogie, col discorso mitico intorno alla generazione del mondo, degli dei e degli uomini8. La domanda cruciale che si pongono Talete e Anassimandro è, in fondo, la stessa di Esiodo e di Ferecide, del quale Diogene ci dice che fu il primo a scrivere “perˆ fÚsewj kaˆ genšsewj qeîn: intorno alla natura e alla generazione degli dei”9. Due domande, che ci appaiono così diverse e che sono all’inizio un’unica domanda. Le muse eliconie svelano a Esiodo “t£ t’™Ònta t£ t’™ssÒmena prÒ t’™Ònta: le cose che sono, quelle che saranno e quelle 7 Sui vari significati di gšnoj è chiarissimo il paragrafo dedicatovi nel V libro della Metafisica (1024a29 ss.). Nel termine gšnoj si realizza uno spostamento concettuale per qualche verso analogo a quello da gšnesij a g…gnesqai. gšnoj, infatti, oltre ad assommare in sé quasi tutti i significati di gšnesij: nascita, origine, generazione; indica propriamente la famiglia, la stirpe, la razza unita da vincoli di sangue, che poi diviene entità politica, e designa quindi anche l’appartenenza di individui a un gruppo. Ad Atene il gšnoj era un insieme di famiglie discendenti da 30 gennÁtai, generatori e capi famiglia, sacerdoti di culti comuni; 30 gšnh formavano una fratria e 3 fratr…ai una ful», termine questo legato a fÚsij, la natura generatrice. È solo per traslato che gšnoj indica poi il genere anche in senso astratto, la classe, l’universale, il generale. Anche qui, dunque, si passa da un significato inizialmente connesso alla dimensione della generazione, di cui rimane un segno ancora nel “genere sessuale”, e poi a quella politica, a un significato molto più generalizzato, che non è però qui quello del divenire, bensì dell’universale, circostanza che meriterebbe un’analisi più accurata. 8 Una vicinanza che Platone stigmatizza proprio in Soph. 242c4 ss., parlando dei vari miti dei fisici circa il g£moj degli enti. 9 Cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, cit., p. 128.
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state prima”, ossia la totalità degli enti nel tempo, e cantano “degli dei dapprima la generazione venerabile sin dal principio: qeîn gšnoj a„do‹on prîton kle…ousin ¢oid? ™x ¢rcÁj”. E qui non è in senso stretto della “stirpe” degli dei che si parla, “t’¢qan£twn ƒerÕn gšnoj a„ûn ™Òntwn: il genere sacro degli immortali sempre essenti”, ma proprio della loro nascita: “quelli che partorì (œtikten) la Terra e l’ampio Cielo e quegli dei che nacquero da essi (™gšnonto)”, nascita del sempre essente che il pensiero ancora prossimo alla dimensione del sacro non percepisce come una contraddizione10. La tradizione genealogica delle origini, insomma, ruota intorno a un ristretto gruppo di termini e di concetti: essa vuol dire, tramite la rievocazione delle origini, t¦ ™Ònta, tutte le cose essenti, quelle passate, presenti e future, e soprattutto, se possiamo dire così, quelle più essenti, t¦ a„ûn ™Ònta, le sempre essenti, che indica nei nomi degli dei11. Un «essere sempre» del divino che tuttavia ha una storia, un inizio: ™x ¢rcÁj, dal principio si vuol dire la gšnesij degli dei e, con essi, di tutte le cose del mondo (Teog. vv. 21, 38, 44s.). Inizialmente, insomma, il termine ¢rc¾ dice solo questo inizio ™x ¢rcÁj, sin dal principio, un inizio in cui anche il primo è divenuto, è nato: ab initio non c’è un ente, ma solo una prima nascita, che dà origine alla serie. Come abbiamo detto, il mito, la poesia omerica, esiodea e orfica avevano un atteggiamento genealogico, che teneva ancora indistinte teogonia e cosmogonia: in questo contesto, entro cui la fÚsij di ogni cosa è solo il genere che essa ha in conformità con la sua nascita, l’¢rc¾ è sempre una gšnesij, che coinvolge tutto, non vi è nulla di veramente iniziale, tutto è iniziato, generato, non vi è nulla di veramente eterno, essenzialmente e stabilmente primo. Il che ha anche una logica interna adamantina: se è del tutto che si cerca il prin10 In Met. 1091a12 ss. Aristotele critica esplicitamente la possibilità di una generazione dell’eterno, concezione che attribuisce ancora ai pitagorici. 11 Sarà poi tipico nella speculazione successiva, e particolarmente da Platone in poi, ancorare alla dimensione cronologica la gradazione di quella ontologica: i «gradi dell’essere» sono innanzitutto legati alla temporalità degli enti, la loro maggiore o minore intensità cronologica diviene principio e criterio dell’eminenza ontologica (cfr. Res. 585 b9 ss.).
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cipio, prima di tutto non può esservi che nulla, solo un’assenza vuota, che i poeti rievocano nella forma della notte o del c£oj, dell’informe metamorfico, come l’acqua (mobile, instabile, feconda). È con estrema coerenza, dunque, che Esiodo pone il c£oj come il primo “più primo” solo in quanto divenuto esso stesso primo: “½toi mûn prètista C£oj gšnet’aÙt¦r œpeita Ga‹’eÙrÚsternoj: infatti primissimo il Chaos è nato, poi la Terra dall’ampio seno” (Teog. v. 116). Ancora più significativo per il nostro discorso, però, è che entro questa logica arcaica del mito il generatore rimane esterno al generato e anzi viene per lo più sostituito da questo, così come la notte si squarcia all’irrompere della luce e poi ogni nuovo signore degli dei e detentore dell’ordine del mondo deve imporsi tramite il parricidio. L’¢rc», insomma, come madre e padre o, se uno solo, ¢rsenÒqhluj, ermafrodito, non si conserva, ma cede il posto al generato: la generazione è una serie continua, un passaggio del testimone. Gran parte di questi caratteri, tipici della genealogia «teologica» delle origini, mutano completamente con Talete, che in effetti non realizza semplicemente una «razionalizzazione del mito», come talora viene frainteso, ma porta a compimento un cambiamento radicale nel modo stesso di concepire l’origine: per usare una formula ricorrente nei testi antichi, Ð palaiÕj lÒgoj che rievoca anche Platone nelle Leggi (715e7), il principio non è solo più il prima, solo ciò che è «al principio», ma è ¢rc¾ kaˆ teleut¾ kaˆ mšson, “principio e fine e mezzo”. Vale a dire, che ciò «da cui» da principio nascono le cose è anche quel che le accoglie in sé alla loro fine e il medium entro cui esse vivono la loro vicenda, in senso spaziale, temporale, sostanziale ed etico: è, infatti, anche la loro legge, misura e giustizia. Per qualche verso, anzi, è propriamente già la loro causa, il loro a‡tion: questo sviluppo, lungo cui il concetto di ¢rc¾ si determina sempre più nettamente come a‡tion, è uno dei più significativi della filosofia greca e si compie definitivamente ancora tra Platone e Aristotele. Ma è nei primi detti di Talete, tramandatici da Diogene (DK 11A1), che si annuncia: “presbÚtaton tîn Ôntwn qeÒj: ¢gšnhton g£r. k£lliston kÒsmoj: po…hma g¦r qeoà: il più vec110
chio degli enti è dio: è, infatti, ingenerato. Il più bello è il mondo: infatti, è opera di dio”. Nelle prime parole c’è tutto: il più antico, il primo degli essenti, da cui gli altri e la loro bellezza ordinata provengono, è dio, l’ingenerato. Anche in questa forma negativa, che capovolge il principio arcaico per il quale anche il primo è generato, Talete conserva il nesso tra generazione e origine delle cose: il mondo è produzione, fattura dell’ingenerato, che in quanto tale è il più vecchio, il primo e ancora l’ultimo. Nel passaggio dal pensiero genealogico a quello filosofico, dunque, si assiste ad un sempre più netto determinarsi e stabilizzarsi del concetto di ¢rc¾ contro il carattere mobile e metamorfico della generazione: il generante si impossessa della generazione e così non è più solo al principio, non solo più prima, ma il primo, l’ultimo e il permanente (il mšson come durata completa: tutto il tempo di ogni cosa, la cui stabilità ultima riposa nello spazio come tr…ton gšnoj, nella cèra, nella Ûlh…), perennità del dio, che sempre uguale a se stesso “governa e regge”. Si può dire, quindi, che al valore semantico di ¥rcw come «principiare» si sovrappone sempre più quello di «reggere» e «dominare», sostenere e indirizzare: solo così il mondo è davvero un kÒsmoj, un ordine regolato da una t£xij e da una t…sij, da un lÒgoj, contesto entro cui il concetto di ¢rc¾ si lega sempre più strettamente a quello di d…kh12. Platone, seguendo un percorso teorico complesso, separa definitivamente il principio dalla generazione, ponendolo oltre l’ordine misurato del tempo, come modello eterno, che è causa prima della gšnesij, pur non essendo più in nessun modo né il generatore, né la sostanza delle cose, eppure la loro norma (Tim. passim). E affianca a questo mondo ideale, al fine di rendere conto non solamente degli aspetti delle cose, della loro essenza, ma anche del loro effettivo presentarsi nel mondo sensibile, quel dio artefice e imitatore di cui abbiamo detto, cui è demandata la fattura e, solo in tal senso, la generazione. Alla fine di questo pro12 L’espressione basileÚein kaˆ ¥rcein la ritroviamo anche in Met. 1091b4, nel contesto di un discorso sugli “antichi poeti” per tanti versi tangente alle considerazioni che andiamo facendo.
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cesso le cose non sono più nate al mondo e venute alla luce, non più veramente fuÒmena, bensì assemblate come opere di un’arte divina, œrga: costituzione della loro natura – e anche il termine fÚsij ha qui oramai acquisito tutt’altro significato dall’originario –, che trova poi espressione compiuta nella designazione aristotelica dell’essere in atto, reale, concreto, come ™nšrgeia: essere in opera, ™n œrgJ. Quali siano i modi di tale costituzione Aristotele lo spiega proprio nella Fisica e in particolare nel primo libro, che affronta la questione del g…gnesqai con la precisa intenzione di distinguerne le diverse modalità, compresa la generazione, riconducendole ad un’unica struttura fondamentale, che vedremo essere esattamente quella della messa in opera tecnica. Naturalmente, nel far ciò non può evitare di confrontarsi con Platone, di cui contesta innanzitutto la separatezza delle idee e la sostanzializzazione dell’uno e dell’ente: un doppio movimento, tramite cui cerca di far ridiscendere dalla pianura della verità l’essenza e l’e|doj nella cosa, pensando fino in fondo la oÙs…a come inerente ai fÚsei Ônta, per evitare la scissione paradossale tra la cosa e ciò che essa propriamente è. Problema che Platone stesso conosceva bene, tanto da tornare di frequente sulla questione cruciale che esso poneva, che era quella della mšqexij, della partecipazione tra ente ed essenza. Ebbene, questa partecipazione, che in Platone era verso l’alto e che si realizzava come frattura tra a„sqhtÕn e nohtÒn, in Aristotele diviene verso il basso: l’essenza della cosa non è radicata nel noetico perfetto al di sopra dell’ente, ma nel permanente al di sotto della cosa, nella sua durata concreta in quanto questa cosa reale, in ciò che egli, per primo nella storia della filosofia antica, chiama proprio per questo Øpoke…menon, ciò che giace sotto, che vi sta e permane per il suo tempo, scrivendo con questa parola un altro capitolo fondamentale della metafisica occidentale, poiché anche tale «stare sotto» realizza un frattura, quella che poi diverrà, per esempio, la frattura tra in sé e fenomeno. A ciò corrisponde la conseguenza, in parte paradossale, che proprio cercando di radicare l’essenza nella cosa, ricomponendone più strettamente l’unità dinamica del divenire, alla fine es112
sa ne risulti ancor più disarticolata di quanto non avvenisse in Platone. Per cui ancor più stringente diviene in Aristotele la necessità di trovare una garanzia ultima della stabilità delle cose, di nuovo esterna ad esse, il primo motore come quarto principio e causa ultima, oltre le tre interne a ciascuna cosa, che compagina l’intero ordine della generazione ancora una volta come l’ingenerato immobile13. Un dio, che oramai non genera neanche più, poiché in qualche modo ha ereditato la sterilità delle idee, e del quale non si può più dire, come ancora diceva Platone del demiurgo, che è “produttore e padre” delle cose: la generazione è così completamente cancellata dalla natura, sia come generazione delle singole cose l’una dall’altra, cui si sostituisce il concetto di sintesi, sia come generazione e origine di tutte le cose, tanto sul piano dell’essenza, quanto su quello della presenza.
IV.2 La teoria dei principi Sia stato detto tutto ciò solo come accenno sintetico e ancora molto indeterminato al movimento teorico complessivo che si realizza nella Fisica, un’anticipazione che necessita di una lettura più analitica del testo. Naturalmente, non potremo affrontarlo nella sua interezza, dalla teoria del divenire al motore immobile, ma dovremo operare una scelta, prediligendo la domanda ontologica su quella teologica. Sarà, dunque, proprio sui suoi
13 “Tre dunque sono le cause e tre i principi, due costituiscono la contrapposizione tra logos e forma da un lato, e privazione dall’altro, il terzo è la materia”. La distinzione tra elemento e principio si basa in Aristotele proprio sulla differenza tra interno ed esterno: “poiché non solo gli inerenti (™nup£rconta) sono cause, ma anche alcuni esterni, come il motore, è chiaro che principio ed elemento sono diversi, per quanto entrambi cause, e che in questi si divide il principio (scilicet: in interno ed esterno), e che (ciò che causa) in quanto motore o stabilizzatore è un qualche principio ed entità, cosicché gli elementi sono per analogia tre, le cause e i principi quattro”. I tre inerenti (logos-eidos, privazione e materia), più l’insieme dei motori esterni, da quelli prossimi all’ultimo, che è in effetti “la” causa esterna: “ciò che tutto muove in quanto causa prima di tutte le cose” (Met. 1070b19-35).
