La caccia magica [PDF]

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Zitiervorschau

PAUL

VALÉRY

La caccia magica

“… Ma la caccia dialettica è una caccia magica. Nella foresta incantata del Linguaggio i poeti vanno espressamente con lo scopo di perdersi, e inebriarsi di smarrimento… “Nelle pagine che in modi e tempi diversi Valéry trasse dall’ininterrotta meditazione dei suoi Cahiers è dato al lettore d’incontrare figure sorprendenti e capziose: divinità sopite o sibilline, mostri compositi quali sirene o centauri, antri e cacce magiche, — metafore nate dall’esperienza del maraviglioso poetico e dalla diffidenza per il preteso rigore del linguaggio estetico. Una sottile polemica antifilosofica presiede, infatti, alla scelta di queste formule eleganti ed apparentemente elusive, che traducono in teoria non solo l’esercizio del “fare poesia”, ma quello — ben più importante agli occhi di Valéry — del continuo “osservarsi in quel fare”: la Ragione diventa, così, una divinità “che crediamo vegli, ma che dorme piuttosto, in qualche grotta del nostro spirito”, la Dialettica è un cacciatore che incalza invano la sua preda “braccandola, spingendola fin nel boschetto delle Nozioni Pure”, mentre la critica letteraria si affanna con vacua pedanteria a “contare e misurare i passi della Dea”. Questo popolo di figure — tratto da un comune, o da un personale patrimonio poetico — interviene nelle pagine di Valéry con funzione sottilmente dissacrante: lo sfarzo variopinto di una metafora, il marmoreo nitore di una similitudine sono strumenti di una critica garbata ma corrosiva che mette in discussione quelle stesse tradizioni di pensiero e di linguaggio su cui si fonda la nostra cultura. dall’Introduzione di M.T. Giaveri.

In copertina: Antonio Canova. Danzatrici

Il fiore azzurro 2

PAUL ~

VALERY

La caccia magica A cura di Maria Teresa Giaveri

GUIDA EDITORI

Traduzione di M. T. Giaveri e dell'équipe Valéry dell'Università degli Studi di Milano

Copyright 1985 Guida editori Napoli Grafica di Sergio Prozzillo

Introduzione

Mais c'est une chasse magique que la chasse dialectique. Dans la foret enchantée du Langage, !es poètes vont tout exprès pour se perdre, et s'y enivrer d'égarement, cherchant !es carrefours de signification, !es échos imprévus, !es rencontres étranges (... ); - mais le veneur qui s'y excite à courre la «vérité», à suivre une vaie unique et continue, don t chaque élément soit le seui qu'il doive prendre pour ne perdre ni la piste, ni le gain du chemin parcouru, s'expose à ne capturer enfin que son ombre. Gigantesque, parfois; mais ombre tout de meme. (P. Valéry, Discours sur l'ésthétique)

Nella foresta incantata di queste pagine, che in modi e tempi diversi V aléry trasse dall'ininterrotta meditazione dei suoi Cahiers, è dato al lettore d'incontrare figure sorprendenti e capziose: divinità sopite o sibilline, mostri compositi quali sirene o centauri, antri e cacce magiche, - metafore nate dall'esperienza del maraviglioso poetico e dalla diffidenza per il preteso rigore del linguaggio estetico. Una sottile polemica antifilosofica presiede, infatti, alla scelta di queste formule eleganti ed apparentemente elusive, che traducono in teoria non solo l'esercizio del «fare poesia», ma quello - ben più importante agli occhi di Valéry - del 5

continuo «osservarsi in quel fare»: la Ragione diventa, così, una divinità «che crediamo vegli, ma che dorme piuttosto, in qualche grotta del nostro spirito», la Dialettica è un cacciatore che incalza invano la sua preda «braccandola, spingendola fin nel boschetto delle Nozioni Pure», mentre la critica letteraria si affanna con vacua pedanteria a «contare e misurare i passi della Dea». Questo popolo di figure - tratto da un comune, o da un personale patrimonio poetico - interviene nelle pagine di V aléry con funzione sottilmente dissacrante: lo sfarzo variopinto di una metafora, il marmoreo nitore di una similitudine sono strumenti di una critica garbata ma corrosiva che mette in discussione quelle stesse tradizioni di pensiero e di linguaggio su cui si fonda la nostra cultura. Allo stesso modo, nei Cahiers, viene minata punto a punto la storia della filosofia occidentale. Con analoghe metafore, per esempio, è evocato il «bellissimo balletto metafisica» inaugurato dai Presocratici: «Grifoni intellettuali, magnifiche chimere, o sistemi, filosofie ermafrodite, i cui frammenti fanno pensare a vestigia di tori alati, a teste di leone, metà fisici, metà poeti, mostri possenti e infantili, straordinarie congiunzioni di profondità e di assurdo (... ), - Talete, Anassimandro, Empedocle, Zenone!»1. Il linguaggio imaginifico di V aléry si modella su quello dei filosofi volta a volta ricordati, rivelandone lo splendore e l'imprecisione. «I filosofi sono golosi d'immagini: non vi è mestiere che ne richieda di più, anche se a volte le dissimulano sotto parole color di muraglia» 2 •

l Cahiers, 1910, IV, p. 450. L'edizione a cui si fa riferimento è quella curata da J. H ytier per la > (PAUL VALÉRY, Oeuvres, Voli. II, Paris, Gallimard 1957-60, qui abbreviata in OE I e II). L'edizione dei Cahiers valeriani a cui ci si riporta è quella in facsimile edita dal C.N.R.S.; quando la nota dei Cahiers è ripresa anche nell'antologia curata da J. Robinson per la «Bibliothèque de la Pléiade>> (PAUL VALÉRY, Cahiers, Voli. II, Paris, Gallimard 1973-74, qui abbreviata in C I e II) ne viene fatta menzione tra parentesi. Tutte le citazioni sono tradotte dal curatore del volume. 2 OE I, pp. 1394-1935.

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Ombre che si agitano sul fondo di caverne, fiumi sinistri che non si possono riattraversare, corridori che si passano una fiaccola o che si affannano invano dietro a una tartaruga, aquile e serpenti: da Platone a Nietzsche è uno scorrere di miniati exempla, di fabulae seducenti nate dal piacere della speculazione astratta congiunto a quello dell'affabulazione. Quel che si perde in esattezza, lo si guadagna in bellezza: posta sotto il segno del Gioco - ove cioè l'arbitrario si fa necessità - e del Sapere senza Potere - ove il mezzo si trasforma in fine - , la filosofia appare a Valéry «una delle belle arti». Ma se i filosofi sono artisti, e più specificamente poeti, affascinati da parole ambigue (Essere, mondo, spirito, materia ... ) davanti a cui vanamente si interrogano, sembra mancar loro quella familiarità con le trappole del linguaggio che accompagna invece il far poesia. «Per mestiere - nota lo scrittore nei Cahiers - sono obbligato a servirmi di un mucchio di parole vaghe e a far finta di speculare su di loro, loro tramite. Ma, in me, non valgono nulla. Io non penso veramente con queste parole da filosofi - che sono di solito espedienti del linguaggio comune a cui si dà una importanza specifica, e da cui si cerca di trarre lumi - supponendo loro un senso, considerandole come problemi secondo quest'ottica, mentre secondo un'altra le si utilizza come semplici mezzi. Così che cos'è il Tempo, la Bellezza ecc.? (... ) Non vi sono che problemi lessicologici, esterni - che si riferiscono ad altro rispetto alla mia esperienza - attuale - interna operante» 3 • È dunque una caccia magica quella con cui, secolo dopo secolo, la speculazione filosofica ha cercato di cogliere il suo oggetto sfuggente e palpitante, la «gioia senza nome» dell'esperienza artistica. Ma, vittima della fascinazione perversa del linguaggio (incarnato vuoi negli ori della lingua greca, vuoi nelle glorie del tedesco o nei giochi vivaci del francese), 3

Cahiers, 1934-1935, XVII, p. 732 (C l, pp. 680-681).

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ha finito con lo smarrire quell'esperienza precisa e vitale che l'aveva suscitata, per ricadere nel vizio originario di trattar l'ombra - la parola- come cosa salda: e quel piacere si è sconciato nei rigori di una precettistica, o dissolto nell'ennesima invenzione di una definizione. Così Platone, secondo un ironico appunto dei Cahiers, dopo aver goduto della bellezza e della danza, toccando corpi (almeno, speriamolo per lui! annota Valéry) e ammirando gesti sapientemente ritmati, «stanco, passava in cielo a porvi 'Verità', 'Modelli' assoluti»; sì che da quel mistero di un diletto indefinibile, tanto simile all'amore, da quella mistura di voluttà, di fecondità e di energia, in cui la contemplazione si fa azione, l'arbitrario necessità, la sensazione pensiero, non si ritrova che il disegno caparbio di un'astrazione, l'utopia di un'etichetta tesa a cogliere un'essenza: l'Idea del Bello 4 • È palese lo sconcerto che il pensiero valeriano poteva suscitare - ed ha di fatto suscitato - in chi proponeva una funzione magistrale della filosofia, e in particolar modo un suo ruolo di coscienza critica nei confronti dell'operare degli artisti (considerati ingenui creatori e teorizzatori velleitari): l'esempio più famoso, in area italiana, è stato offerto dalla polemica crociana che seppe trovare accenti d'anatema per colpire, in Valéry, tutta una tradizione di poiesi lucida e consapevole. Ma è palese altresì l'interesse che questo pensiero avrebbe suscitato in tempi più recenti, sollecitati dalla psicologia cognitiva, dalla linguistica, dalle teorie della ricezione: come il singolare tentativo di analisi dei processi mentali perseguito nei Cahiers, questa meditazione sulla creazione e fruizione artistica era destinata ~d apparire fra i testi più stimolanti e consonanti alla cultura contemporanea. Dai quaderni in cui hanno origine, i discorsi e le lezioni dedicate da V aléry all'estetica, alla poetica e all'« estesica » 4 La citazione esplicita (Cahiers, 1929, XIII, p. 477) è seguita da una implicita (OE l, p. 1300). La definizione dell'«oggetto d'arte>> quale è tratta invece dall'inedita Histoire brisée dedicata a Sauré le peintre (Paris, Bibliothèque Nationale, Fonds Valéry, II, f. 65).

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(cioè alla ricezione dell'opera d'arte) traggono alcuni caratteri comuni. L'abitudine all'auto-osservazione e all'analisi dei dati minimali dell'esperienza ne detta l'itinerario; un radicato scetticismo ne suggerisce gli strumenti linguistici, sempre artigianali, funzionali, provvisori. Come il tema centrale dei Cahiers, - la modellizzazione del mentale - è perseguito attraverso l'adozione di schemi e di linguaggi mutuati alle scienze «dure», e fissato da un nuovo tipo di scrittura documentaria, così il più specifico oggetto di questi saggi, il gioco interattivo che determina azioni e istituzioni artistiche, è analizzato a partire dalle esperienze personali e formalizzato secondo i modelli offerti dalle scienze biologiche, economiche o politiche. Anche il linguaggio è composito e sperimentale: il bagliore di un'immagine poetica, l'ironia di una citazione, la precisione di un lessico settoriale si compongono intimamente «come gli elementi chimici nei corpi viventi», come «sensazione, azione, sogno, istinto, riflessioni, ritmo o dismisura» si erano combinati per dare origine a quella «gioia senza nome» a cui introducono queste pagine. «Scrivo una 'Prefazione'. Una di più. E che non ho voglia di scrivere. Mestiere curioso, dover fare quel che non si ha voglia, tramite mezzi che si sono creati e perfezionati a partire dall'appassionato interesse portato alle cose della mente. (... ) Ma, al momento di finirla con questo compito, esso riesce ad eccitarmi, ed ora vedo che cosa potrei fare a partire da questo stadio, se lo prendessi come punto di partenza di un nuovo lavoro. (... ) Ne trarrei qualcosa che sarebbe mio, mentre questi fogli sono prodotti di circostanze, d'altri, d'automatismi personali e di condizioni eteroclite diverse» 5 • La maggior parte degli scritti di V aléry - tutti i testi che

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Cahiers, 1942, XXVI, p. 527 (C l, pp. 306-307).

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compongono questo volume, per esempio - sono nati in tal modo. Da un lato vi è una scrittura segreta, inclassificabile, che per cinquant'anni riempie di note, aforismi, microracconti, formule e schemi quasi trecento quaderni - attività fondamentale, strumento di ricerca per la vita stessa; dall'altro vi è un'opera poetica, germinata fra lunghe fasi di silenzio, pubblica ma dichiaratamente accessoria, pura «ginnastica verbale e mentale»; infine, splendido parassita di entrambe, questa écriture sur commande - prefazioni, conferenze, lezioni al Collège de France - ogni volta affrontata come tedioso compito e ogni volta risolta in sfida stimolante. Benché nata tardi, dopo il successo della ]eune Parque e di Charmes, frutto di un ruolo pubblico a cui Valéry si era piegato con sottili riserve, questa scrittura critica ha dunque le sue radici in una più antica abitudine all'analisi. Non è semplice corollario o manifesto all'opera poetica - quale appare spesso la critica d'autore e quale è stata giudicata prima della pubblicazione dei Cahiers; è la traduzione, lo sviluppo occasionai e di un'attività di riflessione, di trasformazione e di autoedificazione di cui tutta l'opera valeriana è la traccia scritta - traccia viva e immediata nei quaderni, astratto esercizio combinatorio nei poemi. In questa nuova ottica è manifesto quanto sia particolare, in V aléry, il rapporto fra teoria e pratica di scrittura: nata nei Cahiers, sviluppata in discorsi d'occasione, trasformata in scritti d'occasione, la teoria segue e accompagna le sfide formali proposte a se stesso dal poeta; ma queste sfide si fanno stimolo a processi operativi, occasione preziosa di osservazione dell'attività mentale, determinando a loro volta insperati itinerari d'analisi. Un gioco di feed-back si istaura dunque non solo fra i diversi tipi di scrittura - per esempio fra la pagina ove un ritmo si fa parola e quella ove lo si indaga quale elemento genetico - , ma fra le stesse fasi convenzionalmente definite «di scrittura» e «di silenzio» della biografia valeriana. Alle partizioni ventennali care alla tradizione critica si sostituisce 10

l'immagine di una ricerca lineare e rigorosa, perseguita attivamente attraverso mutamenti biografici subiti con passiva noncuranza. Il disegno della vita e dell'opera di Valéry ritrova la compattezza di un progetto unitario: una quete inflessibile il cui Graal è la conoscenza - cioè la costruzione - di se stessi. Questo itinerario comincia - se si vuole fissare un inizio esterno - proprio con un fascio di poesie, un giudizio critico, un progetto lirico. Sono testi giovanili in cui la lezione simbolista è messa a frutto con progressiva maestria, e il cui coronamento dovrebbe essere un Carme di mistico estetismo, più volte annunciato e mai intrapreso. Con la lucida intransigenza dei vent'anni, nel 1892 V aléry abbandona il suo sogno d'arte, piegando a un più urgente fine l'acquisita familiarità con la pagina: «Scrivere - per conoscere se stessi - ecco tutto». Cominciano gli anni che la tradizione ha battezzato «di silenzio»; anni progressivamente deserti di poesia ma scanditi dai Cahiers, di cui proprio un taccuino del 1892 annuncia il prossimo accumularsi; anni abitati dai geni tutelari di un Sapere che si fa Potere: Napoleone, artista della morte, Leonardo, stratega creatore. Nella vita quotidiana - grigia, incerta di futuri accettabili - , nella scrittura- cauta, minimale, calibrata - domina il motto leonardesco che V aléry ha fatto proprio, «Hostinato rigore», e l'orgogliosa solitudine che darà vita al solitario Monsieur Teste: «L'imbecillità non è il mio forte ... ». È un cammino d'astrazione che procede attraverso radicali spoliazioni. Non solo nasce come reazione di difesa (a una contingente sofferenza amorosa, a una vaga angoscia funebre, a una precisa insoddisfazione di fronte a «paragoni che mi distruggevano ... Mallarmé ... Rimbaud»), ma, da formula specifica di esorcizzazione intellettuale, si fa strumento abituale del pensare e del sentire. Quel «negativismo» che, secondo i Cahiers, aveva condotto Valéry a rifiutare il mondo esterno per privilegiare, nell'infanzia, il gioco dell'immaginario e, nell'adolescenza, la sua traduzione letteraria, lo porta 11

ora ad azzerare lo stesso mondo dell'immaginario, per non salvarne che una pulsione: quella cognitiva. Di questa crisi di desimbolizzazione, di questa ipotesi di riconoscimento e di ricostruzione a partire da un elemento minimale - una funzione mentale - la scrittura è traccia e strumento. Come annuncia una lettera del 1893 a Ci de: «La mia scrittura mi rivela il cambiamento volontario che si è fatto in me»; come conferma una pagina autobiografica di molti anni dopo: «Ho voluto scrivere per me, e in me, per servirmi di questa conoscenza ... ». Nei testi prodotti in quegli anni- vari per soggetti trattati ma accomunati dalla divisa «écriture-connaissance» - si può seguire il sorgere e l'abbandono di un'utopia gnoseologica suggerita dai fasti e dalla fascinazione del modello matematico. Valéry parla di «matematica delle parole» e studia la possibilità di trasformazione del linguaggio in uno strumento preciso e depurato, secondo gli esempi proposti da alcune scienze. I Cahiers (che cominciano nel1894) ne sono il campo privilegiato di sperimentazione, l'incompiuta Agathe il più ambizioso tentativo; ma ne restano tracce anche negli scritti pubblicati, quelli che rivelano il nuovo Valéry: Teste, Léonard de Vinci. Sfaldatosi il sogno di una scrittura modellata sulla Mathematica universalis, la critica del linguaggio lascia il posto a soluzioni più contingenti e pragmatiche. Imprecisa, ambigua, magica di trappole e di incantesimi, la parola appare ormai la semplice «passerella» che il pensiero deve attraversare il più rapidamente possibile; menzognero strumento logico, è però adatta alle illusionistiche epifanie letterarie, si che la poesia può a buon diritto proporle la sfida delle sue convenzioni sapienti, il riscatto delle sue architetture perfette. Il cosiddetto «ritorno alla creazione poetica», nel 1912, avviene così, con perfetta coerenza, secondo quel disegno a spirale che contraddistingue anche formalmente il pensiero di Valéry. Un'esperienza letteraria giovanile, superata da anni, viene ripresa, rimeditata da un «Io» che se ne era allontanato per percorrere ben altri spazi; essa si fa stimolo a un'attività 12

nuova, memore delle antiche tecniche e agile di mutate abitudini mentali. Nei Vers anciens che il caso e la garbata insistenza degli amici gli hanno fatto ritrovare, Valéry vede problemi non risolti, e pretesto di nuovi, più complessi problemi formali: «mi accuso, mi accuso - scriverà poid'aver considerato la letteratura come mezzo, non come illusoria fine; (... ) vi ho visto uno strumento di scoperte - come un'algebra che ora scopre le sue proprie proprietà e possibilità; ora le relazioni delle cose a cui si rapportano per definizioni e convenzioni o altro le sue lettere» 6 • Il lavoro di jabrication testuale non è dunque che un aspetto specifico di quel lavoro di jabrication di sé pazientemente perseguito in un quotidiano sforzo di lucidità analitica; ne è uno specchio, un campo d'azione, uno stimolo: «Colui che lavora si dice: Voglio essere più potente, più intelligente, più felice -·di- Me» 7 • La tentazione di una dicotomia pensiero/ scrittura poetica, quale poteva essere presente negli anni immediatamente successivi al '92, è superata dall'acquisizione di più autonomi strumenti metodologfci. Se il raffinato esercizio combinatorio sollecitato dalla poesia si propone come occasione di analisi a un tempo linguistica, psicologica o, in 'Certa misura, fisiologica, questo stesso gusto dell'analisi e della scomposizione logica aiuta la traduzione del pensiero in figure. Campo di sperimentazione di questa nuova fiducia sarà la sfida singolare della ]eune Parque. Composto come un esercizio di puro virtuosismo intorno a un nucleo tematico di cui sembra non esistere un possibile lessico poetico, medico, psicologico o fisiologico (le leggi di trasformazione della sensazione nel pensiero), costretto entro schemi di versificazione puntigliosamente esasperati in un'epoca di propugnata libertà formale, frutto estremo di una tradizione culturale che sta scomparendo nella voragine della grande guerra, il poema «impossibile» si forma e si dilata in cinquecento versi rifiniti e e Cahiers, 1937, XX, p. 630 (C, I, p. 290). 7

OE II, p. 486.

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perfetti. Nel 1917 l'« esercizio» ha creato il poeta; mentre intorno al testo oscuro e lucidissimo risuona una fama inattesa, in Valéry ride quel «virtuosismo acuto» che darà vita, in pochi anni, a magie verbali di odi e di sonetti: Charmes, incantesimi di sensualità e d'intelligenza. Al fiorire della grande stagione valeriana - fra le due guerre - sono stati dedicati molti saggi. Più stimolante appare oggi sottolineare certi aspetti del suo pensiero che solo un recente sviluppo di alcuni itinerari critici ha portato a riconoscere e ad apprezzare. Fra gli scandali suscitati dalla meditazione teorica di Valéry, per esempio, non vi è stato solo il fatto di aver considerato «lavoro di calcolo e congegno quella che è espressione poetica» 8 , o di aver sottilmente sferzato i vagheggiamenti metafisici dell'estetica, l'incompetenza della critica, la repulsiva trasformazione in esercizio scolastico di testi nati per puro e raffinato godimento; la definizione dell'oggetto d'arte come un «escremento prezioso», morto residuato di un'attività complessa e paziente, non poteva certo apparire consonante con la funzione di poeta ufficiale accettata (o subita) dal suo autore. Portando alle estreme conseguenze la strategia di potere che formava la lezione di Poe, Valéry teorizza infatti come opera d'arte il fare, non il manufatto; considera 'arte' la costruzione stessa dell'opera - come un gioco di scherma, una partita di scacchi, una campagna napoleonica. Al limite, il vero prodotto non sarà la morta traccia della scrittura, ma lo scrittore stesso, quale l'avrà trasformato il lavoro mentale di cui l'opera è semplice applicazione. «A forza di costruire - afferma Eupalinos, l'architetto credo proprio di aver costruito me stesso»? 9 • Come Robinson Crusoe è l'immagine dell'attività paziente 8 B. CROCE, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, II ediz., Bari 1937, p. 332. 9 OE II, p. 92.

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e composita dei Cahiers, il musico e l'architetto appaiono, nell'opera valeriana, simboli dell'arte in assoluto e della poesia in particolare. Per tutti, l'« opera non esiste che in atto»; per tutti l'azione è sottile analisi di forze e di strumenti; per tutti la costruzione è autocostruzione (Robinson finisce addirittura con «l'aver costruito la sua isola»). Ma mentre il gioco musicale, letterario o decorativo permettono i calcoli sicuri ed essenziali, le combinatorie sottili, le studiate illusioni, il « Robinson intellettuale» deve costruire strumenti provvisori con eterogenei elementi - un po' di linguaggi naturali, qualche prestito matematico, rari neologismi attento a non cader vittima del fascino variopinto di « parole-pappagallo»: Universo, Essere, Bellezza ... Nella sua dichiarata menzogna, il mondo dell'arte, proprio perché si vuole fabbricazione coerente, lucida, consapevole di convenzioni liberamente accettate come vincolanti, può invece offrire una «festa dell'intelletto» ignota al puro esercizio del pensiero speculativo. Nella chiusa di Eupalinos, Socrate, dopo aver cercato per tutta una vita di scoprire Dio «attraverso i soli pensieri», non trovando che parole, nate da parole e che a parole ritornano, proclama: « ... è negli atti, e nella combinazione degli atti, che dobbiamo trovare il sentimento immediato della presenza del divino( ... ). Ora, di tutti gli atti, il più completo è quello di costruire. Un'opera richiede l'amore, la meditazione, l'obbedienza al tuo pensiero più bello, l'invenzione di leggi a mezzo del tuo spirito, e mille altre cose che meravigliosamente trae da te, mentre neppure sospettavi di posseder!e» 10 • Il passo socratico del Demiurgo che crea, dal caos informe, l'ordine del mondo, la celebre pagina dell'uomo primitivo che, carezzando distrattamente un vaso grossolano, sente nascere in sé il desiderio di modellarne un altro «per poterio carezzare)), sottolineano il ruolo determinante che ha il piacere nell'estetica valeriana. IO

OE II, pp. 142-143.

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Al piacere del fruitore - quel «Mostro della Favola Intellettuale» di cui già si è parlato, «sfinge o grifone, sirena o centauro» irriducibile alla caccia dialettica - risponde quello del creatore, accompagnato, a un livello più alto, dal processo intellettuale che Valéry definisce, poescamente, selfconsciousness. Non è un caso che la metafora erotica sia delegata ad esprimerli entrambi, e ~iventi addirittura tema centrale di poesia: Charmes può a giusto titolo sottolineare, nella voluta ambiguità dei suoi versi, il duplice e unitario diletto del sentire e del capire. «I due terribili angeli del 1892, Nouç e "Epwt;» messaggeri di distruzione e di creazione nella indimenticata crisi dei vent'anni, diventano così, convertiginoso gioco di specchi, i protagonisti di una scrittura poetica da loro interrotta e ricreata. È singolare il contrasto fra questa estetica del piacere, questo sprezzo della «macchina (... ) testuale» non appena esaurita la sua funzione di stimolo, e la marmorea immagine del Valéry poeta e maitre à penser consegnataci dalla fama degli anni '30-40. Se quella parte del suo pensiero che più nettamente rinviava al magistero baudelairiano - il rifiuto di ispirazione intuizione sentimento messaggio, per riprendere il lessico di una famosa polemica - ha trovato precisa consonanza nella critica formalistica che, da paesi diversi, veniva proposta negli anni fra le due guerre, se la proclamazione dell' autoreferenza della parola poetica ha generato le oziose polemiche intorno all'etichetta di poésie pure, appaiono affatto ignorati, invece, i privilegi del «testo in atto» sul testo scritto, la demitizzazione del libro, dei suoi templi e sacerdoti di fronte ai giochi vivi della phoné. Dei due corpi che costituiscono l'estetica valeriana, la Poetica e l'Estesica, la prima avrebbe visto solo con lo Strutturalismo e, più tardi, con gli studiosi di genetica testuale, proporsi alfine l'« atto di scrittura» come oggetto di analisi specifica; la seconda avrebbe atteso i primi saggi di Jauss per rinascere col nuovo nome di «teoria della ricezione». 16

Ancora più recenti le coincidenze fra gli esperimenti dell'ouLIPO e le speculazioni sulla letteratura potenziale. , della quarta. Secondo il sistema francese, Valéry appare iscritto per la 11 • e 10" classe (una sorta d'asilo) presso i Domenicani di Sète; nell878, a sette anni, comincia a frequentare il sopramenzionato «collège>>, in cui resta fino all884 (dalla g• alla 4"). Nell'ottobre di quell'anno deve !asciarlo per passare in 3• nel meno piacevole «lycée>> di Montpellier. 2 Fra cui, appunto, Valéry. 3 Questa descrizione, in toni ancor più «fin de siècle>>, chiusa non dal richiamo a Hokusai, ma a un > della prosa. Ho detto che il Cimetière marin si era dapprima proposto alla mia mente sotto la forma di una composizione di strofe di 83

sei versi decasillabici. Questa decisione strutturale mi ha permesso di distribuire abbastanza facilmente nella mia opera quanto essa doveva contenere di sensibile, d'affettivo e d'astratto per suggerire, trasposta nell'universo poetico, la meditazione di un certo io. L'esigenza dei contrasti da produrre e di una sorta d'equilibrio da osservare tra i momenti di questo io m'ha condotto (per esempio) a introdurre in un punto un qualche richiamo di filosofia. I versi in cui appaiono le famose argomentazioni di Zenone d'Elea, - (ma animate, rimescolate, trascinate nell'impeto della dialettica, come da un improvviso colpo di burrasca che spazza il ponte), - hanno la funzione di compensare, con una tonalità metafisica, il sensuale e il «troppo umano» delle strofe precedenti; essi determinano inoltre con maggior precisione la persona che parla, - un amante di astrazioni -; oppongono, infine, a ciò che vi fu in lui di speculativo e di troppo intento, l'attuale potenza riflessa, il cui sussulto infrange e dissipa uno stato di cupa fissità, quasi complementare dello splendore regnante; - sconvolgendo al tempo stesso un insieme di giudizi su tutte le cose umane, inumane e sovrumane. Ho alterato un po' le immagini di Zenone per far loro esprimere la ribellione contro la durata e l'acutezza di una meditazione che fa troppo crudelmente sentire lo scarto fra l'essere e il conoscere, sviluppato dalla coscienza della coscienza. L'anima ingenuamente vuole esaurire l'infinito dell'Eleata. - Ma non ho voluto prendere alla filosofia che un po' del suo colore. Le diverse osservazioni che precedono possono dare un'idea delle riflessioni di un autore davanti a un commento della sua opera. Piu che quello che essa è, egli vi vede quello che avrebbe dovuto e potuto essere. Che di più interessante per lui, dunque, del risultato di uno scrupoloso esame e delle impressioni di uno sguardo estraneo? Non è in me che si compone la vera unità della mia opera. Ho scritto una «partitura», - ma non posso sentirla che eseguita dall'anima e dallo spirito altrui. 84

Per questo il lavoro di Gustave Cohen, (astrazione fatta per le cose troppo gentili al mio riguardo in esso contenute) è per me straordinariamente prezioso. Egli ha ricercato le mie intenzioni con una cura e un metodo notevoli, ha applicato a un testo contemporaneo la stessa scienza e la stessa precisione che è solito mostrare nei suoi dotti studi di storia letteraria. Egli ha saputo a un tempo ridisegnare l'architettura di questo poema e osservare i particolari, - segnalando, per esempio, quei ritorni di termini che rivelano le tendenze, le frequenze caratteristiche di uno spirito. (Certe parole fra tutte risuonano in noi, come armoniche della nostra più profonda natura ... ). Infine, gli sono molto riconoscente di avermi così lucidamente spiegato ai giovani suoi allievi. Quanto all'interpretazione della lettera, mi sono già spiegato altrove su questo punto; ma non si insisterà mai abbastanza: non esiste il vero senso di un testo. Nessuna autorità dell'autore. Qualunque cosa abbia voluto dire, ha scritto quel che ha scritto. Una volta pubblicato, un testo è come uno strumento di cui ognuno si può servire a suo modo e secondo i suoi mezzi: non è sicuro che il costruttore se ne serva meglio di un altro. Del resto, se egli sa bene quel che ha voluto fare, questa conoscenza offusca sempre in lui la percezione di quel che ha fatto. (1933)

Note I Alcune osservazioni di Valéry sono pienamente apprezzabili solo oggi, dopo la pubblicazione dei Cahiers. In questo paragrafo la parola «transformation>> rinvia al tema centrale dei Cahiers, - l'analisi del mentale in termini di trasformazione fra sensazione e pensiero, - e il termine matematico-chimico «reduction>> alla metaforizzazione scientifica che ne forma il lessico.

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Riflessioni sull'arte

Signore e Signori, obbedisco al desiderio di Xavier Léon venendo qui oggi a parlare e ad esporre presso la Société de Philosophie, uditorio che per sua natura mi intimorisce, qualche idea sull'arte. È questo un campo immenso, che non pretendo di percorrere per intero con voi oggi, uno di quelli la cui estensione dipende solo dalle riflessioni che se ne fanno. In questa materia infinita, la grande difficoltà è limitarsi. Come dicevo a Brunschvieg e Lalande, soltanto poco fa (prima di entrare qui) ho pensato a quale sarebbe stato il mio vero argomento. Circostanze esterne mi hanno impedito di svolgere una preparazione molto seria della questione. Comunque sia, procederò seguendo la breve traccia che ho potuto fare. Vi sono naturalmente - e quasi per definizione - mille e un modo di pensare all'arte e di parlarne. È questa la maggiore difficoltà della materia ... Vi è tutto un insieme di discipline che si occupano dell'arte in modo sistematico; Estetica è il termine generico che designa queste ricerche dagli oggetti assai diversi e dai metodi più differenti ancora. Esiste, per esempio, un'estetica classica, che ha la caratteristica peculiare di essere stata, non tanto 87

dedotta dall'osservazione dei fenomeni artistici, quanto piuttosto ottenuta attraverso un procedimento dialettico. È stata un'analisi delle concezioni della mente che ha indotto a costituire questo corpo di idee e questa varietà di tesi. Un fatto piuttosto notevole, è che questa estetica classica potrebbe esistere anche se non esistesse nessuna opera d'arte: in un certo senso, essa è del tutto indipendente dall'esistenza dell'arte. Di origine dialettica, essa specula quindi sul linguaggio, e se parla dei fatti artistici osservabili e delle opere, li considera come esempi di applicazione o di infrazione, ma non come punto di partenza. Esiste poi anche quella che si potrebbe chiamare l'estetica storica, che si occupa di ricercare nell'ambito delle arti tutto ciò che viene designato sotto il termine di influenze, e che si pone il problema delle origini stesse dell'arte. Vi è un'estetica scientifica, e persino più di un'estetica scientifica: cioè uno studio che procede attraverso l'analisi stessa delle opere (alle quali si applicano per esempio procedimenti di misurazione), oppure che considera colui che subisce l'opera e ne registra le reazioni. Lo studio delle sensazioni fa parte di questo ramo. Altre ricerche sono rivolte in modo particolare al produttore e pretendono di fornirgli indicazioni pratiche, mezzi per venire a capo della sua opera: ad esempio, tutte quelle formule di proporzione che sono state calcolate (sezione aurea, ecc.), un tempo in vigore presso gli antichi o durante il Rinascimento, e che oggi si cerca di ricostruire e di utilizzare nuovamente, appartengono ad una sorta di scienza dell'arte. Tutte queste estetiche sono perfettamente legittime, dal momento che esistono! Ma, quanto a me, considererò l'argomento a modo mio, vale a dire nella maniera più semplice e più concreta possibile. Se leggo un'opera qualunque relativa alle arti, o se ascolto una qualsiasi conferenza che abbia lo stesso tema, potrò aspettarmi di riceverne solo uno di questi due vantaggi: ciò che ascolto mi insegnerà forse qualcosa che potrà sviluppare il mio eventuale godimento delle opere d'arte; sarò più in grado di gioirne, comprenderò meglio il 88

modo in cui conviene adeguarsi a quell'opera; e di conse~ guenza, avrò aumentato, grazie alla conoscenza trasmessami, la mia capacità di godimento. Notate bene che, dicendo che una conferenza o una lettura sono tali da aumentare la mia capacità di godere dell'opera d'arte, resta beninteso che non si tratta di un piacere laterale che io potrei provare in assenza di quest'opera: se per esempio, a proposito di pittura, mi si parla della storia della pittura, delle influenze subite dal pittore, delle scuole, ecc., questo argomento storico può essere interes~ santissimo in sé ma non aumenterà affatto il mio piacere vero e proprio, che deve risultare unicamente dalla considerazione dell'opera di per sé stessa, indipendentemente da ogni consi~ derazione fatta su di essa. Mi spingo così lontano in questa mia opinione che non ho avuto alcun timore di dire, al Conseil cles Musées Nationaux, che se avessi la responsabilità di conservatore dei musei, farei cancellare tutti i nomi dei pittori... Che l'occhio riconosca i suoi! O forse, e in secondo luogo, questa trasmissione di cono~ scenze può avere un'importanza del tutto diversa. Mi si può insegnare non più a godere dell'opera d'arte, ma ad eseguirla; si aumenteranno le mie capacità di esecuzione per quanto riguarda l'opera. Osserviamo a questo proposito che insegna~ menti del genere sono estremamente rari, e se, forse, vi sono ancora scuole d'arte in cui si possono imparare aspetti tecnici, non vi è dubbio che l'insegnamento dell'arte in quanto combinazione di operazioni è, oggi, per varie ragioni, molto meno preciso di un tempo. Vi sono persino dei rami dell'arte in cui la tecnica non esiste più, o quasi. Personalmente, ricordo che nel campo della poesia gli ultimi consigli di tipo tradizionale che ho sentito erano trasmessi da Heredia, che li aveva ricevuti a sua volta da Leconte de Lisle e questi da qualche altro poeta. Venivano indicati ai giovani (in modo del tutto familiare, d'altronde) alcuni preziosi procedimenti da applicare nella composizione dei versi. Credo che questo genere di insegnamento non esista più, ma è esistito per lunghi secoli fino a quando non sono intervenuti, nella nostra epoca, l'esaltazione dell'originalità

