Incubo a seimila metri  
 8834714334, 9788834714331 [PDF]

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Zitiervorschau

RICHARD MATHESON INCUBO A SEIMILA METRI (Nightmare At 20,000 Feet, 2002) Indice Introduzione Incubo a seimila metri Il vestito di seta bianca Figlio di sangue Dai canali Guerra di streghe La casa impazzita Eliminazione lenta La legione dei cospiratori Una chiamata da lontano Paglia umida La danza dei morti I figli di Noè L'uomo dei giorni di festa Il nuovo vicino di casa Grilli Primo anniversario La preda Una voce ai confini della realtà A Stephen King, con grande ammirazione perché ha preso la palla e l'ha giocata per tutto questo tempo Introduzione di Stephen King Affermare che Richard Matheson ha inventato il racconto dell'orrore sarebbe ridicolo come affermare che Elvis Presley ha inventato il rock and

roll... che dire allora, protesterebbero i puristi, di Chuck Berry, Little Richard, Stick McGhee, The Robins e di una dozzina di altri? La stessa cosa vale per il genere horror, che è l'equivalente letterario del rock and roll: una botta in testa che ti scuote i nervi e li fa dolere in modo incredibilmente piacevole. Prima di Matheson ce ne sono stati a bizzeffe, a partire dalla storia di Grendel fino a Mary Shelley, Horace Walpole, Edgar Allan Poe, Bram Stoker, H.P. Lovecraft e... Ma come il rock and roll, o qualsiasi altro genere che si muove lungo le terminazioni nervose, l'orrore deve rigenerarsi e rinnovarsi costantemente, altrimenti non dura. All'inizio degli anni '50 - quando Weird Tales stava morendo di una morte lenta e Robert Bloch, il più grande scrittore horror del tempo, si era orientato verso racconti psicologici (e contemporaneamente Fritz Leiber, scrittore allo stesso livello di Bloch, taceva stranamente da un po' di tempo) - il genere languiva in una calma piatta, ma poi spuntò Richard Matheson come un fulmine di ozono allo stato puro. Da solo rianimò un genere stagnante, rifiutando le convenzioni delle riviste popolari che stavano già morendo, incorporando impulsi e immagini sessuali nella sua produzione così come Theodore Sturgeon aveva già cominciato a fare per la fantascienza, e scrivendo una serie di racconti torcibudella che erano come schioppettate. Ecco ciò che ricordo di questi racconti. Ricordo ciò che mi hanno insegnato: la stessa cosa che uno degli ultimi rianimatori del rock, Bruce Springsteen, esprime a chiare lettere in una delle sue canzoni: mai un passo indietro, ragazza mia, mai un cedimento. Ricordo che Matheson non cedeva mai un centimetro di terreno. Quando si pensava di essere alla fine, quando sembrava che i nervi non ce la facessero più a resistere, proprio in quel momento Matheson innestava il turbo e partiva a tutta velocità. Non mollava mai. Era implacabile. I toni barocchi di Lovecraft, la prosa passionale dei pulp, le allusioni sessuali erano del tutto assenti. Ci si trovava di fronte a una cavalcata così totale che solo a una seconda lettura Matheson rivelava tutta la sua arguzia, l'intelligenza e il controllo sulla materia narrativa. Quando la gente parla di questo genere, immagino che citi per primo il mio nome, ma senza Richard Matheson io non sarei nemmeno qui. Posso considerarlo mio padre come Elvis Presley potrebbe fare con Bessie Smith. È venuto fuori quando c'era bisogno di lui, e questi racconti man-

tengono intatto tutto il loro originale fascino ipnotico. State attenti: siete nelle mani di uno scrittore che non chiede pietà e non ne concede. Vi spremerà fino all'osso, e quando chiuderete questo libro vi lascerà con il più grande regalo che uno scrittore possa offrirvi: il desiderio di leggerlo ancora. Stephen King Incubo a seimila metri «Allacci la cintura, prego» disse la hostess in tono allegro mentre gli passava accanto. Quasi nello stesso momento si accese il segnale luminoso posto sopra il corridoio che dava sul compartimento anteriore - ALLACCIARE LE CINTURE - e, subito sotto, la raccomandazione abbinata - VIETATO FUMARE. Wilson fece una lunga tirata, poi schiacciò la sigaretta nel posacenere sul bracciolo con movimenti secchi, irritati. All'esterno uno dei motori tossì orribilmente, sputando fuori una nuvola di fumo che si frammentò nell'aria notturna. La fusoliera cominciò a vibrare e Wilson, che guardava dal finestrino, vide il getto bianco della fiamma di scarico che fuoriusciva dal vano motore. Il secondo motore tossì, poi ruggì, mentre l'elica cominciava subito a girare vorticosamente. Wilson si allacciò la cintura con nervosa sottomissione. Adesso tutti e due i motori erano partiti e la testa di Wilson vibrava all'unisono con la fusoliera. Sedeva rigido, fissando il sedile davanti a sé, mentre il DC-7 rullava sul piazzale, riscaldando la notte con la raffica assordante degli scarichi. Giunto sul bordo della pista, l'aereo si fermò. Wilson osservò dal finestrino lo scintillio imponente del terminal. Nella tarda mattinata dell'indomani, pensò, dopo essersi fatto una bella doccia e avere indossato abiti puliti, se ne sarebbe stato seduto in ufficio, intento a contrattare qualche pretestuoso accordo il cui esito non avrebbe cambiato di una virgola la storia dell'umanità. Era tutto così dannatamente... Wilson boccheggiò quando i motori guadagnarono potenza in attesa del decollo. Il rumore, già forte, divenne assordante... onde sonore che s'infrangevano contro le sue orecchie come colpi di mazza. Aprì la bocca quasi volesse scaricare la tensione. Gli occhi si caricarono di sofferenza, le mani si tesero come artigli pronti a colpire.

Sussultò, contraendo le gambe, quando si sentì toccare sul braccio. Girò la testa di scatto e vide la hostess che lo aveva accolto al portello. Gli stava sorridendo. «Si sente bene?» gli sembrò di capire. Wilson strinse le labbra e agitò la mano verso di lei, come se volesse allontanarla. Il sorriso della ragazza divenne fin troppo cordiale, poi si spense mentre lei si allontanava. L'aereo cominciò a muoversi. All'inizio quasi con apatia, come un gigante che lottasse per scrollarsi di dosso il suo stesso peso. Poi con più velocità, per combattere la resistenza dell'attrito. Wilson si girò verso il finestrino e vide la pista nera scorrere via sempre più veloce. Quando discesero i flap, il bordo dell'ala emise un gemito meccanico. Poi, in modo impercettibile, le ruote del gigante persero contatto con il suolo, e la terra cominciò ad allontanarsi. In basso scorsero velocissimi alberi, case e macchine, con le scie argentate dei fari. Il DC-7 virò leggermente verso destra e diresse il muso verso il gelido bagliore delle stelle. Alla fine si stabilizzò e i motori sembrarono fermarsi fino a quando le orecchie di Wilson si adattarono e percepirono il mormorio della velocità di crociera. Fu un momento di sollievo che gli rilassò i muscoli e gli irradiò una sensazione di benessere. Ma finì subito. Wilson rimase seduto immobile, con gli occhi fissi sul segnale di VIETATO FUMARE fino a quando non si spense; a questo punto si accese subito una sigaretta. Sfilò il giornale dalla tasca posteriore del sedile di fronte a lui. Come al solito, il mondo si trovava in condizioni simili alle sue. Contrasti nei circoli diplomatici, terremoti e combattimenti, omicidi, stupri, tornado e scontri di ogni tipo, conflitti commerciali, malavita organizzata. Dio se ne sta nel suo paradiso e qui nel mondo va tutto bene, pensò Arthur Jeffrey Wilson. Un quarto d'ora dopo mise da parte il giornale. Si sentiva lo stomaco in condizioni orribili. Controllò le indicazioni a lato dei due servizi igienici. Erano entrambe illuminate e c'era scritto OCCUPATO. Schiacciò la terza sigaretta dopo il decollo e, spenta la luce sopra di sé, guardò fuori dal finestrino. Per tutta la lunghezza della cabina i passeggeri stavano spegnendo le loro luci e reclinavano i sedili per dormire. Wilson diede un'occhiata all'orologio. Le undici e venti. Emise un sospiro spazientito. Come aveva previsto, le pillole che aveva preso prima di salire a bordo non gli avevano dato nessun giovamento.

Si alzò in tutta fretta quando una donna uscì dalla toilette e, afferrando la borsa, si avviò lungo la corsia. Il suo sistema nervoso, come si era aspettato, non collaborava affatto. Wilson non riuscì a reprimere un gemito di stanchezza e si diede una sistemata al vestito. Dopo essersi lavato le mani e la faccia prese dalla borsa il suo completo per l'igiene personale e spremette uno strato di dentifricio sullo spazzolino. Mentre sì lavava i denti, sorreggendosi con una mano alla paratia gelida, diede un'occhiata dall'oblò. A qualche metro c'era la luce azzurrina dell'elica. Wilson visualizzò quello che sarebbe successo se si fosse staccata e, come una mannaia a tre lame, lo avesse investito facendolo a pezzi. Provò un vuoto improvviso allo stomaco. Deglutì istintivamente e mandò giù un po' di saliva che sapeva di dentifricio. Colto da conati di vomito, si voltò e sputò nel lavandino; poi si sciacquò subito la bocca e bevve un sorso d'acqua. Santo Dio, se solo avesse potuto viaggiare in treno. Avrebbe avuto il suo scompartimento e si sarebbe fatto una passeggiata fino alla carrozza di prima classe, accomodandosi in poltrona con un bel bicchiere e un giornale. Ma in quel mondo non c'era tempo né fortuna. Stava per riporre il suo completo da toilette quando lo sguardo gli cadde sulla busta di tela cerata dentro la borsa. Ebbe un attimo di esitazione, poi appoggiò la piccola borsa sul lavandino, tirò fuori la busta e se la aprì in grembo. Rimase seduto, contemplando la simmetrica lucentezza della pistola. Era quasi un anno che la portava con sé. All'inizio, quando aveva preso in considerazione la cosa, era stato spinto dalla necessità di proteggere il denaro, di difendersi da rapinatori e bande di giovani teppisti nelle città in cui doveva recarsi per lavoro. Eppure, sotto sotto, aveva sempre saputo che non esisteva nessun motivo valido per portare una pistola, a parte uno. Un motivo al quale pensava sempre di più ogni giorno che passava. Come sarebbe stato facile... lì, in quel momento... Wilson chiuse gli occhi e deglutì in tutta fretta. Sentiva ancora in bocca il sapore del dentifricio, un debole e fastidioso gusto di menta piperita. Rimase seduto nel gelo pulsante della toilette, con la pistola oliata fra le mani, finché, quasi inaspettatamente, cominciò a tremare in modo irrefrenabile. Dio, fatemi uscire! esclamò all'improvviso la sua mente. «Fatemi uscire, fatemi uscire.» Faticò a riconoscere il suo stesso piagnucolio. Tutto a un tratto si raddrizzò. Stringendo forte le labbra riavvolse la pi-

stola e la infilò nella borsa, sistemandoci sopra la bustina che conteneva il completo da toilette, e richiuse la lampo. Si alzò, aprì la porta e uscì fuori, raggiunse di corsa il suo posto e si mise a sedere, sistemando con precisione la borsa accanto a sé. Poi premette il pulsante dello schienale e lo abbassò. Era un uomo d'affari, e l'indomani aveva delle questioni da sbrigare. Niente di tanto complicato. Il corpo aveva bisogno di sonno, e lui glielo avrebbe dato. Venti minuti più tardi, Wilson allungò lentamente la mano e azionò il pulsante, rimettendosi in posizione verticale. La sua faccia era una maschera di rassegnata sottomissione. Perché opporsi? si chiese. Era ovvio che doveva rimanere sveglio. E allora tanto valeva accettarlo. Completò metà del cruciverba, poi si lasciò cadere il giornale in grembo. Aveva gli occhi troppo stanchi. Si raddrizzò, fece ruotare le spalle e stirò i muscoli della schiena. E adesso? pensò. Non aveva voglia di leggere, non riusciva a dormire. E mancavano ancora - controllò l'orologio - sette o otto ore di volo prima di raggiungere Los Angeles. Come avrebbe fatto a passare tutto quel tempo? Esaminò la cabina e vide che, a parte un unico passeggero nelle prime file, tutti gli altri dormivano. Si sentì invadere da una rabbia improvvisa, travolgente: ebbe voglia di urlare, di tirare qualcosa, di colpire qualcuno. Stringendo i denti così forte da farsi dolere le mascelle, Wilson spalancò le tendine con un gesto brusco della mano e fissò fuori dal finestrino con l'aria di chi voglia commettere un omicidio. Vide le luci dell'ala che si accendevano e si spegnevano, le vampate accecanti degli scarichi che fuoriuscivano dai motori. Eccomi qui, pensò; a seimila metri di distanza dal suolo, intrappolato in un guscio mortifero che sibila e geme, mentre attraversa la notte polare diretto verso... Wilson trasalì quando un lampo sbiancò il cielo, cancellando la falsa aurora che aveva illuminato l'ala. Deglutì. Stava per arrivare un temporale? Il pensiero della pioggia e del vento forte, e dell'aereo ridotto a una foglia sballottata nel cielo, non era per niente piacevole. Wilson non amava affatto volare. L'eccesso di movimento lo faceva sempre stare male. Forse avrebbe fatto meglio a prendere un altro po' di dramamina, tanto per sentirsi più sicuro. E, naturalmente, il suo sedile era vicino all'uscita d'emergenza. Pensò alla possibilità che si aprisse accidentalmente, e a se stesso risucchiato dall'aereo, mentre cadeva giù, urlando. Wilson batté le palpebre e scosse la testa. Sentì un debole formicolio alla base del collo quando si accostò al finestrino e guardò fuori. Rimase sedu-

to senza muoversi, strizzando gli occhi. Avrebbe giurato... Improvvisamente i muscoli dello stomaco si contrassero con violenza e sentì gli occhi che si tendevano nello sforzo di vedere bene. C'era qualcosa che strisciava sull'ala. Wilson avvertì un tremito improvviso, un senso di nausea che partiva dallo stomaco. Santo Dio, magari un cane o un gatto si era arrampicato sull'aereo prima del decollo e chissà come era riuscito a non cadere. Era un pensiero spaventoso. Quel povero animale doveva essere stravolto dal terrore. Però, com'era possibile trovare un qualunque punto di sostegno su una superficie liscia e spazzata dal vento? Era impossibile. Chissà, magari era soltanto un uccello o... Il lampo illuminò di nuovo la scena e Wilson vide che era proprio un uomo. Non riuscì a muoversi. Sbalordito, osservò la forma scura che strisciava lungo l'ala. Impossibile. Da qualche parte, soffocata da un turbamento emotivo che sembrava crescere in modo incontrollato, una voce cercava di farsi strada, ma Wilson non la sentì. Sentiva solo il titanico, squassante sussultare del suo cuore... e del cuore dell'uomo all'esterno. Tutto a un tratto, come se gli avessero gettato in faccia dell'acqua ghiacciata, vi fu una reazione; la sua mente si attivò in cerca di una spiegazione rassicurante. Un meccanico, per chissà quale incredibile distrazione, era rimasto sull'aereo ed era riuscito a trovare un appiglio, anche se il vento gli aveva strappato via i vestiti, anche se l'aria era rarefatta e la temperatura decisamente sotto lo zero. Wilson non si concesse tempo per confutare quella spiegazione. Balzò in piedi e gridò: «Hostess! Hostess!» La sua voce fu un rumore stridulo che lacerò il silenzio della cabina. Premette il pulsante di chiamata con il dito che gli tremava. «Hostess!» La ragazza arrivò di corsa lungo il corridoio, il volto teso per l'apprensione. Quando si accorse dell'espressione di Wilson, si irrigidì di colpo. «C'è un uomo là fuori! Un uomo!» urlò Wilson. «Che cosa?» La pelle si tese sulle guance della ragazza, intorno ai suoi occhi. «Guardi, guardi!» Con la mano che gli tremava, Wilson si accasciò sul sedile e indicò fuori dal finestrino. «Sta strisciando sull'a...» Le parole gli si chiusero in gola con un gorgoglio strozzato. Sull'ala non c'era niente.

Wilson rimase lì, tremante. Per un po', prima di voltarsi, guardò il riflesso della hostess sul vetro. Il suo viso aveva un'espressione inebetita. Alla fine si voltò e la fissò. Vide le sue labbra rosse schiudersi come se avesse intenzione di dire qualcosa, ma non disse nulla; si limitò a richiudere la bocca e a deglutire. Un sorriso sforzato si disegnò per un attimo sui suoi lineamenti. «Mi scusi» disse Wilson. «Devo avere avuto una...» S'interruppe come se la frase fosse stata conclusa. Dall'altra parte del corridoio, una ragazzina lo fissava a bocca aperta, con una curiosità insonnolita. La hostess si schiarì la gola. «Posso servirle qualcosa?» gli chiese. «Un bicchiere d'acqua» rispose Wilson. La hostess si voltò e tornò indietro lungo il corridoio. Wilson inalò una lunga boccata d'aria e si sottrasse lentamente all'esame della ragazzina. Si sentiva come in precedenza. Quella era la cosa che lo turbava di più. Niente visioni, né grida, niente pugni premuti sulle tempie, né capelli strappati. Chiuse gli occhi, improvvisamente. Un uomo c'era stato, pensò. C'era stato eccome. Ecco perché si sentiva come prima. Eppure non era una cosa possibile. Lo sapeva benissimo. Wilson restò seduto a occhi chiusi, domandandosi che cosa avrebbe fatto Jacqueline in quel momento, se fosse stata seduta accanto a lui. Sarebbe rimasta in silenzio, così sconvolta da non riuscire nemmeno a parlare? Oppure, per senso dell'opportunità, si sarebbe data da fare con lui, sorridendogli, chiacchierando e fingendo di non avere visto niente? Che avrebbero pensato i suoi figli? Wilson si sentì il petto oppresso da un singhiozzo che non volle venire fuori. Oh, Dio... «Ecco la sua acqua, signore.» Wilson trasalì e aprì gli occhi. «Gradisce una coperta?» gli chiese la hostess. «No.» Confermò con un diniego. «Grazie» aggiunse poi, chiedendosi come facesse a essere così educato. «Se ha bisogno di qualcosa, prema pure il pulsante» disse la ragazza. Wilson annuì. Rimase con il bicchiere d'acqua in mano, senza bere, e sentì alle sue spalle le voci soffocate della hostess e di un altro passeggero. Wilson si irrigidì, risentito. Di scatto abbassò la mano verso la borsa e la tirò su, stando attento a non rovesciare il bicchiere. Aprì la lampo, aprì la scatola delle

pastiglie per dormire e ne mandò giù due con l'acqua. Schiacciò il bicchiere vuoto e lo infilò nella tasca sul sedile davanti a lui; poi, senza guardare fuori, richiuse la tendina. Ecco... tutto finito. Un'allucinazione non significava necessariamente la pazzia. Si girò sul fianco destro e cercò di bilanciare il movimento irregolare dell'aereo. Doveva dimenticare tutto, ecco la cosa più importante. Non doveva pensarci più. Si rese conto, quasi senza crederci, che sulle sue labbra si stava formando un debole sorriso. Be', santo Dio, comunque nessuno poteva accusarlo di avere allucinazioni da quattro soldi. Se le aveva, le aveva coi fiocchi. Un uomo nudo che strisciava sull'ala di un DC-7 a seimila metri di quota... era una fantasticheria degna di un pazzo irrecuperabile. Il buonumore gli passò rapidamente. Si sentiva spaventato. Era stato tutto così chiaro, così vivido. Com'era possibile che gli occhi vedessero una cosa che non esisteva? Com'era possibile che qualcosa nella sua mente piegasse ai suoi scopi il senso della vista in modo così convincente? Non era né stordito, né ubriaco... e non si era trattato di una visione indistinta, priva di sostanza. Era stata invece chiaramente tridimensionale, e si integrava benissimo con le cose che lui sapeva essere reali. Ed era proprio quello l'aspetto che più lo spaventava. Non aveva avuto nulla del sogno. Lui aveva guardato l'ala e... D'impulso riaprì la tendina. Lì per lì non fu sicuro che sarebbe sopravvissuto. Gli sembrò che tutto ciò che aveva nel petto e nello stomaco si gonfiasse in modo orribile, e che l'eccesso gli risalisse su per la gola e dentro la testa, soffocandolo, premendogli sugli occhi. Imprigionato in quella massa rigonfia, il suo cuore picchiava come un forsennato, minacciando di esplodere nella sua gabbia. Wilson rimase immobile sul sedile, come paralizzato. A pochi centimetri da lui, separato solo dallo spessore di un vetro, l'uomo lo stava guardando. Era una faccia orrendamente maligna, un volto non umano. Aveva la pelle sudicia, scabra e porosa; il naso era una massa schiacciata, priva di colore, le labbra informi, screpolate e tenute aperte da denti di dimensioni assurde, storti e deformi; gli occhi erano piccoli e incassati... e sempre aperti. Il tutto contornato da una peluria incolta e arruffata, che spuntava in ciocche pelose dalle orecchie e dal naso, come quella di un uccello, fino a ricoprire le guance. Wilson rimase inchiodato al sedile, incapace della minima reazione. Il tempo si fermò e perse ogni significato. Ogni funzione, ogni capacità di

analisi cessarono. Tutto era congelato in un blocco gelido di terrore. Solo il cuore continuava... da solo, una pulsazione convulsa nell'oscurità. Wilson non riusciva nemmeno a battere le palpebre. Con gli occhi spenti, senza fiato, ricambiò l'espressione vacua della creatura. Poi, all'improvviso, chiuse gli occhi e la mente, si liberò di quella visione, cercò di ignorarla. Non esiste, pensò. Strinse forte i denti, con il respiro che gli squassava le narici. Non esiste, non esiste e basta. Aggrappandosi al bracciolo con le dita sbiancate, Wilson si fece forza. Non c'è nessun uomo là fuori, si disse. Era impossibile che ci fosse un uomo aggrappato all'ala di un aereo che lo fissava. Riaprì gli occhi... ... e si rattrappì contro lo schienale emettendo un'esclamazione soffocata. Non solo quell'uomo era ancora lì, ma stava sogghignando. Wilson piegò le dita e affondò le unghie nel palmo della mano fino a provare un dolore lancinante. Ma continuò a premere finché non seppe al di là di ogni dubbio di essere assolutamente cosciente. Poi, lentamente, con il braccio tremante e intorpidito, si allungò per schiacciare il bottone e chiamare la hostess. Non avrebbe ripetuto l'errore di prima... urlare, balzare in piedi, allarmare la creatura e farla scappare. Continuò a tenere il braccio allungato, mentre i muscoli erano scossi da un tremito di terrore, perché adesso l'uomo lo stava osservando, con gli occhietti che seguivano il movimento del suo braccio. Premette il bottone, cauto, una volta, due volte. Adesso vieni, pensò. Vieni a vedere con i tuoi occhi neutrali quello che vedo io... ma sbrigati. Sentì il rumore di una tenda che veniva tirata sul retro della cabina e, tutto a un tratto, il suo corpo s'irrigidì. L'essere aveva girato la testa da mostro e stava guardando in quella direzione. Paralizzato, Wilson lo fissò. Sbrigati, pensò. Per l'amor del cielo, sbrigati! Fu questione di un secondo. Gli occhi dell'uomo tornarono a posarsi su Wilson, e un perfido sorrisetto si dipinse sulle sue labbra. Poi sparì con un balzo. «Sì, signore?» Per un attimo Wilson soffri il tormento assoluto della pazzia. Il suo sguardo continuava a spostarsi dal punto in cui fino a poco prima c'era stata la creatura al volto interrogativo della hostess, e viceversa. La hostess, l'ala, la hostess, in continuazione, trattenendo il respiro, mentre gli occhi si sforzavano di esprimere tutto il suo sgomento.

«Che succede?» gli chiese la hostess. Fu l'espressione sulla sua faccia a convincerlo. Wilson fece calare il sipario sulle sue emozioni. Non gli avrebbe mai creduto, se ne rese conto in un attimo. «Io... mi dispiace» farfugliò. Deglutì, ma lo fece con tale difficoltà da emettere un rumore secco con la gola. «Non è niente. Mi... mi scusi.» Ovviamente la hostess non sapeva che cosa dire. Se ne stava tutta ripiegata per non perdere l'equilibrio, e con una mano si teneva alla spalliera del sedile a fianco di quello di Wilson, mentre con l'altra si lisciava accuratamente la piega della gonna. Aveva le labbra appena socchiuse, come se volesse dire qualcosa, ma non trovasse le parole. «Bene» commentò alla fine, schiarendosi la gola «Se ha... bisogno di qualcosa...» «Sì, sì, grazie. Stiamo per... avvicinarci a una tempesta?» La hostess gli rivolse un sorriso frettoloso. «Una piccola turbolenza» rispose. «Niente di cui preoccuparsi.» Wilson annuì con piccoli movimenti nervosi. Poi, quando la hostess si voltò, lasciò andare il respiro tutto insieme, con le narici in fiamme. Era sicuro che lei lo considerasse matto, ma non sapesse che atteggiamento assumere, perché il suo corso di addestramento non aveva previsto la presenza di passeggeri che credono di vedere uomini aggrappati alle ali di un aereo. Credono? Wilson si voltò di scatto e guardò fuori. Fissò la distesa buia dell'ala, il getto infiammato dello scarico, le luci intermittenti. Lo aveva visto, l'ometto sull'ala... su quello era disposto a giurare. Come poteva avere una percezione perfetta di ciò che lo circondava... essere, in tutto e per tutto, sano di mente eppure immaginarsi una cosa del genere? Era logico che il cervello, mentre perdeva colpi, invece di distorcere l'intera realtà, inserisse all'interno di un quadro per il resto perfetto in ogni particolare un unico elemento sbagliato? No, non era affatto logico. All'improvviso Wilson ripensò alla guerra, alle storie lette sui giornali in cui si raccontava della presunta esistenza di creature del cielo che avevano disturbato i piloti nel corso delle loro missioni. Le chiamavano gremlin, ricordò. Esistevano davvero, creature del genere? Esistevano lassù, in carne e ossa, aggrappate alle ali degli aerei senza mai cadere, apparentemente provviste di un corpo fisico, ma non soggette alla forza di gravità?

Era immerso in questi pensieri quando l'uomo riapparve. Un attimo prima l'ala era vuota. Subito dopo, percorrendo un arco discendente, vi giunse con un balzo, senza impatto apparente. Atterrò in modo leggero, agile, protendendo le braccia pelose come per cercare di tenersi in equilibrio. Wilson si irrigidì. Sì, in quello sguardo c'era della consapevolezza. L'uomo - doveva pensare a lui come a un uomo? - sembrava rendersi conto di averlo preso in giro, facendogli chiamare inutilmente la hostess. Wilson si sentì tremare per la preoccupazione. Come poteva dimostrare agli altri l'esistenza di quell'essere? Si guardò intorno, disperato. La ragazza al di là del corridoio. Se le avesse parlato a bassa voce, se l'avesse svegliata, lei sarebbe riuscita a... No, l'uomo sarebbe saltato via prima che lei potesse vederlo. Probabilmente si sarebbe spostato fino alla sommità della fusoliera, dove sarebbe stato invisibile a chiunque, anche ai piloti nella cabina di guida. Wilson avvertì un improvviso senso di frustrazione per non avere portato con sé la macchina fotografica che gli aveva chiesto Walter. Santo Dio, pensò, se solo fosse riuscito a fotografare quell'uomo. Si accostò al finestrino. Che stava combinando, adesso? D'improvviso l'oscurità sembrò cancellata da un fulmine che illuminò l'ala, e Wilson vide. Come un bambino curioso, l'uomo se ne stava acquattato sul bordo rialzato dell'ala, e protendeva la mano destra verso una delle eliche vorticanti. Mentre Wilson osservava, affascinato e atterrito nello stesso tempo, l'uomo avvicinò sempre di più la mano all'elica, poi la ritrasse di scatto e le sue labbra articolarono un grido silenzioso. Ha perso un dito, pensò Wilson, nauseato. Ma l'uomo tornò subito ad allungare la mano, protendendo anche ciò che rimaneva del dito troncato, parodia mostruosa di un bambino che volesse afferrare le pale di un ventilatore. Se non fosse stato così orribilmente fuori posto, sarebbe stato anche divertente perché, a vederlo con sguardo distaccato, in quel momento l'uomo era uno spettacolo comico: un nano delle favole chissà come vivo e vegeto, con il vento che gli scompigliava i capelli e il corpo tutto concentrato sul funzionamento dell'elica. In che modo una cosa simile poteva essere pazzia? si domandò all'improvviso Wilson. Quale verità interiore poteva rivelare quel piccolo, ridicolo orrore? L'uomo, mentre Wilson lo seguiva con lo sguardo, continuava ad allungare la mano. E continuava a ritrarre le dita, ogni tanto, e se le portava alla bocca come volesse raffreddarle. E non smetteva mai di guardarsi indietro,

verso Wilson. Lo sa, pensò Wilson. Sa che questo è un gioco fra noi due. Se riesco a fare in modo che qualcuno lo veda, ha perso. Se rimango l'unico testimone, vince lui. Adesso quella vaga sensazione di divertimento era scomparsa. Wilson strinse i denti. Ma perché diavolo i piloti non lo vedono? A questo punto la creatura, non più interessata all'elica, si era sistemata sul motore come se fosse un puledro da domare. Wilson la fissò. Improvvisamente un brivido gli attraversò la schiena. L'ometto stava allentando le piastre che ricoprivano il motore, cercando di infilarvi dentro le unghie. D'impulso, Wilson allungò la mano e premette il bottone per chiamare la hostess. La sentì arrivare dal fondo della cabina e, per un attimo, fu convinto di avere avuto la meglio sull'uomo, che sembrava tutto preso dai suoi tentativi. Ma proprio all'ultimo, appena prima che arrivasse la hostess, si girò a guardare Wilson. Poi, come un burattino richiamato dai fili, decollò verso l'alto. «Sì?» La ragazza lo fissava con apprensione. «Le dispiacerebbe... sedersi, per favore?» le chiese. Lei esitò. «Ecco, io...» «La prego.» La hostess si accomodò sul sedile accanto al suo, guardinga. «Che succede, signor Wilson?» gli chiese. Lui si fece coraggio. «Quell'uomo è sempre là fuori» disse. La hostess lo fissò. «Il motivo per cui glielo dico» si affrettò ad aggiungere Wilson «è che sta cominciando a manomettere uno dei motori.» Lei diresse istintivamente lo sguardo verso il finestrino. «No, no, non guardi» le disse. «Adesso non c'è.» Si schiarì la gola, rumorosamente. «Si... si allontana con un salto ogni volta che lei viene.» Una nausea improvvisa gli tormentò lo stomaco quando si rese conto di quello che doveva pensare la hostess. E quando si rese conto di ciò che lui stesso avrebbe pensato se qualcuno gli avesse raccontato una storia del genere, si sentì travolgere da un'ondata di vertigini e pensò: sto impazzendo! «Il fatto è» aggiunse, ricacciando indietro quel pensiero «che se non mi sto immaginando tutto, allora questo aereo è in pericolo.» «Certo» rispose lei. «Lo so» disse Wilson. «Lei pensa che io abbia perso il lume della ragione.»