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primi passi che ci concentreremo, su quel primo libro, che ha una posizione preliminare e autonoma, preparatoria rispetto al “nuovo inizio” del secondo libro, e che si presenta a noi come una vera e propria «teoria dei principi». Una archelogia che si sviluppa tramite un confronto serrato con la tradizione presocratica, che vi viene continuamente chiamata in causa e messa a confronto con la sua stessa ispirazione fusikîj, quasi come a voler mostrare ad essa di essere rimasta al di sotto della sua pretesa di rendere conto in termini fisici della natura. Un confronto che ha una portata storico-filosofica assolutamente ineguagliabile, forse superiore anche a quello del primo libro della Metafisica, che peraltro ne è in buona misura solo una riproposizione. La lettura ontologica della Fisica, sia chiaro, è non solo possibile, ma del tutto adeguata e non solo relativamente al primo libro. Come scienza teoretica degli enti che hanno in sé il principio del movimento (cfr. Met. 1025b19-28), essa si dedica innanzitutto al chiarimento della struttura di ogni movimento, nella sua piena generalità come divenire, di cui il primo libro è una vera e propria fondazione. Esso ha così la funzione di aprire epistemicamente, e non solo metodologicamente, l’ambito dei suoi oggetti, quello che, secondo una terminologia moderna, potremmo chiamare il suo “dominio di validità”. Solo su tale base è poi possibile lo sviluppo successivo dell’indagine: nel primo libro Aristotele vuole rendere conto della struttura elementare del divenire, quindi di ciò che deve competere a tutti quegli enti, che poi la Fisica, con il “nuovo inizio” del secondo libro, e ancora oltre le scienze particolari della Natura devono studiare. Una fondazione non solo metodologica, poiché non prende le sue misure dalle forme dell’episteme della natura a se stanti, non intende descrivere solo la metodologia dell’osservazione, ma pensarla in connessione alle determinazioni essenziali del divenire, a che cos’è e com’è il divenire14. Il primo libro è dunque 14 Il che non toglie, ovviamente, che il concetto di ™pist»mh risulti comunque decisivo per la connotazione ontologica del divenire, come vedremo meglio più avanti. Sulla Fisica come ontologia, cfr. W. Wieland, La Fisica di
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una autentica onto-logia, di grado più elementare e generale dell’ontologia che anche gli altri libri della Fisica ancora sono: un’ontologia della scienza del divenire in generale, cui poi segue un’ontologia dei vari modi e condizioni del movimento, quindi delle cause, del tempo, dello spazio, del continuo e così via15. In tal senso tutta la Fisica, seppure su livelli differenti, è una sorta di metafisica della natura, cui poi seguiranno, nei tanti trattati naturalistici scritti da Aristotele e dalla sua scuola, a partire dal De Coelo, le singole indagini scientifiche intorno alle ulteriori determinazioni particolari degli enti naturali, dove finalmente si arriva ai fenomeni veri e propri. Dischiuso l’ambito del divenire e articolato nelle sue strutture elementari, insomma, sono poi possibili le singole scienze della natura, quelle che noi chiameremmo scienze positive. La connessione inscindibile tra questione ontologica ed epistemica è evidente già nei primissimi passi del primo libro, che introducono i termini sulla cui base proseguirà la lunga analisi sui principi della fisica, che viene condotta come passaggio dal modo di interrogare dei primi filosofi intorno all’¢rc», un modo scandito dai termini ün ka… p£nta, «l’uno e il tutto», al modo di interrogare di Aristotele intorno ai «molti in movimento» nei termini dell’¢rc¾ come a‡tion e come stoice‹on, causa ed elemento: ‘Epeid¾ tÕ e„dšnai kaˆ tÕ ™p…stasqai sumba…nei perˆ p£saj t¦j meqÒdouj, án e„sˆn ¢rcaˆ À a‡tia À stoice‹a, ™k toà taàta gnwr…zein – tÒte g¦r o„Òmeqa gignèskein ›kaston, Ótan t¦ a‡tia gnwr…swmen t¦ prîta kaˆ t¦j ¢rc¦j t¦j prètaj kaˆ mšcri tîn stoice…wn –, dÁlon Óti kaˆ tÁj perˆ fÚsewj ™pist»mhj peiratšon dior…sasqai prîton t¦ perˆ t¦j ¢rc£j: Aristotele, tr. e cura di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993, p. 21: La Fisica non si interroga su determinate cose naturali, bensì sulle “forme fenomeniche universali e sui principi delle cose naturali, ossia non prodotte dall’uomo”, questioni di principio che la scienza moderna rinuncia a discutere. 15 Ontologia ancora nel senso di teoria del nesso ontologico, giacché le forme dell’ente non sono conoscibili che a partire dalle condizioni del logos nella sua espressione compiuta come ™pist»mh. Vedi più avanti l’analisi di Et. Nic. 1139b20-23.
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Giacché il sapere e la scienza, su ogni via di ricerca di cui vi siano principi o cause o elementi, deriva dall’acquisirne conoscenza – allora, infatti, riteniamo di possedere la conoscenza di una qualsiasi cosa, quando ne abbiamo conosciute le cause prime e i principi primi e fino agli elementi –, è evidente che anche della scienza intorno alla natura dobbiamo prima di tutto cercare di distinguere ciò che riguarda i principi” (Phys. 184a10-17). Con questo breve e denso incipit, di cui possono sfuggire ad una lettura affrettata l’importanza, l’originalità e la vastità delle implicazioni, Aristotele ha già incardinato tutto il suo progetto sulla base di quello che potremmo ben definire un approccio “analitico-genealogico”16, operando più di uno strappo profondo non solo rispetto ai primi fisici, ma anche all’impostazione platonica. Possiamo cominciare a mostrarlo, passando brevemente in rassegna i molti termini relativi alla sfera del sapere presenti in questo primo passo, tutti chiaramente connotati, secondo differenze che è indispensabile tenere ben presenti, per poterlo comprendere compiutamente. Innanzitutto vi è tÕ e„dšnai, che traduciamo con «sapere», e che indica in greco una conoscenza ben radicata, fondata sull’evidenza di ciò che si è visto. Il termine è perfetto di e|don, video, supplente di Ðr£w, vedere: tÕ e„dšnai è «l’aver visto» e dunque conoscere con chiarezza, intendere pienamente, avere un sapere consolidato e certo. Qui è usato in endiadi con ™pist»mh, nella forma verbale tÕ ™p…stasqai: giacché il conoscere saldamente che è proprio dell’™pist»mh, l’essere saldamente in possesso di un sapere è precisamente la visione noetica dell’esser così di una cosa, di ciò che essa è e di come è, della oÙs…a e delle sue varie determinazioni. L’™pist»mh è conoscenza vera, e perciò salda, fondata sull’evidenza dell’essenza della cosa. Rispetto a cui la 16 Metodo su cui Aristotele torna più volte, sempre in chiave di impostazione della ricerca, per esempio molto chiaramente all’inizio della Politica, 1252a18 ss.: “Come nelle altre indagini, anche qui è necessario analizzare il composto fino alle parti semplici, che sono i costituenti minimi del tutto […]. Guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio, anche in questo campo, come negli altri, si avrà la visione teorica più chiara”.
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mšqodoj è la via di ricerca, definita non metodologicamente, ma proprio in funzione del suo orientamento alla cosa, di ciò verso la cui evidenza la via conduce, qui gli enti da natura: è un orientamento dello sguardo e del conoscere. Conoscere di cui sono ben distinti i due momenti: l’atto del fare conoscenza, gnwr…zein, del venire in contatto con qualcosa e imparare gradualmente a distinguerlo; seguito dal gignèskein (da cui il latino cognosco), che è il perfetto di gnwr…zw e indica una conoscenza già acquisita, che si è già fatta, che ha colto la cosa nella sua costituzione. E infine il dior…sasqai dice precisamente il modo in cui il fare conoscenza diviene conoscenza vera e propria e cognizione della cosa: determinandola, riconoscendone i termini, le condizioni, i confini, le separazioni e articolazioni, le divisioni naturali, quindi discernendola e discriminandola, distinguendone parti ed elementi, e così definendola e fissandola, dichiarandola. In sintesi, da tutte queste accezioni e dal loro nesso, risulta una concezione di ciò che noi traduciamo approssimativamente con “scienza”, di quella ™pist»mh che pur essendone alle origini si distingue invero nettamente dalla nostra scienza, come dominio sinottico della forma e delle parti, che si realizza conoscendo, ossia discriminando, principi, cause ed elementi. Questo vuol dire: “su ogni via di ricerca di cui vi siano principi o cause o elementi”, poiché non è detto che vi siano in ogni direzione dello sguardo, come Aristotele conferma, dicendo che “anche della scienza intorno alla natura dobbiamo prima di tutto cercare di distinguere ciò che riguarda i principi”. Solo se e quando li avremo trovati e definiti nella loro specificità, potremmo ritenere di avere accesso ad un’autentica e compiuta conoscenza della natura, quella conoscenza che per Platone non poteva darsi mai nella forma della ™pist»mh. Possibilità che, invece, Aristotele acquisisce sulla base di un’asserzione fondamentale, racchiusa in un inciso, ma che in effetti regge tutte le altre: “riteniamo di aver acquisito la conoscenza di una qualsiasi cosa (gignèskein ›kaston: dove gignèskein allude appunto a una conoscenza che possediamo, poiché l’abbiamo già fatta, poiché abbiamo un’esperienza e una familiarità con la cosa, mentre lo ›kaston dice un ente qualsiasi, qual117
siasi oggetto possibile del logos) quando ne conosciamo le cause prime e i principi primi e fino agli elementi”: ciò che è qui in ballo è la conoscenza dell’ente in quanto tale, di ogni ente, ossia propriamente il nesso tra conoscere e conosciuto nella sua forma generale. Un nesso che si realizza sulla via che conduce lo sguardo a vedere distintamente cause, principi ed elementi. Questa distinzione e definizione è la verità intorno alla cosa, quale che essa sia: tÕ e„dšnai kaˆ tÕ ™p…stasqai, infatti, ossia propriamente il sapere stabile ed evidente, quello veramente vero, derivano da tale conoscenza. Per i greci, però, e in particolare per Platone e Aristotele, verità è conoscenza dell’essente, lÒgoj che dice tÕ Ôn, ossia propriamente conoscenza dell’essenza dell’essente, di ciò che costituisce ogni essente come questa cosa qui e siffatta, nel suo ti e nel suo Ópwj. Se questo vale per entrambi, e a partire da loro in vari modi per tutta la tradizione metafisica, già in queste primissime battute della Fisica Aristotele si distacca però nettamente da Platone, non nella concezione della verità, ma in quella dell’essenza dell’essente: la verità rimane il lÒgoj dello Ôn, ma la oÙs…a dello Ôn non è più l’idea, bensì il nesso tra principi, cause ed elementi. Sono questi, che fanno di ogni cosa la cosa che è e come è, non il suo aspetto solamente e la sua forma, bensì l’intero complesso racchiuso nei tre termini, il cui significato va quindi chiarito rigorosamente. In linea del tutto preliminare, diciamo che gli elementi sono le parti semplici e omogenee inerenti la cosa (Met. 1014a26 s.), che come tali valgono anche come cause, al pari dei principi, che si differenziano dagli elementi per il fatto di poter essere anche esterni alla cosa, oltre a non essere necessariamente semplici. Parti in senso non solo materiale, ma anche formale ed ontologico: il limite primo, così come le cause materiale e formale, possono dirsi in un certo senso anche elementi. È comunque proprio l’intimità degli elementi alla cosa, che riporta anche quella naturale entro l’™pist»mh. Gli elementi, nella loro semplicità, sono precisamente ciò che va discriminato – il dior…sasqai come determinazione analitica delle parti costitutive e dei caratteri primari, che articola compiutamente la visione del complesso, 118
del sÚnqeton, in tutte le sue parti essenziali. Mšcri tîn stoice…wn, abbiamo letto, “fino agli elementi”: la penetrazione dello sguardo ha un termine naturale nelle determinazioni ultime, il semplice oltre il quale non ha senso scendere, oltre il quale non si trova più nulla, se non l’indefinito, tÕ ¥peiron, ciò che è privo di limiti e inconoscibile17. È dunque proprio così che Aristotele può parlare di una ™pist»mh della natura: dell’ente sensibile non si dà, per Platone, ™pist»mh, poiché esso non ha in quanto tale un’essenza stabile, ma solo per partecipazione. In Aristotele evidentemente non è più così: ribadita l’omologia tra essente e verità, se la conoscenza vera è quella delle cause e dei principi fino agli elementi, allora queste tre determinazioni saranno anche quelle ontologicamente preminenti per la costituzione della cosa conosciuta, ossia non solo ontologicamente preminenti in quanto idee separate dotate di un maggior grado d’essenza, ma preminenti nella cosa stessa18. Se tÕ ›kaston, insomma, è conosciuto tramite i suoi principi, cause ed elementi, allora questi sono i termini ontologici fondamentali, ovunque vi sia un ente veramente essente, essente per sé, ciò che Aristotele, ci rendiamo così conto non a caso, chiama appunto oÙs…a, intendendo la parola in modo molto differente dalla oÙs…a platonica (differenza che i medievali hanno poi articolato per lo più distinguendo substantia ed essentia).
17 Sull’inconoscibilità dello ¥peiron cfr. Phys.187b7 ss.: “Siano i principi illimitati o secondo la pluralità o secondo la forma, sarà impossibile conoscere ciò che proviene da essi – e„dšnai t¦ ™k toÚton –. Infatti riteniamo di conoscere il composto – tÕ sÚnqeton – solo quando abbiamo visto da che e da quanti è – Ótan e„dîmen ™k t…nwn kaˆ pÒswn ™st…n”. Il composto è conosciuto solo una volta visti, differenziati, determinati, gli elementi che lo costituiscono e in che quantità, non basta, insomma, conoscere il che o il quanto di un composto, bisogna conoscerli entrambi e in maniera del tutto determinata. L’argomento si regge passando dal piano epistemico a quello ontologico: se gli elementi fossero infiniti nella cosa, la cosa non sarebbe questa qui definita; essendola, anche i principi sono finiti. 18 Ammesso, ovviamente, che vi siano rinvenibili e in analogia alla forma, misura e grado in cui vi sono rinvenibili: si vedrà, infatti, come al fondo della cosa anche Aristotele finisca per trovare un puro nulla teorico, la materia come potenza assolutamente indeterminata del qualsivoglia.
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E tuttavia, nonostante questa differenza, è improprio parlare di una divaricazione tra Platone e Aristotele, poiché questi realizza e compie fino in fondo il progetto del primo, la fondazione della ™pist»mh, fondazione logica e ontologica. Platone non vi era riuscito del tutto, poiché non aveva risolto pienamente le aporie parmenidee ed eraclitee (ed è proprio per questo che Eraclito e Parmenide divengono anche per Aristotele, e per tutta la tradizione, pensatori così decisivi), tuttavia aveva posto le fondamenta, stringendo il nodo tra essenza e verità e cercando fino all’ultimo di far discendere l’essenza nel mondo. Ad Aristotele riesce quest’ultimo passo, in maniera lampante proprio qui nella Fisica. E quel che in Platone era il segno di una differenza di carattere innanzitutto ontologico, quella tra mondo sensibile e noetico, diviene qui una differenza di carattere innanzitutto gnoseologico, che Aristotele esplicita nel passo subito successivo: nonostante la piena omologia tra logos vero ed essere essente – un’omologia che nella Metafisica trova una sanzione lapidaria: “ogni cosa quanto ha di essere, tanto anche di verità”19 – vi è come un diaframma tra la capacità di conoscere e la conoscibilità per sé: “pšfuke dû ™k tîn gnwrimwtšrwn ¹m‹n ¹ ÐdÕj kaˆ safestšrwn ™pˆ t¦ safšstera t? fÚsei kaˆ gnwrimètera: per natura la via è da ciò che è più conoscibile per noi e più chiaro a ciò che è più chiaro per natura e più conoscibile: non sono infatti lo stesso i conoscibili per noi e di per sé (¡plîj)” (Phys. 184a16-19). Nella resa sintattica normale di questa frase nelle nostre lingue se ne perde quasi sempre l’articolazione chiasmica e il contenuto più sottilmente speculativo. Aristotele, infatti, certo non per ragioni stilistiche, dà alla sua frase una struttura non lineare, grazie alla quale gli riesce una resa estremamente sintetica e precisa di alcuni nessi molto importanti, che non ha bisogno di
19 Met. 993b30-31. L’asserzione è a conclusione di un paragrafo sulla filosofia come “visione circa la verità”, nel quale Aristotele riprende gli stessi termini dell’incipit della Fisica: “la causa (della difficoltà nel cogliere la verità) non è nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi dei pipistrelli si comportano verso la luce del giorno, così anche l’intelletto entro la nostra anima verso le cose che per natura sono le più evidenti di tutte (fanerètata p£ntwn)”.