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ed il disprezzo verso ciò che si apprende. L'ossessione della genialità ha voluto che ciascuno si imponesse di inventare la propria tecnica. In definitiva, l'opera d'arte è un oggetto, una costruzione umana, realizzata in vista di una certa azione su certe persone. Le opere possono essere o degli oggetti nel senso proprio del termine, o delle combinazioni di atti come la danza o la commedia, o ancora delle somme di impressioni successive prodotte anch'esse da delle azioni: come la musica. Possiamo tentare di precisare la nostra nozione d'arte con un'analisi che parta da questi oggetti che possono essere ritenuti i soli elementi positivi delle nostre ricerche: considerando questi oggetti, e risalendo da un lato al loro autore, dall'altro a colui che li subisce, scopriamo che il fenomeno Arte può essere rappresentato da due trasformazioni perfettamente distinte. (È la stessa relazione che esiste in economia fra la produzione e il consumo). Quel che è molto importante, è che queste due trasformazioni - quella che procede dall'autore al prodotto materiale, e quella che esprime che l'oggetto o l'opera modificano il consumatore - sono del tutto indipendenti. Ne risulta che esse devono essere pensate solo separatamente. Qualunque proposizione in cui facciate figurare questi tre termini: un autore, un'opera, uno spettatore o ascoltatore, è una proposizione priva di significato - nel senso che non troverete mai l'occasione di un'osservazione che riunisca questi tre termini. Certo, potete formulare giudizi (e ne esistono molti) in cui figurino tutti e tre, ma nell'osservazione non troverete mai altro che l'autore e la sua opera, da un lato; l'opera e l'osservatore, dall'altro. Vi è sì nell'autore una certa presenza di uno spettatore o di un ascoltatore, ma si tratta di un personaggio ideale: l'autore si forgia - più o meno consciamente - un ascoltatore, un lettore ideale. Capita anche, d'altra parte, che il paziente si forgi un autore ideale. È questa una specie di prova della mia asserzione. Dirò di più - e arrivo a un punto che troverete probabilmente strano e paradossale, se non lo avete già fatto per quanto ho appena detto: il valore arte (poiché, in fondo, 90

stiamo studiando un problema di valore) dipende essenzialmente da questa non-identificazione, da questa necessità di un intermediario fra il produttore e il consumatore. È importante che vi sia fra di essi qualcosa di irriducibile all'intelligenza, che non esista una comunicazione immediata, e che l'opera, questo medium, non possa fornire a chi la subisce elementi che possano ridurla ad un'idea della persona e del pensiero dell'autore. Capire questo punto è fondamentale nelle arti. E ogni volta che sentirete un artista dire, disperato, che non si è potuto esprimere come avrebbe voluto, egli commette un errore di espressione. È in fondo un'assurdità: non dico che questa assurdità non lo costringa a compiere degli sforzi per rendere, come egli afferma, il suo pensiero nella sua opera, ma non vi riuscirà mai. Tutto ciò che l'artista può fare, è elaborare qualcosa che produrrà su una mente estranea un certo effetto. Non vi sarà mai modo di confrontare esattamente ciò che è successo nell'uno e nell'altro; e ancora: se ciò che è successo nell'uno si comunicasse direttamente all'altro, tutta l'arte crollerebbe, ne scomparirebbero tutti gli effetti? È necessaria l'interposizione di un elemento impenetrabile e nuovo che agisca sull'altro perché possa prodursi tutto l'effetto dell'arte, tutto il lavoro richiesto al paziente dal lavoro dell'autore. Creatore è colui che fa creare. Vediamo fino a che punto (in certi casi) sia possibile evidenziare ciò che chiamerò, forse un po' scherzosamente, il malinteso creatore. L'artista, in genere, maneggia la sua materia servendosi di una serie di convenzioni: la convenzione interviene nel suo lavoro. Egli suscita (o per lo meno ha intenzione di suscitare) nel suo paziente un gran numero di effetti, e non ha bisogno, in virtù della natura stessa dell'uomo, di impiegarvi tanta energia quanta ne può scatenare. Qui tutto si svolge come nell'atto riflesso della fisiologia; spesso è sufficiente pungere un animale in un certo punto per produrre effetti infinitamente più energici dell'azione che si è compiuta. Allo stesso modo, se si preme un pulsante che comanda una trasforma91

zione di energia, l'energia così sviluppata non ha alcun rapporto né qualitativo, né quantitativo con quella che può richiedere una pressione sul pulsante. Ad un musicista costa ben poco scrivere sul pentagramma «fortissimo» o «furioso» per scatenare, nella sala da concerto, una tempesta di cento strumenti. Gli basta scrivere una parola; e, ragionando ingenuamente, non bisognerebbe supporre che tutta l'energia che ci sembra prodotta da questo formidabile scatenarsi d'orchestra, l'autore sia stato obbligato a trarla da se stesso, e persino ad immaginarsela precisamente. Vi è dunque un dispositivo intermedio, che permette all'autore di scatenare effetti considerevoli. Allo stesso modo, nelle arti del linguaggio, si possono scrivere facilmente parole potenti senza faticare di più che per scrivere parole molto semplici e dal significato più limitato. Per puro svago. mi sono divertito a prendere un verso di La Fontaine, verso peraltro delizioso, e degno di nota per altri aspetti, verso di un'armonia quasi imitativa, estremamente ben riuscito, fatto di monosillabi: « Prends

ce pie et me romps ce caillou qui me nuit »

e a sostituire due parole in questo verso. Sotto questa nuova forma, potrebbe figurare in un poema cosmogonico:

«Prends tajoudre et me romps l'univers qui me nuit» Avete cambiato totalmente l'andamento. È bastata una modifica semplicissima per passare da un verso all'altro. Vedete quindi quanto poco gli effetti prodotti sul paziente dell'opera d'arte dipendano dall'energia spesa da colui che la produce. Ho detto che se vi fosse comunicazione diretta da colui che fa l'espressione a colui che riceve l'impressione, scomparirebbero gran parte degli effetti. Ecco perché, in tutte le arti, vi sono dei mezzi per moltiplicare le impressioni prodotte grazie a procedimenti più o meno semplici. Ma cos'è un'opera d'arte? 92

Ci si può chiedere da cosa si riconosca un'opera o un 0 ggetto d'arte. Notate che li si può riconoscere in certi oggetti fra i più brutti; si dirà «È un orrore, ma è un oggetto d'arte». _ Se ne vedono molti di questo genere. Come li distinguiamo dunque, per assegnare loro questa qualifica? Ma qui si pone una domanda preliminare. Oggetto d'arte, opera d'arte, sono cose fatte dall'uomo. Da cosa riconosciamo, esaminando un oggetto, che questo oggetto è stato fatto dall'uomo? Ci si può porre (come ho fatto molto tempo fa) questa domanda che sembra a prima vista molto ingenua: cosa mi prova che un certo oggetto sia opera della mano dell'uomo? Che questo calamaio, per esempio, non sia un prodotto naturale? Mi ero creato una teoria (naturalmente) che mi spiegava un poco, o almeno mi rappresentava abbastanza le difficoltà, e mi offriva una sorta di rozza soluzione del problema, pensando che nell'opera che non è frutto del lavoro umano si devono riscontrare certi tratti che sono contraddetti nelle caratteristiche dell'opera umana. In genere, se si esamina un oggetto fatto dall'uomo, se ne si considera la forma, la struttura esterna e la si confronta con la struttura interna, si deve trovare fra queste strutture una relazione che è diversa da quella che si trova esaminando un oggetto cosiddetto naturale, sia esso prodotto organico della vita o minerale. Non dico che il problema possa sempre essere risolto; vi sono casi di ambiguità, ma molto spesso si scopre che la struttura delle componenti intime dell'opera - ad un esame superficiale, e non al microscopio - sembra svolgere, nell'opera dell'uomo, soltanto un ruolo secondario quanto alla forma della composizione. Ne risulterebbe, di conseguenza, che l'opera umana fatta di materiali qualsiasi è una composizione il cui agente tiene in ben poco conto la struttura intima della cosa che sta modellando. Potete fare oggetti simili con i materiali più svariati; che un vaso sia di vetro, di metallo o di porcellana, potrà ricevere più o meno la stessa forma, ma avrete quindi trascurato (tranne che durante la fabbricazione) la materia con la quale avete fatto quel vaso. Inoltre, se si esamina ancora questo oggetto fatto dalla mano dell'uomo, si

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scopre che la forma dell'insieme è meno complessa della struttura intima delle parti, cosa che suggerisce l'idea di uno sconvolgimento. In questo senso, l'ordine impone un disordine. Ricordo di aver fatto questo esempio: se schierate un reggimento, ottenete una figura geometrica composta di elementi ognuno dei quali è molto più complesso dell'insieme, essendo ciascuno di essi un uomo. Allo stesso modo, se costruite un mobile, operate uno sconvolgimento della struttura dell'albero, del quale avete tagliato e riunito i pezzi senza preoccuparvi della sua struttura interna. Il legno vi offre elementi di una certa consistenza che potete considerare come invariabili rispetto alle forme che date alla costruzione ed alle sagome. Ma ciò non basta a definire l'opera d'arte. È una caratteristica molto generale, che può essere applicata a un'infinità di cose. È necessario spingere oltre l'analisi dell'oggetto. Il semplice buon senso ci dice: l'oggetto d'arte è essenzialmente un oggetto inutile. Cosa significa ciò? Significa che l'oggetto d'arte non risponde a nessuno dei bisogni fisiologici della vita; per lo meno alle funzioni fisiologiche comuni a tutti noi, la cui attività è in un certo senso costante, l'esigenza regolare. Ma, al contrario, gli effetti dell'arte stimolano o soddisfano funzioni fisiologiche particolari e locali, quelle dei sensi. Ad ogni modo, questi effetti sono individuali e generalmente incostanti: non tutti reagiscono all'opera d'arte allo stesso modo; l'opera d'arte è più o meno «utile» alle funzioni particolari che ho indicato, a seconda dell'individuo e delle circostanze. Siccome essa non soddisfa le esigenze delle funzioni fisiologiche definite essenziali, costanti e generali, diremo che è inutile. E inoltre, anche nei casi più favorevoli in cui vi è una particolare azione fisiologica sull'occhio, l'orecchio, ecc., gli oggetti agiscono come oggetti d'arte soltanto se si verificano certe condizioni. In una certa disposizione, il colore, il suono mi sono indifferenti: li percepisco, ma li trascuro, non presto attenzione al rapporto di toni che vi è fra questa parete e questo tavolo. Tuttavia esso esiste; ne sono vagamente coinvolto e, se occorresse, se si presentasse l'occasione, la mia 94

attenzione lo isolerebbe e trarrei da questo confronto di toni qualche proposito o qualche suggestione di ordine pittorico. p 0 sso quindi specializzarmi - o essere specializzato - essere sensibilizzato per questa concomitanza di colori - specializ~ zazione a cui si può dare il nome, provvisorio, di attenzione artistica o estetica. Questa specializzazione, come tutte quelle di cui è successi~ vamente composta la nostra vita, ha una sua personalità e una sua durata. L'oggetto d'arte non è costantemente un oggetto d'arte, l'oggetto d'arte non è oggetto d'arte per tutti. È quindi sottoposto a rigide condizioni. Questa cosa inutile è in un certo senso un'eccezione a due dimensioni. Giungo infine ad una terza caratteristica che è forse un po' azzardato trattare davanti a voi. Vi leggerò qualche pagina che ho scritto su questo tema: si tratta di ciò che chiamo l'infinito estetico. Mi perdonerete questo termine di infinito, non ho la benché minima cattiva intenzione: è un termine convenzionale che mi è parso esatto e divertente utilizzare. In verità, sarei dell'idea di proscrivere, per quanto possibile, in ogni materia, l'espressione infinito, che semina sempre un certo scompiglio, anche in matematica, e di sostituirla con un termine equivalente. L'idea fondamentale che trovo nell'analisi dell'infinito si riduce alla nozione di indipendenza. Quando si ammucchiano delle pietre, l'azione di aggiungere una pietra è indipendente dalla quantità di pietre già accumulate. Si può dire che di qui si introduce l'idea di infinito. Anche quando si esamina una qualunque operazione di ripetizione e non se ne considera l'applicazione a qualcosa, questa operazione in sé porta ad un infinito. È questa nozione di indipendenza dall'atto e dal risultato dell'atto che è in fondo la nostra idea dell'infinito considerato in questo senso. Ecco quindi la mia citazione: «La maggior parte delle nostre percezioni stimolano in noi, quando stimolano qualcosa, ciò che è necessario per annullarle o per tentare di annullarle. Ora con un atto, riflesso o meno, ora con una sorta di indifferenza acquisita o no, o con un adattamento, le aboliamo, tentiamo di abolirle, ed esiste

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in noi, rispetto ad esse, una costante tendenza a tornare nel modo più veloce possibile e per la via più breve allo stato in cui ci trovavamo prima che queste percezioni si fossero imposte su di noi. Sembra quindi che la grande impresa della nostra vita sia quella di riportare a zero non so quale indice della nostra sensibilità e di ritornare per la via più breve ad un certo massimo di libertà o di disponibilità dei nostri sensi. Le nostre percezioni tendono sempre a sparire e a venire, in un certo senso sbrigate da noi, come si dice per gli affari. Questi effetti delle nostre modificazioni percettibili che tendono a liberarci da esse sono tanto diversi quanto lo sono esse stesse. Si può tuttavia raggrupparli sotto una denominazione comune (per una relazione) e dire che l'insieme degli effetti a tendenza finita costituisce l'ordine delle cose pratiche. Chiamo quindi ordine delle cose pratiche quello in cui tutto ciò che si produce, genera una reazione che tende ad annullarlo, riporta allo stato zero la specializzazione di cui ho parlato. Ma vi sono altri effetti delle nostre percezioni che sono di tipo assolutamente opposto. Vi sono in noi il desiderio, il bisogno, i cambiamenti di stato che tendono a conservare o a riprodurre le percezioni iniziali. Se un uomo ha fame, la fame gli farà fare ciò che occorre per venire annullata al più presto; ma se il cibo è per lui delizioso, questo piacere vorrà durare in lui, perpetuarsi o rinascere. La fame ci spinge a sopprimere una sensazione; e il piacere a svilupparne un'altra; e queste due tendenze saranno sufficientemente indipendenti l'una dall'altra perché l'uomo impari presto a cercare la raffinatezza nell'alimentazione, e a mangiare senza avere fame». Quanto ho detto per la fame si estende a tutti i tipi di sensazione, tutti i tipi di sensibilità in cui l'azione cosciente può intervenire per accrescere o prolungare ciò che la mera azione riflessa sembra dover abolire. Qui interviene la realizzazione della cosa d'arte che permetterà di prolungare, di restituire l'impressione gradevole. La vista, il tatto, l'olfatto, il moto e la parola ci inducono talvolta a soffermarci sull'impressione che provocano in noi, a conservarla o a rinnovarla. L'insieme di questi effetti a 96

tendenza infinita potrebbe costituire l'ordine delle cose estetiche, che per brevità ho chiamato l'infinito estetico. Per giustificare il termine di infinito e dargli un senso preciso, è sufficiente ricordare che qui la soddisfazione fa rinascere il bisogno, la risposta genera nuovamente la domanda, l'assenza dà origine alla presenza ed il possesso al desiderio. Mentre nell'ordine che ho chiamato pratico, lo scopo raggiunto fa svanire tutte le condizioni sensibili dell'azione, la cui durata stessa è come riassorbita e non lascia altro che un ricordo astratto e senza forza; accade del tutto diversamente nell'ordine estetico, in quello che si può chiamare un universo di sensibilità. La sensazione e l'attesa della sensazione sono in qualche modo reciproche e si ricercano l'un l'altra indefinitamente. Ne abbiamo un esempio nell'universo dei colori, nel quale troviamo il notevolissimo fenomeno dei complementari che si succedono e si alternano l'un l'altro, a partire da una forte sollecitazione della retina. Non vi è fenomeno più interessante di questo, nella questione di cui mi occupo, perché osservando ciò che avviene nei nostri occhi quando abbiamo fissato una superficie di un determinato colore, sotto una luce intensa, vediamo, subito dopo, prodursi una sorta di reciproco. È un'esperienza semplice e molto interessante, ma che non bisogna fare troppo spesso a causa dello sforzo che comporta. Suppongo che abbiate guardato una superficie rossa e che in seguito sia apparso il colore verde «soggettivo»: vedrete in seguito dopo un certo lasso di tempo, apparire un nuovo rosso, al quale succede un nuovo verde alterato, e via di seguito. Questa progressiva alterazione, d'altronde molto lenta, può prolungarsi abbastanza a lungo; ho osservato su di me questo fenomeno per un periodo di un'ora, con grande affaticamento degli occhi. Quel che è molto curioso, è l'aspetto di moto pendolare fra due estremi, che si verifica così a partire da un colore dato, il rosso, o il verde iniziale, per passare al verde o al rosso simmetrico; la riproduzione alternativa non è esatta e tutto succede come se questo fenomeno di produzione di colori complementari da parte dei nostri sensi osservasse le leggi 97

sullo smorzamento del pendolo. In questo caso particolare facilmente osservabile, vediamo a che punto sia attiva la nostra sensibilità, che è al contrario spesso considerata come passiva; questa sorta di oscillazione di cui ho parlato, se, come ho detto, segue le leggi sullo smorzamento del pendolo, o può essere rappresentata da esse, non termina affatto spontaneamente; interviene un elemento estraneo· alla proprietà così rivelata, che ci ricondurrà a poco a poco, lungo questo percorso pendolare, fino alla libertà, questo zero che ho già menzionato. La circostanza estranea si chiama generalmente affaticamento. Sarà questo ad interrompere il processo. Si può dire che non è il processo di per sé (che continuerebbe indefinitamente) a cessare o ad interrompersi; ma esso si produce in un organo che dipende da tutto l'essere vivente: il ricaricamento ad un tratto non avviene più; in breve, questa sensazione a due termini scompare poco a poco, per esaurimento delle risorse, ma non perché abbia raggiunto un limite. Ma l'affaticamento produce anche un altro effetto; la diminuzione della sensibilità rispetto alla cosa stessa che era stata all'inizio un piacere o un desiderio; qui interviene la varietà. Siamo costretti a cercare o a produrre la varietà, come per rianimare la nostra sensibilità. La varietà si fa quindi richiedere come complementare della durata troppo prolungata della nostra sensazione. Il rimedio contro l'esaurimento - che chiamiamo sazietà - delle fonti finite della nostra energia sensoriale, è la varietà. Per poter desiderare ancora qualcos'altro, abbiamo questo bisogno di cambiamento, che si introduce ora e che potremmo definire come una sorta di facoltà del desiderio, dicendo che è l'espressione di un desiderio di desiderio che si pronuncia. Ma se l'evento non si verifica, se l'ambiente in cui viviamo non ci offre abbastanza prontamente un adeguato oggetto di stimolo, allora la nostra sensibilità reagisce, sempre in modo complementare. Ma i complementari di questo tipo possono essere molto più complessi che nel gruppo dei colori. In certi casi, quando il bisogno in questione ha radici molto profonde nella vita stessa, vediamo la sensibilità produrre immagini straordi98

nariamente precise e potenti degli oggetti che desideriamo. Vediamo la sete generare immagini di bevande, la fame immagini di cibo, e ciò con una precisione e con una insistenza tali che nei casi estremi si hanno allucinazioni e visioni deliranti. Queste considerazioni estremamente semplici permettono di separare e di definire abbastanza chiaramente il campo delle sensazioni e delle reazioni sensibili che si compensano e che ho definito l'ordine estetico delle cose. Ma, per tornare all'arte, occorre tornare all'ordine delle cose pr~tiche, poiché l'arte esige un'azione, l'azione della fabbricazione, e occorre, di conseguenza, che l'ordine dell'azione finita si combini con l'ordine estetico. Ciò che chiamiamo opera d'arte è quindi il risultato di un'azione il cui scopo finito è provocare in qualcuno sviluppi infiniti, da cui si può dedurre che l'artista deve contenere un essere duplice: poiché compone leggi e mezzi del mondo dell'azione, in vista dell'effetto da produrre nell'universo della risonanza sensibile. Si sono fatti molti tentativi per ridurre l'una all'altra queste due tendenze, ma non credo che vi si sia riusciti. Insomma, la nozione fondamentale che volevo mettere in evidenza come caratteristica della ricerca nell'arte è quella delle cose che portano in se stesse di che creare il bisogno di esse stesse. L'oggetto o l'opera d'arte vengono realizzate con l'intento di produrre questo effetto. Consideriamo ora l'autore. Vi ho fatto l'esempio dei complementari. Credo che si potrebbe trovare nella produzione dell'opera d'arte un'altra applicazione della stessa proprietà. Mi pare che, per certe forme molto semplici e primitive di opere d'arte, per esempio l'ornamento geometrico o una combinazione di colori nella paglia intrecciata o nella tessitura di una stoffa, si scoprirebbe che questa decorazione ha un'origine complementare. È probabile che, all'inizio, l'opera d'arte non risponda che ad un bisogno dell'autore; non vi è ancora un pubblico, è l'azione che interessa colui che la compie; è un uomo che si annoia. È l'orrore del vuoto, il cui 99

complementare sarà l'ornamento; è il vuoto del tempo o dello spazio, la pagina bianca che la sensibilità non può sopportare (poiché se esiste un fatto che caratterizza la sensibilità, credo che sia l'instabilità; essa è una sorta di facoltà di instabilità. Lo si comprende facilmente da soli: basta aver assistito a conferenze o a lezioni, e aver scarabocchiato dei segni sulla carta mentre si ascoltava, o piuttosto non si ascoltava il conferenziere). Il bisogno di occupare un tempo vuoto o di riempire uno spazio vuoto è un bisogno molto naturale. È possibile che l'ornamento non abbia altra origine. Vi ho d'altronde appena mostrato l'esempio dell'occhio e della sua reazione creatrice: credo che riprendendo questo esempio si vedrebbe nelle decorazioni primitive in cui intervengono i colori, come la scelta dei colori derivi da una sorta di ragione alternativa, in un certo senso dall'invenzione della retina. Comunque sia, per le linee, è quasi evidente. È chiaro, in effetti, che le linee che si trovano sui vasi antichi o sulle stoffe sono estremamente simili, sono delle specie di disegni sinusoidali o di greche che ritornano sempre, simmetrie che si producono e che mostrano chiaramente il ruolo della ripetizione per riempire un vuoto. Ma l'uomo è un animale che supera volentieri i propri limiti. Non si è fermato qui. Non gli è bastato fare delle creazioni spontanee per se stesso; è intervenuto un ambiente sociale, si sono costituite delle tecniche; si sono presentati nuovi problemi e nuovi pretesti. Si è imparato a fare un vaso; a tornire una terracotta, a costruire una casa, a creare un mobile, e in tutti i casi si è manifestato il bisogno complementare di ornare quell'oggetto, vale a dire di riempire dei vuoti. Allora la combinazione della parte materiale, la tecnica da una parte, con il bisogno di decorazione dall'altra, con i gusti di coloro per i quali si è costruito la casa o fatto il mobile, hanno condotto ad una sorta di specializzazione complessa. Allora, non basta più la sola spontaneità, il lavoro quasi meccanico (come quello dell'uomo che canta fra sé una nenia monotona, o che riempie uno spazio con disegni casuali); vediamo agire qualcosa di diverso dalla pura sensibilità, 100

interviene ciò che chiamiamo intelletto, intelligenza; e con l'intelligenza, la previsione cosciente. Nell'opera d'arte, vediamo apparire una sorta di calcolo. Vediamo apparire anche una complicazione delle forme, un tentativo di renderle più interessanti. All'ornamento astratto si aggiunge la rappresentazione delle cose. Di conseguenza, si è reso necessario che entrassero in gioco a poco a poco l'intelletto, con tutte le sue risorse, e l'osservazione meditata. Quanto all'autore, l'artista - egli stesso diviene un essere più complesso. Occorre che un artista contenga al tempo stesso un poeta che inventi, che fecondi con la sua sensibilità le cose, i tempi e gli spazi vuoti, ed un tecnico, un uomo che abbia il coraggio e la forza di imparare e di lottare contro le difficoltà con lo studio. Ci vuole carattere e bisogna che quest'uomo sia anche un critico per prevedere non soltanto l'opera in sé, ma anche gli effetti dell'opera sugli altri. Così si forma, si espande, si arricchisce la persona dell'artista. Non ha più nulla a che vedere con un uomo che produce spontaneamente ... Ma rimarrà sempre una specie di pregiudizio in favore della produzione spontanea, un pregiudizio magico. Si attribuirà alla spontaneità un valore trascendente. Si parlerà di ispirazione; la si opporrà all'intelligenza. Ma il ruolo dell'intelletto è, molto semplicemente, il ruolo del resto dell'essere che controlla, dirige un'attività particolare, che interviene con tutte le sue conoscenze, le sue facoltà, le sue forze; e questo ruolo cresce, nell'opera d'arte, con la cultura. Più la cultura è grande, più diventa grande la parte dell'intelletto. Essa cresce con la rappresentazione che l'artista si fa degli effetti esterni dell'opera sul pubblico. Essa aumenta anche con l'importanza dell'opera dal punto di vista materiale: quando l'opera è considerevole, come un'opera d'architettura, e richiede un tempo molto lungo, numerose collaborazioni, una tecnica sapiente, la parte dell'intelletto e della riflessione razionale si fa preponderante. Un altro fattore, infine, diminuisce il ruolo della spontaneità: le condizioni esterne imposte dalle circostanze. In 101

pittura o in scultura se dovete fare il ritratto di qualcuno, l'ispirazione non renderà il vostro ritratto più o meno rassomigliante. Il talento reale e particolare del pittore farà sì che quel ritratto sia un'opera d'arte e canti da sé, indipendentemente dalla rassomiglianza. Il ritratto varrà come quadro; quando quell'uomo sarà morto; il quadro avrà come solo valore l'impressione d'arte; ma poiché il ritratto deve somigliare al modello, è impossibile ottenere, con un atto spontaneo, la rappresentazione esatta, la somiglianza del disegno con il modello. È necessario che qui intervengano provvedimenti più o meno precisi, che il lavoro venga ripreso più volte; e la ripresa è il correttivo dell'ispirazione spontanea. Ogni volta che vi è una ripresa (e non sapete mai quando non ve ne sono) è intervenuto un fattore nuovo che interrompe il processo della spontaneità e che ha fatto appello alle risorse intellettuali dell'autore. Infine, punto molto importante (arriviamo ai grandi segreti dell'arte, e non so se devo esser chiaro!), un elemento costante, indispensabile dell'arte è l'imitazione che l'autore fa di se stesso, e precisamente nella stessa proporzione in cui l'autore ha beneficiato della fortuna, o ha approfittato di casi favorevoli, è costretto, per dare all'opera la continuità di valore che deve desiderare, ad imitare se stesso, e, di conseguenza, a studiare il proprio modo di procedere, a costruire la spontaneità. Nessuno è miglior critico di un artista che egli stesso; nessuno meglio di lui sa esattamente quanto vale, perché egli ha ricostruito per via di sintesi quel che gli è caduto dal cielo. È inevitabile che si imiti, perché è impossibile mantenere per tutta la durata di un'opera il valore ottenuto in certi punti; se si vuole che l'opera sia omogenea quanto al suo valore, è necessario cercare di trovare in se stessi di che riprodurre una certa spontaneità, di che costruire un insieme omogeneo, con mezzi appropriati, con dei «trucchi». Ciò è assolutamente generico. Un'opera che presenta una certa perfezione è stata fatta dapprima con momenti di qualità differente. Si è dovuto poi dare a questi momenti di qualità differente un valore quasi simile. Qui interviene al 102

massimo grado tutta la capacità di critica, di analisi, di ragionamento e di sintesi dell'autore. Infine, la composizione stessa è ancora un altro aspetto della questione. La composizione è ciò che vi è di più raro in certe arti. Per esempio, in poesia. Conosco veramente pochissime poesie davvero composte. Mi spiego: conosco pochissime poesie composte, a condizione che l o non si intenda per composizione un'enumerazione cronologica. I fatti si succedono, li si racconta nell'ordine dei tempi. Cominciano il tal giorno alla tale ora e finiscono il tal giorno. Questa è una successione di fatti, ma non vi è composizione, poiché non è composizione la successione delle cose nella vita di qualcuno, o in strada, dall'ora H all'ora H'. L'opera d'arte che riproduce questi fatti non è un'opera composta. È una registrazione. 2° Non è composizione, nel senso artistico, il procedimento che consiste nel seguire un piano (piano nel senso logico del termine, categorie, specie e generi, ecc.); infatti, questo piano comporta solo in modo molto incompleto la solidarietà delle diverse parti dell'opera, ed è questo il punto fondamentale. Questa solidarietà non è realizzata col solo argomento dell'opera, né con una dipendenza puramente logica delle parti, poiché la materia dell'opera e la sua forma rimangono senza rapporto con quest'ordine. Ma ]a composizione a cui penso è quella che esige, e talvolta realizza, l'indivisibilità, l'indissolubilità della materia e della forma dell'opera. Ho pronunciato la parola «materia». Mi scuso con i filosofi; questo termine, secondo me, non dovrebbe mai essere impiegato da solo: si eviterebbero molte discussioni (anche nel campo della fisica) sulla materia, se si accettasse, ogni volta che la si utilizza, di precisarla, dicendo: rispetto ad una data trasformazione. Si direbbe: rispetto ad una certa trasformazione od operazione, chiameremo materia ciò che si conserva (sia esso energia, o altro). Ciò mi consente di parlare di materia dell'opera d'arte, poiché, all'infuori delle arti plastiche, e, per esempio, in musica o in poesia, la materia di queste arti sarebbe piuttosto difficile da precisare nell'accezione comune del termine. Se si conserva qualcosa nell'operazione 103

che consiste nel subire un brano di musica o una poesia, dall'inizio alla fine, lo chiameremo materia di quella poesia o di quel brano. Ma torniamo alla composizione che cerca l'indissolubilità così preziosa della forma con il contenuto (mi spiegherò su questi due termini fra breve): essa esige che ogni elemento sia in una solidarietà particolare con un altro elemento. In una poesia, ciò non sarà mai realizzato da un legame logico, o cronologico; si potrà sempre ridurre una poesia o un enunciato in prosa; è quello che fa la mente del lettore, uccidendo l'opera per il solo fatto di averla compresa. Bisogna quindi cercare la composizione all'interno e per mezzo della materia, ossia il linguaggio; vale a dire che la sostanza della poesia deve opporsi alla trasformazione immediata della parola in significato. Occorrono similitudini di sonorità, di ritmo, di forma, ecc., che dovranno corrispondersi e ricondurre l'attenzione alla forma. Ciò può essere realizzato abbastanza facilmente in un poema in strofe. Si può così ottenere una sorta di unità dell'opera che dipende dal suo corpo. Diciamo a questo proposito (è una parentesi molto importante soprattutto per l'insegnamento) che ciò che chiamiamo una poesia esiste solo in atto. Quando si parla di poesia, di un poema o di un poeta, bisogna sempre dire «pronunciato da me» o «capito da me». Una poesia diviene poesia, come del resto un brano musicale, solo quando la si sente risuonare in tutto il suo valore. Quando è sulla carta, si è tentati di fare astrazione da quanto essa ha di più importante, dal suo valore integrale, e quindi di giudicarla ad una lettura visiva. Nulla di più estraneo alla poesia. Di conseguenza, ogni volta che si tratta di poesia e di poeta, si tratta in realtà della poesia in atto, ed il verso non ha che una definizione possibile; è un «modo di dire». Tutto il resto non è nulla. Sapete che, per un abile recitatore, è facilissimo dare valore di verso anche ad una brutta prosa, mentre non vi sono bei versi che resistano ad una cattiva recitazione. Ogni volta che avete a che fare con una poesia, essa risuonerà sempre in una bocca umana. I giudizi sulla carta cadono nel falso. 104

Poiché ho l'occasione di rivolgermi qui a dei professori di filosofia, gradirei che assegnassero ai loro allievi questo compito: «Definire cosa si intende in letteratura ed in arte per soggetto». Cos'è il soggetto di una poesia, di un dramma, di un quadro? Vi è qui un piccolo enigma. Sarebbe molto curioso proporlo ad un gruppo di liceali o di studenti universitari. Chiaramente ho una mia idea, ma non posso dirla oggi; trovo che sarebbe interessante avere la risposta di studenti di lettere e di filosofia sull'idea che si fanno di una nozione corrente, e spero che qualcuno di voi mi porterà dei risultati. Quanto all'esecuzione in sé di cui avrei parlato molto se ne avessi avuto il tempo, quanto all'esecuzione (che può essere magnificamente definita un passaggio dal disordine all'ordine, dall'informe alla forma o dall'impuro al puro, dall'arbitrario al necessario, ecc., dal confuso al preciso, come un cambiamento di luce al quale l'occhio si adatta), bisognerebbe considerarla nell'autore, ritrovarne le tracce nell'oggetto, e gli effetti nel paziente che li prova. L'esecuzione solleva un'infinità di questioni e di idee: per esempio il problema della facilità, delle impossibilità, delle difficoltà di diversi ordini; i tormenti degli artisti in preda a queste difficoltà; il problema enorme delle varie convenzioni, delle libertà, del mestiere stesso; il caso, che svolge un ruolo importantissimo, se si può parlare di ruolo a proposito del caso; la parte del ragionamento e delle analogie; quella di ciò che si può chiamare il modello, il tipo che certi artisti devono avere in mente. È curioso notare che in certi casi, per esempio a proposito del ritratto, l'artista ha due modelli: la persona che deve rappresentare ed il tipo d'opera d'arte che la sua natura gli chiede di realizzare. Sotto un punto di vista del tutto diverso, l'etica degli artisti e la loro vita affettiva di relazione svolgono, nella produzione della loro opera, un ruolo di primaria importanza. Purtroppo, questa vita viene sempre dissimulata. È molto difficile, quando non si è vissuta la vita stessa dell'arte (e anche quando la si è vissuta), discernere esattamente la parte che essa ha nelle opere. 105

È chiaro che i fattori che vengono designati con i termini tradizionali di orgoglio, vanità, gelosia esercitano un'influenza fondamentale; quante opere devono la loro nascita o il loro abbandono alla sensibilità affettiva dei loro artisti! Altra cosa: bisogna considerare anche il modo in cui l'artista si rappresenta il proprio pubblico. Si potrebbe fondare una certa divisione delle opere d'arte sull'osservazione che una parte delle produzioni è creata dal pubblico, e che un'altra si crea il proprio pubblico. Vi sono dunque sotto questo aspetto due categorie di intenzioni: l o fare un'opera su misura per il pubblico, un'opera che gli si addica; 2° oppure, formarsi un pubblico che si addica all'opera. Infine vi avrei dovuto parlare degli idoli in arte: sarebbe il capitolo dei miti, delle sovrapposizioni, delle credenze degli artisti, e di quelle del pubblico riguardo agli artisti; posso solo sfiorare questo argomento. Mi è capitato spesso di dirmi: perché l'esecuzione dell'opera d'arte non è essa stessa un'opera d'arte? Lo si può pensare, almeno per certe arti. Mi ricordo a questo proposito il seguente esempio. Goncourt racconta che un pittore giapponese, venuto a Parigi, tenne una seduta di lavoro alla presenza di alcuni appassionati d'arte. Dopo aver preparato i suoi strumenti, inumidì, con una spugna, il foglio teso su di un telaio, poi gettò una goccia di inchiostro di china su questo foglio inumidito. Dopo che la goccia si fu sparsa, diede fuoco a dei giornali appallottolati per seccare il foglio. Inumidì una seconda volta, in un altro angolo il foglio secco, fece una seconda macchia, ecc. È un venditore di fumo, dicevano tutti. Ma quando ebbe terminato le asciugature ed i getti di inchiostro di china, ritornò sul foglio teso e, con un pennellino, fece due o tre tratti, qua e là. Apparve subito l'opera: un uccello che dispiegava le piume. Non una sola operazione era stata fallita, e tutto era stato fatto con un ordine scrupoloso che provava che egli lo aveva fatto centinaia di volte ed era pervenuto a questo prodigio di esecuzione. Quell'uomo faceva dell'esecuzione dell'opera un'altra opera d'arte. 106

Si può quindi immaginare un pittore o uno scultore, che lavorino in una specie di danza, che operino ritmicamente. L'esecuzione, dopo tutto, è una mimica. Se si potessero ricostruire tutti i movimenti, si espliciterebbe il quadro con una successione di azioni ordinate; questa successione potrebbe quindi venir ripetuta, riprodotta, e l'artista diverrebbe paragonabile all'attore che recita cento volte lo stesso ruolo. Ciò mostra, sotto forma di fantasia, che tutti questi gesti dell'arte, una volta che sono stati ben acquisiti, sono suscettibili di una certa ripetizione, e che il vero artista è colui che giunge a possedere (ma non tanto sicuramente come ho detto) una conoscenza di se stesso spinta fino alla pratica e all'impiego automatico della propria personalità, della propria originalità. Ancora due parole: per prima cosa a proposito di una nozione che è stata sommersa dal ridicolo (come molte altre in arte). È quella di Grande Arte. A mio parere, la si potrebbe riprendere con profitto. La Grande Arte viene confusa con l'arte cosiddetta «accademica»: si è chiamata Grande Arte l'arte imponente, molto noiosa e ufficiale. Ma chiamerei Grande Arte quella che esige dall'autore fuso di tutte le facoltà della mente: abbiamo visto intervenire la spontaneità, poi il calcolo, il ragionamento ecc.; se supponete che l'artista si senta in grado di affrontare qualunque opera (senza curarsi delle dimensioni) in modo che questa piccola opera rifletta tutte le facoltà possibili della mente applicate all'arte, o piuttosto applicabili nell'opera d'arte, questa nozione per me definisce la Grande Arte opera dell'uomo completo. D'altra parte quest'opera di Grande Arte deve esigere anche da colui che la subisce l'impiego di tutte le sue facoltà. Ciò che l'autore può desiderare, è di avere a che fare con un lettore o con uno spettatore che gli concedano non l'ammirazione (che non è nulla), ma una viva attenzione. Probabilmente, quest'uomo troverà spesso qualcosa di diverso da ciò che l'autore ha voluto: può darsi che l'autore abbia voluto meno di quanto gli accordi l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore; ma è certo 107

che l'intenzione dell'autore di voler stimolare con la sua opera l'insieme delle facoltà dell'uomo - e quindi di esigere dal pubblico uno sforzo della stessa qualità del proprio - definì~ sce un'arte che si può ben qualificare come grande. (1935)