«Ma no, che dice» replicò la ragazza. «Le chiedo solo una cosa» insisté Wilson, lottando contro la rabbia che gli cresceva dentro. «Riferisca ai piloti quello che ho visto. Gli chieda di tenere d'occhio le ali. Se non vedono niente... bene. Ma se vedono qualcosa...» La hostess rimase lì tranquilla, sempre con lo sguardo puntato su di lui. Wilson strinse le mani a pugno e le vide tremare. «Allora?» le chiese. Lei balzò in piedi. «Glielo riferirò» disse. Si girò e si avviò lungo il corridoio con un movimento che a Wilson sembrò troppo artefatto... troppo rapido per essere normale, eppure palesemente trattenuto, tanto per fargli capire che non stava fuggendo. Wilson tornò a guardare l'ala e provò una contrazione allo stomaco. All'improvviso l'uomo era apparso di nuovo, atterrando sull'ala come una specie di grottesco ballerino. Wilson lo fissò mentre si rimetteva all'opera, sistemandosi a cavalcioni sul motore con le gambe nude e muscolose, e tentando di strappare le piastre. Be', ma in fondo perché sono tanto preoccupato? pensò Wilson. Quella sciagurata creatura non poteva rimuovere i bulloni con la forza delle unghie. Anzi, non aveva nessuna importanza se i piloti lo vedevano o no, almeno per quanto riguardava la sicurezza dell'apparecchio. Quanto alle sue ragioni personali... Fu in quel momento che l'uomo sollevò il bordo di una piastra. Wilson boccheggiò. «Presto, venite qui subito!» gridò, notando la hostess e uno dei piloti che stavano uscendo dalla cabina di pilotaggio. Gli occhi del pilota inquadrarono Wilson. Poi, tutto a un tratto, oltrepassò la hostess e si precipitò lungo il corridoio. «Presto!» urlò Wilson. Diede un'occhiata fuori dal finestrino appena in tempo per accorgersi che l'ometto era scomparso con un salto. Ma a questo punto non aveva più importanza. C'era una prova evidente della sua presenza. «Che succede?» chiese il pilota, fermandosi accanto a lui, con il fiato grosso. «Ha strappato una delle piastre del motore!» disse Wilson con voce tremante. «Che ha fatto?» «Quell'uomo là fuori!» disse Wilson. «Le dico che ha...» «Signor Wilson, abbassi la voce!» gli ordinò il pilota. La mascella di

Wilson crollò. «Non capisco che succede qui,» disse il pilota «ma...» «Perché non guarda fuori?» urlò Wilson. «Signor Wilson, l'avviso...» «Per l'amor di Dio!» Wilson deglutì in tutta fretta, sforzandosi di reprimere la rabbia cieca che provava. D'improvviso si appoggiò al sedile e indicò il finestrino con la mano quasi paralizzata. «Perché, in nome di Dio, non guarda fuori?» Respirando ancora a fatica, il pilota si sporse. Dopo un attimo i suoi occhi fissarono, gelidi, quelli di Wilson. «Allora?» gli chiese. Wilson girò la testa di scatto. La piastra era di nuovo al suo posto. «Oh, un attimo» disse prima di essere travolto dal terrore. «L'ho visto con i miei occhi che staccava quella piastra.» «Signor Wilson, se non...» «L'ho visto che la staccava» ripeté Wilson. Il pilota rimase in piedi a squadrarlo con quella stessa espressione tesa, quasi sbalordita, con cui l'aveva guardato la hostess. Wilson fu scosso da un brivido violento. «Mi stia a sentire, io l'ho visto!» gli urlò. L'improvviso cedimento della voce lo atterrì. Il pilota si affrettò a chinarsi su di lui. «Signor Wilson, la prego» gli disse. «Va bene, l'ha visto. Ma si ricordi che a bordo ci sono altri passeggeri. Non dobbiamo allarmarli.» All'inizio Wilson fu troppo sconvolto per capire. «Allora lei... lei intende dire che l'ha visto?» gli chiese. «Ma certo» rispose il pilota. «Però non bisogna spaventare gli altri passeggeri. Lei deve capirlo.» «Certo, certo, io non volevo...» Wilson sentì un groppo doloroso che gli trafiggeva lo stomaco e l'intestino. All'improvviso strinse le labbra e fissò il pilota con occhi diffidenti. «Capisco» disse. «Dobbiamo sempre ricordare...» cominciò il pilota. «Adesso facciamola finita» lo interruppe Wilson. «Prego?» Wilson rabbrividì. «Se ne vada di qui» disse. «Signor Wilson, che cosa...» «La vuole piantare sì o no?» Bianco in volto, Wilson distolse lo sguardo dal pilota e si mise a fissare l'ala, con gli occhi impietriti.

Poi si voltò di scatto, rosso in volto. «E stia pur certo che non dirò una parola di più!» scattò. «Signor Wilson, cerchi di capire la nostra...» Wilson lo ignorò e fissò il motore, con un'espressione velenosa sul volto. Con la coda dell'occhio notò due passeggeri in piedi nel corridoio che lo guardavano. Idioti! esplose la sua mente. Sentì che gli cominciavano a tremare le mani e, per qualche secondo, ebbe paura che avrebbe vomitato. È il movimento, si disse. Adesso l'apparecchio ondeggiava come un'imbarcazione sballottata dal vento. Si accorse che il pilota gli stava ancora parlando e, rimettendo a fuoco lo sguardo, scrutò il suo riflesso nello specchio. Accanto al pilota, silenziosa e seria in volto, c'era la hostess. Ciechi idioti, tutti e due, pensò. Quando se ne andarono, decise di ignorarli. Li vide, sempre riflessi nel finestrino, che si allontanavano lungo il corridoio. Adesso staranno parlando di me, pensò. Preparandosi a intervenire nel caso che diventi violento. Ora desiderava che quell'ometto ricomparisse, che strappasse la piastra e danneggiasse il motore. Il fatto che ci fosse solo lui, fra la catastrofe e le oltre trenta persone a bordo, gli dava una specie di maligno piacere. Dipendeva da lui, permettere che la catastrofe si verificasse o meno. Wilson sorrise senza allegria. Sarebbe stato un suicidio principesco, pensò. L'ometto si lasciò cadere di nuovo giù e Wilson si accorse di avere visto giusto: prima di allontanarsi aveva schiacciato la piastra e l'aveva rimessa a posto; adesso, infatti, la stava risollevando, e quella veniva via senza difficoltà, staccandosi come un lembo di pelle rimosso da un grottesco chirurgo. L'ala era scossa da movimenti molto irregolari, ma sembrava che l'uomo non avesse alcun problema a mantenersi in equilibrio. Wilson fu colto nuovamente dal panico. Cosa doveva fare? Nessuno gli credeva. Se avesse provato ancora a convincerli, probabilmente lo avrebbero rinchiuso da qualche parte, Se avesse chiesto alla hostess di sedersi accanto a lui, avrebbe ottenuto soltanto, nel migliore dei casi, una tregua temporanea. Nel momento in cui lei si fosse allontanata o, pur rimanendo, si fosse addormentata, l'ometto si sarebbe rimesso in azione. E anche se fosse rimasta sveglia vicino a lui, che cosa avrebbe impedito al sabotatore di mettersi a trafficare con i motori dell'ala opposta? Wilson fu scosso da un brivido, e un gelo mortale cominciò a serpeggiargli nelle ossa. Santo Dio, non c'era proprio niente da fare. Si piegò proprio mentre sul finestrino oltre il quale c'era l'ometto si disegnava l'immagine riflessa del pilota. L'assurdità di quel momento lo colpì

con violenza: l'uomo e il pilota erano a pochissima distanza l'uno dall'altro, lui li vedeva entrambi, ma i due non si vedevano fra loro. No, si sbagliava. L'ometto, al passaggio del pilota, si era voltato a guardare. Quasi avesse capito che non doveva più saltare via, che la capacità di Wilson di intervenire era ormai agli sgoccioli. All'improvviso Wilson cominciò a tremare di rabbia impotente. Ti ucciderò! pensò. Lurido piccolo animale, ti ucciderò! All'esterno il motore perse un colpo. Durò solo un secondo ma, in quel secondo, Wilson ebbe l'impressione che anche il suo cuore stesse per fermarsi. Si schiacciò contro il finestrino, con gli occhi sbarrati. L'uomo aveva ripiegato all'indietro la piastra che ricopriva il motore e adesso si era inginocchiato; incuriosito, stava infilando la mano dentro gli ingranaggi. «Non...» Wilson sentì il tono implorante nella sua voce, quasi una supplica. «Non...» Il motore perse un altro colpo. Wilson si guardò intorno, inorridito. Erano tutti sordi? Alzò la mano per schiacciare il bottone della hostess, poi la ritrasse di scatto. No, lo avrebbero bloccato, messo in condizione di non agire. E lui era il solo a sapere cosa stava succedendo, il solo che poteva fare qualcosa. «Dio...» Wilson si morse il labbro inferiore fino a quando il dolore non gli fece uscire le lacrime. Si girò di nuovo. La hostess stava correndo lungo il corridoio scosso dal leggero fremito dell'aereo. L'aveva sentito! La seguì con lo sguardo e, quando lei gli passò accanto, notò che gli rivolgeva un'occhiata distratta. Si fermò tre file più avanti. Qualcun altro aveva sentito! Wilson continuò a guardare la hostess che si chinava in avanti e parlava con un passeggero invisibile. All'esterno il motore tossì di nuovo. Wilson girò la testa di scatto e guardò fuori con gli occhi pieni di orrore. «Accidenti a te!» piagnucolò. Si voltò ancora e vide la hostess che risaliva lungo il corridoio. Non aveva l'aria allarmata. La guardò, incredulo. Non era possibile. Si dimenò per seguire il suo movimento ondeggiante e la vide sparire all'altezza della dispensa. «No.» Adesso Wilson non riusciva più a frenare il tremito. Nessuno aveva sentito. Nessuno sapeva. D'impulso si chinò e fece scivolare la borsa da viaggio da sotto il sedile. Aprì la lampo, prese la bustina con il completo da toilette e la gettò a terra.

Poi infilò dentro la mano, afferrò la busta di tela cerata e si raddrizzò. Con la coda dell'occhio vide la hostess che tornava indietro e con le scarpe spinse la borsa sotto il sedile, appoggiando la busta con la pistola vicino a sé. Rimase immobile, trattenendo il fiato, mentre la ragazza gli passava accanto. A questo punto si mise la busta in grembo e la aprì. I suoi movimenti erano talmente frenetici che per poco la pistola non gli cadde di mano. L'afferrò per la canna, poi la strinse in pugno così forte che le dita divennero esangui, fece scattare la sicura. Diede un'occhiata fuori e si sentì raggelare. L'ometto lo stava fissando. Wilson strinse forte le labbra tremanti. Era impossibile che l'uomo sapesse, che fosse in grado di anticipare le sue intenzioni. Deglutì e cercò di trattenere il respiro. Spostò lo sguardo verso il punto in cui la hostess stava porgendo delle pillole a un passeggero, poi tornò a fissare l'ala. L'essere si era nuovamente girato verso il motore, e stava per toccarlo. Wilson strinse la presa sull'arma, e cominciò a sollevarla. Ma l'abbassò subito. Il finestrino era troppo spesso. Il proiettile poteva venire deviato e uccidere uno dei passeggeri. Wilson rabbrividì e tornò a fissare lo sguardo sull'ometto. Il motore ebbe un altro colpo a vuoto e ci fu un'eruzione di scintille che illuminarono i lineamenti animaleschi dell'uomo. Wilson si fece coraggio. C'era una sola via di scampo. Guardò giù, verso la maniglia dell'uscita di emergenza. Era ricoperta da una protezione di plastica trasparente. Wilson la staccò e la lasciò cadere a terra. Guardò fuori. L'uomo era ancora lì, rannicchiato, con una mano che rovistava nel motore. Wilson aspirò il fiato, tremando. Appoggiò la mano sinistra sulla maniglia e la saggiò. Verso il basso non si muoveva. Invece verso l'alto c'era un po' di gioco. Tutto a un tratto Wilson ruppe gli indugi e si mise la pistola in grembo. Non c'era tempo di ragionarci troppo sopra, si disse. Con le mani che gli tremavano si fissò la cintura all'altezza delle cosce. Una volta aperto il portello ci sarebbe stato uno spaventoso risucchio d'aria. Per la salvezza stessa dell'aereo, lui non doveva farsi trascinare via. Ecco. Wilson brandì nuovamente la pistola, con il cuore che sembrava impazzito. Doveva muoversi in fretta, con precisione. Se avesse mancato il colpo, l'uomo sarebbe potuto saltare sull'ala opposta... o peggio ancora, sull'impennaggio di coda dove, indisturbato, sarebbe stato in grado di strappare i cavi, manomettere i flap e sconvolgere l'equilibrio dell'aereo. No, quello era l'unico modo. Avrebbe sparato basso e avrebbe colpito

l'uomo al petto o allo stomaco. Wilson si riempì i polmoni d'aria. Adesso, pensò. Adesso. La hostess stava risalendo il corridoio quando Wilson cominciò a tirare la maniglia. Per un attimo rimase come paralizzata, senza sapere che cosa dire. Un'espressione di orrore stupefatto le distese i lineamenti: sollevò una mano, come a implorarlo. Poi, all'improvviso, la sua voce stridula coprì il rumore dei motori. «Signor Wilson, no!» «Stia indietro!» urlò Wilson, e tirò su la maniglia. Il portello sembrò scomparire. Un momento era accanto a lui, saldo nella sua mano. Il momento dopo, con un sibilo assordante, non c'era più. Contemporaneamente, Wilson si sentì avviluppato da un risucchio mostruoso che tentò di strapparlo dal suo sedile. Testa e spalle erano fuori dal compartimento, e tutto a un tratto si ritrovò a respirare un'aria gelida e rarefatta. Per un attimo, con le orecchie che sembravano volergli esplodere per il rombo dei motori e gli occhi accecati dai venti polari, si dimenticò dell'uomo. Gli sembrò di sentire delle grida, debolissime nel frastuono che lo circondava, e lontane. Poi vide l'uomo. Stava camminando sull'ala, una forma sghemba tutta piegata in avanti, con le mani che rivelavano artigli ricurvi protesi con impazienza. Wilson prese la mira, sparò. La detonazione fu poco più di uno schiocco in quel violento turbinio. L'uomo barcollò, sferzò l'aria, e Wilson provò una fitta di dolore alla testa. Sparò di nuovo a distanza ravvicinata e vide l'uomo precipitare all'indietro, agitando le mani... poi, all'improvviso, lo vide scomparire con la stessa leggerezza di un foglio di carta sballottato dal vento. Wilson fu travolto da un senso di stordimento bruciante che gli ottenebrò il cervello. Si sentì strappare via la pistola dalle dita ormai inerti. Poi tutto svanì in un'oscurità gelida come l'inverno. Si mosse, farfugliò qualcosa. C'era un tepore che gli scorreva nelle vene, ma braccia e gambe erano come di legno. Nel buio sentì un suono soffocato, un vociare sommesso. Era sdraiato supino su qualcosa che si muoveva e oscillava dolcemente. Un vento freddo gli accarezzava il volto, e sotto di lui quel qualcosa era sempre in movimento. Sospirò. L'aereo era atterrato e lui si trovava sopra una barella. Qualcuno lo stava portando via. Aveva una ferita alla testa, probabilmente, e gli avevano fatto un'iniezione per calmarlo. «Il più strampalato tentativo di suicidio di cui abbia mai sentito parlare»

stava dicendo una voce da qualche parte. Wilson si abbandonò al piacere del divertimento. Chiunque fosse a parlare si sbagliava, naturalmente. Come sarebbe stato chiarito al più presto, una volta controllato il motore ed esaminata con più attenzione la sua ferita alla testa. Allora si sarebbero resi conto che li aveva salvati tutti. Wilson dormì un sonno senza sogni. Il vestito di seta bianca Il silenzio è qui, ed è tutto dentro di me. Nonna mi ha chiuso a chiave nella mia stanza e non mi lascerà uscire. Perché stavolta è successo, dice. Credo di essere stata cattiva. Solo che è stato il vestito. Il vestito di mamma, voglio dire. Lei se n'è andata via per sempre. Nonna dice la tua mamma è in cielo. Io non lo so come. Può andare in cielo se è morta? Adesso la sento, nonna. È nella camera di mamma. Sta mettendo il vestito di mamma dentro la scatola. Perché fa sempre così? E la chiude pure a chiave. Vorrei che non lo facesse. È un bel vestito e profuma di dolce. E di caldo. Mi piace passarmelo sulla guancia. Però non potrò farlo mai più. Credo che è per questo che la nonna ce l'ha tanto con me. Ma mica sono tanto sicura. Tutta la giornata è stata come le altre. È venuta Mary Jane a casa mia. Abita di fronte a noi. Viene tutti i giorni a giocare con me. Oggi è venuta. Ho sette bambole e un camion dei pompieri. Oggi nonna ha detto gioca con le bambole e col camion. Non andare in camera di mamma ha detto lei. Lo dice sempre. Credo che vuole dire di non andare a fare confusione, credo. Perché lo dice tutte le volte. Non andare in camera di mamma. Così. Ma è bello, in camera di mamma. Quando piove ci vado. Oppure ci vado quando nonna si riposa. Non faccio rumore. Mi metto a sedere sul letto e tocco la coperta bianca. Come quando ero piccolina. La camera profuma di dolce. Faccio finta che mamma si sta vestendo e che io posso guardarla. Odoro il suo vestito di seta bianca. Quello che si metteva quando usciva la sera. Me l'ha detto ma non mi ricordo quando. Se mi ci metto per bene la sento che si muove. Fingo di vederla seduta alla toletta. Come quando toccava i profumi o cose del genere voglio dire. E vedo i suoi occhi scuri. Me lo ricordo. È così bello quando piove e io vedo gli occhi dalla finestra. La pioggia

sembra un grande gigante, là fuori. Dice shhhh così stanno tutti zitti. Mi piace fare finta così, in camera di mamma. Quello che mi piace di più è sedermi alla toletta di mamma. È grande e rosa, e anche quella profuma di dolce. La sedia davanti ha un cuscino cucito sopra. Ci sono tante boccette strane e dentro ci sono profumi colorati. E nello specchio uno si può vedere quasi tutto intero. Quando me ne sto lì a sedere faccio finta di essere mamma. Dico zitta mamma io esco e tu non puoi fermarmi. È qualcosa che dico non lo so perché, così come me lo sento dentro. E oh smettila di piangere mamma non mi prenderanno. Ho il mio vestito magico. Quando faccio finta mi pettino i capelli lunghi. Però uso solo la mia spazzola, quella della mia camera. Non uso mai la spazzola di mamma. Non credo che nonna ce l'ha con me per questo perché non uso mai la spazzola di mamma. Non lo farei mai e poi mai. Certe volte ho aperto la scatola. Perché lo so dove nonna tiene la chiave. L'ho vista una volta quando lei non sapeva che la vedevo. Lei mette la chiave sul gancio nell'armadio di mamma. Dietro la porta voglio dire. L'ho aperta un sacco di volte la scatola. Questo perché mi piace guardare il vestito di mamma. Mi piace davvero tantissimo guardarlo. È così bello e morbido che sembra seta. Potrei toccarlo per un milione di anni. Mi metto in ginocchio sul tappeto con le rose sopra. Stringo il vestito fra le braccia e quasi lo respiro. Me lo passo sulla guancia. Mi piacerebbe portarlo con me a dormire e stringerlo. Mi piacerebbe farlo. Adesso non posso. Perché nonna dice così. E dice che dovrei bruciarlo ma io le volevo tanto bene. E lei piange per il vestito. Io non l'ho mai trattato male. Lo rimetto bene a posto come se nessuno lo ha mai toccato. Nonna non se n'è mai accorta. Io ci ridevo, che lei non se n'era mai accorta prima. Però adesso lo sa che l'ho fatto, credo. E mi punirà. Perché si arrabbia così tanto? Non era il vestito di mamma? Quello che mi piace più di tutto in camera di mamma è guardare la fotografia di mamma. C'è intorno una cosa d'oro. Si chiama cornice, dice nonna. Sta sul muro sopra il cassettone. Mamma è bella. La tua mamma era bella dice nonna. Perché dice così? Io vedo mamma che sorride lì dentro ed è davvero bella. Per sempre. Ha i capelli neri. Come i miei. Anche i suoi occhi sono piuttosto neri. La bocca è rossa rossa. Mi piace il vestito ed è quello bianco. Le ricade tutto sulle spalle. La sua pelle è bianca, quasi bianca come il vestito. E anche le sue mani. È bellissima. Io le voglio bene anche se è andata via per sempre.

Le voglio tanto bene. Credo che è per questo che sono stata cattiva. Cioè con Mary Jane. Mary Jane è venuta dopo pranzo come fa sempre. Nonna è andata a fare il suo riposino. Ha detto non ti dimenticare che non devi andare in camera di mamma. Io ho detto no nonna. E dicevo la verità ma poi io e Mary Jane ci siamo messe a giocare ai pompieri. Mary Jane ha detto scommetto che non ce l'hai una mamma scommetto che ti sei inventata tutto. Io mi sono arrabbiata con lei. Ce l'ho una mamma lo so. Lei mi ha fatto arrabbiare quando ha detto che mi sono inventata tutto. Ha detto che sono una bugiarda. Cioè il letto e la toletta e la fotografia e anche il vestito e tutto quanto. Ho detto va bene te lo faccio vedere furbastra. Ho guardato in camera di nonna. Lei stava ancora facendo il pisolino. Sono scesa giù e ho detto a Mary Jane di venire perché nonna non si sarebbe accorta di niente. Dopo non era più così furba. Ridacchiava come fa sempre. Ha fatto anche un rumore da fifona quando ha sbattuto sul tavolino in cima alle scale. Le ho detto sei una fifona. Lei mi ha detto be' casa mia non è buia come questa. Così buio era troppo. Siamo andate in camera di mamma. Era ancora più buio e non si vedeva niente. Ho detto questa è la camera di mamma vedi un po' se mi sono inventata tutto. Lei stava vicino alla porta e non era furba nemmeno allora. Non ha detto una parola. Ha guardato in giro per la stanza. Quando ho toccato il suo braccio ha fatto un salto. Allora entra ho detto. Mi sono seduta sul letto e ho detto questo è il letto della mia mamma lo vedi com'è morbido. Lei non ha detto niente. Fifona ho detto. Non sono fifona ha detto lei come fa sempre. Ho detto siediti come fai a dire che è morbido se non ti siedi. Lei si è seduta accanto a me. Ho detto senti come è morbido. Senti come profuma di dolce. Ho chiuso gli occhi ma che strano non era come sempre. Perché c'era Mary Jane. Le ho detto di piantarla di accarezzare la coperta. Me l'hai detto tu di farlo ha detto lei. Be' piantala ho detto io. Vedi ho detto e l'ho fatta alzare. Quella è la toletta. L'ho presa e l'ho portata lì. Lei ha detto lasciamo andare. Era così silenzioso e tutto come sempre. Ho cominciato a sentirmi male. Perché c'era Mary Jane. Perché stava nella camera di mamma e a mamma non sarebbe piaciuto che lei stava lì.

Ma dovevo farle vedere le cose però. Le ho fatto vedere lo specchio. Ci siamo guardate dentro tutte e due. Lei sembrava bianca. Mary Jane è una cacasotto ho detto. Non è vero non è vero ha detto lei e poi nessuna casa è così buia e silenziosa dentro. E poi ha detto che ha uno strano odore. Io mi sono arrabbiata tanto con lei. Non c'è nessuno strano odore ho detto. Invece c'è l'hai detto tu che c'era. Io mi sono arrabbiata ancora di più. Un odore come zucchero ha detto. Un odore come di persone malate nella camera di tua mamma. Non dire che la camera di mia mamma è come quella delle persone malate ho detto io. Insomma non mi hai fatto vedere nessun vestito e mi racconti le bugie ha detto lei non c'è nessun vestito. Io mi sono sentita tutta calda dentro così le ho tirato i capelli. Ti faccio vedere io ho detto te lo farò vedere il vestito di mamma e farai meglio a non insistere che dico le bugie. L'ho fatta restare ferma e ho preso la chiave dal gancio. Mi sono inginocchiata. Ho aperto la scatola con la chiave. Mary Jane ha detto puah puzza come la mondezza. Le ho fatto male con le unghie e lei è saltata indietro e si è arrabbiata. Non mi graffiare ha detto ed era tutta rossa in faccia. Racconterò tutto a mia madre ha detto. E comunque non è un vestito bianco è sporco e brutto ha detto. Non è sporco ho detto io. L'ho detto così forte che mi sembra strano che nonna non mi ha sentito. Ho tirato fuori il vestito dalla scatola. L'ho tirato su per farglielo vedere che è bianco. Si è aperto come la pioggia che fruscia e il fondo ha toccato il tappeto. È bianchissimo ho detto tutto bianco e pulito e morbido. No ha detto lei era arrabbiata e tutta rossa e c'è un buco. Io non ci vedevo più dalla rabbia. Se mamma era qui te lo faceva vedere lei ho detto. Tu non ce l'hai una mamma ha detto lei brutta e cattiva. La odio. Ce l'ho invece. L'ho detto molto forte. Ho puntato il dito verso la fotografia di mamma. Be' come si fa a vedere qualcosa in questa stupida stanza così buia ha detto lei. Io l'ho spinta e lei è andata a sbattere contro il cassettone. La vedi o no ho detto guarda bene la fotografia. Quella è la mia mamma e lei è la donna più bella del mondo. È brutta e ha delle mani strane ha detto Mary Jane. Non è vero ho detto io è la donna più bella del mondo! No no ha detto lei ha i denti tutti storti. Dopo non mi ricordo più. Mi sembra che il vestito si è mosso fra le mie

braccia. Mary Jane ha urlato. Non mi ricordo che cosa. Si è fatto buio e le tende erano chiuse mi sembra e non riuscivo a vedere niente. Non riuscivo a sentire niente a parte denti storti mani strane denti storti mani strane anche quando nessuno lo diceva. C'era qualcos'altro perché mi sembra di avere sentito qualcuno che gridava non farglielo dire! Non riuscivo più a tenere fermo il vestito. O forse ce l'avevo addosso non mi ricordo. Perché ero cresciuta ed ero forte. Ma ero ancora una bambina credo, cioè lo ero fuori. Mi sa che allora sono stata proprio cattiva. Nonna mi ha portato via da lì mi sembra. Non lo so. Strillava che Dio ci aiuti è successo è successo. Tante volte. Non lo so perché. Mi ha trascinato fino in camera mia e mi ha chiusa dentro. Non mi lascerà uscire. Be' io non ho poi così tanta paura. Chi se ne importa se mi chiude qui dentro per un milione di anni? Non deve nemmeno prepararmi da mangiare. E poi non ho nemmeno fame. Sono sazia. Figlio di sangue Gli abitanti del quartiere giunsero alla definitiva conclusione che Jules era pazzo quando sentirono parlare del suo tema. C'erano dei sospetti da tempo. Faceva rabbrividire la gente con la sua espressione vacua. Il suo modo di parlare di gola, rauco e cavernoso, sembrava del tutto innaturale in quel corpo così fragile. Il pallore cadaverico della sua pelle spaventava quasi tutti i bambini. Sembrava che gli pendesse dalla carne. Lui odiava la luce del sole. E aveva idee un po' strampalate, per quelli che vivevano nel quartiere. Jules voleva essere un vampiro. Tutti sapevano che era nato in una notte in cui il vento aveva sradicato gli alberi. Si diceva che fosse nato con tre denti. Si diceva che li usasse per ancorarsi al petto della madre, per succhiare sangue oltre al latte. Si diceva che al crepuscolo starnazzasse e abbaiasse nella sua tana. Si diceva che all'età di due mesi già camminasse e si mettesse a fissare la luna piena. Questo era quanto si diceva in giro. I suoi genitori erano sempre in ansia per lui. Era l'unico figlio, e si accorsero subito delle sue anomalie. Pensarono che fosse cieco finché il dottore non disse loro che aveva

semplicemente uno sguardo inespressivo. Gli disse anche che Jules, con la sua grossa testa, poteva diventare un genio o un idiota. Successe che divenne un idiota. Non disse mai una parola fino all'età di cinque anni. Poi, quando una sera venne in casa per la cena, sedette al tavolo e disse: «Morte.» I suoi genitori furono combattuti fra felicità e disgusto. Alla fine scelsero una via di mezzo. Decisero che Jules non poteva essersi reso conto del significato di quella parola. Invece Jules se n'era reso conto. Da quella notte si costruì un vocabolario così ricco da sbalordire chiunque lo conoscesse. Non solo assimilò ogni parola che veniva pronunciata in sua presenza, le imparò dai cartelli, dalle riviste e dai libri. Ne inventò addirittura di sue. Come fiordinotte o amordimorte. Si trattava effettivamente di parole fuse fra loro. Esprimevano concetti che Jules sentiva ma che non riusciva a spiegare con altri termini. In genere se ne stava seduto sulla veranda mentre gli altri bambini giocavano a campana, a palla avvelenata o ad altri giochi. Sedeva lì, fissava il marciapiede e inventava parole. Fino all'età di dodici anni Jules si tenne abbastanza fuori dai guai. Naturalmente ci fu quella volta in cui lo sorpresero mentre cercava di spogliare Olive Jones in un vicolo. E l'altra in cui venne scoperto mentre dissezionava un gattino sul letto. Ma fra questi fatti trascorsero parecchi anni, e ci si dimenticò di quegli scandali. In generale attraversò l'infanzia semplicemente disgustando la gente. Andò a scuola ma non studiò mai. Ripeté ogni classe due o tre volte. Gli insegnanti lo conoscevano tutti solo di nome. In certe attività, come leggere e scrivere, era quasi geniale. In altre era un caso disperato. Un sabato, all'età di dodici anni, Jules andò al cinema. Vide Dracula. Quando il film fu finito attraversò le file di ragazzini e ragazzine e si allontanò. Era un fascio di muscoli pulsanti, pronti a scattare. Arrivato a casa si esaminò allo specchio del bagno per due ore filate. I genitori picchiarono alla porta e lo minacciarono, ma lui non uscì. Finalmente girò la chiave e sedette al tavolo per la cena. Aveva un pollice bendato e un'espressione soddisfatta sul viso. La mattina dopo andò in biblioteca. Era domenica. Restò seduto sui gra-

dini per tutto il giorno, aspettando che aprisse. Infine se andò a casa. Il giorno dopo, invece di recarsi a scuola, tornò in biblioteca. Trovò Dracula sullo scaffale. Non poteva prenderlo in prestito perché non era iscritto, e per iscriversi doveva portare uno dei genitori. Allora s'infilò il libro dentro i calzoni, lasciò la biblioteca e non lo restituì mai. Andò al parco, si mise a sedere e lesse tutto il libro. Lo finì quando era già sera inoltrata. Ricominciò dall'inizio, leggendo mentre correva da un lampione all'altro, per tutta la strada verso casa. Non sentì una parola della lavata di testa che gli fecero per avere saltato il pranzo e la cena. Mangiò, se ne andò in camera sua e lesse il libro fino alla fine. Gli chiesero dove se lo fosse procurato. Lui rispose che l'aveva trovato. Col passare dei giorni Jules non fece che leggerlo e rileggerlo. Non andò mai a scuola. La sera tardi, quando Jules si addormentava, esausto, la madre prendeva il libro, lo portava in salotto e lo faceva vedere a suo marito. Una sera si accorsero che Jules aveva sottolineato certe frasi con tratti irregolari di pennarello nero. Tipo: «Le labbra erano cremisi di sangue fresco e il rivolo era sgocciolato lungo il mento, macchiando il bianco tessuto del suo sudario.» Oppure: «Quando il sangue cominciò a sgorgare, mi strinse le mani in una delle sue, tenendole giunte mentre con l'altra mi afferrava il collo e avvicinava la mia bocca alla ferita...» Quando sua madre vide tutto questo scaraventò il libro nello scivolo della spazzatura. Al mattino, quando Jules si accorse che il libro non c'era più, si mise a urlare e si aggrappò al braccio della madre finché lei non gli disse dov'era finito. Allora lui corse giù in cantina e rovistò nei mucchi di spazzatura fino a quando non lo ritrovò. Con le mani e i polsi sporchi di fondi di caffè e gusci d'uovo, andò al parco e lo rilesse di nuovo. Per un mese non fece che leggerlo con avidità. Poi, dopo averlo praticamente imparato a memoria, lo gettò via e non ci pensò più. Dalla scuola cominciarono ad arrivare le segnalazioni di assenza. Sua madre fece un gran baccano e Jules decise di tornarci per un po'.

Voleva scrivere un tema. Lo scrisse un giorno, mentre era a scuola. Quando tutti ebbero finito, l'insegnante domandò se qualcuno voleva leggere il suo tema alla classe. Jules alzò la mano. L'insegnante ne fu sorpresa. Ma si sentì impietosita. Voleva incoraggiarlo. Ritrasse il mento minuscolo e sorrise. «Va bene» disse. «Bambini, state attenti. Jules ci leggerà il suo tema.» Jules si alzò in piedi. Era eccitato. Il foglio gli tremava fra le mani. «Il mio desiderio, di...» «Vieni a metterti davanti alla classe, Jules, caro.» Jules si mise davanti alla classe. L'insegnante sorrideva amabilmente. Jules ricominciò. «Il mio desiderio, di Jules Dracula.» Il sorriso s'indebolì. «Quando sarò grande voglio diventare un vampiro.» Le labbra dell'insegnante, ancora atteggiate al sorriso, si torsero in giù e all'infuori. Gli occhi erano sgranati. «Voglio vivere per sempre e vendicarmi di tutti e trasformare ogni ragazza in una vampira. Voglio odorare di morte.» «Jules!» «Voglio avere l'alito cattivo, che puzza di terra morta e di cripte e di dolci bare.» L'insegnante rabbrividì, tormentando il registro verde con le mani. Non poteva credere alle sue orecchie. Guardò gli altri bambini. Erano tutti a bocca spalancata. Qualcuno ridacchiava, ma non le bambine. «Voglio essere tutto freddo e avere la carne marcia con il sangue rubato dentro le vene.» «Basta così... humph!» L'insegnante si schiarì rumorosamente la gola. «Basta così, Jules» disse. Disperato, Jules alzò la voce. «Voglio affondare i miei terribili denti bianchi nei colli delle mie vittime. Voglio che...» «Jules! Torna subito al tuo posto!» «Voglio che taglino come rasoi sulla carne e nelle vene» lesse con accanimento Jules. L'insegnante balzò in piedi. I bambini stavano tremando. Nessuno ridacchiava più.