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porre più esplicitamente, perché a lui e ai suoi ascoltatori erano del tutto evidenti (soprattutto in considerazione del fatto che, se davvero la Fisica è stata composta, almeno in queste sue parti iniziali, all’Accademia, quei nessi avevano già trovato nella filosofia platonica un’espressione chiara). Partiamo da quelli più evidenti e meno problematici, per passare poi alle implicazioni più sottili, che la struttura della frase ci consente più di indovinare che di leggere. Ciò che in essa appare implicito è che la conoscibilità della cosa è connessa alla sua chiarezza, alla sua evidenza e manifestatività. Safšj è innanzitutto ciò che è per sé evidente, manifesto, e solo così anche quel che è manifesto al pensiero, chiaro, certo. La conoscenza, insomma, dipende in prima istanza dalla saf»neia: una cosa ci è nota, innanzitutto a partire dal fatto che ci è manifesta. E tanto più ci si manifesta, tanto più essa è chiara per noi, evidente. Ossia: non è perché conosciamo una cosa che essa diventa chiara, ma perché ci è chiara che la conosciamo. Ma ciò che è per noi più chiaro, e quindi più noto, non è ciò che è più chiaro per natura, ciò che è per sé più manifesto e che quindi è anche, in linea di principio o in potenza, più conoscibile, più vero. Nel chiasmo questo nesso tra conoscenza e manifestazione assume il carattere di una duplice implicazione, impressione rafforzata dal fatto che tra i due termini è sempre interpolato il punto di riferimento, prima noi e poi la natura. La via verso la conoscenza vera delle cause e dei principi parte da ciò che ci è più noto e che quindi (ecco l’implicazione inesplicita) è ciò che a noi è più chiaro, più visibile, e procede verso ciò che è più manifesto per natura, ossia in funzione della propria costituzione ontologica, e che quindi è più conoscibile, ossia di cui si può dare una conoscenza più autentica, perfetta, vera20.
20 Su questo passo, interpretato alla luce della differenza ontologica, cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, pp. 121 ss. Il nesso tra conoscenza ed evidenza è chiaramente di matrice platonica: anche per Platone ciò che è più chiaro per sé, tÕ ™kfanšstaton, che è poi ciò che è più perfettamente e stabilmente determinato dal punto di vista ontologico, l’idea come e|doj puro, eternamente autoidentico, è ciò che è più co-
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La conoscibilità per noi, insomma, è limitata dalla nostra capacità di vedere e distinguere, la conoscibilità per natura, invece, è espressione pura della costituzione ontologica della cosa. Ossia: se ente significa un quid che è, e dunque di esso in quanto tale si dà sempre verità21, per sé ogni ente, conformemente alla propria natura, ossia semplicemente in quanto essente, deve essere accessibile e riconoscibile. La verità non è qualcosa di nascosto, da scoprire, ma è il più evidente, che bisogna solo saper vedere: per questo, quando ci mettiamo sulla via, dobbiamo cercare di determinare principi, cause ed elementi, partendo da ciò che è più evidente a noi, per andare verso ciò che è più evidente per sé. Una distinzione, che Aristotele pone in analogia con quella tra kaqÒlou, il generale, ciò che è, dice qui esplicitamente, “secondo l’intero”, e il kaq\›kaston, l’individuale, ciò che è secondo il singolo. Differenza rispetto alla quale, almeno in questo luogo, pure inverte la direzione platonica: infatti, ciò che è più chiaro per noi è proprio il generale, t¦ sugkecumšna – “le cose fuse insieme” –, e solo successivamente gli elementi e i principi in cui sono per natura suddivise. Bisogna dunque procedere dal noscibile, la cui conoscenza solamente è vera ™pist»mh (cfr. p.e. Phaidr. 250c8 ss. e Res. 476e7 ss.). Così come per Platone ciò che è innanzitutto a noi evidente, il mondo sensibile, non è il più manifesto per sé. Proprio da ciò Platone trae la conseguenza che non vi è ™pist»mh del mondo della natura. Conseguenza che Aristotele non trae. Poiché, in effetti, già in queste poche righe egli non ha ripetuto esattamente la dottrina platonica, ha anzi posto sin dall’inizio la differenza essenziale, ha già detto che cosa è più conoscibile ¡plîj, per sé, semplicemente, in quanto tale. La conoscenza vera è quella delle cause, dei principi e degli elementi, non quella delle idee! Ossia è conoscenza di qualcosa che pertiene e costituisce realmente l’oggetto e non solo per partecipazione, anche l’oggetto sensibile, di cui, conseguentemente, si dà ™pist»mh. In tal modo, quel che in Platone tradiva ancora una differenza – che è poi la differenza tra cosa ed ente –, ossia il carattere fuggevole del mondo sensibile, lo vedremo risolversi nell’ente diveniente di Aristotele, ove l’unica differenza ancora percepibile è nella mera materia, nella potenza in quanto potenza, ovvero in quanto non è (propriamente) in atto (come è invece in qualche modo nel movimento, atto della potenza in quanto tale). L’essere si è così effettivamente calato nelle cose, rendendole enti conoscibili, ma come si vedrà pur sempre nella loro finitezza eterorientata, nel loro second’ordine. 21 Agostino avrebbe concluso precisamente che “verum est id quod est” (Solil. II, 5).
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generale, da ciò che è secondo l’intero, verso ciò che è secondo i singoli, secondo ognuno dei costituenti, ricercando quella “definizione che divide secondo i singoli” (Phys. 184a21-184b13). Alla confusione delle parti deve subentrare la loro discriminazione precisa: Ð ÐrismÒj diaire‹ e„j t¦ kaq\›kasta… Tuttavia questo procedimento, che potremmo dire caratterizzare l’™pist»mh all’opera, è già successivo e dipendente dalla teoria preliminare che è l’oggetto proprio del I libro della Fisica e che ha uno statuto teorico superiore, molto prossimo a quello della filosofia prima. L’indagine fisica volta alla definizione, infatti, è ™k tîn ¢rcîn, a partire dai principi, da quei principi che vengono messi in luce dall’indagine ontologica, che è invece perˆ t¦j ¢rc£j, intorno ai principi, e quindi fondativa rispetto a ogni ulteriore ricerca. Essa è in tal senso un’autentica forma di sof…a, che nell’undicesimo libro della Metafisica Aristotele definisce appunto come “perˆ ¢rc£j ™pist»mh” (Met. 1059a18). La differenza tra l’archelogia del I libro della Fisica e quella più universale della Metafisica è chiarita in questo stesso luogo, ove Aristotele, avendo precisato che “la scienza del filosofo è dell’ente in quanto ente in generale e non secondo la parte, l’ente si dice però in molti e non in un solo modo” (Met. 1060b31 ss.), si preoccupa di distinguerla dalla matematica, dalla fisica e dalla sofistica, scienze o presunte scienze che si occupano di singoli aspetti dell’ente e non di esso in quanto tale, non nella sua piena generalità. La scienza filosofica in quanto tale, dunque, considera ciò che conviene agli enti in quanto sono semplicemente essenti – kaq\Óson ™stˆn Ôn –, e le contrarietà elementari che appartengono agli essenti in quanto tali, quelle che chiama “differenze prime”: unità e molteplicità, somiglianza e dissomiglianza, identità e differenza… La matematica, invece, si occupa di ciò che è per astrazione, del continuo e della quantità considerati puramente. La fisica, infine, si occupa non degli enti in quanto essenti, ma in quanto partecipano per sé del movimento, e perciò, dice Aristotele, è solo una “parte della sof…a”, non è l’intera sof…a, pur essendo compiutamente una qewrhtik» ™pist»mh, che come sua prima mossa deve trovare i principi primi dell’ente nel riguardo sotto cui l’osserva e da lì sviluppare il suo discorso (Met. 1061a10-b33). 123
La distinzione tra filosofia prima e archelogia della fisica, dunque, in linea di principio non è la distinzione tra oggetti differenti, ma tra riguardi differenti dell’indagine: la prima considera gli enti in quanto semplicemente sono, ossia riguardo a ciò che gli appartiene, alle loro determinazioni e differenze elementari in quanto essenti; la seconda considera invece ancora gli essenti, ma relativamente al loro essere per sé in movimento, ossia al loro mutare e divenire e quindi alle determinazioni e differenze elementari del mutare e divenire stesso. A partire da tale determinazione, la fisica si mostra immediatamente prossima alla tšcnh, poiché anche questa è una scienza del mutare delle cose, e quindi degli enti che ammettono il mutamento e che sono in parte gli stessi di cui si occupa la fisica. Ma la tecnica ha a che fare con i mutabili solo nella misura in cui la causa del loro mutare è esterna ad essi e riposa in un’operazione finalizzata ad una produzione22. Gli enti della fisica, invece, hanno in se stessi il principio del movimento, ossia del mutare; col che Aristotele certo non intende designare enti che siano ognuno per sé integralmente automoventi – l’esistenza di simili enti non era anzi per lui affatto evidente e aproblematica, ma da dimostrarsi –, bensì indicare gli enti, la totalità degli enti, in quanto si muovono secondo i loro propri principi e cause, interne ed esterne ad ognuno di essi presi singolarmente, e non in quanto sono puramente enti, come li guarda invece la filosofia prima, oppure in quanto sono oggetto di preferenza e quindi della pr©xij, o materiale di produzione, di cui si occupa la tšcnh (cfr. Met. 1025b18-24). Tesi che esige una precisazione: avendo a che fare con il riguardo della teoria, la demarcazione dell’oggetto della fisica non implica alcuna determinazione ontologica circa la totalità degli enti. Vale a dire che l’espressione «totalità de-
22 Cfr. Et. Nic. 1040a10 ss.: la tecnica è una “disposizione accompagnata da ragionamento vero che dirige il produrre (›xij met¦ lÒgou ¢lhqoàj poihtik»). Ogni tecnica concerne il far venire all’esistenza (perˆ gšnesin!) e operare tecnicamente è anche teorizzare come è possibile far venire all’esistenza una di quelle cose che possono sia essere che non essere e il cui principio è in chi produce e non nella cosa prodotta”.
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gli enti in movimento» non significa certo che tutti gli enti si muovano, per quanto Aristotele ponga anche esplicitamente la questione se ve ne sono di altri oltre questi, ma solo che lo sguardo è aperto a tutti gli enti in quanto si muovono (cfr. Phys. 253a35 ss.): a tale sguardo si mostreranno quelli che effettivamente possono muoversi (Met. 1025b26-27: perˆ toioàton ×n Ó ™sti dunatÕn kine‹sqai). Se vi sono enti del tutto immobili, e non semplicemente in quiete (giacché anche la quiete è una determinazione del movimento), tali enti saranno affatto invisibili a quello sguardo, ma non perché esso guarda solo gli enti che si muovono – un tale guardare solo certi enti, solo una parte degli enti, già solo per poterli distinguere, implica infatti vedere anche gli altri –, bensì perché li guarda solo in quanto hanno connaturata la capacità del movimento e della quiete. In tal senso, dunque, la fisica è detta essere “una parte della sof…a”, non perché consideri in linea di principio solo una parte degli enti, ma perché li guarda solo in quanto un certo genere di enti. Si capisce così l’inciso frequente in diversi luoghi dell’opera aristotelica, ove si afferma che se non vi fossero altre essenze oltre a quelle di natura, la fisica sarebbe di fatto la “scienza prima”23. Poiché però vi sono, la filosofia prima risulta più ge23 Cfr. Met. 1026a23-32. Ovviamente non è affatto privo di significato che qui si dica prèth ™pist»mh e non prèth filosof…a: per quanto scienza del tutto, se tutto fosse appunto in movimento, la fisica non sarebbe comunque tanto universale e pura come la teoria dell’essere in quanto tale: il dominio sarebbe lo stesso, ma lo sguardo comunque differente. Un discorso analogo può essere condotto riguardo alla relazione tra sof…a e teologia, che Aristotele definisce come scienza degli enti immobili, che è l’autentica scienza prima nella misura in cui tali enti sono i più venerabili, e che tuttavia rimane ancora sottordinata alla filosofia. “Si potrebbe porre il problema se la filosofia prima sia universale – kaqÒlou – oppure intorno a un qualche genere e a una qualche natura determinata (non sono infatti neppure le matematiche tutte allo stesso modo, ma la geometria e l’astrologia sono intorno a una qualche natura, mentre la matematica generale è comune a tutte); se dunque, poniamo, non vi fosse una qualche altra essenza oltre a quelle costituite per natura – par¦ t¦j fÚsei sunesthku…aj –, la fisica sarebbe la prima scienza; se, invece, vi è una qualche essenza immobile, la filosofia sarà precedente e filosofia prima; e in tal modo secondo l’intero – kaqÒlou – in quanto prima; e le sarà proprio contemplare intorno all’ente in quanto ente e che è e ciò che gli sottende”. Dunque sia
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nerale della fisica anche rispetto all’oggetto, essendo comunque antecedente e superiore nello sguardo, poiché ricerca intorno all’ente in quanto ente e ricomprende in sé, quindi, sia gli enti della fisica, che quelli della teologia, che tutti gli altri. Vale a dire, che se anche vi fossero solo gli enti di natura, rimarrebbe valida la distinzione tra fisica e filosofia prima, pur essendo del tutto coestensivo e quindi coincidendo integralmente il loro oggetto, ossia la totalità degli enti che sono24. Questa distinzione tra sof…a ed ™pist»mh prepara evidentemente quella tra ontologia generale e ontologie regionali: la prèth filosof…a, che si chiama così poiché la sua via di ricerca è la più generale e principiale di tutte, riguardando la totalità degli enti in quanto semplicemente sono, quindi l’intero secondo il suo principio di unità più semplice, è dunque la via ai primissimi principi e alle prime cause di ogni cosa. Le scienze teoretiche indagano invece l’ente secondo principi più determinati, che la teologia che la fisica rimangono scienze particolari distinte dalla filosofia prima, che è più universale, poiché non ha a che fare né con gli enti immobili, né con quelli mobili, ma con gli enti in generale. 24 E tuttavia, per quanto a un diverso grado di generalità, si tratta dello stesso tipo di indagine: un’ontologia dei principi. Nel quarto libro della Metafisica, al cui inizio vi è la famosa asserzione: “Vi è una scienza che teorizza l’ente in quanto ente e ciò che gli è proprio in quanto tale”, Aristotele sottolinea esplicitamente che, “poiché cerchiamo i principi e le cause più estreme, è evidente che questi siano necessariamente di una qualche natura in quanto tale”, ossia dell’ente nella sua costituzione reale. E spiega riferendosi proprio ai naturalisti: “Se dunque anche coloro che ricercavano gli elementi degli enti cercavano questi principi, è necessario che pure gli elementi dell’ente siano non accidentalmente (convenendo), ma in quanto ente; perciò anche noi dobbiamo afferrare le cause prime dell’ente in quanto ente” (Met. 1003a20-32). Come si vede, qui è chiarissimo lo stretto nesso tra Fisica e Metafisica: entrambe ricercano ciò che è proprio alla cosa stessa nella sua propria natura elementare, in ciò che innanzitutto la rende ciò che è; l’unica differenza, in questo passo, è tra il plurale tîn Ôntwn e il singolare toà Ôntoj. La Fisica cerca i principi degli enti, la filosofia prima dell’ente stesso, la Fisica ricerca ciò che è proprio delle cose in quanto cose, ossia in quanto molteplicità di cose e nella loro totalità, mentre la filosofia prima guarda ancor più generalmente all’esser cosa per se stesso. La prima ha, dunque, a che fare con l’unitotalità dei molteplici – il mondo –, la seconda con l’unità essenziale dello ›kaston, del qualsiasi ente; la prima con lo Ÿn p£nta, la seconda con lo Ôn, che sono sin dall’inizio i due grandi temi della filosofia greca.