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Questioni di poesia

Da una quarantina d'anni ho visto la poesia subire sperimentazioni molteplici, essere sottoposta alle esperienze più diverse e tentare vie del tutto sconosciute, ritornando talvolta a certe tradizioni; partecipare, insomma, alle rapide fluttuazioni ed allo stato di frequente novità che sembrano caratterizzare il mondo attuale. La ricchezza e la fragilità delle combinazioni, l'instabilità dei gusti e le rapide trasformazioni di valori; in breve, la fede negli opposti e la scomparsa del durevole costituiscono i tratti di quest'epoca, e sarebbero ben più avvertibili se non rispondessero esattamente alla nostra stessa sensibilità, che si fa ogni giorno più ottusa. In quest'ultimo mezzo secolo si è espressa una serie di formule e modi poetici, dal modello rigido e facilmente definibile del Parnasse, fino alle produzioni più sregolate ed ai tentativi più autenticamente liberi. Occorre inoltre aggiungere a questo insieme d'invenzioni certe riprese, spesso molto felici: forme pure o dotte, di innegabile eleganza, prese a prestito dal XVI, xvn e XVIII secolo. Il fatto che queste ricerche si siano svolte in Francia è piuttosto notevole, dal momento che questo paese è conside109

rato poco poetico, pur avendo prodotto più di un poeta famoso. Vero è che, da circa trecento anni, i Francesi sono stati educati a misconoscere la vera natura della poesia e a procedere su strade che conducono nella direzione a lei opposta. Lo dimostrerò facilmente più avanti. Questo spiega perché le improvvise fiammate di poesia che, di tanto in tanto, si sono prodotte da noi, abbiano dovuto prodursi in forma di rivolta o di ribellione; o, al contrario, si siano concentrate in un esiguo numero di teste ferventi, gelose delle loro segrete certezze. Ma, proprio in questa nazione così poco incline al canto, è apparsa durante l'ultimo quarto del secolo scorso una sorprendente ricchezza di invenzioni liriche. Verso il 1875, mentre Victor Hugo era ancora vivo e Leconte de Lisle e i suoi accedevano alla gloria, si son visti nascere i nomi di Verlaine, di Stéphane Mallarmé, di Arthur Rimbaud, questi tre Re Magi della poetica moderna, portatori di così preziosi doni e di essenze tanto rare che il tempo da allora trascorso non ha alterato affatto lo splendore né il potere di quei doni straordinari. L'estrema diversità delle loro opere, unita alla varietà dei modelli offerti dai poeti della generazione precedente, ha permesso e permette di concepire, sentire e praticare la poesia in molti e diversissimi modi. Probabilmente oggi c'è ancora chi segue Lamartine; altri continuano la lezione di Rimbaud. La stessa persona può cambiare gusto e stile, bruciare a vent'anni ciò che adorava a sedici; una qualche intima trasformazione fa slittare da un maestro all'altro il potere di incantare. Il cultore di Musset si affina e l'abbandona per Verlaine. Un altro, nutritosi precocemente di Hugo, si dedica interamente a Mallarmé. Questi passaggi spirituali si compiono, generalmente, in un senso piuttosto che nell'altro, molto meno probabile: deve essere rarissimo che il Bateau lvre conduca, alla lunga, verso Le Lac. In compenso, è possibile non perdere, per amore della pura e dura H érodiade, il gusto per la Preghiera di Esther. Queste disaffezioni, questi colpi di fulmine o di grazia, 110

queste conversioni e sostituzioni, queste possibilità di essere successivamente sensibilizzati all'azione di poeti incompatibili sono fenomeni letterari di primaria importanza. Dunque non se ne parla mai. Ma, - di cosa si parla, parlando di «Poesia»? Mi stupisce che in nessun altro campo di nostro interesse l'osservazione delle cose stesse sia più trascurata. È vero che questo accade in tutti i campi in cui si può temere che lo sguardo diretto dissipi o disincanti il proprio oggetto. Ho notato, non senza attenzione, lo scontento suscitato da ciò che ho scritto recentemente a proposito della Storia, e che si riduceva a semplici constatazioni che ognuno può fare. Questa piccola effervescenza era del tutto naturale e facilmente prevedibile, poiché è più semplice agire che riflettere e questo riflesso automatico ha necessariamente la meglio per la maggior parte delle persone. Per quanto mi riguarda, io cerco sempre di non seguire ciò che mi porterebbe lontano dall'oggetto osservabile, l'impeto delle idee che, di segno in segno, vola a suscitare il sentimento particolare... Ritengo che si debba imparare a non considerare soltanto ciò che le consuetudini e in primo luogo la più potente di tutte, il linguaggio, ci fanno considerare. Bisogna tentare di soffermarsi su punti diversi da quelli indicati dalle parole, - cioè - dagli altri. Cercherò dunque di mostrare come l'uso corrente tratta la Poesia, facendone qualcosa che essa non è, a scapito di ciò che essa è veramente. Non si può dire quasi nulla sulla «Poesia» che non sia perfettamente inutile a tutti coloro che sentono nella loro vita intima il singolare potere di desiderarla o produrla, come una richiesta inesplicabile del loro essere, o come la sua risposta più pura. Queste persone sentono la necessità di ciò che di solito non serve a nulla, e avvertono talvolta non so quale rigore in certe combinazioni di parole del tutto arbitrarie agli occhi altrui. Queste stesse persone non si lasciano facilmente convincere ad amare ciò che non amano e a non amare ciò che amano, lll

- cosa che fu, in ogni tempo, lo sforzo principale della critica. Per coloro che non sentono molto intensamente la presenza o l'assenza della Poesia, essa forse non è che una cosa astratta e misteriosamente ammessa: cosa vana quanto si vuole, - sebbene una tradizione che conviene rispettare attribuisca a questa entità uno di quei valori indeterminati così diffusi nella mentalità comune. La considerazione che si accorda ad un titolo di nobiltà in una nazione democratica può qui servire da esempio. Riguardo all'essenza della Poesia, ritengo che sia a seconda degli individui, di valore nullo o di importanza infinita: cosa che la assimila a Dio. Tra questi uomini senza gran sete di Poesia, che non ne sentono il bisogno e che non l'avrebbero inventata, la sfortuna vuole che figurino un buon numero di quelli il cui compito o destino è' di giudicare la Poesia, di discuterne, di stimolarne e coltivarne il gusto; di dispensare, insomma, ciò che essi non hanno. Essi vi applicano spesso tutta la loro intelligenza e tutto il loro zelo: con temibili conseguenze. Sotto il nome magnifico e discreto di «Poesia», costoro sono inevitabilmente portati o costretti a considerare oggetti totalmente diversi da quello di cui credono di occuparsi. Ogni scusa è buona, senza che se ne avvedano, per fuggire o per eludere innocentemente l'essenziale. Ogni pretesto è buono, purché non sia il testo. Si enumerano, ad esempio, i mezzi esterni usati dai poeti; si rilevano frequenze o assenze nel loro vocabolario; si mettono in evidenza le loro immagini favorite; si segnalano reciproci prestiti e somiglianze. Alcuni tentano di ricostruirne i segreti disegni e di leggerne, in una trasparenza ingannevole, intenzioni o allusioni nelle opere. Con un compiacimento che ben rivela i loro abbagli, essi scrutano volentieri ciò che si sa (o che si crede di sapere) della vita degli autori, come se fosse possibile dedurre da questa l'origine di un'opera, e come se 112

d'altronde le bellezze dell'espressione, il delizioso accordo, sempre ... provvidenziale, di termini e suoni, fossero effetti del tutto naturali delle vicissitudini affascinanti o patetiche di un'esistenza. Ma tutti sono stati felici e infelici; e gli eccessi della gioia come quelli del dolore non sono stati negati alle anime più grossolane e meno liriche. Sentire non comporta rendere sensibile, - e tanto meno rendere sensibile in bellezza. Non è forse stupefacente che si cerchino e che si trovino tante maniere di trattare un argomento senza nemmeno sfiorarne il principio, e dimostrando poi con i metodi impiegati, con la maniera di applicarvisi, e persino con lo sforzo che ci si infligge, un'ignoranza piena e perfetta della vera questione? Non solo: nella quantità di lavori eruditi che, da secoli, sono stati consacrati alla Poesia, se ne vedono straordinariamente pochi (e dico «pochi» per non essere drastico), che non implichino una negazione della sua stessa esistenza. Gli aspetti più sensibili, i problemi più concreti di quest'arte così composita vengono quasi del tutto offuscati dal genere di sguardi che si concentrano su di essa. Cosa si fa, in genere? Si tratta una poesia come se fosse divisibile (e dovesse esserlo) da un lato in un discorso in prosa che sia autonomo e autosufficiente; e dall'altro, in un pezzo di una musica particolare, più o meno affine alla musica propriamente detta, quale può essere prodotta dalla voce umana; ma la nostra non si eleva mai fino al canto, il quale, del resto, non conserva affatto le parole, legato com'è soltanto alle sillabe. Quanto al discorso in prosa, - discorso che messo in altri termini assolverebbe al medesimo compito, - esso viene diviso a sua volta. Lo si ritiene scomponibile, da un lato in un piccolo testo (riducibile talvolta ad un solo termine o al titolo dell'opera) e, dall'altro, in una certa quantità di parola accessoria: ornamenti, immagini, figure, epiteti, «bei dettagli», il cui carattere comune è di poter essere introdotti, moltiplicati, soppressi, ad libitum ... 113

E per quanto riguarda la musica della poesia, questa musica particolare a cui mi riferivo, essa è per taluni impossibile da percepire; per i più, trascurabile; per certi altri, oggetto di ricerche astratte, talvolta colte, generalmente sterili. Ammirevoli sforzi, lo so, sono stati fatti contro le difficoltà di questa materia; ma temo proprio che le forze siano state male applicate. Nulla di più ingannevole dei metodi detti «scientifici» (e, in particolare, le rilevazioni o le registrazioni) che permettono sempre di far rispondere con «un fatto» ad una domanda anche assurda o mal posta. Il loro valore (come quello della logica) dipende dalla maniera di servirsene. Le statistiche, i tracciati sulla cera, le osservazioni cronometriche invocate per risolvere controversie del tutto «soggettive» di origine o di tendenza, dimostrano certo qualcosa; - ma in questo caso i loro oracoli, ben lontani dal trarci d'impaccio e chiudere così ogni discussione, non fanno che introdurre, sotto le specie e l'apparato materiale della fisica, tutta una metafisica ingenuamente dissimulata. Abbiamo un bel contare i passi della dea, rilevarne la frequenza e la lunghezza media, non ne ricaveremo mai il segreto della sua grazia istantanea. La lodevole curiosità spesa a scrutare i misteri della musica propria del linguaggio «articolato» non ci ha valso, fino ad oggi, produzioni di importanza nuova e capitale. Ora, il punto è proprio questo. La sola prova del vero sapere è il potere: potere di fare o di predire. Tout le reste est Littérature ... Devo però riconoscere che queste ricerche che ritengo poco fruttuose hanno almeno il merito di aspirare alla precisione. La loro intenzione è eccellente ... L'approssimativo soddisfa in pieno la nostra epoca, in ogni occasione in cui la materia non è in gioco. La nostra epoca si scopre dunque allo stesso tempo più precisa e più superficiale di ogni altra: più precisa suo malgrado, più superficiale solo per causa sua. Essa considera l'accidente più prezioso della sostanza. I personaggi la divertono e l'uomo la tedia; ed essa teme sopra ogni cosa questa feconda inquietudine, che in tempi più quieti e quasi più vuoti, generava lettori profondi, difficili e desiderabili. Chi 114

soppeserebbe oggi le sue minime parole? E per chi? Quale Racine interrogherebbe il proprio Boileau per ottenerne licenza, peraltro negata, di sostituire il termine «miserable» a «infortuné» nel tal verso? Dato che intendo liberare un po' la Poesia da tanta prosa e da tanto spirito prosastico che la soffocano e la velano di conoscenze del tutto inutili alla conoscenza ed al possesso della sua natura, posso ben osservare l'effetto che tali lavori producono su numerosi intelletti della nostra epoca. Accade che l'abitudine, raggiunta in certi ambiti, all'estrema esattezza, (divenuta familiare ai più dopo innumerevoli applicazioni alla vita pratica), tenda a rendere vane per noi, se non addirittura insopportabili, tante speculazioni tradizionali, tante tesi o teorie che, forse, possono ancora interessarci, stuzzicarci un po' l'intelletto, farci scrivere ed anche sfogliare più di un buon libro; ma noi sentiamo peraltro che sarebbe sufficiente uno sguardo un po' più attivo o qualche domanda imprevista per vedere risolversi in semplici possibilità verbali i miraggi astratti, i sistemi arbitrari e le vaghe prospettive. Ormai tutte le scienze che hanno per sé solo ciò che esse stesse dicono si trovano «virtualmente» svalutate dallo sviluppo di quelle scienze i cui risultati sono provati .ed utilizzati ad ogni istante. Cerchiamo di immaginare dunque i giudizi che possono nascere in un'intelligenza abituata ad un certo rigore, quando le si propongono certe «definizioni » e certe « analisi» che pretendono di introdurla alla comprensione delle Lettere e in particolar modo della Poesia. Quale valore accordare alle discussioni che si fanno sul «Classicismo», il «Romanticismo», il «Simbolismo» ecc., quando noi avremmo serie difficoltà a collegare alle pretese idee generali e alle tendenze «estetiche» che questi bei nomi si presume designino, le singole caratteristiche e le qualità d'esecuzione che fanno il pregio ed assicurano la sopravvivenza di un'opera allo stato vivente? Sono termini astratti e convenzionali: ma convenzioni che sono tutto tranne che «comodità», poiché il disac115

cordo degli autori sul loro significato è, in un certo senso, di regola; e poiché esse sembrano create per provocarlo e dare un pretesto per dissensi infiniti.

È fin troppo chiaro che tutte queste classificazioni e queste vedute a volo d'uccello non aggiungono nulla al piacere di un lettore capace d'amore, né accrescono, presso un uomo del mestiere, la comprensione dei mezzi che i maestri hanno messo in opera: esse distolgono e dispensano l'intelletto dai problemi reali dell'arte; ma permettono anche a tanti ciechi di dissertare mirabilmente del colore. Quante cose superficiali furono scritte grazie al termine «Umanesimo» e quante sciocchezze per far credere alla gente che Rousseau avesse inventato la «Natura» l. .. Vero è che una volta adottate ed assorbite dal pubblico, tra gli infiniti fantasmi che gli fanno perdere tempo, queste apparenze di pensieri divengono quasi reali e danno pretesto e materia per un gran numero di combinazioni di una certa scolastica originalità. In Victor Hugo viene ingegnosamente scoperto un Boileau, un romantico in Corneille, un «psicologo» o un realista in Racine ... Tutte cose che non sono né vere né false; - e che d'altronde non possono esserlo. Ammetto che non si tenga in alcun conto la letteratura in generale, e la poesia in particolare. La bellezza è una faccenda privata; la sensazione di riconoscerla e di sentirla in quel dato istante è un evento più o meno frequente in un'esistenza, come accade per il dolore e la voluttà, ma ancor più casuale. Non è mai sicuro che un certo oggetto ci seduca, né che essendoci piaciuto o meno una volta, ci piaccia o meno di nuovo. Questa incertezza che elude tutti i calcoli e l'attenzione, e che permette tutte le combinazioni delle opere con gli individui, tutte le repulsioni e le idolatrie, rende i destini dei testi partecipi dei capricci, delle passioni e dei mutamenti di ognuno. Se qualcuno apprezza davvero una certa poesia, si riconosce dal fatto che ne parla come di un affetto personale, - sempre che ne parli. Ho conosciuto persone così gelose di 116

ciò che ammiravano perdutamente, da mal sopportare che altri ne fossero attratti o che soltanto ne fossero a conoscenza, ritenendo che il loro amore, condiviso con altri, potesse guastarsi. Essi preferivano nascondere anziché diffondere i loro libri preferiti, e li trattavano (a scapito della gloria degli autori presso il pubblico, e a vantaggio del loro culto) come i saggi mariti d'Oriente trattano le loro spose, circondandole di mistero. Ma se, come l'uso richiede, si vuole fare delle Lettere una sorta di istituzione di pubblica utilità, associando alla fama di una nazione- che è, in fondo, affare di Stato, -dei titoli di «capolavori» da inscriversi accanto ai nomi delle sue vittorie; se, trasformando strumenti di piacere spirituale in mezzi educativi, si assegna a queste creazioni un ruolo importante nella formazione e nella valutazione dei giovani, - bisogna almeno fare attenzione a non corrompere in questo modo il giusto e vero senso dell'arte. Questa corruzione consiste nel sostituire alla precisione assoluta del piacere o dell'interesse diretto che un'opera suscita, dettagli vani ed esteriori oppure opinioni convenzionali; e nel fare di quest'opera un reagente utile al controllo pedagogico, una materia per sviluppi superflui, un pretesto per problemi assurdi. .. Tutte queste intenzioni concorrono allo stesso effetto: evitare le questioni reali, organizzare un equivoco. Quando io osservo ciò che si fa della Poesia, ciò che di essa si chiede e si risponde, l'idea che se ne dà negli studi (e un po' dovunque), la mia mente, che si crede la più semplice delle menti possibili (in conseguenza forse della natura intima delle menti), si stupisce «al limite dello stupore)). Essa dice tra sé: io non vedo nulla in tutto ciò, che mi permetta di leggere meglio tale poesia né di eseguirla meglio per mio piacere; né di concepirne più distintamente la struttura. Mi si spinge a tutt'altro, e non v'è nulla che non si ricerchi per distogliermi dal divino. Mi si insegnano date e notizie biografiche; mi si intrattiene su dispute e dottrine di cui non mi curo, quando si tratta di canto e dell'arte sottile 117

della voce portatrice di idee ... Dov'è dunque l'essenziale in questi discorsi ed in queste tesi? Cosa si fa di ciò che si osserva immediatamente in un testo, delle sensazioni per produrre le quali esso è stato composto? Il momento di trattare della vita, degli amori e delle opinioni del poeta, dei suoi amici e nemici, della sua nascita e della sua morte, verrà quando saremo abbastanza avanzati nella conoscenza poetica della sua poesia, cioè quando ci saremo resi noi stessi strumento della cosa scritta, in modo che la nostra voce, la nostra intelligenza e tutte le risorse della nostra sensibilità si siano unite per dare vita e presenza efficace all'atto creativo dell'autore. Il carattere superficiale e vano degli studi e degli insegnamenti che hanno appena suscitato il mio stupore appare alla minima domanda precisa. Mentre ascolto queste dissertazioni alle quali non mancano né le «documentazioni», né le sottigliezze, non posso impedirmi di pensare che non so nemmeno che cosa è una Frase ... Io faccio congetture sulla definizione di Verso. Ho letto o forgiato venti «definizioni» di Ritmo, e non ne adotto nessuna ... Cosa dico! ... Se solo mi fermo a domandarmi che cos'è una Consonante, m'interrogo; consulto; e non trovo altro che parvenze di conoscenza netta, distribuita in cento opinioni contraddittorie ... Se adesso provo ad informarmi su questi usi o piuttosto abusi del linguaggio, che vengono riuniti sotto il termine vago e generico di «figure», non trovo altro che le abbandonate vestigia dell'analisi molto imperfetta che di questi fenomeni «retorici» avevano tentato gli antichi. Ora queste figure, così trascurate dalla critica moderna svolgono un ruolo di primaria importanza, non solo nella poesia dichiarata e organizzata, ma anche in quella perpetuamente attiva che tormenta il vocabolario stabilito, dilata o restringe il senso delle parole, opera su di esse per simmetrie o conversioni, altera ad ogni istante i valori di questa moneta fiduciaria; e ora attraverso le bocche del popolo, ora sotto la penna esitante dello scrittore, genera questa variazione della lingua che la rende insensibilmente altra. Nessuno sembra aver anche soltanto provato a riprendere questa analisi. Nessuno cerca nell'esame approfon118

dito di queste sostituzioni, di queste notazioni contratte, di questi equivoci ragionati e di questi espedienti, così vagamente definiti finora dai grammatici, le proprietà che essi suppongono e che non possono essere molto diverse da quelle rnesse talvolta in evidenza dal genio geometrico e dalla sua arte di crearsi strumenti di pensiero sempre più duttili e penetranti. Senza saperlo il Poeta si muove in un ordine di relazioni e di trasformazioni possibili, di cui egli non avverte o non percepisce che gli effetti momentanei e particolari che gli interessano in una certa fase della sua operazione interiore. Ammetto che le ricerche di quest'ordine siano terribilmente difficili e che la loro utilità non possa manifestarsi che a pochi; e convengo che sia meno astratto, più agevole, più «umano», più «vivo», sviluppare considerazioni sulle «fonth, le «influenze», la «psicologia», gli «ambienth, le «ispirazioni» poetiche, piuttosto che applicarsi ai problemi organici dell'espressione e dei suoi effetti. Io non nego il valore né contesto l'interesse di una letteratura che ha la Letteratura stessa come sfondo e gli autori come personaggi; ma devo constatare che non vi ho trovato gran cosa che mi potesse davvero servire. Tutto ciò va bene per faccende esterne come conversazioni, discussioni, conferenze, esami o tesi, - le cui esigenze sono molto diverse da quelle del faccia a faccia impietoso tra il volere e il potere di qualcuno. La Poesia si forma e si comunica nell'abbandono più puro o nell'attesa più profonda: se la si prende per oggetto di studio, è qui che bisogna guardare: nell'essere, e molto poco nei suoi dintorni. Com'è sorprendente- mi sussurra ancora il mio spirito di semplicità- che un'epoca che spinge ad un punto incredibile, in fabbrica, in cantiere, in parlamento, nel laboratorio o nell'ufficio, la dissezione del lavoro, l'economia e l'efficacia delle azioni, la purezza e la proprietà delle operazioni, respinga nelle arti i vantaggi dell'esperienza acquisita, rifiuti di invocare altro che l'improvvisazione, il fuoco celeste, il ricorso al caso sotto diversi nomi allettanti! ... In nessun tempo si è stabilito, espresso, affermato, e nemmeno proclamato con più 119

forza, il disprezzo per ciò che assicura la perfezione propria delle opere, che dona loro con il legame delle parti l'unità e la consistenza della forma, e tutte le qualità che le trovate più felici non possono conferire. Ma noi siamo istantanei. Troppe metamorfosi, e rivoluzioni di ogni ordine, troppe trasmutazioni rapide di gusti in disgusti, e di cose disprezzate in cose inestimabili, troppi valori troppo diversi dati simultaneamente ci abituano ad accontentarci dei primi elementi delle nostre impressioni. E come si può ai nostri giorni pensare alla durata, speculare sull'avvenire, voler tramandare? Ci sembra vano cercare di resistere al «tempo» e di offrire a sconosciuti che vivranno fra duecento anni dei modelli che possano commuoverli. Troviamo inspiegabile che tanti uomini illustri abbiano pensato a noi e siano forse diventati tali perché vi hanno pensato. Infine, tutto ci appare così precario ed instabile in ogni cosa, così necessariamente accidentale, che abbiamo finito per fare della sensazione, semplici accidenti, e della coscienza meno vigile, la sostanza di tante opere. Insomma, una volta abolita la superstizione della posterità; dissipata la preoccupazione dei giorni a venire; e divenute inavvertibili ad un pubblico meno sensibile e più ingenuo di un tempo la composizione, l'economia dei mezzi, l'eleganza e la perfezione, è naturale che l'arte della poesia e la comprensione di essa ne siano (come tante altre cose) compromesse a tal punto da impedire ogni previsione o supposizione del loro destino anche prossimo. La Fortuna di un'arte è legata da un lato alla sorte dei suoi mezzi materiali; dall'altro, a quella delle menti che ad essa possono interessarsi, e che vi trovano la soddisfazione di un vero bisogno. Dalla più lontana antichità, fino ad oggi, la lettura e la scrittura sono stati i soli mezzi di scambio come i soli procedimenti di lavoro e di conservazione dell'espressione attraverso il linguaggio. Ora non si può più rispondere del loro avvenire. Quanto alle menti, si vede già che esse vengono sollecitate e sedotte da tanti prestigi immediati, da tanti eccitanti diretti che danno loro senza sforzo le sensazioni più intense, e rappresentano per loro la vita stessa e la natura del tutto presente, tanto che si può dubitare se i nostri 120

nipoti troveranno il minimo sapore nelle grazie antiquate dei nostri più straordinari poeti, e di tutta la poesia in generale. Il mio progetto consisteva nel mostrare, attraverso il modo in cui la Poesia è generalmente considerata, quanto essa sia generalmente misconosciuta - pietosa vittima di intelligenze talvolta fra le più grandi, ma che non hanno sensibilità per essa. Devo dunque continuare questo progetto e giungere a qualche precisazione. Citerò per cominciare il grande D' Alembert: «Voici, ce me semble», egli scrive, «la loi rigoureuse, mais juste, que notre siècle impose aux poètes: il ne reconnait plus pour bon que ce qu'il trouverait excellent en prose» 1 • La celebre frase è una di quelle il cui inverso è esattamente ciò che noi pensiamo che si debba pensare. Ad un lettore del 1760 sarebbe bastato formularla al contrario per trovare ciò che si doveva ricercare e gustare nel seguito assai prossimo dei tempi. Non che D'Alembert si sbagliasse, e nemmeno il suo secolo. Dico solo che egli credeva di parlare di Poesia, mentre pensava a tutt'altra cosa sotto questo nome. Dio solo sa se dall'epoca in cui questo «Teorema di D'Alembert » è stato enunciato, i poeti non si siano prodigati a contraddirlo! ... Alcuni, mossi dall'istinto, sono fuggiti, nelle loro opere, quanto più lontano possibile dalla prosa. Si sono anche felicemente liberati dell'eloquenza, della morale, della storia, della filosofia, e di tutto ciò che non si sviluppa nell'intelletto se non a spese della parola. Altri, un po' più esigenti, grazie ad un'analisi sempre più sottile e precisa del desiderio e del piacere poetico, nonché delle loro risorse, hanno tentato di costruire una poesia che non potesse mai ridursi all'espressione di un pensiero, né dunque tradursi in altri termini senza per questo perire. Essi capirono che la trasmissione di uno stato poetico che coinvolge l'intero essere senziente, è ben altro rispetto alla trasmissione di un'idea. Compresero anche che il senso letterale di una poesia non è, e non realizza affatto, ogni suo fine; e non è dunque, necessariamente unico. 121

Tuttavia, a dispetto di ricerche e di creazioni ammirevoli la consuetudine di giudicare i versi secondo la prosa e la sua' funzione, di valutarli, in un certo senso, per la quantità di prosa che essi contengono; il temperamento nazionale divenuto sempre più prosaico dal XVI secolo; gli errori stupefacenti dell'insegnamento letterario; l'influenza del teatro e della poesia drammatica (cioè dell'azione, che è essenzialmente prosa), tutto ciò perpetua tante assurdità e tante pratiche che testimoniano l'ignoranza più clamorosa delle condizioni poetiche. Sarebbe facile redigere una tavola dei «criteri» dello spirito antipoetico. Sarebbe la lista dei modi di trattare una poesia, di giudicarla e di parlarne, che costituiscono manovre direttamente opposte agli sforzi del poeta. Trasferite nell'insegnamento, in cui sono la regola, queste operazioni vane e barbare tendono a rovinare sin dall'infanzia il senso poetico, e perfino la nozione del piacere che esso potrebbe donare. Distinguere nei versi il contenuto e la forma; un soggetto e uno sviluppo; il suono e il senso; considerare la ritmica, la metrica e la prosodia come naturalmente e facilmente separabili dall'espressione verbale stessa, dalle parole e dalla sintassi; ecco altrettanti sintomi di non comprensione e di insensibilità in materia poetica. Volgere o far volgere in prosa una poesia; farne materiale di istruzione o d'esame, sono peccati non veniali di eresia. È una autentica perversione ingegnarsi a travisare i principi di un'arte, quando si tratterebbe, al contrario, di introdurre le menti in un universo di linguaggio che non è per nulla il sistema comune degli scambi tra segni e atti o idee. Il poeta dispone delle parole in tutt'altro modo di come lo richiedano l'uso e il bisogno. Sono senz'altro le stesse parole, ma assolutamente non gli stessi valori. È proprio il non-uso, il non dire «che piove» ad essere affar suo; e tutto ciò che afferma, che dimostra che egli non parla in prosa, gli va bene. La rima, l'inversione, le figure retoriche, le simmetrie e le immagini, creazioni o convenzioni che siano, sono altrettanti strumenti per opporsi all'indole prosaica del lettore (come le «regole» famose dell'arte poetica hanno per 122

effetto di richiamare continuamente al poeta l'universo complesso di quest'arte). L'impossibilità di ridurre a prosa la sua opera, l'impossibilità di dirla, o di comprenderla in quanto prosa, sono condizioni assolute di esistenza, al di fuori delle quali quest'opera non ha poeticamente alcun senso. Dopo tante proposizioni negative, dovrei ora entrare nel positivo del soggetto; ma mi sembrerebbe poco opportuno far precedere ad una raccolta di poesie in cui appaiono le tendenze e i modi di esecuzione più diversi, una esposizione di idee del tutto personali malgrado i miei sforzi per sviluppare ed esporre solo osservazioni e ragionamenti che tutti possono rifare. Niente di più difficile che non essere se stessi o non esserlo fino in fondo. (1935)

Note I Ecco quale mi sembra la legge rigorosa, ma giusta, che il nostro secolo impone ai poeti: esso ora riconosce buono in versi soltanto ciò che troverebbe eccellente in prosa. (N.d.T.)

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Prima lezione del corso di poetica

Signor Ministro, Signor Amministratore, Signore, Signori, provo una sensazione un po' strana e molto commovente sedendomi a questa cattedra e intraprendendo una nuova carriera all'età in cui tutto c'invita ad abbandonare l'azione e a desistere da ogni iniziativa. Vi ringrazio, Egregi Professori, dell'onore che mi avete concesso accogliendomi tra voi e della fiducia accordata sia alla proposta di istituire un insegnamento che si chiamasse Poetica, sia a chi ve la sottoponeva. Potete aver pensato che certe materie, pur non essendo né potendo propriamente essere oggetto di scienza per la loro natura prevalentemente interiore e la loro stretta dipendenza dalle persone che le coltivano, si potessero tuttavia, se non proprio insegnare, almeno in qualche modo comunicare come frutto dell'esperienza individuale di un'intera vita e che perciò, in questo caso particolare, l'età fosse una condizione giustificabile. Allo stesso modo esprimo la mia gratitudine nei riguardi dei colleghi dell' Académie française che si sono cortesemente uniti a voi per presentare la mia candidatura. Ringrazio infine il Ministro dell'Educazione nazionale per 125

aver accettato la trasformazione di questa cattedra e per aver proposto al Presidente della Repubblica il mio decreto di nomina. Egregi Signori, non potrei nemmeno intraprendere la spiegazione del mio compito, senza aver prima espresso i miei sentimenti di riconoscenza, rispetto e ammirazione nei confronti del mio illustre amico Joseph Bédier. Non è certo in questa sede che occorre ricordare la gloria e i grandi meriti dello studioso e dello scrittore, onore delle Lettere francesi, né menzionare la sua dolce e persuasiva autorità di amministratore. Ma non posso tacere, Egregi Professori, che fu lui, d'accordo con alcuni di voi, ad avere l'idea che vediamo oggi realizzarsi. Egli mi ha reso sensibile al fascino del vostro Centro, che stava per lasciare, ed è stato lui a persuadermi che avrei potuto occupare questo posto, a cui io mai avrei pensato. Infine è da un nostro colloquio, dal nostro scambio di interrogativi e di riflessioni, che è scaturito il nome di questa cattedra. Il mio primo compito dev'essere quello di spiegare il nome «Poetica», che ho restituito al suo significato originale, diverso da quello d'uso comune. Mi è venuto in mente, e mi è sembrato l'unico adatto a designare il genere di studio che mi propongo di svolgere in questo corso. S'intende comunemente con questo termine ogni trattato o raccolta di regole, di convenzioni o di precetti concernenti la composizione dei poemi lirici e drammatici oppure la costruzione dei versi. Ma si può ritenere che in questa accezione sia abbastanza invecchiato, insieme con la cosa che designa, per dargli un diverso impiego. Tutte le arti ammettevano un tempo di sottostare, ciascuna secondo la propria natura, a certe forme o modi obbligati, imposti a tutte le opere dello stesso genere, che si potevano e dovevano apprendere, come si fa per la sintassi di una lingua. Non si ammetteva che gli effetti prodotti da un'opera, per quanto possenti o felici, fossero garanzie sufficienti a giustifi126

care l'opera stessa e ad assicurarle un valore universale. Il fatto non comportava il diritto. Si era ben presto riconosciuto che in ogni arte vi erano tecniche da raccomandare, prescrizioni e restrizioni .favorevoli a una migliore riuscita del progetto dell'artista, e che questi aveva tutto l'interesse a conoscerle e rispettarle. Ma, a poco a poco, grazie all'autorità di uomini illustri, si è introdotta l'idea di una specie di legalità, che si è sostituita alle iniziali raccomandazioni di natura empirica. Si ragionò e fu creato il rigore della regola. La si espresse in formule precise: la critica se ne armò. La conseguenza che ne derivò fu paradossale: una disciplina delle arti, che opponeva agli impulsi dell'artista difficoltà ragionate, conobbe un favore ampio e duraturo perché facilitava notevolmente il giudizio e la classificazione delle opere, mediante il semplice riferimento a un codice o a un canone ben definito. Per coloro che intendevano produrre risultava da quelle regole formali un'altra facilitazione. Condizioni estremamente limitative e severe dispensano l'artista da un gran numero di decisioni fra le più delicate_e lo sòllevano da molte responsabilità in questioni di forma mentre, al tempo stesso, possono suggerirgli invenzioni alle quali una libertà totale non l'avrebbe mai condotto. Ma, che lo si deplori o se ne gioisca, è finita da tempo nelle arti l'era dell'autorità, e la parola «Poetica» oggi non evoca altro che l'idea di prescrizioni fastidiose e sorpassate. Ho dunque creduto di poterla riprendere in un senso che rimanda all'etimologia, senza peraltro osare pronunciarla Poietica, termine usato in fisiologia quando si parla di funzione ematopoietiche e galattopoietiche. Ma è, in fondo, proprio la semplicissima nozione di fare che volevo esprimere. Il fare, il poiein, di cui intendo occuparmi, è quello che si conclude in un'opera, e che limiterò ora a quel genere di opere dette solitamente opere dell'intelletto, cioè quelle che la mente vuole produrre per suo proprio uso, utilizzando allo scopo tutti i mezzi fisici che le possono servire. Ogni opera può, allo stesso modo dell'atto semplice di cui

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parlavo, indurci o meno a meditare sulla sua creazione e suscitare o no un atteggiamento interrogativo più o meno pronunciato, più o meno esigente, che la _costituisca come problema. Un tale studio di per sé non si impone. Possiamo giudicarlo vano, possiamo anche stimare chimerica questa pretesa. Ma c'è di più: alcune menti troveranno questa ricerca non solo inutile ma perfino dannosa; e forse si sentiranno anche in obbligo di giudicarla tale. Si pensa per esempio che un poeta possa giustamente temere di alterare le sue doti originali e la sua capacità immediata di produrre, qualora ne facesse l'analisi. Egli istintivamente si rifiuta sia di approfondirle se non con l'esercizio della sua arte, sia di rendersene più interamente padrone mediante la ragione dimostrativa. Il nostro atto più semplice, il nostro gesto più familiare non potrebbe compiersi e il più piccolo dei nostri poteri ci sarebbe d'ostacolo se dovessimo richiamarlo alla mente e conoscerlo a fondo per esercitarlo. Achille non può vincere la tartaruga se pensa allo spazio e al tempo. Può tuttavia accadere che si provi un interesse così vivo per questa curiosità, che si attribuisca un'importanza così preminente al fatto di soddisfarla, da essere indotti a considerare con maggior favore e perfino con maggior passione, l'azione che fa, piuttosto che la cosa fatta. È a questo punto, Egregi Signori, che il mio compito deve necessariamente differenziarsi da quello che svolge da un lato la Storia della Letteratura, e dall'altro la Critica dei testi e delle opere. La Storia della Letteratura indaga le circostanze concrete in cui le opere furono composte, si manifestarono e produssero i loro effetti. Ci dà notizie sugli autori, sulle vicissitudini della loro vita e della loro opera, in quanto cose visibili che hanno lasciato delle tracce che è possibile rilevare, coordinare, interpretare. Essa raccoglie le tradizioni e i documenti. Non ho certo bisogno di ricordarvi l'erudizione e l'originalità di vedute con cui questo insegnamento fu impartito 128

proprio qui dal vostro eminente collega Abel Lefranc. Ma la conoscenza degli autori e della loro epoca, lo studio della successione dei fenomeni letterari ci spinge necessariamente a interrogarci su ciò che è potuto accadere nell'intimo di quei personaggi che hanno a buon diritto ottenuto di pervenire ai fasti della Storia Letteraria. Se l'hanno ottenuto, è stato grazie al concorso di due condizioni che è sempre possibile considerare come indipendenti: la prima è necessariamente la produzione dell'opera; l'altra è la produzione di un certo valore dell'opera, da parte di coloro che hanno conosciuto, apprezzato l'opera prodotta, che ne hanno imposto la fama e assicurato la trasmissione, la conservazione, l'esistenza ulteriore. Ho appena pronunciato le parole «valore» e «produzione». Mi ci soffermo un istante. Se si vuole esplorare il campo dell'intelletto creatore, non bisogna temere di attenersi, inizialmente, alle considerazioni di carattere più generale che ci permetteranno poi di avanzare senza dover essere costretti a ritornare troppo sui nostri passi. Esse ci forniranno anche il maggior numero di analogie, cioè il maggior numero possibile di espressioni che tendono sempre più a precisare fatti e idee che, a causa della loro stessa natura, sfuggono molto spesso a ogni tentativo di definizione diretta. Ecco perché faccio notare questo prestito di alcuni termini dall'economia: mi sarà forse comodo riunire sotto il nome di produzione e di produttore le varie attività e figure di cui dovremo occuparci, se vorremo parlare di ciò che hanno in comune senza far distinzioni tra le loro diverse nature. E non meno comodo sarà, prima di specificare se si parla di lettore, di ascoltatore o di spettatore, riunire tutte queste figure subalterne sotto il termine economico di consumatore. Per quanto riguarda la nozione di valore, è noto che essa svolge nell'universo dell'intelletto un ruolo di prim'ordine, paragonabile a quello che svolge nel mondo economico, sebbene il valore spirituale sia molto più sottile, essendo legato a necessità infinitamente più varie e non quantificabili come quelle dell'esistenza fisiologica. Se ancor oggi noi conosciamo