«Poi voglio snudare i miei denti e lasciare che il sangue scorra libero nella mia bocca e scenda caldo nella mia gola e...» L'insegnante lo prese per un braccio. Jules si liberò con uno strattone e corse verso un angolo. Barricato dietro uno sgabello lesse ancora, quasi strillando. «E tirare fuori la lingua e passare le labbra sulla gola delle mie vittime! Voglio bere il sangue delle ragazze!» L'insegnante si precipitò verso di lui. Lo trascinò fuori dall'angolo. Lui le si aggrappò e urlò per tutto il tragitto fino alla porta e poi nell'ufficio del preside. «Questo è il mio desiderio! Questo è il mio desiderio! Questo è il mio desiderio!» Una scena orribile. Jules venne chiuso in camera. L'insegnante e il preside erano in salotto insieme ai suoi genitori. Parlavano con voci sepolcrali. Raccontarono loro tutta la scena. Ne discussero anche i genitori del quartiere. All'inizio non ci credette quasi nessuno. Pensarono che i loro figli si fossero inventati tutto. Poi decisero che, se i bambini si erano inventati tutto, loro dovevano essere stati dei pessimi genitori. Perciò ci credettero. Da quel momento ognuno si tenne alla larga da Jules, come se avesse la lebbra. La gente evitava di toccarlo, addirittura di guardarlo. Quando lo vedevano avvicinarsi, i genitori allontanavano i figli. E tutti mormoravano pettegolezzi su di lui. Le segnalazioni di assenza si intensificarono. Jules disse a sua madre che non sarebbe più andato a scuola, e che niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Infatti non ci andò più. Quando in casa capitava un ispettore incaricato di seguire gli alunni che marinavano la scuola, Jules se la filava dal tetto e si allontanava il più possibile. Un anno intero trascorse in questo modo. Jules gironzolava per le strade in cerca di qualcosa, senza nemmeno sapere che cosa. Cercava nei vicoli, frugava nei bidoni della spazzatura, guardava nei parcheggi. Girò la città in lungo e in largo. Non riuscì a trovare quello che cercava. Dormiva pochissimo. Non parlava mai. Continuò a cercare, con gli occhi bassi, in continuazione. Dimenticò le sue parole speciali.

E poi... Un giorno che si trovava al parco, Jules fece una puntatina allo zoo. Fu folgorato da una specie di scossa elettrica quando vide il pipistrello vampiro. Spalancò gli occhi e i denti scoloriti si scoprirono in un sorriso opaco. Da quel giorno Jules andò tutti i giorni allo zoo a guardare il pipistrello. Gli parlò e lo chiamò il Conte. Si convinse che era davvero un uomo che aveva cambiato aspetto. Fu colpito da una gran voglia di apprendere. Rubò un altro libro dalla biblioteca, uno che parlava della vita degli animali selvatici. Trovò la pagina sul vampiro pipistrello. La strappò e gettò via il libro. Imparò a memoria il testo di quella pagina. Sapeva in che modo il pipistrello feriva le sue vittime. Sapeva in che modo leccava il sangue, come un gattino che bevesse il latte. Sapeva in che modo camminava appoggiandosi sulle ali ripiegate come uno stelo e sulle zampe posteriori, simile a un ragno nero e peloso. Sapeva perché si nutriva esclusivamente di sangue. Jules continuò a osservare il pipistrello, un mese dopo l'altro, e gli parlò. Divenne l'unica consolazione della sua vita, l'unico simbolo di un sogno che si era avverato. Un giorno Jules notò che il fondo della rete che ricopriva la gabbia era allentato. Si guardò intorno, facendo guizzare gli occhi neri. Non vide nessuno. Era una giornata nuvolosa, e non c'era molta gente. Jules saggiò la rete. Si mosse un poco. Poi vide un uomo che usciva dalla gabbia delle scimmie. Allora ritrasse le mani e si mise a passeggiare fischiettando una canzone inventata sul momento. A notte fonda, quando avrebbe dovuto dormire, Jules oltrepassava a piedi nudi la camera dei genitori. Sentiva il padre e la madre che russavano. Accelerava, infilava le scarpe e correva allo zoo. Tirava la rete ogni volta che il guardiano non si trovava nei paraggi. Continuò ad allentarla. Quando aveva finito ed era ora di tornare a casa, risistemava la rete in modo che nessuno si accorgesse che era quasi staccata.

Passava tutto il giorno davanti alla gabbia e osservava il Conte. Ridacchiava e gli diceva che presto sarebbe stato libero. Raccontò al Conte tutte le cose che sapeva. Gli disse che per prima cosa si stava esercitando a scendere lungo i muri a testa in giù. Disse al Conte di non preoccuparsi, perché fra poco sarebbe uscito. Poi, insieme, se ne sarebbero andati in giro a bere il sangue delle ragazze. Una notte Jules tirò la rete e s'infilò nella gabbia strisciando al di sotto. Era molto buio. Strisciò sulle ginocchia fino alla casetta di legno. Tese le orecchie per vedere se riusciva a sentire il Conte che squittiva. Infilò il braccio nell'apertura buia. Continuò a parlare sottovoce. Sobbalzò quando sentì una trafittura sul dito. Jules tirò a sé il peloso animale svolazzante con un'espressione di grande appagamento sul volto sottile. Uscì dalla gabbia strisciando sotto la rete e corse fuori dallo zoo, fuori dal parco. Corse lungo le strade silenziose. Cominciava ad albeggiare. La luce tingeva di grigio il cielo ancora buio. Jules non poteva andare a casa. Doveva trovarsi un posto dove stare. Imboccò un vicolo e si arrampicò su uno steccato, sempre tenendo stretto il pipistrello, che gli leccava il rivolo di sangue sul dito. Attraversò un cortile e s'infilò in una piccola baracca abbandonata. Dentro era buio e umido. Era pieno di calcinacci, di lattine, di cartoni inzuppati e di escrementi. Jules si accertò che il pipistrello non potesse uscire in nessun modo. Poi richiuse bene la porta e la bloccò mettendo un bastoncino di traverso sull'anello del catenaccio. Il cuore gli batteva forte, braccia e gambe gli tremavano. Liberò il pipistrello, che svolazzò verso un angolo più buio e rimase appeso al legno. Jules si strappò freneticamente la camicia. Gli tremavano anche le labbra, sulle quali si disegnò il sorriso di un pazzo. Portò la mano alla tasca dei calzoni e ne tirò fuori un piccolo coltello a serramanico che aveva sottratto a sua madre. Lo aprì e fece scorrere il dito sulla lama. Il coltello lacerò la carne. Con le dita tremanti puntò l'arma alla gola e tagliò. Il sangue gli scorse fra le dita. «Conte! Conte!» esclamò, preso da una gioia parossistica. «Bevi il mio sangue rosso! Bevimi! Bevimi!» Inciampò sulle lattine, scivolò e cercò di afferrare il pipistrello. L'anima-

le schizzò via dal legno, si levò in volo e si aggrappò sulla parete opposta. Le lacrime scorrevano lungo le guance di Jules. Digrignò i denti. Il sangue gli bagnava le spalle e il petto smunto e glabro. Il suo corpo era scosso come da una febbre. Barcollò all'indietro, verso l'altra parete. Incespicò ancora e sentì il bordo aguzzo di un barattolo che gli lacerava il fianco. Protese le mani e afferrò il pipistrello. Se lo mise sulla gola e poi si sdraiò supino sul terreno freddo e umido. Sospirò. Cominciò a gemere e a stringersi il petto. Si sentiva lo stomaco pesante. Il pipistrello nero leccava silenziosamente il sangue dal collo. Jules sentì la vita che se ne andava. Ripensò a tutti gli anni passati. All'attesa, ai suoi genitori, alla scuola, a Dracula, ai sogni. E a questo, a questa gloria improvvisa. Spalancò gli occhi. La baracca puzzolente gli pesava addosso come un macigno. Faceva fatica a respirare. Aprì la bocca per risucchiare l'aria. Fu peggio. Lo fece tossire. Il suo corpo ossuto fremette sul terreno gelido. La nebbia cominciò a insinuarsi nel suo cervello. A strati, uno dopo l'altro, come sipari abbassati. D'improvviso si sentì ricolmo di una chiarezza tremenda. Il dolore al fianco era diventato insopportabile. Sapeva di essere sdraiato seminudo in mezzo all'immondizia, e sapeva che un pipistrello si stava abbeverando del suo sangue. Si tirò su con un grido strozzato e si strappò dal collo il pipistrello peloso e svolazzante. Lo scaraventò lontano. Quello tornò, sventolandogli sulla faccia con le ali che vibravano. Jules si alzò in piedi, barcollando. Allungò la mano verso la porta. Non vedeva quasi nulla. Cercò di bloccare l'emorragia alla gola. Riuscì ad aprire la porta. Poi, percorsi pochi passi esitanti nel cortile buio, crollò a faccia in giù in mezzo all'erba alta. Cercò di gridare per chiedere aiuto. Ma dalle labbra non gli uscì nessun suono, a parte un gorgoglio incomprensibile. Sentì le ali che sbattevano. Poi, tutto a un tratto non ci furono più.

Dita robuste lo sollevarono con dolcezza. Attraverso i suoi stessi occhi moribondi Jules vide l'uomo alto e scuro i cui occhi scintillavano come rubini. «Figlio mio» disse l'uomo. Dai canali Clic. Swish swish swish. Tutto pronto, sergente? Pronto. Okay. Questa registrazione viene effettuata il quindici gennaio millenovecentocinquantaquattro, ventitreesimo distretto di polizia... Swish. ... alla presenza del detective James Taylor e, ehm, del sergente Louis Ferazzio. Swish swish. Nome, prego. Eh? Come ti chiami, figliolo? Come mi chiamo? Andiamo figliolo, stiamo cercando di aiutarti. Swish. L... Leo. Cognome. Io n... non... Leo. Qual è il tuo cognome, figliolo? Vo... Vo... Tranquillo, figliolo. Non agitarti. V... Vogel. Leo Vogel. Ti chiami così? Già. Indirizzo? V... ventidue trenta, Avenue J. Età? Ho... ho quasi... Do... dov'è mamma? Swish swish. Spenga un attimo, sergente.

D'accordo. Clic. Clic. Swish. Bene, figliolo. Sei tranquillo, adesso? C... certo. Ma dov'è...? Quanti anni hai? Qui.... Quindici. Ora, ecco, dove sei stato ieri sera dalle sei fino a quando non sei ritornato a casa? Io... io sono andato... al cinema. Mamma mi ha dato... me li ha dati lei, i soldi. Perché non sei rimasto a casa a guardare la televisione insieme ai tuoi genitori? Perché... perché... Sì? Dovevano venire i Le... i Lenotti a guardarla con loro. Vengono spesso? N... no. Era la prima volta che... che venivano. Ah-ah. E così tua madre ti ha mandato al cinema. G... già. Sergente, offra al ragazzo un po' di quel caffè. E veda se riesce a rimediargli una coperta. Subito, capo. Adesso, ecco, figliolo. A che ora sei uscito dal cinema? A che ora? Io... io non so che ora fosse. Verso le nove e mezza, diciamo? Credo di sì. Io non lo so... che ora era. Tutto quello che... Sì? Niente. Be', hai visto lo spettacolo una volta sola, no? Swish. Eh? L'hai visto una volta sola. Non è che l'hai visto due volte, vero? No. No. L'ho visto una volta sola. Bene. Questo significa, ehm... Swish.

... che devi essere uscito dal cinema più o meno verso le nove e mezza. Sei andato subito a casa? Certo... voglio dire, no. Dove ti sei fermato? Ho preso una coca al... al bar. Capisco. Poi sei andato a casa. S... sì... Swish. ... sì, poi sono andato a casa. La casa era buia? Certo. Ma... quando guardano la tivù non accendono mai le luci. Ah-ah. Sei entrato? S... sì. Prenditi un sorso di caffè, giovanotto, prima che diventi freddo. Sta' tranquillo, fa' con comodo. Non strozzarti. Ecco. Va meglio? Sì. Benissimo, allora. Ora... oh, bene. Gliela metta sulle spalle, sergente. Ci siamo. Ti senti meglio? Mmmmm. Bene. Andiamo avanti. E credimi, figliolo, neanche io mi sto divertendo. L'abbiamo visto anche noi. Voglio mamma. La voglio. Per favore, posso... Oh. Che stavo... be', lo spenga, sergente. Ecco, figliolo. Non ce l'hai un fazzoletto, vero? Tieni. Ha spento, sergente? Oh. Lo spengo subito. Swish clic. Clic. Quando sei entrato, c'era qualcosa di... strano? Cosa? Ieri sera ci hai detto che avevi sentito un odore. Sì. Era... era... C'era un odore strano. Di qualcosa che conosci? Eh? Era un odore che avevi già sentito prima? No. Non era forte. Non in... corridoio. D'accordo. Allora sei entrato in salotto. No. No. Sono andato... Mamma. Posso...

Swish swish. Andiamo, figliolo, fatti coraggio. Lo sappiamo che hai passato un momentaccio, ma stiamo cercando di aiutarti. Swish swish swish. Tu, insomma, non sei andato in salotto. Non hai pensato che quell'odore significasse qualcosa? Io... io ho sentito che era accesa e... Accesa? La televisione. Ho pensato... ho immaginato che la stessero ancora guardando. E poi? E poi mamma non voleva che entrassi quando guardavano la televisione. Allora sono andato in camera mia, così non avrei... mi capisce. Non li avresti disturbati. G... già. D'accordo. Quanto tempo sei rimasto lassù? Ero... non lo so per quanto. Forse un'ora. E poi? Non... non si sentiva nessun rumore, giù in basso. Proprio nessuno? No. Non si sentiva niente. E questo non ti ha insospettito? Certo. Be', ho pensato che... dovevano ridere, o parlare forte o... Silenzio assoluto. Sì. Silenzio assoluto. Allora sei sceso? S... sono sceso più tardi. Stavo per andare a letto. Ho pensato di... Volevi dargli la buonanotte. Già. Io... Swish. Sei sceso e hai aperto la porta del salotto? Sì. Io... sì. Che cosa hai visto? Io... io... Oh, perché non mi... Voglio la mia mamma. Lasciatemi in pace. Io voglio lei! Figliolo! Lo tenga, sergente. Calmati! Swish swish. Mi dispiace, giovanotto. Ti ho fatto male? Dovevo calmarti. Io... so

quello che provi, Leo. Abbiamo visto anche noi. Anche noi ci siamo sentiti male... è stato orribile. Swish. Solo qualche altra domanda, poi ti porteremo da tua zia. La prima cosa: la televisione. Era accesa? Sì. Era accesa. E tu... hai sentito qualche odore? Sì. Come in corridoio. Solo che era peggio. Tanto, tanto peggio. Quell'odore. Quell'odore. Di morte. Una puzza di morte. Come una pila di cadaveri, di roba morta... Non lo so. Di immondizia. Un mucchio di immondizia. Nessuno parlava? No, non si sentiva niente. A parte la tivù. Che trasmetteva? Ve l'ho già detto. Lo so, lo so. Dillo di nuovo. Dobbiamo fare il verbale. Si vedevano... come ho detto... solo quelle lettere. Lettere grandi e grosse. Che dicevano? C... ehm... M-A-N-G-I-A-R-E. M-A-N-G-I-A-R-E? S... sì. Lettere grandi e storte. Le avevi mai viste prima? Certo. Ve l'ho già detto. C'erano sempre, sul nostro televisore... Non proprio sempre, ma abbastanza spesso. I tuoi genitori non se n'erano mai stupiti? No. Dicevano... pensavano che fosse una specie di pubblicità. Capisce. Ma tu ci vedevi delle cose. Non lo so. Mamma diceva... che era roba per ragazzi. Alcune, voglio dire. Tu che hai visto? Swish swish swish. Come delle... bocche. Bocche enormi. Aperte. Spalancate, tutte spalancate. Non erano bocche di p... di persone. Swish. A che assomigliavano? Voglio dire, non potresti dirmi com'erano? No. Insomma... erano come... insetti, forse, o forse... v... vermi. Grossi vermi. Tutte bocche. Bocche aperte.

Va bene. Swish. Tu hai detto che le lettere si accendevano, poi si spegnevano e tu vedevi le bocche, e poi di nuovo le lettere? Già. Proprio così. Questo succedeva tutte le sere? Sì. Alla stessa ora? No. A ore diverse. Fra un programma e l'altro? No. In qualsiasi momento. Sempre sullo stesso canale? No. Ovunque. Qualunque canale stessimo guardando... le vedevamo sempre. E... Voglio andare via. Posso... Mamma! Dov'è? Voglio la mia mamma. La voglio. Swish clic. Clic. Solo qualche altra domanda, Leo, e abbiamo finito. Dunque, tu hai detto che i tuoi genitori non avevano mai fatto controllare il televisore. No, gliel'ho detto. Credevano che fosse... Va bene. Swish. Sei entrato in salotto. Hai detto che sei scivolato, o qualcosa del genere, vero? Sì. Su quella roba. Che roba? Non lo so. Roba unta. Come grasso caldo. E mandava una puzza orrenda. E poi hai... hai trovato... Swish. Ho trovato loro. Mamma e papà. E i Lenotti. Erano... Ohhh, voglio... Leo! E la televisione? Che mi dici della televisione, Leo? Eh, come? Che si vedeva sullo schermo? Hai detto che c'era qualcosa. Io, sì... io...

C'erano le lettere, Leo, vero? Sì, sì. Quelle lettere. Quelle grosse lettere tutte storte. Stavano lì. Sullo schermo. Le ho viste. E... e... Che cosa? Le ultime due lettere. Si sono come... cancellate. Sono scomparse. E... e... Che cosa, Leo? Sono state sostituite da altre due. T-O. Era un'altra parola. Swish swish swish. Lo accompagni da sua zia, sergente. E lo schermo è diventato nero... Va bene, Leo. Il sergente ti accompagnerà a ca... da tua zia. Ho acceso le luci. Va bene, Leo. Ho acceso la luce! Mamma! MAMMA! Clic. Guerra di streghe Sette belle ragazze sedute in fila. Fuori è notte, piove a dirotto... il tipico tempo da guerra. Dentro un caldo secco, piacevole. Sette ragazzine in tuta che chiacchierano. Sul muro una targa che dice: Centro B.R. Il cielo si schiarisce la gola con il tuono, e si scrolla le spalle immense di fulmini sfilacciati. La pioggia zittisce il mondo, piega gli alberi, buttera la terra. Un palazzo squadrato, basso, con una parete di plastica. Dentro, il parlottio confuso di sette belle ragazze. «Così gli dico: 'Non mi dia quello, signor Prepotente'. E lui mi dice: 'Ah, davvero?' e io dico: 'Davvero!'» «Sul serio, non vedo l'ora che tutto questo sia finito. Durante l'ultimo permesso ho visto un cappellino che era un amore. Oh, quanto mi piacerebbe metterlo!» «Anche tu? Non dirmelo! Non si riesce a tenere i capelli in ordine. Non con questo tempo. Perché non ci permettono di liberarcene?» «Uomini! Mi danno il voltastomaco.» Sette modi di gesticolare, sette modi di atteggiarsi, sette risate che risuonano argentine fra un tuono e l'altro. Denti che si scoprono in risatine femminili. Mani instancabili che disegnano ghirigori nell'aria.

Centro B.R. Ragazze. Sette. Belle. Nessuna oltre i sedici anni. Riccioli. Trecce. Piccole labbra che sporgono... sorridono, fanno il broncio, danno forma a un'emozione dopo l'altra. Occhi giovani, luminosi... che scintillano, ammiccano, si restringono, freddi o caldi. Sette giovani corpi che sprizzano salute, irrequieti sulle sedie di legno. Membra lisce di adolescenti. Ragazzine, ragazzine graziose. Sette in tutto. Un esercito di uomini brutti, informi, che sguazzano nella melma, che arrancano lungo la strada fangosa, nera come la pece. Pioggia torrenziale. Cade a secchiate su ognuno degli uomini, sfinito dalla stanchezza. Il rumore risucchiante di grossi stivali che sprofondano nel fango giallastro e appiccicoso e ne riemergono sgocciolando la poltiglia dalle suole. Uomini che avanzano faticosamente - a centinaia - fradici, abbattuti, senza più energie. Giovani curvi come vecchi. Mascelle pendule, bocche spalancate a cercare di respirare l'aria nera e umida, lingue ciondolanti, occhi infossati e inespressivi, che non guardano nulla. Riposo. Uomini impantanati nella fanghiglia, schiacciati dal peso degli zaini. Teste piegate all'indietro, bocche aperte, la pioggia che scroscia sui denti gialli. Mani immobili... mucchietti scheletrici di ossa e carne. Gambe che non si muovono più... come pezzi di legno in pantaloni cachi mangiati dai vermi. Centinaia di arti inutili ancorati a centinaia di tronchi altrettanto inutili. Sulle retrovie, davanti, di lato, passano rombando camion, carri armati e piccole autovetture. Spessi pneumatici che sputano melma, lasciando solchi profondi e sollevando schizzi d'acqua fangosa. La pioggia martella le dita umide strette sul metallo e sui teli. Vampate di flash che non servono per fotografie. Esplosioni momentanee di luce. Il volto della guerra per un secondo: un volto fatto di cannoni rugginosi, ruote che girano e occhi sbarrati. Oscurità. La mano della notte che spazza via il fugace bagliore della tempesta. Pioggia portata dal vento che imperversa sui campi e sulle strade, che inzuppa gli alberi e i camion. Rivoli d'acqua infuriata che scavano ferite sulla faccia della terra. Tuoni e fulmini. Un fischio. Cadaveri che risorgono. Stivali che tornano a sguazzare nel fango, più vicini, sempre più vicini a una città che sbarra la strada a una città che sbarra la strada a una città che...

Un ufficiale sedeva nella sala comunicazioni del Centro B.R. Teneva d'occhio l'operatore che se ne stava chino sul pannello della trasmittente, con le cuffie sulle orecchie, intento a trascrivere un messaggio. L'ufficiale osservava attentamente. Stanno arrivando, pensò. Fradici, infreddoliti e impauriti, stanno marciando su di noi. Rabbrividì e chiuse gli occhi. Li riaprì subito. Aveva le pupille annerite piene di visioni: di volute di fumo, di uomini in fiamme, di orrori inesprimibili che prendevano forma senza bisogno di immagini o disegni. «Signore,» disse l'operatore «dall'avamposto di osservazione avanzata. Forze nemiche in vista.» L'ufficiale si alzò, andò dall'operatore e prese il messaggio. Lo lesse, senza tradire la minima espressione, con la bocca aperta. «Sì» disse. Girò sui tacchi e si diresse verso la porta. L'apri ed entrò nell'altra stanza. Le sette ragazze smisero di parlare. Il silenzio era quasi tangibile. L'ufficiale rimase in piedi, con la schiena rivolta alla parete di plastica. «Nemici» disse «a circa tre chilometri. Proprio davanti a voi.» Si voltò e indicò la finestra. «In quella direzione. A tre chilometri. Qualche domanda?» Una ragazza fece una risatina. «Ci sono veicoli?» chiese un'altra. «Sì. Cinque camion, cinque piccole vetture per gli ufficiali, due carri armati.» «È troppo facile» disse ridendo la ragazza, con le dita snelle che giocherellavano fra i capelli. «È tutto» disse l'ufficiale. Fece per uscire dalla stanza. «Datevi da fare» aggiunse. E poi, fra i denti: «Mostri!» Se ne andò. «Oh, povera me» sospirò una delle ragazzine. «Ci siamo di nuovo.» «Che barba» disse un'altra. Aprì la bocca aggraziata e sputò il chewing gum. Lo appiccicò sotto la sedia. «Almeno ha smesso di piovere» osservò una con i capelli rossi, legandosi i lacci delle scarpe. Le sette ragazzine si guardarono in faccia. Siete pronte? chiedevano i loro occhi. Io sono pronta, credo. Si sistemarono con smorfie e gridolini da bambine. Agganciarono i piedi attorno alle gambe delle sedie. Tutte le gomme erano state messe via. Le bocche erano strette in una severa immo-

bilità. Le sette graziose ragazzine si stavano preparando a giocare. Alla fine, nel silenzio più totale, furono pronte. Una di loro respirò a fondo. Così fece un'altra. Tutte irrigidirono i corpi bianchi come latte e intrecciarono le dita sottili. Una si grattò rapidamente la testa e tornò subito in posizione. Un'altra starnutì senza fare troppo rumore. «Adesso» disse quella che stava in fondo a destra. Sette paia di piccoli occhi si chiusero. Sette piccole menti innocenti cominciarono a immaginare, a visualizzare, a trasferirsi. Le bocche erano ridotte a fessure sottili, i volti persero ogni colore, i corpi fremevano di fervore. Le dita contratte per la concentrazione, sette graziose ragazzine stavano combattendo una guerra. Gli uomini stavano risalendo il fianco di una collina, quando ebbe inizio l'attacco. I primi, con il piede che accennava il passo successivo, presero fuoco. Non ci fu tempo di gridare. I fucili caddero nel fango, gli occhi scomparvero fra le fiamme. Avanzarono di qualche passo, incespicando, e si accasciarono al suolo, sibilando e ardendo come torce. Gli altri cominciarono a urlare. Le fila si ruppero. Tutti imbracciarono le armi e spararono contro la notte. Altri soldati si accesero come fiammiferi, avvamparono, morirono. «Sparpagliatevi!» gridò un ufficiale, poi le sue dita inarticolate presero fuoco e la sua faccia esplose in un guizzo di fiamma giallastra. Gli uomini si guardavano, intorno con i volti paralizzati dal terrore, in cerca di un nemico. Sparavano verso i campi e verso i boschi, colpendosi fra loro, e accasciandosi senza vita in mucchi disordinati nel fango. Un camion venne avviluppato dalle fiamme. L'autista saltò giù, una torcia appoggiata su due gambe. Il mezzo proseguì la sua marcia saltellante lungo la strada, si rovesciò, precipitò in un campo, s'infranse contro un albero, esplose e scomparve in una fiammata accecante. Nell'alone luminoso danzavano ombre nere irregolari. La notte era trafitta dalle grida. Tutti gli uomini, uno dopo l'altro, avvamparono e caddero a faccia avanti nella melma. Chiazze di luce infuocata sferzavano la notte intrisa di umidità: urla, carboni ardenti che scoppiettavano, s'illuminavano e si spegnevano, interi reparti che ardevano come fiaccole, camion carbonizzati, carri armati che esplodevano. Una biondina deliziosa, il corpo teso da un'eccitazione repressa. Le labbra si piegano, una risatina rimane sospesa nella gola. Le narici si di-

latano. È scossa da un brivido di paura che la stordisce. Immagina, immagina... Un soldato corre a capofitto lungo un campo, urlando, con gli occhi pazzi dal terrore. Un masso gigantesco piove dal cielo nero e si schianta su di lui. Il suo corpo sprofonda nel terreno, ne diviene parte. Dal bordo del masso sporgono delle dita. Il masso si solleva da terra, si abbatte ancora come un martello senza forma. Un camion in fiamme viene schiacciato. Il masso si solleva verso il cielo nero. Una graziosa brunetta, il suo volto è una maschera deformata dall'esaltazione. Nel suo cervello virginale ribolliscono pensieri convulsi. I capelli le si drizzano in testa per una paura estatica. Le labbra si ritraggono scoprendo denti serrati. Un rantolo di terrore le sfugge dalle labbra. Immagina, immagina... Un soldato cade in ginocchio. La sua testa scatta all'indietro. Illuminato dai compagni in fiamme fissa inebetito l'ondata di schiuma bianca che torreggia su di lui. Gli si abbatte addosso, spazza via il suo corpo sulla terra fangosa, gli riempie i polmoni di acqua salata. L'ondata ruggisce per tutto il campo, affoga un centinaio di uomini in fiamme, solleva i loro corpi sulla cresta spumosa. All'improvviso l'acqua si ferma, vola via in un milione di particelle e si disintegra. Una ragazzina dai capelli rossi, carina, le mani strette a pugno sotto il mento, esangui. Le sue labbra tremano, il petto è scosso da un fremito di piacere. La gola bianca si contrae, lei deglutisce, manda giù una boccata d'aria. Il naso si arriccia per una gioia feroce. Immagina, immagina... Il soldato che fugge si scontra con un leone. Nel buio non vede bene. Le mani si aggrappano freneticamente alla folta criniera. Colpisce con il calcio del fucile. Urla. Una zampata gli strappa via la faccia. Un ruggito da giungla si leva nella notte. Un elefante con gli occhi iniettati di sangue avanza a passo di carica sul fango, afferra gli uomini con la grossa proboscide e li scaraventa in aria, poi li schiaccia sotto le zampe simili a colonne di marmo nero in movimento. L'oscurità rigurgita lupi, che scattano e azzannano le gole. I gorilla stre-

pitano e fanno grandi salti nel fango, schiacciando i soldati caduti. Un rinoceronte, con la corazza che emette bagliori alla luce delle torce umane, si schianta addosso a un carro armato in fiamme, lo rovescia, attraversa rumorosamente la notte e scompare. Zanne, artigli, denti snudati, urla, barriti, ruggiti. Dal cielo piovono serpenti. Silenzio. Un grande silenzio opprimente. Non un filo di vento, non una goccia di pioggia, non un'eco del tuono lontano. La battaglia è finita. La nebbia grigia del mattino si srotola sui corpi bruciati, maciullati, annegati, schiacciati, avvelenati, su quella distesa immensa di cadaveri. Camion immobili, carri armati silenziosi dai cui gusci schiantati si levano ancora sbuffi di fumo oleoso. La grande morte ricopre tutto il campo. Un'altra battaglia di un'altra guerra. Vittoria... sono morti tutti. Le ragazze si stiracchiarono languidamente. Allungarono le braccia e rotearono le spalle lisce. Le labbra rosa si aprirono in piccoli, vezzosi sbadigli. Si guardarono e ridacchiarono, imbarazzate. Qualcuna arrossì. Poche avevano l'aria colpevole. Poi tutte risero forte. Scartarono i nuovi pacchetti di gomme, tirarono fuori i portacipria dalle tasche, parlottarono fra loro sottovoce, con la familiarità di scolarette che si confidavano piccoli segreti prima di dormire. La stanza, calda e accogliente, si riempì di risatine soffocate. «Non siamo tremende?» disse una mentre si incipriava il nasino impertinente. Più tardi scesero tutte al piano di sotto e fecero colazione. La casa impazzita Siede alla scrivania. Afferra una lunga matita gialla e comincia a scrivere su un blocco. La punta di grafite si spezza. Gli angoli delle labbra si piegano verso il basso. Le pupille si restringono nella maschera dura del volto. Con calma, la bocca stretta in un orribile squarcio senza contorni, prende il temperamatite. Affila la matita e getta il temperamatite di nuovo dentro il cassetto. Ricomincia a scrivere. Mentre lo fa, la punta si spezza ancora e la grafite rotola sulla carta.