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ruotano intorno ai termini di movimento e quiete, separatezza e non separatezza, motilità e immobilità e dunque temporalità o eternità. La differenza del riguardo, però, implica ancora altre distinzioni tra filosofia e fisica, ma anche tra fisica e tecnica, propriamente noetiche25 ed epistemologiche, che è opportuno cercare di chiarire sulla scorta dell’Etica nicomachea e delle prime pagine della Metafisica. Qui Aristotele traccia una breve genealogia della conoscenza, ponendo all’origine dell’amore dell’uomo per il sapere il piacere puro e incondizionato che gli procura la vista. È un’origine estetica, non solo perché ha a che fare con le a„sq»seij, le sensazioni, ma anche in senso più lato perché la vista, come già in Platone, è propriamente l’organo tramite cui si manifesta la bellezza, e che quindi preferiamo indipendentemente da ogni utilità e scopo pratico. La vista, dice, ci manifesta più di ogni altro senso le differenze e in tal modo ci fa conoscere, nel senso di discriminare e distinguere. Affinché tale discriminazione, ossia identificazione e posizione di ogni cosa per sé, si consolidi in un sapere, ossia affinché si passi dalla visione attuale all’aver visto, che custodisce la conoscenza acquisita, deve però intervenire la memoria, grazie alla quale diviene possibile la fantas…a, l’immaginazione, ossia quell’attività dell’anima, che la rende in grado di presentare a se stessa le immagini delle cose anche in loro assenza (Met. 980a21 ss.). Grazie a ciò, la fantas…a è la condizione della frÒnhsij e della m£qhsij. La prima è l’intendimento, non solo nel senso dell’intendersi di qualcosa, ma anche nel senso di intenzionarlo: nell’Etica nicomachea, Aristotele pone la frÒnhsij come capacità della boul», del consiglio e della deliberazione, di ciò che noi moderni traduciamo con volontà, della capacità di operare per un certo fine, e la chiama disposizione pratica, volta ai prakt£ e
25 Cfr. Et. Nic. 1039a8 ss.: “Infatti, in relazione a cose che differiscono per il genere, è diversa per il genere anche quella tra le parti dell’anima che è connaturatamente rivolta all’una o all’altra, se è per una qualche somiglianza e familiarità che a ciascuna di tali parti appartiene la conoscenza”.
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alla eÙprax…a, all’agire bene (Et. Nic. 1040a24 ss.). Dal canto suo la m£qhsij è l’apprendimento, la capacità di imparare, che è mediata però non solo dall’immaginazione e dunque dalla vista, ma innanzitutto dal lÒgoj e quindi dall’udito. Su queste basi, dalla sensazione si passa all’esperienza e poi all’arte e al ragionamento, ™mpeir…a, tšcnh, logismÒj. L’™mpeir…a è la sintesi di molti ricordi di una stessa cosa, dei singoli nella totalità delle loro proprie differenze. L’arte compie un ulteriore processo di sintesi, “nasce quando da molti intendimenti dell’esperienza si forma una comprensione intera, unificante, generalizzante, dei simili”: dall’intendimento dei molti alla comprensione di tutti, dall’intendersi di molte cose all’afferrarne insieme, nella sua generalità e specificità, il complesso, “p©si kat\e|doj ›n: tutti secondo l’unità della loro specie” (Met. 980b20 ss.). Per questo colui che detiene l’arte e la tecnica è superiore a colui che ha solo esperienza e familiarità con le cose, poiché non ne conosce solo la costituzione determinata e puntuale, tÕ Óti: il che, ma anche i principi e le cause di tale costituzione, tÕ diÒti: il perché. In tal senso l’architetto è superiore al manovale, poiché pur non sapendo agire rispetto ad ogni singolo elemento della costruzione così abilmente come fa questi, tuttavia conosce “t¦j a„t…aj tîn poioumšnwn: le cause di ciò che viene prodotto”, e le conosce non di\œqoj, attraverso l’uso e la pratica, bensì kat¦ tÕ lÒgon, secondo il logos, la ragione. Ed è proprio grazie a ciò, che la tšcnh è “m©llon ™pist»mhn: più scienza” dell’esperienza, e tuttavia non ancora puramente ™pist»mh, per una ragione semplice: essa non ha a che fare puramente con ciò che può mutare, ma costitutivamente con ciò che va mutato, poiché il suo scopo è operare sulle cose, modificarle ai propri fini. È a questo che serve la conoscenza del diÒti, del perché una cosa diviene in un certo modo e dunque del come possiamo produrla in quel modo (Met. 981a12 ss.). Ma la conoscenza vera ha a che fare con ciò che non muta: “ciò che conosciamo per scienza – Ö ™pist£meqa – non ammette di essere diversamente da come è; le cose che, invece, possono essere diversamente, quando si spostano fuori dalla nostra visione – œxw toà qewre‹n – si celano rispetto al loro essere o non essere – lanq£nei e„ œstin À m» –. 128
Dunque ciò che è conoscibile epistemicamente – tÕ ™pisthtÒn – è ciò che è per necessità, quindi eternamente” (Et. Nic. 139b2023). Passo nel quale è evidente, se non altro in controluce, il doppio movimento che si articola nell’assunto tramite cui già Platone fonda la scienza sulla stabilità dell’essenza come sua condizione: se infatti solo di enti stabili si può dare una conoscenza stabile, in ultima analisi è proprio a partire dalle condizioni della scienza stessa, della sua solidità, e non viceversa, che gli enti di cui si occupa acquisiscono la loro determinazione ontologica, l’essere per necessità ed eternamente. È, insomma, perché la scienza deve essere stabile e immutabilmente vera, è perché il suo sapere deve conservarsi anche quando la visione della cosa non è in atto, che essa deve vedere enti eterni e necessari. A differenza dello ™pisthtÒn, leggiamo ancora nell’Etica Nicomachea, “ciò che può stare diversamente è qualcosa di producibile e agibile” – poihtÕn kaˆ praktÒn – che riguarda la tšcnh e la pr©xij (Et. Nic. 1040a24 ss.). Da questa differenza, Aristotele trae una definizione di ™pist»mh come “perˆ tîn kaqÒlou ØpÒlhyij kaˆ tîn ™x ¢n£gkhj Ôntwn: una comprensione intorno a ciò che è secondo l’intero e agli enti per necessità” (ivi, 1040b31-32). Una simile comprensione si fonda su principi, che sono di volta in volta, ossia nel contesto delle singole scienze, ciò che esse posseggono preliminarmente e che quindi, al loro interno, non possono dimostrare, poiché è invece precisamente a partire da quei principi che esse svolgono le loro dimostrazioni (cfr. ivi, 1039b25 ss.). Tali principi primi di ogni scienza, non indagabili da quella stessa scienza, sono conoscibili tramite l’intelletto, il noàj, che è precisamente ciò che, nel contesto dell’Etica nicomachea, caratterizza la sof…a rispetto alla epist»mh: “è chiaro che la più perfetta delle scienze sarà la sapienza. Bisogna dunque che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi – t¦ ™k tîn ¢rcîn e„dšnai – ma che sia nel vero anche intorno ai principi – kaˆ perˆ t¦j ¢rc¦j ¢lhqeÚein. Cosicché la sof…a sarà intelletto e scienza, noàj kaˆ epist»mh” (ivi, 1041a17-18). A questo punto dovrebbe essere del tutto chiaro quanto è implicito nella conclusione che Aristotele trae dall’asserzione iniziale della Fisica: “kaˆ tÁj perˆ fÚsewj ™pist»mhj peiratšon 129
dior…sasqai prîton t¦ perˆ t¦j ¢rc£j: anche della scienza intorno alla natura dobbiamo prima di tutto cercare di distinguere ciò che riguarda i principi” (Phys. 184 a10-17). Una ricerca che è interna e al tempo stesso esterna alla fisica come ™pist»mh, poiché comporta il tentativo, propriamente noetico, posto il noàj come facoltà “tîn ¢rcîn” (Et. Nic. 1041a6-7), di mettere in luce i principi primi degli enti da fÚsij, non tramite un procedimento dimostrativo, bensì schiettamente teoretico. Anche per questo, dunque, è evidente che il discorso iniziale della Fisica, la sua archelogia, è intorno alla scienza della natura e non immediatamente scienza della natura. È solo tenendo ben presente ciò, che si comprende anche il senso della distinzione che abbiamo incontrato qui tra kaqÒlou e kaq\›kaston, e che apparentemente è in contraddizione rispetto alle definizioni usuali della filosofia prima. In effetti, però, non è così, poiché la determinazione analitica dei singoli costituenti l’ente fisico è qui svolta al massimo grado di universalità, riguardando precisamente la forma ontologica generale dei costituenti in quanto tali nelle loro diverse nature. Ciò a cui quella distinzione allude è piuttosto la differenza tra visione sensibile e visione noetica, una differenza da mettersi in luce affinché il noàj trovi garantita nel proprio specifico indirizzo la sua ricerca intorno ai principi: “Ma per natura la via è da ciò che è più noto a noi e più chiaro a ciò che è più chiaro per natura e più noto: non sono infatti lo stesso i noti per noi e di per sé. Pertanto è necessario condurre lungo tale direzione da ciò che è sì meno chiaro per natura, ma più chiaro per noi, verso ciò che è più chiaro per natura e più noto. Infatti, in un primo momento sono a noi manifeste e chiare di più le cose fuse insieme; poi, da esse, dividendole e discriminandole, divengono noti gli elementi e i principi. Perciò bisogna procedere da ciò che è secondo l’intero a ciò che è secondo il singolo; l’intero, infatti, è più noto secondo la sensazione, e ciò che è secondo l’intero è un qualche intero; infatti, ciò che è secondo l’intero abbraccia insieme molte cose in quanto parti” (Phys. 184a16 ss.). Il compito, insomma, è proprio quello di determinare ontologicamente e universalmente l’essenza di quelle parti. Un indi130
ce chiaro di quel che è in gioco è nel fatto che qui Aristotele si preoccupi di spiegare esplicitamente e quasi pleonasticamente il significato con cui usa il termine kaqÒlou26, “secondo l’intero”, che in questo contesto vale come la confusione indistinta degli enti che ci si manifestano immediatamente e di cui tutte le parti sono egualmente parti, solo parti di quell’intero, e quindi non ognuna posta per sé, secondo la natura propria di ciascuna. A quella indistinzione, infatti, alla confusione e omologazione delle parti, deve subentrare la loro discriminazione precisa, che richiede il passaggio dalla vista all’intelletto. La confusione, infatti, è ciò che innanzitutto si offre alla a‡sqhsij, che afferra la totalità e non le parti, sebbene già nella vista emerga la facoltà di cogliere le differenze. Allo stesso modo il logos afferra innanzitutto le parole e non la loro definizione, che avviene tramite lo ÐrismÒj (in cui risuona ancora il dior…sasqai). “Ciò che è secondo l’intero contiene una molteplicità in quanto parti”, si tratta quindi di farle emergere come elementi, ossia non più solo æj mšrh, come mere parti di quel tutto, bensì come i suoi costituenti elementari. E di far vedere non solo quali sono (come in qualche modo, seppure ognuno parzialmente, avevano già fatto i fisici e gli accademici), ma ancor più come sono, in che modo e secondo quali determinazioni ontologiche convengono nella costituzione della cosa, ognuno nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo specifico. Indagine circa natura ed essenza delle cause, dei principi e degli elementi entro gli enti da natura, che è dunque al tempo stesso un’ontologia del nesso tutto-parti e che Aristotele inaugura, come è il suo solito, tramite un confronto con la tradizione.
26 Phys. 184a25: “tÕ dû kaqÒlou Ólon t… ™sti”. Dalla preoccupazione di Aristotele di riportare il termine al suo significato originario è possibile arguire che esso avesse assunto entro l’Accademia già un sentore tecnico, quasi la natura di una formula, e fosse per questo esposto ad un uso acritico.