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l'Iliade e se l'oro, dopo tanti secoli, è rimasto qualcosa di più 0 meno semplice ma abbastanza notevole e generalmente venerato, ciò è dovuto al fatto che la rarità, l'inimitabilità e alcune altre caratteristiche distinguono l'oro e l'Iliade, rendendoli degli oggetti privilegiati, delle unità di valore. Senza voler insistere sul paragone economico, è tuttavia evidente che i concetti di lavoro, di creazione, e di accumulo di ricchezza, di domanda e di offerta si applicano molto naturalmente al campo che ci interessa. Sia per la loro somiglianza che per le loro diverse applicazioni, questi concetti espressi con termini identici ci ricordano come, in due ordini di fatti apparentemente molto distanti gli uni dagli altri, si pongano i problemi della relazione tra le persone e il loro ambiente sociale. Del resto, così come esiste un'analogia economica, e per gli stessi motivi, esiste pure un'analogia politica tra i fenomeni della vita intellettuale organizzata e quelli della vita pubblica. Vi è tutta una politica del potere intellettuale, una politica interna (molto interna, s'intende) e una politica estera; questa è di competenza della Storia letteraria di cui, fra l'altro, dovrebbe costituire uno degli oggetti principali. Fin dal nostro primo sguardo sull'universo della mente, quando anche lo considerassimo come un sistema perfettamente isolabile nella fase di formazione delle opere, le nozioni di politica e di economia così generalizzate si impongono e appaiono profondamente insite nella maggior parte di quelle creazioni, e sempre presenti in prossimità di quegli atti. Al fondo stesso del pensiero dello studioso o dell'artista tutto assorto nella sua ricerca, e in apparenza completamente isolato nella sua sfera, a tu per tu con ciò che vi è di più profondamente sé e di più impersonale, esiste un indefinibile presentimento delle reazioni esterne che provocherà l'opera in via di formazione: l'uomo è difficilmente solo. Questa azione di presenza dev'essere sempre presupposta, senza timore di sbagliare; ma essa si combina così sottilmente con gli altri fattori dell'opera, si maschera a volte talmente bene che risulta quasi impossibile isolarla. 130

Sappiamo tuttavia che il vero senso di una certa scelta o di un certo sforzo di un creatore si trova spesso al di fuori della creazione stessa, e risulta da una preoccupazione più 0 meno cosciente dell'effetto che verrà prodotto e delle sue conseguenze per il produttore. Così, durante il suo lavoro, l'intelletto passa incessantemente dal Medesimo all'Altro; e modifica ciò che produce il suo essere più interiore, secondo quella particolare sensazione del giudizio di terzi. E dunque, nelle nostre riflessioni su un'opera, possiamo assumere l'uno o l'altro di questi due atteggiamenti che si escludono a vicenda. Se intendiamo procedere col massimo rigore possibile in tale materia, dobbiamo imporci di separare accuratamente la nostra ricerca sulla genesi di un'opera, dal nostro studio sulla produzione del suo valore, cioè degli effetti che può generare in luoghi, menti ed epoche diverse. Per dimostrarlo basta notare che, in ogni campo, possiamo realmente sapere o credere di sapere soltanto ciò che possiamo osservare o fare noi stessi, e che non si può riunire in un medesimo stato e in una medesima attenzione, l'osservazione della mente che produce l'opera e l'osservazione della mente che produce un qualche valore di quest'opera. Non esiste sguardo capace di osservare contemporaneamente queste due funzioni; produttore e consumatore sono due sistemi essenzialmente separati. L'opera è per il primo il termine, per l'altro l'origine di sviluppi che possono essere completamente estranei l'uno all'altro. Bisogna perciò concludere che qualsiasi giudizio che esprima una relazione a tre termini fra il produttore, l'opera e il consumatore - e siffatti giudizi non sono rari nella critica - è un giudizio illusorio che non può avere alcun senso e che si deteriora non appena diventa oggetto di riflessione. Noi non possiamo che osservare la relazione dell'opera con il suo produttore, oppure la relazione dell'opera con colui che essa modifica quando è ormai realizzata. L'azione del primo e la reazione del secondo non possono mai confondersi. Le opinioni che l'uno e l'altro si fanno dell'opera sono incompatibili. Ne risultano frequenti sorprese, alcune delle quali vantag131

giose. Vi sono dei malintesi creativi; ed esiste una quantità di effetti- tra i più efficaci -che esigono l'assenza di qualsiasi relazione diretta fra le due attività interessate. Una certa opera, per esempio, è frutto di meticolose cure e riassume infiniti tentativi, riprese, scarti e scelte. Ha richiesto mesi, forse anni di riflessione e può anche implicare le esperienze e le acquisizioni di un'intera vita. Ebbene, l'effetto di quest'opera si manifesterà in alcuni istanti. Sarà sufficiente un'occhiata per apprezzare un imponente monumento e rimanerne impressionati. In due ore tutti i calcoli del poeta tragico, tutta la fatica spesa per strutturare il suo testo e formarne i versi uno ad uno; tutte le combinazioni armoniche e orchestrali che il compositore ha costruito; o tutte le meditazioni del filosofo e gli anni in cui ha rinviato, conservato i suoi pensieri nell'attesa di scorgerne e accettarne la disposizione definitiva, tutti questi atti di fede, tutte queste scelte, tutte queste transazioni mentali giungono infine, sotto forma di opera compiuta, a colpire, sorprendere, meravigliare e sconcertare la mente dell'Altro, bruscamente sottoposto allo stimolo di questa enorme mole di lavoro intellettuale. Vi è in tutto ciò un'azione di dismisura. Si potrebbe paragonare tale effetto (molto sommariamente, si intende) a quello prodotto dalla caduta, in pochi secondi, di una massa sollevata frammento per frammento in cima ad una torre, senza preoccuparsi né del tempo, né del numero di viaggi. Si ottiene in questo modo l'impressione di una forza sovrumana. Ma, come si sa, tale effetto non sempre si produce; può succedere, all'interno di questa meccanica intellettuale, che la torre sia troppo alta, la massa troppo grande, e che si riscontri perciò un risultato nullo o negativo. Supponiamo invece che si verifichi il grande effetto. Le persone che l'hanno subito e sono state come sopraffatte dalla potenza, la perfezione, la quantità di scelte felici, le piacevoli sorprese accumulate, non possono né devono immaginarsi tutto il lavoro interno, le possibilità vagliate, le prolungate ricerche di elementi favorevoli, i ragionamenti sottili le cui 132

conclusioni assumono l'apparenza di rivelazioni; in breve, la quantità di vita interiore che fu trattata dal chimico dell'intelletto produttore o scelta nel caos mentale da un demone alla Maxwell; e queste persone saranno dunque indotte ad immaginare un essere dagli immensi poteri, capace di creare tali prodigi senz' altro sforzo che quello necessario per creare una qualsiasi cosa. Ciò che l'opera allora produce in noi è incommensurabile con le nostre facoltà di produzione istantanea. Del resto, certi elementi dell'opera, sorti nell'autore per qualche caso fortunato, verranno attribuiti ad una singolare virtù della sua mente. Il consumatore diviene così a sua volta produttore: anzitutto, del valore dell'opera; poi, in virtù di un'immediata applicazione del principio di causalità (che in fondo è solo un'espressione ingenua di uno dei modi di produzione mentale) diviene produttore del valore di quell'essere immaginario che ha creato ciò che egli ammira. Forse, se i grandi uomini fossero coscienti quanto grandi, nessun grande uomo sarebbe tale per se stesso. Così, ed è qui che volevo giungere, quest'esempio, benché molto particolare, ci fa capire che l'indipendenza o l'ignoranza reciproca dei pensieri e delle condizioni del produttore e del consumatore è quasi essenziale per l'effetto delle opere. Il segreto e la sorpresa che gli strateghi raccomandano spesso nei loro scritti sono qui senz'altro assicurati. In sintesi, quando parliamo di opere dell'intelletto, intendiamo o il termine di una certa attività oppure l'origine di un'altra attività e questo crea due ordini di modificazioni incomunicabili, ognuno dei quali ci richiede un adattamento speciale, incompatibile con l'altro. Rimane l'opera in sé, in quanto cosa sensibile. Ecco una terza considerazione, ben diversa dalle altre due. Noi guardiamo allora un'opera come un oggetto, solo oggetto, vale a dire senza mettervi nulla di nostro al di fuori di ciò che si può applicare indistintamente a tutti gli oggetti: atteggiamento questo, caratterizzato dall'assenza di qualsiasi produzione di valore. 133

Che possiamo fare di questo oggetto che non ha ora alcun potere su di noi? Ma noi ne abbiamo su di lui. Possiamo misurarlo in base alle sue caratteristiche spaziali o temporali, contare le parole di un testo o le sillabe di un verso; constatare che un certo libro è apparso in una tal epoca; che una composizione di un quadro è il calco di un'altra; che esiste in Lamartine un emistichio presente anche in Thomas, e che una certa pagina di Victor Hugo appartiene, dal 1645, a uno sconosciuto Père François. Possiamo rilevare come un certo ragionamento sia un paralogismo, un sonetto sia difettoso, il disegno di un braccio una sfida all'anatomia e un certo impiego di termini, insolito. Tutto ciò è il risultato di processi riconducibili ad operazioni puramente materiali, poiché si riducono a sovrapposizioni dell'opera o di suoi frammenti a un modello. Trattando così le opere dell'intelletto non le distinguiamo da tutte le possibili opere. Le poniamo e le manteniamo al rango di cose, imponendo loro un'esistenza definibile. Ed ecco il punto che bisogna ricordare: Tutto ciò che possiamo definire si distingue immediatamente dall'intelletto produttore e gli si oppone. L'intelletto ne fa, allo stesso tempo, una materia sulla quale operare o uno strumento con il quale operare. Esso pone dunque al di fuori della sua portata ciò che ha ben definito dimostrando, in tal modo, di conoscersi e di fare affidamento solo su ciò che è diverso da lui. Le distinzioni appena proposte nella nozione di opera, da cui risulta suddivisa, non per amor di sottigliezza ma con il semplice riferimento a osservazioni immediate, tendono a porre in evidenza l'ideale di cui mi servirò per analizzare la produzione delle opere dell'intelletto. Si può riassumere quanto detto finora in queste poche parole: l'opera dell'intelletto non esiste che in atto, al di fuori del quale resta solo un oggetto che con la mente non ha alcuna relazione particolare. Trasportate la statua che più ammirate presso una popolazione abbastanza diversa dalla nostra: sarà soltanto una pietra insignificante. Un Partenone non sarà che una piccola cava di marmo. Il testo poetico cessa immediata134

mente di essere un'opera dell'intelletto se utilizzato come raccolta di difficoltà grammaticali o di esempi, poiché l'uso che se ne fa è totalmente estraneo alle condizioni della sua nascita e gli viene d'altro canto negato quel valore di consumo che gli dà un senso. Una poesia sulla carta è solo uno scritto, sottoposto a tutto ciò che di uno scritto si può fare. Ma fra tutte le sue possibilità ve n'è una, e una soltanto, che pone infine il testo nelle condizioni da cui trarrà forza e forma d'azione. Una poesia è un discorso che esige e implica un legame continuato fra la voce che è e la voce che viene e deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi e da suscitare lo stato affettivo di cui il testo sia l'unica espressione verbale. Togliete la voce, la voce che ci vuole, tutto diventa arbitrario. La poesia si trasforma in una serie di segni, legati tra loro solo per il fatto di essere materialmente tracciati gli uni dopo gli altri. Per questi motivi, non cesserò di condannare l'odiosa pratica che consiste nell'abusare delle opere migliori al fine di creare e sviluppare il sentimento della poesia fra i giovani; nel trattare le poesie come cose e ritagliarle come se la composizione non contasse affatto, nell'ammettere, se non nell'esigere che siano recitate nel modo che sappiamo, usate come prove di memoria e di ortografia; in breve, nel fare astrazione dall'essenziale di quelle opere, da ciò che le fa essere ciò che sono, e non altro, e conferisce loro virtù e necessità proprie. L'esecuzione della poesia è la poesia stessa. Al di fuori ciò, quelle sequenze di parole curiosamente riunite sono costruzioni inesplicabili. Le opere dell'intelletto, poesia o altro, si riferiscono soltanto a ciò che fa nascere ciò che le fece nascere, e assolutamente a nient'altro. Possono certo manifestarsi divergenze fra le interpretazioni poetiche di una poesia, fra le impressioni e i significati o piuttosto fra le risonanze che l'opera provoca nell'uno o nell'altro. Ma ecco che, se vi riflettiamo, questa osservazione banale assume un ruolo di primaria importanza: la diversità possibile degli effetti legittimi di un'opera è il marchio stesso della mente. D'altronde, essa corrisponde alla 135

pluralità delle vie che si sono offerte all'autore durante il suo lavoro di produzione. Ciò è dovuto al fatto che ogni atto della mente è sempre come accompagnato da un'atmosfera d'indeterminazione più o meno sensibile. Mi scuso per questa espressione. Non ne trovo una migliore. Poniamoci nello stato in cui ci trasporta un'opera, una di quelle che ci costringono a desiderarle tanto più, quanto più le possediamo, o ne siamo posseduti. Ci troviamo allora combattuti fra sentimenti nascenti, la cui alternanza e il cui contrasto sono davvero notevoli. Da un lato sentiamo che l'opera che agisce su di noi ci è così confacente, da non poterla concepire diversa. Anche in certi casi di supremo appagamento, sentiamo di trasformarci profondamente per acquisire una sensibilità capace di una simile pienezza di diletto e di comprensione immediata. Ma sentiamo non meno fortemente, e come per mezzo di un sesto senso, che il fenomeno che provoca e sviluppa in noi questo stato, che ce ne infligge la potenza, avrebbe potuto non essere, avrebbe persino dovuto non essere, e si colloca nell'improbabile. Mentre il nostro piacere o la nostra gioia è forte, forte come un fatto, l'esistenza e la formazione del mezzo, cioè dell'opera che genera la nostra sensazione, ci sembrano accidentali. Questa esistenza ci appare come l'effetto di un caso straordinario, di un sontuoso dono della fortuna, ed è in ciò (non dimentichiamo di notarlo) che si scopre un'analogia particolare fra questo effetto di un'opera d'arte e quello di certi aspetti della natura: irregolarità geologica, o combinazioni passeggere di luce e vapore nel cielo della sera. Talvolta non possiamo immaginare che un uomo come noi sia l'autore di un dono così straordinario, e la gloria che gli tributiamo è r espressione della nostra impotenza. Ma comunque si svolgano nel produttore questi giochi o questi drammi, tutto deve compiersi nell'opera visibile, e trovare proprio grazie a questo fatto una determinazione finale assoluta. Questo è il risultato di una serie di modificazioni interiori che, per quanto disordinate, devono necessaria136

mente risolversi, nel momento in cui la mano agisce, in un comando unico, più o meno felice. Ora, questa mano, quest'azione esteriore, risolve necessariamente, in bene o in male, lo stato di indeterminazione di cui parlavo. La mente che produce sembra d'altronde cercare di imprimere alla sua opera dei caratteri completamente opposti ai suoi propri. Sembra sfuggire in un'opera l'instabilità, l'incoerenza, l'incongruenza che riconosce in sé e che costituiscono il suo stato più frequente. E dunque, agisce contro gli interventi, in ogni senso e di ogni sorta, che deve continuamente subire. Essa riassorbe la varietà infinita degli accidenti; respinge le sostituzioni casuali di immagini, di sensazioni, di impulsi e di idee che attraversano le altre idee. Lotta contro ciò che è costretta ad ammettere, a produrre o a emettere; e insomma, contro la sua natura e la sua attività accidentale e istantanea. Durante la meditazione, la mente stessa gira intorno al proprio punto di riferimento. Tutto le serve per distrarsi. San Bernardo osserva: (( Odoratus impedit cogitationem >>. Perfino nella testa più solida la contraddizione è regola; la consequenzialità rigorosa è l'eccezione. E questo stesso rigore è un artificio da logico che consiste, come tutti gli artifici che la mente inventa contro se stessa, nel materializzare gli elementi del pensiero, che egli chiama «concetti», sotto forma di insiemi o di domini accordando a questi oggetti intellettuali una durata indipendente dalle vicissitudini della mente, poiché la logica, dopo tutto, non è che una speculazione sulla permanenza delle osservazioni. Ma ecco una circostanza davvero sorprendente: questa dispersione, sempre imminente, è importante per la produzione dell'opera e vi concorre quasi quanto la concentrazione stessa. La mente all'opera, in lotta contro la mobilità, l'inquietudine costituzionale e la varietà che le sono proprie, contro la dissipazione e la naturale degradazione di ogni capacità specializzata, trova, d'altra parte, in questa stessa condizione, delle incomparabili risorse. L'instabilità, l'incoerenza, la non consequenzialità di cui parlavo, che ostacolano e limitano la mente nella sua impresa di costruzione o di 137

composizione rigorosa, sono d'altra parte tesori di possibilità, dei quali essa intravvede la ricchezza solo all'approssimarsi! del momento in cui si consulta. Sono riserve dalle quali può aspettarsi di tutto, delle ragioni per sperare che la soluzione, il segnale, l'immagine, la parola mancante le siano più vicini di quanto non veda. La mente può sempre presentire nella sua penombra la verità o la decisione cercata che, come essa sa, è alla mercè di un nonnulla, di questo stesso disturbo insignificante che sembrava distrarla e allontanarla indefinitamente. Talvolta, ciò che desideriamo veder apparire nel nostro pensiero (anche un semplice ricordo) è per noi come un oggetto prezioso da poter tenere e toccare solo attraverso una stoffa che lo avvolge e lo nasconde ai nostri occhi. È e non è nostro, e il minimo incidente lo svela. Talvolta invochiamo ciò che dovrebbe essere, avendolo definito in base a precise condizioni. Lo ricerchiamo, immobili davanti a un vago insieme di elementi, a noi ugualmente prossimi e dei quali nessuno accenna a staccarsi per venire incontro alla nostra esigenza. Imploriamo dalla nostra mente una manifestazione di ineguaglianza. Poniamo davanti a noi stessi il nostro desiderio, come si oppone una calamita al disordine di una polvere composita, dalla quale un corpuscolo di ferro si separerà improvvisamente. Sembra che ci siano, nell'ambito dei fatti mentali, relazioni misteriosissime fra il desiderio e l'avvenimento. Non voglio dire che il desiderio dell'intelletto crei una specie di campo, molto più complesso di un campo magnetico e che abbia il potere di attrarre quello che ci conviene. Questa immagine non è che un modo per esprimere un fatto osservabile, sul quale tornerò più avanti. Ma per quanto grandi siano la chiarezza, l'evidenza, la forza, la bellezza dell'avvenimento spirituale che pone fine alla nostra attesa, che conclude il nostro pensiero o elimina il nostro dubbio, nulla è ancora irrevocabile. Qui, l'istante successivo ha potere assoluto sul prodotto dell'istante precedente. Poiché la mente, ridotta alla sua sola sostanza, non può disporre del finito, né vincolarsi in alcun modo. Quando affermiamo che il nostro parere su un certo punto è 138

definitivo, lo diciamo per renderlo tale: ricorriamo agli altri. Il suono della nostra voce ci rassicura molto più del fermo proposito interiore che essa a parole pretende che noi concepiamo. Quando riteniamo di aver concluso qualche pensiero, non ci sentiamo mai sicuri di poterlo riprendere senza completare o distruggere ciò che abbiamo fissato. Ed è per questo che la vita dell'intelletto fa violenza a se stessa non appena si applica ad un'opera. Qualsiasi opera esige delle azioni volontarie (per quanto essa comporti sempre un gran numero di elementi all'interno dei quali ciò che chiamiamo volontà non ha nessuna funzione). Ma la nostra volontà, il nostro potere che si esprime quando tenta di rivolgersi al nostro stesso intelletto e di farsi obbedire da lui, si riducono sempre a una semplice battuta d'arresto, al mantenimento oppure al rinnovamento di alcune condizioni. Infatti, possiamo agire direttamente solo sulla libertà del sistema del nostro intelletto. Possiamo abbassare il livello di questa libertà, ma per il resto, intendo dire per le sostituzioni e i cambiamenti che questa costrizione ancora permette, aspettiamo semplicemente che quanto desideriamo si produca, poiché non possiamo far altro che attendere. Non

abbiamo alcun mezzo per raggiungere esattamente in noi quello che ci auguriamo di ottenere. In effetti questa esattezza, questo risultato sperato e il nostro desiderio sono formati dalla stessa so~tanza mentale e forse si ostacolano l'un l'altro con la loro attività simultanea. È noto come accada abbastanza di frequente che la soluzione desiderata giunga a noi dopo un periodo di disinteresse per il problema, quasi come ricompensa della libertà resa al nostro intelletto. Quanto ho appena detto si applica più esattamente al produttore, ma vale anche per il consumatore dell'opera. In quest'ultimo, la produzione di valore ovvero, per esempio, la comprensione, l'interesse suscitato, lo sforzo compiuto per possedere più pienamente l'opera, potrebbe dar luogo ad osservazioni analoghe.

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Sia che io mi vincoli alla pagina che devo scrivere o a quella che voglio ascoltare, entro comunque in una fase di minore libertà. Ma in entrambi i casi questa restrizione può presentarsi sotto due aspetti completamente opposti. Talvolta il mio compito stesso m'incita a ricercarla e, lungi dal sentirla come un peso, come uno scarto dal corso ·più naturale della mia mente, mi abbandono ad essa, e avanzo con un tale vigore lungo la via tracciata dal mio progetto che la sensazione di fatica ne viene diminuita, fino al momento in cui essa d'un tratto obnubila realmente il pensiero, e ingarbuglia il gioco delle idee per ricostituire il disordine degli scambi normali di breve respiro, lo stato d'indifferenza dispersiva e riposante. Ma talvolta la costrizione è in primo piano, il mantenimento della direzione è sempre più arduo, il lavoro diventa più sensibile del suo effetto, il mezzo si oppone al fine, e la tensione della mente dev'essere alimentata per mezzo di risorse sempre più precarie ed estranee all'oggetto ideale di cui bisogna mantenere viva la potenza e l'azione, a costo di una fatica che diviene presto insopportabile. Vi è qui un forte contrasto tra due applicazioni della nostra mente. Mi servirà a dimostrarvi che la precauzione da me presa nel sottolineare la necessità di considerare le opere solo nell'atto di produzione o in quello di consumo, era perfettamente conforme a ciò che si può osservare; e, d'altra parte, ci fornisce al tempo stesso la possibilità di introdurre una distinzione molto importante fra le opere dell'intelletto. Tra queste opere, la consuetudine crea una categoria detta delle opere d'arte. Non è molto semplice precisare questo termine, ammesso che si debba precisarlo. Anzitutto non vedo nulla, nella produzione delle opere, che mi costringa veramente a creare una_ categoria dell'opera d'arte. Un po' ovunque, nelle menti, trovo attenzione, brancolamenti, luce inattesa e notti oscure, improvvisazioni e tentativi, o riprese molto insistenti. In tutti i focolari mentali vi sono fuoco e ceneri; prudenza e imprudenza; il metodo e il suo contrario; il caso sotto mille forme. Artisti, scienziati, tutti s'identificano nei particolari di questa strana vita del pensiero. Si può dire che 140

ad ogni istante la differenza funzionale fra le menti al lavoro è indistinguibile. Ma se si volge l'attenzione agli effetti delle opere compiute, si scopre in alcune una particolarità che le raggruppa e le oppone a tutte le altre. Una data opera che abbiamo prescelto si divide in parti complete, ciascuna delle quali ha in sé di che creare un desiderio e di che soddisfarlo. L'opera ci offre, in ognuna delle sue porzioni, l'alimento e lo stimolo al tempo stesso. Risveglia continuamente in noi la sete e la sorgente. In cambio della parte di libertà che le cediamo, ci dà l'amore della prigionia che essa c'impone e il sentimento di una specie deliziosa di conoscenza immediata; e fa tutto questo utilizzando, con nostro immenso piacere, la nostra energia che essa richiama a sé in modo talmente conforme al rendimento più favorevole delle nostre risorse organiche, da rendere inebriante la sensazione stessa dello sforzo, e da farci sentire possessori pur essendo magnificamente posseduti. Dunque più diamo e più vogliamo dare, credendo invece di ricevere. Ci anima l'illusione di agire, di esprimere, di scoprire, di capire, di risolvere, di vincere. Questi effetti, che raggiungono talvolta livelli prodigiosi sono istantanei, come tutto ciò che ha potere sulla sensibilità; essi attaccano per la via più breve i punti strategici che comandano la nostra vita affettiva, costringono per il suo tramite la nostra disponibilità intellettuale, accelerano, sospendono, o anche regolarizzano i diversi meccanismi, il cui accordo o disaccordo ci dà infine tutte le modulazioni della sensazione di vivere, dalla calma più piatta fino alla tempesta. Il solo timbro del violoncello domina molte persone in modo viscerale. In un autore la frequenza di alcune parole ci rivela come esse siano per lui dotate, diversamente da quanto lo sono in generale, di risonanza e, quindi, di forza positivamente creatrice. È questo un esempio di quelle valutazioni personali, di quei grandi valori-per-uno-solo, che svolgono certamente uno splendido ruolo in una produzione mentale, in cui la singolarità è un elemento di primaria importanza. Queste considerazioni ci serviranno per chiarire in parte il 141

costituirsi della poesia, che è piuttosto misterioso. È strano come ci s'ingegni a comporre un discorso che deve osservare delle condizioni simultanee estremamente disparate: mUSicali, razionali, significative, suggestive che esigono un legame continuamente mantenuto tra un ritmo e una sintassi, tra il suono e il senso. Non vi sono relazioni concepibili fra queste parti. Dobbiamo crearci l'illusione della loro intimità profonda. A che serve tutto ciò? L'osservanza dei ritmi, delle rime, della melodia verbale ostacola i movimenti diretti del mio pensiero, ed ecco che non posso più dire ciò che voglio ... Ma cosa voglio dunque? Questo è il problema. Si conclude che è qui necessario voler quello che si deve volere, affinché il pensiero, il linguaggio con le sue convenzioni tratte dalla vita esteriore, il ritmo e gli accenti della voce, che appartengono invece direttamente all'essere, si accordino; tale accordo esige sacrifici reciproci, dei quali il più notevole è quello che il pensiero deve accettare. Spiegherò un giorno come questa alterazione si riscontri nel linguaggio dei poeti, e come esista un linguaggio poetico in cui le parole non sono più quelle dell'uso pratico e libero. Esse non si associano più in base alle stesse attrazioni; sono connotate da due valori assunti simultaneamente e di uguale importanza: il loro suono e il loro effetto psichico immediato. Fanno allora pensare ai numeri complessi dei matematici, e l'abbinamento della variabile fonetica con la variabile semantica genera problemi di prolungamento e di convergenza, che i poeti risolvono ad occhi chiusi, - ma li risolvono (e questo è l'essenziale), di tanto in tanto ... Di Tanto in Tanto, ecco l'espressione chiave! Ecco l'incertezza, la disparità dei momenti e degli individui. Qui sta il fatto di capitale importanza. Sarà necessario ritornare a lungo su questo punto, poiché tutta l'arte, poesia o altro, consiste nel difendersi dalla discontinuità del momento. Quel che ho appena abbozzato in questo esame sommario, riguardante la nozione generale dell'opera, deve condurmi infine a indicare i presupposti da cui sono partito per esplorare l'immenso campo di produzione delle opere dell'intel142

Ietto. Ho tentato, in pochi istanti, di darvi un'idea della complessità di questi problemi, dove si può dire che tutto interviene contemporaneamente, e dove ciò che vi è di più profondo nell'uomo si combina con un gran numero di fattori esterni. Tutto questo si riassume nella seguente formula: nella produzione dell'opera, l'azione viene a contatto con l'indefinibile. Un'azione volontaria che, in ogni arte, è estremamente composita e può richiedere lunghe ricerche, attenzioni fra le più astratte, e conoscenze molto precise, giunge ad adattarsi nell'operazione artistica a uno stato dell'essere del tutto irriducibile in sé ad un'espressione finita, e non riferibile ad alcun oggetto che si possa localizzare, individuare e raggiungere con un sistema di atti uniformemente determinati; e tutto ciò troverà compimento nell'opera, il cui effetto dovrà essere tale da ricostituire in altri uno stato analogo - non dico simile (poiché non ne sapremo mai nulla), ma analogo allo stato iniziale del produttore. E così da una parte l'indefinibile, dall'altra un'azione necessariamente finita; da una parte uno stato, talvolta una pura sensazione che produce valore e impulso, stato la cui unica caratteristica è di non corrispondere ad alcun termine finito della nostra esperienza; e dall'altra parte l'atto, vale a dire la determinazione essenziale, poiché un atto è una miracolosa fuga dal chiuso mondo del possibile e un'immissione nell'universo del fatto: quest'atto, prodotto di frequente contro l'intelletto, con tutti i suoi particolari; uscito dall'instabilità, come Minerva tutta armata uscita dalla mente di Giove, antica immagine ancora piena di significato! Accade in effetti all'artista - ed è il caso più favorevole - che sia proprio il movimento interno di produzione a procurargli al tempo stesso e indistintamente l'impulso, il fine esterno immediato, i mezzi o i dispositivi tecnici dell'azione. In genere si stabilisce un regime di esecuzione, durante il quale avviene uno scambio più o meno vivace fra le esigenze, le conoscenze, le intenzioni, i mezzi, tutto il campo mentale e strumentale, tutti gli elementi d'azione, di un'azione il cui

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stimolo non risiede nel mondo dove sono situati gli scopi dell'azione ordinaria, e non può quindi dar adito a una previsione che determini la formula degli atti da compiere per poterla sicuramente raggiungere. Infine, rappresentandomi questo fatto così notevole (per quanto assai poco notato, mi pare) cioè l'esecuzione di un atto come compimento, esito, determinazione finale di uno stato inesprimibile in termini finiti (vale a dire che annulla del tutto la sensazione-causa), ho adottato la risoluzione di impostare questo corso sul tipo di azione umana più generale possibile. Ho pensato fosse necessario ad ogni costo fissare una linea semplice, una specie di tracciato geodetico attraverso osservazioni e idee di una materia multiforme, consapevole che in uno studio mai, per quanto ne sappia, affrontato in precedenza nel suo insieme, è illusorio cercare un ordine intrinseco, uno sviluppo senza ripetizioni che permetta di enumerare problemi secondo il progresso di una variabile, poiché questa variabile non esiste. Dal momento in cui l'intelletto è chiamato in causa, tutto è in causa; tutto è disordine ed ogni reazione contro il disordine è della sua stessa specie. Del resto questa confusione è la condizione stessa della sua fecondità: ne contiene la promessa poiché questa fecondità dipende dall'inatte-So piuttosto che dall'atteso, e da ciò che ignoriamo, e per il fatto stesso che l'ignoriamo, piuttosto che da ciò che sappiamo. Ma come potrebbe essere altrimenti? Il campo che tento di percorrere è illimitato, ma tutto si riduce a proporzioni umane non appena ci si attenga alla propria esperienza, alle osservazioni compiute in prima persona, ai mezzi che si sono sperimentati. Mi sforzo di non dimenticare mai che ciascuno è la misura delle cose. (1937)

Note l

Lett. « au voisinage», espressione del linguaggio matematico: «all'intorno».

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Frammenti di memorie di un poema

Vivevo lontano da ogni tipo di letteratura, senza alcuna intenzione di scrivere per essere letto, e dunque in pace con tutti quelli che leggono, quando, verso il 1912, Gide e Gallimard mi chiesero di riunire e di pubblicare alcuni versi che avevo scritto vent'anni prima, e che a quell'epoca erano apparsi in alcune riviste. Rimasi stupefatto. Non riuscii a soffermarmi più di un momento su quella proposta rivolta a qualcosa che non esisteva più nella mia mente, e che non poteva più risvegliare in essa nulla di seducente. Il vago ricordo di quei brevi componimenti non mi era gradito: non provavo per essi alcuna indulgenza. Se alcuni erano piaciuti nella ristretta cerchia in cui erano stati prodotti a quel tempo, l'epoca ed il clima favorevole erano svaniti come la mia disposizione d'animo. Anche se d'altronde non avevo seguito le sorti della poesia per tanti anni, non ignoravo che il gusto non era più lo stesso: la moda era cambiata. Ma se anche fosse rimasta quale l'avevo conosciuta, poco mi sarebbe importato, perché mi ero reso insensibile a qualsiasi moda. Avevo abbandonato la partita, appena intrapresa e con noncuranza, come un uomo che non è abbagliato da speranze

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di questo genere e vede proprio nel gioco di rivolgersi alla mente la certezza di perdere la propria «anima», - cioè la libertà, la purezza, la singolarità e l'universalità dello spirito. Non dico che «avessi ragione» ... Non conosco nulla di più insensato, insieme di più volgare, che voler avere ragione.

e

Avevo sempre provato un certo disagio mentale quando pensavo alle Lettere. L'amicizia più fascinosa ed entusiastica mi spingeva ad arrischiarmi in questa strana carriera in cui bisogna essere se stessi per gli altri. Mi sembrava che vivere per pubblicare significasse votarsi ad un'eterna ambiguità. «Come piacere e al tempo stesso piacersi?» mi domandavo ingenuamente. Appena il piacere procuratomi da certe letture risvegliava in me il demone che impone di scrivere, subito qualch~ riflessione di ugual forza e di senso contrario si opponeva alla tentazione. Confesso che prendevo molto sul serio le vicende del mio intelletto, e mi preoccupavo della sua salute come altri fanno per la loro anima. Consideravo nullo e trascuravo ciò che esso può produrre senza fatica, poiché ritenevo che solo lo sforzo ci trasforma e muta quella prima scioltezza che nasce dall'occasione e in essa si esaurisce, in una facilità ultima che sa creare l'occasione e può dominarla. Così dai gesti incantevoli della prima infanzia agli atti puri e stupendamente precisi dell'atleta o della danzatrice, il corpo vivente si eleva nel possesso di sé attraverso la consapevolezza, l'analisi e l'esercizio. Quanto alle Lettere, si trattava di accordare loro un ruolo fuori dall'ordinario e di definirle in maniera originale. Nel mio sistema le opere divenivano un mezzo che consentiva di modificare per reazione l'essere del loro autore, mentre nell' opinìone generale esse rappresentano un punto d'arrivo, sia che rispondano ad una necessità di espressione, sia che mirino a qualche vantaggio esterno: denaro, donne o gloria. La Letteratura si propone anzitutto come un metodo per sviluppare la nostra facoltà di invenzione e il dinamismo 146

mentale, nella più assoluta libertà, dal momento che essa ha per sostanza e per agente la parola, liberata da tutto il suo peso di utilità immediata, e subordinata a tutte le funzioni e a tutte le fascinazioni immaginabili. Ma il fatto di agire su un pubblico indistinto interviene subito a guastare questa bella promessa. Lo scopo di un'arte può essere soltanto la produzione dell'effetto più riuscito su persone sconosciute, che siano o le più numerose o le più raffinate possibili ... Quale che sia l'esito dell'impresa, essa ci porta dunque ad una dipendenza da altri ai quali attribuiamo uno spirito e dei gusti che finiscono per introdursi nel nostro intimo. Anche l'impresa più disinteressata, quella che crediamo più riservata, ci allontana insensibilmente dall'ambizioso disegno di portare il nostro io all'apice del desiderio di possedersi, e sostituisce la considerazione di probabili lettori alla nostra idea originaria di un testimone diretto o di un giudice implacabile del nostro sforzo. Rinunciamo senza saperlo ad ogni rigore o perfezionismo, ad ogni profondità difficilmente comunicabile, perseguiamo solamente ciò che può essere volgarizzato, concepiamo solo ciò che può essere pubblicato, poiché non si può arrivare se non soli fino al termine del proprio pensiero, cui si giunge solo per una sorta di abuso di sovranità interiore. Forse tanti ragionamenti di parte manifestavano soltanto una mia naturale ripugnanza nei confronti di una forma di attività definibile quasi come una continua confusione tra la vita, il pensiero e la professione di colui che vi si dedica. Palissy non gettava che i suoi mobili nel fuoco del suo forno da ceramica. Lo scrittore brucia tutto ciò che egli è e tutto ciò che lo concerne. I suoi piaceri e le sue pene, le sue faccende, il suo Dio, la sua infanzia, la sua donna, i suoi amici e i suoi nemici, il suo sapere e la sua ignoranza, tutto precipita sulla pagina fatale; c'è chi si attribuisce avventure, chi tormenta qualche piaga, chi coltiva le sue disgrazie per poi scriverne e da quando è stata inventata la «sincerità» come valore di scambio letterario (cosa abbastanza strana dove impera la finzione) non vi è tara, anomalia, riserva che non sia divenuta oggetto pregiato: una confessione vale un'idea.