Di colpo la sua faccia diventa livida. Una rabbia selvaggia gli artiglia i muscoli del corpo. Urla alla matita, la maledice con un torrente di insulti. La fissa con un odio assoluto. La spezza in due con uno scatto brutale e la scaglia nel cestino con un trionfante: «Ecco! Vediamo un po' se ti piace stare lì dentro!» Siede teso sulla sedia, con gli occhi spalancati, le labbra tremanti. È scosso da un fremito di rabbia incontrollata, che gli spruzza acido nelle viscere. La matita è nel cestino, spezzata e immobile. È legno, grafite, metallo, gomma; tutto morto, incapace di rendersi conto della furia bruciante che ha scatenato. Eppure... Se ne sta tranquillo in piedi, accanto alla finestra, e osserva la strada. Cerca di rilassare il corpo teso. Non sente il fruscio dentro il cestino, che cessa subito. Ben presto il suo corpo è tornato normale. Si siede. Usa una penna stilografica. Siede davanti alla macchina per scrivere. Inserisce un foglio di carta e comincia a picchiare sui tasti. Ha le dita grosse. Colpisce due tasti contemporaneamente. I due martelletti si incastrano. Sono sollevati, si librano impotenti al di sopra del nastro nero. Allunga la mano, disgustato, e li risistema. I martelletti si separano, rientrano negli alloggiamenti. Ricomincia a scrivere. Colpisce un tasto sbagliato. Dalle labbra gli cade un cenno d'imprecazione. Abbranca la gomma rotonda e cancella dal foglio di carta la lettera indesiderata. Lascia cadere la gomma e ricomincia a battere. La carta è scivolata sul rullo. Le ultime frasi scritte si trovano a un livello appena più alto rispetto al resto. Stringe il pugno, ignora l'imprecisione. La macchina s'inceppa. Le sue spalle hanno un fremito, picchia un pugno sulla barra spaziatrice urlando una bestemmia. Il carrello salta, il campanello tintinna. Sospinge all'indietro il carrello fino a farlo bloccare rumorosamente. Batte più veloce. Tre tasti s'incastrano. Stringe i denti e mugola in una furia impotente. Colpisce i braccetti. Quelli non vogliono liberarsi. Infila le dita ricurve e tremanti e fa forza. I braccetti ricadono. Si accorge di avere

le dita macchiate di inchiostro. Impreca ad alta voce, cercando di far violenza all'aria stessa per vendicarsi di quella stupida macchina. Adesso colpisce i tasti con brutalità, le dita ricadono come gli artigli rigidi di una benna. Un altro errore, cancella freneticamente. Batte ancora più veloce. Quattro tasti si incastrano fra loro. Urla.. Sbatte il pugno sulla macchina. Afferra il foglio di carta e lo strappa via dal rullo, facendolo in mille pezzi. Stringe i frammenti in pugno e scaglia la palla di carta in fondo alla stanza. Sospinge con violenza il carrello e sbatte la custodia sulla macchina. Si alza di scatto e rivolge alla macchina un'occhiata di fuoco. «Idiota!» urla con voce aspra, stravolta. «Stupida, idiota, scema come un somaro!» Il disprezzo trasuda dalla sua voce. Continua a parlare, perde del tutto il controllo. «Non servi a un bel niente. Non servi proprio a niente. Ti faccio a pezzi. Ti riduco a brandelli, ti faccio fondere, ti ammazzo! Stupida, deficiente, pidocchiosa macchina del cavolo!» Trema tutto, mentre urla. E si domanda, in qualche recesso isolato della sua mente, se invece non sta uccidendo se stesso con l'irritazione, se non sta distruggendo il suo sistema nervoso con la collera. Si volta e si allontana a grandi passi. È troppo imbufalito per accorgersi che la custodia sta scivolando giù e per sentire il leggero ronzio del metallo, lo stesso che potrebbe prodursi se i tasti vibrassero nei loro alloggiamenti. Si sta facendo la barba. Il rasoio non taglia. Oppure è troppo affilato e taglia troppo. Entrambe le volte gli sgorga dalle labbra una imprecazione strozzata. Scaglia a terra il rasoio e lo prende a calci, sbattendolo contro il muro. Si sta lavando i denti. Si passa il sottile filo interdentale fra un dente e l'altro. Il filo si spezza. Nella fessura rimane un frammento sfilacciato. Cerca di inserire un altro pezzo di filo per sospingere via il frammento. Non riesce a far penetrare il filo bianco. Gli si rompe fra le dita. Urla. Urla all'uomo nello specchio e ritrae la mano, getta via con violenza il filo, che finisce contro la parete. Il filo rimane appeso lì e vibra per l'impeto della furia che emana dall'uomo. Ha staccato un altro pezzo di filo dal contenitore. Vuole offrire al filo in-

terdentale una seconda possibilità. Sta tenendo a freno la rabbia. Se il filo sa quello che gli conviene fare, scivolerà in mezzo ai denti e rimuoverà all'istante il pezzo che vi è rimasto dentro. Lo fa. L'uomo si sente più rilassato. Gli umori del suo sistema nervoso cessano di ribollire, i fuochi si spengono, le braci si disperdono. Ma la rabbia è ancora lì, da qualche parte. L'energia non si disperde mai; è una legge fondamentale. Sta mangiando. Sua moglie gli serve una bistecca. Lui prende coltello e forchetta, e taglia. La carne è dura, il coltello poco affilato. Una chiazza di macchioline rosse gli imporpora le guance. Gli occhi si restringono. Infila il coltello nella carne. La lama non penetra nella bistecca abbrustolita. Gli occhi si allargano. La tempesta trattenuta si irrigidisce e lo scuote. Trascina il coltello seghettato sulla carne, quasi a concederle un'ultima possibilità di arrendersi. La carne non cede. Lui ringhia: «Maledizione!» I denti bianchi si serrano. Il coltello vola per la stanza. Appare la donna, con l'apprensione che le scava cicatrici temporanee sulla fronte. Suo marito è fuori di sé. Suo marito si sta riversando veleno nelle arterie. Suo marito sta liberando un'altra nuvola di animalesco furore. È nebbia che si attacca. Aderisce ai mobili, gocciola dai muri. È viva. E così via, per giorni e notti. La sua furia che cade come un'ascia impazzita per tutta la casa, su tutto ciò che possiede. Raffiche di isterismo che fa aggricciare i denti annebbiano le finestre e si depositano a terra. Oceani di odio selvaggio, incontrollato, che si riversano in ogni stanza della casa; che riempiono ogni iota di spazio di una loro vita mutevole, pulsante. Giaceva sulla schiena e fissava il soffitto chiazzato dal sole. L'ultimo giorno, si disse. La frase non faceva che entrargli e uscirgli dalla testa fin da quando si era svegliato. Sentiva l'acqua scorrere in bagno. Sentiva aprirsi e poi chiudersi l'armadietto delle medicine. Sentiva il suono delle sue pantofole strusciare sul pavimento piastrellato. Sally, pensò, non lasciarmi.

«Se rimani mi calmerò» promise all'aria in un sussurro. Ma sapeva che Ron si sarebbe calmato. Era troppo difficile. Era più facile lasciarsi andare, più facile urlare e sbraitare e attaccare. Si girò su un fianco e guardò la porta del bagno lungo il corridoio. Vedeva la striscia di luce sotto la porta. Sally è lì dentro, pensò. Sally, mia moglie, che ho sposato tanti anni fa, quando ero giovane e pieno di speranze. Richiuse improvvisamente gli occhi e strinse i pugni. Stava tornando di nuovo. Quel senso di malessere che lo aggrediva con sempre maggiore violenza ogni volta che ne restava vittima. Il malessere della disperazione, delle ambizioni perdute. Rovinava ogni cosa. Gettava un velo di amarezza su ogni suo sforzo. Gli faceva passare l'appetito, gli rovinava il sonno, gli distruggeva ogni affetto. «Magari, se avessimo avuto dei figli» farfugliò, e seppe prima ancora di dirlo che non era la risposta. Figli. Come sarebbero stati felici di vedere il loro sventurato padre che sprofondava ogni giorno di più nel suo abisso di febbricitante introspezione. Va bene, lo torturò la sua mente, limitiamoci ai fatti. Digrignò i denti e si sforzò di svuotare la mente. Ma, come un idiota dall'espressione vacua, la sua mente ripeteva le parole che lui aveva farfugliato nel sonno per notti e notti insonni e agitate. Ho quarant'anni. Insegno inglese al Fort College. Una volta speravo di diventare uno scrittore. Ho pensato che questo sarebbe stato un posto ideale per scrivere. Per una parte della giornata avrei insegnato, e per il resto del tempo avrei scritto. Ho conosciuto Sally a scuola e l'ho sposata. Ho pensato che sarebbe andato tutto bene. Ho pensato che il successo sarebbe stato inevitabile. Diciotto anni fa. Diciotto anni. Com'è possibile, pensò, contrassegnare il passaggio di quasi due decenni? Il tempo gli sembrava un groviglio informe di tentativi falliti, di notti trascorse nell'angoscia; di un segreto, una risposta o una rivelazione che gli venivano perennemente rifiutati. Sospesi sulla sua testa come pezzi di formaggio che dondolavano in una traiettoria assurda sopra la testa di un topo impazzito. E il risentimento che covava sotto. Giorni passati a guardare Sally che comprava da mangiare e da vestire e pagava l'affitto con il suo misero stipendio. A guardarla che acquistava tendine nuove o nuovi copripoltrone,

provando ogni volta una fitta di dolore perché tutto ciò lo allontanava sempre più dalla possibilità di dedicarsi alla scrittura. Ogni centesimo che lei spendeva era un'ulteriore pugnalata alle sue aspirazioni. Si costringeva a pensarla in quel modo. Si costringeva a credere che per buttare giù qualcosa di buono gli serviva solo tempo. Ma una volta uno studente infuriato gli aveva gridato: «Lei è soltanto un talento di mezza tacca che si nasconde dietro una scrivania!» Se ne ricordava. Oh, Dio, come ricordava quel momento. Ricordava il malessere gelido che lo aveva attanagliato quando quelle parole gii avevano colpito il cervello. Ricordava il tremito e l'irresolutezza della propria voce. Malgrado i buoni voti, alla fine del semestre aveva bocciato quello studente. La cosa aveva suscitato un certo scalpore. Era venuto a scuola il padre dello studente ed erano finiti tutti e due davanti al signor Ramsay, il preside del dipartimento di Inglese. Ricordava anche quello: la scena spazzava via ogni altro ricordo. Lui, seduto a un lato del tavolo delle riunioni, di fronte a padre e figlio, furibondi. Il dottor Ramsay che si tormentava la barba, fino a fargli venire voglia di scaraventargli addosso qualcosa. Il dottor Ramsay aveva detto... be', vediamo se riusciamo a sistemare questa faccenda. Avevano consultato il registro scolastico e avevano scoperto che lo studente aveva ragione. Il dottor Ramsay aveva sollevato lo sguardo su di lui con un'espressione di grande sorpresa. Insomma, non capisco proprio come mai... aveva detto, poi la sua voce sciropposa si era interrotta e lo aveva fissato intensamente, in attesa di una spiegazione. E la sua era stata una spiegazione impotente, qualcosa di aggrovigliato e senza senso. Tendenza all'irresponsabilità, aveva detto, ostentazione di comportamento irrispettoso, mancanza di moralità. E il dottor Ramsay, con il collo taurino che diventava sempre più rosso, a spiegargli a chiare lettere che al Fort College la moralità non c'entrava niente con il profitto. C'era dell'altro, ma lui se n'era dimenticato. Aveva fatto tutto il possibile per dimenticarlo. Quello che non riusciva a dimenticare era che gli ci sarebbero voluti degli anni, per avere una cattedra. Ramsay gli avrebbe tagliato le gambe. E il suo stipendio sarebbe diventato sempre più insufficiente, e i conti da pagare sarebbero cresciuti e lui non avrebbe avuto mai la possibilità di mettersi a scrivere. Tornò al presente e si scoprì a stringere le lenzuola con le dita irrigidite. Si scoprì a fissare con odio la porta del bagno. Fa' pure! - sbottò la sua

mente assetata di vendetta - tornatene a casa dalla tua impagabile mamma. Vediamo se me ne importa qualcosa. Perché limitarsi a una separazione temporanea? Rendiamola definitiva. Lasciami un po' in pace. Magari allora riuscirò a scrivere. Magari allora riuscirò a scrivere. La frase lo fece star male. Non aveva più alcun significato. Come una parola ripetuta fino a diventare semplice chiacchiericcio, quella frase, per lui, era diventata abusata al punto di perdere ogni significato. Gli suonava sciocca, come il bla bla di una soap opera. Il protagonista che esclama, in tono drammatico: adesso, perdio, riuscirò a scrivere. Stupidaggini. Per un attimo, tuttavia, si domandò se fosse vera. Ora che lei stava per andarsene, sarebbe riuscito a dimenticarla e a mettersi seriamente al lavoro? A licenziarsi? A trasferirsi da qualche parte e a rintanarsi in una cameretta ammobiliata a poco prezzo per scrivere? In banca hai 123 dollari e 89 centesimi, lo informò la sua mente. Lui fingeva che fosse quella l'unica cosa a impedirgli di agire. Ma, in qualche angolo nascosto del cervello, si domandava se sarebbe riuscito a scrivere dovunque. Spesso la domanda lo coglieva di sorpresa, proprio quando meno se l'aspettava. Hai quattro ore ogni mattina: quell'affermazione spuntava come uno spettro minaccioso. Hai il tempo di scrivere migliaia e migliaia di parole. Perché non lo fai? E la risposta si perdeva sempre in un groviglio di perché, e di insomma, e di infinite ragioni a cui si aggrappava come un naufrago a un pezzo di legno. La porta del bagno si aprì e lei ne uscì, indossando l'abito rosso, quello buono. Senza un motivo al mondo, almeno così gli sembrò, si rese conto che lei indossava lo stesso abito da più di tre anni, senza mai metterne uno nuovo. E nel rendersene conto, si infuriò ancora di più. Chiuse gli occhi, sperando che lei non lo stesse guardando. La odio, pensò. La odio perché ha distrutto la mia vita. Sentì la sua gonna che frusciava mentre lei sedeva davanti al comò e apriva un cassetto. Tenne gli occhi chiusi e sentì le veneziane che sbattevano leggermente contro il telaio della finestra, sfiorate dalla brezza del mattino. Riusciva a sentire l'odore del suo profumo che aleggiava lieve nell'aria. E cercò di pensare alla casa perennemente vuota. Cercò di pensare al suo

ritorno a casa dal college senza più trovare Sally che lo aspettava. In qualche modo l'idea gli sembrò impossibile. E questo lo fece arrabbiare. Sì, pensò, lei mi ha rovinato. Mi ha manipolato fino a rendermi dipendente da lei anche per cose di nessuna importanza, che però a me sembra di non riuscire a risolvere senza il suo aiuto. Si rigirò bruscamente sul materasso e la fissò. «E così te ne vai sul serio» le disse con voce gelida. Lei si voltò per un attimo e lo guardò. Non c'era rabbia sul suo viso. Sembrava stanca. «Sì» disse. «Me ne vado.» Buon viaggio. Le parole tentarono di oltrepassargli le labbra. Le trattenne. «Immagino che avrai le tue ragioni» disse. Le spalle di lei si piegarono appena in quella che lui lesse come una scrollata di annoiato divertimento. «Non voglio discutere con te» aggiunse lui. «La vita è tua.» «Grazie» disse lei in un sussurro. Sta aspettando delle scuse, pensò. Stava aspettando che lui le dicesse che non la odiava come aveva affermato. Che non aveva colpito lei, ma solo le proprie speranze ridotte a brandelli; lo spettacolo beffardo della propria fiducia perduta. «E per quanto durerà questa separazione di prova?» le chiese, acido. Lei scosse la testa. «Non lo so, Chris» rispose con calma. «Dipende da te.» «Dipende da me» ripeté lui. «Dipende sempre da me, vero?» «Oh, ti prego, teso... Chris. Non voglio più discutere. Sono troppo stanca per discutere.» «È più facile fare i bagagli e filarsela.» Lei si voltò a guardarlo. I suoi occhi erano bruni e infelici. «Filarmela? disse. «Dopo diciotto anni tu accusi me di una cosa del genere? Diciotto anni passati a guardarti mentre ti distruggevi. E io insieme a te. Oh, non fare quella faccia sorpresa. Sono certa che sai benissimo di avere fatto quasi impazzire anche me.» Distolse lo sguardo e lui vide che piegava le spalle e si asciugava qualche lacrima dagli occhi. «Non... non è solo perché mi hai messo le mani addosso» disse. «Hai continuato a ripeterlo, ieri sera, quando ti ho detto che me ne andavo. Credi che avrebbe avuto importanza se...» Respirò a fondo. «Se lo avessi fatto

perché sei arrabbiato con me? Allora potresti mettermi le mani addosso ogni giorno. Ma tu non hai colpito me. Io non sono niente per te. Tu non hai bisogno di me.» «Oh, piantala di essere così...» «No» lo interruppe lei. «È per questo che me ne vado. Perché non sopporto di vedere che mi odi ogni giorno di più per qualcosa che... che non dipende da me.» «Immagino che tu...» «Oh, non aggiungere altro» disse lei, alzandosi. Uscì di corsa dalla camera e lui la sentì camminare in salotto. Fissò il comò con aria vacua. Non aggiungere altro? si chiese mentalmente, come se lei fosse ancora lì. Be', c'è molto da aggiungere; moltissimo. Sembra che tu non ti renda conto di ciò che ho perso. Sembra che tu non capisca. Avevo delle speranze, oh mio Dio, se ne avevo! Potevo scrivere cose che avrebbero fatto saltare la gente sulla sedia, con il respiro mozzo. Potevo raccontare cose che tutti avevano una disperata voglia di ascoltare. Potevo raccontarle in un modo così affascinante da non fargli mai capire che quella che stavano leggendo era la verità. Potevo creare capolavori immortali. E adesso, quando morirò, sarò morto e basta. Sono intrappolato in questo paesetto deprimente, sepolto in un istituto scientifico in cui gli uomini guardano affascinati la polvere e non si rendono minimamente conto che sopra le loro teste ci sono le stelle. E cosa posso fare, che cosa posso...? I pensieri si interruppero. Fissò infelice le boccette di profumo, la scatola della cipria che, quando si sollevava il coperchio, suonava Always. Mi ricorderò di te. Sempre. Con un cuore che è sincero. Sempre. Le parole sono infantili, ridicole, pensò. Ma ebbe un groppo alla gola e si sentì scuotere da un brivido. «Sally» disse. Così piano che lui stesso si udì a fatica. Dopo un po' si alzò e si vestì. Mentre si infilava i pantaloni, il tappetino gli scivolò sotto i piedi e dovette sorreggersi al comodino per non cadere. Gettò un'occhiataccia verso il basso, con il cuore che gli batteva con quella furia assoluta che aveva imparato a invocare nello spazio di secondi. «Accidenti a te» farfugliò.

Si dimenticò di Sally. Si dimenticò di ogni cosa. Voleva solo fare i conti con il tappetino. Gli mollò un calcione e lo mandò a infilarsi sotto il letto. La rabbia sprofondò dentro di lui e scomparve. Scosse la testa. Sto male, si disse. E pensò anche di raggiungerla e di dirle che stava male. Mentre si dirigeva verso il bagno la sua bocca s'irrigidì. Non sto male. Non nel corpo, almeno. È la mia mente che è ammalata e lei può solo peggiorare la situazione. Il bagno era ancora umido e caldo, dopo che l'aveva usato lei. Socchiuse appena la finestra e una scheggia gli si infilò nel dito. Imprecò contro la finestra con voce strozzata. Guardò in alto. Perché così piano? si domandò. Perché lei non lo sentisse? «Accidenti a te!» ringhiò ad alta voce alla finestra. Si tormentò il dito fino a quando non ebbe estratto la scheggia di legno. Tirò con violenza lo sportello dell'armadietto. Quello rimase bloccato. La sua faccia divenne tutta rossa. Tirò più forte e lo sportello cedette, urtandolo sul polso. Lui girò su se stesso e si tenne il polso, piegando la testa all'indietro con un rantolo soffocato. Rimase lì, con gli occhi appannati dal dolore, fissando in alto. Guardò la crepa che correva seguendo una linea assurdamente irregolare lungo tutto il soffitto. Poi chiuse gli occhi. E cominciò a sentire qualcosa. Intangibile. Un senso di minaccia. Si chiese che cosa fosse. Certo, sono io, si rispose da solo. È il cedimento morale del mio subconscio. Mi aggredisce, gridando: tu devi essere punito per avere strappato la tua povera moglie dalle braccia di sua madre. Tu non sei un uomo: Tu sei un... «Oh, chiudi il becco» disse. Si lavò le mani e la faccia. Fece scorrere un dito indagatore sul mento. Aveva bisogno di radersi. Aprì con circospezione lo sportello dell'armadietto e tirò fuori il rasoio a mano. Lo sollevò e lo fissò. La maniglia era allentata. Lo disse fra sé non appena la lama sembrò fuoriuscire quasi di sua volontà dall'alloggiamento. Quando la vide cadere in quel modo, scintillando sotto la luce dell'armadietto, si sentì percorrere da un brivido. Fissò con affascinata repulsione l'acciaio scintillante. Toccò il filo della lama. È così affilata, pensò. Basta solo sfiorarla per tagliare la carne. Che oggetto detestabile. «È la mia mano.» Lo disse senza volerlo e all'improvviso richiuse il rasoio. Era la sua ma-

no, doveva esserlo. Non poteva essere stato il rasoio a muoversi da solo. Quella era una fantasia malata. Ma non si fece la barba. Rimise il rasoio nell'armadietto con una vaga sensazione di tragedia incombente. Che mi importa se ci si dovrebbe radere ogni giorno, farfugliò. Non voglio correre il rischio che mi scivoli la mano. E comunque sarà meglio che mi procuri un rasoio di sicurezza. Questo attrezzo non fa per me, sono troppo nervoso. Tutto a un tratto, sollecitata da quelle parole, prese forma nella mente la sua immagine di diciotto anni prima. Ricordò un appuntamento che aveva avuto con Sally. Ricordò di averle detto di sentirsi così tranquillo che a volte gli sembrava di essere morto. Nulla mi preoccupa, le aveva detto. Ed era vero, a quel tempo. Ricordò anche di averle detto che non gli piaceva il caffè, che bastava una tazza per non farlo dormire la notte. Che non fumava, che non gli piaceva né il gusto né l'odore del fumo. Mi piace tenermi in forma, aveva aggiunto. Ricordò le precise parole. Ed eccomi adesso, disse fra i denti mentre fissava il suo riflesso magro e smunto. Adesso beveva litri di caffè ogni giorno. Fino a quando gli gorgogliava nello stomaco come una pozza scura, e non riusciva a dormire più di quanto riuscisse a volare. Ora fumava pacchetti e pacchetti di sigarette che gli ingiallivano le dita e gli irritavano la gola bruciata, e che gli impedivano di scrivere con la penna perché gli tremavano troppo le mani. Ma tutti quegli stimoli non lo aiutavano minimamente a mettere qualcosa per iscritto. La carta continuava a rimanere bianca nella macchina per scrivere. Le parole non giungevano mai, le trame gli morivano dentro. I personaggi lo eludevano, prendendosi gioco di lui e deridendolo da dietro il velo della loro non esistenza. E il tempo passava. Passava sempre più veloce e sembrava indicarlo come un predestinato alla pena capitale. Lui... un uomo che aveva cominciato a valutare il tempo in modo talmente nevrotico che il suo solo scorrere gli scombussolava la vita e lo faceva stare male. Mentre si lavava i denti cercò di ricordare in quale momento quell'indole irrazionale avesse cominciato a prendere il sopravvento su di lui. Ma non c'era modo di tracciare quel percorso. Aveva avuto inizio chissà dove, in mezzo a una nebbia impenetrabile. Con una parola di stizza, una rabbiosa contrazione dei muscoli. Con una vampata di animosità ormai dimenticata.

E da lì, come un'ameba sempre più rigonfia, aveva seguito il suo perverso sentiero verso il basso, fino a fargli toccare il fondo: trasformandolo in un uomo indurito, amareggiato, la cui unica consolazione era l'odio. Sputò la schiuma biancastra e si sciacquò la bocca. Mentre appoggiava il bicchiere, quello si incrinò e una scheggia di vetro gli si infilò nella mano. «Maledizione!» urlò. Ruotò sui talloni e strinse il pugno. Lo riaprì subito quando la scheggia gli penetrò nella carne. Rimase lì, con le lacrime che gli rigavano le guance, respirando a fatica. Pensò a Sally che lo ascoltava, che poteva acquisire una volta di più la prova provata dei suoi nervi scossi. Basta così! ordinò a se stesso. Non potrò mai combinare nulla finché non mi libererò di questo carattere impossibile. Chiuse gli occhi. Per un momento si domandò come mai da un po' di tempo sembrava che ogni cosa ce l'avesse con lui. Come se qualche potere vendicativo avesse preso possesso della casa, riversando una selvaggia vitalità in ogni oggetto inanimato. Minacciandolo. Ma il pensiero fu solo un'immagine passeggera, senza volto, nella massa caotica di idee che si affollavano davanti agli occhi della mente; vista, ma non presa in considerazione. Estrasse la scheggia di vetro dal palmo della mano. Si annodò la cravatta scura. Poi andò in salotto, guardando l'orologio. Erano già le dieci e mezza. Se n'era andata più di mezza mattina. Più della metà del tempo a disposizione per mettersi seduto a scrivere cose che avrebbero fatto saltare sulla sedia i lettori. Ormai gli capitava più frequentemente di quanto fosse disposto ad ammettere con se stesso. Dormiva fino a tardi, si trovava qualche commissione da sbrigare, qualsiasi cosa pur di procrastinare quel terribile momento in cui doveva mettersi a sedere davanti alla macchina per scrivere e sforzarsi di cavare qualche frutto dal deserto sempre più vasto della sua mente. Era più difficile ogni volta. E ogni volta lui si infuriava di più; e odiava di più. E solo adesso, quando era già troppo tardi, si era accorto che Sally era stata colta dalla disperazione e non era più capace di sopportare il suo caratteraccio e il suo odio. Lei se ne stava seduta al tavolo della cucina e beveva caffè nero. Anche Sally ne beveva più di prima. Come lui lo preferiva nero, senza zucchero. E anche i suoi nervi ne risentivano. Aveva cominciato a fumare, benché fino a un anno prima non lo avesse mai fatto. Non ne ricavava nessun piace-

re. Aspirava il fumo con grandi boccate, se ne riempiva i polmoni e lo soffiava subito fuori. E le sue mani tremavano quasi quanto tremavano a lui. Si versò una tazza di caffè e sedette dalla parte opposta dei tavolo. Lei fece per alzarsi. «Che ti prende? Non riesci a sopportare la mia vista?» Sally tornò a sedersi e aspirò a fondo dalla sigaretta che stringeva fra le dita. Poi la schiacciò nel piattino. Lui provò un senso di malessere. Ebbe voglia di uscire subito da quella casa. Gli era estranea, sconosciuta. Aveva la sensazione che sua moglie avesse rinunciato a ogni pretesa su di essa, che si fosse tirata indietro. Il tocco delle sue dita, l'amorevole cura profusa in ogni stanza: tutte queste cose non c'erano più. Avevano perso consistenza perché lei se ne stava andando. Stava lasciando tutto, e quella non era più la loro casa. Lo avvertì in modo quasi doloroso. Appoggiandosi allo schienale della sedia, allontanò la tazza e fissò la tovaglia gialla di tela cerata. Gli sembrava che lui e Sally fossero congelati nel tempo; che i secondi si allungassero come un'incredibile gomma da masticare, e che ognuno durasse un'eternità. L'orologio ticchettava più piano. E la casa non era più quella di prima. «Quale treno prendi?» le domandò, sapendo già prima di chiederlo che al mattino c'era un unico treno. «Undici e quarantasette» rispose lei. Quando lo disse, lui ebbe la sensazione che il suo stomaco venisse schiacciato contro la spina dorsale. Il dolore era talmente tangibile che gli sfuggì un rantolo. Sally alzò gli occhi su di lui. «Mi sono scottato» si affrettò a dire, e lei si alzò e mise la tazza e il piattino nell'acquaio. Perché l'ho detto? si domandò. Perché non sono stato capace di dire che il rantolo mi è sfuggito perché ero travolto dal terrore all'idea che lei mi lasciasse? Perché continuo a dire cose che non ho intenzione di dire? Non sono cattivo. Ma ogni volta che apro bocca rinforzo le mura dell'odio e dell'amarezza attorno a me, diventandone sempre più prigioniero. Con le parole mi sono intessuto il sudario e mi ci seppellirò dentro. Le guardò le spalle e le sue labbra si aprirono in un sorriso triste. Penso alle parole mentre mia moglie mi sta abbandonando. È avvilente. Sally era uscita dalla cucina. La mente di lui tornò alla sua cupa scontrosità. È un gioco, questo. Segui il capo. Entri in una stanza, a testa alta, la sposa legittima, la parte lesa. E io dovrei seguirla a spalle chine, pentito,

prorompendo in un'ecatombe di scuse. Di nuovo lucido, rimase seduto al tavolo, teso, con la rabbia che gli faceva tremare il corpo. Si rilassò con uno sforzo di volontà e si premette la mano sinistra sugli occhi. Restò lì a sedere, cercando di vincere lo sgomento nel silenzio e nell'oscurità. Non funzionò. E poi la sigaretta lo scottò per davvero e lui balzò in piedi. La sigaretta cadde sul pavimento in una vampata di scintille. Si chinò e la raccolse. La lanciò nel cestino della spazzatura e lo mancò. Al diavolo, si disse. Si alzò e gettò tazza e piattino nell'acquaio. Il piattino si spezzò in due e gli graffiò il pollice destro. Lasciò che sanguinasse. Non gliene importava nulla. Sally era nella camera degli ospiti e stava terminando di preparare i bagagli. La stanza degli ospiti. Adesso le parole lo torturavano. Quando avevano smesso di chiamarla la 'stanza dei bambini'? Quando aveva cominciato, Sally, a sentirsi consumare le viscere, lei che era così piena d'amore e desiderava tanto avere un bambino? E quand'è che lui aveva cominciato a rimpiazzare questa perdita con l'irascibilità di carattere e con giorni e notti di nervi a fior di pelle? Si piazzò sulla soglia e la guardò. Aveva voglia di tirare fuori la macchina, sedersi e scrivere torrenti di parole. Voleva esaltarsi per la libertà di cui avrebbe goduto. Pensare a tutti i soldi che avrebbe potuto mettere da parte. Pensare che fra poco se ne sarebbe andato e avrebbe scritto tutte le cose che aveva sempre desiderato scrivere. Rimase sulla soglia, sentendosi male. È possibile tutto questo? si domandò la sua mente, incredula. Era possibile che lei se ne andasse? Erano marito e moglie. Avevano vissuto e si erano amati in quella casa per oltre diciotto anni. E adesso lei se ne andava. Stava infilando nella vecchia valigia nera i suoi effetti personali e se ne andava. Lui non riusciva a farsene una ragione. Non riusciva a capirlo, o a inserirlo all'interno delle funzioni della giornata. Come poteva adattarsi allo schema? Quello schema secondo il quale Sally doveva essere lì a pulire e a cucinare e a sforzarsi di rendere più calda e felice la loro casa? Fu scosso da un brivido, si voltò all'improvviso e se ne ritornò in camera da letto. Si lasciò cadere sul letto e fissò la sveglia elettrica che ronzava sommessamente sul comodino.

Le undici passate. Fra meno di un'ora dovrò fare lezione a un gruppo di matricole idiote. E, sulla scrivania del salotto, c'è una montagna di temi che mi tocca correggere, soffrendo e sentendomi rovesciare lo stomaco per la pochezza della loro intelligenza, per la scarsezza della loro scrittura. E tutta quella robaccia, chilometri e chilometri di prosa orrenda, si era aggrovigliata nella sua testa in una matassa infinita. E se la ritrovava lì, a mescolarsi con quello che scriveva, fino al punto che si domandò se fosse in grado di sopportare l'idea di continuare a vivere. Ho digerito il peggio, pensò. Cosa c'è da stupirsi se adesso lo trasudo un po' per volta? Fu colto di nuovo dal nervosismo, un fuoco che covava sotto la cenere, costantemente alimentato da pensieri che si aggiungevano agli altri. Questa mattina non ho scritto nulla. Come tutte le mattine che si sono susseguite, mentre il tempo passa. Faccio sempre di meno. Non scrivo niente. Oppure scrivo cose senza nessun valore. Quando avevo vent'anni scrivevo meglio di adesso. Non scriverò mai niente di buono! Balzò in piedi e la sua testa scattò, mentre lui cercava qualcosa da colpire, qualcosa da rompere, qualcosa da odiare di quell'odio capace di incenerire. Ebbe come l'impressione che la stanza si rannuvolasse. Sentì una pulsazione forte. La gamba sinistra urtò contro un angolo del letto. Infuriato, emise un rantolo. Pianse. Lacrime di odio e di pentimento e di autocommiserazione. Sono perduto, pensò. Perduto. Non c'è speranza. Divenne calmissimo, di una calma gelida. Prosciugato di ogni pietà, di ogni emozione. Infilò la giacca. Si mise il cappello e tirò fuori la borsa dal cassetto. Si fermò davanti alla porta della camera dove Sally era ancora impegnata con la valigia. Così avrà qualcosa da fare, pensò, e non mi guarderà. Sentì il cuore che gli picchiava come una grancassa. «Divertiti da tua madre» le disse senza calore. Lei alzò gli occhi e notò l'espressione sul suo viso. Distolse lo sguardo e si portò una mano agli occhi. Lui provò la voglia improvvisa di correre da lei e chiedere il suo perdono. Perché tutto tornasse come prima. Poi ripensò ai fogli di carta e agli anni in cui non aveva scritto nulla. Si voltò e attraversò il salotto. Il tappetino scivolò appena e questo lo aiutò a mettere a fuoco tutta la violenza della rabbia di cui aveva bisogno. Lo scalciò via e quello andò a finire contro il muro, come un fagotto spiegaz-

zato. Si sbatté la porta dietro le spalle. La sua mente era in subbuglio. Adesso, nel più puro stile da soap opera, lei si sarà gettata sul copriletto e starà piangendo lacrime di un dolore tinto di martirio. Adesso starà affondando le unghie nel cuscino e starà invocando il mio nome e si starà augurando di essere morta. Le scarpe ticchettavano rapide sul marciapiede. Che Dio mi aiuti, pensò. Che Dio aiuti tutti noi poveri sventurati che sapremmo creare, ma non riusciamo a trovare il tempo per farlo, e così i nostri cuori si spezzano. Era una splendida giornata. I suoi occhi lo vedevano, ma la sua mente non ne voleva sapere di prenderne nota. Gli alberi erano verdi e folti, l'aria calda e fresca. Lungo le strade spiravano brezze primaverili. Le sentiva che gli sfioravano il corpo mentre camminava lungo l'isolato, giungeva all'angolo e attraversava la Main Street per andare a prendere l'autobus. Si fermò all'angolo e si voltò per guardare la casa. Lei è lì dentro, continuava a razionalizzare la sua mente. Lì, dentro la casa in cui abbiamo vissuto per più di diciotto anni. Sta facendo i bagagli, o magari piange o chissà che altro. E fra poco chiamerà la compagnia dei taxi. Verranno a prenderla, l'autista suonerà il clacson, Sally infilerà il soprabito primaverile, quello leggero e porterà la valigia sotto la veranda. Richiuderà la porta a chiave dietro di sé per l'ultima volta. «No...» Non riuscì a impedire che la parola gli stringesse la gola. Continuò a fissare la casa. Gli faceva male la testa. Vide che tutto ondeggiava davanti a lui. Sto male, pensò. «Sto male!» Lo gridò. Ma non c'era nessuno intorno che ascoltasse. Rimase con gli occhi fissi sulla casa. Se ne sta andando via per sempre, diceva la sua mente. Benissimo, allora! Scriverò, scriverò, scriverò. Lasciò che le parole gli penetrassero nel cervello, scacciando ogni altra cosa. Un uomo ha sempre una scelta, in fin dei conti. Può dedicare la sua vita al lavoro, oppure a sua moglie, ai figli e alla casa. Non si potevano fare le due cose insieme; non in quell'epoca e a quell'età. In quel mondo impazzito in cui Dio veniva dopo il reddito e la bontà d'animo dopo la ricchezza. Distolse lo sguardo mentre l'autobus a strisce verdi sbucava dalla collina lontana e si dirigeva verso di lui. Infilò la borsa sotto il braccio e si frugò in tasca in cerca del gettone. Nella tasca c'era un buco. Sally si era ripropo-

sta di rammendarlo. Be', a questo punto non l'avrebbe mai più fatto. E poi, che importanza aveva? Meglio avere intatta l'anima che non le tasche di un qualunque vestito. Parole, parole, pensò, mentre l'autobus si fermava davanti a lui. Adesso che lei se ne va, mi stanno inondando. È la dimostrazione che era la sua presenza a ostruire i canali del pensiero? Lasciò cadere il gettone nella fessura e avanzò ondeggiando lungo l'autobus. Passò accanto a un professore che conosceva e gli rivolse un cenno distratto. Si abbandonò sul sedile in fondo e fissò i pannelli sporchi di gomma che ricoprivano il pavimento. È una gran bella vita, questa, farneticò la sua mente. Sono contento di tutto, della mia vita e dei grandi risultati che ho raggiunto. Aprì la borsa per un attimo e diede un'occhiata al denso programma che aveva organizzato insieme al dottor Ramsay. Prima settimana: 1. Everyman. Discussione. Lettura di brani da Antologia di classici per studenti del primo anno. 2. Beowulf. Lettura. Discussione in classe. Questionario da compilare in venti minuti. Ricacciò nella borsa il fascio di carte. Mi fa star male, pensò. Io detesto questa roba. I classici sono diventati un anatema per me. Comincio a odiarne anche solo il nome. Chaucer, i poeti elisabettiani, Dryden, Pope, Shakespeare. Quale maggiore insulto, per un uomo, che giungere a odiare questi nomi perché costretto a condividerli con dei villani incapaci di apprezzarli? A farli a pezzettini e renderli appetibili per degli zucconi che farebbero meglio a zappare la terra? Scese dall'autobus in centro e si avviò per la lunga discesa della Nona. Mentre camminava si sentiva come una nave che avesse rotto gli ormeggi, sballottata da un groviglio di correnti incontrollabili. Si sentiva staccato dalla città, dalla campagna, dal mondo. Se qualcuno mi dicesse che sono un fantasma, pensò, sarei portato a credergli. Che starà facendo Sally, adesso? Se lo domandò mentre i palazzi gli scivolavano accanto. Che starà pensando mentre io me ne sto qui e la città di Fort mi galleggia vicino come una sequenza vaporosa di appartamenti uno sopra all'altro? Cosa staranno stringendo le sue mani? Che espressione avrà sul suo bel volto? È sola in casa, in casa nostra. In quello che poteva essere il nostro nido d'amore. Adesso è soltanto un contenitore, una scatola vuota con pezzi di legno e di metallo come mobili. Nient'altro che materia inanimata, morta.