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IV.3 tÕ gignÒmenon ¤pan ¢eˆ sÚnqeton Nel primo paragrafo della Fisica Aristotele ha dunque indicato la via e la direzione, mšqodoj e trÒpoj, dell’archelogia che deve fondare la fusik» ™pist»mh. La conoscenza salda, sinottica, teoretica della natura può essere tale nella misura in cui il suo sguardo penetra fino ai principi primi, alle cause prime e agli elementi. Questa via e direzione è da ciò che è confuso insieme, dall’intero indistinto delle parti, alle singole determinazioni prime, dai sugkecumšna e kaqÒlou al diorismÒj kaq\›kasta dei mšrh. Ossia da ciò che è più manifesto a noi a ciò che è più manifesto per natura; e quindi dalla sensazione, entro la quale si rende noto l’intero confuso, la molteplicità indistinta, al logos, che distingue, discrimina, divide l’intero e definisce le singole parti. Come si è visto, poi, coerentemente con l’impostazione sempre saldamente ontologica ed epistemica degli antichi, i principi che è necessario distinguere affinché sia percorribile tale via non sono innanzitutto i principi della conoscenza, ma delle cose stesse e solo grazie a ciò anche fondatamente della conoscenza: la vera e propria fondazione della fisica che è qui in gioco, dunque, deve mettere in luce cosa sono in quanto tali i principi, le cause e gli elementi degli enti da natura nella loro piena universalità, qual è la loro essenza, forma, definizione e nozione in quanto tali. L’indagine perˆ t¦j ¢rc£j di Aristotele assume così immediatamente un atteggiamento speculativo molto più radicale e astratto di quanto non fosse avvenuto nei disparati trattati perˆ fÚsewj a lui precedenti, un atteggiamento che solo Platone, ma parzialmente, aveva tenuto prima di lui27. Se, infatti, i vari trat27 Nell’ultima fase del suo pensiero, non solo nel Timeo, ma anche nel Parmenide e nel Sofista, Platone aveva ripreso l’indagine fisica sia con intenti fondativi, che in termini di critica dell’™pist»mh fisica, di inchiesta circa le sue condizioni di possibilità. Un indizio del fatto che Aristotele erediti questo indirizzo platonico può trovarsi nella circostanza che l’introduzione del termine ¢rc», che si suole attribuire ad Aristotele, è invero già platonica: in Tim. 48b5 ss. il concetto è usato insieme a stoice‹on proprio in relazione all’indagine sulla natura come domanda sulla gšnesij, che richiede sin dall’inizio circa la sua
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tati intorno alla natura avevano voluto dire qualcosa dei principi degli enti fisici – e proprio Aristotele li leggerà sistematicamente sotto tale prospettiva e cercherà di dimostrare questa loro disposizione e di farne tesoro –, essi non erano però arrivati a dire qualcosa intorno all’esser principio di tali principi. In tal modo, però, questa la tesi di Aristotele, non avevano realizzato il loro scopo, ossia non erano arrivati ad un’autentica e intera ™pist»mh della natura, ossia non avevano colto compiutamente quei principi, quelle cause e quegli elementi, di cui pure parlavano, e non li avevano colti compiutamente, proprio perché inconsapevoli della natura e della determinazione complessiva di ciò che andavano cercando. Ognuno dei fisici aveva visto un qualche aspetto della natura, ma nessuno la loro totalità, e questo perché alla scienza della natura in quanto conoscenza dei principi mancava ancora la determinazione preliminare di ciò che è proprio ai principi. Come si è in parte già accennato, inoltre, sempre nel primo paragrafo è contenuta implicitamente anche una teoria della verità: nella distinzione di ciò che è noto e dunque chiaro a noi e di ciò che lo è per natura, infatti, è alluso un complesso di concezioni, generalmente condiviso dai filosofi greci, che aveva trovato in Platone la sua prima trattazione organica e da cui Aristotele non si allontana sensibilmente. Se ne possono elencare così alcuni cardini: 1) conoscenza autentica è solo la conoscenza vera (ossia si conosce qualcosa solo se lo si conosce veramente, una conoscenza falsa non è una conoscenza); 2) La conoscenza vera è la visione e messa in chiaro di ciò che è il conosciuto; 3) La messa in chiaro del conosciuto è la dichiarazione della sua essenza nel logos;
causa: “Tutto ciò che diviene per necessità diviene a partire da una qualche causa; è infatti impossibile per qualunque cosa avere generazione senza causa: p©n dû a} tÕ gignÒmenon Øp\a„t…ou tinÕj ™x ¢n£gkhj g…gnesqai: pantˆ g¦r ¢dÚnaton cwrˆj a„t…ou gšnesin sce‹n” (28a4 ss.). Ma il nesso tra dialettica e ¢rc» è ovviamente già ben saldo nella teoria delle idee (cfr. Res. 533a10 ss.).
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4) La dichiarazione dell’essenza nel logos è l’omologazione del nous alla manifestatività della cosa; 5) La manifestatività della cosa è un carattere essenziale del suo esserci e del suo essere: le cose che sono, in quanto sono, sono manifeste e dunque conoscibili per quel che sono; 6) Quanto più una cosa è necessariamente e stabilmente, tanto più essa è per se stessa manifesta e dunque conoscibile in verità; 7) La manifestazione della cosa ai sensi è più confusa, e dunque meno chiara, della sua manifestazione al nous e dunque entro il logos. Sulla base di questi presupposti comuni, Platone deduceva che ciò che è manifesto ai sensi è, perciò stesso, meno essente di ciò che è manifesto al nous, istituendo così la distinzione tra a„sqht£ e noht£, deduzione che Aristotele non compie, o almeno non con la stessa radicalità, come è evidente proprio dall’inizio della Fisica, ove l’esser confuso della cosa immediatamente manifesta a noi non implica di per sé un suo essere manchevole in se stessa, ma solo una limitazione della nostra visione della sua essenza e quindi il compito di passare dal manifesto per noi al manifesto per natura, dal confuso al determinato, che equivale al passaggio da una conoscenza infantile a una conoscenza matura. Poste tali premesse, in poche frasi che contengono però un intero cosmo concettuale, Aristotele mette mano al compito indicato, la ricerca della determinazione di ciò che è proprio generalmente e in quanto tali ai principi degli enti da natura. Nei paragrafi centrali del I libro il confronto con la tradizione è volto ad evidenziare in essa la modalità in cui può darsi e conoscersi qualcosa come un principio di tutti gli enti naturali: innanzitutto come principio unico o come molteplicità di principi; e se uno immobile o mosso, e così via; tutti termini di una classificazione che diverrà poi canonica nella successiva dossografia (Phys. 184b15 ss.). Non è qui possibile offrirne una lettura puntuale, basti sottolineare qual è la chiave di volta che permette ad Aristotele di passare dall’indagine fisiocratica sui principi alla descrizione della struttura del divenire: egli, facendo notare che 134
la domanda sul principio è analoga, e talora la stessa, a quella sul numero degli enti e degli elementi primi veramente essenti, e quindi è non solo genealogica, ma anche ontologica, trasforma la domanda sulla provenienza in quella sulla consistenza, cosa che fa giocando proprio sull’ambivalenza del verbo g…gnomai, nasco e divento, e sulla sua prossimità con il verbo e|nai. Il principio è lo ™x án, il “ciò da cui” una cosa viene. Ma quando la domanda sul “ciò da cui” diviene la domanda sugli enti che ci sono da prima (indifferentemente da come questo esser-prima vada considerato: esser-sotto, dentro, fuori, estremo, sopra, al limite, etc…), il “da cui” una cosa nasce diviene il “di cui” una cosa è, ambivalenza che Aristotele esprime nell’espressione “™x án prètwn e„sˆ kaˆ gegÒnasi: ciò da cui/di cui per primo [gli enti da natura] sono e divengono” (ivi, 184b23 ss., 190b18 ss.). Sono e divengono, divengono perché innanzitutto sono! “¢eˆ g¦r œsti Ö ØpÒkeitai, ™x oÏ tÕ gignÒmenon: sempre infatti vi è ciò che soggiace, dal quale il diveniente” (Phys. 190b3-4). Questo passaggio – dall’¢rc¾ da cui qualcosa nasce all’elemento di cui qualcosa è – è di importanza cruciale, innanzitutto perché è in questa chiave ontologica che Aristotele legge Parmenide. E, in secondo luogo, perché è il passaggio che, in un certo senso, Aristotele stesso compie con una radicalità non raggiunta prima e soprattutto all’interno del quadro ontologico dispiegato da Parmenide e Platone (ben più di Democrito, che fa la stessa mossa, ma rimanendo più sul piano della cosa, che non su quello dell’ente). Un passaggio, che però richiede un terzo elemento, l’«in cui» una cosa che è passa dal «da cui»: lo «e„j Ó» che dice il tšloj, il compimento del divenire28. 28 In linea con il suo progetto complessivo, Aristotele non intende solamente mettere in luce l’esigenza teorica di postulare uno «e„j Ó» del divenire, ma anche determinarlo ontologicamente nella sua specificità, come causa finale, superando il modo in cui il tšloj del divenire era pensato nei fisici come identico allo ™x án – paradigmaticamente in Anassimandro: “™x án dû ¹ gšnes…j ™sti to‹j o}si kaˆ t¾n fqor¦n e„j taàta g…nesqai: Nelle cose da cui si dà la nascita agli enti in quelle stesse avviene anche la loro corruzione” (DK12A1; passo talmente impregnato di terminologia aristotelica, che Heidegger lo espunge completamente dal detto di Anassimandro: cfr. M. Heideg-
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Per poter articolare e definire in maniera compiuta tale struttura tripartita del divenire, anche Aristotele deve risolvere una sorta di interdetto parmenideo, che lo pseudoaristotelico De Melisso, Xenophane, Gorgia attribuisce invero già a Senofane: “¢dÚnaton e|nai, e‡ ti œsti, genšsqai: è impossibile che, se qualcosa è, divenga” (DK21A28). Aporia che Platone, come abbiamo accennato, aveva cercato di neutralizzare con il suo concetto di “istante” (Parm. 155e4 ss.) e che consiste appunto nel dedurre l’impossibilità del divenire da un che, che è già: se è già questo ente, una cosa non può divenirlo, né esserne divenuta, che equivarrebbe ad essere venuta ad essere dal non essere, quindi in contraddizione col principio da tutti ammesso, l’“opinione comune dei fisici, che niente nasca dal non essente […]; tutto il diveniente nasce necessariamente o da enti o da non enti, di queste possibilità, però, il divenire da non enti è impossibile: oÙ gignomšnou oÙdenÕj ™k toà m¾ Ôntoj […]: p©n mûn tÕ gignÒmenon ¢n£gkh g…gnesqai À ™x Ôntwn À ™k m¾ Ôntwn, toÚtwn dû tÕ mûn ™k m¾ Ôntwn g…gnesqai ¢dÚnaton”29. E così come Plager, Il detto di Anassimandro, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19948, pp. 299-348. Scelta eccessiva poiché, pur introducendo significative innovazioni concettuali e terminologiche, che hanno condizionato tutta la recezione successiva dei fisici presocratici, non sembra plausibile negare che Aristotele abbia compreso ed ereditato quelle che erano effettivamente le questioni centrali della loro speculazione). Il passo più chiaro al riguardo è in Met. 983a24 ss., dove viene introdotta la distinzione delle 4 cause e subito confrontata con la tradizione dei “primi filosofi”. Costoro, dice Aristotele, “pensarono che principi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutte le cose sono [costituite] e da cui per primo divengono e in cui in ultimo si corrompono – ™x oÏ g¦r œstin ¤panta t¦ Ônta kaˆ ™x oÏ g…gnetai prètou kaˆ e„j Ö fqe…retai teleuta‹on – permanendo sotto la sostanza mentre muta nelle sue affezioni – tÁj mûn oÙs…aj ØpomenoÚshj to‹j dû p£qesi mataballoÚshj – è questo l’elemento e questo il principio degli enti”. È qui evidentissimo il raddoppiamento dello ™x oÏ (che è solo la forma al singolare dello ™x án) in ciò di cui/da cui (sono/divengono), che è appunto l’indice dell’esigenza aristotelica di superare la confusione dei principi, distinguendone con precisione le varie forme. 29 Phys. 187a27 s. Sempre in De Melisso, Xenophane, Gorgia, troviamo, nel paragrafo dedicato a Melisso (DK30A5), la formulazione: “m¾ ™ndšcesqai genšsqai mhdûn ™k mhdenÒj”, che riprende le varie definizioni presenti nella Fisica, per esempio in 191a31 e tanti altri luoghi.
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tone aveva risolto in sede logico-ontologica l’aporia distinguendo lo ›n ti dalla sua essenza e dalle sue determinazioni molteplici, così Aristotele la risolve in sede fisica distinguendo il substrato del divenire, la ØpomenoÚsh oÙs…a, che permane essente nel mutare delle forme che assume divenendo. Il divenire è così pensato come metabol» di uno Øpoke…menon, di ciò che, giacendo sotto, si trans-getta, metab£llei, nelle sue forme. Il concetto di Øpoke…menon è guadagnato ancora tramite la critica a Parmenide e al suo intendere tÕ ›n e tÕ ×n ¡plîj, l’uno e l’ente assolutamente e semplicemente. Poiché “p£nta g¦r kaq’Øpokeimšnou lšgetai tÁj oÙs…aj: tutte le cose, infatti, si dicono relativamente all’essenza sottostante” (Phys. 185a32 s.), altro, dice Aristotele, è l’essere di una determinazione, altro è l’essere dell’in cui è tale determinazione, altro l’essere proprio al bianco, altro l’essere proprio alle cose bianche, al dedegmšnon, ciò che accoglie le determinazioni e rimane Øpoke…menon rispetto ad esse, soggiacente e differente da esse (Phys. 186a24 ss.). Ci rendiamo conto che così Aristotele pone in qualche modo il t… sotto lo Ôn, come condizione di possibilità del suo divenire e fondamento della sua presenza, che è però determinata e quindi veramente presente solo in grazia di quello Ôn, ossia dello e|doj, dell’aspetto sovrastante ciò che soggiace e che lo rende ogni volta un tÒde ti, un che di determinato, che è l’unico modo in cui qualcosa concretamente c’è. Una volta guadagnato il concetto di Øpoke…menon, Aristotele si confronta poi con la seconda generazione dei fisici, in particolare Empedocle e Anassagora, che a differenza dei primi fisiocratici non intendevano la gšnesij come processo di alterazione qualitativa di una sostanza, ma come accrescimento e diminuzione per composizione e scomposizione di elementi primi. Al di là delle differenze, tuttavia, in entrambi i casi quel che viene ricercato è, più che una sorta di principium individuationis degli enti, piuttosto il loro principium multiplicationis dagli elementi: come si passa da una o poche sostanze alla molteplicità delle cose?, questa la domanda. E Aristotele, riconoscendo che – sia che si parli di un processo di alterazione, per esempio per rarefazione e condensazione di una sostanza, sia che si parli di una dina137
mica per eccesso e per difetto, per somma e sottrazione di elementi – sono comunque certi contrari i poli del mutamento, identifica esattamente nella contrarietà la natura dei termini del passaggio dallo ™x án allo e„j Ó, dal “da cui” all’“in cui” una cosa diviene, contrari che non sono sostanze, ma “di una sostanza” (Phys. 186a29 ss., 187a12 ss.). E che sono ogni volta congeneri, anzi proprio i limiti di un certo genere, come il bianco e il nero sono i limiti dei colori: delimitano e racchiudono un gšnoj tîn Ôntwn. Il divenire è metabol» di un ente tra contrari congeneri, che proprio per la loro congenericità si richiamano l’un l’altro e possono esprimersi in opposizioni per negazione e non semplicemente per alterità. L’esempio che poi Aristotele ripeterà più volte è tra l’uomo incolto e colto: questi non diviene tale dall’uomo bianco, ma da quello incolto… Ogni ™k comporta dunque un e„j: il “da cui” un “in cui”, che, se deve darsi divenire, devono essere opposti, nel senso che l’™k deve essere enfaticamente il non-e„j. Non semplicemente uno oÙk ¢utÒn, un “non questo”, ma un m¾ ¢utÒn: “non-questo”. Ed è evidentemente a partire da ciò, ossia rielaborando e modificando sostanzialmente la tesi platonica sul m» Ôn come ›teron, che Aristotele arriverà al concetto di privazione (Phys. 188a31 ss.). In una siffatta concezione dei contrari come principi del divenire si ritrovano una serie di elementi molto importanti per la determinazione dell’ontologia antica. La generazione, principiando da ciò che, non essendo quel che sta per divenire, è condizione del suo poter divenire quel che è, purché il mutamento avvenga entro lo stesso genere, entro la suggšneia dei contrari, è dunque un movimento intragenerico che si gioca tutto nell’opposizione tra il sì e il no entro un campo omogeneo. Un’opposizione che, come avverrà poi anche nella dialettica hegeliana, ha il primo momento sempre nel no, di cui il sì è solo riflesso, dunque anch’esso sempre un negativo (del negativo). Da tale punto di vista, l’ontologia appare essere sin dall’inizio un’essematica del no, entro cui il sì è solo il no del no. Lo ™x án del leukÒn, infatti, è ™x oÙ leukÒn: il principio, lo ™k, porta in sé il no, è principio del divenire questo dal non-questo: ™x oÙ… E a maggior ragione lo e„j, che è pure il positivo divenuto, ciò in cui 138
si compie la generazione, è essenzialmente e„j m¾, vale a dire e„j tÕ m¾ oÙ leukÒn. La determinazione ontologica propria e fondamentalmente di ogni contrario è dunque il non essere il proprio contrario, nel senso della sua negazione specifica e forte: ™n£ntia vuol dire letteralmente «nella contrapposizione». Ossia: non ci sono un positivo e un negativo, ma solo due negativi reciproci, da cui deriva ogni volta il positivo, di cui il positivo è ogni volta una sola faccia, che rimanda sempre all’altra. Il bianco, allora, non deriva da un qualunque non bianco, che sarebbe in quanto tale un positivo qualunque, ma dal a-bianco, ossia dal negativo di sé! La congenericità, insomma, è qui condotta nello spazio dell’essenza come negazione. Si potrebbe obiettare a una simile lettura, che il positivo è nello Øpoke…menon dei contrari, che insieme ai due è il terzo principio, lo ›terÒn ti tr…ton, che Aristotele pone come condizione del divenire30: si vedrà, però, che in fondo non è così, poiché il presunto positivo racchiuso nello Øpoke…menon finirà per mostrarsi esattamente come lo spazio della negazione di ogni determinazione essenziale. Ad ogni modo, i passaggi cruciali dell’argomento sono questi: per ogni genere c’è una contrarietà ultima, ossia due contrari estremi che lo racchiudono; ma la oÙs…a è essa stessa un genere, il più eminente ed essenziale, il genere di tutte le cose che sono per sé – attenzione, la oÙs…a e non lo Ôn, che non è un genere! –; poiché tutti gli altri Ônta si dicono di una oÙs…a come loro Øpoke…menon, allora i contrari ultimi saranno in ultima analisi solo due, quelli del genere della oÙs…a, che in fondo già conosciamo dal Sofista di Platone: Ôn e m¾ Ôn, per quanto Aristotele non li chiami più così. A questo punto, però, la oÙs…a 30 Phys. 189a26 ss., ove si considera necessario “ipotizzare una natura diversa dai contrari: di nessuno degli enti, infatti, vediamo essere essenza i contrari, e il principio non va predicato di un qualche sostrato, poiché così vi sarebbe un principio del principio; il sostrato è infatti principio e sembra essere precedente a ciò che viene predicato. Inoltre, diciamo che non c’è essenza contraria ad essenza: come infatti vi sarebbe un’essenza da non essenze? O come sarebbe una non essenza precedente a un’essenza?” Si tratta, evidentemente, ancora del problema della generazione semplice, che è ciò rispetto a cui emerge la necessità di “ipotizzare un terzo – Øpotiqšnai ti tr…ton”.