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Farò dunque la mia, denunciando anch'io la mia anomalia. Se si considera umano questo sistema di esporre in pubblico le proprie faccende private, io devo dichiararmi essenzialmente inumano. Non che non mi divertano, quando sono dati per quello che sono, gli effetti letterari ottenuti mediante il facile contrasto tra i costumi della media e quelli particolari, tra i comportamenti ammessi e quelli possibili: in questo genere preferisco Restif a Jean Jacques, e talvolta, il Cavaliere di Seingalt a Stendhal. L'impudicizia non ha alcun bisogno di considerazioni generali. Mi piace pura. Quanto ai racconti ed alla storia, mi capita di !asciarmi appassionare e di ammirarli, come stimoli, passatempi ed opere d'arte, ma se aspirano alla «verità» e si illudono di essere presi sul serio, subito l'arbitrarietà e le convenzioni inconsapevoli si manifestano; mi tenta allora la mania perversa delle possibili sostituzioni. La mia stessa vita non sfugge a questo sguardo. Mi sento stranamente distinto dalle sue circostanze. La mia memoria è solo memoria di idee e di qualche sensazione. Gli eventi della mia vita svaniscono in fretta. Ciò che ho fatto, ben presto non mi appartiene più. I ricordi che fanno rivivere mi sono penosi, e i migliori, insopportabili. Non sarò certo io a tentare di ritrovare il tempo perduto! E infine, le situazioni, le combinazioni di personaggi, i soggetti di racconti e di drammi non trovano certo in me un terreno fertile in cui produrre sviluppi in una sola direzione. Sarebbe forse interessante fare una volta un'opera che mostrasse a ciascuno dei suoi punti nodali la molteplicità di sviluppi che si può presentare alla mente, e all'interno della quale essa sceglie il seguito unico che sarà dato nel testo. Così facendo si sostituirebbe all'illusione di una determinazione unica e che imita il reale, l'illusione del possibile-ad-ogni-istante che mi pare più veritiera. Mi è capitato di pubblicare diverse versioni delle stesse poesie; ve ne furono di contraddittorie e non si è mancato di criticarmi per questo. Ma nessuno mi ha detto perché avrei dovuto astenermi da queste varianti. 148

Non so da dove mi venga questo sentimento molto vivo dell'arbitrarietà: è innato o acquisito? ... Tento involontariamente di modificare o di far variare con il pensiero tutto ciò che mi suggerisce una possibile sostituzione all'interno di ciò che mi si offre, e la mia mente si compiace di questi atti virtuali, - un po' come quando si maneggia un oggetto col quale il nostro tatto si familiarizza. Si tratta di una mania o di un metodo, oppure di entrambi contemporaneamente; non c'è contraddizione. Mi capita, di fronte ad un paesaggio, che le sagome della terra, i profili dell'orizzonte, la posizione e i contorni dei boschi e dei campi, mi appaiano puri accidenti; definiscono senza dubbio un certo luogo, ma io li guardo come se potessi trasformarli liberamente, come si farebbe sulla carta, con la matita o il pennello. Non mi soffermo a lungo sugli aspetti di cui dispongo, e che d'altronde potrei alterare solo muovendomi. Ciò che invece mi attrae è la sostanza degli oggetti che ho sotto gli occhi, la roccia, l'acqua, la materia della corteccia o della foglia, e la forma degli esseri organizzati. Posso interessarmi solo a ciò che non posso inventare. Questa stessa tentazione modifica in me le opere degli uomini. Mi è quasi impossibile leggere un romanzo senza che, una volta risvegliatasi la mia attenzione attiva, io tenda a sostituire alle frasi date altre frasi che l'autore avrebbe potuto ugualmente scrivere senza gran danno per l'effetto. Sfortunatamente, tutta l'apparenza di realtà che il romanzo moderno vuole produrre sta proprio in queste determinazioni fragilissime e in questi dettagli insignificanti. Non può essere altrimenti: la vita che vediamo, e anche la nostra, sono intessute di dettagli che devono essere, per riempire un certo riquadro della scacchiera della comprensione; ma che possono essere questo o quello. La realtà osservabile non ha mai nulla di visibilmente necessario; e la necessità non appare mai senza manifestare anche qualche azione della volontà e della mente. Dunque, - basta con le illusioni! Confesso che la mia tendenza e la mia istintiva pratica delle sostituzioni sono detestabili: annullano dei piaceri. Ammiro e invidio i romanzieri che

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garantiscono di credere all'« esistenza» dei loro personaggi. Essi pretendono di esserne gli schiavi, di seguirne ciecamente le sorti, ignorandone i progetti, soffrendo le loro pene e provando le loro sensazioni, - tutte possessioni sorprendenti che fanno pensare alle meraviglie dell'occultismo, alla funzione di quei «medium » che reggono la penna agli spiriti, o che subiscono il transfert della loro sensibilità in un bicchiere d'acqua, e gridano di dolore, se in quest'acqua si immerge una punta. È superfluo aggiungere che la storia stessa mi stimola ancor più del romanzo a questo gioco delle possibili alterazioni, le. quali si combinano molto bene con le reali falsificazioni che di tanto in tanto si scoprono nei documenti più autorevoli. E tutto ciò mette utilmente in evidenza la struttura ingenua e bizzarra della nostra fede nel «passato». Anche nelle scienze positive, molte cose potrebbero essere enunciate, descritte e ordinate diversamente da come lo sono, senza alcun danno per la parte non modificabile di queste discipline, costituita da procedimenti e risultati verificabili. Quando il mio intelletto non è ostacolato nella sua libertà, e si sofferma spontaneamente su qualche oggetto che lo affascina, esso crede di vederlo in una sorta di spazio in cui da presente e interamente definito che era, l'oggetto torna ad essere solo possibile ... E ciò che mi viene in mente mi appare subito come uno «specimen», un caso particolare, un singolo elemento di una varietà di altre combinazioni ugualmente concepibili. Le mie opinioni richiamano subito i loro contrari o i loro complementari; e io mi sentirei umiliato se non fossi in grado di considerare l'avvenimento reale, o l'impulso particolare che provo, semplici elementi di un insieme - una sjaccettatura di uno dei sistemi di cui sono capace. Non ero dunque adatto per impegnarmi a vita in un'occupazione che mi interessava solo per ciò che mi offre di meno «umano». Non vi vedevo che un rifugio, un rimedio estremo; e, in definitiva, molto più di un sistema di separazione o di organizzazione del pensiero autonomo, che non un mezzo di 150

comunicazione con sconosciuti e di azione su di essi. Era per me un esercizio e la giustificavo in quanto tale. Scrivere era già per me un'operazione del tutto distinta dall'espressione istantanea di qualche «idea» attraverso il linguaggio immediatamente sollecitato. Le idee non costano nulla, non più dei fatti e delle sensazioni. Quelle che paiono le più preziose, le immagini, le analogie, i motivi e i ritmi che noi produciamo sono degli accidenti più o meno frequenti nella nostra esistenza immaginativa. L'uomo non fa che inventare. Ma chi si accorge della facilità, della fragilità, dell'incoerenza di questo modo di generare le oppone lo sforzo dell'intelletto. Ne risulta questa meravigliosa conseguenza: le «creazioni» più efficaci, i monumenti più illustri del pensiero, sono stati ottenuti con l'impiego ragionato di mezzi volontari di resistenza alla nostra «creazione» immediata e continua di parole, di relazioni, d'impulsi che si sostituiscono senza alcun condizionamento. Una produzione totalmente spontanea accetta facilmente, ad esempio, contraddizioni e «circoli viziosi»; la logica invece vi si oppone. Essa è la più nota e la più importante di tutte le convenzioni formali ed esplicite che la mente crea contro se stessa. Metodi, precise poetiche, canoni e proporzioni, regole dell'armonia, precetti di composizione, forme fisse non sono (come si crede comunemente) delle formule limitative della creazione. Il loro fine ultimo consiste nell'esortare l'uomo completo e intellettualmente organizzato, l'essere fatto per agire, e che viene perfezionato a sua volta dall'azione stessa, ad imporsi nella produzione delle opere dell'intelletto. Questi vincoli possono essere del tutto arbitrari: è necessario e sufficiente che a poco a poco ostacolino il corso naturale ed incoerente della divagazione o della creazione. Come i nostri impulsi, quando si trasformano in atto, devono adeguarsi alle esigenze del nostro apparato motorio e incontrano un ostacolo nelle condizioni materiali dell'ambiente, permettendoci di acquisire con questa esperienza una sempre più precisa consapevolezza della nostra forma e delle nostre forze, così è per l'invenzione contrastata e ben temperata ... 151

Scrivere mi sembrava dunque un'operazione molto diversa dall'espressione immediata, come l'analisi di un problema di fisica differisce dalla registrazione delle osservazioni: l'analisi esige che si ripensino i fenomeni, che si definiscano nozioni che non compaiono nel linguaggio corrente e costringe talvolta a creare nuovi metodi di calcolo. Scoprivo inoltre che le ricerche formali a cui doveva portare questa concezione della scrittura esigevano una maniera di vedere le cose, e una certa idea del linguaggio, più sottili, più precise, più coscienti di quelle che bastano per l'uso comune. Inoltre i perfezionamenti e i laboriosi abbellimenti che i poeti avevano introdotto nella versificazione dal 1850 circa, l'obbligo di separare più di quanto fosse mai stato fatto lo stimolo e l'intenzione iniziali dall'esecuzione mi portavano a considerare le Lettere sotto questo aspetto. Non vi vedevo che una combinazione di ascesi e di gioco. La loro azione sull'esterno era senza dubbio una condizione, più o meno rigida, da soddisfare; ma niente di più. Dovevo poi riconoscere nella mia natura certe peculiarità che chiamerei insulari. Si tratta di curiose lacune nel sistema dei miei istinti intellettuali, mancanze che credo abbiano avuto conseguenze sullo sviluppo delle mie opinioni, e dei miei partiti presi, e perfino sui soggetti e sulle forme di alcune mie opere. Confesso, ad esempio, di non essermi mai preoccupato di far condividere ad altri le mie opinioni in nessuna materia. Sarei piuttosto incline al contrario. Il desiderio ostinato di «avere ragione», di convincere, di sedurre o soggiogare gli spiriti, di eccitarli pro o contro qualcuno o qualcosa mi è essenzialmente estraneo se non addirittura odioso. Dal momento che non posso sopportare che mi si voglia far cambiare idea per vie affettive, attribuisco agli altri la mia stessa insofferenza. Niente mi urta più del proselitismo e dei suoi metodi, sempre impuri. Sono convinto che l'apologetica abbia finito per arrecare più danno che aiuto alla religione, almeno se si guarda alla qualità dei suoi acquisti. Ne ho tratto 152

questo principio: «Cache ton Dieu», tieni nascosto il tuo Dio, poiché se è la tua forza fintanto che rimane il tuo più grande segreto, diventa la tua debolezza appena gli altri ne vengono a conoscenza. Se si vuole dichiarare il proprio pensiero, mi piace che lo si esponga senza calore e con assoluta chiarezza in modo che si esprima non come il prodotto di un individuo, ma come la conseguenza di condizioni che si accordano e si combinano in un istante, o come un fenomeno di un mondo estraneo a quello in cui vi sono degli individui e i loro temperamenti. Mi infastidisce immaginare, dietro la pagina che sto leggendo, qualche volto infiammato o ghignante, sul quale è dipinta l'intenzione di farmi amare ciò che odio e odiare ciò che amo. Agire sui nervi della gente è la grande preoccupazione dei politici di ogni specie; cosa diverrebbero costoro senza gli epiteti? Sarebbero molto a disagio se si chiedesse loro di organizzare il loro pensiero punto per punto. Ma la vera forza si impone con la struttura e non richiede nulla. Essa costringe gli uomini senza vederli. Insomma io guardo molto più benevolmente ai metodi che non ai risultati, e il fine per me non giustifica i mezzi, poiché -non vi è un fine. Inoltre, non essendo interessato a modificare le opinioni altrui, mi ritengo abbastanza insensibile ai loro tentativi di commuovermi. Non provo alcun bisogno delle passioni del mio prossimo, e non mi è mai venuto in mente di lavorare per quelli che chiedono allo scrittore di insegnare o di offrire loro ciò che si scopre, o ciò che si prova, semplicemente vivendo. Del resto si incarica di ciò la maggior parte degli autori, e i più grandi poeti hanno realizzato alla perfezione il compito di rappresentarci le emozioni immediate della vita. È un compito tradizionale. I capolavori di questo genere abbondano. Mi domandavo se ci fosse altro da fare.

È questa la ragione per cui avrei rivolto i miei favori, molto più che alle Lettere, alle arti che non riproducono nulla, che non fingono, che fanno ricorso soltanto alle nostre proprietà 153

in atto, senza ricorrere al nostro potenziale di vite immaginarie e alla falsa precisione che facilmente si accorda loro. Questi «puri» modi non sono oppressi da personaggi ed eventi che traggono dalla realtà osservabile tutto ciò che essa offre di arbitrario e superficiale, poiché vi è solo questo di imitabile. Esse, al contrario, sfruttano, organizzano e strutturano i valori della nostra sensibilità potenziale, libera da ogni referente e da ogni funzione di segno. Così restituita a se stessa, la serie delle nostre sensazioni non ha più un ordine cronologico, ma una sorta di ordine intrinseco ed istantaneo che si rivela a poco a poco ... Non posso ora spiegare dettagliatamente la mia idea e le sue argomentazioni né le sue conseguenze: ma per capirmi basta pensare alle produzioni riunite sotto il termine generico di Ornamento, o meglio alla musica pura. Il musicista, ad esempio, si trova come in presenza di un insieme di possibilità di cui può disporre senza alcun riferimento al mondo delle cose e degli uomini. Mediante la sua operazione sugli elementi dell'universo uditivo gli affetti e le emozioni «umane» possono essere stimolati senza che si smetta di avvertire che le formule musicali che li suscitano appartengono al sistema generale dei suoni, nascono in esso e poi vi si risolvono, affinché le loro unità si ricompongano in nuove combinazioni. In questo modo non vi è mai confusione possibile tra l'effetto dell'opera e le apparenze di una vita estranea; ma invece comunione possibile con i moventi profondi di ogni vita. Ma io non avevo né le doti né le conoscenze tecniche necessarie per seguire questo istinto formale delle produzioni della sensibilità sviluppata indipendentemente da ogni rappresentazione. Queste produzioni rendono manifesta la struttura di ciò che non somiglia a nulla, tendendo a ordinarsi in costruzioni complete in se stesse. Nasce così uno stato mentale curiosamente antistorico, la viva percezione della attualità delle nostre immagini del «passato» e della nostra assoluta libertà di modificarle così facilmente come possiamo concepirle, senza alcuna conseguenza ...

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Alcuni poemi che ho composto hanno avuto per origine solo una di queste sollecitazioni di sensibilità «formale» anteriore ad ogni «soggetto», ad ogni idea esprimibile e finita. La ]eune Parque fu un tentativo, letteralmente indefinito, di creare in poesia l'analogo di ciò che in musica è detto «modulazione». I «passaggi» mi hanno creato notevoli difficoltà; ma queste difficoltà mi spingevano a scoprire e notare numerosi problemi precisi del funzionamento della mia mente, ed è questo in fondo che mi interessava. Niente, d'altronde, nelle arti, mi interessa più di questi passaggi in cui vedo ciò che vi è di più delicato e di più arduo a farsi, cose che i contemporanei invece ignorano o disprezzano. Non mi stanco mai di ammirare le sfumature di forma attraverso le quali la figura di un corpo vivo, o quella di una pianta, insensibilmente si deduce, e si accorda con se stessa; e come si schiude infine l'elice di una conchiglia, dopo alcune rotazioni, per fasciarsi della sua madreperla interna. L'architetto di un'epoca bella usava le modanature più squisite e ricercate per accordare le superfici successive della sua opera ... Un'altra poesia è iniziata in me con la semplice indicazione di un ritmo che a poco o poco si è dato un senso. Questa produzione, che in un et;rto senso procedeva dalla «forma» verso il «contenuto», e finiva per stimolare il lavoro più cosciente a partire da una struttura vuota, si collegava senza dubbio al problema che per alcuni anni mi si era posto: ricercare le condizioni generali di ogni pensiero, quale che sia il suo contenuto. Riporterò ora un'osservazione piuttosto importante fatta su me stesso poco tempo fa. Ero uscito di casa per distrarmi, camminando e guardandomi un po' attorno 1, da una certa fastidiosa preoccupazione. Mentre percorrevo la via in cui abito, che sale rapidamente, fui colto da un ritmo che mi si imponeva e che mi dette ben presto l'impressione di un funzionamento estraneo. Un altro ritmo venne ad associarsi al primo combinandosi con esso, e tra queste leggi si stabilirono misteriose relazioni trasversali. Questa combinazione, che superava di molto tutto ciò che 155

potevo aspettarmi dalle mie facoltà ritmiche, rese quasi insopportabile la sensazione di estraneità di cui parlavo. Mi dicevo che vi era un errore sulla persona, che questo dono sbagliava destinatario, poiché io non sapevo che farne mentre in un musicista avrebbe forse assunto forma e durata. Questi due movimenti mi offrivano invano una composizione la cui sequenza e complessità disorientavano ed esasperavano la mia ignoranza. L'incantesimo svanì bruscamente, dopo una ventina di minuti, !asciandomi sulle rive della Senna sbalordito come l'anatra della favola che vide uscire un cigno dall'uovo che aveva covato. Volato via il cigno, passata la sorpresa, osservai che il moto mi stimola spesso ad una vivace produzione di idee, con le quali manifesta talvolta una sorta di reciprocità: l'andatura stimola i pensieri, i pensieri modificano l'andatura, l'una irrigidisce colui che cammina, l'altra incalza il suo passo. Ma questa volta accade che il mio movimento attacca la mia coscienza con un sistema di ritmi, invece di provocare quell'insieme di immagini, di discorsi interiori, di atti virtuali che chiamiamo Idea. Ma per quanto nuova e inattesa possa essere un'«idea», essa è ancora solo un'idea: appartiene ad una specie che mi è familiare, che so più o meno classificare, manovrare, adattare al mio stato. Diderot diceva: Le mie idee sono le mie prostitute. Ecco una buona formula. Ma non posso dire altrettanto dei miei ritmi inattesi. Cosa si dovrebbe pensare? Immaginavo che la produzione mentale durante il cammino dovesse rispondere ad una eccitazione generale che si dispiegava come poteva nel mio cervello; che questa specie di funzione quantitativa potesse essere ugualmente soddisfatta dall'emissione di un certo ritmo così come da figure verbali o da segni qualsiasi; vi era dunque un momento del mio funzionamento in cui idee, ritmi, immagini, ricordi o invenzioni non erano che degli equivalenti. A questo punto noi non saremmo ancora interamente noi stessi. La persona che sa di non sapere la musica non era ancora in vigore in me, quando il mio ritmo si è imposto, come la persona che sa di non poter volare non è ancora in vigore in colui che sogna di volare ... 156

Credo, d'altronde (per altre considerazioni) che ogni pensiero sarebbe impossibile se noi fossimo interamente presenti a noi stessi ad ogni istante. È necessaria al pensiero una certa libertà, con l'astensione di una parte delle nostre facoltà mentali. Comunque sia, questo episodio mi è sembrato degno di nota ed utile in uno studio sull'invenzione. Quanto all' equivalenza di cui parlavo, essa è certo una delle principali risorse della mente a cui offre preziosissime sostituzioni. Questo bizzarro amore per ciò che nell'arte di scrivere è insensibile o indifferente o noioso agli occhi della maggior parte dei lettori e la tendenza a considerare negativamente proprio ciò che essi amano in un libro, mi allontanavano sempre più dal desiderio di fondare qualcosa sull'incerto piacere altrui. Sapevo, d'altra parte, per una precoce esperienza accordatami dal caso, che la magia della letteratura sta tutta in un «equivoco» dovuto alla natura stessa del linguaggio, che permette spesso di dare più di quanto non si possieda; e talvolta, molto meno. Temevo talmente di cadere io stesso in questa trappola che per qualche anno mi sono imposto di non impiegare nei miei appunti personali, un buon numero di termini ... Non dico quali. Se mi venivano in mente, tentavo di sostituir loro un'espressione che dicesse solo ciò che volevo dire. Se non la trovavo, li segnavo in modo da indicare che erano messi a titolo provvisorio. Mi sembrava che dovessero servire solo all'uso esterno ... Era un modo per definire la Letteratura, opponendo i suoi mezzi a quelli del pensiero che opera per se stesso. La Letteratura (in generale) esige che questo lavoro sia limitato, arrestato ad un certo punto, e anche dissimulato. Un autore deve sforzarsi di fare credere che non potrebbe trattare altrimenti la sua opera. Flaubert era convinto che per un'idea esistesse una sola forma, che si trattava di trovarla, o di costruirla, e che si dovesse penare fino a quel momento. Questa bella dottrina non ha sfortunatamente alcun senso. Ma non è un male seguirla. Uno sforzo non va mai perduto. Sisifo si faceva i muscoli. 157

È una cosa deliziosa poter vivere e lavorare, senza attese né scopi esterni, senza pensare ad un obbiettivo fissato fuori da sé, ad un'opera compiuta, ad un fine che possa esprimersi in poche parole, senza l'assillo di effetti da produrre su qualcuno e degli altrui giudizi, considerazioni che portano necessariamente a fare ciò che non si sarebbe mai fatto di propria iniziativa e a soffermarsi su altri punti: insomma a comportarsi come un altro. Quest'altro diventa il vostro personaggio: l'Uomo Famoso. Il «tempo)) non mi costava nulla, non contava; e dunque non era mai perso. I miei amici non concepivano affatto questa indifferenza per l'avvenire. Nulla risultava da un'esistenza che non poteva tuttavia apparire né troppo oziosa, né staccata dalle cose dello spirito. Nulla ne sarebbe scaturito se circostanze indipendenti dalla mia volontà (come dice ingenuamente il Codice) non avessero assolto il loro compito, che consiste nel fare tutto. Nel mio caso specifico dovevano risolvere un problema piuttosto difficile: trasformare in scrittore di professione un appassionato di esperienze intellettuali perseguite nel più assoluto isolamento. Tuttavia, offrivo loro una possibilità: da sempre avevo abbandonato al caso la direzione della mia vita esteriore. Gli avvenimenti non si possono trattare; e d'altronde i più fortunati successi sono solo superficiali; il calcolo è del tutto illusorio, ciò che si considera come il suo buon risultato esigerebbe quell'infinità di condizioni che costituiscono la «realtà)), Tutta la mia volontà si applicava all'esterno solo per tentare di preservare la mia libertà interiore. Cosa facevo di questa? Rimpiango il tempo in cui godevo del bene supremo (questa libertà di spirito). La mia vita si divideva tra le ore di un'occupazione necessaria (ma del tutto separata dalle mie operazioni private) e delle ore assolute, che valevano ciò che valevano, quanto può valere un eterno scorrazzare nell'indipendenza pura! Mi sembrò che il tema ideale di una vita mentale fosse il sentire il proprio agire e il proprio sforzo fino a riconoscere le 158

condizioni invisibili e i limiti del proprio potere; da ciò mi facevo l'immagine di un nuotatore che, lontano da ogni solidità, e libero nel mare aperto, acquisisce nell'assenza di ogni ostacolo il senso delle sue forme di potere e dei loro limiti, dal nodo delle sue forze distinte agli estremi della loro estensione. Non desideravo altro che il potere di fare, e non il suo esercizio nel mondo. Temo che vi fosse assai poca metafisica nel mio caso. La mia prima e brevissima pratica nell'arte dei versi mi aveva abituato a disporre delle parole, e anche delle «idee», come di mezzi che hanno solo dei valori immediati, degli effetti di posizione. Consideravo un'idolatria isolarli dal loro impiego locale, farne dei problemi mentre di solito ci si serviva di esse in tutta familiarità. Ma la metafisica esige che ci si attardi su queste passerelle di fortuna. «Cos'è il tempo?» essa domanda, come se non lo sapessero tutti più che bene. E risponde poi con delle combinazioni verbali. Mi sembrava dunque più ... filosofico interessarsi disinvoltamente e senza altre divagazioni a queste stesse combinazioni. Il fare sostituisce allora un preteso sapere, e il Vero si eleva al rango di convenzione ben applicata. Tutto ciò è orribile a dirsi. Ma infine non potevo risolvermi a sposare i problemi altrui e a non stupirmi che i miei non fossero stati presi in considerazione. Forse mi stupisco troppo facilmente? Un giorno mi sono stupito che nessuno abbia avuto l'idea di divertirsi a costruire una tavola di trasformazione delle diverse dottrine filosofiche che avrebbe permesso di tradurle una nell'altra. Un'altra volta mi stupii di non poter trovare da nessuna parte un'altra tavola: quella di tutti gli atti riflessi osservati fino ad ora... Potrei comporre un vero trattato sui miei stupori, di cui più di un esempio metterebbe in causa me stesso ed i miei atti. Insomma, si creava in me, di giorno in giorno, una specie di «sistema», il cui principio essenziale era che non potesse e non dovesse adattarsi che a me solo. Non so se il termine «filosofia)) possa assumere un significato che escluda l'individuo ed implichi un edificio di precetti 159

e spiegazioni che si imponga e si opponga a tutti. A mio avviso, una filosofia è, al contrario, qualcosa di rigorosamente personale; dunque, impossibile da trasmettere, inalienabile e che bisogna rendere indipendente dalle scienze affinché sia tale. La scienza è necessariamente trasmissibile, ma non posso concepire un «sistema» di pensiero che sia comunicabile, perché il pensiero non si limita a combinare elementi o stati comuni.

È quasi inutile dire che leggevo molto poco, a quei tempi. Avevo prima preso in odio la lettura e anche distribuito tra pochi amici i miei libri preferiti. Ne ho dovuto riacquistare qualcuno, più tardi, passato quel periodo. Ma resto un lettore sporadico poiché cerco in un'opera solo ciò che può permettere o impedire qualcosa alla mia attività. Essere passivo, credere a una storia, etc., costa molto poco e se ne possono ottenere in cambio grandi piaceri e un modo per scongiurare la noia. Ma quella specie di risveglio che segue una lettura avvincente mi risulta assai spiacevole. Ho l'impressione di essere stato giocato, manovrato, trattato come un uomo addormentato a cui i minimi incidenti nello svolgimento del suo sonno fanno vivere l'assurdo, subire supplizi e delizie insopportabili. Così ho vissuto per anni, come se gli anni non passassero affatto, allontanandomi sempre più dallo stato mentale in cui può vegetare l'idea di avere a che fare col pubblico. I miei pensieri si costruivano sempre più il loro linguaggio, che io spogliavo il più possibile dai termini troppo comodi, e soprattutto da tutti quelli che un uomo solo, impegnato a circoscrivere da vicino ed a scandagliare un problema, non usa mai. Se mi capitava, a volte, di pensare alle condizioni della letteratura in un'epoca che si modificava molto rapidamente intorno a me, concludevo da semplice osservatore che ciò che esige dal lettore una applicazione anche modesta non era più di questi tèmpi nuovi. Ormai non si sarebbe più trovata una persona su un milione in grado di dare a un'opera la qualità e la quantità di attenzione che autorizzassero a sperare di 160

condurla abbastanza lontano con sé, che valesse la pena di soppesare le proprie parole e di preoccuparsi delle costruzioni e degli accordi senza i quali un'opera non diventa per il suo autore uno strumento della volontà di perfezione. Ora, gravi inquietudini erano venute ad attraversare questa vita apparentemente statica, che non assorbiva né emetteva nulla; d'altra parte, la lunga perseveranza su strade così astratte rivelava una certa stanchezza; infine, agiva ciòche-non-si-può-sapere (come l'età o un punto critico dell'organismo), e accadde ciò che era necessario affinché la poesia potesse riacquistare qualche potere su di me, se si fosse presentata l'occasione. Coloro che mi avevano chiesto di pubblicare i miei antichi versi avevano fatto copiare e riunire queste poesie sparse, facendomene poi avere la raccolta, che non avevo più riaperto come non avevo più preso in considerazione la loro proposta. In un giorno di stanchezza e di noia, il caso (che fa tutto) fece sì che quella copia smarrita fra le mie carte uscisse dal loro disordine. Ero di cattivo umore. Mai poesie sono cadute sotto uno sguardo più freddo. Esse trovavano nel loro autore l'uomo che era divenuto più che mai ostile ai loro effetti. Questo padre nemico sfogliò l'esile volume delle sue poesie complete in cui non trovava che da rallegrarsi per aver abbandonato il gioco. Se si soffermava su una pagina, notava la debolezze della maggior parte dei versi: provava non so quale desiderio di rinforzarli, di rifonderne la sostanza musicale ... Ve n'erano qua e là di gradevoli, che non facevano altro che sminuire gli altri, e guastare l'insieme, perché l'ineguaglianza in un'opera mi sembrava, allora, il peggiore dei mali .. . Questo pensiero fu fecondo. Quel giorno esso non fece che passare nella mia mente - il tempo di depositarvi qualche impercettibile seme che si sviluppò più tardi, in un lavoro di molti anni. Altre osservazioni mi indussero a ripensare vecchie idee che mi ero fatte sull'arte del poeta; a rimetterle a punto; molto spesso a sterminarle. Trovai ben presto un divertimento nel tentativo di correggere qualche verso, senza sovrapporre 161

l'ombra di un disegno a quel piccolo piacere locale procurato da un lavoro libero e leggero, che si prende, si lascia, su cui si tentano infinite sostituzioni, in cui si mette di sé solo ciò che non aspira a nulla. Bisogna confessare che sfiorando così senza lasciarsi coinvolgere, le tastiere dell'intelletto, se ne' traggono a volte combinazioni molto felici. Stavo giocando col fuoco. Il mio gioco mi portava dove non pensavo di arrivare. Non è normale questo in amore? Uno sguardo appena insistente, un accordo di risa, - e già il filosofo vi vede evocato il genio della specie, e le conseguenze più vive che ne seguono, di atto in atto, dal turbamento alla culla. Ma i sentieri dell'intelletto sono meno battuti; nessun istinto li orienta. Andavo incontro alla poesia senza saperlo, attraverso i problemi che si po~ono incontrare o introdurre in essa, come in qualsiasi cosa, e la cui ricerca non concerne affatto la pratica di quest'arte. Poiché non intendevo per nulla correggermi, la mia libertà era totale, e potevo tentare su questo oggetto l'applicazione di un certo «metodo» particolare e privato che mi ero fatto o piuttosto che era nato dalle mie osservazioni, dai miei rifiuti, dalle precisioni, dalle analogie che avevo seguito, dalle mie necessità reali, dalla mia forza e dalla mia debolezza. Dirò solo due parole in proposito e sarei molto a disagio se dovessi spiegarmi ulteriormente. Ecco la prima parola: la maggior consapevolezza possibile. Ed ecco la seconda: tentare

di ritrovare con volontà di consapevolezza alcuni risultati analoghi a quelli, interessanti o utilizzabili, che (tra centomila colpi possibili) ci dona il caso mentale. Ho scandalizzato molte persone, alcuni anni fa, per aver detto che preferirei aver composto un'opera mediocre in totale lucidità piuttosto che un capolavoro fulminante in uno stato di trance... Perché un fulmine non mi fa avanzare in nulla. Non mi dà che qualcosa di cui stupirmi. Mi interessa molto di più saper produrre di mia volontà un'infima scintilla che non attendere di proiettare qua e là i bagliori di una folgore incerta. 162

Ma, in quel momento, non si trattava di comporre. E se esprimevo propositi così rigorosi non era per costruirmi delle regole e una disciplina di cui non sapevo che fare, ma era per rispondere mentalmente a certi pregiudizi che un tempo mi avevano urtato. A quei tempi, regnava un'opinione forse non del tutto priva di sostanza. Molti, o quasi tutti, pensavano, sebbene molto vagamente, che le analisi e il lavoro dell'intelletto, gli sviluppi della volontà ed i dettagli in cui esso impegna il pensiero non si possono accordare con una certa ingenuità originaria, una sovrabbondanza di forza o una grazia sognante che si vogliono trovare in poesia e che la rendono riconoscibile fin dalle prime parole. Si faceva osservare che la riflessione astratta sulla propria arte, il rigore applicato alla coltivazione delle rose, non possono far altro che perdere un poeta, poiché l'effetto principale e più seducente della sua opera deve consistere nel suscitare l'impressione di uno stato nascente, che, in virtù della sorpresa e del piacere, possa indefinitamente sottrarre la poesia a qualsiao;i ulteriore riflessione critica. Non si tratta forse di esalare un profumo così delicato o così intenso da poter disarmare e inebriare il chimico riducendolo ogni volta a respirare con piacere ciò che stava per scomporre? Non amavo queste opinioni. Ci sono troppe cose in terra, e soprattutto in cielo, che richiedono il sacrificio dell'intelletto: la vita e la morte cospirano a ostacolare o avvilire ogni attività del pensiero, poiché la tendenza di esso mi sembra sia quella di procedere come se né le necessità materiali, né le paure, né le passioni, né alcunché di umano, di sentimentale, di carnale o di sociale potesse corrompere o alterare la suprema funzione di distinguersi assolutamente da ogni cosa, e dalla persona stessa che pensa, poiché tutte queste cose sono solo strumenti, mezzi, pretesti, sorgenti di mistero e di prove che lo stimolano, lo nutrono, gli rispondono o lo interrogano, - perché è necessario, affinché la luce sia, che la potenza vibrante si scontri con i corpi dai quali riverbera. 163

Non potevo perciò sopportare (a partire dal 1892) che lo stato poetico fosse contrapposto all'azione completa e vigile dell'intelletto. Questa distinzione è altrettanto grossolana di quella che fà esistere la «sensibilità» e l'« intelligenza», due termini difficili da precisare senza smentirsi o contraddirsi, e che si distinguono bene solo a scuola, dove si sviluppa fino alla nausea il celebre contrasto fra I'«esprit de géométrie» e l'« esprit de finesse », soggetto per infinite dissertazioni e riserva inesauribile di variazioni didattiche. In veriti!, tutto ciò che concerne l'intelletto si esprime ancora con termini molto venerabili (come lo stesso «esprit») che col passare del tempo hanno assunto una quantità di significati di cui nessuno ha un referente. Queste parole venerabili si sono formate indipendentemente le une dalle altre; si ignorano a vicenda, come le misure inglesi che non hanno un divisore comune. «Soffio», «peso», «scelta», «prendere insieme», etc., ecco i nostri strumenti originali di analisi e di notazione... L'impiego inevitabile (finora) di questi termini incoerenti in ricerche miranti alla precisione, conduce spesso a conclusioni sorprendenti, ad opposizioni tutte verbali, eccetera. Ma che fare? Chiedo scusa per essermi inoltrato in un argomento diverso dal mio. Dicevo che non amavo che mi !ii volesse costringere a non essere tutto ciò che ero, e a dissociarmi da me stesso. Il mio desiderio era, al contrario, di esercitarmi con le mie mani... Nessuno ha mai pensato di far notare al musicista che i lunghi anni spesi a studiare l'armonia e l'orchestra esauriscono il suo particolare demone? Perché mettere il poeta in balia dell'istante stesso? Confesso di provare nel cuore il morso dell'invidia immaginando questo sapiente musicista alle prese con l'immensa pagina dai venti pentagrammi, mentre distribuiSce su questo campo regolato il calcolo dei tempi e delle forme; egli è in grado veramente di comporre, concepire e condurre l'insieme e il dettaglio della sua impresa, volando dall'uno all'altro, e osservando la loro dipendenza reciproca. La sua azione mi pare sublime. Questo genere di lavoro è purtroppo quasi proibito alla 164

poesia per la natura del linguaggio e per le abitudini imposte all'intelletto dal suo costante impiego pratico: noi pretendiamo ad esempio che un discorso non possa avere che un solo significato. Ricordo che la sola idea di composizione o di costruzione mi esaltava e non concepivo opera più ammirevole del dramma della genesi di un'opera, quando essa stimola ed impiega tutte le funzioni superiori di cui possiamo disporre. Sentivo fin troppo vivamente l'impotenza dei più grandi poeti dinanzi a questo problema di organizzazione completa, che non si riduce affatto a un certo ordine delle «idee» nè ad un certo movimento ... Non bastano la passione, nè la logica, nè la cronologia degli eventi o delle emozioni. Ero giunto a considerare le opere più belle come monumenti mal strutturati, che si scomponevano senza resistenza in singole meraviglie, brani divini, versi isolabili. L'ammirazione stessa che suscitavano questi preziosi frammenti agiva sul resto del poema come un acido sulla ganga di un minerale e distruggeva il tutto di un'opera; ma questo tutto era tutto per me. Risulta chiaro che ai miei occhi la preoccupazione dell'effetto esterno era subordinata a quella del «lavoro interno». Consideravo di secondario interesse il cosiddetto «contenuto» o «soggetto» di un'opera, che io definisco volentieri come la parte, o meglio, l'aspetto mitico di essa. Come in una dimostrazione ci si serve di un caso particolare «per fissare le idee>>, la stessa cosa, secondo i miei gusti speculativi, bisognava fare dei «soggetti». Volevo ridurre al minimo l'idolatria. Insomma, mi forgiavo una definizione della «grande arte» che sfidava ogni praticai Questo ideale esigeva imperiosamente che l'azione di produrre fosse un'azione completa, in grado di far sentire, anche nell'opera più banale, il pieno possesso dei poteri contrastanti che sono in noi: da un lato, quelli che potremmo chiamare «trascendenti» o «irrazionali», valutazioni «senza cognizione di causa», o interventi inattesi, oppure impulsi, improvvise illuminazioni: tutto ciò per cui noi siamo fonte di sorpresa per noi stessi, sorgenti di 165

problemi spontanei, di domande senza risposta, di risposte senza domande. Tutto ciò che determina le nostre speranze «creatrici» come i nostri timori, i nostri sonni popolati di com binazioni rarissime che possono prodursi in noi solamente in nostra assenza ... D'altro lato, la nostra facoltà «logica», il nostro senso della continuità delle convenzioni e delle relazioni, che procede senza omettere nessuno stadio della sua operazione, nessuna fase della trasformazione, e che si sviluppa da un equilibrio ad un nuovo equilibrio; e infine la nostra volontà di coordinare, di prevedere con il ragionamento le proprietà del sistema che intendiamo costruire tutto il «razionale». Certo, è molto difficile la combinazione del lavoro meditato e «conservativo» con queste formazioni spontanee che nascono dalla vita sensoriale ed affettiva (come le figure tracciate su una membrana tesa dalla sabbia scossa a piccoli colpi) e godono della proprietà di propagare gli stati e le emozioni, ma non quella di comunicare le idee. Mentre mi abbandonavo con grande piacere a tali riflessioni, e trovavo nella poesia un soggetto per infinite domande, la consapevolezza di me stesso che vi si impegnava mi suggeriva che una speculazione senza produzione di opere o atti che la possano verificare è cosa troppo delicata per non divenire, per quanto profonda e ardua la si persegua in sè, una tentazione di facilità sotto apparenze astratte. Mi accorgevo che ormai mi interessava in quest'arte soprattutto la quantità di intelletto che essa poteva sviluppare. E l'intelletto era tanto più stimolato, quanto più ci si faceva di esso un'idea più approfondita. Capivo altrettanto chiaramente che tutto questo sforzo analitico poteva assumere un senso ed un valore solo mediante una pratica e produzione nate da esso. Ma le difficoltà di esecuzione aumentavano insieme alla precisione e alla diversità di esigenze che mi piaceva immaginare, mentre il successo del tentativo da compiere rimaneva necessariamente arbitrario. Inoltre, mi ero troppo appassionato a ricerche molto più 166

generali. La poesia, o almeno certe opere di poesia, mi avevano sedotto. Il fine poetico mi sembrava la produzione del sortilegio. Il più lontano possibile da ciò che fa e vuole la prosa, io ponevo questa sensazione di incanto senza referente. Era la lontananza dell'uomo ad incantarmi. Non capivo perchè si lodasse un autore di essere umano, quando tutto ciò che eleva l'uomo è inumano o sovraumano e non si può procedere nella conoscenza ed acquisire un po' di forza senza prima liberarsi della confusione di valori, della visione comune e composita delle cose, del buon senso, - in poche parole - di tutto ciò che risulta dalla nostra relazione statistica con i nostri simili e dal commercio obbligato ed obbligatoriamente impuro con il disordine monotono della vita esterna. Dopo alcuni mesi di riflessione, verso la fine del mio ventunesimo anno, ho scoperto di non avere alcun desiderio di scrivere versi ed ho deliberatamente chiuso con la poesia, che pure mi aveva fatto intravedere tesori di indicibile valore e aveva sviluppato in me il culto di capolavori molto diversi da quelli che si impara ad ammirare a scuola e in società ... Mi piaceva che ciò che amavo non fosse amato da quelli a cui piace parlare di ciò che amano. Amavo nascondere ciò che amavo. Mi piaceva avere un segreto che portavo in me come una certezza e come un germe. Ma i germi di questo tipo nutrono il loro portatore invece di esserne nutriti. Quanto alla certezza, essa pr()tegge il proprio uomo dalle opinioni del suo ambiente, dai discorsi che lasciano un segno, dalle fedi comunicabili. Ma, di fatto, la poesia non è un culto privato: la poesia è letteratura. La letteratura comporta, qualunque cosa si faccia e che lo si voglia o no, una sorta di politica, delle competizioni, una gran quantità di idoli, un'infernale combinazione di sacerdozio e di commercio, di intimità e di pubblicità; insomma tutto il necessario per sconvolgere le prime intenzioni che aveva fatto nascere, le quali sono generalmente ben lontane da tutto questo, e nobili, delicate, e profonde. 167