A dispetto di quanto aveva detto John Morton. Lui, con i suoi capelli biondi e la scriminatura, le sue provette e il suo Dio del microscopio. Malgrado tutto il suo parlare forbito e i suoi fogli di carta pieni di numeri ricavati con il regolo calcolatore, malgrado tutto ciò... quella che professava era solo volgare stregoneria. Era pura idiozia. L'idiozia che aveva incoraggiato quell'asino di Charles Fort a oberare il mondo con le sue nebulose fantasticherie. L'idiozia che aveva spinto un deficiente di miliardario a finanziare quel luogo e a fare spuntare da quella terra arida enormi strutture di pietra in cui ospitare uno zoo di scienziati lunatici sempre in cerca di qualche elisir, mentre altri buffoni proliferavano seguendo il loro insegnamento. No, nel mondo non c'è niente di giusto, pensò mentre arrancava sotto l'arco e poi nel grande campus verde. Guardò dall'altra parte, verso il gigantesco Centro di scienze fisiche, con la sua facciata di granito che scintillava al sole del tardo mattino. Adesso sta chiamando il taxi. Guardò l'orologio. No. È già sul taxi. In viaggio lungo le strade silenziose. Costeggiando le case e giù verso la zona commerciale. Oltre i palazzi di mattoni rossi che vomitano bifolchi e studenti. Attraverso la città che era un miscuglio di eleganza e volgarità. Adesso il taxi stava svoltando a sinistra, sulla Decima. Adesso risaliva la collina, giungeva in cima, ridiscendeva verso la stazione ferroviaria. Adesso... «Chris!» Girò di scatto la testa e il corpo gli si contorse per la sorpresa. Guardò in direzione dell'ingresso con le ampie porte del palazzo di Scienze mentali. Ne stava uscendo il dottor Morton. Diciotto anni fa abbiamo frequentato la stessa scuola, pensò. Ma io avevo pochissimo interesse per la scienza. Preferivo sciupare il mio tempo sulla cultura dei secoli. È per questo che io sono un assistente e lui il capo del Dipartimento. Tutto questo vorticò come una sfuriata di vento nella sua testa mentre il dottor Morton si avvicinava, sorridente. Gli diede una pacca sulla spalla. «Ciao» disse. «Come va?» «Come vuoi che vada?» Il sorriso di Morton si spense. «Che c'è, Chris?» Non ti dirò niente di Sally, pensò Chris. Nemmeno a morire. Da me non lo saprai mai.

«Le solite cose» rispose. «Sempre ai ferri corti con Ramsay?» Chris si strinse nelle spalle. Morton guardò il grosso orologio sulla facciata del palazzo di Scienze mentali. «Senti» gli disse. «Che ci stiamo a fare qui? La tua lezione è fra mezz'ora, no?» Chris non rispose. Mi inviterà a prendere un caffè, pensò. Mi farà omaggio di qualcun'altra delle sue teorie cervellotiche. Mi userà come cavia per il suo carosello mentale. «Beviamoci un caffè» disse Morton, prendendo Chris per un braccio. Percorsero in silenzio alcuni passi. «Come sta Sally?» chiese infine Morton. «Sta bene» rispose lui con voce piatta. «Mi fa piacere. Oh, a proposito, probabilmente domani o dopodomani farò un salto a casa tua per riprendere quel libro che ho lasciato giovedì sera.» «D'accordo.» «Che mi stavi dicendo di Ramsay?» «Non ti stavo dicendo niente.» Morton lasciò perdere. «Hai più pensato a quello che ti ho detto?» «Se ti riferisci alla tua favola sulla mia casa... no. Non ci ho pensato più di quanto meriti... e quindi non ci ho pensato affatto.» Svoltarono l'angolo del palazzo dirigendosi verso la Nona. «Chris, la tua è una posizione insostenibile» disse Morton. «Non hai il diritto di dubitare quando non sai.» Chris aveva voglia di liberare il braccio, di girarsi e di mollare lì Morton. Era stufo di parole, parole, parole. Voleva stare solo. Avrebbe quasi preferito puntarsi una pistola alla tempia e farla finita. Sì, potrei... pensò. Se adesso qualcuno me la mettesse in mano lo farei senza esitare. Risalirono i gradini di pietra, approdarono sul marciapiede e attraversarono, diretti verso il bar del campus. Morton aprì la porta e lo lasciò passare. Chris si diresse verso il fondo e s'infilò in un separé di legno. Morton portò due tazze di caffè e sedette di fronte a lui. «Adesso stammi a sentire» disse, mentre girava lo zucchero. «Io sono il tuo migliore amico. Almeno mi considero tale. E mi prendesse un accidente se me ne starò con le mani in mano a guardarti mentre ti uccidi.» Chris ebbe un tuffo al cuore. Deglutì. Ricacciò indietro i pensieri, come se fossero visibili agli occhi di Morton.

«Lascia perdere» replicò. «Non m'importa quali prove hai. Io non ci credo.» «Cosa devo fare per convincerti, dannazione?» disse Morton. «Vuoi rimetterci la pelle?» «Senti» disse Chris, stizzito. «Io non ci credo. Tutto qui. E adesso lascia perdere, per favore.» «Ascoltami, Chris, io posso mostrarti...» «Tu non puoi mostrarmi niente!» lo interruppe Chris. Morton era un tipo paziente. «È un fenomeno riconosciuto» disse. Chris lo guardò disgustato e scosse il capo. «Voialtri mocciosi in camice bianco siete capaci solo di sognare, nel chiostro santificato dei vostri laboratori. E dopo un po' riuscite a convincere voi stessi che sia tutto vero. Basta che abbiate la possibilità di misurarlo.» «Vuoi starmi a sentire, Chris? Quante volte ti sei lamentato con me delle schegge, degli sportelli che si aprono da soli, dei tappeti che ti scivolano sotto i piedi? Quante volte?» «Oh, per l'amor del cielo, non ricominciare di nuovo. Io mi alzo e me ne vado da qui. Non sono dell'umore giusto per sorbirmi le tue conferenze. Risparmiale per quei poveri idioti che pagano per ascoltarle.» Morton lo guardò scuotendo la testa. «Vorrei poterti convincere» disse. «Dimenticatelo.» «Dimenticarmelo?» replicò Morton, dimenandosi sulla sedia. «Ma non lo capisci che sei in pericolo per via del tuo carattere?» «Te lo ripeto, John...» «Dove pensi che vada a finire tutto questo tuo caratteraccio? Credi che svanisca? No. Non svanisce. Va a finire nelle stanze di casa tua, nei tuoi mobili, nell'aria. Va a finire dentro Sally. Fa ammalare ogni cosa, compreso te. Ti invade. Consolida il legame fra cose animate e cose inanimate. Psicobolia. Oh, non fare quell'aria contrariata, come un bambino che non sopporta di sentire pronunciare la parola spinaci. Resta seduto, per l'amor del cielo. Sei un uomo fatto; stammi a sentire, una volta tanto.» Chris si accese una sigaretta. Lasciò che la voce di Morton gli scorresse addosso in un mormorio petulante. Diede un'occhiata all'orologio sulla parete. Un quarto alle dodici. Fra due minuti, se il treno era puntuale, lei sarebbe partita. Il treno si sarebbe messo in movimento e la città di Fort le sarebbe passata davanti.

«Te l'ho ripetuto un sacco di volte» stava dicendo Morton. «Nessuno sa di che cosa è fatta la materia. Atomi, elettroni, pura energia... solo parole. Chi lo sa dove andranno a finire, le nostre ricerche? Facciamo ipotesi, elaboriamo teorie, inventiamo strumenti di misurazione. Ma non lo sappiamo. «E questo per quanto riguarda la materia. Pensa al cervello umano e alle sue capacità ancora ignote. È un continente inesplorato, Chris. E potrebbe rimanerlo per un bel po' di tempo. E per tutto il tempo questi poteri sospetti continueranno ad avere effetti su di noi e, forse, sulla materia, anche se non abbiamo uno strumento che ci consenta di misurarli. «E io sostengo che tu stai avvelenando la tua casa. Io sostengo che il tuo carattere è penetrato nella struttura, in ogni oggetto che tu tocchi. Non c'è cosa che non sia influenzata da te e dai tuoi accessi di furia incontrollata. E credo anche che se non fosse per la presenza di Sally, che funziona come fattore deterrente, ecco... tu potresti addirittura essere aggredito da...» Chris ascoltò le ultime frasi. «Oh, piantala con queste stupidaggini!» scattò, rabbioso. «Ti esprimi come un adolescente che abbia appena finito di leggere il suo primo romanzo di Tom Swift.» Morton sospirò. Fece scorrere le dita sul bordo della tazza e scosse tristemente la testa. «Bene,» disse «tutto quello che posso fare è sperare che non succeda qualcosa di irreparabile. Mi sembra evidente che non hai la minima intenzione di ascoltarmi.» «Complimenti per quest'affermazione: è l'unica sulla quale convengo con te» disse Chris. Guardò l'orologio. «E adesso, se vuoi scusarmi, c'è un branco di bifolchi che mi aspetta per massacrare brani che non saranno mai in grado di assimilare.» Si alzarono. «Pago io» disse Morton, ma Chris sbatté una moneta sul bancone e uscì dal locale. Morton lo seguì, infilando lentamente in tasca i suoi spiccioli. Giunti in strada diede una pacca sulla spalla di Chris. «Cerca di prenderla con calma» disse. «Senti, perché tu e Sally non venite a casa nostra stasera? Potremmo farci qualche mano di bridge.» «Impossibile» rispose Chris. Gli studenti stavano leggendo una scelta di brani dal King Lear. Le loro teste erano piegate sui libri. Lui li guardava senza vederli. Devo abituarmici, si disse. Devo dimenticarla, tutto qui. Se n'è andata.

Non ho intenzione di piangerci sopra. Non mi voglio creare speranze inutili sul suo ritorno. Non la rivoglio indietro. Senza di lei sto meglio. Libero e senza legami, adesso. I suoi pensieri si prosciugarono. Si sentiva vuoto e impotente. Aveva la sensazione che non sarebbe più riuscito a scrivere una parola in tutta la sua vita. Magari, pensò, cupamente contrariato dall'idea, magari era solo lo sconvolgimento per la sua partenza che ha aiutato il mio cervello a trovare le parole. Perché, in fin dei conti, le parole che mi sorto venute in mente, le idee che sono germogliate, anche se fugacemente, avevano tutte a che fare con lei... con il fatto che se ne andava via e con la mia infelicità. Reagì subito. No! urlò nella sua battaglia silenziosa. Non lascerò che le cose vadano in questo modo. Io sono forte. Questa sensazione è solo temporanea, ben presto imparerò a cavarmela senza di lei. E poi mi metterò a lavorare. Scriverò cose che fino a ora ho solo sognato di scrivere. Dopotutto, non ho diciotto anni di più? Questi anni non mi hanno forse riempito di immagini e suoni, ideali, impressioni, interpretazioni? Tremava per l'eccitazione. Qualcuno gli stava agitando una mano davanti al volto. Mise a fuoco lo sguardo e puntò uno sguardo glaciale su quel viso sconosciuto. «Be'?» disse. «Potrebbe dirci quando ci restituirà i compiti in classe di metà anno, professor Neal?» Fissò la ragazza, mentre un fremito gli agitava la guancia destra. Fu sul punto di ricoprirla d'improperi. Strinse i pugni. «Li riavrete quando saranno stati valutati» rispose, con voce tesa. «Sì, ma...» «Mi ha sentito» disse lui. La sua voce crebbe di tono al termine della frase. La ragazza si mise a sedere. Mentre Chris abbassava la testa, la vide che guardava il ragazzo seduto accanto e stringeva le spalle, con un'espressione disgustata sulla faccia. «Signorina...» Armeggiò con il registro di classe e trovò il suo nome. «Signorina Forbes!» Lei guardò in su, il volto prosciugato di ogni colore, le labbra rosse che risaltavano vistosamente contro la pelle bianca. Idiota di alabastro dipinto! Le parole lo artigliarono. «Può accomodarsi fuori dall'aula» le ordinò seccamente.

La confusione le riempì il volto. «Perché?» chiese con una vocetta sottile, lamentosa. «Forse non mi ha sentito» disse lui, mentre la rabbia gli cresceva dentro. «Le ho detto di uscire dall'aula!» «Ma...» «Mi ha sentito?» urlò. La ragazza raccolse i libri in fretta e furia, con le mani che le tremavano, e la faccia rossa per l'imbarazzo. Teneva gli occhi bassi a terra, la gola che le andava su e giù in modo convulso mentre percorreva il corridoio fra i banchi e usciva dall'aula. La porta si richiuse alle sue spalle. Lui si appoggiò allo schienale. Provava un profondo malessere. Adesso, pensò, si ribelleranno tutti contro di me per difendere quella ragazzina senza cervello. Il dottor Ramsay non perderà occasione per gettare altra benzina sul fuoco. E avrebbero avuto ragione. Non riusciva a levarselo dalla testa. Avevano ragione. Lo sapeva. In qualche angolo nascosto della sua mente, dove lui non riusciva a imporre la sua irrazionale passione, sapeva di essere un perfetto idiota. Non ho nessun diritto di insegnare agli altri. Non riesco nemmeno a insegnare a me stesso a comportarmi da essere umano. Aveva voglia di gridarle, quelle parole, e di confessarsi fra le lacrime, e poi di gettarsi da una delle finestre aperte. «Basta con tutti questi mormorii!» ordinò brutalmente. L'aula divenne silenziosa. Rimase seduto, rigido, in attesa di qualche accenno di ribellione. Sono il vostro insegnante, disse a se stesso. Dovete obbedirmi. Sono... Il concetto morì e lui tornò a scivolare via. Che importanza avevano degli studenti o una ragazza che gli chiedevano dei compiti in classe? Che importanza aveva ogni cosa? Diede un'occhiata all'orologio. Fra pochi minuti il treno sarebbe giunto a Centralia. Lei avrebbe cambiato e sarebbe salita sull'espresso per Indianapolis. Poi su fino a Detroit e da sua madre. Andata. Andata. Cercò di visualizzare la parola, di metterla in forma più comprensibile. Ma il pensiero della casa senza di lei era quasi insopportabile. Perché non era soltanto una casa senza di lei; era qualcos'altro. Cominciò a ripensare a quello che gli aveva detto John. Era possibile? Era nella disposizione d'animo per accettare anche l'incredibile. Era incredibile che lei lo avesse lasciato. Perché non estendere le

assurdità che gli stavano capitando? E va bene, allora, pensò con stizza. La casa è viva. Gliel'ho data io, questa vita, con le mie minacciose esplosioni di collera. Spero proprio che, appena entrato, il tetto mi crolli addosso. Spero che le pareti cedano e che mi schiaccino sotto il peso dell'intonaco, del legno e dei mattoni. Ecco cosa voglio. Un intervento esterno che la faccia finita per me. Da solo non ci riesco. Se solo una pistola potesse sostituirmi nel mio suicidio. O il gas esalarmi addosso spontaneamente i suoi vapori mortali o un rasoio tagliarmi la carne di sua volontà. La porta si aprì. Alzò gli occhi. Sulla soglia c'era il dottor Ramsay, la faccia atteggiata a una maschera d'indignazione. Dietro di lui, in corridoio, Chris vide la ragazza, con il volto rigato di lacrime. «Un attimo solo, Neal» disse secco Ramsay, che poi tornò nel corridoio. Chris rimase seduto alla scrivania, fissando la porta. All'improvviso si sentì stanchissimo, sfinito. Aveva la sensazione che alzarsi e uscire in corridoio fosse qualcosa di superiore alle sue forze. Rivolse un'occhiata alla classe. Qualcuno si sforzava di reprimere un sorriso. «Per domani finite la lettura del King Lear» disse. Alcuni gemettero. Ramsay apparve di nuovo sulla soglia, con le guance arrossate. «Viene o no, Neal?» chiese a voce alta. Mentre attraversava la stanza e usciva in corridoio, Chris avvertì un morso di rabbia: la ragazza abbassò gli occhi. Si faceva quasi scudo della figura massiccia di Ramsay. «Che cos'è questa storia, Neal?» chiese Ramsay. E va bene, pensò Chris. Non chiamarmi professore. Tanto non lo sarò mai, non è così? Farai in modo che non succeda, bastardo. «Non capisco» replicò, con il tono di voce più freddo possibile. «La signorina Forbes, qui, sostiene che lei l'ha espulsa dall'aula senza nessun motivo.» «Allora la signorina Forbes mente in modo piuttosto stupido» disse lui. Devo trattenere questa rabbia, pensò. Non permettere che si riversi al di fuori. Tremava, per lo sforzo di tenerla a freno. La ragazza singhiozzò e tirò fuori di nuovo il fazzoletto. Ramsay si girò e le diede una pacca sulla spalla. «Vada nel mio ufficio, figliola. Mi aspetti lì.» Lei si voltò lentamente. Che politicante! urlò Chris dentro di sé. Com'è facile per te guadagnarti le loro simpatie. Non devi vedertela con le loro menti disordinate.

La signorina Forbes scomparve oltre l'angolo e Ramsay si girò verso di lui. «Sarà meglio che lei abbia una spiegazione convincente» disse. «Sto cominciando a stancarmi del suo comportamento, Neal.» Chris non disse nulla. Perché me ne sto qui? si domandò all'improvviso. Perché, con tanti posti al mondo, me ne sto in questo corridoio buio ad ascoltare di mia volontà questo pallone gonfiato che mi rimprovera? «Sto aspettando, Neal.» Chris si irrigidì. «Le ho già detto che la ragazza ha mentito» replicò con calma. «Io invece sono portato a credere che le cose siano andate in un altro modo» disse il dottor Ramsay, con la voce che gli tremava. Un brivido corse lungo la schiena di Chris. La sua testa si mosse in avanti e parlò lentamente, a denti stretti. «Lei può credere quello che cavolo le pare.» Ramsay piegò appena la bocca. «Credo sia ora che lei si presenti davanti al consiglio» farfugliò. «Bene!» disse Chris, ad alta voce. Ramsay fece per chiudere la porta dell'aula. Chris le sferrò un calcio e quella andò a sbattere contro la parete. Una ragazza emise un gemito soffocato. «Che c'è?» strillò Chris. «Non vuole che i suoi studenti mi sentano mentre le dico in faccia quello che penso? Non vuole nemmeno che sospettino che lei è un tanghero, un pallone gonfiato, un somaro?» Ramsay si portò i pugni tremanti all'altezza del petto. Le labbra gli tremavano visibilmente. «Basta così, Neal!» strillò. Chris protese la mano e diede una spinta a quell'uomo corpulento. «Oh, si tolga dai piedi!» Cominciò ad allontanarsi, percorrendo a grandi passi il corridoio. Sentì suonare la campanella. Gli sembrò che suonasse in un'altra realtà. L'edificio ribollì di vita; gli studenti sciamarono fuori dalle classi. «Neal!» gli gridò dietro il dottor Ramsay. Continuò a camminare. Oddio, fatemi uscire, sto soffocando, pensò. Cappello e borsa. Che rimangano qui. Devo uscire. In preda alle vertigini scese le scale circondato da un turbinio di studenti. Gli roteavano intorno come una marea indistinta. Il suo cervello era lontanissimo da loro. Guardando come intorpidito davanti a sé, percorse il corridoio del piano

terra. Si voltò e uscì dalla porta, poi discese i gradini sotto il portico fino a raggiungere il marciapiede che correva lungo il campus. Non prestò attenzione agli studenti che guardavano i suoi capelli biondi tutti scarmigliati, i suoi abiti sgualciti. Continuò a camminare. Ce l'ho fatta, si disse con animosità. Ho dato un taglio a tutto questo. Sono libero! Sono malato. Per tutta la strada fino alla Main Street e poi sull'autobus non fece che ampliare le sue riserve di rabbia. Rivisse in continuazione quei brevi momenti nel corridoio. Richiamò alla mente l'immagine della faccia stolida di Ramsay, ripeté le sue parole. Si mantenne teso e furioso. Sono felice, si disse quasi per convincersi. Tutto è risolto. Sally mi ha lasciato. Bene. Ho perso il lavoro. Bene. Adesso sono libero di fare come mi pare. Una felicità tesa e rabbiosa gli pulsava dentro. Si sentiva solo, straniero nel mondo, e felice di esserlo. Scese dall'autobus alla solita fermata e si diresse con decisione verso casa, facendo finta di ignorare il dolore che provava nell'avvicinarsi. È solo una casa vuota, pensò. Niente di più. A dispetto di ogni teoria assurda, è una casa e nient'altro. Poi, quando entrò, la trovò seduta sul divano. Quasi perse l'equilibrio, come se qualcuno lo avesse colpito. Rimase lì in piedi, stordito, a fissarla. Sally teneva le mani strette. Lo guardava. Lui deglutì. «Be'» riuscì a dire. «Io...» La gola di lei si contrasse. «Ecco...» «Ecco che cosa?» si affrettò a dire lui, in tono abbastanza alto da nascondere il tremito della voce. Lei si alzò. «Chris, ti prego. Non vuoi... chiedermi di restare?» Lo guardava come una bambina, implorante. Quello sguardo lo fece infuriare. Tutti i suoi sogni a occhi aperti ridotti in brandelli; vide l'embrione crescente delle nuove idee finire in frantumi sotto i suoi piedi. «Chiederti di restare?» le urlò. «Perdio, non ti chiederò proprio niente!» «Chris! Non fare così!» Sta cedendo, gridò la sua mente. Sta andando in pezzi. Approfittane ora. Sbattila fuori di qui. Allontanala da queste mura! «Chris,» disse lei fra i singhiozzi «sii gentile. Ti prego, sii gentile.» «Gentile!» Quella parola per poco non lo fece strozzare. Si sentì invadere il corpo

da un calore irrefrenabile. «Tu sei stata gentile? Mi hai fatto impazzire, precipitandomi in un abisso di disperazione. Non ne verrò più fuori. Lo capisci? Mai. Mai! Te ne rendi conto? Non scriverò mai più. Non riesco a scrivere! Sei tu che hai inaridito la mia vena. L'hai uccisa! Mi hai sentito? L'hai uccisa!» Sally indietreggiò in direzione del salotto. Lui la seguì, con le mani tremanti calate sui fianchi, rendendosi conto che era stata lei a indurlo a fare quella confessione e detestandola ancora di più per questo. «Chris» mormorò Sally, atterrita. La sua irritazione sembrava quasi riprodursi come una moltiplicazione cellulare, rigonfiandolo di rabbia fino a fare di lui non più un essere umano ma un cieco concentrato di odio accusatore. «Non ti voglio!» strillò. «Hai ragione, non ti voglio! Sparisci da qui!» Sally aveva spalancato gli occhi; la sua bocca era una ferita aperta. Tutto a un tratto gli passò accanto di corsa, con gli occhi scintillanti di lacrime. Scomparve dalla porta d'ingresso. Lui andò alla finestra e la vide correre lungo l'isolato, con i lunghi capelli bruni che le svolazzavano sulle spalle. Preso da un improvviso senso di vertigine, Chris si accasciò sul divano e chiuse gli occhi. Si infilò le unghie nei palmi delle mani. Oh Dio, sto veramente male, ribollì la sua mente. Si contorse e si guardò in giro per la stanza come un idiota. Che cos'era? Quella sensazione di sprofondare nel divano, nelle assi del pavimento, di dissolversi nell'aria, di penetrare nelle molecole della casa. Gemette piano, guardandosi attorno. Gli doleva la testa; si premette il palmo della mano contro la fronte. «Che cosa?» farfugliò. «Che cosa?» Si alzò. Come se si trattasse di vapori, cercò di annusarli. Come se fosse un suono, cercò di ascoltarlo. Si girò attorno per guardarlo. Come se fosse qualcosa che aveva una profondità, una lunghezza e una larghezza; qualcosa di minaccioso. Barcollò, ricadde sul divano. Si guardò ancora intorno. Non c'era nulla, nulla di tangibile. Poteva trovarsi solo nella sua mente. I mobili erano esattamente come prima. La luce del sole filtrava attraverso le finestre, perforando le tendine di stoffa leggera e creando ghirigori dorati sul pavimento di legno. Le pareti erano dello stesso color crema, il soffitto identico a prima. Eppure c'era qualcosa che diventava più scuro, più scuro...

Che cosa? Si costrinse a rialzarsi e si mosse stordito per la stanza. Si dimenticò di Sally. Giunse in camera da pranzo. Toccò il tavolo, fissò il legno scuro di quercia. Andò in cucina. Rimase in piedi accanto all'acquaio e guardò fuori dalla finestra. La vide camminare a passo incerto in fondo all'isolato. Forse aveva aspettato l'autobus. Adesso non ce la faceva più ad aspettare e si stava allontanando dalla casa, da lui. «Le vado dietro» borbottò. No, pensò. No, non le andrò dietro come un... Dimenticò di completare l'analogia. Fissò l'acquaio con espressione vacua. Si sentiva come se fosse ubriaco. Ogni cosa aveva perso nitidezza. Ha lavato le tazze. Il piatto rotto era stato gettato via. Si guardò il taglio sul pollice. Si era richiuso. Non se ne ricordava nemmeno più. All'improvviso si guardò intorno come se qualcuno fosse giunto di soppiatto alle sue spalle. Fissò la parete. C'era qualcosa che saliva. Ne aveva la netta sensazione. Non sono io che me lo immagino, eppure dev'essere così; dev'essere la mia immaginazione. Immaginazione! Picchiò un pugno sull'acquaio. Mi metterò a scrivere. Scrivere, scrivere. Sedersi e riversare tutto in parole; questa sensazione di angoscia, di terrore e di solitudine. Scrivere e liberare dalla tensione i miei nervi. «Sì!» urlò. Corse via dalla cucina. Rifiutò di accettare la paura istintiva che sentiva dentro di sé. Ignorò la minaccia che sembrava impregnare l'aria stessa. Un tappeto gli slittò sotto i piedi. Lo allontanò con un calcio. Si mise a sedere. L'aria pulsava. Rimosse con violenza il coperchio della macchina per scrivere. Rimase seduto, nervoso, fissando la tastiera. Il momento prima dell'attacco. Era nell'aria. Ma è il mio attacco! pensò trionfante, il mio attacco alla stupidità e alla paura. Infilò un foglio di carta nel rullo. Si sforzò di chiamare a raccolta i suoi pensieri convulsi. Scrivere, la parola era incisa nella sua mente. Scrivere... adesso. «Adesso!» urlò. Sentì la scrivania che sbandava contro i suoi stinchi. Il dolore lancinante penetrò i suoi sensi come la lama di un coltello. Diede un calcio alla scrivania, in un automatico gesto di frenesia. Altro dolore. Scalciò di nuovo. La scrivania reagì. Lui urlò.

L'aveva vista muoversi. Cercò di indietreggiare, ormai svuotato della sua rabbia. I tasti della macchina da scrivere si mossero sotto le sue dita. Abbassò gli occhi. Non riuscì a capire se era lui a muovere i tasti o se fossero i tasti ad agire di loro volontà. Tirò indietro istericamente la mano, tentando di togliere le dita dalla tastiera, ma senza riuscirci. I tasti si muovevano più rapidamente di quanto il suo occhio riuscisse a cogliere. Erano una macchia indistinta. Li sentì che gli laceravano la pelle, gli scorticavano le dita. Erano ormai scarnificate. Il sangue cominciò a scorrere. Gridò e arretrò ancora. Riuscì a liberare le dita con uno strattone e balzò all'indietro sulla sedia. La fibbia della cintura si incastrò, il cassetto della scrivania venne fuori con violenza. Lo colpì allo stomaco. Gridò di nuovo. Il dolore era una nuvola nera che gli fluiva sopra la testa. Abbassò una mano per richiudere il cassetto. Vide che dentro c'erano delle matite gialle. Sembravano fissarlo. La sua mano scivolò, sbatté sul cassetto. Una delle matite lo infilzò. Teneva sempre le punte affilate. Fu come il morso di un serpente. Ritrasse di scatto la mano con un rantolo di dolore. La punta si era infilata sotto un'unghia. Era penetrata nella carne viva, tenera. Urlò per la rabbia e per il dolore. Abbrancò la matita con l'altra mano. La punta si staccò e gli si conficcò nel palmo. Non riusciva a liberarsi della matita, che continuava a massacrargli la mano. Lui tirava, e quella tracciava righe nere e profonde sulla pelle, penetrandogli nella carne. Scagliò la matita dall'altra parte della stanza. Rimbalzò contro il muro. Sembrò schizzare all'insù quando ricadde sulla gomma. Rotolò via e rimase immobile. Chris perse l'equilibrio. La poltrona ricadde all'indietro con violenza. La sua testa picchiò forte sul pavimento di legno. La mano sporta all'infuori si aggrappò al davanzale. Schegge minuscole penetrarono nella pelle come aghi invisibili. Mugolò, colto da un terrore mortale. Dimenò forsennatamente le gambe. I compiti in classe gli piovvero addosso come le ali svolazzanti di uno stormo di uccelli impazziti. La poltrona tornò a raddrizzarsi sulle molle. Le pesanti rotelle gli passarono sulle mani insanguinate, con la carne viva messa a nudo. Le ritrasse con un urlo. Tirò indietro una gamba e scalciò con violenza la poltrona.