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come genere di tutte le cose per sé presenti, sarà solo oramai il substrato dei suoi contrari, non una qualche concretezza di essenza, ma il suo sfondo, ciò che accoglie le determinatezze, ossia il substrato del suo stesso essere o non essere, anzi del suo essere e al tempo stesso non essere, la materia indeterminata della forma e della privazione – ecco i nomi aristotelici per Ôn e m¾ Ôn. Il che appare nel modo più chiaro proprio rispetto a quella modalità del divenire che è la generazione semplice, la generazione di un’entità e non il semplice mutare di una sua determinazione particolare, generazione che pone evidentemente un problema, nella misura in cui va identificato lo Øpoke…menon che preceda la cosa stessa, l’assenza della oÙs…a che precede la sua presenza. Prima di nascere questa cosa non c’è, né come Ôn, né come t…: ma allora quale sarà il substrato di ciò che sta per nascere? Esso deve essere ipotizzato nella Ûlh, ossia la materia assoluta, la pura mancanza di ogni determinazione, il non essente che preesiste come pura potenza di essere: vediamo così, che proprio nel porre la oÙs…a come la cosa stessa e non separatamente come la sua idea, Aristotele innesca un processo di riduzione dell’essenza dal t… ™stin della cosa, alla sua esistenza concreta come questo tÒde ti, per finire alla materia indeterminata, la Ûlh come Øpoke…menon ultimo. In tal modo, l’essenza posta nella cosa gradualmente vi si dissolve e infine la dissolve come questa cosa qui... Punto cruciale, se non vero e proprio esito di tutto il nostro discorso, che merita ancora un approfondimento e quindi necessariamente una ricapitolazione più analitica, che svolgeremo a partire dalle ultime pagine del I libro. Nel 7° paragrafo, a chiusura del confronto con i filosofi precedenti, avendo già chiarito che oltre alla coppia dei contrari primi, da cui essi “costruiscono la natura degli enti”31, vi deve essere “un qualche altro terzo”, una ¢rc» ulteriore e differente, che già ha chiamato Øpoke…menon e stoice‹on (Phys. 189a26 ss.), Aristotele passa infine a descrivere la struttura del divenire in gene31 “™x án kataskeu£zousi t¾n tîn Ôntwn fÚsin”. Il termine usato è schiettamente tecnico: “equipaggiare”, “assemblare”, “costruire”, “fornire di tutto il necessario”.
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rale, a parlare “perˆ p£shj genšsewj: intorno a tutta la generazione”, ossia intorno a tutti i modi del divenire. Intorno ai koin¦ in tutto il divenire, le prime determinazioni elementari “comuni” al divenire in quanto divenire. E pone la prima definizione, fondamentale: “g…gnesqai ™x ¥llou ¥llo kaˆ ™x ˜tšrou ›teron À t¦ ¡pl© lšgontej À t¦ sugke…mena: il divenire è dall’altro l’altro e da diverso diverso, parlando dei semplici o dei composti” (189b30 ss.). Ossia, il divenire ha due forme fondamentali e due tipi di soggetti: il divenire altro dall’altro è la generazione ¡plîj, la nascita insomma, tramite cui un altro si stacca da un altro; è il venire al mondo di un’entità. Il divenire diverso di un diverso, invece, è ogni altra forma di mutazione, che non comporti il presentarsi di un nuovo soggetto, ma solo una qualche sua k…nhsij e alterazione, non solo in senso qualitativo, ma anche quantitativo, spaziale e in generale secondo tutte le categorie eccetto l’essenza. Due modalità che vanno ricondotte al loro koinÒn, a ciò che le accomuna. La distinzione, poi, tra “semplici” e “composti”, è la distinzione tra il tipo di entità che entrano in gioco nel divenire, assumendo di volta in volta il posto dell’altro e del diverso: a divenire altra da altra o diversa da diversa può essere un’entità o essenza semplice o composta; e dico “entità o essenza” per cercare di rendere il senso complessivo di ciò che qui Aristotele intende come Ônta, essenti, modi diversi dell’essere ente. Gli enti semplici sono quelli presi in considerazione o anche essenti ogni volta secondo un’unica categoria, determinazioni unitarie d’essere, modi singoli dell’esser-così o qui o tanto etc.: uomo, bello, destra. Mentre gli enti composti sono vere e proprie entità, essenze nel senso di cose concrete e determinate, tÒde ti, che si dicono nella pienezza delle loro dimensioni categoriali, qui l’unione del substrato e delle sue determinazioni contrarie. Aristotele fa tre esempi: c’è il divenire l’uomo colto (qui abbiamo due semplici: sostrato e contrario), c’è il divenire l’incolto colto (due semplici contrari), c’è il divenire l’uomo incolto uomo colto (due composti). Già da quest’ultimo esempio, risalta il luogo dello Øpoke…menon: considerando infatti il composto, ossia l’essenza reale e concreta, e non solo i semplici che divengono, ve141
diamo infatti che nell’ultimo esempio è l’uomo il terzo medio che rimane invariato tra i due contrari, e che è quindi il substrato delle differenze, ciò che nel divenire rimane uguale, ciò che propriamente diviene, pur rimanendo lo stesso. Ed è precisamente a questa identificazione dell’identico che serve la scansione della cosa nel composto di sostrato e contrari: è possibile che qualcosa divenga, poiché, nel suo mutare, il sostrato permane… Il divenire, insomma, richiede sempre qualcosa che non divenga, e quindi una struttura composta della cosa: una parte stabile e una in movimento. Vale a dire, che il divenire è distinto dal mutare: lo implica, ma implica anche il suo opposto, poiché ciò che diviene, il “soggetto” del divenire, propriamente non muta! (Phys. 189b34 ss.). Generalizzando “™x ¡p£ntwn tîn gignomšnwn: guardando a tutto ciò che diviene”, Aristotele dice dunque “che deve esservi qualcosa di sempre soggiacente al diveniente – de‹ ti ¢eˆ Øpoke‹sqai tÕ gignÒmenon – e questo, se anche per numero è uno, non lo è però per l’aspetto”. Specificando subito che “per l’aspetto” e “per il logos” dicono lo stesso, ossia che tÕ e|doj32 è l’essenza come determinazione del cosa è, del t… ™stin: per essere, e quindi per divenire, la cosa deve essere innanzitutto un t…, uno per numero, ossia qui un sostrato, il cui essere è la determinazione particolare molteplice, qui l’aspetto. Ossia, per tornare ad una delle questioni che aveva discusso prima contro Parmenide, è propriamente un uno-molti a divenire, un uno articolato in una molteplicità di caratteri mutevoli. E questo t… che soggiace, ossia permane sotto, è un non-antistante, qualcosa di privo di contrari: “tÕ mûn m¾ ¢ntike…menon Øpomšnei: il non antistante permane”, come non avviene né per l’¢ntike…menon, né per il sugke…menon dei due, il composto, che non è mai lo stesso, per quanto sia ogni volta solo in grazia di ciò che in esso rimane sempre tale (Phys. 190a13 ss.)33. 32 Che facciamo sempre bene, e qui in particolar modo, a distinguere dalla morf», che intende la coincidenza di e|doj e stšrhshj. 33 Ciò da cui (™x) si diviene e verso cui (e„j) si diviene sono i contrari nel loro rimando reciproco (in quanto tali cause del divenire in senso stretto), ma
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Così Aristotele ha composto il sÚnqeton, come lo chiama, che ciascuna cosa concreta è: un substrato privo di forma e permanente (causa materiale), che patisce il passaggio dallo ™x oÏ da cui diviene, e che è sempre un non-ancora-essere ciò che deve divenire (e in tal senso è principio la stšrhsij, la privazione di ciò che deve darsi, ossia in vista della causa finale), allo e„j Ð in cui diviene, la forma che in tal modo è a‡tion, causa formale che fa essere la cosa divenuta ciò che essa propriamente è come questo tÒde ti. Vediamo che qui manca la causa efficiente, poiché essa è sempre esterna alla cosa: e tuttavia sarà anch’essa ogni volta determinante affinché la cosa vi sia, in ultimo nella figura del motore immobile. A questo punto Aristotele ricapitola alla sua solita maniera – “il divenire si dice in molti modi: pollacîj dû legomšnou toà g…gnesqai”... – e introduce così la questione fondamentale, che rimane quella della nascita, ossia del modo peculiare in cui la gšnesij è anch’essa un g…gnesqai: “kaˆ tîn mûn oÙ g…gnesqai ¢ll¦ tÒde ti g…gnesqai, ¡plîj dû g…gnesqai tîn oÙsiîn mÒnon, kat¦ mûn t_lla fanerÕn Óti ¢n£gkh Øpoke‹sqa… ti tÕ gignÒmenon: e di certe cose non si dice che divengono, ma che divengono un che determinato, che semplicemente divengono si dice solo delle essenze, per quanto riguarda le altre cose è evidente che per necessità soggiace qualcosa di diveniente”. Un ti, un ente diveniente, sempre perché “solo l’essenza non si dice di nessun’altro sostrato, ogni altra cosa secondo l’essenza”. Dunque i vari modi del divenire che fanno riferimento alle diverse categorie, quelli per cui si diviene mutando qualità, quantità, luogo, etc., fanno sempre riferimento ad un’essenza che diviene, ossia che assume quelle varie determinazioni, solo l’essenza non è a sua volta la determinazione di un sostrato, per cui solo essa può semplicemente divenire, nascere (Phys. 190a32 ss.). Finché in gioco è l’uomo, che diviene da incolto (privazione) colto (forma determinata e compiuta), rimanendo uomo, la spieciò che diviene è il sottostante, in quanto tale elemento e principio al tempo stesso, ciò in cui (™n) effettivamente ha inizio il divenire: in questa struttura vi è precisamente il compimento della riduzione della ¢rc» a stoice‹on, o forse meglio della vera e propria fondazione della ¢rc» nello stoice‹on.
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gazione non pone particolari problemi, ma quando è della nascita stessa di questo uomo che si tratta, le cose si complicano e rientrano in gioco i termini fondamentali dell’ente e del non ente. Il g…gnesqai ¡plîj, infatti, ovvero la nascita, è il semplice venire ad essere dal non essere: è dunque evidente, che qui si concentrino tutte le aporie provenienti dall’interdetto parmenideo, aporie che Aristotele presentava in quella dÒxa comune a tutti i fisici, per cui un ente non può provenire da un non ente. La nascita, dunque, rimane ancora ciò che propriamente va spiegato, ciò di cui va innanzitutto spiegata la mera possibilità, ancora risolvendo l’aporia del non-ente. In vista di ciò, che Aristotele chiami la nascita un g…gnesqai ¡plîj non è privo di significato, né banale: seppur non direttamente, infatti, egli rimanda così alla sua distinzione tra enti semplici ed enti composti34, che è in effetti la chiave di volta della soluzione. Infatti, se il g…gnesqai ¡plîj è il venire alla luce di un semplice essente, di uno ¡plÕn Ôn, e se questo implica – giusta l’esplicazione di prima circa quelli che vanno considerati t¦ ¡pl£ – che la nascita in quanto tale coinvolge una singola determinazione dell’essere, ossia aristotelicamente un’unica categoria dello Ôn, allora essa potrà riguardare – questa la conseguenza esplicita che viene qui subito tratta – solo le oÙs…ai: solo queste possono essere t¦ ¡pl¦ gignÒmena, poiché l’oÙs…a è l’unica a poter sussistere per sé, in quanto non è la determinazione di un substrato, ma essa substrato delle determinazioni. La questione della nascita, dunque, sarà propriamente: come può venire all’essere una oÙs…a? E la soluzione si darà tutta giocando sull’ambiguità del termine, che può voler dire «questo animale vivente», questa entità, ma anche la sua materia, la sua sostanza: come nasce questo animale vivente, come viene al mondo questo essente dal suo non-essere? Ma il fatto che esso prima non sia e poi sia, questa la soluzione che si va preparando, 34 Come emerge chiaramente anche subito dopo, Phys. 190b3 s., dove Aristotele nota che ad un esame accurato diviene evidente “che anche le essenze e gli altri enti semplici – ¡plîj Ônta – divengono da un qualche sostrato”, tesi che è poi il cardine della sua spiegazione della generazione semplice.