L'atmosfera letteraria è generalmente poco propiZia per coltivare l'incantesimo di cui parlavo: essa è vana, contenziosa, tutta agitata da ambizioni che tendono agli stessi scopi, e da movimenti che si contendono la superficie dello spirito del pubblico. Questa sete avida e queste passioni non convengono alla lenta formazione delle opere, né tantomeno alla loro meditazione da parte delle persone desiderabili, la cui attenzione può, sola, ricompensare un autore che non accorda alcun valore all'ammirazione grossolana e non pertinente 2 • Ho avuto talvolta modo di notare che l'arte è tanto più colta e raffinata quanto più in società l'uomo è ingenuo, e ignaro di ciò che vi si fa e vi si dice. Forse, soltanto in Estremo Oriente e in Oriente, e in qualche chiostro medievale, si poté veramente vivere sulle vie della perfezione poetica senza compromessi. Concluderò con due osservazioni che illustreranno, forse, la differenza che volendo si può scorgere tra la Letteratura e le Lettere. La Letteratura è eternamente in preda ad una attività simile a quella della Borsa. Non si tratta che di valori, introdotti, aumentati, ribassati, come se fossero paragonabili tra di loro, come lo sono in Borsa le industrie e gli affari più disparati, una volta sostituiti da segni. Ne risulta che tutta la mobilità di questo mercato è fatta dalle persone o dai nomi, dalle speculazioni fondate su di loro, dal prestigio attribuitogli: non dalle opere stesse che ritengo bisognerebbe considerare perfettamente isolate le une dalle altre senza riguardo per gli autori. L'anonimato sarebbe la condizione paradossale che un tiranno dello spirito potrebbe imporre alle Lettere. «Dopo tutto, direbbe, nessuno di per sé ha un nome. Nessuno in sé è il Tale!». Ecco un'altra conseguenza di questo stato delle cose letterarie sottoposte alla concorrenza, e all'assurdità del paragone degli incomparabili (cosa che esige l'espressione in termini semplici, dei prodotti e dei produttori): ogni nuovo arrivato si sente obbligato a tentare di fare altro, dimenticando che se egli è qualcuno, farà necessariamente altro. Questa condi168

zione del nuovo porta alla deriva perché crea innanzitutto una sorta di automatismo. La contro-imitazione è diventata un vero e proprio riflesso condizionato. Essa fa dipendere le opere dalle condizioni dell'ambiente anziché dalla situazione dell'autore. Ma come in tutti gli effetti d'urto, l'ammortizzamento si produce molto rapidamente; in cinquant'anni ho visto infinite novità e creazioni a contrario sorgere, irradiare il loro fulgore, essere poi divorate da altre, riassorbite dall'oblio; se qualcosa restava era solo grazie a qualità in cui la volontà di nuovo non aveva alcuna parte. Il rapido susseguirsi di queste ricerche del nuovo ad ogni costo porta ad un esaurimento delle risorse dell'arte. L'originalità delle idee, del linguaggio e anche delle forme è preziosa; è indispensabile per risolvere i problemi che un artista trova in sé. Egli allora innova senza saperlo. Ciò che è detestabile è l'essere sistematicamente originale. Ha un pericoloso effetto sul pubblico, nel quale inculca il desiderio e poi il fastidio dello choc, generando nel frattempo facili cultori che ammirano tutto ciò che si offre loro e si vantano di essere i primi ad ammirarlo. D'altronde le combinazioni non sono infinite e se ci si divertisse a fare la storia delle cose sorprendenti immaginate da un secolo a questa parte, e delle opere prodotte per provocare un effetto di stupore, mediante l'eccentricità, le deviazioni sistematiche, le anamorfosi; oppure con le violenze del linguaggio, o con inaudite confessioni, si formerebbe abbastanza facilmente il quadro di questi scarti assoluti o relativi, dove apparirebbe una qualche distribuzione curiosamente simmetrica dei mezzi per essere originale. È molto singolare l'impressione di un ritorno, graduale eppure inarrestabile, verso uno stadio interiore che credevamo superato per sempre. Esso avviene attraverso dettagli così diversi da risultare evidenti solo una volta che questa trasformazione si è compiuta. Un giorno compresi di essere stato insensibilmente ricondotto, dalle circostanze più fortuite e più diverse, in una regione della mente che avevo abbandonato, se non fuggito. Fu come se scappando da un luogo, ma in uno spazio la cui forma faceva sì che il punto più distante da esso fosse questo

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stesso luogo, ci si ritrovasse improvvisamente dove eravamo partiti e con grande stupore ci si riconoscesse identici e totalmente altri. Avevo voluto fuggire l'ingenuo stato poetico, e avevo energicamente sviluppato in me ciò che, per universale consenso, maggiormente si contrappone all'esistenza e alle produzioni di questo stato. Ma forse l'universo dell'intelletto ha la sua curvatura di cui, se esiste, non possiamo sapere nulla, non sappiamo nulla. Ho notato, in altre cose mentali, che se possiamo talvolta giungere ai nostri antipodi, siamo poi costretti a tornare indietro. Non è che una «questione di tempo», poiché ogni nuovo mutamento può solo avvicinarci all'origine. Sono portato a ritenere che un uomo che vivesse molto a lungo, serbando una mente lucida fino alla fine, avrebbe fatto, verso la fine del suo periplo, il giro completo dei suoi sentimenti, e potrebbe morire compiuto dopo avere adorato e bruciato, bruciato e adorato tutto ciò che meritava di esserlo nella sfera della sua conoscenza. Ne concludo che in genere noi non vediamo, né siamo altro che frammenti di esistenza, e la nostra vita vissuta non esaurisce tutta la capacità simmetrica di ciò che ci è possibile sentire e concepire. Di conseguenza, quando mettiamo sul conto di qualcuno i suoi gusti, le sue opinioni, le sue credenze o le sue negazioni, noi indichiamo solo qualche aspetto, quello che fino a quel momento fu illuminato dalle circostanze e che, per quanto non lo si voglia, è e non può essere che modificabile, - ed anzi, deve esserlo, per il solo fatto che è stato. Questa «ragione sufficiente» è essenziale: la mente, in ciò che ha di più suo, non può assolutamente ripetersi. Ciò che in esso si ripete non è più la mente; ma la sua materia, divenuta ciò che sono divenuti i primi tentativi della nostra mano quando imparavamo a scrivere. Ciò che a poco a poco si confonde con le nostre funzioni e le nostre capacità originarie, cessa di essere sensibile per noi quando cessa di essere senza passato. Per questo ogni ripresa consapevole di un'idea la rinnova; modifica, arrichisce, semplifica o distrugge ciò che riprende; e se anche, in questo recupero, non si 170

trova nulla da mutare in ciò che un tempo avevamo pensato, questo giudizio che approva e conserva una certa cosa acquisita, forma con essa un fatto che non si era ancora prodotto, un avvenimento inedito. Ecco dunque che ancora mi divertivo con sillabe, immagini, similitudini e contrasti. Le forme e i termini che convengono alla poesia ridivenivano sensibili e frequenti nella mia mente, e dimenticavo me stesso aspettando da essa quei preziosi raggruppamenti di termini che ci offrono improvvisamente una felice composizione, realizzatasi autonomamente nel corso impuro delle cose mentali. Come una combinazione definita precipita da un composto, così qualche figura interessante si separa dal disordine o dal fluttuare o dall'ordinario del nostro gorgoglio interiore. È un suono puro che si leva nel clamore. È un frammento perfettamente eseguito di un edificio inesistente. È forse l'affiorare di un diamante da una massa di «terra blu»: istante infinitamente più prezioso di ogni altro, e delle circostanze che lo generano! Suscita una gioia incomparabile e una tentazione immediata; fa sperare che si troverà nei suoi dintorni un tesoro di cui esso è il segno e la prova; e questa esperienza impegna talvolta il suo uomo in un lavoro che può essere senza limiti. Molti pensano che una specie di cielo si spalanchi in quell'istante e che ne discenda un raggio straordinario che illumina insieme quelle idee finora libere l'una dall'altra, e che si ignorano a vicenda; ed eccole meravigliosamente unite, improvvisamente, come se fossero fatte una per l'altra dall'eternità; e tutto ciò senza diretta preparazione, senza lavoro, grazie a questo fortunato effetto di luce e di certezza. Ma la sfortuna vuole che questa rivelazione sia molto spesso un'ingenuità, un errore, una sciocchezza. Non bisogna contare solo sui casi fortuiti: questa maniera miracolosa di produrre non ci dà alcuna garanzia sul valore di ciò che si produce. Lo spirito soffia dove vuole, anche sugli stupidi, e suggerisce loro ciò che possono.

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Meditando liberamente su tutto ciò, e chiedendomi a volte che cosa mi piaceva particolarmente immaginare néll'universo poetico, pensavo ad una certa purezza della forma e riandavo alla mia idea di ineguaglianza nelle opere, che mi scandalizza, e perfino mi irrita; forse più di quanto sarebbe lecito. Cosa c'è di più impuro della mescolanza così frequente dell'ottimo con il mediocre? Probabilmente trovo così poche ragioni per scrivere che, dovendo farlo, e se non ci si accontenta di sensazioni e idee che ci si scambia tra sé, è necessario considerare lo scrivere come un problema, interessarsi alla forma, esercitarsi a qualcosa di perfetto. Ognuno può definirsi il suo canone di perfezione: alcuni secondo un modello, altri a partire da ragionamenti personali: l'essenziale è di opporsi al pensiero, di creargli delle resistenze, e di fissarsi delle condizioni per liberarsi dell'arbitrario disordinato con l'arbitrio esplicito e ben limitato. Ci si illude così di avanzare verso la formazione di un «oggetto» di consistenza propria, nettamente distinto dal suo autore. È sorprendente che solo con un lavoro necessariamente discontinuo si possa ottenere questa continuità e questa uniformità o pienezza che sono per me le condizioni di un piacere assoluto e che devono sovrastare tutte le altre qualità di un'opera. L'arte si oppone all'intelletto. Il nostro intelletto non predilige una qualche materia particolare: ammette tutto; emette tutto. Vive letteralmente di incoerenza; non si muove che a salti, e subisce o produce balzi smisurati che spezzano ad ogni istante qualunque direzione indicata. È solo mediante recuperi che può accumulare fuori di sé, in una sostanza costante, alcuni elementi della sua azione, scelti per adattarsi reciprocamente, a poco a poco e tendere all'unità di qualche composizione ... Ero libero di fare queste speculazioni, di essere insofferente verso ciò che attira ed avvince alla poesia la maggior parte di 172

quelli che la amano. Ma venne il momento in cui mi dedicai nuovamente ad essa, e fu necessario passare alla pratica. (1937)

Note l 2

Cfr. "Poesia e pensiero astratto" p. 205. L'aggettivo usato da Valéry significa sia "impertinente" che "non pertinente".

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Discorso sull'Estetica

Signori, il Vostro Comitato non teme il paradosso, se ha deciso di far parlare qui - come se si mettesse un'ouverture di musica leggera all'inizio di un'opera lirica - un semplice dilettante, in grande imbarazzo di fronte ai più eminenti rappresentanti dell'Estetica, delegati di tutte le nazioni. Ma forse quest'atto sovrano, e a prima vista sorprendente, dei vostri organizzatori, si spiega grazie ad una considerazione che vi propongo e che permetterebbe di trasformare il paradosso della mia presenza parlante in questo luogo, nel momento solenne dell'apertura dei dibattiti di questo Congresso, in un gesto dal significato e dalla portata più profondi. Spesso ho pensato che, nello sviluppo di ogni scienza costituita e già abbastanza lontana dalle proprie origini, potesse talvolta essere utile, e quasi sempre interessante, interpellare un mortale fra i mortali, convocare un uomo sufficientemente estraneo a questa scienza, e chiedergli se ha qualche idea del fine, dei mezzi, dei risultati, delle possibili applicazioni di una disciplina, di cui suppongo che conosca il nome. Ciò che egli risponderebbe non avrebbe, in genere, nessuna importanza, ma sono certo che queste domande rivolte ad un individuo che abbia dalla sua solo la semplicità e

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la buona fede, si rifletterebbero in un certo senso sulla sua ingenuità, e tornerebbero agli esperti che lo interrogano, a ridestare in loro certe difficoltà elementari o certe convenzioni iniziali, di quelle che si lasciano dimenticare, e che si cancellano tanto facilmente dalla mente quando si avanza nelle sottigliezze e nella delicata struttura di una ricerca svolta ed approfondita con passione. Una persona che dicesse ad un'altra (con cui intendo simboleggiare una scienza): Cosa fai? Cosa vuoi? Dove pensi di andare? E, insomma, chi sei?- obbligherebbe probabilmente la mente interrogata a qualche fruttuoso ripensamento sulle sue intenzioni prime e sui suoi fini, sulle radici e sul principio motore della sua curiosità e, in definitiva, sulla sostanza stessa del suo sapere. E forse ciò non è privo di interesse. Se è dunque questo, Signori, il ruolo di ingenuo a cui mi destina il Comitato, sono subito a mio agio, e so cosa vengo a fare: vengo tra voi ad ignorare pubblicamente. Vi dichiarerò innanzitutto che il solo termine Estetica mi ha sempre sinceramente meravigliato, e che produce ancora su di me un effetto di stupore, se non di timore. Questa parola fa esitare la mia mente fra l'idea singolarmente seducente di una «Scienza del Bello» che, da un lato, ci farebbe distinguere per certo cosa amare, cosa odiare, cosa acclamare, e cosa distruggere, e che, dall'altro, ci insegnerebbe a produrre per certo opere d'arte di un valore incontestabile: e insieme a questa prima idea, l'idea di una «Scienza delle Sensazioni», non meno seducente e, forse ancor più seducente della prima. Se dovessi scegliere fra il destino di essere un uomo che sa come e perché una determinata cosa è ciò che si suol dire «bella», e quello di sapere che cos'è sentire, penso proprio che sceglierei il secondo, col pensiero recondito che questa conoscenza, se fosse possibile (e temo proprio che non sia nemmeno concepibile) mi svelerebbe presto tutti i segreti dell'arte. Ma, in questo mio imbarazzo, sono soccorso dal pensiero di 176

un metodo tutto cartesiano (visto che bisogna onorare e seguire Cartesio, quest'anno) che, fondandosi sull'osservazione pura, mi darà dell'Estetica una nozione precisa ed ineccepibile. Mi impegnerò a fare un'enumerazione completa ed una revisione delle più generali, come è consigliato dal Discorso 1 • Mi pongo (ma lo sono già) fuori dalla cerchia in cui si elabora l'Estetica, e osservo ciò che ne risulta. Ne risultano moltissime produzioni di moltissime menti. Mi dedico a rilevarne i temi; cerco di classificarli, e riterrò che il numero delle mie osservazioni sia sufficiente al mio scopo quando vedrò che non ho più bisogno di formare nuove classi. Allora decreterò a me stesso che l'Estetica, in quella data, è l'insieme così riunito ed ordinato. In verità, può forse essere diversa, e posso forse fare qualcosa di più sicuro e di più saggio? Ma le cose sicure e sagge non sono sempre le più opportune né le più chiare, e mi rendo conto che, per elaborare una nozione di Estetica che mi sia di qualche utilità, devo ora tentare di riassumere in poche parole il fine comune di tutti questi prodotti della mente. Il mio compito è esaurire questa materia immensa... Prendo in esame,... sfoglio,... E che cosa trovo? Il caso mi offre, dapprima, una pagina di Geometria pura; un'altra che è propria della Morfologia biologica. Ecco un gran numero di libri di Storia. E né l'Anatomia, né la Fisiologia, né la Cristallografia, né l'Acustica mancano alla raccolta; chi per un capitolo chi per un paragrafo, non vi è quasi scienza che non paghi il suo tributo. E sono ancora ben lungi dall'aver concluso! ... Affronto l'infinito innumerevole delle tecniche. Dal taglio delle pietre alla ginnastica delle ballerine, dai segreti delle vetrate al mistero delle vernici per violino, dai canoni della fuga alla fusione a cera persa, dalla dizione dei versi alla pittura a encausto, alla confezione dei vestiti, all'intarsio, al tracciato dei giardini, - quanti trattati, album, tesi, lavori di ogni dimensione, epoca e formato! ... L'enumerazione cartesiana

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diviene illusoria di fronte a questa prodigiosa varietà in cui il tocco è accanto alla sezione aurea. Sembra non esserci alcun limite alla proliferazione di ricerche, procedimenti, contributi che - tuttavia - hanno tutti qualche rapporto con l'oggetto al quale penso, e di cui cerco l'idea chiara. Quasi scoraggiato, abbandono la spiegazione della miriade di tecniche ... Cosa mi rimane da consultare? Due mucchi di importanza diseguale: uno mi sembra formato da opere in cui la morale svolge un ruolo preminente. Intravvedo che si tratta dei rapporti intermittenti fra l'Arte e il Bene, e mi allontano subito da questo cumulo, attirato da un altro ben più imponente. Qualcosa mi dice che qui si trova la mia ultima speranza di forgiarmi, con poche parole, una buona definizione di Estetica ... Raccolgo allora le mie forze e attacco questo particolare gruppo che è una piramide di produzioni metafisiche. Qui Signori, credo che troverò l'origine e il nucleo iniziale della vostra scienza. Tutte le vostre ricerche, per quanto le si possa raggruppare, rimandano ad un atto iniziale della curiosità filosofica. L'Estetica nacque un giorno da un'osservazione e da un appetito da filosofo. Questo evento, certo, non fu affatto accidentale. Era quasi inevitabile che nella sua impresa di attacco generale alle cose e di trasformazione sistematica di tutto quel che viene a prodursi nella mente, il filosofo, procedendo di domanda in risposta, sforzandosi di assimilare e di ridurre la varietà della conoscenza ad un tipo di espressione coerente che è in lui, si imbattesse in alcune questioni che non appartengono né alla sfera dell'intelligenza pura, né a quella della sola sensibilità, e neppure ai campi dell'azione ordinaria degli uomini; ma che hanno tratti comuni a questi diversi modi, e li combinano così strettamente che si rese necessario considerarli a parte, attribuire loro un valore ed un significato irriducibili, e quindi stabilirne il destino, trovare loro una giustificazione davanti alla ragione, un fine come una necessità, nel quadro di un buon sistema del mondo. All'inizio, e per lungo tempo, l'Estetica così istituita si svi178

luppò in abstracto nello spazio del pensiero puro, e fu costruita per scaglioni, a partire dai materiali grezzi del linguaggio comune, dal bizzarro e industrioso animale dialettico che fa del suo meglio per scomporli, ne isola gli elementi che crede semplici e si prodiga ad edificare, accomunando e separando gli intelligibili, la sede della vita speculativa. Alla radice dei problemi che essa aveva preso come propri, la nllscente Estetica considerava un certo tipo di piacere. Il piacere, come il dolore (che accosto l'uno all'altro solo per conformarmi all'uso retorico, ma le cui relazioni, se esistono, devono essere ben più sottili di una semplice « contrapposizione») sono sempre elementi di disturbo in una costruzione intellettuale. Sono indefinibili, incommensurabili, comunque incomparabili. Offrono il modello stesso di quella confusione o di quella dipendenza reciproca fra l'osservatore e la cosa osservata che sta facendo la disperazione della fisica teorica 2 • Tuttavia, il piacere di tipo comune, il fatto puramente sensoriale, aveva ricevuto abbastanza facilmente una funzione onorevole e limitata; gli era stato assegnato un ruolo genericamente utile nel meccanismo della conservazione dell'individuo, e di grande importanza in quello della propagazione della razza; cosa che non metto in dubbio. Insomma, il fenomeno Piacere veniva salvato, agli occhi della ragione, con degli argomenti finalistici un tempo piuttosto solidi. .. Ma c'è piacere e piacere. Nessun piacere si lascia ricondurre tanto facilmente ad un posto ben. determinato in un buon ordinamento delle cose. Ve ne sono certi che non servono a nulla nell'economia della vita, e che non possono, d'altra parte, essere visti come semplici aberrazioni di una sensibilità necessaria all'essere vivente. Né l'utilità né l'abuso possono spiegarli. E non è tutto. Questo tipo di piacere è inseparabile da sviluppi che superano l'ambito della sensibilità, e la collegano sempre alla produzione di modificazioni affettive, di quelle che si prolungano e si arricchiscono nelle vie dell'intelletto, e che portano talvolta ad intraprendere azioni esterne sulla materia, sui sensi e sulla mente altrui, esigendo l'esercizio combinato di tutte le facoltà umane. 179

Questo è il punto. Un piacere che talvolta si approfondisce fino a comunicare l'illusione di una comprensione intima dell'oggetto che lo causa; un piacere che stimola l'intelligenza, la sfida, le fa amare la sua stessa sconfitta; e ancora, un piacere che può suscitare lo strano bisogno di produrre, o di riprodurre la cosa, il fatto, l'oggetto e lo stato al quale sembra legato, e che di-çiene così una fonte di attività senza un termine certo, capace di imporre una disciplina, uno zelo, dei tormenti a tutta una vita, e di riempirla - se non addirittura di farla straripare - propone al pensiero un enigma singolarmente specioso che non poteva sottrarsi al desiderio e alla morsa dell'idra metafisica. Nulla di più degno della volontà di potenza del Filosofo che quest'ordine di fatti in cui egli trova il sentire, il capire, il volere e il fare legati da un legame essenziale, che mostrava un'evidente reciprocità fra questi termini, e si opponeva allo sforzo scolastico, se non cartesiano, di divisione della difficoltà. L'unione di una forma, di una materia, di un pensiero, di una azione e di una passione; l'assenza di un fine determinato, e di ogni compimento che potesse esprimersi in nozioni finite: un desiderio e il suo soddisfacimento che si rigeneravano l'uno per mezzo dell'altro; questo desiderio che diveniva creatore e quindi causa di se stesso, e che si distaccava talvolta da ogni creazione particolare e da ogni soddisfazione ultima, per rivelarsi desiderio di creare per creare, - tutto ciò animò lo spirito di metafisica: esso dedicò la stessa attenzione che dedica a tutti gli altri problemi che suole crearsi per esercitare la propria funzione di ricostruttore della conoscenza in forma universale. Ma una mente che mira a questo grado sublime, dove spera di stabilirsi in stato di supremazia, dà forma a quel modo che crede soltanto di rappresentare. È veramente troppo potente per vedere solo ciò che si vede. Essa è indotta a scostarsi insensibilmente dal suo modello, di cui rifiuta il vero volto, che le suggerisce solo il caos, il disordine istantaneo delle cose osservabili: essa è tentata di trascurare le singolarità e le irregolarità che si esprimono faticosamente e che tormentano l'uniformità distributiva dei metodi. Analizza logicamente 180

ciò che viene detto. Vi pone il problema e trae dall'avversario stesso ciò che questi non sapeva di pensare. Gli mostra una sostanza invisibile sotto il visibile, che è accidente; gli tramuta il suo reale in apparenza; si diverte a creare i termini che mancano al linguaggio per soddisfare gli equilibri formali delle proposizioni: se manca qualche soggetto, lo fa generare da un attributo; se la contraddizione si fa minacciosa, si insinua nel gioco la distinzione, salvando la partita ... E tutto ciò va bene, - fino ad un certo punto. Così, davanti al mistero del piacere di cui parlo, il Filosofo giustamente preoccupato di trovargli un posto categorico, un senso universale, una funzione intelligibile; sedotto, ma messo in difficoltà dalla mescolanza che vi scopriva di voluttà, di fecondità e di un'energia paragonabile a quella che si sprigiona dall'amore; non potendo separare, in questo nuovo oggetto del suo sguardo, né la necessità dall'arbitrario, né la contemplazione dall'azione, né la materia dallo spirito, - non venne meno però alla sua volontà di ridurre con i consueti mezzi di esaustione e di divisione progressiva questo mostro della Favola Intellettuale, sfinge o grifone, sirena o centauro, in cui la sensazione, l'azione, il sogno, l'istinto, le riflessioni, il ritmo e la dismisura si compongono tanto intimamente quanto gli elementi chimici nei corpi viventi; . che talvolta ci viene offerto dalla natura, ma come per caso, e altre volte, formato a costo di immensi sforzi dall'uomo, che ne fa il prodotto di tutto quanto può spendere di spirito, di tempo, di ostinazione, e - insomma - di vita. La Dialettica, inseguendo con passione questa preda meravigliosa, la incalzò, la braccò, la ridusse alle strette nel boschetto delle Nozioni Pure. È lì che essa cç>lse l'Idea del Bello. Ma la caccia dialettica è una caccia magica. Nella foresta incantata del Linguaggio, i poeti vanno espressamente per perdervisi, e inebriarvisi di smarrimento, cercando gli incroci di significato, gli echi imprevisti, gli incontri strani; non temono né le deviazioni, né le sorprese, né le tenebre; - ma il cacciatore che si entusiasma ad inseguirvi la «verità», a 181

seguire un cammino unico e continuo, di cui ogni elemento sia il solo da prendere per non perdere né la pista, né il bottino raccolto lungo il percorso, rischia di catturare, alla fine soltanto la propria ombra. Gigantesca, talvolta, ma pur sempre ombra. Era fatale, probabilmente, che l'applicazione dell'analisi dialettica a dei problemi che non si circoscrivono in un campo ben determinato, che non si esprimono in termini esatti, non producesse che delle «verità» interne alla cerchia convenzionale di una dottrina, e che delle belle realtà non sottomesse venissero sempre a turbare la sovranità del Bello Ideale e la serenità della sua definizione. Non dico che la scoperta dell'Idea del Bello non sia stata un evento straordinario e che non abbia generato delle conseguenze positive, di importanza considerevole. Tutta la Storia dell'Arte occidentale mostra ciò che le si dovette, per più di venti secoli, in fatto di stili e di opere di prim'ordine. Il pensiero astratto si è qui dimostrato non meno fecondo di quanto sia stato nella costruzione della scienza. Ma questa idea tuttavia portava con sé quel difetto originario ed inevitabile a cui ho appena fatto cenno. Purezza, generalità, rigore, logica erano in questa materia virtù generatrici di paradossi, tra i quali ecco il più ammirevole: l'Estetica dei metafisici esigeva che si separasse il Bello dalle cose belle/ ... Ora, se è vero che non esiste alcuna scienza del particolare, non vi è azione né produzione che non sia al contrario essenzialmente particolare, e non esiste alcuna sensazione che sussista nell'universale. Il reale respinge l'ordine e l'unità che il pensiero vuole imporgli. L'unità della natura appare solo in sistemi di segni creati espressamente a questo scopo, e l'universo non è che un'invenzione più o meno comoda. Il piacere, insomma, esiste solo nell'istante, e non vi è nulla di più individuale, di più incerto, di più incomunicabile. I giudizi che se ne danno non permettono alcun ragionamento, poiché lungi dall'analizzare il loro oggetto, al contrario vi aggiungono in realtà un attributo di indeterminatezza: dire che un oggetto è bello, significa dargli valore di enigma. 182

Ma non vi sarà neppure modo di parlare di un bell'oggetto, visto che abbiamo isolato il Bello dalle cose belle. Non so se si è mai considerata a sufficienza questa conseguenza sorprendente: la deduzione di un'Estetica Metafisica, che tende a sostituire una conoscenza intellettuale all'effetto immediato e singolare dei fenomeni ed alla loro risonanza specifica, tende a dispensarci dall'esperienza del Bello, quale lo incontriamo nel mondo sensibile. Ora che si è ottenuta l'essenza della bellezza, che se ne sono scritte le formule generali, che la natura insieme all'arte sono state esaurite, superate, sostituite con il possesso del principio, e con la certezza dei suoi sviluppi, tutte le opere e tutti gli aspetti che ci affascinavano possono anche sparire o servire solo come esempi, mezzi didattici, da mostrare al momento. Questa conseguenza non viene confessata, - non ne dubito - , poiché non è affatto confessabile. Nessuno dei dialettici dell'Estetica converrà di non aver più bisogno né degli occhi, né delle orecchie al di fuori delle occasioni della vita pratica. E ancora, nessuno di essi pretenderà di potersi divertire, grazie alle sue formule, ad eseguire - o almeno a definire con la massima precisione - capolavori incontestabili, senza mettervi di sé altro che l'applicazione della propria mente ad una specie di calcolo. Né tutto è immaginario in questa supposizione. Sappiamo che sogni di questo genere hanno assillato più di un ingegno, e non dei meno potenti; e sappiamo, d'altra parte, quanto la critica, un tempo, considerando infallibili i propri principi, abbia usato e abusato, nella valutazione delle opere, dell'autorità che da essi credeva di trarre. Il fatto è che non vi è tentazione' più grande di quella di emettere giudizi definitivi nelle materie incerte. Il solo proposito di una «Scienza del Bello» doveva fatalmente crollare davanti alla varietà delle bellezze prodotte o ammesse nel mondo e nel tempo. Trattandosi di piacere, non vi sono che questioni di fatto. Gli individui godono come possono e di ciò che possono, e la malizia della sensibilità è infinita. Essa ignora i consigli meglio fondati, quand'anche 183

fossero il frutto delle osservazioni più sagaci e dei ragionamenti più sottili. Cosa vi è di più giusto, ad esempio, e di più gratificante per la mente della celebre regola delle unità, così conforme alle esigenze dell'attenzione e così favorevole alla solidità, alla compattezza dell'azione drammatica? 3 Ma uno Shakespeare, tra gli altri, la ignora e trionfa. A questo punto mi permetterò di esporre di sfuggita un'idea che mi viene, e che vi riporto, così come mi viene, allo stato fragile di fantasia: Shakespeare, tanto libero nel teatro, ha composto, d'altro canto, illustri sonetti, fatti secondo tutte le regole, e visibilmente molto curati; chissà se questo grand'uomo non attribuisse un maggior valore a queste liriche studiate, che alle tragedie e alle commedie che improvvisava, modificava sulla scena stessa, e per un pubblico occasionale? Ma il disprezzo o l'abbandono che finirono per estenuare la Regola degli Antichi, non significa affatto che i precetti che la compongono siano privi di valore; ma soltanto che si attribuiva loro un valore che era puramente immaginario, quello cioè di condizioni assolute dell'effetto più desiderabile di un'opera. Per «effetto più desiderabile» (è una definizione di circostanza) intendo quello prodotto da un'opera in cui l'impressione immediata che se ne riceve, lo choc iniziale, e il giudizio che se ne dà con calma, alla riflessione, all'esame della struttura e della forma, si oppongano fra di loro il meno possibile; ma in cui anzi si accordino, e in cui l'analisi e lo studio confermino e accrescano la soddisfazione del primo contatto. Accade a molte opere (ed è anche il fine limitato di certe arti) di non poter dare altro che effetti di prima intenzione. Se ci si sofferma su di esse, si scopre che esistono solo a costo di qualche incongruenza o di qualche assurdità, o di qualche artificio, che uno sguardo prolungato, delle domande indiscrete, una curiosità un po' troppo spinta metterebbero in pericolo. Vi sono monumenti di architettura che nascono semplicemente dal desiderio di innalzare uno scenario impressionante, che sia visto da un punto prescelto; e questa 184

tentazione induce abbastanza spesso il costruttore a sacrificare certe qualità, la cui assenza e le cui mancanze appaiono chiare se ci si allontana anche di poco dal punto favorevole previsto per l'osservazione. Il pubblico confonde troppo spesso l'arte limitata della scenografia, le cui condizioni sono stabilite in rapporto ad un luogo ben definito e circoscritto, e che richiedono un'unica prospettiva ed una particolare illuminazione, con l'arte completa in cui la struttura, le relazioni, rese sensibili, della materia, delle forme e delle forze sono dominanti, riconoscibili da ogni punto dello spazio, e introducono in un certo senso nella visione, una qualche presenza del sentimento della massa, della potenza statica, dello sforzo e degli antagonismi muscolari che ci fanno immedesimare nell'edificio, grazie ad una certa coscienza del nostro intero corpo. Chiedo scusa per questa digressione. Ritorno all'Estetica che, come dicevo, ha ricevuto dalla realtà forse più smentite che occasioni per credere di poter dominare il gusto, valutare definitivamente il merito delle opere, imporsi agli artisti come al pubblico, e obbligare la gente ad amare ciò che non amava e a detestare ciò che amava. Ma soltanto questa sua pretesa fu distrutta. Essa valeva più del suo sogno. Il suo errore, a mio parere, stava esclusivamente in se stessa e nella sua vera natura; nel suo vero valore e nella sua funzione. Si credeva universale, ma al contrario, era meravigliosamente se stessa, cioè originale. Cosa c'è di più originale che opporsi alla maggior parte delle tendenze, dei gusti e delle produzioni esistenti o possibili, condannare l'India e la Cina, il «gotico» e il moresco, e ripudiare quasi tutta la ricchezza del mondo per volere e per produrre altro: un oggetto sensibile di piacere che fosse in accordo perfetto con i ripensamenti ed i giudizi della ragione, e un'armonia dell'istante immediato con ciò che la durata scopre con più calma? All'epoca (e non è poi così remota) in cui tra i poeti sono sorti grandi dibattiti tra quelli che propugnavano i versi cosi detti «liberi» e quelli che sostenevano i versi della tradizione, sottoposti a diverse regole convenzionali, mi dicevo a 185

volte che la pretesa arditezza degli uni, la pretesa servitù degli altri erano solo una questione di pura cronologia, e che se avessimo avuto - fino ad allora - soltanto la libertà prosodica, e se avessimo visto improvvisamente alcune teste stravaganti inventare la rima e l'alessandrino a cesura, avremmo gridato alla follia o all'intenzione di beffarsi del lettore ... È abbastanza facile, nelle arti, immaginare di invertire gli antichi ed i moderni, considerare Racine giunto un secolo dopo Victor Hugo ... La nostra Estetica rigorosamente pura mi pare dunque un'invenzione che si ignora in quanto tale, e si ritiene una deduzione invincibile da qualche principio evidente. Boileau credeva di seguire la ragione: era insensibile a tutta la bizzarreria e alla particolarità delle norme. Cosa vi è di più capriccioso della proscrizione dello iato? Cosa di più sottile della giustificazione dei vantaggi della rima? Osserviamo che non vi è nulla di più naturale e forse di più inevitabile che prendere ciò che pare semplice, evidente e generale per qualcosa di diverso dal risultato locale di una riflessione personale. Tutto ciò che si crede universale è un effetto particolare. Ogni universo che ci illudiamo di formare, corrisponde in realtà ad un punto unico, e ci racchiude. Ma, ben lungi dal negare l'importanza dell'Estetica ragionata, le riservo, al contrario, un ruolo positivo e della massima conseguenza reale. Un'Estetica nata dalla riflessione e dalla volontà costante di comprensione dei fini dell'arte, che spinge le proprie pretese fino a proibire certi mezzi, o a prescrivere certe condizioni per la fruizione come per la produzione delle opere, può essere ed è stata in realtà di grandissimo aiuto a certi artisti o a certe famiglie di artisti, a titolo di contributo, di formulario di una certa arte (e non di ogni arte). Essa fissa delle leggi sotto le quali è possibile ordinare le numerose convenzioni e da cui si possono far derivare le decisioni particolari che un'opera riunisce e coordina. Formule siffatte possono, d'altronde, avere in certi casi una virtù creatrice, suggerire idee che mai avremmo avuto senza di esse. La restrizione è inventiva almeno quanto può 186

esserlo l'eccesso delle libertà. Non arriverò ad affermare con Joseph de Maistre che tutto ciò che ostacola l'uomo lo fortifica. De Maistre forse non pensava che possono esservi scarpe ·troppo strette. Ma, trattandosi di arti, mi risponderebbe, forse giustamente, che scarpe troppo strette ci farebbero inventare danze del tutto nuove. È evidente che considero ciò che viene chiamata Arte classica, e che è l'Arte accordata all'Idea del Bello, come una singolarità e non certo come la forma d'Arte più generale e più pura. Non dico certo che questo non sia affatto il mio sentimento personale; ma a questa preferenza non dò altro valore che quello di essere mia. Il termine di partito preso che ho impiegato, significa nelle mie intenzioni, che le regole elaborate dal teorico, il lavoro di analisi concettuale che egli ha compiuto col proposito di passare dal disordine dei giudizi all'ordine, dal fatto al diritto, dal relativo all'assoluto, e di situarsi in una posizione dogmatica, nel punto più elevato della coscienza del Bello, divengono utilizza bili nella pratica dell'Arte, in qualità di convenzione scelta tra altre egualmente possibili, con un atto non obbligato, - e non sotto la pressione di una necessità intellettuale ineluttabile, alla quale non ci si può sottrarre, una volta che si è capito di cosa si tratta. Perché ciò che costringe la ragione non costringe mai altri che essa. La ragione è una dea che crediamo essere sempre vigile, ma che in realtà dorme in qualche grotta della nostra mente: essa ci appare ogni tanto per invitarci a calcolare le diverse probabilità delle conseguenze delle nostre azioni. Ci suggerisce, di tanto in tanto (poiché la legge di queste apparizioni della ragione nella nostra coscienza è del tutto irrazionale), di simulare una perfetta uniformità dei nostri giudizi, una distribuzione di previsioni esente da preferenze segrete, un bell'equilibrio di argomenti, e tutto ciò esige da noi ciò che più ripugna alla nostra natura, - la nostra assenza. Questa augusta Ragione vorrebbe che noi cercassimo di identificarci con il reale al fine di dominarlo, imperare parendo; ma noi stessi siamo reali (o nulla lo è), e lo siamo soprattutto