Quella andò a infrangersi di fianco contro il caminetto. Le rotelle vorticarono e ronzarono come uno sciame di insetti infuriati. Balzò in piedi. Perse l'equilibrio e cadde di nuovo, schiantandosi contro il davanzale. Le tende gli crollarono addosso come un pitone. I bastoni si staccarono dal muro, caddero giù e lo colpirono in piena testa. Sentì il sangue che gli gocciolava caldo sulla fronte. Si trascinò sul pavimento. Le tende sembravano avvolgerlo come serpenti. Urlò di nuovo. Le fece a pezzi, istericamente. I suoi occhi erano stravolti dal terrore. Scagliò via le tende e si rimise faticosamente in piedi, barcollando in cerca di equilibrio. Il dolore alle mani era insopportabile. Se le guardò. Erano come carne appena macellata, con la pelle che ricadeva giù a brandelli. Doveva bendarle. Si voltò e andò verso il bagno. Al primo passo il tappeto gli scivolò sotto i piedi, proprio quel tappeto che aveva allontanato prima con un calcio. Si sentì proiettare in aria. Abbassò istintivamente le mani per attutire l'impatto. La vampata di dolore fu come una scossa elettrica che lo fece sobbalzare. Un dito si spezzò. Le schegge penetrarono nella carne viva e sentì una fitta lancinante alla caviglia. Brancolò per rialzarsi, ma il pavimento era come una lastra di ghiaccio sotto di lui. Rimase immobile, in un silenzio di morte. Il cuore gli martellava nel petto. Tentò ancora di rimettersi in piedi. Ricadde, sibilando per il dolore. La libreria lo sovrastava, minacciosa. Gridò e alzò un braccio. L'intera struttura gli precipitò addosso. Lo scaffale superiore lo colpì alla testa. Onde nere lo travolsero, una lama aguzza di dolore gli trafisse il cervello. I libri piovvero su di lui. Rotolò su un fianco con un gemito. Cercò di trascinarsi lontano. Scansò i libri, senza più energia, e quelli ricaddero giù, aprendosi. Sentì gli orli delle pagine lacerargli le dita come lame di rasoio. Il dolore gli schiarì la testa. Si mise a sedere e scaraventò lontano i libri. Scalciò la libreria verso la parete. Il pannello posteriore si staccò e cadde giù. Si rimise in piedi, mentre la stanza gli turbinava intorno. Si diresse a passo malfermo verso la parete, cercando di sostenersi. La parete sembrava quasi spostarsi sotto le sue mani. Non riuscì a trovare sostegno. Scivolò sulle ginocchia, si rialzò. «Devo bendarmi» farfugliò con voce roca. Le parole gli riempivano il cervello. Attraversò ondeggiando il salotto che sembrava animato di vita propria, ed entrò in bagno.

Si bloccò. No! Devo uscire dalla casa! Sapeva che non era stata la sua volontà a condurlo lì dentro. Cercò di girarsi, ma scivolò sulle mattonelle e andò a sbattere il gomito contro il bordo della vasca. Un dolore intenso gli s'irradiò fino alla spalla. Perse la sensibilità del braccio. Si accasciò al suolo, contorcendosi per il dolore. Le pareti sembrarono rannuvolarsi; si richiusero su di lui come un sudario scuro. Si mise a sedere, con il respiro che gli bruciava la gola. Si tirò su con un rantolo. Protese il braccio e aprì lo sportello dell'armadietto dei medicinali. Quello gli andò a sbattere sulla guancia, procurandogli un taglio irregolare nella carne. La sua testa scattò all'indietro. La fessura nel soffitto era come un largo sorriso idiota su una faccia bianca e inespressiva. Riabbassò la testa, piagnucolando per il terrore. Cercò di indietreggiare. La sua mano andò verso l'armadietto. Tintura di iodio, garza! urlava la sua mente. La mano riemerse con il rasoio. Guizzò nella sua mano come un pesce appena pescato. Avvicinò l'altra mano all'armadietto. Tintura di iodio, garza! continuava a strepitare il suo cervello. La mano riemerse con il filo interdentale. Si riversò fuori dal tubo come un verme bianco senza fine. Si avvoltolò intorno alla sua gola e alla sua spalla. Cominciò a stringere. La lunga lama scintillante uscì dal fodero. Non riuscì a fermare la sua mano, che trascinò pesantemente il rasoio lungo il petto. Lacerò la camicia. Scavò una vallata nel torace. Ne zampillò il sangue. Cercò di scagliare via il rasoio. Era come incollato alla sua mano. Colpiva all'impazzata, mirando alle braccia e alle mani, alle gambe e al corpo. E alla gola. Un urlo di terrore assoluto si riversò dalle sue labbra. Corse via dal bagno, e sbucò in salotto barcollando come un ubriaco. «Sally!» esclamò. «Sally, Sally, Sally...» Il rasoio colpì la gola. La stanza divenne nera. Dolore. La vita che defluiva nella notte. Il silenzio sul mondo intero. Il giorno dopo venne il dottor Morton. Chiamò la polizia. E in seguito il medico legale scrisse sul suo rapporto:

Deceduto a causa di ferite volontariamente autoinferte. Eliminazione lenta Queste annotazioni provengono da un quaderno di scuola che è stato ritrovato due settimane fa in un negozio di dolciumi di Broadway. Accanto a esso, sul bancone, c'era una tazza di caffè mezza vuota. Il proprietario del negozio ha affermato che nessuno era entrato nelle tre ore precedenti al ritrovamento del quaderno. Sabato mattina presto. Non dovrei scrivere queste cose. E se Mary lo trovasse? Che succederebbe? La fine, ecco cosa succederebbe, cinque anni buttati dalla finestra. Però devo scriverle. È troppo tempo che aspetto. Non ci sarà pace se non metto tutto nero su bianco. Devo tirar fuori tutto e schiarirmi le idee. Ma è difficile semplificare le cose e facile complicarle. Bisogna tornare indietro di qualche mese. Dove è cominciato? Naturalmente con una discussione. Ne avremo avute un migliaio, da quando ci siamo sposati. E sempre sullo stesso argomento, è questa la cosa orribile. Denaro. «Non è questione di aver fiducia o meno in quello che scrivi» dice Mary. «È una questione di conti e se riusciremo o no a pagarli.» «Conti di che?» dico io. «Di cose necessarie? No. Di cose che nemmeno ci servono.» «Non ci servono?» E via dicendo. Dio, come diventa impossibile la vita senza soldi. Non c'è niente che conta di più, anche le sciocchezze diventano importantissime. Come faccio a scrivere in pace con questi infiniti problemi di soldi, soldi, soldi? Il televisore, il frigorifero, la lavatrice... ancora tutto da pagare. E il letto che vuole lei. Ma nonostante tutto - da quell'idiota patentato che sono - io continuo addirittura a peggiorare la situazione. Perché mai quella prima sera me ne sono andato da casa come un razzo? Avevamo litigato, certo, ma l'avevamo già fatto altre volte. Vanità, ecco tutto. Dopo sette anni - sette! - che scrivo ho guadagnato soltanto 316 dollari. E ancora continuo a fare quello schifoso lavoro part-time di dattilografo notturno. E Mary è costretta a lavorare insieme a me, nello stesso posto.

Dio sa se non ha tutte le ragioni di porsi dei dubbi. Se non ha tutto il diritto di cercare sempre di convincermi ad accettare quel lavoro a tempo pieno che Jim continua a offrirmi. Sono io che devo decidere. Mi basta riconoscere il bisogno di soldi, fare la mossa giusta e tutto è risolto. Niente più lavoro notturno. Mary potrebbe restarsene a casa come desidera, come dovrebbe. La mossa giusta, tutto qui. Ho fatto la mossa sbagliata, invece. Dio, come mi sento male. Io che esco con Mike. Tutti e due imbecilli senza un barlume d'intelligenza negli occhi, insieme a Jean e Sally. Erano mesi, ormai, che accantonavamo l'ovvia conclusione di essere due idioti. Volevamo perderci in un'esperienza nuova. Giocare a fare gli idioti fino a raggiungere la perfezione. E ieri sera, noi due, uomini sposati, siamo andati a casa loro, al club, e... Riuscirò a dirlo? Ho paura, mi manca il coraggio? Che imbecille! Un adultero. Com'è possibile che le cose diventino così complicate? Io amo Vary. Moltissimo. Eppure, anche se l'amo, ho fatto questa cosa. E per rendere tutto ancora più complicato, mi è pure piaciuta. Jean è dolce e comprensiva, appassionata, una specie di simbolo di ciò che ho perduto. È stato magnifico. Non posso negarlo. Ma com'è possibile che una cosa sbagliata sia magnifica? Come può la crudeltà essere eccitante? È tutto così assurdo, è confuso e disordinato e fuori da ogni logica. Sabato pomeriggio. Mi ha perdonato, grazie al cielo. Non rivedrò mai più Jean. Andrà tutto bene. Stamattina sono andato a sedermi sul letto e Mary si è svegliata. Mi ha guardato, poi ha guardato l'orologio. Aveva pianto. «Dove sei stato?» mi ha chiesto con quella vocetta da bambina che assume sempre quando è spaventata. «Con Mike» le ho risposto. «Abbiamo bevuto e chiacchierato tutta la notte.» Mi ha fissato un secondo di troppo. Poi mi ha preso lentamente la mano e se l'è premuta sulla guancia. «Mi dispiace» ha detto e gli occhi le si sono riempiti di lacrime. Io ho dovuto avvicinare il mio viso al suo in modo che non vedesse la

mia espressione. «Oh, Mary» ho detto. «Dispiace anche a me.» Non glielo dirò mai. Lei significa troppo per me. Non posso perderla. Sabato sera. Oggi pomeriggio siamo andati al mobilificio Mandel e abbiamo acquistato un letto nuovo. «Non possiamo permettercelo, tesoro» ha detto Mary. «Non importa» ho replicato. «Lo so come si è ridotto quello vecchio. Voglio che la mia piccolina dorma come sì deve.» Lei mi ha baciato sulla guancia, felice. Si è messa a saltare sul letto come una bambina eccitata. «Oh, quant'è morbido!» ha esclamato. Va tutto bene. Tutto a parte la nuova infornata di conti con la posta di oggi. Tutto a parte il mio ultimo racconto che non ne vuole sapere di partire. Tutto a parte il mio romanzo che è stato rifiutato cinque volte. La Burney House deve acquistarlo. L'hanno tenuto abbastanza a lungo. Ci conto. Le cose che scrivo cominciano a dare i loro frutti. Così come tutto il resto. Mi convinco sempre più di essere sul punto di spiccare il volo. Be', Mary è un tesoro. Domenica sera. Altri problemi. Un'altra discussione. Non so nemmeno per che cosa. Lei ha messo il broncio. Io sono fuori di me. Non riesco a scrivere quando sono sconvolto. Lei lo sa. Ho voglia di chiamare Jean. Almeno lei si interessava a quello che scrivo. Ho voglia di mandare tutto all'inferno. Sbronzarmi, saltare giù da un ponte, qualunque cosa. Non c'è da stupirsi che i bambini sono felici. Per loro la vita è facile. Un po' di fame, un po' di freddo, un po' di paura del buio. Tutto qui. Perché affannarsi tanto a crescere? La vita diventa troppo complicata. Mary mi ha appena chiamato per la cena. Non ho voglia di mangiare. Non ho voglia nemmeno di restarmene a casa. Magari chiamerò Jean più tardi. Tanto per salutarla. Lunedì mattina. Dannazione, dannazione, dannazione. Non solo si sono tenuti il libro per più di tre mesi. Non era abbastanza brutto già così, no. Hanno rovesciato il caffè su tutto il manoscritto e come se non bastasse mi hanno fatto avere un foglietto di rifiuto... prestampato.

Avrei voglia di ucciderli! Magari sono anche convinti di saper fare bene il loro mestiere! Mary ha visto il foglietto. «Allora, che fai adesso?» ha detto disgustata. «Adesso?» ho replicato. Mi sono sforzato di non esplodere. «Sei ancora convinto di saper scrivere?» ha chiesto lei. Sono esploso. «Oh, loro sono una giuria obiettiva, vero?» Ero infuriato. «Hanno l'ultima parola sulle cose che scrivo, eh?» «Sono sette anni che scrivi» ha detto lei. «Non è successo niente.» «E scriverò per altri sette. Per altri cento, mille!» «Non hai intenzione di accettare quel lavoro al giornale di Jim?» «No, non lo accetterò.» «Hai detto che lo avresti fatto, se il tuo libro non fosse stato accettato.» «Io ce l'ho un lavoro» ho ribattuto «e anche tu hai un lavoro, le cose stanno così e resteranno così.» «Non è così che ho intenzione di restare, io!» ha detto lei, secca. Potrebbe lasciarmi. Che importa? Comunque mi sono stufato di tutto. Conti da pagare uno dopo l'altro. Scrivere, scrivere. Fallimenti, fallimenti, fallimenti! E la solita vecchia vita che prosegue sempre uguale, accatastando le sue invidiabili, assurde complicazioni una sull'altra come farebbe un idiota con i cubetti delle costruzioni. Tu! Tu che fai girare il mondo, che muovi l'universo. Se c'è qualcuno che mi ascolta, veda di rendere il mondo più semplice! Non credo in niente ma darei... qualsiasi cosa! Se solo... Oh, ma a che serve? Tanto non me ne importa più nulla. Stasera chiamerò Jean. Lunedì pomeriggio. Sono appena sceso per chiamare Jean e mettermi d'accordo con lei per sabato sera. Mary andrà a trovare la sorella. Non mi ha chiesto di accompagnarla e non sarò certo io a offrirmi di farlo. Ieri sera ho chiamato Jean ma la centralinista del club mi ha detto che era uscita. Ho pensato che avrei potuto chiamarla oggi in ufficio. Così sono andato al negozio di dolciumi all'angolo e ho cercato il numero sull'elenco. Ormai avrei dovuto saperlo a memoria. L'ho chiamata più di una volta. Ma chissà perché non mi sono mai preoccupato di memorizzarlo. Be', al diavolo, esistono sempre gli elenchi telefonici. Lei lavora per una rivista che si chiama Design Handbook o Designer's Handbook o qualcosa del genere. Strano, non mi ricordo nemmeno quello.

Forse non ci ho mai pensato troppo. Però mi ricordo dove si trova l'ufficio. Qualche mese fa le ho telefonato e l'ho invitata a pranzo. Mi sembra di avere detto a Mary che quel giorno andavo in biblioteca. Adesso me lo ricordo, il numero di telefono dell'ufficio di Jean è nell'angolo superiore destro di una pagina di destra dell'elenco. L'ho cercato decine di volte ed è sempre stato lì. Oggi non c'era. Ho trovato la parola Design e diversi nomi di aziende che cominciavano con quella parola. Ma si trovavano nell'angolo inferiore sinistro di una pagina di sinistra, proprio all'opposto. E non mi sembra di avere trovato nessun nome che corrispondesse. In genere, appena vedo il nome della rivista, penso: eccolo. Poi guardo il numero di telefono. Oggi non è stato così. Ho cercato più volte, ho controllato i nomi uno per uno, ma non sono riuscito a trovare qualcosa che assomigliasse a Design Handbook. Alla fine ho chiamato il numero di Design Magazine, ma ho capito subito che non era quello che stavo cercando. Io... io dovrò finire più tardi. Mary mi ha appena chiamato per la cena, il pranzo, fate un po' voi. Il pasto principale della giornata, comunque, dato che lavoriamo entrambi di notte. Più tardi. È stato un pasto ottimo. Mary è fantastica, come cuoca. Se solo non ci fossero sempre quelle discussioni. Chissà se Jean sa cucinare. In ogni caso la cena mi ha ridato un po' di morale. Ne avevo bisogno. Ero un po' nervoso per com'è andata quella telefonata. Dopo avere composto il numero, mi ha risposto una voce femminile. «Design Magazine» ha detto. «Vorrei parlare con la signorina Lane» le ho detto. «Chi?» «La signorina Lane.» «Un attimo» ha detto lei. E ho capito che era il numero sbagliato. Tutte le volte che avevo chiamato, la donna che mi aveva risposto aveva detto: «Subito» senza pensarci e mi aveva messo in comunicazione con Jean. «Come ha detto che si chiama?» mi ha chiesto. «Signorina Lane. Se lei non la conosce, probabilmente ho fatto un numero sbagliato.» «Forse intende il signor Payne.»

«No, no. Prima, la centralinista che mi rispondeva sapeva benissimo a chi mi riferivo. Ho fatto un numero sbagliato. Mi scusi.» Ho riattaccato. Ero piuttosto contrariato. Ho cercato quel numero così tante volte che la situazione mi sembrava assurda. Adesso non riesco più a trovarlo. Naturalmente, all'inizio non me la sono presa più di tanto. Ho pensato che magari l'elenco telefonico del negozio di dolciumi era vecchio. Allora sono andato alla drogheria. Aveva lo stesso elenco. Be', dovrò semplicemente chiamarla da dove lavoro, stanotte. Però avrei preferito sentirla oggi pomeriggio per essere certo che non prendesse impegni per sabato sera. Mi è appena venuta in mente una cosa. Quella centralinista. La sua voce. Era la stessa che mi rispondeva sempre al Design Handbook. Però... Oh, sto solo sognando. Lunedì sera. Ho chiamato il club mentre Mary era uscita dall'ufficio per procurarci un po' di caffè. Ho ripetuto alla centralinista la stessa identica frase che le avevo già detto decine di volte: «Vorrei parlare con la signorina Lane, per favore.» «Sì, signore, un attimo.» È seguito un lungo silenzio. Sono diventato impaziente. Poi il telefono ha ripreso vita. «Come ha detto che si chiama?» ha chiesto la centralinista. «Signorina Lane, Signorina Lane» ho detto. «L'ho chiamata un mucchio di volte .» «Ricontrollo sull'elenco» ha replicato lei. Ho aspettato un altro po'. Poi ho sentito ancora la sua voce. «Mi spiace. Nell'elenco non figura nessuno con questo nome.» «Ma l'ho già chiamata lì tante di quelle volte.» «È sicuro di avere composto il numero giusto?» «Sì, sì, sono sicuro. È il Club Stanley, no?» «Sì, lo è.» «Ecco, è proprio quello che chiamo sempre.» «Non so che cosa dirle» ha replicato la centralinista. «L'unica cosa che posso affermare con certezza è che qui non abita nessuno che si chiami così.» «Ma se ho chiamato ieri sera! E lei mi ha detto che non era in casa.»

«Mi spiace, non lo ricordo.» «Ne è sicura? Assolutamente sicura?» «Be', se vuole posso ridare un'occhiata all'elenco. Ma non c'è nessuno che si chiami così, su questo non ho dubbi.» «E nessuno con quel nome si è trasferito ultimamente?» «È un anno che non si libera un appartamento. A New York è difficile trovare un alloggio, lo sa.» «Lo so» ho detto, e ho riappeso. Sono tornato alla mia scrivania. Mary era rientrata in ufficio. Mi ha detto che il caffè si stava freddando. Le ho detto che avevo chiamato Jim per quel lavoro. È stata una bugia infelice. Adesso ricomincerà a insistere con quella storia. Ho bevuto il caffè e per un po' ho battuto a macchina. Ma non sapevo bene quello che facevo. Faticavo a rimettere ordine nella mia testa. Deve trovarsi da qualche parte, ho pensato. So bene di non averli sognati, tutti quei momenti passati insieme. So bene di non essermi immaginato tutti i sotterfugi per nasconderlo a Mary. E so che Mike e Sally non hanno... Sally! Anche Sally abitava al Club Stanley. Ho detto a Mary che avevo mal di testa e che uscivo a prendere un'aspirina. Lei mi ha detto che doveva essercene qualcuna nel bagno degli uomini. Io le ho replicato che non erano quelle che preferivo. Mi ritrovo invischiato nelle bugie più incredibili! Ho raggiunto il negozio lì vicino quasi di corsa. Naturalmente non volevo servirmi di nuovo del telefono dell'ufficio. Ha risposto la stessa centralinista. «Abita lì la signorina Sally Norton?» ho chiesto. «Un attimo prego» ha detto lei, e io ho avvertito una sensazione di vuoto allo stomaco. Lei ricordava sempre a memoria i numeri dei residenti. E Sally e Jean vivevano lì da almeno due anni. «Mi spiace» ha risposto. «Qui non abita nessuno che si chiami così.» Ho emesso un gemito. «Oh mio Dio.» «Qualcosa non va?» mi ha chiesto. «Lì non abita né Jean Lane né Sally Norton?» «Lei è la stessa persona che ha chiamato qualche minuto fa?» «Sì.» «Mi stia a sentire, adesso. Se questo è uno scherzo...» «Uno scherzo? Ho chiamato ieri sera e lei mi ha detto che la signorina

Lane era uscita e mi ha chiesto se volevo lasciarle un messaggio. Le ho detto di no. Poi richiamo stasera e lei mi dice che lì non abita nessuno con questo nome.» «Mi spiace. Non so che dirle. Ieri sera ero in servizio ma non ricordo ciò che mi ha detto lei. Se vuole posso metterla in comunicazione con l'amministratore.» «No, non fa niente» ho detto e ho riappeso. Poi ho composto il numero di Mike. Ma non era in casa. Mi ha risposto sua moglie Gladys e mi ha detto che Mike era andato a giocare a bowling. Ero un po' nervoso, altrimenti non avrei rischiato di tradirmi. «Con i ragazzi?» le ho chiesto. Lei mi è sembrata un po' risentita. «Be', lo spero proprio» ha detto. Comincio ad avere paura. Martedì sera. Stasera ho chiamato Mike. Gli ho chiesto di Sally. «Chi?» «Sally.» «Sally chi?» «Lo sai benissimo, brutto ipocrita!» «Cos'è, uno scherzo?» mi ha chiesto. «Forse sì» ho risposto. «Che ne diresti di darci un taglio?» «Ricominciamo da capo» ha detto. «Chi cavolo è Sally?» «Non conosci Sally Norton?» «No. Chi è?» «Non sei mai uscito con lei, e con me e Jean Lane?» «Jean Lane? Ma di che stai parlando?» «Non conosci nemmeno Jean Lane?» «No, non la conosco e la cosa mi diverte sempre di meno. Non so che intenzioni hai, ma vedi di farla finita. Siamo due uomini sposati e...» «Stammi a sentire!» ho quasi urlato nella cornetta. «Dove ti trovavi il sabato sera di tre settimane fa?» È rimasto un attimo in silenzio. «Non è stata la sera in cui tu e io abbiamo fatto gli scapoloni perché Mary e Glad erano andate alla sfilata di moda di...» «Scapoloni! Non c'era nessuno con noi?» «Chi? «Nessuna ragazza? Sally? Jean?»

«Oh, ancora con questa storia» ha borbottato lui. «Senti, amico, cos'è che ti rode? C'è qualcosa che posso fare?» Sono stramazzato contro la parete della cabina telefonica. «No» ho risposto con un filo di voce. «No.» «Sei sicuro di star bene? Mi sembri proprio fuori di te.» Ho riattaccato. Certo che sono fuori di me. Mi sento come uno che sta morendo di fame e in tutto il mondo non c'è un pezzo di pane per nutrirlo. Mercoledì pomeriggio. C'era un solo modo per scoprire se Sally e Jean erano davvero scomparse. Avevo conosciuto Jean attraverso un amico dell'università. Lei era originaria di Chicago, così come il mio amico Dave. È stato lui a darmi il suo indirizzo di New York, il Club Stanley. Naturalmente non avevo detto a Dave che ero sposato. Così mi ero messo in contatto con Jean ed ero uscito con lei, mentre Mike era uscito con la sua amica Sally. È andata così, lo so con certezza. Perciò oggi ho scritto una lettera a Dave. Gli ho raccontato quello che è successo. L'ho pregato di controllare a casa di lei e di rispondermi subito se si trattava di uno scherzo o di una incredibile serie di coincidenze. Poi ho controllato nella mia agenda degli indirizzi. Il nome di Dave è scomparso dall'agenda. Sto veramente diventando pazzo? So benissimo che il suo indirizzo c'era. Ricordo la sera, anni fa, in cui l'ho trascritto con cura perché non volevo perdere il contatto con lui dopo che ci eravamo laureati. Ricordo addirittura la macchia d'inchiostro che ho fatto perché la penna perdeva. La pagina è bianca. Ricordo il suo nome, il suo aspetto, il suo modo di parlare, le cose che facevamo, le lezioni che abbiamo frequentato insieme. Avevo anche una lettera che mi aveva spedito durante una vacanza pasquale, mentre io ero al college. Ricordo che Mike mi era venuto a trovare in camera. Poiché vivevamo a New York non c'era tempo di tornare a casa, visto che le vacanze duravano solo pochi giorni. Ma Dave era tornato a casa a Chicago, e da lì ci aveva scritto una lettera molto buffa, inviata per raccomandata. Ricordo che l'aveva sigillata con la cera e ci aveva impresso sopra il suo anello, per gioco. La lettera è scomparsa dal cassetto in cui l'ho sempre tenuta. E avevo tre fotografie di Dave scattate il giorno della laurea. Due le ho

conservate nell'album. Sono ancora lì... Ma lui non c'è più, sulle foto. Ci sono soltanto immagini del campus con dei palazzi sullo sfondo. Ho paura di continuare a guardare. Potrei scrivere all'università, oppure chiamare e chiedere se Dave ha mai frequentato i loro corsi. Ma ho paura di provarci. Giovedì pomeriggio. Oggi sono stato a Hampstead, a trovare Jim. Sono andato nel suo ufficio. È rimasto sorpreso quando sono entrato. Voleva sapere perché mai avessi fatto tutta quella strada solo per vederlo. «Non dirmi che hai deciso di accettare quell'offerta di lavoro» mi ha detto. Io gli ho chiesto: «Jim, mi hai mai sentito parlare di una ragazza chiamata Jean, di New York?» «Jean? No, non mi ricordo.» «Andiamo, Jim. Te ne ho parlato. Ti ricordi l'ultima volta in cui noi due e Mike abbiamo giocato a poker? È stato allora che ti ho parlato di lei.» «Non me lo ricordo, Bob» ha detto lui. «Che le è successo?» «Non riesco a trovarla. E non riesco a trovare nemmeno la ragazza con cui è uscito Mike, E Mike nega di avere mai conosciuto sia l'una che l'altra.» Sembrava confuso, così gliel'ho ripetuto. A quel punto ha detto: «Ma che storia è questa? Due uomini sposati, maturi, che se la spassano con...» «Erano solo amiche» l'ho interrotto. «Le ho conosciute tramite un compagno dell'università. Non ti fare strane idee.» «D'accordo, d'accordo, lasciamo perdere. Ma io in che modo posso esserti utile?» «Non riesco a trovarle. Sono sparite. Non posso nemmeno dimostrare che siano mai esistite.» Lui ha alzato le spalle. «E con questo?» Poi mi ha domandato se Mary ne sapeva niente. Io ho glissato. «Non ti ho mai parlato di Jean in una delle mie lettere?» gli ho chiesto. «Non saprei dirlo. Non conservo mai le lettere.» Me ne sono andato poco dopo. Stava diventando troppo curioso. È come se lo vedessi. Lui ne parla a sua moglie, sua moglie ne parla a Mary... fuochi d'artificio. Quando sono andato al lavoro, oggi pomeriggio, avevo la spaventosa

sensazione di essere un'entità provvisoria. Quando mi sono messo a sedere era come se fossi sospeso a mezz'aria. Probabilmente sto andando in pezzi. Perché ho urtato di proposito un vecchio per scoprire se mi vedeva o mi sentiva. Quello ha ringhiato qualcosa e mi ha chiamato stupido idiota. Gliene sono stato grato. Giovedì sera. Stasera, al lavoro, ho richiamato Mike per vedere se si ricordasse di Dave, ai tempi dell'università. Il telefono ha squillato a lungo, poi lo squillo si è interrotto con un clic. Si è inserita una centralinista e mi ha chiesto: «Che numero sta chiamando, signore?» Sono stato percorso da un brivido freddo. Le ho detto il numero. Lei mi ha riferito che era inesistente. La cornetta mi è caduta di mano ed è rimbalzata rumorosamente a terra. Mary ha alzato la testa dalla scrivania e mi ha rivolto un'occhiata. La centralinista stava dicendo: «Pronto, pronto, pronto...» Io mi sono affrettato a rimettere la cornetta sulla forcella. «Che è successo?» mi ha chiesto Mary quando sono tornato al mio posto di lavoro. «Mi è caduto il telefono» ho risposto. Mi sono messo a sedere e ho ripreso a lavorare, tremando per il freddo. Ho paura di chiedere a Mary di Mike e di sua moglie Gladys. Ho paura che mi risponderà di non averli mai sentiti nominare. Venerdì. Oggi ho fatto ricerche sul Design Handbook. L'ufficio informazioni mi ha detto che non esiste una rivista con questo nome. Ma sono andato lo stesso in città. Mary se l'è presa per questo, ma io dovevo andarci. Ho raggiunto il palazzo. Ho controllato il citofono. E anche se sapevo che non sarei riuscito a trovare il nome della rivista, è stato ugualmente un brutto colpo, che mi ha fatto sentire male e mi ha tolto ogni energia. Mentre salivo con l'ascensore avevo le vertigini. Mi sentivo come se galleggiassi al di sopra di ogni cosa. Sono uscito al terzo piano, nel punto esatto in cui avevo appuntamento con Jean, quel pomeriggio. C'era una ditta di tessuti.

«Non c'è mai stato un giornale qui?» ho chiesto allo sportello informazioni. «Per quanto ricordi no» ha risposto l'impiegata. «Certo, io lavoro qui solo da tre anni.» Sono tornato a casa. Ho detto a Mary che mi sentivo male e che stasera non avevo voglia di andare al lavoro. Lei mi ha risposto che non c'erano problemi e che sarebbe rimasta con me. Sono andato in camera da letto per starmene da solo. Me ne stavo nel punto esatto in cui sistemeranno il letto nuovo, quando lo consegneranno, la settimana prossima. È entrata Mary. Si è fermata sulla soglia, nervosa. «Bob, che ti prende?» mi ha chiesto. «Non ho il diritto di saperlo?» «Niente.» «Oh, per favore, non rispondermi in questo modo. Lo so che hai qualcosa.» Ho fatto per andare verso di lei. Poi ho cambiato direzione. «Io... io devo scrivere una lettera» ho detto. «A chi?» Mi sono infuriato. «Sono affari miei» ho risposto. Poi le ho detto che volevo scrivere a Jim. Lei si è voltata. «Vorrei poterti credere» ha detto. «Che significa?» le ho domandato. Lei mi ha fissato a lungo e poi si è voltata di nuovo. «Saluta Jim da parte mia» ha concluso, e le tremava la voce. Il modo in cui lo ha detto mi ha fatto rabbrividire. Mi sono seduto e ho scritto la lettera per Jim. Ho deciso che poteva essermi di aiuto. La situazione era troppo disperata per preoccuparmi della riservatezza. Gli ho detto che Mike era scomparso. Gli ho chiesto se si ricordava di Mike. Buffo. La mano non mi tremava quasi per niente. Forse è così che vanno le cose quando stai per scomparire. Sabato. Oggi Mary aveva del lavoro straordinario da sbrigare. È uscita presto. Dopo avere fatto colazione ho tirato fuori il libretto bancario dalla scatola metallica nell'armadietto del bagno. Avevo intenzione di recarmi in banca a ritirare i soldi per pagare il letto. In banca ho compilato un modulo di prelievo per 97 dollari. Poi mi sono messo in fila e alla fine ho consegnato modello e libretto al cassiere.

Lui ha aperto il libretto e ha alzato gli occhi su di me con un'espressione corrucciata. «Secondo lei questo è divertente?» mi ha chiesto. «Che intende, con divertente?» Ha sospinto il libretto verso di me. «Il prossimo» ha detto. Credo di aver gridato. «Che cosa le prende?» Con la coda dell'occhio ho visto un dipendente addetto ai rapporti con la clientela che si alzava e si dirigeva di corsa verso di me. Una donna alle mie spalle ha detto: «Le dispiace farmi passare?» L'uomo è arrivato, in preda a un grande nervosismo. «C'è qualche problema, signore?» mi ha chiesto. «Il cassiere si rifiuta di accettare la mia richiesta di prelievo» gli ho risposto. Lui mi ha chiesto di mostrargli il libretto e io gliel'ho dato. L'ha aperto. Poi ha alzato gli occhi, sbalordito. Ha parlato con calma. «Questo libretto è vuoto» ha detto. Gliel'ho strappato di mano e l'ho guardato, con il cuore che mi batteva all'impazzata. Era completamente nuovo, mai usato. «Oh, mio Dio» ho detto in un gemito. «Magari possiamo controllare il numero del libretto. Perché non si accomoda nel mio ufficio?» Ma sul libretto non c'era nessun numero. L'ho visto. E ho sentito le lacrime che mi salivano agli occhi. «No» ho detto. «No.» L'ho oltrepassato e mi sono diretto verso l'uscita. «Un attimo, signore» mi ha chiamato alle spalle. Sono corso via e ho continuato a correre per tutto il tragitto fino a casa. Ho aspettato nell'atrio che Mary rientrasse. Sto ancora aspettando. Sto guardando il libretto bancario. La riga in cui abbiamo apposto le nostre firme. Gli spazi in cui venivano annotati i nostri depositi. Cinquanta dollari dai suoi genitori in occasione del nostro primo anniversario di matrimonio. Duecentotrenta dollari come dividendo della mia pensione da reduce. Venti dollari. Dieci dollari. Tutto bianco. Sta svanendo tutto. Jean. Sally. Mike. Nomi che svolazzano via, seguiti a ruota dai loro proprietari. Adesso questo. Che altro mi devo aspettare? Più tardi. Lo so.