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non significa che un ente provenga da un non ente, poiché non significa che non via sia tanto prima quanto poi un substrato ulteriore che regge il divenire dall’uno all’altro contrario, substrato che, giusto quanto appena detto, dovrà essere comunque una oÙs…a, che però questa volta non è «l’animale vivente», ma la sua materia, il seme che passa dalla vita in potenza alla vita in atto. Si comprende, però, che allora neanche la nascita è un g…gnesqai ¡plîj! E che anche «questo animale vivente», in fin dei conti, è la determinazione di un substrato, la oÙs…a determinazione di un’altra oÙs…a, che le è però del tutto intima, è il suo stesso elemento e principio. E tuttavia questa situazione non può essere priva di difficoltà logiche, che Aristotele dovrà risolvere introducendo nuovi concetti. Rimanendo entro i termini presentati sinora, però, possiamo già dire che anche la nascita è una sintesi, che abbiamo visto essere la composizione dinamica tra uno Øpoke…menon e due contrari, i quali, considerando la cosa in maniera del tutto generale e conformemente a quanto assunto sinora da Aristotele, qui sono in fondo l’essere e il non essere, la vita e la non-vita35. La composizione e sintesi del nascente, dunque, si gioca tutta all’interno della oÙs…a, potremmo dire tra oÙs…a, ×n e m¾ Ôn, ed è possibile grazie al fatto che la oÙs…a ha in essa due, se non tre ruoli distinti: quello dello Øpoke…menon, in quanto materia, e quello del sÚnqeton finale, questo animale vivente, che è anch’esso innanzitutto una oÙs…a, non più semplice, però, ma composta di materia e forma. Forma che a sua volta, limitatamente al suo polo positivo, ossia come e|doj colto dal lÒgoj in quanto tÕ t… {n e|nai della cosa, è di nuovo oÙs…a!36. È per questa ragione, ossia perché è l’aspetto della forma, lo e|doj della morf» come e„j Ð, ciò verso cui diviene il nascente, a prendere il posto del contrario positivo, che in ultima analisi è proprio esso 35 Questo ci fa capire perché una delle innovazioni teoriche fondamentali è quella della privazione, la stšrhsij, che rappresenta qui il «da cui» diviene il semplicemente diveniente, il suo ™k toàde, come l’assenza che precede la presenza. 36 Su tali molteplici significati dell’essenza, cfr. Met. 1017b10 ss.
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a rappresentare tÕ ×n rispetto al m¾ Ôn: pur essendoci solo alla fine della composizione, pur essendo possibile solo sulla base del substrato materiale, è più essente della materia! Conclusione per certi versi stupefacente, ma del tutto coerente secondo il ragionamento appena svolto, conclusione che Aristotele ripeterà senza sosta e che siamo così in grado di comprendere in una delle sue ragioni formali37. A questo punto, Aristotele fa un elenco dei modi del divenire ¢plîj, per astrarne il tratto comune: “I semplicemente divenienti, dunque, divengono gli uni per trasfigurazione, come la statua, altri per aggiunta, come le cose che crescono, altri per detrazione, come dalla pietra Ermes, altri per composizione (sunqšsei), come la casa, altri per alterazione, come le cose che si modificano secondo la materia. Tutte le cose che divengono in tali modi è evidente che divengono da sottostanti. Cosicché è chiaro da quanto detto che tutto il diveniente è sempre un composto – tÕ gignÒmenon ¤pan ¢eˆ sÚnqeton – ed è da un lato un che diveniente, dall’altro ciò che questo diviene, il che vale duplicemente: o è infatti il sottostante o l’antistante”38. La natura del divenire in quanto tale, insomma, anche per quel che riguarda la nascita, è in ogni caso una sÚnqesij39– ecco la parola che, infine, Aristotele trova per mettere insieme le forme fondamentali del divenire semplice: l’alterazione, l’accrescimento, la trasfigurazione, trovando così l’essenza del divenire in quanto tale e in totalità: tÕ gignÒmenon ¤pan ¢eˆ… Sintesi che è la composizione tra ciò che permane mutando e ciò che esso di-
37 Vedi p.e. Phys. 193b12 ss. Sull’ambiguità della oÙs…a è indicativa la conclusione del paragrafo 7: “pÒteron dû oÙs…a tÕ e|doj À tÕ Øpoke…menon oÜpw dÁlon: se poi essenza è l’aspetto o il sostrato non è ancora chiaro”. 38 Phys. 190b5 ss. Non è forse azzardato leggere in questa conclusione una riformulazione di quanto era già stato detto nel Sofista, 245 d4: “tÕ genÒmenon ¢eˆ gšgonen Ólon”. 39 Come propriamente per gli oggetti artigianali! Nell’elenco delle varie possibilità di gšnesij ¡plîj, infatti, è proprio la costruzione della casa che viene indicata propriamente come sintesi. Vediamo così che anche in Aristotele, come in Platone, l’opera della tšcnh è la metafora più funzionale a dire la costituzione delle cose.
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viene dal non esserlo. Questa sÚnqesij, se guardiamo bene, riproduce la struttura complessa dello Ôn, tanto di quello che è (innanzitutto di quello che è!), tanto di quello che diviene. TÕ Ôn, intendendo qui la cosa nella sua concretezza, kaq’›kaston, la oÙs…a come entità determinata, è ogni volta il punto di sintesi, se si vuole la superficie di contatto, di due dimensioni opposte, di ciò che sta sotto, la profondità della sostanza, e di ciò che emerge al di sopra, che si contrasta sullo e|doj, che si determina come aspetto nella contrapposizione dei contrari: la substantiasubjectum e gli objecta: ¢ntike…meno
¢ntike…meno
sugke…menon Øpoke…menon Ora, se l’essere dello Ôn, come tÒde ti, è la sÚnqesij stessa40, il cosiddetto sÚnolon, il suo divenire sarà l’attuarsi di essa, la sua ™nšrgeia come il convergere dei due (che sono tre), il sunt…qhmi in quanto tale, quindi movimento, k…nhsij, ed essenzialmente come metabol», letteralmente un trans-gettarsi e comporsi, gettarsi attraverso il medium degli opposti e condensarsi in una forma determinata: k…nhsij e metabol», in tal senso propriamente trasformazione, che saranno poi i termini fondamentali a partire dal II libro e dei quali, proprio alla luce di quanto appena detto, non appare per nulla singolare la definizione come “atto della potenza in quanto tale” (Phys 201a10-11). Lo ØpÒ, dunque, è ciò che sta sotto lo e|doj, la faccia, l’aspetto; è il profondo rispetto al superficiale, l’essenziale rispetto a ciò che si predica e conviene (sumbebhkÒj: “ciò che viene insieme”, che si
40 Tesi che sarà del tutto esplicita e caratteristica nel medioevo: l’essenza dei composti, diranno infatti Avicenna come Tommaso, è il composto stesso (cfr. Avicenna Latinus, Liber de philosophia prima sive scientia divina, ed. S. Van Riet, V,5, p. 275 e Tommaso, L’ente e l’essenza, cit., pp. 82 ss.).
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associa alla sintesi). Perciò Aristotele finisce per opporre su questa via Øpoke…menon e morf», il sostrato alla forma41, che diviene parola comune per gli ¢ntike…mena, i quali, non a caso, diventano nella tradizione successiva gli oggetti vs i soggetti, gli objecta che il tedesco dotto conia, dando tutto il giusto valore avversativo allo ob latino, con Gegenstände, quelli che stanno di fronte, ma anche i contrapposti: come già si accennava, è infatti da questo luogo che deriva tutta la tradizionale opposizione tra soggetto e oggetto, qui dove i contrari assumono il carattere della determinatezza della forma di una cosa, la sua «oggettività»42. A questo punto possiamo tornare alla nostra domanda iniziale: cosa ne è della cosa in questa sua scomposizione e ricomposizione, ossia cosa sono i vari elementi che la compongono e cosa il suo nascere e divenire? La Ûlh, Aristotele lo dirà poco dopo, come natura soggiacente, priva di forma e mai essente per sé, æj dû kat¦ dÚnamin, oÙ kaq\¡utÒ, è ingenerata e incorruttibile, non diviene, ma soggiace come “primo da cui inerente: prîton ™x oÏ ™nup£rcontoj”, in sostanza un nulla potenziale, indifferente alla cosa, conoscibile solo per analogia43. La forma, d’altro canto, è la tensione «non ente-ente», privazione come assenza e aspetto come presenza di un ente semplice, di nuovo per sé non diveniente, essente in quanto tale e conoscibile, ma che alla cosa solamente conviene: proprio l’essere determinato appare come una determinazione in ultima istanza accidentale44. E la
41 Phys. 190b16 ss.: “È dunque evidente, se cause e principi degli enti da natura sono ciò da cui, in quanto primi, è e diviene non per accidente, ma ogni cosa che si dice secondo l’essenza, che tutto diviene da, insieme, il sostrato e la forma”. 42 Non posso qui affrontare compiutamente il movimento complementare, quel movimento teorico complesso, tramite il quale tÕ Øpoke…menon finisce per diventare il soggetto del soggettivismo moderno, come è ben ricostruito in M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P Chiodi, La Nuova Italia 1968, pp. 71-101 (in particolare nota 8, pp. 90-92). 43 Phys. 192a27 ss. In Met. 1070a10 si dice che “è un che di determinato – tÒde ti – solo in apparenza”. 44 Cfr. Phys. 190b20 ss.: “Il soggiacente, di fatto, è relativamente al numero certo uno, ma relativamente all’aspetto due. L’uomo, infatti, e l’oro e com-
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cosa è dunque il punto di contatto tra un nulla in potenza e un ente accidentale, il suo divenire il movimento causato da una privazione, da una mancanza.
IV.4 Omnia Deo comparata nihil sunt Questa tensione intrinseca e coimplicazione in ogni cosa che diviene dell’ente e del non essente è ciò che la Fisica consegna al pensiero successivo come bisognoso di essere tenuto in unità, poiché in sé non la trova, come dimostra Aristotele stesso nella Metafisica, accingendosi a dimostrare l’esistenza di Dio come motore immobile. Egli riassume qui tutti i termini sinora incontrati: “La sostanza sensibile è soggetta a mutamento – metablht» –. Se il mutamento avviene dai contrari [...], è necessario che vi sia sotto – Øpe‹nai – un che che muti – ti tÕ metab£llon – nella contrapposizione: infatti i contrari non mutano. Inoltre, c’è qualcosa che permane – Øpomšnei –, ma il contrario non permane: dunque c’è un terzo oltre i contrari: la materia. […] Inoltre, poiché è duplice l’essente, tutto muta dall’essente in potenza all’essente in atto […], dimodoché in un certo modo ogni cosa può plessivamente la materia sono numerabili; anzi proprio un certo qual che, e non per accidente – convenendo – da esso diviene il diveniente; la privazione, invece, e la contrapposizione sono convenienti – accidentali”. Vale a dire: il soggiacente è di per sé – sia esso un soggetto: l’uomo, o una sostanza: materia – Uno. Socrate, questa statua, questo qua, un qualche, tÒde g£r ti m©llon! Per l’aspetto, però, ossia rispetto alla forma che di volta in volta ha o assume, è due, poiché è sempre tra due estremi che si posiziona il medio delle qualità, grandezze, posizioni, tempi, etc…: tutti i p£qh, gli accadimenti che gli succedono, propriamente t¦ sumbebhkÒta, ciò che conviene, ossia avviene, si incontra con questo qual che e lo fa bianco, colto etc., secondo le sue varie potenzialità. Perciò è propriamente da questo «qual che» che diviene il diveniente e non per convenienza, per accadimento, per avventura. Ciò che invece capita a questo uno, a ognuna delle cose in natura, sono la privazione e la contrarietà, ossia la sua forma mutevole. Che non sono quindi nulla di semplicemente casuale, non un puro fortuito incidente – non è questo certo il senso dell’accidentale –, ma appartengono invece propriamente alla sua natura insieme unitaria e duale come la propria forma, che è di volta in volta il suo esser questo Ôn, non più un semplice ti, ›n ti, Ÿn ›kaston, bensì questo ente fatto così e così.