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nell'azione, cosa che esige una tendenza, c10e una ineguaglianza, cioè una sorta di ingiustizia, il cui principio, quasi invincibile, è la nostra persona, che è singolare e diversa da tutte le altre, e ciò è contrario alla ragione. La ragione ignora o assimila gli individui che, talvolta, 1a ripagano abbondantemente. Si occupa solo di tipi e di confronti sistematici, di gerarchie ideali dei valori, di enumerazioni di ipotesi simmetriche, e tutto ciò, la cui formazione la definisce, ha luogo nel pensiero, e non altrove. Ma il lavoro dell'artista, anche nella parte tutta mentale di questo lavoro, non può ridursi a delle operazioni di pensiero direttivo. Da una parte, la materia, i mezzi, il momento stesso, e una schiera di accidenti (che caratterizzano il reale, almeno per il non-filosofo) introducono nella fabbricazione dell'opera una quantità di condizioni che non solo immettono l'imprevisto e l'indeterminato nel dramma della creazione, ma concorrono persino a renderlo razionalmente inconcepibile, poiché lo trascinano nell'ambito delle cose, dove si fa cosa; e da pensabile, diviene sensibile. D'altra parte, che lo voglia o meno, l'artista non può assolutamente staccarsi dal sentimento dell'arbitrario. Egli procede dall'arbitrario verso una certa necessità, e da un certo disordine verso un certo ordine; e non può fare a meno della sensazione costante di questo arbitrario e di questo disordine, che si oppongono a ciò che gli nasce fra le mani e che gli sembra necessario e ordinato. È questo contrasto che gli fa sentire che sta creando, poiché non può dedurre ciò che gli viene da ciò che ha. Per questo la sua necessità è completamente diversa da quella del logico. Essa sta tutta nell'istante di questo contrasto, e riceve la sua forza dalle proprietà di questo istante di risoluzione, che si tratterà di ritrovare in seguito, o di trasporre o di prolungare secundum artem. La necessità del logico risulta da una certa impossibilità di pensare, che colpisce la contraddizione: essa ha per fondamento la conservazione rigorosa delle convenzioni di notazione - delle definizioni e dei postulati. Ma ciò esclude dall'ambito dialettico tutto ciò che è indefinibile, o mal definibile, tutto ciò che non è essenzialmente linguaggio, né è 188

riducibile a espressioni tramite il linguaggio. Non vi è contraddizione senza dizione, ossia al di fuori del discorso. Il discorso è dunque un fine per il metafisico, e non è altro che un mezzo per l'uomo che mira a delle azioni. Essendosi dapprima occupato del Vero, nel quale ha riposto ogni suo diletto, e che riconosce dalla mancanza di contraddizione, il metafisico, quando poi scopre l'Idea del Bello e vuole svilupparne la natura e le conseguenze, non può non ricordarsi della ricerca della sua Verità; ed eccolo che persegue sotto il nome di Bello, qualche Vero di seconda serie: inventa, senza esitazioni, un Vero del Bello; e così facendo, come ho già detto, separa il Bello dai momenti e dalle cose, fra cui i bei momenti e le cose belle ... Quando ritorna alle opere d'arte, è quindi portato a giudicarle secondo dei principi, perché la sua mente è addestrata a cercare la conformità. Deve quindi per prima cosa tradurre la sua impressione in parole, e poi giudicherà sulle parole, speculerà sull'unità, la varietà e altri concetti. Pone quindi nell'ordine del piacere l'esistenza di una Verità, conoscibile e riconoscibile da chiunque: decreta l'eguaglianza degli uomini davanti al piacere, dichiara che vi sono piaceri veri e falsi, e che si possono formare dei giudici per enunciare il diritto con assoluta infallibilità. Non esagero affatto. Non vi è dubbio che la fede incrollabile nella possibilità di risolvere il problema della soggettività dei giudizi in materia d'arte e di gusti non sia stata più o meno radicata nel pensiero di tutti quelli che hanno sognato, tentato o realizzato la costruzione di un'Estetica dogmatica. Confessiamo, Signori, che nessuno di noi sfugge a questa tentazione e scivola abbastanza spesso dal singolare all'universale, affascinato dalle promesse del demone dialettico. Questo seduttore ci fa desiderare che tutto si riduca e si compia in termini categorici, e che il Verbo sia alla fine di ogni cosa. Ma bisogna rispondergli con questa semplice osservazione: l'azione stessa del Bello su qualcuno consiste nel render! o muto. Muto, innanzitutto; ma osserveremo presto questa notevole 189

conseguenza: se cerchiamo di descrivere, senza la mm1ma intenzione di giudicare, le nostre impressioni immediate dell'evento che ha colpito la nostra sensibilità, questa descrizione esige da noi l'uso della contraddizione. Il fenomeno ci obbliga a espressioni scandalose: la necessità dell'arbitrario; la necessità per mezzo dell'arbitrario. Poniamoci dunque nello stato adatto: quello in cui ci trasporta un'opera che sia di quelle che ci costringono a desiderarle tanto più, quanto più le possediamo (non c'è che da consultare la nostra memoria per trovarvi, lo spero, un modello di tale stato). Ci troviamo allora in una strana mescolanza, o meglio, in una curiosa alternanza di sentimenti nascenti la cui presenza o il cui contrasto mi sembrano caratteristici. Sentiamo, da un lato, che la fonte o l'oggetto della nostra volontà ci si addice a tal punto che non riusciamo a concepirlo diversamente. In certi casi di supremo appagamento, sentiamo persino che ci stiamo trasformando profondamente, per rendere la nostra sensibilità generale capace di un diletto così pieno e assoluto. Ma sentiamo anche, non meno fortemente, e come se grazie ad un altro senso, che il fenomeno che causa e sviluppa in noi questo stato, e ci infligge la sua potenza invisibile, avrebbe potuto non essere; che avrebbe persino dovuto non essere, e che si colloca nell'improbabile. E mentre il nostro piacere o la nostra gioia è forte come un fatto, l'esistenza e la formazione del mezzo, dello strumento generatore delle nostre sensazioni ci sembrano accidentali. Questa esistenza ci pare l'effetto di un caso felice, di un'occasione favorevole, di un dono gratuito della Fortuna. Ed è qui che, notiamolo, si manifesta un'analogia particolare fra l'effetto di un'opera d'arte e quello di un aspetto della natura, dovuto a qualche irregolarità geologica, ad una combinazione passeggera di luce e vapore acqueo nel cielo, ecc. Talvolta, non riusciamo ad immaginare che un uomo come noi sia l'autore di un dono così straordinario, e la gloria che gli accordiamo è l'espressione della nostra impotenza. Ora, que190

sto sentimento contraddittorio esiste al più alto grado nell'artista: è una condizione di ogni opera. L'artista vive nell'intimità del suo arbitrario e nell'attesa della sua necessità. La ricerca in ogni istante; la ottiene dalle circostanze più impreviste, più insignificanti, e non vi è alcuna proporzione, alcuna uniformità di relazione tra la grandezza dell'effetto e l'importanza della causa. Attende una risposta assolutamente precisa (poiché deve generare un atto di esecuzione) ad una domanda essenzialmente incompleta: desidera l'effetto che produrrà, in lui, ciò che da lui può nascere. A volte il dono precede la domanda e sorprende un uomo che si ritrova appagato senza esservisi preparato. Questo caso di grazia improvvisa è quello che, meglio di ogni altro, manifesta il contrasto di cui si è appena parlato fra le due sensazioni che accompagnano uno stesso fenomeno; ciò che ci sembra aver potuto non essere ci si impone con la stessa forza di ciò che non poteva non essere e che doveva essere ciò che è. Vi confesso, Signori, che non ho mai potuto spingermi oltre nelle mie riflessioni su questi problemi, a meno di arrischiarmi al di là delle osservazioni che potevo fare su di me. Se mi sono dilungato sulla natura dell'Estetica propriamente filosofica, è perché essa ci offre il modello stesso di uno sviluppo astratto applicato o imposto ad una varietà infinita di impressioni concrete e complesse. Ne consegue che essa non parla di ciò di cui crede di parlare, e di cui non è dimostrato, d'altronde, che si possa parlare. Tuttavia, fu incontestabilmente creatrice. Che si tratti delle regole del teatro, di quelle della poesia, dei canoni dell'architettura, della sezione aurea, della volontà di stabilire una Scienza dell'Arte o comunque di istituire dei metodi e, in un certo senso, di organizzare un terreno conquistato, o che si crede definitivamente conquistato, essa ha sedotto i più grandi filosofi. Perciò mi è capitato un tempo di confondere queste due razze, e questo mio travisamento non ha mancato di procurarmi severi rimproveri. Ho creduto di vedere in Leonardo un pensatore; in Spinoza, una sorta di poeta o di architetto. Certamente mi sono sbagliato. Mi sembrava però che la forma d'espressione 191

esteriore di un essere fosse a volte meno importante della natura del suo desiderio e del suo modo di concatenare i pensieri. Sia come sia, non ho bisogno di aggiungere che non ho trovato la definizione che cercavo. Ma non mi dispero per questo risultato negativo. Se avessi trovato questa definizione, sarei forse stato tentato di negare l'esistenza di un oggetto che le corrispondesse, e di pretendere che l'Estetica non esistesse. Ma ciò che è indefinibile non è necessariamente negabile. Nessuno, che io sappia, si è mai vantato di definire la Matematica, e nessuno dubita della sua esistenza. Alcuni si sono cimentati a definire la vita: ma l'esito del loro sforzo fu sempre pressocché vano: non per questo si può negare la vita. L'Estetica esiste: e vi sono anche gli estetologi. E ad essi proporrò, in conclusione, qualche consiglio, delle idee, che potranno benissimo considerare come quelle di un ignorante o di un ingenuo, o di una felice combinazione di entrambi. Ritorno al cumulo di libri, di trattati o di memorie che ho considerato ed esplorato poco fa, e nel quale ho trovato la varietà che sapete. Non li si potrebbe classificare in questo modo? Costituirò un primo gruppo, che battezzerò Estesica, e vi metterò tutto quel che si riferisce allo studio delle sensazioni; ma più in particolare vi troveranno posto i lavori che hanno per oggetto le eccitazioni e le reazioni sensibili che non hanno ruolo fisiologico uniforme e ben definito. Sono, infatti, le modificazioni sensoriali di cui l'essere vivente può fare a meno, e il cui insieme (che include, a titolo di rarità, le sensazioni indispensabili o utilizzabili) è nostro patrimonio. È in esso che consiste la nostra ricchezza. Tutto il lusso delle nostre arti viene attinto dalle sue infinite risorse. Un altro mucchio riunirebbe tutto ciò che concerne la produzione delle opere; e un'idea generale dell'azione umana completa, dalle sue radici psichiche e fisiologiche fino ai suoi interventi sulla materia o sugli individui, permetterebbe di suddividere questo secondo gruppo, che chiamerò Poetica, o 192

meglio Poietica. Da un lato, lo studio dell'invenzione e della composizione, il ruolo del caso, quello della riflessione, quello dell'imitazione; quello della cultura e dell'ambiente; dall'altro, l'esame e l'analisi di tecniche, procedimenti, strumenti materiali, mezzi e ausili. Questa classificazione è piuttosto grossolana. È anche insufficiente. Occorre almeno un terzo mucchio dove verrebbero accumulate le opere che trattano di problemi in cui la mia Estesica e la mia Poietica si accavallano. Ma quest'osservazione che faccio a me stesso mi fa temere che il mio proposito sia illusorio, e sospetto che ognuna delle comunicazioni che seguiranno ne dimostrerà l'inanità. Cosa mi rimane dall'aver saggiato per qualche istante il pensiero estetico, e posso almeno riassumermi - in mancanza di un'idea distinta e risolutrice - la molteplicità delle mie esitazioni? Questo ritorno sulle mie riflessioni non mi dà null' altro che proposizioni negative, risultato tutto sommato considerevole. Non esistono forse numeri che l'analisi definisce solo per negazione? Ecco dunque cosa mi dico: esiste una forma di piacere che non si spiega; che non si lascia circoscrivere, che non resta confinata nell'organo del senso da cui nasce, e nemmeno nel campo della sensibilità; che differisce per natura o per occasione, intensità, importanza e rilievo secondo le persone, le circostanze, le epoche, la cultura, l'età e l'ambiente; che spinge degli individui distribuiti come per caso nell'insieme di un popolo ad azioni senza una causa universalmente valida, e in vista di fini incerti; e queste azioni generano prodotti di varia natura i cui valori d'uso e di scambio dipendono ben poco da ciò che sono. Infine, ultima negativa: tutte le fatiche affrontate per definire, regolamentare, regolarizzare, misurare, consolidare o assicurare questo piacere e la sua produzione sono state, fino ad ora, vane ed infruttuose; ma poiché occorre che tutto, in questo campo, sia impossibile da circoscrivere, esse sono state vane solo in modo imperfetto, e il loro insuccesso non ha mancato di essere, talvolta, curiosamente creatore e fecondo. 193

Non oso dire che l'Estetica sia lo studio di un sistema di negazioni, benché vi sia un pizzico di verità in questa affermazione. Se si prendono i problemi di petto e come corpo a corpo, problemi che sono quello del piacere e quello della capacità di produrre il piacere, le soluzioni positive, anche i soli enunciati ci sfidano. Ci terrei, invece, ad esprimere tutt'altro pensiero. Vedo un avvenire meravigliosamente vasto e radioso per le vostre ricerche. Riflettete: oggi tutte le scienze più sviluppate invocano o reclamano, anche nelle loro tecniche, il soccorso o il concorso di considerazioni o di conoscenze il cui studio particolare è di vostra pertinenza. I matematici non parlano che della bellezza della struttura dei loro ragionamenti e delle loro dimostrazioni. Le loro scoperte si sviluppano grazie alla percezione di analogie formali. Al termine di una conferenza tenuta all'Istituto Poincaré, Einstein diceva che per completare la sua costruzione ideale dei simboli era stato obbligato ad «introdurre alcuni punti di vista propri dell'architettura». Anche in Fisica, d'altronde, assistiamo alla crisi di quell'imagerie che, da tempo immemorabile, presentava la materia ed il movimento ben distinti; il luogo ed il tempo, ben riconoscibili e reperibili in ogni scala; e disponeva delle grandi facilitazioni offerte dal continuo e dalla similitudine. Ma i suoi poteri d'azione hanno superato ogni previsione, e oltrepassano tutti i nostri mezzi di rappresentazione figurata, fanno crollare persino le nostre venerabili categorie. Eppure la Fisica ha come oggetto fondamentale le nostre sensazioni e le nostre percezioni. Ma le considera come sostanza di un universo esterno sul quale possiamo intervenire in qualche modo, e rifiuta o trascura, fra le nostre impressioni immediate, quelle a cui non può far corrispondere un'operazione che permetta di riprodurle in condizioni «misurabili», ossia legate alla permanenza che noi attribuiamo ai corpi solidi. Ad esempio, il colore non è per un fisico che una circostanza accessoria; ne trae solo una grossolana indicazione di frequenza. Quanto agli effetti di contrasto, ai complementari, e 194

ad altri fenomeni dello stesso genere, li scarta dalla sua strada. Si giunge così a questa interessante constatazione: mentre per il pensiero del fisico l'impressione colorata ha il carattere di un accidente che si produce ad un tale o talaltro valore di una serie crescente e indefinita di numeri, l'occhio dello stesso studioso gli offre un insieme limitato e chiuso di sensazioni che si corrispondono a due a due, a tal punto che se l'una è data con una certa intensità ed una certa durata, viene subito seguita dalla produzione dell'altra. Se qualcuno non avesse mai visto il verde, gli basterebbe guardare qualcosa di rosso per conoscerlo. Mi son chiesto, a volte, pensando alle nuove difficoltà della fisica, a tutte le creazioni incerte che ogni giorno è costretta a fare e a rimaneggiare, semi-!:~ntità e semi-realtà, se, dopo tutto, la retina non potesse avere anch'essa le sue opinioni sui fotoni, e una sua teoria della luce, se i corpuscoli del tatto e le meravigliose proprietà della fibra muscolare e la sua innervazione non potessero essere parti in causa di grande importanza nel processo di edificazione del tempo, dello spazio e della materia. La Fisica dovrebbe ritornare allo studio della sensazione e dei suoi organi. Ma tutto ciò non è forse Estesica? E se nell'Estesica introduciamo infine certe diseguaglianze e certe relazioni, non siamo allora molto vicini alla nostra indefinibile Estetica? Non vi ho appena menzionato il fenomeno dei complementari che ci mostra, nel modo più semplice e comodo ad osservarsi, un'autentica creazione? Un organo affaticato da una sensazione sembra fuggirla emettendo una sensazione simmetrica. Si potrebbero trovare, similmente, innumerevoli produzioni spontanee, che ci si offrono in qualità di complementi di un sistema d'impressioni avvertito come insufficiente. Non possiamo vedere una costellazione in cielo, che subito vi aggiungiamo le linee che ne uniscono gli astri, e non possiamo sentire dei suoni abbastanza ravvicinati senza farne una successione e trovar loro un'azione, nei nostri apparati muscolari, che sostituisca alla pluralità di questi eventi distinti un processo di generazione più o meno complicato. 195

Sono, queste, altrettante opere elementari. L'Arte, forse, è fatta solamente dalla combinazione di tali elementi. Il bisogno di completare, di rispondere con il simmetrico, o con il simile, quello di riempire un tempo vuoto o uno spazio nudo, quello di colmare una lacuna, un'attesa, o di nascondere il presente sgradevole con immagini favorevoli, sono altrettante manifestazioni di una facoltà che, moltiplicata dalle trasformazioni che l'intelletto sa operar~, armata di uno stuolo di procedimenti e di mezzi mutuati dall'esperienza dell'azione pratica, ha potuto innalzarsi a quelle grandi opere di pochi individui che raggiungono, qua e là, il grado più alto di necessità che la natura umana possa ottenere dal possesso del suo arbitrario, come in risposta alla varietà stessa e all'indeterminatezza di tutto il possibile che è in noi. (1937)

Note l All'inizio del Discours de la méthode, infatti, Cartesio si riproponeva di «faire partout des dénombrements si entiers et des revues si génerales que je fusse assuré de ne rien omettre» (DESCARTES, Discours de la méthode suivi des méditations métaphysiques, Parigi, F1ammarion, 1937, 14). 2 V aléry si riferisce al principio di indeterminazione. 3 La regola delle tre unità di tempo, di spazio, di azione, fondamento del teatro classico francese.

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Poesia e Pensiero astratto

Si oppone spesso l'idea di Poesia a quella di Pensiero, e soprattutto di «Pensiero astratto)). Si dice «Poesia e Pensiero astratto)) così come si dice il Bene e il Male, il Vizio e la Virtù, il Caldo e il Freddo. I più credono, senza riflettere, che le analisi e il lavoro dell'intelletto, gli sforzi di volontà e di precisione in cui esso impegna la mente, non si accordino con la naturalezza originaria, la sovrabbondanza d'espressioni, la fantasia e la grazia che caratterizzano la poesia e la rendono riconoscibile fin dalle prime parole. Se si scopre della profondità in un poeta, essa ci appare di tutt'altra natura rispetto a quella di un filosofo o di uno scienziato. Taluni giungono a pensare che persino la meditazione sulla propria arte, il rigore del ragionamento applicato alla coltivazione delle rose, non possono far altro che perdere un poeta; infatti l'oggetto principale e più affascinante del suo desiderio dev'essere quello di comunicare la impressione di uno stato nascente (e felicemente nascente) d'emozione creatrice che, in Virtù della sorpresa e del piacere, possa indefinitamente sottrarre la poesia ad ogni riflessione critica ulteriore. È possibile che questa opinione contenga una parte di verità, benché la sua semplicità mi faccia sospettare che essa 197

sia d'origine scolastica. Ho l'impressione che abbiamo appreso e adottato quest'antitesi prima di qualsiasi riflessione e che la ritroviamo consolidata in noi sotto forma di contrasto verbale, come se rappresentasse una relazione chiara e reale tra due nozioni ben definite. Bisogna riconoscere che quel personaggio sempre impaziente di concludere che noi chiamiamo la nostra mente, ha un debole per le semplificazioni di questo tipo, in quanto le offrono tutte le opportunità di formare un gran numero di combinazioni e di giudizi, di sviluppare la sua logica e ampliare le sue risorse retoriche, di fare, insomma, il suo mestiere di mente nel più brillante dei modi. Tuttavia questo contrasto classico, e come cristallizzato dal linguaggio, mi è sempre apparso troppo brutale, e allo stesso tempo troppo comodo, per non sentirmi spinto ad esaminare le cose più da vicino. Poesia, Pensiero astratto. È presto detto, e crediamo subito di aver espresso qualcosa di sufficientemente chiaro e preciso per poter proseguire, senza dover ritornare sulle nostre esperienze; per costruire una teoria o avviare una discussione, di cui questa antinomia, così seducente nella sua semplicità, sarà il pretesto, l'argomento e la sostanza. Si potrà persino costruire su questa base una metafisica - o per lo meno una « psicologia» - e crearsi un sistema della vita mentale, della conoscenza, dell'invenzione e produzione delle opere dell'intelletto, che dovrà necessariamente trovare come conseguenza quella stessa dissonanza terminologica che gli è servita da avvio ... Quanto a me, ho la strana e pericolosa mania di volere in ogni campo iniziare dall'inizio (vale a dire, dal mio inizio individuale), cosa che si traduce nel ricominciare e ripercorrere una strada, come se tanti altri non l'avessero già tracciata e percorsa ... Questa è la strada che ci viene offerta o imposta dal linguaggio. In ogni problema, e prima di qualsiasi analisi sul contenuto1, mi rivolgo al linguaggio; ho l'abitudine di procedere alla maniera dei chirurghi che anzitutto si disinfettano le mani e preparano il campo operatorio. È ciò che definisco 198

ripulitura della situazione verbale. Mi si perdoni questa espressione che assimila parole e forme del discorso alle mani e agli strumenti di un operatore. Si deve, a mio parere, fare attenzione ai primi contatti di un problema con la nostra mente. Dobbiamo stare attenti alle prime parole che lo esprimono nel nostro intelletto. Un nuovo problema appare inizialmente in noi allo stadio infantile; balbetta; non trova che termini estranei, carichi di valori e associazioni accidentali; è costretto ad usarli. Ma così, insensibilmente, altera il nostro vero bisogno. Rinunciamo senza saperlo al nostro problema originario, e finiamo per credere di esserci scelta un'opinione tutta nostra, dimenticando che tale scelta non si è operata che su un ventaglio d'opinioni, prodotto, più o meno cieco, degli altri uomini e del caso. Lo stesso succede per i programmi dei partiti politici, nessuno dei quali è (né può essere) quello che corrisponderebbe esattamente alla nostra sensibilità e ai nostri interessi. Se ne scegliamo uno, a poco a poco diventiamo l'uomo che occorre a quel programma e a quel partito. I problemi di filosofia e di estetica sono talmente oscurati dalla quantità, diversità e antichità delle ricerche, delle dispute e delle soluzioni che si sono prodotte nell'ambito di un vocabolario ristrettissimo, utilizzato da ogni autore secondo le sue tendenze, che l'insieme di quei lavori mi dà l'impressione di una regione, negli Inferi degli antichi, espressamente riservata a profondi intelletti. Là Danaidi, Issioni e Sisifi lavorano eternamente per riempire botti senza fondo, per risollevare massi che sempre ricadono, cioè per ridefinire la stessa dozzina di parole le cui combinazioni costituiscono il tesoro della Conoscenza Speculativa. Permettetemi di aggiungere un'ultima osservazione ed un esempio a queste considerazioni preliminari. L'osservazione è la seguente: avrete certamente notato questo fatto curioso, che una certa parola, perfettamente chiara quando la sentite o la usate nel linguaggio corrente, e che non ingenera alcuna difficoltà quando è inserita nel rapido procedere di una frase comune, diventa, come per magia, ingombrante, oppone una 199

strana resistenza, elude tutti gli sforzi di definizione non appena la ritirate dalla circolazione per esaminarla a parte e le cercate un senso dopo averla sottratta alla sua funzione momentanea. È quasi comico domandarsi cosa significhi esattamente un termine che si utilizza ad ogni istante con piena soddisfazione. Per esempio: colgo al volo la parola Tempo. Questo termine era assolutamente limpido, preciso, onesto e fedele nella sua funzione, finché svolgeva il suo compito in un discorso, ed era pronunciato da qualcuno che voleva dire qualcosa. Ma eccolo qui, tutto solo, afferrato per le ali. Si vendica. Ci fa credere di avere più significato di quanto non abbia funzioni. Non era che un mezzo, ed eccolo diventato un fine, oggetto di un orribile desiderio filosofico. Si trasforma in enigma, in abisso, in tormento per il pensiero ... Lo stesso accade per la parola Vita, e per tutte le altre. Questo fenomeno facilmente osservabile ha assunto per me un grande valore critico. D'altra parte me lo sono figurato in un modo che rappresenta abbastanza bene, per me, la strana condizione del nostro materiale verbale. Ogni parola, ognuna delle parole che ci permettono di oltrepassare tanto rapidamente lo spazio di un pensiero, e di seguire l'impulso dell'idea che si costruisce da sola la propria espressione, mi sembra una di quelle assi leggere che si gettano su un fossato, o su un crepaccio di montagna, e che sopportano il passaggio di un uomo in rapido movimento. Ma che passi senza far sentire il suo peso e senza soffermarsi- e soprattutto, che non si diverta a dondolarsi sulla sottile tavola per saggiarne la resistenza! ... Il fragile ponte subito ondeggia o si rompe, e tutto precipita nell'abisso. Fate riferimento alla vostra esperienza; scoprirete che capiamo gli altri, e noi stessi, solo grazie alla rapidità del nostro passaggio sulle parole. Non bisogna indugiare su di esse, pena il vedere il discorso più chiaro decomporsi in enigmi, in illusioni più o meno sofisticate. Ma come fare per pensare - intendo dire: per ripensare, per approfondire ciò che sembra meritare d'essere approfondito - se consideriamo il linguaggio come essenzialmente provvisorio, come il biglietto di banca o l'assegno il cui 200

«cosiddetto» valore esige l'oblio della loro reale natura, che è quella di un pezzo di carta in genere sporca? Questa carta è passata per tante mani. .. Ma le parole sono passate per tante bocche, per tante frasi, usi ed abusi che occorrono le più raffinate precauzioni per evitare un'eccessiva confusione nelle nostre menti, tra ciò che pensiamo e cerchiamo di pensare, e ciò che il dizionario, gli autori e, del resto, tutto il genere umano, fin dall'origine del linguaggio, vogliono farci pensare ... Mi guarderò dunque bene dal fidarmi di ciò che i termini di Poesia e di Pensiero astratto mi suggeriscono, appena pronunciati. Ma mi rivolgerò a me stesso. Sarà lì che cercherò le vere difficoltà e le autentiche osservazioni sulla mia condizione reale; lì troverò il mio razionale e il mio irrazionale; vedrò se l'opposizione addotta esiste, e in che modo essa esista allo stato vivente. Confesso che ho l'abitudine di distinguere fra i problemi dell'intelletto quelli che avrei potuto inventare io stesso e che esprimono un bisogno realmente sentito dal mio pensiero, da quelli che sono problemi altrui. Fra questi ultimi, ve ne sono diversi (diciamo il quaranta per cento) che mi sembrano inesistenti, nient'altro che apparenze di problemi: io non li sento. E fra i rimanenti, ve n'è più d'uno che mi sembra mal enunciato ... Non pretendo di aver ragione. Dico solo che osservo in me stesso ciò che avviene quando cerco di sostituire le formule verbali con valori e significati non verbali, indipendenti dal linguaggio adottato. Trovo in me degli impulsi e delle immagini primitive, dei prodotti grezzi dei miei bisogni e delle mie esperienze personali. È la mia stessa vita che si stupisce, ed è lei che deve fornirmi, se lo può, le risposte, poiché solo nelle reazioni della nostra esistenza può risiedere tutta la forza, e quasi la necessità, della nostra verità. Il pensiero che emana da questa vita non si serve mai con se stesso di certe parole, che gli sembrano valide soltanto per l'uso esterno: né di certe altre di cui non vede il fondo, e che possono solo ingannarlo circa la sua potenza e il suo valore reale. Ho dunque osservato in me stesso certi stati che posso a buon diritto definire Poetici, poiché alcuni fra essi si sono alla 201

fine risolti in poesie. Si sono prodotti senza causa apparente, a partire da un avvenimento qualunque; si sono sviluppati secondo la loro natura, e in questo modo, mi sono trovato per un certo lasso di tempo discosto dal mio regime mentale più frequente. Poi, essendosi concluso il ciclo, sono ritornato a quel regime di scambi ordinari tra la mia vita e i miei pensieri. Ma intanto una poesia era stata fatta, il ciclo, al suo compimento, lasciava qualcosa dietro a sé. Quel ciclo chiuso è il ciclo di un atto che ha come sollevato e restituito esteriormente una potenza di poesia ... Altre volte ho notato che un incidente non meno insignificante causava - o sembrava causare- un'escursione completamente diversa, uno scarto di natura e di risultato del tutto differente. Ad esempio, un improvviso accostamento di idee, un'analogia, mi colpiva, come il richiamo di un corno nel cuore di una foresta fa drizzare l'orecchio e orienta virtualmente tutti i nostri muscoli coordinandoli verso qualche punto dello spazio nella profondità del fogliame. Ma, questa volta, invece di una poesia, era l'analisi di quell'improvvisa sensazione intellettuale che s'impadroniva di me. Non erano versi che si staccavano più o meno facilmente dalla mia permanenza in questa fase; ma una proposizione destinata a incorporarsi alle mie abitudini mentali, una formula che doveva ormai servire come strumento di ricerche ulteriori. .. Chiedo scusa se mi espongo così davanti a voi; ma ritengo sia più utile raccontare quel che si è provato, piuttosto che simulare una conoscenza indipendente da qualsiasi individuo ed un'osservazione priva di osservatore. Di fatto, non esiste teoria che non sia un frammento, accuratamente preparato, di un'autobiografia. Non pretendo d'insegnarvi qualcosa. Non vi dirò nulla che già non sappiate; ma ve lo dirò forse in un ordine diverso. Non sarò certo io a spiegarvi che un poeta non è sempre incapace di calcolare la quarta incognita; né che un logico non riesca a vedere nelle parole altro che concetti, classi e semplici pretesti a sillogismi. A questo riguardo, aggiungerò un'idea paradossale: se il

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logico non potesse essere mai altro che logico, non sarebbe né potrebbe essere un logico; e se il poeta non fosse mai altro che poeta, senza la minima speranza di poter astrarre e ragionare, non lascerebbe dietro di sé alcuna traccia poetica. Penso sinceramente che se l'uomo non potesse vivere numerose vite oltre la sua, non potrebbe vivere nemmeno la propria. La mia esperienza mi ha dunque mostrato che lo stesso io crea delle figure molto diverse, e diventa logico o poeta attraverso specializzazioni successive, ciascuna delle quali rappresenta uno scarto rispetto allo stato puramente disponibile e superficialmente accordato con l'ambiente esterno, che è poi la condizione normale del nostro essere, lo stato d'indifferenza degli scambi. Vediamo anzitutto in cosa può consistere quel sommovimento iniziale e sempre accidentale che costruirà in noi lo strumento poetico, e soprattutto quali sono i suoi effetti. Il problema si può esprimere in questa forma: la Poesia è un'arte del Linguaggio; certe combinazioni di parole possono produrre un'emozione che altre non producono, e che chiameremo poetica. Che specie d'emozione è questa? La riconosco in me per la seguente caratteristica: tutti gli oggetti possibili del mondo ordinario, esteriore o interiore, gli esseri, gli avvenimenti, i sentimenti e gli atti, pur restando in apparenza ciò che sono normalmente, si trovano tutt'a un tratto in una relazione indefinibile, ma meravigliosamente adeguata ai modi della nostra sensibilità generale. V al e a dire che quelle cose e quegli esseri conosciuti - o piuttosto le idee che li rappresentano - cambiano in qualche modo di valore. Si attraggono fra di loro, si associano in modi completamente diversi da quelli usuali; si trovano (permettetemi quest'espressione) musicalizzati, risuonando l'uno per mezzo dell'altro, e come in corrispondenza armonica. L'universo poetico così definito presenta notevoli analogie con ciò che possiamo supporre dell'universo del sogno. Poiché la parola sogno si è introdotta in questo discorso, accennerò velocemente al fatto che nei tempi moderni, a partire dal romanticismo, si è prodotta una confusione facil203

mente spiegabile fra la nozione di sogno e quella di poesia. Né il sogno né la fantasticheria sono necessariamente poetici; possono esserlo: ma figure formate dal caso non sono che per caso figure armoniche. Tuttavia i ricordi dei nostri sogni ci insegnano, grazie ad un'esperienza comune e frequente, che la nostra coscienza può essere invasa, riempita, interamente saturata dalla produzione di un'esistenza, i cui oggetti e i cui esseri sembrano identici a quelli della veglia; ma i loro significati, le loro relazioni e i loro modi di variazione e sostituzione sono completamente diversi e ci rappresentano senza dubbio, come simboli o allegorie, le fluttuazioni immediate della nostra sensibilità generale, non controllata dalle sensibilità dei nostri sensi specializzati. È pressoché allo stesso modo che lo stato poetico si insedia, si sviluppa, e alla fine si dissolve in noi. In altre parole, lo stato di poesia è assolutamente irregolare, incostante, involontario, fragile, e noi lo perdiamo, come pure lo otteniamo accidentalmente. Ma questo stato non basta per fare un poeta, come pure non basta vedere un tesoro in sogno per ritrovarlo, al risveglio, scintillante ai piedi del letto. Un poeta- non stupitevi di ciò che sto per dirvi- non ha come funzione quella di provare lo stato poetico: questo è un affare privato. Ha piuttosto la funzione di ricrearlo negli altri. Si riconosce il poeta - o, per lo meno, ciascuno riconosce il proprio - per il semplice fatto che egli trasforma il lettore in un essere «ispirato». L'ispirazione è, positivamente parlando, un'attribuzione graziosamente concessa dal lettore al proprio poeta: il lettore ci offre i meriti trascendenti di poteri e grazie che si sviluppano in lui. Cerca e trova in noi la mirabile causa della sua meraviglia. Ma l'effetto poetico, e la sintesi artificiale di questo stato realizzata per mezzo di un'opera, sono due cose ben distinte; differenti tra loro quanto lo sono una sensazione e un'azione. Un'azione coordinata è molto più complessa di qualsiasi produzione istantanea, soprattutto quando deve svolgersi in un campo convenzionale com'è quello del linguaggio. Ed ecco 204

che vedete apparire nelle mie spiegazioni quel famoso PENche l'uso comune oppone alla POESIA. Ne riparleremo fra poco. Vorrei intanto raccontarvi una storia vera, per farvi sentire, come l'ho sentita io stesso, in modo curiosamente chiaro, tutta la differenza esistente fra lo stato o l'emozione poetica, anche creatrice e originale, e la produzione di un'opera. È un'osservazione abbastanza sorprendente che ho fatto su di me, circa un anno fa. Ero uscito di casa per distrarmi da un lavoro noioso camminando un po' e guardandomi attorno. Percorrendo la strada dove abito, fui improvvisamente afferrato da un ritmo che mi si imponeva e mi offriva ben presto l'impressione di un funzionamento estraneo. Era come se qualcuno si servisse della mia macchina per vivere. Un altro ritmo venne allora a sovrapporsi al primo e a combinarsi con questo; si stabilirono delle indefinibili .relazioni trasversali fra le due leggi (mi spiego come posso). Tutto ciò combinava il movimento delle mie gambe in marcia con non so quale canto che stavo mormorando, o meglio che si stava mormorando attraverso me. Questa composizione divenne sempre più complicata, e sorpassò ben presto in complessità tutto ciò che potevo ragionevolmente produrre grazie alle mie facoltà ritmiche ordinarie e utilizzabili. Allora, la sensazione di estraneità di cui ho parlato divenne quasi dolorosa, inquietante. Non sono musicista; ignoro completamente la tecnica musicale; ed eccomi preda di uno sviluppo ritmico composito, di una complessità alla quale nessun poeta potrebbe mai pensare. Mi dicevo quindi che ci doveva essere un errore di persona, che questa grazia sbagliava individuo, poiché non potevo far nulla di un simile dono - che in un musicista, invece, avrebbe senza dubbio acquisito valore, forma e durata, mentre quelle parti che s'intrecciavano e si separavano mi offrivano invano una produzione il cui sviluppo sapiente e organizzato meravigliava e faceva disperare la mia ignoranza. In capo a una ventina di minuti l'incanto svanì bruscamente; !asciandomi sulla riva della Senna, perplesso quanto l'anatra della Favola che dall'uovo che aveva covato vide SIERO ASTRATTO