Mary non è tornata a casa. Ho chiamato in ufficio. Ho sentito Sam rispondere e gli ho chiesto se Mary fosse lì. Mi ha detto che dovevo avere sbagliato numero, perché lì non lavora nessuna Mary. Gli ho spiegato chi ero. Gli ho domandato se io lavorassi lì. «Piantala di fare il buffone» mi ha replicato. «Ci vediamo lunedì sera.» Ho telefonato a mio cugino, a mia sorella, a suo cugino, a sua sorella, ai suoi genitori. Nessuna risposta. Non squillava nemmeno il telefono. Nessuno dei numeri funzionava. Quindi sono spariti tutti. Domenica. Non so che cosa fare. Me ne sono stato seduto in salotto tutto il giorno, con gli occhi fissi sulla strada. Ho guardato per vedere se qualcuno che conoscevo capitava dalle parti di casa. Non è successo. Tutti sconosciuti. Ho paura di uscire. La casa è tutto quello che mi rimane. I nostri mobili e i nostri vestiti. I miei vestiti, per essere preciso. L'armadio di Mary è vuoto. Ci ho guardato dentro stamattina quando mi sono svegliato e non c'era uno straccio di vestito. È come un tocco di bacchetta magica, scompare tutto. È come... Mi sono messo a ridere. Devo essere... Ho chiamato il negozio di mobili. La domenica pomeriggio è aperto. Mi hanno detto che non gli risultava l'acquisto di un letto da parte nostra. Posso andare a controllare, se voglio. Ho riattaccato e ho guardato un altro po' fuori dalla finestra. Ho pensato di chiamare mia zia a Detroit. Ma non mi ricordo il numero. E non è più nella mia rubrica. È completamente vuota. A parte il mio nome sulla copertina, a caratteri dorati. Il mio nome. Solo il mio nome. Che posso dire? Che posso fare? È tutto così semplice. Non c'è niente che possa fare. Ho dato un'occhiata al mio album di fotografie. Sono quasi tutte diverse. Dentro non ci sono persone. Mary è scomparsa, insieme a tutti i nostri parenti e amici. È strano. Nella foto ricordo del matrimonio me ne sto seduto tutto solo accanto a un tavolo pieno di cibo. Il braccio sinistro sporge all'infuori, tutto piegato, come se stessi abbracciando mia moglie. E intorno al tavolo ci sono bicchieri che galleggiano in aria. Brindano a me.

Lunedì mattina. Mi è appena tornata indietro la lettera che ho scritto a Jim. Sulla busta c'è scritto INDIRIZZO INESISTENTE. Ho cercato di raggiungere il postino ma non ci sono riuscito. Evidentemente è passato prima che mi svegliassi. Sono andato alla drogheria. Il titolare mi ha riconosciuto, ma quando gli ho chiesto di Mary mi ha detto di farla finita con gli scherzi. Morirò scapolo, lo sappiamo tutti e due. Ho una sola idea nuova. È un rischio, ma devo correrlo. Uscirò di casa e mi recherò all'Ufficio dei Reduci. Voglio controllare se c'è ancora la mia documentazione. Se c'è, avranno qualcosa sui miei studi e sul mio matrimonio e sulle persone che sono entrate nella mia vita. Porto con me questo diario. Non voglio perderlo. Se lo perdessi, allora non mi resterebbe niente al mondo per ricordarmi che non sono pazzo. Lunedì sera. La casa è sparita. Sono seduto nel negozio di dolciumi all'angolo. Appena tornato dall'Ufficio Reduci ho trovato un lotto di terreno vuoto. Ho chiesto a qualcuno dei ragazzi che giocavano lì se mi conoscevano. Hanno risposto di no. Gli ho chiesto che cosa fosse successo alla casa. Hanno detto che giocavano in quello spiazzo vuoto fin da quando erano bambini. L'Ufficio Reduci non ha nessuna documentazione su di me. Niente di niente. Questo significa che adesso non sono nemmeno una persona. Sono tutto quello che mi è rimasto, il mio corpo e i vestiti che porto addosso. Tutti i documenti di identità sono scomparsi dal portafoglio. È scomparso anche il mio orologio. Proprio così. È scomparso dal polso e basta. Sul retro c'era un'iscrizione. Me la ricordo. Al mio maritino con tutto il mio amore. Mary. Sto bevendo una tazza di caf La legione dei cospiratori Poi c'era quello che tirava sempre su col naso. Si metteva a sedere sull'autobus accanto al signor Jasper. Tutte le matti-

ne saliva brontolando dalla porta anteriore e percorreva il corridoio per andarsi a sistemare a fianco della figura esile del signor Jasper. E... sniff! cominciava, mentre sfogliava il giornale del mattino... sniff, sniff! Il signor Jasper si sentì aggricciare. E si domandò come mai quell'uomo continuasse a sedersi sempre vicino a lui. C'erano tanti posti liberi, ma lui posava invariabilmente la sua mole corpulenta su quello accanto al suo e non faceva che tirare su col naso, estate e inverno. Non dipendeva dal tempo. A Los Angeles certe mattine erano fredde, su questo non c'erano dubbi, ma certamente non giustificavano quel rumore continuo, quasi da tubercolotico, che emetteva dal naso. Il signor Jasper non lo sopportava proprio. Aveva fatto diversi tentativi per tenersi lontano dal raggio d'azione di quel naso. All'inizio si era spostato due sedili più indietro rispetto a quello che occupava solitamente, ma l'uomo lo aveva seguito. Capisco, pensò il signor Jasper, già indispettito, quello è abituato a sedersi accanto a me e non si è accorto che ho cambiato posto. Il giorno seguente il signor Jasper sedette dalla parte opposta del corridoio, osservò l'altro con trepidazione mentre trascinava il suo corpo massiccio e si raggelò quando lo vide sprofondare con tutto il suo abito di tweed proprio vicino a lui. Infuriato, girò gli occhi verso il finestrino. Sniff! - come se nulla fosse - Sniff! Sniff! e la dentiera del signor Jasper cominciò a emettere un minaccioso stridore di porcellana. Il giorno seguente si sistemò verso il fondo. L'uomo sedette accanto a lui. Il giorno dopo ancora scelse un posto sul davanti, e si ritrovò sempre in compagnia dell'altro. Per quasi due chilometri sopportò con malcelata pazienza e quando non ce la fece più si girò verso il suo persecutore. «Perché mi segue?» gli chiese, con voce tremula e lamentosa. Lo colse di sorpresa, proprio mentre stava tirando su col naso. L'altro si limitò a rivolgergli un'occhiata bovina, senza capire. Allora il signor Jasper si alzò e percorse tutto l'autobus, fermandosi sul fondo. Rimase lì, appeso alla sbarra di sostegno, con lo sguardo impietrito. Rimuginò sul modo in cui lo aveva fissato quell'idiota maleducato. Era insopportabile. Come se fosse stato lui, invece, a comportarsi in modo impertinente! Be', almeno si era momentaneamente liberato di quel naso gocciolante. Tranquillizzato, rilassò i muscoli contratti e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Il ragazzino che stava in piedi accanto a lui fischiettò per ventitré volte il

ritornello di Dixie. Il signor Jasper vendeva cravatte. Era un lavoro sottoposto a infinite angherie, un lavoro che avrebbe fatto venire l'ulcera a chiunque non avesse uno stomaco a prova di bomba. Le pareti dello stomaco del signor Jasper erano della qualità più suscettibile. Erano quotidianamente sollecitate dalle preoccupazioni, dalle contrarietà e dalle donne. Donne che si trattenevano a tastare lana, cotone e seta e poi se ne andavano senza comprare niente. Donne che mettevano a dura prova l'indole eccitabile del signor Jasper con mille domande e altrettante chiacchiere e che alla fine non lasciavano soldi, ma solo un signor Jasper sempre più livido, sempre più vicino all'inevitabile esplosione. In presenza di ogni cliente difficile, la mente del signor Jasper escogitava una gran quantità di battute pungenti, una più cattiva dell'altra. E aveva una gran voglia di sputarle fuori, di riversarle come ondate bollenti di acido in faccia alle donne. Ma la minaccia che entrasse un altro cliente o un addetto ai controlli del grande magazzino era sempre viva. S'impadroniva della sua mente con spettrale efficacia, gli incatenava la lingua bramosa di esprimersi, gli calcificava le ossa con una rabbia non sfogata. E poi c'erano le donne che incontrava alla mensa del grande magazzino. Mentre mangiavano non facevano che parlare, e fumavano e soffiavano nuvole di nicotina nei suoi polmoni proprio mentre cercava di riempirsi lo stomaco ulcerato con un piatto di zuppa al pomodoro. Puff! facevano le signore, e agitavano le mani graziose per disperdere il fumo indesiderato. Il signor Jasper se lo beccava tutto. Con gli occhi irritati cercava di allontanarlo, ma le donne gliene rimandavano dell'altro. E così il fumo continuava a circolare fino a disperdersi nell'aria, o a venire rimpiazzato da altre, più intense esalazioni. Puff! Il signor Jasper, fra una cucchiaiata e l'altra, continuava ad agitare le mani e intanto il suo stomaco era tormentato dagli spasmi. L'acido tannico del suo tè serviva a ben poco, per alleviare il bruciore delle sue viscere. Alla fine pagava i suoi quaranta centesimi con dita tremanti e quando se ne tornava a lavorare era un uomo a pezzi. E ad aspettarlo c'era la prospettiva di un intero pomeriggio fatto di lamentele, richieste, manipolazione di merce e, ciliegina sulla torta, della cassiera che masticava gomma come se volesse farsi sentire all'altro capo

dell'oceano. I risucchi e gli scoppi e i masticamenti facevano venire il mal di pancia al signor Jasper, che in genere se ne stava immobile come una statua frastornata e solo ogni tanto esplodeva con un violento: «Piantala con quel rumore disgustoso!» La vita era piena di problemi. Poi c'erano i vicini, quelli che abitavano di sopra e sullo stesso piano. La società degli altri, quella specie di società segreta da cui il signor Jasper si ritrovava sempre circondato. Quella gente costituiva un'unità. Nel loro comportamento c'era una costante, una linea di condotta ben precisa. Consisteva nel camminare con passo pesante, nello spostare i mobili con prolungata frequenza, nel tenere feste affollate e rumorose una sera sì e una sera no, alle quali invitavano soltanto persone che indossavano stivali chiodati e che ballavano la tarantella. E ancora nel discutere su ogni argomento ad alta voce, nell'ascoltare solo musica country su una radio la cui manopola del volume era invariabilmente regolata sul massimo. Nell'avere bambini da due a dodici mesi che disponevano di polmoni simili a mantici, e che tutte le mattine ne davano testimonianza mettendosi a strepitare come le sirene della contraerea. L'attuale nemesi del signor Jasper era Albert Radenhausen junior, sette mesi, i cui polmoni incredibilmente resistenti si esprimevano al meglio fra le quattro e le cinque del mattino. Il signor Jasper si ritrovava a rotolarsi sulla schiena rachitica nell'appartamento di due stanze ammobiliato, triste e buio. Si ritrovava a fissare il soffitto, in attesa di quel suono. Era arrivato al punto in cui il cervello lo distoglieva dal meritato sonno esattamente dieci secondi prima delle quattro del mattino. Se Albert Radenhausen junior decideva di continuare a dormire, ciò non procurava alcun beneficio al signor Jasper, che rimaneva sveglio ad aspettare i suoi strilli. Cercava di dormire, ma la concentrazione forzata lo portava a desiderare, se non proprio il pianto tanto atteso, almeno la presenza di altri rumori che gli molestassero le orecchie ipersensibili. Una macchina che tossicchia per la strada, lo sbatacchiare di una veneziana, un suono di passi solitari in qualche parte del palazzo, lo sgocciolio di un rubinetto, l'abbaiare di un cane, il frinire dei grilli, lo scricchiolio del legno: il signor Jasper non poteva controllare tutto. E tutte quelle occasioni di rumore che non era in grado di combattere o evitare, o alle quali non sa-

peva adattarsi, continuavano a tormentarlo. Non riusciva a chiudere occhio finché non sentiva il rumore, e se ne stava lì ad aspettare con i pugni stretti sui fianchi. Il sonno si faceva sempre beffe di lui. Si rigirava, scalciava via lenzuola e coperte e poi si metteva seduto al buio, intontito, aspettando che Albert Radenhausen junior desse sfogo alle sue velleità canore. Solo allora riusciva a sdraiarsi di nuovo. E al buio la sua mente analizzava, formulava teorie. Troppa sensibilità? si domandava. Lo nego con tutte le forze. Sono una persona normale, consapevole, si rispondeva il signor Jasper. Ho le orecchie, e dunque posso sentire, no? C'era da insospettirsi. Il signor Jasper non avrebbe saputo dire in quale, fra le tante mattine stralunate, gli fosse venuta l'idea. Ma una volta venuta, non l'abbandonò più. Anche se col passare dei giorni i contorni diventavano più indistinti, la sostanza rimaneva ben chiara. Ogni tanto, quando era costretto a digrignare i denti per non impazzire, gli tornava alla mente. Altre volte restava semplicemente una vaga sequenza di sensazioni che scorrevano in superficie. Però l'idea aveva fatto presa. Tutte quelle cose che gli accadevano erano soggettive o oggettive? Erano dentro o fuori di lui? Sembravano accumularsi sempre di più, e ogni dettaglio andava al suo posto, finché la somma delle provocazioni lo faceva quasi uscire di senno. Come se fossero fatte con una volontà precisa. Come se... Come se facessero parte di un progetto vero e proprio. Il signor Jasper fece delle prove. L'attrezzatura iniziale era composta da un blocco di carta a righe e da una penna a sfera. L'approccio di partenza consisteva nel registrare i diversi motivi di irritazione e l'ora in cui sì verificavano, il luogo, il sesso del responsabile e la grandezza relativa del fastidio; quest'ultimo aspetto era tradotto in numeri che andavano da 1 a 10. Esempio numero uno, annotato alla bell'e meglio mentre era ancora mezzo addormentato. Bambino che piange, 4,52 matt., appartamento a fianco, maschio, 7. Dopo questa annotazione, il signor Jasper si lasciò andare sul cuscino appiattito e sospirò, quasi soddisfatto. Aveva rotto gli indugi. Entro pochi giorni avrebbe saputo con certezza se la sua strana teoria aveva un fonda-

mento. Prima di uscire di casa, alle otto e diciassette del mattino, il signor Jasper aveva registrato altre tre annotazioni, cioè: Forte tonfo sul pavimento, 6,33 matt., appartamento di sopra, maschio (forse), 5. Rumore di traffico, 7,00 matt., esterno, maschi, 6. Radio ad alto volume, 7,40 matt, appartamento di sopra, femmina, 7. Un altro aspetto piuttosto insolito dei suoi sforzi gli venne alla mente poco prima di lasciare il piccolo appartamento. Si trattava, in breve, del fatto che con questo semplice espediente di mettere per iscritto gli eventi, era riuscito a scaricare gran parte della sua irritabilità. Non che i diversi rumori non gli avessero fatto digrignare i denti o stringere le mani sui fianchi, questo no. Però la trasformazione di una amorfa vessazione in uno stringato memorandum gli era stata comunque d'aiuto. Era una sensazione strana, ma piacevole. Il viaggio in autobus gli fornì altre osservazioni. L'uomo che tirava su col naso si guadagnò subito un'annotazione. Ma non appena sistemato l'irritante vicino, il signor Jasper registrò con apprensione il rapido accumularsi di altri quattro motivi di fastidio. Dovunque andasse sull'autobus trovava subito lo spunto per prendere carta e penna e aggiornare il suo diario. Alito che puzza d'aglio, 8.27 matt., autobus, maschio, 7. Spintoni e gomitate, 8,28 matt., autobus, entrambi i sessi, 8. Piedi pestati senza scusarsi, 8,29 matt., autobus, donna, 9. Autista che mi dice di andare sul retro, 8,33 matt., autobus, maschio, 9. A questo punto il signor Jasper si ritrovò di nuovo accanto all'uomo con lo strano raffreddore. Non tirò fuori il blocco, si limitò a chiudere gli occhi e a stringere i denti con amarezza. Più tardi cancellò il voto che gli aveva assegnato in origine. 10! scrisse, infuriato. A pranzo, fra una seccatura e l'altra, il signor Jasper, con l'espressione indignata e lo sguardo itterico, si sforzò di mettere ordine nei suoi appunti. 1. Almeno un motivo di irritazione ogni cinque minuti (dodici all'ora). A intervalli non regolari. A volte due nello stesso minuto. Furbo. È un tentativo di mettermi fuori strada interrompendo la continuità. 2. Ognuna delle dodici irritazioni è peggiore della precedente. L'ultima mi fa quasi esplodere dalla rabbia. TEORIA: disponendo i motivi di irritazione in modo che ognuno di essi

sia sempre più grave di quello che viene prima, il motivo finale ha dunque lo scopo di provocare il massimo impatto nervoso. Ovvero, vogliono farmi impazzire! Rimase seduto, mentre la zuppa si raffreddava, con negli occhi l'eccitazione dello scienziato che sta per fare una grande scoperta, mentre la voglia di capire gli faceva ribollire il sistema nervoso. Sì, santo cielo, sì, sì, sì!. Ma doveva esserne certo. Finì di mangiare, ignorando il fumo e il chiacchiericcio e il cibo disgustoso. Tornò al bancone e trascorse un sereno pomeriggio annotando in tutta fretta altre osservazioni nel suo diario delle seccature. Il sistema quadrava. Resisteva anche alle prove più oggettive. Un'irritazione ogni cinque minuti. Alcune, naturalmente, erano così impercettibili che solo un uomo animato da una forte motivazione come il signor Jasper, con la sua sensibilità esasperata, poteva accorgersene. Si trattava di irritazioni volutamente ridotte al minimo. E in modo astuto, si rese conto il signor Jasper. Minimizzate allo scopo di confonderlo. Be', lui non si sarebbe fatto confondere. Cassetto delle cravatte rovesciato, 1,18 pom., negozio, femmina, 7. Mosca che cammina sulla mano, 1,43 pom., negozio, femmina (?), 8. Rubinetto in bagno che mi schizza sul vestito, 2,19 pom., negozio, (sesso?), 9. Rifiuto di comprare cravatta perché strappata, 2,38 pom., negozio, DONNA, 10. Ecco alcune annotazioni tipiche di quel pomeriggio. Vennero messe per iscritto con bellicosa soddisfazione da un signor Jasper tremante. Un signor Jasper la cui incredibile teoria stava trovando conferma. Verso le tre decise di eliminare i voti dall'uno al cinque, visto che nessuna provocazione era così innocua da poter essere giudicata con tanta indulgenza. Alle quattro aveva eliminato tutti i voti, a parte il 9 e il 10. Alle cinque stava seriamente prendendo in considerazione un nuovo sistema di giudizio che cominciava da 10 e arrivava fino a 25. Il signor Jasper aveva programmato di prendere annotazioni per almeno una settimana, prima di organizzare un piano di difesa. Ma in qualche modo le contrarietà della giornata lo avevano infiacchito. Si accalorò sempre

più mentre scriveva e la sua calligrafia divenne meno leggibile. Alle undici di quella sera, quando i suoi vicini di casa ripresero fiato e ravvivarono la festa con un grande scroscio di risate, il signor Jasper scaraventò il suo blocco contro il muro con una bestemmia soffocata e rimase lì a tremare come una foglia. Non c'erano più dubbi. Ce l'avevano con lui. Immaginiamo, pensò, che nel mondo esista una legione segreta. E che la sua missione principale sia quella di farmi uscire di senno. Era possibile perpetrare un piano così insidioso senza che nessuno lo venisse a sapere? Erano in grado di organizzare le loro piccole intrusioni per farlo impazzire in modo così abile da dare sempre l'impressione che fosse lui in torto? Che fosse solo un ometto portato dalla sua ipersensibilità a vedere un intento malizioso in qualsiasi irritazione accidentale? Era possibile tutto questo? Sì. La sua mente valutò a lungo quell'ammissione. Era concepibile, fattibile, possibile e, perbacco, lui ci credeva! Perché no? Non poteva forse esistere una grande, sinistra legione di gente che si riuniva segretamente in qualche sotterraneo a lume di candela? E che se ne stava lì in attesa, con gli occhi come carboni accesi, a meditare intenzioni scellerate mentre il loro capo esponeva nuovi piani per trascinare il signor Jasper nell'inferno della pazzia? Ma certo! L'agente X veniva incaricato di sedere al cinema proprio dietro di lui e di mettersi a chiacchierare durante i momenti del film che appassionavano di più il signor Jasper, di schiacciare i bicchieri di carta a intervalli regolari, di masticare popcorn in modo rumoroso fino a quando il signor Jasper si alzava infuriato e andava a cercarsi un altro posto. Dove sarebbe subentrato l'agente Y con caramelle, confezioni di biscotti e starnuti rumorosi. Possibile. Più che possibile. Poteva andare avanti per anni, senza che lui ne sospettasse l'esistenza. Un intrigo sottile e diabolico quasi impossibile da scoprire. Ma adesso, alla fine, era stato smascherato, mostrato in tutta la sua nuda, agghiacciante realtà. Il signor Jasper rifletteva, sdraiato sul letto. No, pensò, con quel poco di raziocinio che gli rimaneva, è un'idiozia. Non sta proprio in piedi. Perché mai qualcuno dovrebbe fare queste cose? Era la prima domanda che doveva porsi. Che motivo avevano per farlo?

Non era assurdo pensare che tutte quelle persone ce l'avessero con lui? Da morto il signor Jasper non valeva più nulla. La sua assicurazione da duemila dollari, suddivisa fra una sterminata legione di cospiratori nascosti, si sarebbe certamente ridotta a pochi centesimi a testa. Anche se l'avessero costretto a nominarli tutti come suoi beneficiari. Perché allora il signor Jasper si ritrovò a dirigersi sgomento verso il cucinotto? Perché vi rimase così a lungo, soppesando sulla mano il grosso coltello per trinciare? E perché tremava quando pensò alla sua idea? Forse perché era vera. Prima di andare a dormire, il signor Jasper infilò il coltello nella custodia di cartone. Poi, in modo quasi automatico, si scoprì a nasconderlo nella tasca interna della giacca. Sdraiato nell'oscurità, con gli occhi spalancati, il petto scavato che si alzava e si abbassava irregolarmente, inviò il suo fievole ultimatum alla legione. Sempre che esistesse. «Se ci siete, non ho più intenzione di aspettare.» Fu poi la volta di Albert Radenhausen junior, di nuovo alle quattro del mattino. Sorprese il signor Jasper praticamente quasi sveglio, e alimentò l'ennesima esplosione del suo già infiammato sistema nervoso. Si aggiunsero il rumore di passi, le macchine che strombazzavano, i cani che abbaiavano, le veneziane che sbattevano, il rubinetto che gocciolava, il cuscino troppo piatto, le coperte aggrovigliate e il pigiama che gli stava stretto. E poi il mattino con le fette di pane bruciacchiate e il caffè cattivo e la radio a tutto volume dal piano di sopra e il laccio della scarpa che si ruppe. A quel punto il corpo del signor Jasper si gonfiò di una rabbia inesprimibile: si mise a gemere, a ringhiare, i muscoli si irrigidirono, le mani tremarono e per poco non scoppiò a piangere. Scosso da una violenta crisi di nervi, si era dimenticato il blocco e la lista. Gli rimaneva solo una cosa: l'autodifesa. Perché a quel punto il signor Jasper sapeva con certezza che c'era davvero una legione di cospiratori; e sapeva anche che la legione stava raddoppiando gli sforzi proprio per il fatto che lui sapeva e avrebbe reagito. Lasciò di corsa l'appartamento e si precipitò in strada, con la mente in subbuglio. Doveva assumere il controllo, doveva farlo! Era il momento decisivo, l'ora di dare il meglio di sé. Se avesse permesso agli eventi di seguire il loro corso senza far nulla per impedirlo, allora sarebbe giunta la pazzia e la legione avrebbe avuto la sua vittima. Autodifesa.

Aspettò, pallido e tremante, alla fermata dell'autobus, cercando di resistere a tutti i costi. Lascia perdere lo scarico rumoroso di quella macchina! Dimentica la risatina stridula della donna poliziotto. Ignora il crescendo inarrestabile dei tuoi nervi scossi. Non vinceranno! La sua mente era come una molla sotto tensione, in attesa. Il signor Jasper era sicuro di farcela. Sull'autobus, il naso di quell'uomo tirava su più forte che mai, i passeggeri lo urtavano da tutte le parti e il signor Jasper emise un rantolo e si rese conto che da un momento all'altro si sarebbe messo a urlare, e a quel punto la cosa sarebbe successa. Sniff, sniff! continuò imperterrito quell'uomo. SNIFF! Il signor Jasper si allontanò, teso come una corda di violino. Non aveva mai tirato su in quel modo. Faceva parte del piano. La sua mano risalì dentro la giacca e accarezzò il coltello che teneva in tasca per tutta la sua solida lunghezza. Cercò di farsi strada in mezzo alla ressa di pendolari. Qualcuno gli pestò un piede. Soffiò come un serpente. Gli si ruppe di nuovo il laccio della scarpa. Si chinò per sistemarlo e si beccò una ginocchiata sulla testa. Si raddrizzò a fatica nell'autobus ondeggiante, soffocando un'imprecazione dietro le labbra serrate e livide. Gli restava un'ultima speranza. Poteva fuggire? La domanda sollecitò i suoi sensi. Un nuovo appartamento? Si era già trasferito altre volte. Con quello che guadagnava poteva escludere che avrebbe trovato di meglio. E si sarebbe ritrovato fra i piedi sempre lo stesso genere di vicini. Una macchina invece dell'autobus? Non se la poteva permettere. Lasciare il suo lavoro da quattro soldi? Ma qualsiasi lavoro nel campo della vendita era altrettanto squallido; e poi era l'unica cosa che sapeva fare, ed era già avanti con gli anni. Anche se avesse cambiato qualcosa - qualunque cosa - la legione avrebbe continuato a dargli la caccia, trascinandolo senza pietà di tensione in tensione fino all'inevitabile crollo finale. Era in trappola! E all'improvviso, in mezzo a tutta quella gente che lo fissava, il signor Jasper vide davanti a sé: vide le ore, i giorni, gli anni... una serie snervante di fastidi, di arrabbiature e di provocazioni che gli avrebbero logorato la mente. Per poco non gli si drizzarono i capelli sulla testa quando si rese conto che anche i passeggeri dell'autobus erano membri della legione. E lui stava lì, indifeso in mezzo a loro, una pedina da spostare secondo il loro sadico

capriccio. I suoi diritti, la sua stessa sacralità di individuo, erano in balia delle loro perfide cospirazioni. «No!» esclamò, rivolto a tutti loro. E la mano volò sotto la giacca come un uccello in cerca di vendetta. E la lama scintillò e la legione indietreggiò urlando mentre il signor Jasper si lanciava in avanti per combattere la sua guerra in difesa della sanità mentale. UN UOMO ACCOLTELLA SEI PERSONE SU UN AUTOBUS AFFOLLATO: ABBATTUTO DALLA POLIZIA Ignoti i motivi che lo hanno spinto a questa strage assurda. Una chiamata da lontano Poco prima che squillasse il telefono, una raffica di vento schiantò l'albero di fronte alla sua finestra, e svegliò bruscamente la signorina Keene da un sonno pieno di sogni. Si tirò su ansimando e stringendo fra le fragili mani le lenzuola annodate. Dentro il petto magro il cuore pulsava forte, e il sangue solitamente pigro circolava più rapido del consueto. Restò seduta, muta e immobile, con gli occhi che fissavano la notte. Dopo un secondo il telefono squillò di nuovo. Chi sarà mai? La domanda le si formò nel cervello senza che lei lo volesse. La mano scarna brancolò nel buio, le dita frugarono per un istante e poi Elva Keene portò all'orecchio la cornetta fredda. «Pronto» disse. Di fuori un tuono che sembrava un colpo di cannone scosse la notte, facendo fremere le gambe paralizzate della signorina Keene. Non ho sentito la voce, si disse. Il tuono l'ha coperta. «Pronto» ripeté. Non sentì nulla; attese comunque, incuriosita ma ancora poco reattiva. Poi ripeté per la terza volta: «Prooonto» con voce già meno sicura. Il fulmine colpì di nuovo. Ancora nessuna voce, nemmeno il rumore di un telefono che veniva riattaccato. Allungò la mano tremante e sbatté giù la cornetta con un gesto irritato.

«Maleducato» farfugliò, lasciandosi cadere pesantemente sul cuscino. La schiena inferma le doleva già per lo sforzo di stare eretta. Si lasciò sfuggire un sospiro di sfinimento. Adesso avrebbe dovuto ricominciare da capo la logorante procedura di riprendere sonno: ricomporre i muscoli spossati, ignorare il dolore strisciante alle gambe, affrontare una lotta impari e sfibrante per chiudere il rubinetto del cervello e impedire ai pensieri indesiderati di gocciolarvi dentro. Oh, be', tanto doveva farlo. L'infermiera Philips insisteva sempre sulla necessità del riposo. Elva Keene emise un respiro lento e profondo, si tirò le coperte fino al mento e si diede da fare per riaddormentarsi. Inutile. Aprì gli occhi, si girò verso la finestra e vide il temporale che si allontanava, muovendosi sui fulmini come se fossero gambe. Perché non riesco a dormire? rimuginò. Perché devo sempre restarmene sveglia in questo modo? Ma già conosceva la risposta. Quando si vive una vita così opaca, anche il più piccolo elemento di novità sembra molto eccitante. E la vita, per la signorina Keene, consisteva nella triste ripetitività dello stare sdraiata o appoggiata sui cuscini, a leggere i libri che l'infermiera Phillips le portava dalla biblioteca comunale, a nutrirsi, riposare, curarsi, ascoltare la minuscola radio... e aspettare, aspettare che succedesse qualcosa di diverso. Come una telefonata che non era una telefonata. Non aveva sentito il rumore della cornetta appoggiata sulla forcella. La signorina Keene non riusciva a capire. Perché mai qualcuno doveva chiamarla per poi ascoltarla in silenzio mentre ripeteva 'pronto'? Ma era poi sicura che qualcuno avesse davvero chiamato? Capì in ritardo che avrebbe dovuto restare in ascolto finché l'altro non si fosse stancato dello scherzo e avesse interrotto la comunicazione. Avrebbe dovuto farsi coraggio e insultarlo, per quella stupida telefonata a una donna paralizzata nel cuore di una notte tempestosa. E a quel punto, se c'era qualcuno all'altro capo del filo, chiunque fosse, sarebbe rimasto mortificato dalle sue parole irate e... «Ma certo.» Lo disse a voce alta, nel buio, sottolineando l'affermazione con un rumorino della bocca che rivelava allo stesso tempo sollievo e irritazione. Ma certo, mancava la linea. Qualcuno aveva cercato di mettersi in contatto con lei, forse l'infermiera Philips, per accertarsi che stesse bene. Poi, in un modo o nell'altro, il contatto doveva essersi interrotto, facendo squillare il suo

telefono ma senza consentire alcuna comunicazione verbale. Ma certo, doveva essere proprio così. La signorina Keene annuì una volta e chiuse lentamente gli occhi. E adesso dormi, si disse. In lontananza, ai confini della contea, il temporale si stava schiarendo rumorosamente la gola. Spero che nessuno si stia preoccupando, pensò Elva Keene. Sarebbe spiacevole. Era ancora immersa nei suoi pensieri quando il telefono squillò di nuovo. Ecco, si disse, stanno tentando ancora di chiamare. Si affrettò ad allungare la mano verso l'apparecchio, trovò la cornetta e se la portò all'orecchio. «Pronto» disse. Silenzio. Le si contrasse la gola. Naturalmente sapeva come stavano le cose, ma non le piaceva lo stesso, non le piaceva affatto. «Pronto?» ripeté, esitante, con il forte dubbio che stesse sprecando fiato. Non ci fu risposta. Attese un attimo, poi parlò per la terza volta, ora un po' più impaziente. Il suo tono stridulo echeggiò nella stanza buia. «Pronto!» Niente. La signorina Keene provò l'impulso improvviso di gettare via la cornetta. Soffocò quel curioso istinto... no, doveva aspettare, aspettare e ascoltare se qualcuno riattaccava dall'altra parte. Così aspettò. Adesso la stanza era silenziosa, ma Elva Keene continuò a tendere l'orecchio; magari il suono di una linea che veniva interrotta o il ronzio che di solito lo seguiva. Il suo petto si alzava e si abbassava lentamente. Chiuse gli occhi per concentrarsi, poi li riaprì e batté le palpebre nel buio. Dal telefono non proveniva nessun suono, non un clic, non un fruscio, nemmeno lo scatto del telefono riabbassato. «Pronto!» gridò all'improvviso, poi sbatté giù la cornetta. Mancò il bersaglio. La cornetta cadde e rimbalzò sul tappeto. La signorina Keene accese nervosamente la lampada, socchiudendo gli occhi quando la luce odiosa le ferì la vista. Si piegò subito di lato e cercò di afferrare la cornetta silenziosa. Ma per quanto si allungasse non riuscì a raggiungerla e le sue gambe storpie le impedivano di alzarsi. Provò un senso di soffocamento. Buon Dio, doveva lasciarla lì tutta la notte, silenziosa e ingannevole? A quel punto ricordò: allungò di scatto la mano e premette la forcella.