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divenire non solo dal non essente, ma anche dall’essente: dall’essente in potenza e dal non essente in atto. […] Detto questo bisogna rilevare che non divengono né la materia, né l’aspetto, voglio dire i principi ultimi. Tutto ciò che muta, infatti, è un che e muta a causa di un che e in un che – tˆ kaˆ ØpÒ tinoj kaˆ e‡j ti –. Ciò a causa di cui muta è il motore prossimo, ciò che muta [attenzione!: senza divenire] è invece la materia, ciò in cui l’aspetto. Si procederebbe all’infinito se si generasse non solo la sfera di bronzo, ma anche la sfera e il bronzo: per necessità allora vi deve essere un termine cui ci si deve arrestare” (Met. 1069b3 ss.). Il che vale, ovviamente, circa tutti e tre i momenti del divenire appena elencati, quindi anche rispetto allo ØpÒ tinoj: un qualsiasi motore prossimo, insomma, implica il motore ultimo, che così risulta infine la causa prima e ancora esterna di ogni movimento, “tÕ æj prîton p£ntwn kinoàn p£nta: ciò che come causa prima di tutto, tutto muove” (ivi 1070b34-35). Il mondo, la molteplicità degli enti in divenire, dimostra quindi la necessità dell’attualità di una “essenza eterna immobile”, come suo fondamento e causa, senza di cui non vi sarebbe nulla, né alcun movimento: “se vi fosse un principio motore e produttivo, ma non come un che in atto, non vi sarebbe movimento”. Vale a dire che le idee non sono sufficienti a rendere conto delle cose, se non è presente in esse un “principio che ha la potenza del mutamento: dunamšnh ¢rc¾ metab£llein”, che risulta infine essere quello la cui essenza è precisamente l’attualità stessa: “de‹ ¥ra e|nai ¢rc¾n toiaÚthn Ãj ¹ oÙs…a ™nšrgeia” (Met. 1071b4-20). Essenzialmente l’atto precede la potenza, il che da un punto di vista fisico significa negare completamente la spiegazione genealogica degli antichi: “non ci furono per un tempo illimitato Caos o Notte, ma ci furono sempre le medesime cose o ciclicamente o in qualche altro modo, se l’atto è veramente anteriore alla potenza”, atto come “un che sempre permanente che agisce sempre allo stesso modo” (Met. 1072a7-10). “Qualcosa che non muovendosi muove, essendo eterno ed essenza ed atto”, e quindi pensiero e anzi coincidenza di pensiero e pensato: “taÙtÕn noàj kaˆ nohtÒn” (ivi, 1072a25 ss.). Determinazioni del motore 150
immobile che qui ci limitiamo a elencare, poiché non è un’analisi compiuta della teologia aristotelica ciò che ci proponiamo, ma solo mostrare come tale esito teologico si innesti nella questione ontologica della cosa, portando a compimento e rendendo evidente il processo, propriamente metafisico, grazie al quale lo on è infine radicato, sostenuto e garantito, poiché in ultima analisi prodotto dal logos, da quell’ipostasi del logos che è in fondo Dio. Un Dio al quale tanto più si dovrà concedere in perfezione, affinché il mondo trovi il proprio fondamento d’essere, quanto più si dovrà perciò svuotare la cosa, scomporla e ricomporla grazie ad una causa esterna ad essa, quindi alienarla e annichilirla in se stessa: è propriamente nell’esito teologico dell’ontologia che si radica il suo nichilismo. Anche da questo punto di vista, Aristotele rappresenta un compimento del platonismo, una sua radicalizzazione, poiché l’intento di riportare l’essenza nelle cose, fondando la generazione non nella determinazione ontocronologica dell’eternità, ma in quella del divenire, finisce per rendere ancora più stringente la necessità di una loro garanzia trascendente, che non è più la pianura della verità, ossia lo spazio dei puramente essenti, bensì il Dio come pensiero di pensiero, il Logos nel suo perfetto autoriferimento, il puro autorispecchiamento della qewr…a. È insomma dal vedere che provengono i visti, ciò che in Tommaso troverà espressione nella sua concezione di Dio come visio in actu. È, infatti, proprio entro il contesto dell’apprensione medievale della filosofia prima aristotelica che si compie questo processo di traslazione dell’essenza dalle cose, alle idee, all’intelletto, come però qui può essere solo accennato in chiusura del discorso, se si vuole come indicazione di un suo futuro sviluppo. Nella teologia tomista, in effetti, si fa ancora un passo in avanti, che possiamo indicare in estrema sintesi come il passaggio, che capovolge la gerarchia antica tra qewre‹n e poie‹n, dalla concezione noetica di Dio in quanto teoria pura alla sua declinazione che vede sempre più prevalente l’intelletto pratico, produttivo, su quello speculativo. Nel secondo articolo delle Quaestiones disputatae de Veritate, ove si pone la domanda “se la verità si trovi principalmen151
te nell’intelletto più che nelle cose”, questione schiettamente ontologica nella misura in cui verum et ens convertuntur, Tommaso, posto che “una cosa non è detta vera, se non nella misura in cui è adeguata all’intelletto” e che “per conseguenza il vero si trova in secondo luogo nelle cose, invece in primo luogo nell’intelletto”, introduce appunto la distinzione tra intelletto speculativo e intelletto pratico, distinzione fondamentale perché è solo sulla sua base che si può rendere compiutamente conto del fatto che, per quanto secondariamente, anche nelle cose, in quanto enti, vi è verità, ossia essenza. In questione è dunque ancora la garanzia essenziale delle cose, il consolidamento delle cose nella propria essenza, che è d’altro canto la garanzia di ogni conoscenza salda e fondata, di ogni scienza. Ebbene, Tommaso dice che “l’intelletto pratico causa le cose, cosicché è misura delle cose che si fanno per mezzo di esso, mentre l’intelletto speculativo, poiché riceve dalle cose, è in un certo qual modo mosso dalle cose stesse, e quindi le cose ne sono la misura. Da ciò è manifesto che le cose naturali, dalle quali il nostro intelletto riceve la scienza, misurano il nostro intelletto”. La conoscenza è il commisurarsi dell’intelletto all’essenza delle cose, ai reali, ossia alle quidditates. Questo rapporto tra intelletto umano e res naturales è però invertito in Dio, giacché esse non sono per lui misure, ma “sono misurate dall’intelletto divino, nel quale tutte le cose esistono come nell’intelletto dell’artigiano tutti gli artefatti. Così dunque l’intelletto divino è misurante e non misurato, invece le cose naturali sono misurate e misuranti, ma il nostro intelletto è misurato e non misurante le cose naturali, ma solo quelle artificiali”45. È ancora la distinzione tra fÚsei Ônta e tšcný Ônta, che ha però oramai assunto una forma che non aveva ancora in Aristotele: quel che qui è in effetti del tutto compiuto, infatti, è la riduzione essenziale di tutti gli enti di natura in enti della tecnica, poiché in Dio quella differenza è annullata a favore degli artefatti. Solo per l’intelletto umano vi sono res naturales, ossia en45
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Tommaso, Sulla Verità, cit., pp. 126 ss.
tità dotate di una propria essenza indipendente da noi e quindi misura della nostra conoscenza, che è vera solo adeguandovisi, mentre l’intelletto divino è assolutamente produttore di ogni cosa, e quindi eminentemente pratico. Conoscere e creare è per Dio lo stesso, egli è la misura di ogni cosa, che ha essere e verità solo da lui, essendo una sua opera. Solo per l’uomo il creato si scinde in due ordini di enti, quelli che per lui sono naturali, poiché la loro essenza dipende direttamente da Dio, e quelli che egli stesso produce, quasi artificiali di secondo grado. L’uomo è dunque una sorta di Dio finito, capace di creare e così misurare le cose, ma solo in maniera limitata. E tuttavia è proprio da questa sua capacità che egli riconosce l’essenza del dio creatore, ipostatizzandola nei termini della coincidenza tra onniscienza e onnipotenza. Le cose naturali, dunque, hanno una sorta di esistenza condizionata, sono tali per l’intelletto umano, mentre per quello divino sono creature, opere. E tuttavia senza tale messa in opera della natura da parte di Dio, non vi sarebbero res naturales neppure per l’uomo, ove res non indica affatto il singolo concreto, ma la sua essenza. “Res ergo naturalis, inter duos intellectus constituta”, ovvero gli enti sono con-istituiti tra due intelletti, non semplicemente posti, ma propriamente sin-tetizzati: l’intelletto divino crea le cose in quanto essenti, pone ognuna nel suo essere proprio e, in quanto onnisciente e onnipotente al tempo stesso, la mantiene e garantisce, conoscendole tutte in assoluta verità come propri artefatti; l’intelletto umano riceve dunque le cose come già dotate di un proprio essere e di una propria verità, che è misura della sua conoscenza, il cui compito è di accostarsi all’opera di Dio e riconoscerne la natura, ricostituirla nel proprio intelletto finito, per farne poi misura oggettiva della prassi. Costituite tra due intelletti, le cose si dicono dunque vere “secondo l’adeguazione a entrambi”, che è però ogni volta di natura diversa: pur rimanendo l’adaequatio il principio del vero, infatti, in Dio essa è attiva e creatrice, nell’uomo passiva e riconoscitrice. Rispetto a Dio la cosa è vera “nella misura in cui realizza ciò a cui è ordinata attraverso l’intelletto divino”, ossia nella misura in cui si mantiene nell’essenza che le è stata asse153
gnata46. Rispetto all’adaequatio all’intelletto umano, invece, “dicitur res vera in quantum est nata de se facere veram aestimationem”, ossia le è connaturato – è l’aristotelico pšfuke47 – poter essere stimata, giudicata, in verità. E in funzione di tale differenza nella modalità, infinita o finita, della adaequatio, si danno nella cosa due diverse rationes veritatis: “la prima ratio veritatis è inerente alla res prima della seconda, poiché il suo rapporto e comparazione all’intelletto divino è precedente rispetto al rapporto a quello umano”. La prima ratio veritatis, insomma, la verità dell’essere della cosa, è per l’uomo precedente alla sua conoscenza e inerente alla cosa stessa, tal che parrebbe che la verità sia più nelle cose che nell’intelletto. Ma essa inest rei solo perché proviene già dalla prima comparatio ad intellectum – quello divino e agente “quo est omnia facere” –, che dunque è propriamente la sua costituzione in quanto questa cosa. Di conseguenza, è evidente che il prius della verità, e quindi dell’essenza, rimane nell’intelletto: “Così, se anche l’intelletto umano non fosse, tuttavia le cose si direbbero vere in ordine all’intelletto divino; ma se per assurdo si eliminassero entrambi gli intelletti e restassero, come è impossibile, solo le cose, non rimarrebbe affatto alcuna ratio veritas”48. Senza la garanzia ultima della verità nella mente di Dio, insomma, le cose lasciate a se stesse non avrebbero alcuna verità, poiché, come già scriveva Anselmo, “la verità risiede nell’essen46 Qui Tommaso cita Avicenna: “veritas cuiusque rei est proprietas sui esse quod stabilitum est ei”. Una definizione estremamente densa, poiché contiene diversi termini cruciali – essere, proprietà, stabilità –, la cui connessione meriterebbe un’analisi specifica e fornirebbe diversi spunti interessanti (solo per esempio: il «proprio» si rivela qui esattamente come l’estraneo imposto, stabilito da Dio, posto stabilmente nella cosa). 47 Come è evidente dall’inciso che fa qui Tommaso, dicendo che per converso le cose false sono quelle che “sunt nata videri quae non sunt aut qualia non sunt” e rimandando a Met. V, 1024b21: “t¦ dû Ósa œsti mûn Ônta, pšfuke mšntoi fa…nesqai À m¾ oΣ ™stin À § m¾ œstin: [le cose false] sono quelle che sono sì enti, ma cui è connaturato apparire o non tali come sono o per ciò che non sono”. Un concetto dunque debole di “cosa falsa”: in quanto ens, infatti, essa è comunque sempre vera, se non altro per l’intelletto divino. 48 Ivi, p. 128 s.
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za di tutte le cose che esistono, in quanto sono ciò che sono nella somma verità”49, ossia appunto in Dio come “visio in actu”50. Ma è impossibile che le cose siano lasciate a se stesse, poiché senza verità non c’è essenza e senza essenza, per il logos, non ci sono neppure le cose. Se Dio non fosse, insomma, nulla sarebbe, come è evidente d’altro canto ricordando che il tutto è concepito qui come creatio ex nihilo. E in tal senso, allora, le cose “di-
49 Anselmo d’Aosta, La verità, in Opere filosofiche, a cura di S. Vanni-Rovighi, Laterza, Bari 1969, p. 169. Ma cfr. anche D. Scoto, Trattato sul Primo Principio, a cura di P. Porro, Bompiani, Milano 2008, pp. 166 s.: “Intellectus primi intelligit actu semper et necessario et distincte quodcumque intelligibile prius naturaliter quam illud sit in se”. 50 Tommaso, Sulla Verità, cit., p. 128. Dio garantisce l’essenza delle cose mantenendole costantemente nella sua visione e in tal modo garantisce la possibilità della scienza: “Nulla res est quam intellectus divinus non cognoscat actu et intellectus humanus in potentia”. Anche qui, insomma, questione ontologica ed epistemica sono connesse, sullo sfondo dell’ipoteca idealistica dell’ontologia antica. Poco più avanti, nel quarto articolo (ivi, pp. 136 ss.), Tommaso ribadisce che la verità si trova propriamente e primariamente nell’intelletto divino; propriamente, ma secondariamente nell’intelletto umano; impropriamente e secondariamente nelle cose vere. La verità dell’intelletto divino è dunque una sola, dalla quale ne derivano molte nell’intelletto umano come immagini e similitudini in uno specchio, mentre nelle cose sono tante quanto le entitates. Rispetto all’intelletto umano, però, la verità delle cose è in qualche modo accidentale, poiché se anche non esistesse quell’intelletto la loro essenza rimarrebbe tuttavia immutata (“res in sua essentia permaneret”: è ancora la bebaiÒthj tÁj oÙs…aj, che in Platone non dipendeva tuttavia da un Dio, ma coincideva con le idee). Ma la verità delle cose “in rapporto all’intelletto divino si accompagna ad esse inseparabilmente, poiché non possono sussistere se non per mezzo dell’intelletto divino che le produce nell’essere – eas in esse producentem”. La verità in Dio è loro inseparabilmente concomitante: non coincide sic et simpliciter con la loro essenza, ma è ad essa sempre connessa e aderente, poiché se venisse a mancare la loro verità nell’intelletto divino svanirebbe anche la loro essenza e sussistenza. Come si vede, anche qui permane il primato dell’essenza sull’esistenza e della verità sull’essere: la cosa esiste ed è in quanto tale un’essenza stabile per l’intelletto umano, solo nella misura in cui la sua essenza è conservata nella verità dell’intelletto divino, l’essere letteralmente proviene dalla verità, è un suo prodotto. “Omnia sunt vera una veritate, scilicet veritate intellectus divini”. Ancora più avanti, nell’articolo 9, si legge che la “comparatio rei ad intellectum divinum est ei essentialis” e nel senso più vasto possibile, poiché solo in quel rapporto, che è di assoluta dipendenza, la cosa è ed esiste (ivi, p. 170).
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mostrano” l’esistenza di Dio, come loro condizione ultima di possibilità51. È però evidente, che tale fondazione delle cose nella loro causa prima, che ne garantisce essere e conoscibilità, essenza e sostanza, è al tempo stesso la loro nullificazione essenziale, tant’è che lo stesso Tommaso non esita a concedere che “omnia Deo comparata nihil sunt: rispetto a Dio tutte le cose sono nulla”, ossia non hanno da sé alcuna consistenza ontologica, per quanto “simpliciter non nihil sunt”, nella misura in cui Dio le ha effettivamente create e le tiene nell’essere52. Il fondamento di ogni cosa e di ogni verità è dunque l’intelletto pratico di Dio, che mantiene vincolata la cosa alla sua essenza in quanto fattore universale, primo e assoluto. Ed è proprio perché messa in opera da Dio, che la cosa può avere una sua natura indipendente rispetto all’intelletto pratico umano, alla tecnica, e vincolante rispetto al suo intelletto speculativo, alla scienza. Sia sufficiente questo breve riferimento, per quanto molto incompleto, alla metafisica di Tommaso, per consentirci la formulazione di una conclusione, che è in realtà, come si diceva sin dall’inizio, solo una traccia e l’indice di un percorso che continua. Nelle sue varie forme, l’esigenza platonica di salvare i fenomeni comporta il radicamento della cosa nella sua essenza. In funzione di ciò, essa viene variamente disarticolata e riarticolata e il momento della riarticolazione dipende da un principio veramente essenziale esterno alla cosa e sempre più marcatamente produttivo. In tal modo la cosa è eteronomizzata e depotenziata, incapace di tenersi da sé, tant’è che, quando il principio della riarticolazione cade, si disarticola compiutamente. Finché è ancorata nell’essenza, finché ha nell’idea o in Dio il suo principio, la cosa rimane sottratta alla sua completa riduzione a œrgon, ma con la morte di Dio, il fenomeno salvato è consegnato compiutamente nelle mani della tecnica, qua est omnia facere...
51 Superfluo ricordare che Tommaso in effetti predilige le dimostrazioni a posteriori dell’esistenza di Dio, criticando la prova ontologica. 52 Tommaso, Sulla Verità, cit., p. 206.
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piani 1. Adriano Vinale, Pragmatismo americano. Razza e democrazia 2. Fernando Iannetti, Derive del desiderio e metamorfosi del soggetto. Per una nuova critica del politico
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L. Sterne, Un viaggio sentimentale F. W. J. Schelling, Dell’Io come principio della filosofia (2ª ed.) G. W. Leibniz, Confessio Philosophi e altri scritti (2ª ed.) F. Nietzsche, Sulla storia della tragedia greca (2ª ed.) J.-J. Rousseau, Emilio e Sofia o i solitari R. Descartes-H. Regius, Il carteggio. Le polemiche Cristina di Svezia, La vita scritta da lei stessa J. Bentham, Teoria delle finzioni AA. VV., Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano A. Pizzuto, Ultime e Penultime G. Lubrano, In tante trasparenze Jean Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana G. Simmel, Filosofia e sociologia dei sessi E. Lévinas, Dell'evasione E. Unger, Politica e metafisica G. Tarde, Credenza e desiderio
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Finito di stampare nel mese di novembre 2012 presso le Arti Grafiche Solimene – Casoria (NA)