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nascere un cigno. Volato via il cigno, la mia sorpresa si mutò in riflessione. Sapevo bene che il fatto di camminare mi mantiene spesso in uno stato di vivace produzione d'idee, e che si stabilisce una certa reciprocità fra la mia andatura e i miei pensieri, poiché i miei pensieri modificano la mia andatura; e questa, a sua volta, stimola i miei pensieri - fatto, dopo tutto, assai notevole, ma relativamente comprensibile. Senza dubbio, i nostri diversi «tempi di reazione» si armonizzano, ed è molto interessante dover ammettere che vi è possibilità di modificazione reciproca fra un regime d'azione puramente muscolare ed una produzione svariata d'immagini, di giudizi, di ragionamenti. Ma nel caso di cui vi parlo, accadde che il movimento dei miei passi si estese alla mia coscienza attraverso un sistema di ritmi piuttosto complesso, invece di provocare in me quella nascita d'immagini, di parole interiori e di atti virtuali che chiamiamo idee. Le idee appartengono ad un genere a me familiare; sono cose che so annotare, provocare, manovrare ... Ma non posso dire altrettanto dei miei ritmi inattesi. Cosa avrei dovuto pensare di tutto questo? Ho immaginato che la produzione mentale mentre camminavo dovesse rispondere ad un'eccitazione generale che si sviluppava nel mio cervello; questa eccitazione si appagava, trovava sollievo come poteva, e, pur di dissipare energie, poco le importava di farlo con idee, ricordi, o ritmi canticchiati distrattamente. Quel giorno, si era sfogata in intuizione ritmica, sviluppatasi prima che si fosse risvegliata, nella mia coscienza, la persona che sa di non sapere la musica. Penso che, allo stesso modo, la persona che sa di non poter volare non sia ancora operante in colui che sogna di volare. Vi chiedo scusa per questa lunga storia vera- per lo meno vera quanto lo può essere una storia di questo genere. È da notare che tutto quello che ho detto o creduto di dire si svolge fra ciò che chiamiamo Mondo esterno, ciò che chiamiamo il Nostro Corpo, e ciò che chiamiamo la Nostra Mente - e richiede una certa confusa collaborazione fra queste tre grandi potenze. 206

Perché vi ho raccontato tutto questo? Per mettere in risalto la differenza profonda che esiste fra la produzione spontanea della mente - o piuttosto dell'insieme della nostra sensibilità, e la costruzione delle opere. Nel mio racconto, la sostanza di un'opera musicale mi era stata liberalmente offerta; ma mi mancava l'organizzazione che avrebbe potuto coglierla, fissarla, ridisegnarla. Il grande pittore Degas mi ha spesso riferito quella frase tanto giusta e semplice di Mallarmé. Degas componeva a volte dei versi, e ne ha lasciati di deliziosi. Ma incontrava spesso grandi difficoltà in quest'occupazione accessoria rispetto alla sua pittura. (D'altronde, era uomo in grado di introdurre in qualunque arte il massimo possibile di difficoltà). Disse un giorno a Mallarmé: «Il vostro mestiere è infernale. Non riesco a fare ciò che voglio eppure, sono pieno d'idee ... ». E Mallarmé gli rispose: «Non è con le idee che si compongono i versi, mio caro Degas, ma con le parole». Mallarmé aveva ragione. Ma quando Degas parlava di idee, pensava di certo a discorsi interiori o ad immagini, che, dopo tutto, avrebbero potuto esprimersi in parole. Ma quelle parole, quelle frasi intime che egli chiamava le sue idee, tutte quelle intenzioni e quelle percezioni della mente - tutto ciò non produce dei versi. Vi è dunque dell'altro, una modificazione, una trasformazione, più o meno improvvisa, più o meno spontanea, più o meno laboriosa, che si interpone necessariamente fra il pensiero produttore d'idee, l'attività e la molteplicità di problemi e di soluzioni interiori; ci sono poi i versi, queste espressioni così differenti da quelle comuni, che, bizzarramente ordinati, non rispondono ad alcun bisogno, se non a quello che essi stessi devono creare; che non parlano se non di cose assenti e di cose profondamente e segretamente sentite; strani discorsi, che sembrano fatti da un personaggio diverso da quello che li pronuncia, e sembrano indirizzarsi ad un personaggio diverso da colui che li ascolta. Insomma, è un linguaggio dentro un altro linguaggio. Indaghiamo un po' questi misteri. La poesia è un arte del linguaggio. Tuttavia, il linguaggio è una creazione della pratica. Notiamo anzitutto che ogni 207

comunicazione fra gli uomini offre qualche certezza solo nella pratica, e attraverso la verifica che la prassi ci permette. Vi chiedo di accendere. Voi mi fate accendere: mi avete capito. Ma, chiedendomi un fiammifero, avete potuto pronunciare quelle poche parole senza importanza, con un certo tono, un determinato timbro di voce - con una certa inflessione e una certa lentezza o precipitazione che ho potuto notare. Ho capito le vostre parole, poiché, senza nemmeno pensarci, vi ho porto ciò che chiedevate, questa fiammella. Ed ecco che tuttavia la questione non è conclusa. È strano: il suono, e quasi la figura della vostra breve frase, ritorna e si ripete in me; come se si trovasse bene dentro di me; e, da parte mia, mi piace sentirmi mentre la ripeto, questa breve frase che ha quasi perduto il suo significato, che non serve più, e che tuttavia vuole vivere ancora, ma di una vita completamente diversa. Ha assunto un valore; e l'ha fatto a scapito del suo significato finito. Ha creato il bisogno di essere riascoltata ... Eccoci proprio sulla soglia dello stato di poesia. Questo minuscolo esperimento ci basterà per scoprire numerose verità. Ci ha dimostrato che il linguaggio può produrre due specie di effetti totalmente diversi. Gli uni, che tendono a provocare ciò che occorre per annullare interamente il linguaggio stesso. Io vi parlo, e se avete capito le mie parole, queste parole sono abolite. Se avete capito, ciò significa che quelle parole sono scomparse dalla vostra mente, sono state sostituite da una contropartita, da immagini, relazioni, impulsi; e voi avete allora modo di ritrasmettere quelle idee e quelle immagini in un linguaggio che può essere ben diverso da quello che avete ricevuto. Capire consiste nel sostituire più o meno rapidamente un sistema di suoni, di durate e di segni con tutt'altra cosa, che è in conclusione una modificazione o una riorganizzazione interna della persona a cui si parla. Ed ecco la controprova di questa affermazione: la persona che non ha capito ripete, o si fa ripetere le parole. Di conseguenza, la perfezione di un discorso il cui unico oggetto è la comprensione risiede evidentemente nella facilità con la quale la parola che lo costituisce diventa qualcos'altro, 208

e il linguaggio si trasforma dapprima in non-linguaggio; in seguito, se lo vogliamo, in una forma di linguaggio diversa da quella primitiva. In altri termini, nell'uso pratico o astratto del linguaggio, la forma, vale a dire ciò che è fisico, sensibile, e l'atto stesso del discorso non si conserva; essa non sopravvive alla comprensione; si dissolve nella chiarezza; ha agito e svolto il suo compito; ha fatto capire: insomma, ha vissuto. Ma al contrario, non appena questa forma sensibile assume per effetto proprio un'importanza tale da imporsi e farsi, in qualche modo, rispettare; e non solo notare e rispettare, ma anche desiderare, e quindi riprendere - allora qualcosa di nuovo si manifesta: siamo impercettibilmente trasformati, e disposti a vivere, a respirare, a pensare secondo un regime e in base a leggi che non appartengono più all'ordine pratico -cioè nulla di quanto accadrà in questo stato sarà risolto, concluso, abolito da un atto ben determinato. Entriamo nell'universo poetico. Permettetemi di rafforzare questa nozione di universo poetico facendo ricorso ad una nozione simile, ma ancora più facile da spiegare perché molto più semplice, la nozione d'universo musicale. Vi prego di fare il piccolo sacrificio di ridurvi per un istante alla sola facoltà di udire. Un senso semplice, come quello dell'udito ci offrirà tutto ciò che ci serve per la nostra definizione e ci eviterà di entrare in tutte le difficoltà e le sottigliezze alle quali ci condurrebbe la struttura convenzionale del linguaggio comune e le sue complicazioni storiche. Noi viviamo attraverso l'orecchio nel mondo dei rumori. È un insieme in genere incoerente e irregolarmente alimentato da tutti i fenomeni meccanici che questo orecchio può interpretare a suo modo. Ma l'orecchio stesso separa da quel caos un altro insieme di rumori particolarmente notevoli e semplici - cioè ben riconoscibili dal nostro udito, e che gli servono come punto di riferimento. Le relazioni esistenti fra questi elementi sono per noi sensibili quanto gli elementi medesimi. L'intervallo fra due di questi rumori privilegiati ci è chiaro quanto ciascuno di essi. Mi riferisco ai suoni, e queste 209

unità sonore sono atte a formare delle combinazioni chiare, delle implicazioni successive o simultanee, dei concatenamenti e delle intersezioni che possiamo definire intellegibili: è per questo che in musica esistono possibilità astratte. Ma ritorno al mio argomento. Mi limiterò a notare che il contrasto fra rumore e suono è quello fra il puro e l'impuro, fra l'ordine e il disordine; che la distinzione fra le sensazioni pure e le altre ha permesso la costituzione della musica; che questa costituzione ha potuto essere controllata, unificata, codificata grazie all'intervento della scienza fisica, la quale ha saputo adattare la misura alla sensazione ottenendo così il fondamentale risultato d'insegnarci a produrre quella sensazione sonora in maniera costante e identica per mezzo di strumenti che sono, in realtà, strumenti di misura. Il musicista si trova così in possesso di un sistema perfetto di mezzi ben definiti che fanno esattamente corrispondere delle sensazioni a degli atti. Da tutto ciò risulta come la musica si sia creata un proprio ambito esclusivo. Il mondo dell'arte musicale, regno dei suoni, è nettamente separato dal mondo dei rumori. Mentre un rumore si limita a risvegliare in noi un avvenimento isolato qualsiasi - un cane, una porta, una macchina- un suono che si produce evoca, da solo, l'universo musicale. Se in questa sala, dove vi sto parlando, dove voi udite il rumore della mia voce, un diapason o uno strumento ben accordato si mettesse a vibrare, non appena raggiunti da quel rumore eccezionale e puro, che non può confondersi con gli altri, avreste subito la sensazione di un inizio, l'inizio di un mondo; un'atmosfera del tutto diversa verrebbe a un tratto creata, un ordine nuovo si annuncerebbe, e voi stessi, vi organizzereste inconsciamente per accoglierlo. L'universo musicale era dunque in voi, con tutti i suoi rapporti e le sue proporzioni - come, in un liquido saturo di sale, un universo cristallino attende l'urto molecolare di un minuscolo cristallo per affermarsi. Non oso dire: l'idea cristallina di tale sistema ... Ed ecco la controprova del nostro piccolo esperimento: se in 210

una sala da concerto, mentre risuona e domina la sinfonia, succede che cada una sedia, che qualcuno tossisca o una porta si chiuda, subito abbiamo l'impressione di una qualche frattura. Qualcosa d'indefinibile, della stessa natura di un incantesimo o di un vetro di Murano, è stato rotto o incrinato ... L'Universo poetico non si crea con tanta facilità e tanta forza. Esiste, ma il poeta è privo degli immensi vantaggi che il musicista invece possiede. Non ha davanti a sé, già pronto per produrre bellezza, un insieme di mezzi creati apposta per la sua arte. Deve servirsi del linguaggio - la voce pubblica, questa collezione di termini e regole tradizionali e irrazionali, bizzarramente creati, trasformati e codificati, intesi e pronunciati nei modi più diversi. Nessuno studioso di fisica ha mai determinato i rapporti fra questi elementi; non vi sono diapason né metronomi, costruttori di gamme né teorici dell'armonia. Ma al contrario, solo le fluttuazioni fonetiche e semantiche del vocabolario. Niente di puro; solo una mescolanza di stimoli uditivi e psichici perfettamente incoerenti. Ogni parola è un agglomerato momentaneo di un suono e di un senso, che non hanno alcun rapporto fra loro. Ogni frase è un atto così complesso che nessuno, credo, ha potuto finora darne una definizione accettabile. Quanto all'uso di quel mezzo, quanto alle modalità di quell'azione, voi conoscete la varietà dei suoi impieghi e che confusione talvolta ne risulti. Un discorso può essere logico, può essere carico di significato, ma senza ritmo e privo di misura. Può essere gradevole all'orecchio, e perfettamente assurdo o insignificante; può essere chiaro e vano; vago e delizioso. Ma, per far capire la sua strana molteplicità, che non è altro che la molteplicità della vita stessa, basterà enumerare tutte le scienze che sono state create per occuparsi di questa diversità, ognuna per studiarne un aspetto particolare. Si può analizzare un testo in molti modi differenti, poiché esso viene di volta in volta sottoposto al giudizio della fonetica, della semantica, della sintassi, della logica, della retorica, della filologia, senza escludere la metrica, la prosodia e l'etimologia ... Ecco il poeta alle prese con questa materia verbale, obbli211

gato a speculare, contemporaneamente, sul suono e sul senso; a soddisfare non soltanto l'armonia, il periodo musicale ma anche svariate condizioni intellettuali ed estetiche, senza poi contare le regole convenzionali.. . Notate quale sforzo esigerebbe l'impresa del poeta se egli dovesse risolvere coscientemente tutti questi problemi. .. È sempre interessante cercare di ricostruire una delle nostre attività complesse, una di quelle azioni complete che esigono da noi una specializzazione al tempo stesso mentale, sensoriale e motoria, supponendo che, per compiere questa azione, siamo tenuti a conoscere e a organizzare tutte le funzioni che, come noi sappiamo, vi prendono parte. Anche se questo tentativo immaginativo e analitico a un tempo è grossolano, esso ci insegna pur sempre qualcosa. Quanto a me, che sono, lo confesso, molto più interessato alla formazione o alla costruzione delle opere che alle opere in sé, ho l'abitudine o la mania di apprezzare le opere solo in quanto azioni. Ai miei occhi, un poeta è un uomo che, a partire da un fatto accidentale, subisce una trasformazione nascosta. Si allontana dal suo stato ordinario di generale disponibilità, e vedo costituirsi in lui un agente, un sistema vivente che produce versi. Così come fra gli animali vediamo tutt'a un tratto rivelarsi un abile cacciatore, un costruttore di nidi o di ponti, uno scavatore di trafori e gallerie, nell'uomo vediamo manifestarsi questa o quella organizzazione composita che applica le sue funzioni a una certa opera. Pensate ad un bambino molto piccolo: questo bimbo che noi stessi siamo stati portava in sé numerose possibilità. Dopo qualche mese di vita, ha imparato nello stesso tempo, o quasi, a parlare e a camminare. Ha acquisito due tipi di azione. In altri termini possiede ora due specie di possibilità da cui le circostanze accidentali di ogni istante trarranno ciò che potranno, in risposta ai suoi bisogni o alle sue diverse fantasie. Avendo imparato a servirsi delle gambe, scoprirà che può non solo camminare, ma anche correre; e non solo camminare e correre, ma anche danzare. Questo è un grande avvenimento. Egli ha inventato e scoperto a un tratto una specie di 212

utilità di secondo grado per le sue membra, una generalizzazione della formula del suo movimento. Infatti, mentre camminare è in fondo un'attività abbastanza monotona e poco perfezionabile, questa nuova forma d'azione, la Danza, permette un'infinità di creazioni, variazioni o figure. Ma, quanto alla parola, non potrà forse tr.ovare uno sviluppo analogo? Farà progressi nella sua facoltà di parlare; scoprirà di poterla utilizzare non solo per chiedere la marmellata o negare i piccoli crimini commessi. S'impadronirà del potere di ragionamento; si creerà delle fantasie che lo divertiranno quando è da solo; ripeterà fra sé e sé delle parole che gli saranno piaciute per la loro stranezza e il loro mistero. Così, parallelamente al Cammino e alla Danza, troveranno posto e si distingueranno in lui i tipi diversi della Prosa e della Poesia. Questo parallelo mi ha colpito e sedotto da tempo; ma qualcuno l'aveva intuito prima di me. Malherbe, secondo Racan, ne faceva uso. A mio parere, non si tratta di un semplice paragone. Vedo in esso un'analogia sostanziale e feconda come quelle che si hanno in fisica quando si osserva l'identità di formule atte a misurare fenomeni in apparenza molto diversi. Ecco, in effetti, come si sviluppa il nostro parallelo. Il camminare, come la prosa, mira ad uno scopo preciso. È un atto diretto verso qualcosa che vogliamo raggiungere. Sono circostanze del momento, come il bisogno di un oggetto, l'impulso del mio desiderio, le condizioni del mio corpo, della mia vista, del terreno, ecc., che determinano l'andatura della marcia, le prescrivono una direzione, una velocità, e le assegnano un termine finito. Tutte le caratteristiche del camminare si deducono da queste condizioni contingenti le quali, di volta in volta, si combinano in modo unico. Nella marcia, non esistono spostamenti che non siano degli adattamenti speciali, ma questi adattamenti vengono ogni volta aboliti e come assorbiti dal compimento dell'atto, dallo scopo raggiunto. La danza è tutt'altra cosa. È certamente un sistema di atti; 213

ma che hanno il loro fine in se stessi. Non va da nessuna parte. Se persegue un oggetto, non sarà che un oggetto ideale, uno stato, un rapimento, l'apparenza di un fiore, uno spirare di vita, un sorriso - che prende forma infine sul viso di colui che lo domandava allo spazio vuoto. Non si tratta quindi di effettuare un'operazione compiuta, la cui conclusione è situata nell'ambiente che ci circonda; ma di creare, e di mantenere esaltandolo, un certo stato, grazie a un movimento periodico che può essere eseguito sul posto; movimento che si disinteressa quasi completamente della vista, ma che viene stimolato e regolato dai ritmi uditivi. Eppure, per quanto la danza sia diversa dal camminare e dai movimenti con scopi utilitari, vi invito a notare questo fatto infinitamente semplice, che essa si serve degli stessi organi, ossa e muscoli, di quella, ma diversamente coordinati e stimolati. È qui che ritroviamo la prosa e la poesia nel loro contrasto. Esse utilizzano le stesse parole, la stessa sintassi, uguali forme, suoni o timbri, ma diversamente coordinati e stimolati. Prosa e poesia si distinguono dunque per la diversità di certi legami e associazioni che si fanno e si disfano nel nostro organismo nervoso e psichico, mentre gli elementi di queste modalità di funzionamento sono identici. Bisogna perciò evitare di analizzare la poesia come se si trattasse di prosa. Ciò che è vero per l'una non ha più senso, in molti casi, quando lo si vuole ritrovare nell'altra. Ma ecco la grande e decisiva differenza. Quando l'uomo che cammina ha raggiunto il suo scopo - come vi ho detto - quando ha raggiunto il luogo, il libro, il frutto, l'oggetto del desiderio che l'ha sottratto al suo riposo, questo possesso annulla interamente e definitivamente il suo atto; l'effetto divora la causa, il fine ha assorbito il mezzo; e qualunque sia stato l'atto, ne resta solo il risultato. Lo stesso accade per il linguaggio utilitario: il linguaggio che mi è servito per esprimere il mio intento, il mio desiderio, il mio ordine, la mia opinione, quel linguaggio, dopo aver svolto il suo compito, svanisce non appena espresso. L'ho pronunciato perché perisca, perché si trasformi radicalmente in qualco214

s'altro nel vostro intelletto; e saprò di essere stato capito per il fatto notevole che il mio discorso non esiste più: esso è stato completamente sostituito dal suo senso - cioè dalle immagini, dagli impulsi, dalle reazioni o dagli atti che appartengono a voi: insomma, da una vostra modificazione interiore. La perfezione di questa specie di linguaggio, la cui unica destinazione è quella di essere compreso, consiste evidentemente nella facilità con cui esso si trasforma in una cosa del tutto diversa. La poesia, invece, non muore per il fatto d'aver vissuto: è fatta proprio per rinascere dalle sue ceneri e ridiventare indefinitamente ciò che era. Essa si distingue per questa proprietà, ovvero per la tendenza a farsi riprodurre nella sua forma: ci stimola a ricostituirla sempre identica. Questa è in assoluto una qualità notevole e caratteristica. Vorrei offrirvene un'immagine semplice. Pensate ad un pendolo che oscilla fra due punti simmetrici. Supponete che una di queste posizioni estreme rappresenti la forma, i caratteri sensibili del linguaggio, il suono, il ritmo, gli accenti, il timbro, il movimento - in una parola, la Voce in atto. Associate poi all'altro punto, quello simmetrico al primo, tutti i valori significativi, le immagini, le idee; gli impulsi del sentimento e della memoria, gli stimoli virtuali e le formazioni cognitive - vale a dire, tutto ciò che costituisce il contenuto, il senso di un discorso. Osservate quindi gli effetti della poesia in voi stessi. Noterete che ad ogni verso, il significato che si produce in voi, invece di distruggere la forma musicale che vi è stata comunicata, la richiede ancora. Il pendolo vivente che è passato dal suono al senso tende a ritornare verso il suo punto sensibile di partenza, come se il significato che si presenta alla vostra mente non trovasse altra via d'uscita, altra espressione o altra risposta al di fuori di quella stessa musica che l'ha generato. Così, tra la forma e il contenuto, il suono e il senso, il testo poetico e lo stato di poesia, si manifesta una simmetria, una identità d'importanza, di valore e potere, che non si ritrova nella prosa, e che si oppone alla legge della prosa - la quale 215

decreta la disparità dei due elementi costitutivi del linguaggio. Il principio essenziale della meccanica poetica - cioè delle condizioni di produzione dello stato poetico attraverso la parola- è secondo me questo scambio armonico fra l'espressione e l'impressione. Introduciamo ora una piccola osservazione che definirò «filosofica», il che significa semplicemente che potremmo anche non considerarla. Il nostro pendolo poetico va dalla nostra sensazione verso un'idea o un sentimento, e ritorna poi verso un ricordo della sensazione e verso l'azione virtuale capace di riprodurla. Ebbene, ciò che è sensazione appartiene nella sua essenza al presente. Non esiste definizione del presente che non sia la sensazione stessa, completata forse dall'impulso all'azione che potrebbe modificarla. Al contrario, ciò che è propriamente pensiero, immagine, sentimento è sempre, in qualche modo, produzione di cose assenti. La memoria è la sostanza di ogni pensiero. La previsione e i suoi brancolamenti, il desiderio, i progetti, l'abbozzo delle nostre speranze e paure costituiscono la principale attività interiore del nostro essere. Il pensiero è, insomma, l'attività che fa vivere in noi ciò che non esiste, prestandogli, che lo vogliamo o no, le nostre forze attuali; ci fa scambiare la parte per il tutto, l'apparenza per la realtà, dandoci l'illusione di vedere, di agire, di subire, di possedere indipendentemente dal nostro caro vecchio corpo, che lasciamo, con la sua sigaretta, in poltrona, in attesa di riprenderlo bruscamente, allo squillo del telefono o all'imperativo, non meno estraneo, del nostro stomaco che reclama qualche sussidio ... Tra la Voce e il Pensiero, il Pensiero e la Voce, la Presenza e l'Assenza, oscilla il pendolo poetico. Da quest'analisi risulta che il valore di una poesia risiede nell'indissolubilità del suono e del senso. Ebbene, questa è una condizione che sembra pretendere l'impossibile. Non ·vi è alcun rapporto fra il suono e il senso di una parola. La stessa cosa si chiama HORSE in inglese, IPPOS in greco, EQUUS in latino, e CHEVAL in francese; ma nessuna operazione su uno qual216

siasi di questi termini mi darà l'idea dell'animale in questione, così come nessuna operazione su questa idea mi fornirà una di quelle parole - altrimenti conosceremmo senza difficoltà tutte le lingue a partire dalla nostra. Eppure è il compito del poeta quello di darci la sensazione dell'unione intima fra la parola e lo spirito. Bisogna notare che si tratta di un risultato davvero meraviglioso. Dico meraviglioso, benché non sia eccessivamente raro. Dico: meraviglioso nel senso che diamo a questo termine quando pensiamo agli incantesimi e ai prodigi dell'antica magia. Non si deve dimenticare che la forma poetica è stata per molti secoli destinata alle pratiche degli incantesimi. Chi si affidava a quelle strane operazioni doveva necessariamente credere al potere della parola, e molto più all'efficacia del suono di questa parola che al suo significato. Le formule magiche sono spesso prive di senso; non si pensava infatti che la loro forza dipendesse dal loro contenuto intellettuale. Ma ascoltiamo ora dei versi come:

Mère des Souvenirs, Maitresse des maitresses ... oppure:

Sois sage, 6 ma douleur, et tiens-toi plus tranquille ... 2 Queste parole agiscono su di noi (o almeno, su alcuni di noi) senza comunicarci granché. O forse ci dicono che non hanno nulla da dirci; che svolgono, con gli stessi mezzi che, in generale, ci trasmettono qualcosa, una funzione del tutto diversa. Operano su di noi come un accordo musicale. L'impressione prodotta dipende in gran parte dalla risonanza, dal ritmo, dal numero delle sillabe; ma risulta anche dal semplice accostamento dei significati. Nel secondo di questi versi, l'accordo delle idee vaghe di Saggezza e di Dolore, e la placida solennità del tono producono l'inestimabile valore di un incanto: l'essere momentaneo che ha creato questo verso, non avrebbe potuto farlo se si fosse trovato nella condizione in cui 217

la forma e il contenuto si presentano separatamente all'intelletto. Era invece in una fase speciale nell'ambito della sua esistenza psichica, fase durante la quale il suono e il senso della parola assumono o mantengono un'uguale importanza - il che è escluso sia dalle abitudini del linguaggio pratico che dalle esigenze del linguaggio astratto. Lo stato in cui l'indivisibilità del suono e del senso, il desiderio, l'attesa, la possibilità della loro combinazione intima e indissolubile sono richiesti e domandati o concessi e talvolta aspettati con ansia, è uno stato relativamente raro. Anzitutto perché le esigenze della vita gli sono tutte contrarie; e poi perché si oppone alla semplificazione grossolana e alla crescente specializzazione delle notazioni verbali. Ma questo stato di modificazione intima, nel quale tutte le proprietà del nostro linguaggio sono richiamate in modo indistinto ma armonico, non basta a produrre quest'oggetto completo, questa composizione di begli elementi, questa raccolta di casi intellettuali fortunati che ci offre ogni alta poesia. Ne otteniamo così solo dei frammenti. Tutte le cose preziose che si trovano nelle profondità della terra, l'oro, i diamanti, le pietre che saranno tagliate, vi si trovano disseminate, sparse, avaramente nascoste in un ammasso di roccia o di sabbia, dove il caso le fa talvolta scoprire. Queste ricchezze non sarebbero nulla senza il lavoro dell'uomo che le trae dalla fitta oscurità dove dormivano, le riunisce, le modifica e le dispone a formare gioielli. Queste particelle di metallo racchiuse in una materia informe, questi cristalli dalle forme bizzarre possono acquistare tutto il loro splendore solo grazie ad una lavorazione intelligente. Il vero poeta compie un lavoro di questo tipo. Si intuisce subito davanti ad una bella poesia che vi sono poche probabilità che un uomo, per quanto dotato, abbia potuto improvvisare senza rifacimenti, con la sola fatica di scrivere o dettare, un sistema logico e completo di trovate felici. Poiché le tracce dello sforzo, le riprese, i pentimenti, la quantità di tempo, i giorni neri e il disgusto sono scomparsi, cancellati dal supremo ritorno della mente 218

sulla sua opera, alcuni, che vedono solo la perfezione del risultato, lo considereranno come dovuto ad una sorta di prodigio che essi chiamano ISPIRAZIONE. Vedono dunque nel poeta una specie di medium momentaneo. Se ci divertissimo a sviluppare rigorosamente la dottrina dell'ispirazione pura, ne dedurremmo alcune conseguenze piuttosto strane. Si scoprirebbe, ad esempio, che questo poeta si limita a trasmettere ciò che riceve, a consegnare a degli sconosciuti ciò che trae dall'ignoto, e che perciò non ha alcun bisogno di capire quello che scrive, sotto dettatura di una voce misteriosa. Potrebbe scrivere poesie in una lingua che non conosce ... A dire il vero, il poeta possiede un'energia spirituale di natura particolare: essa si manifesta in lui e lo rivela a se stesso in certi minuti d'un valore infinito. Infinito per lui. .. Dico: infinito per lui; perché, come l'esperienza purtroppo c'insegna, questi istanti che ci sembrano di valore universale sono talvolta senza avvenire, e ci portano infine a riflettere su questa sentenza: ciò che vale per uno solo non vale nulla. È la legge ferrea della Letteratura. Ma ogni vero poeta è necessariamente un critico di prim'ordine. Per dubitarne, bisognerebbe non pensare affatto a quello che è il lavoro della mente: una lotta contro la discontinuità dei momenti, la casualità delle associazioni, le cadute dell'attenzione, le distrazioni esterne. L'intelletto è terribilmente variabile, inganna ed è ingannato, è fecondo di problemi insolubili e di soluzioni illusorie. Come potrebbe un'opera notevole uscire da questo caos, se esso che contiene tutto non racchiudesse pure qualche seria possibilità di conoscere se stesso e di scegliere in sé ciò che merita di essere sottratto alla caducità dell'istante per venire poi impiegato con cura? E non è tutto. Ogni vero poeta è capace, molto più di quanto si creda in generale, di formulare ragionamenti precisi e pensieri astratti. Non bisogna però cercare la sua vera filosofia in ciò che egli dice di più o meno filosofico. Secondo me, la filosofia più autentica non risiede negli oggetti della nostra riflessione, ma 219

nell'atto stesso del pensiero e nella sua messa in opera. Private la metafisica di tutti i suoi termini favoriti o specifici, della sua terminologia tradizionale, e constaterete forse di non aver affatto impoverito il pensiero. Al contrario, l'avrete probabilmente alleggerito, rinnovato, e vi sarete liberati dai problemi altrui, per avere a che fare solo con le vostre difficoltà personali, coi vostri stupori che non devono niente a nessuno, di cui sentite veramente e immediatamente il pungolo intellettuale. È tuttavia accaduto molte volte, e la storia letteraria ce lo insegna, che la poesia si sia adattata a enunciare tesi o ipotesi e che il linguaggio completo che le è proprio, quel linguaggio la cui forma (vale a dire l'azione e la sensazione della Voce), ha la stessa potenza del contenuto (vale a dire della modificazione finale di una mente), sia stato utilizzato per comunicare delle idee «astratte», che sono invece indipendenti dalla loro forma - o che crediamo tali. Grandissimi poeti hanno a volte tentato questo. Ma, per quanto grande sia il talento dispensato in queste nobilissime imprese, esso non può evitare che l'attenzione impegnata a seguire le idee sia in concorrenza con quella che segue il canto. Il DE NATURA RERUM entra qui in conflitto con la natura delle cose. Lo stato del lettore di poesie è diverso dallo stato del lettore di puri pensieri. Lo stato dell'uomo che danza non è quello dell'uomo che si inoltra in un territorio aspro di cui deve fare il rilevamento topografico e la prospezione geologica. Ho detto peraltro che il poeta ha il suo pensiero astratto, e, se si vuole, la sua filosofia; e ho aggiunto che essa si esplicava proprio nel suo atto di poeta. L'ho detto perché l'ho osservato, sia su di me che su altri. Non ho, né qui né altrove, nessun altro riferimento, nessun'altra pretesa o scusa, al di fuori del ricorso alla mia esperienza, o alle osservazioni più comuni. Ebbene, tutte le volte che ho lavorato come poeta, ho notato che il mio lavoro esigeva da me non soltanto quella presenza dell'universo poetico di cui vi ho parlato, ma anche un gran numero di riflessioni, decisioni, scelte e combinazioni, senza le quali tutti i doni possibili della Musa o del Caso 220

restavano come materiali preziosi in un cantiere senza architetto. Ora, un architetto non è necessariamente costituito egli stesso di materiali preziosi. Un poeta, in quanto architetto di poesie, è dunque assai diverso da ciò che egli è come produttore di questi elementi preziosi di cui ogni poesia dev'essere composta, ma dai quali la composizione si distingue, ed esige un lavoro mentale del tutto differente. Un giorno, qualcuno m'insegnò che illirismo è entusiamo, e che le odi dei grandi lirici furono scritte senza esitazioni, con la rapidità di una voce in delirio e del vento tempestoso dello spirito ... Gli risposi che aveva pienamente ragione; ma che non si trattava di un privilegio della poesia, e che tutti sanno che per costruire una locomotiva, è indispensabile che il costruttore esegua il suo lavoro alla velocità di ottanta miglia all'ora 3 • In realtà, una poesia è una specie di macchina per produrre lo stato poetico per mezzo delle parole. L'effetto di questo meccanismo è incerto, poiché niente è sicuro, quando si agisce sulle menti. Ma, qualunque sia il risultato o la sua precarietà, la costruzione della macchina esige la soluzione di molti problemi. Se il termine macchina vi urta, se il mio paragone meccanico vi sembra grossolano, vi prego di osservare che mentre la durata di composizione di una poesia anche molto breve può protrarsi per anni, l'azione del testo su un lettore si compirà in pochi minuti. In pochi minuti, questo lettore subirà l'impatto di trovate, accostamenti, espressioni illuminanti, accumulati in mesi di ricerca, di attesa, di pazienza e di impazienza. Potrà attribuire all'ispirazione molto più di quanto essa non possa dare. Immaginerà il personaggio adatto a creare senza soste, senza esitazioni, senza ritocchi, quest'opera possente e perfetta che lo trasporta in un mondo dove le cose e gli esseri, le passioni e i pensieri, i suoni e i significati derivano dalla stessa energia, si sostituiscono l'un l'altro e si rispondono secondo leggi di risonanza eccezionali, poiché solo uno stimolo straordinario può realizzare l'esaltazione simultanea della nostra sensibilità, del nostro intelletto, della nostra memoria e del nostro potere d'azione verbale, che raramente si accordano durante il normale corso della vita. 221

Devo forse far notare a questo punto che l'esecuzione di un'opera poetica - qualora la considerassimo così come l'ingegnere di poc'anzi può considerare l'idea e la costruzione della sua locomotiva, cioè rendendo espliciti i problemi da risolvere - ci sembrerebbe impossibile. In nessuna arte, il numero delle condizioni e delle funzioni indipendenti da coordinare è tanto grande. Non vi infliggerò una dimostrazione minuziosa di questa frase. Mi limiterò a ricordarvi quanto ho già detto circa il suono e il senso, cioè che essi sono legati in modo puramente convenzionale, eppure si tratta di farli collaborare il più efficacemente possibile.. Le parole mi fanno spesso pensare, a causa della loro doppia natura, alle quantità complesse che i geometri manovrano con tanta passione. Per fortuna, non so quale virtù risieda in certi momenti dentro ad alcuni esseri che semplifica le cose e riduce a misura d'uomo le difficoltà insormontabili di cui parlavo. Il poeta si risveglia nell'uomo grazie ad un avvenimento inatteso, un fatto esterno o interno: un albero, un viso, un «tema», un'emozione, una parola. E talvolta a cominciare la partita è una volontà d'espressione, un bisogno di tradurre ciò che si prova; ma altre volte, è, al contrario, un elemento formale, un accenno d'espressione che ricerca la sua causa, o si cerca un senso nello spazio della mia anima... Osservate bene questa dualità possibile di inizio del gioco: talvolta qualcosa vuole esprimersi, talvolta qualche mezzo d'espressione è alla ricerca di qualcosa da poter servire. Il mio poema Le Cimetière marin è iniziato dentro di me a partire da un certo ritmo, quello del verso francese di dieci sillabe con cesura dopo la quarta. Non avevo ancora nessuna idea per riempire questa forma. A poco a poco delle parole fluttuanti vi si fissarono, determinando sempre di più il soggetto, e il lavoro (un lavoro lunghissimo) s'impose. Un'altra poesia, La Pythie, si offrì dapprima sotto la forma di un verso di otto sillabe 4 la cui sonorità si compose da sola. Ma questo verso presupponeva una frase, di cui esso era solo una parte, e questa presupponeva, qualora fosse esistita, molte altre frasi. Un problema di questo tipo ammette un'infinità di soluzioni. Ma in poesia le condizioni metriche e musicali limitano molto l'indeterminazione. Ed ecco cosa accadde: il 222

mio frammento si comportò come un frammento vivo, dato che, immerso nell'ambiente (senz'altro nutritivo) che gli offrivano il desiderio e l'attesa del mio pensiero, proliferò e generò tutto quello che gli mancava: alcuni versi al di sopra e molti versi sotto di sé. Mi scuso per aver tratto questi esempi dalla mia storia personale; ma non potevo prenderli altrove. Forse giudicate la mia concezione del poeta e della poesia piuttosto singolare. Ma cercate di immaginare cosa presuppone il più piccolo dei nostri atti. Pensate a tutto ciò che deve avvenire nell'uomo nel momento in cui produce una breve frase intelligibile, e valutate quindi tutto quello che occorre perché una poesia di Keats o di Baudelaire giunga a formarsi su una pagina vuota, dinnanzi al poeta. Considerate anche che, fra tutte le arti, la nostra è forse quella che coordina il maggior numero di parti o di fattori indipendenti: il suono, il senso, il reale e l'immaginario, la logica, la sintassi e la duplice invenzione del contenuto e della forma ... e tutto ciò per mezzo di questo strumento essenzialmente pratico, perpetuamente alterato, corrotto, capace di ogni attività, il linguaggio comune, da cui dobbiamo estrarre una Voce pura, ideale, capace di comunicare senza debolezze o sforzo apparente, senza stonature e senza incrinare la sfera istantanea dell'universo poetico l'idea d'un io meravigliosamente superiore all'lo. (1939)

Note I Lett. «fond>> che con «forme» costituisce !"indissolubile binomio «forma-contenuto». 2 Valéry cita, rispettivamente, i versi iniziali di Le balcon e di Recueillement, dalle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire. 3 Questa similitudine paradossale ricorre alcune volte nei testi teorici di Valéry, esempio a un tempo della sua fiducia nella lucidità della costruzione poetica e della sua garbata ironia nei confronti dei diversi interlocutori. 4 Valéry si riferisce al quinto verso del componimento: «Prue, profondément mordue».

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Indice

Introduzione

5

Avvertenza

21

La caccia magica

23

La creazione artistica

25

Taccuino di un poeta

41

Ispirazioni mediterranee

59

Intorno al « Cimitière marin »

75

Riflessioni sull'arte

87

Questioni di poesia

107

Prima lezione del corso di poetica

125

Frammenti di memorie di un poema

145

Discorso sull'Estetica

175

Poesia e Pensiero astratto

197

Finito di stampare nell'ottobre 1985 per conto di Guida editori, Napoli presso La Buona Stampa, Ercolano

ISBN

88-7042-702-1