Sul pavimento la cornetta fece clic e ricominciò a emettere il suo consueto rumore. Elva Keene deglutì e respirò a fondo mentre tornava a sdraiarsi contro il cuscino. Allora cercò ogni aggancio con la razionalità per combattere il panico. Tutto questo è ridicolo, pensò. Agitarsi per un incidente così banale e facilmente spiegabile. Tutta colpa del temporale, del buio e del modo brusco in cui mi sono svegliata. (Ma che cos'è, poi, che mi ha svegliata?) Tutto questo aggiunto all'esasperante monotonia della mia vita. Sì, è stato brutto, molto brutto. Ma non era stato l'incidente a metterla in agitazione. Era stata la sua reazione. La signorina Elva Keene si costrinse a evitare ulteriori riflessioni. Adesso devo dormire, ordinò al suo corpo, preda di un capriccioso tremore. S'immobilizzò e cercò di rilassarsi. Sentiva provenire dal pavimento il suono del telefono, simile al ronzio di uno sciame di api lontane. Lo ignorò. La mattina dopo, di buon'ora, quando l'infermiera Philips ebbe portato via i piatti della colazione, Elva Keene chiamò la compagnia dei telefoni. «Sono la signorina Elva» disse alla centralinista. «Oh, sì, signorina Elva» replicò la donna, una certa signorina Finch. «Posso esserle utile?» «Stanotte il mio telefono ha squillato due volte» aggiunse Elva Keene «ma quando ho risposto nessuno ha parlato. E non ho sentito mettere giù la cornetta. Non ho sentito nemmeno il segnale di linea... solo silenzio.» «Be', le dirò una cosa, signorina Keene» le spiegò la voce allegra della signorina Finch. «Il temporale di stanotte ci ha creato un sacco di problemi. Siamo inondati da richieste per linee interrotte e collegamenti difettosi. Secondo me lei è già fortunata che il suo telefono funzioni.» «Allora lei pensa che si sia trattato di un collegamento difettoso?» chiese subito la signorina Keene. «Causato dal temporale?» «Oh, certo, signorina Elva, nient'altro.» «Crede che potrà capitare di nuovo?» «Oh, può darsi» rispose la signorina Finch. «Può darsi che capiti di nuovo. Non saprei cosa dirle con precisione, signorina Elva. Ma se succedesse, mi richiami e farò venire uno dei nostri tecnici a controllare.» «Va bene» disse la signorina Elva. «Grazie, cara.» Restò abbandonata sul letto per tutta la mattina in una specie di rilassato languore. Ci si sente soddisfatti, pensò, quando si risolve un mistero, per

quanto piccolo come questo. È stato un violento temporale che ha disturbato il collegamento. E non c'è da stupirsi, visto che ha buttato giù quella vecchia quercia a fianco della casa. È stato quello il rumore che mi ha svegliata, naturalmente, e mi è dispiaciuto tanto per quell'albero a cui ero così affezionata. Nei caldi mesi estivi dava una bella ombra alla casa. Oh, be ', ma forse devo ringraziare il cielo che l'albero sia caduto sulla strada e non addosso alla casa. Il giorno trascorse senza sussulti in occupazioni non esaltanti: mangiare, leggere Angela Thirkell, la posta (due volantini pubblicitari gettati via subito e la bolletta della luce), oltre a qualche scambio di parole con l'infermiera Philips. La vita era tornata del tutto normale, al punto che, quando quella sera il telefono squillò presto, lei lo sollevò senza nemmeno pensarci. «Pronto» disse. Silenzio. Per un attimo ripensò alla notte prima. Poi chiamò l'infermiera Philips. «Che c'è?» chiese quell'armadio di donna mentre arrancava lungo il tappeto della camera da letto. «È quello di cui le parlavo» rispose Elva Keene, porgendole il telefono. «Ascolti.» L'infermiera Philips prese la cornetta e l'appoggiò all'orecchio, scostando le ciocche grigie. Il suo volto placido rimase placido. «Non c'è nessuno» commentò. «Proprio così» disse la signorina Keene. «Adesso si limiti ad ascoltare e cerchi di sentire se qualcuno riattacca. Sono sicura di no.» L'infermiera Philips ascoltò per qualche secondo, poi scosse la testa. «Non sento niente» disse e riattaccò. «Oh, aspetti!» si affrettò a dire la signorina Keene. «Be', non importa» aggiunse poi, quando si accorse che era troppo tardi. «Se succederà ancora, chiamerò la signorina Finch e mi manderanno un tecnico per dare una controllata.» «Capisco» disse l'infermiera e se ne tornò in salotto. L'infermiera Philips se ne andò alle otto lasciando sul comodino, come al solito, una mela, un dolce, un bicchiere d'acqua e la boccetta delle pillole. Sprimacciò i cuscini dietro la fragile schiena della signorina Keene, sistemò la radio e il telefono un po' più vicini al letto, si guardò intorno compiaciuta e si diresse verso la porta, dicendo: «Ci vediamo domani.»

Erano trascorsi appena quindici minuti quando il telefono squillò. La signorina Keene sollevò subito la cornetta. Questa volta non si prese la briga di dire nulla... si limitò a restare in ascolto. All'inizio fu come le altre volte... un silenzio totale. Stette in ascolto più a lungo del solito, impaziente. Poi, mentre stava per riattaccare, sentì un suono. Un muscolo le guizzò sulla guancia, mentre si affrettava a riavvicinare il telefono all'orecchio. «Pronto?» chiese, nervosa. Un mormorio, un ronzio ovattato, una specie di fruscio: che cos'era? La signorina Keene strinse forte gli occhi e ascoltò con la massima attenzione, ma non riuscì a identificare quel suono; era troppo leggero, troppo indefinito. Da una vibrazione lamentosa divenne una emissione d'aria e poi un sibilo gorgogliante. Dev'essere il rumore della linea, pensò. È un rumore prodotto dal telefono stesso. Magari un cavo agitato dal vento chissà dove, magari... Poi smise di pensare. Smise di respirare. Il suono era cessato. Ancora una volta era il silenzio a riempirle le orecchie. Sentì i battiti del suo cuore, e le pareti della gola che si chiudevano. Oh, tutto questo è ridicolo, si disse. Ci sono già passata... è stato il temporale, il temporale! Si lasciò andare contro i cuscini, con la cornetta premuta sull'orecchio, respirando nervosamente dal naso. Avvertiva un terrore irrazionale che montava come una marea dentro di lei, malgrado ogni suo sforzo di trovare spiegazioni logiche. La sua mente continuava a fallire la presa sul trespolo scivoloso della ragione, e lei sprofondava sempre più. Tremava vistosamente quando il rumore ricominciò. Non poteva trattarsi di suoni umani, lo sapeva, eppure c'era qualcosa in essi, una specie di cadenza, di ordine quasi identificabile... Le tremavano anche le labbra e un gemito cominciò a prenderle forma nella gola. Ma non riusciva ad abbassare il telefono, proprio non ci riusciva. Quei suoni avevano un effetto ipnotico su di lei. Se si trattasse del vento che aumentava o diminuiva d'intensità, o di qualche meccanismo che non funzionava a dovere, lei non lo sapeva. Sapeva solo che non riusciva a staccarsene. «Pronto?» disse, con voce tremante. I suoni aumentarono d'intensità. Le vibrarono nel cervello, scuotendolo. «Pronto!» urlò. «P-r-o-n-t-o-» rispose una voce dall'altra parte. Poi la signorina Keene perse i sensi.

«È sicura che qualcuno abbia detto pronto?» chiese la signorina Finch a Elva Keene, al telefono. «Può essere stato il collegamento, lo sa.» «Le ripeto che era un uomo!» gridò la donna, che non riusciva a frenare il tremito. «Era lo stesso uomo che mi ascoltava mentre dicevo pronto, pronto, pronto senza rispondermi mai. Lo stesso che faceva quei terribili rumori al telefono!» La signorina Finch si schiarì educatamente la gola. «Be', manderò qualcuno a controllare la linea, signorina Elva, appena possibile. Naturalmente adesso i tecnici sono impegnatissimi a riparare i danni provocati dal temporale, ma appena si libera...» «E che devo fare se questo... se questa persona richiama?» «Riattacchi e basta, signorina Elva.» «Ma continua a chiamare!» «Bene.» L'affabilità della signorina Finch venne un po' meno. «Allora perché non cerca di scoprire chi è, signorina Elva? Se ci riesce, possiamo intervenire subito, capisce, e...» Una volta terminata la conversazione, la signorina Keene si sdraiò contro i cuscini, tutt'altro che rilassata, ascoltando l'infermiera Philips che canticchiava tragiche canzoni d'amore mentre lavava i piatti della colazione. Era chiaro che la signorina Finch non credeva alla sua storia. Pensava che lei fosse una vecchia isterica, vittima di un'immaginazione troppo fervida. Be', si sarebbe accorta che le cose non stavano così. «Continuerò a chiamarla finché non mi crederà» disse irritata all'infermiera Philips poco prima del riposino pomeridiano. «Lo faccia pure» rispose l'infermiera. «Ma prima prenda la sua pillola e si metta giù.» La signorina Keene si abbandonò a un silenzio immusonito. Le mani, segnate da vene in rilievo, erano tese lungo i fianchi. Erano le due e dieci e, a parte il russare gorgogliante dell'infermiera Philips nella camera accanto, era un pomeriggio di ottobre assolutamente silenzioso. Mi fa infuriare l'idea, pensò Elva Keene, che nessuno voglia prendermi sul serio. Be ' - e strinse forte le labbra sottili - la prossima volta che telefona qualcuno mi accerterò che l'infermiera Philips ascolti fino a quando non sentirà qualcosa. Il telefono squillò proprio in quel momento. La signorina Keene sentì un tremore gelido che si diffondeva per tutto il corpo. Anche in pieno giorno, con i raggi del sole che illuminavano la so-

vraccoperta a fiori, quel rumore stridulo la spaventò. Affondò i denti finti nel labbro inferiore per non perdere il controllo. Devo rispondere? si domandò e poi, prima ancora di poter pensare a una risposta, la sua mano afferrò la cornetta. Un respiro profondo, irregolare; la donna portò lentamente il telefono all'orecchio. Disse: «Pronto?» La voce rispose: «Pronto?», vuota e senz'anima. «Chi è?» chiese la signorina Keene, cercando di liberare la gola. «Pronto?» «Chi parla, per favore?» «Pronto?» «C'è qualcuno?» «Pronto?» «La prego...!» «Pronto?» La signorina Keene sbatté giù la cornetta e giacque sul letto, tremando vistosamente e incapace di riprendere fiato. Che cos'è? domandava implorante la sua mente. In nome di Dio, che cos'è? «Margaret!» gridò. «Margaret!» Nell'altra stanza l'infermiera Philips si svegliò con un grugnito e cominciò a tossire. «Margaret, per favore...!» Elva Keene sentì la donna corpulenta che si alzava e ciabattava lungo il salotto. Devo riprendermi, si disse Elva Keene, dandosi degli schiaffetti sulle guance febbricitanti. Devo spiegarle esattamente quello che è successo, in ogni dettaglio. «Che c'è?» borbottò l'infermiera. «Le fa male lo stomaco?» Quando la signorina Keene cercò di deglutire, le sembrò che la gola le si chiudesse. «Ha chiamato di nuovo» disse con un filo di voce. «Chi?» «Quell'uomo!» «Quale uomo?» »Quello che continua a telefonare!» rispose lei. «Mi dice sempre pronto, pronto. Solo questo... pronto, pronto, pro...» «Adesso basta» la redarguì l'infermiera Philips, guardandola stolidamente. «Si metta giù e...» «Io non voglio mettermi giù!» replicò lei, esasperata. «Voglio sapere chi è questa persona orribile che continua a spaventarmi!» «Adesso non si agiti» l'ammoni l'infermiera Philips. «Lo sa che poi an-

che il suo stomaco ne risente.» La signorina Keene cominciò a singhiozzare sconsolata. «Ho paura. Ho paura di lui. Perché continua a telefonarmi?» L'infermiera Philips stava in piedi accanto al letto e la fissava con l'indolente espressione di un bue. «Insomma, che cosa le ha detto la signorina Finch?» le chiese a bassa voce. La labbra tremanti della signorina Philips non riuscirono a formulare una risposta. «Non le ha detto che è il collegamento?» insisté l'infermiera, in tono suadente. «È vero o no?» «Ma non è il collegamento! È un uomo, un uomo!» L'infermiera Philips emise un respiro paziente. «Se è un uomo» disse «riattacchi subito. Non deve parlare con lui. Riattacchi il telefono e basta. È così difficile?» La signorina Keene chiuse gli occhi lucidi di lacrime e piegò le labbra a forza in una linea irregolare. Nella sua mente echeggiava ancora la voce sommessa e amorfa dell'uomo, con quell'inflessione sempre uguale, che non rispondeva mai alle sue domande e si limitava a ripetere all'infinito il suo pronto, pronto con dolente apatia. Facendola tremare fin nel profondo del cuore. «Guardi» disse l'infermiera Philips. Aprì gli occhi e vide l'immagine indistinta dell'infermiera che appoggiava la cornetta sul comodino. «Ecco» le disse «adesso nessuno può più chiamare. Lo lasci così. Se le serve qualcosa deve solo fare il numero. Adesso è tutto a posto, vero?» La signorina Keene fissò l'infermiera con aria avvilita. Poi, dopo un attimo, annuì una volta sola. Controvoglia. Giaceva nella stanza buia, e il suono della linea telefonica le ronzava nelle orecchie. La teneva sveglia. O sono io che me ne voglio convincere? si domandò. Mi tiene davvero sveglia? La prima notte non ho forse dormito con la cornetta staccata dalla forcella? No, non è quel suono, è qualcos'altro. Chiuse gli occhi, cocciuta. Non ascolterò, si disse. Non ascolterò. Respirò la notte a piccole sorsate. Ma l'oscurità non le riempiva il cervello e non scacciava quel suono. La signorina Keene tastò il letto finché non trovò la giacca. La distese sulla cornetta e fasciò più volte quell'oggetto nero e liscio. Poi tornò a

sdraiarsi, con il petto rigido e dolorante. Dormirò, si impose, dormirò. Lo sentiva ancora. Il suo corpo si tese e, d'impulso, liberò la cornetta dalla sua spessa fasciatura e la sbatté rabbiosamente sulla forcella. Il silenzio invase la stanza, rilassandola. La signorina Keene ricadde contro il cuscino con un piccolo gemito. E adesso dormiamo, si disse. Il telefono squillò. Si sentì soffocare. Lo squillo sembrava penetrare nell'oscurità, era come una nuvola che la circondava facendole vibrare dolorosamente le orecchie. Allungò la mano per rimettere la cornetta sul comodino, poi la ritrasse con un sussulto, rendendosi conto che in quel modo avrebbe nuovamente sentito la voce di quell'uomo. La gola le pulsava nervosamente. Quello che farò, si disse, quello che farò sarà afferrare la cornetta in modo rapido, rapidissimo, metterla sul comodino e poi premere sulla forcella in modo da interrompere la comunicazione. Sì, è proprio questo che farò. Si tese e sporse la mano cautamente fino a toccare il telefono. Poi, prendendo fiato, mise in atto il suo piano: tacitò lo squillo, protese subito la mano verso la forcella e... E si bloccò, impietrita, quando la voce dell'uomo trafisse l'oscurità e le raggiunse le orecchie. «Dove si trova?» le domandò. «Voglio parlare con lei.» Dita ghiacciate artigliarono il petto tremante della signorina Keene. Rimase lì, immobile, incapace di sottrarsi al suono di quella voce cupa e inespressiva che continuava a chiedere: «Dove si trova? Voglio parlare con lei.» Un suono proruppe dalla gola della donna, un suono flebile e palpitante. E l'uomo disse ancora: «Dove si trova? Voglio parlare con lei.» «No, no» singhiozzò la signorina Keene. «Dove si trova? Voglio...» Schiacciò la forcella con le dita rigide ed esangui. La tenne giù per cinque minuti, prima di liberarla. «Le dico che non ce la faccio più!» La voce della signorina Keene sembrava emessa da un nastro sfilacciato. Sedeva impettita sul letto, cercando di sfogare la rabbia e lo spavento sui forellini della cornetta. «Intende dire che ha riattaccato e che quell'uomo chiama ancora?» le

domandò la signorina Finch. «Gliel'ho già detto!» sbottò Elva Keene. «Ho dovuto lasciare staccata la cornetta per tutta la notte, così non avrebbe potuto chiamare, ma poi il suono della linea mi teneva sveglia. Non ho chiuso occhio! Adesso voglio che questa linea venga controllata, mi ha sentito? Voglio che questa cosa orribile finisca!» I suoi occhi erano come due sassi, neri e duri. Per poco il telefono non le scivolò dalle dita tremanti. «Va bene, signorina Elva» disse la centralinista. «Oggi stesso manderò un tecnico a fare una verifica.» «Grazie, cara, grazie» disse la signorina Keene. «Mi chiamerà quando...» Si interruppe all'improvviso quando il telefono incominciò a ticchettare. «La linea è disturbata» affermò. Il ticchettio terminò e lei riprese a parlare. «Allora, mi farete sapere qualcosa quando scoprirete questo individuo orribile?» «Certamente, signorina Elva, certamente. E farò in modo che oggi pomeriggio un nostro tecnico venga a casa sua a controllare. Lei abita al 127 di Mill Lane, giusto?» «Proprio così, cara. Allora ci pensa lei, vero?» «Glielo prometto solennemente, signorina Elva. Sarà la prima cosa che farò oggi.» «La ringrazio, mia cara» disse la signorina Keene, rilasciando il fiato, sollevata. Non ci fu nessuna telefonata da quell'uomo per tutta la mattina, e nessuna nel pomeriggio. La sua tensione cominciò pian piano a sciogliersi. Fece una partita a cribbage con l'infermiera Philips e riuscì anche a ridere un poco. Era consolante sapere che la compagnia dei telefoni stava lavorando sul problema proprio in quel momento. Avrebbero smascherato presto quell'uomo disgustoso e le avrebbero restituito la tranquillità. Ma si fecero le due, poi le tre, e ancora non si era visto nessun tecnico a casa sua. A quel punto la signorina Keene cominciò di nuovo a preoccuparsi. «Che starà combinando quella ragazza?» disse stizzita. «Mi ha promesso solennemente che oggi pomeriggio mi avrebbe mandato un tecnico.» «Arriverà» disse l'infermiera Philips. «Abbia pazienza.» Si fecero le quattro, e ancora non si era visto nessuno. La signorina Kee-

ne non aveva più voglia di giocare a cribbage, di leggere il suo libro o di ascoltare la radio. La tensione che aveva cominciato a sciogliersi si stava nuovamente formando, un minuto dopo l'altro, finché alle cinque, quando il telefono squillò, la sua mano schizzò rigidamente dalla manica svasata del pigiama e afferrò la cornetta. Se quell'uomo parla, corse la sua mente, se solo dice qualcosa mi metterò a urlare fino a farmi scoppiare il cuore. Portò la cornetta all'orecchio. «Pronto?» «Signorina Elva, sono la signorina Finch.» Chiuse gli occhi ed emise un sospiro di sollievo. «Sì?» disse. «A proposito di quelle telefonate che sostiene di avere ricevuto.» «Sì?» Nella sua mente rimasero solo le ultime parole: «... telefonate che sostiene di avere ricevuto.» «Abbiamo mandato qualcuno a controllare» proseguì la signorina Finch. «Ho qui con me il rapporto.» La signorina Keene trattenne il fiato. «Sì?» «Non abbiamo trovato niente.» Elva Keene non disse nulla. La sua testa grigia rimase immobile sul cuscino, con la cornetta premuta sull'orecchio. «Il rapporto dice che hanno localizzato il... il problema in un cavo caduto alla periferia della città.» «Cavo... caduto?» «Sì, signorina Elva.» La signorina Finch non aveva una voce allegra. «Mi sta dicendo che nessuno mi ha chiamato?» Il suo tono era deciso. «Nessuno può averla chiamata da quel posto.» «Le dico che un uomo mi ha chiamata!» La centralinista tacque e la signorina Keene tormentò la cornetta con le dita contratte. «Deve pur esserci un telefono da quelle parti» insisté. «In qualche modo quell'uomo deve avermi chiamata.» «Signorina Elva, laggiù non c'è nessuno.» «Laggiù dove?» «Al cimitero, signorina Elva» disse la centralinista. Un'anziana donna nubile giaceva immobilizzata nel silenzio buio della sua camera. L'infermiera non era rimasta per la notte; si era limitata a darle una pacca sulla schiena, aveva brontolato qualcosa e l'aveva ignorata. Lei aspettava una telefonata. Avrebbe potuto staccare il telefono, ma non aveva voluto. Se ne stava lì

ad aspettare, e pensava. Pensava al silenzio... a orecchie che non avevano sentito, che si aspettavano di sentire ancora. A suoni gorgoglianti, confusi... il primo, esitante tentativo di parlare da parte di qualcuno che non parlava... da quanto tempo? Ai suoi pronto? pronto?, primi approcci a una conversazione a cui non era più abituato. Ai suoi Dove si trova? Al clic (questo la fece irrigidire ancora di più) quando la centralinista aveva rivelato il suo indirizzo. Al... Lo squillo del telefono. Una pausa. Un altro squillo. Il fruscio di una camicia da notte nel buio. Lo squillo cessò. Ascoltare. E il telefono le scivolò dalle dita bianche. Gli occhi sbarrati, il piccolo cuore che pulsava lentamente. Fuori, il frinire assordante dei grilli nella notte. Dentro, le parole che ancora le risuonavano nel cervello... dando un significato spaventoso al silenzio pesante, insopportabile. «Pronto, signorina Elva. Arrivo subito.» Paglia umida Cominciò qualche mese dopo la morte di sua moglie. Si era trasferito in una pensione, dove conduceva una vita molto ritirata. Aveva venduto le obbligazioni di lei e campava di rendita. Un libro al giorno, concerti, pasti solitari, visite ai musei... questo gli bastava. Ascoltava la radio, ogni tanto si appisolava e pensava molto. La vita non era così male. Una sera mise via il libro e si spogliò. Spense le luci e aprì la finestra. Sedette sul letto e per qualche secondo fissò il pavimento. Gli facevano un po' male gli occhi. Poi si sdraiò e si portò le mani alla nuca. Dalla finestra entrava un venticello fresco, allora si coprì la testa con le coperte e chiuse gli occhi. C'era un gran silenzio. Poteva sentire il suo stesso respiro regolare. Il calore cominciò ad accarezzarlo, dandogli un senso di calma. Emise un profondo sospiro e sorrise. Dopo un attimo spalancò gli occhi. C'era un alito leggero che gli sfiorava la guancia, e sentiva l'odore di qualcosa che sembrava paglia umida. Non poteva sbagliarsi. Allungando la mano era in grado di toccare il muro e sentire il venticello

che entrava dalla finestra. Invece, sotto le coperte, dove prima c'era solo calore, adesso si era diffusa una brezza diversa. E l'odore malsano, raggelante di paglia bagnata. Si tolse le coperte di dosso e rimase sdraiato sul letto, respirando a fatica. Poi rise dentro di sé. Un sogno, un incubo. Troppe letture. Cena pesante. Si ricoprì e chiuse gli occhi. Tenne fuori la testa e si addormentò. Il mattino dopo si era dimenticato di tutto. Fece colazione e andò al museo. Vi trascorse l'intera mattinata. Visitò tutte le sale e osservò ogni cosa. Quando stava per andarsene, provò il desiderio di tornare indietro e dare un'occhiata a un quadro che prima aveva guardato solo di sfuggita. Vi si fermò davanti. Era il ritratto di un ambiente rurale. In fondo a una valle c'era un grosso granaio. Cominciò a respirare pesantemente e le sue dita presero a tormentare la cravatta. Ridicolo, si disse dopo un attimo, che una cosa del genere debba farmi innervosire in questo modo. Se ne andò. Giunto alla porta rivolse un'ultima occhiata al quadro. Quel granaio lo aveva spaventato. È un semplice granaio, pensò, un granaio dentro un quadro. Dopo cena tornò in camera. Non appena aprì la porta si ricordò del sogno. Andò a letto. Tirò su coperte e lenzuola e le scosse. Non c'era nessun odore di paglia umida. Si sentì un idiota. Quella notte, quando andò a dormire, lasciò la finestra chiusa. Spense le luci, s'infilò nel letto e si tirò le coperte sopra la testa. All'inizio fu come al solito: silenzio, assenza d'aria, il calore che pian piano aumentava. Poi ricominciò la brezza e lui sentì nettamente che i capelli gli si scompigliavano sulla testa. E sentì quell'odore di paglia umida. Fissò il buio e respirò con la bocca per non sentire ancora l'odore. Da qualche parte del buio vide un riquadro di. luce grigiastra. È una finestra, pensò subito. Guardò con più attenzione e il cuore ebbe un sussulto quando un improvviso lampo di luce apparve nella finestra. Era come un fulmine. Stette in ascolto. Ancora quell'odore di paglia umida. Sentì che cominciava a piovere.

Si spaventò e si tolse le coperte dalla testa. Intorno a lui c'era il calore della sua camera. Non pioveva e faceva molto caldo, perché la finestra era chiusa. Fissò il soffitto e si domandò come mai avesse quell'allucinazione. Tornò a nascondere la testa sotto le coperte, tanto per fare una prova. Giacque immobile e strinse forte gli occhi. Aveva di nuovo quell'odore nelle narici. La pioggia picchiava con violenza sulla finestra. Aprì gli occhi e guardò, e alla luce dei lampi vide l'acqua che veniva giù a scrosci. Poi la pioggia cominciò a picchiare anche sopra la sua testa, su un tetto di legno. Si trovava in qualche posto con un tetto di legno, e che conteneva paglia bagnata. Si trovava in un granaio. Ecco perché quel quadro lo aveva spaventato così tanto. Ma che c'era poi da spaventarsi? Cercò di toccare la finestra, ma non riuscì a raggiungerla. La brezza gli soffiava sulla mano e sul braccio. Voleva toccarla, quella finestra. Magari, e l'idea lo stuzzicò, magari poteva aprirla e tirar fuori la testa nella pioggia, poi liberarsi subito delle coperte per vedere se aveva i capelli bagnati. Cominciò a sentirsi circondato da uno spazio. Nel letto non provava alcuna sensazione di imprigionamento. Sentiva il materasso, eppure era come se vi giacesse sopra all'interno di uno spazio aperto. Il vento leggero gli aleggiava su tutto il corpo. E l'odore era più intenso. Si mise all'ascolto. Sentì uno squittio e poi il nitrito di un cavallo. Ascoltò ancora. Poi si rese conto che non sentiva più il materasso sotto di sé, almeno non tutto intero. Era come se fosse sdraiato su un pavimento di legno, freddo, dalla vita in giù. Protese le braccia, preoccupato, e tastò il bordo delle coperte. Le tirò giù. Era madido di sudore e il pigiama gli si era appiccicato al corpo. Scese dal letto e accese la luce. Un refolo d'aria fresca provenne dalla finestra quando l'apri. Mentre camminava gli tremavano le gambe, e dovette sorreggersi al comò per non cadere. Vide nello specchio la sua faccia bianca di paura. Alzò la mano e si accorse che gli tremava. Aveva la gola secca. Andò in bagno e bevve un sorso d'acqua. Poi tornò in camera e guardò il

letto. C'erano solo le coperte e le lenzuola aggrovigliate, e una chiazza di umidità dove aveva sudato. Sollevò coperte e lenzuola. Le scosse davanti alla luce e le esaminò con attenzione. Non c'era niente. Scelse un libro e lesse per il resto della notte. Il giorno dopo tornò al museo e guardò il quadro. Cercò di ricordarsi se fosse mai stato in un granaio, magari in un giorno di pioggia, e se avesse guardato fuori dalla finestra, mentre c'erano i fulmini. Ricordò. Era stato durante la luna di miele. Stavano facendo una passeggiata ed erano stati sorpresi dalla pioggia: si erano riparati dentro un granaio finché non aveva smesso di piovere. C'era un cavallo nella stalla, e topi che correvano e anche della paglia bagnata. Ma che significava? Non c'era nessuna ragione per ricordarsene in quel momento. Quella sera ebbe paura di andare a letto. Rinviò il momento finché ne fu capace. Alla fine, quando non riuscì più a tenere gli occhi aperti, si sdraiò completamente vestito e tenne la finestra chiusa. Non usò nessuna coperta. Dormì di un sonno pesante e senza sogni. Si svegliò di primo mattino. Cominciava appena ad albeggiare. Senza pensarci prese una coperta dalla sedia e se la tirò addosso. Questa volta non dovette aspettare. Si ritrovò subito nel granaio. Non c'era nessun rumore. Non pioveva. Dalla finestra penetrava una luce grigia. Magari era l'alba anche in quel granaio immaginario? Sorrise, insonnolito. Era tutto troppo piacevole. Doveva riprovarci nel pomeriggio per vedere se nel granaio c'era luce a sufficienza. Stava per allontanare la coperta dalla testa quando avvertì un fruscio al suo fianco. Trattenne il respiro. Gli sembrò che il cuore si fermasse e sentì come un solletico sulla testa. Gli giunse all'orecchio un sospiro leggero. Qualcosa di caldo e umido gli sfiorò la mano. Urlò, allontanò di scatto la coperta e balzò a terra. Rimase lì fissando il letto e stropicciando la coperta fra le mani. Il cuore gli batteva come un mantice. Si accasciò sul letto, senza più forze. Il sole stava sorgendo proprio in quel momento.

Per una settimana dormì su una sedia. Alla fine fu costretto a concedersi una notte di vero riposo e si sdraiò sul letto, completamente vestito. Non avrebbe mai più usato una coperta. Giunse il sonno, nero e senza sogni. Quando si svegliò non sapeva che ora fosse. Un singhiozzo gli ostruì la gola. Si trovava di nuovo nel granaio. I fulmini guizzavano oltre la finestra e la pioggia picchiava sul tetto. Annaspò intorno a sé, in preda al panico, ma non trovò nessuna coperta. Le sue mani si agitarono freneticamente nell'aria. D'istinto guardò la finestra. Se riusciva ad aprirla poteva scappare! Allungò la mano quanto gli fu possibile. Più vicino. Più vicino. C'era quasi arrivato. Ancora pochi centimetri e l'avrebbe toccata con l'indice. «John.» Un riflesso incontrollato della mano lo portò a sfondare il vetro. Sentì la pioggia che gli bagnava il dorso e provò un dolore insopportabile al polso. Si ritrasse di scatto e fissò terrorizzato il punto da cui era giunta la voce. Qualcosa di bianco si mosse accanto a lui e una mano calda gli accarezzò il braccio. «John» ripeté la voce mormorante. «John.» Non riuscì a proferire parola. Tornò a muovere la mano tutt'intorno come un forsennato, in cerca della coperta. Ma sentì solo quel vento leggero che gli accarezzava le dita. Sotto di lui c'era un pavimento di legno, duro e freddo. Cominciò a piagnucolare, atterrito. Il suo nome venne pronunciato di nuovo. Poi il fulmine esplose, e lui vide sua moglie sdraiata al suo fianco, che gli sorrideva. Tutto a un tratto si ritrovò in mano l'orlo della coperta. La tirò via e rotolò fuori dal letto, sul pavimento. Qualcosa gli scorreva lungo il polso, e provava un dolore sordo in tutto il braccio. Si rialzò e accese la luce. La stanza s'illuminò a giorno. Vide che il braccio era ricoperto di sangue. Staccò un pezzo di vetro dal polso e lo lasciò cadere a terra, inorridito. Sull'avambraccio c'erano i segni rossi delle dita di lei. Strappò dal letto le lenzuola, uscì in corridoio e corse verso il bagno. Lavò via il sangue, versò della tintura di iodio sul taglio profondo e si ben-

dò il braccio. Per poco il bruciore non gli fece perdere i sensi. Gocce di sudore ghiacciato gli scivolarono sugli occhi. Arrivò uno dei pensionanti. John gli spiegò che si era tagliato accidentalmente. Quando l'uomo vide il sangue che usciva ancora si precipitò a chiamare un medico al telefono. John sedette sul bordo della vasca e osservò il sangue che gocciolava sulle piastrelle. Il giorno dopo la ferita era pulita e fasciata. Il medico non sembrò credere alla sua spiegazione. John gli aveva detto di essersi tagliato con un coltello; ma in giro non c'era nessun coltello, e c'erano vistose tracce di sangue sulle lenzuola e sulla coperta. Gli venne consigliato di restare in camera e di tenere il braccio fermo. Lesse per quasi tutto il giorno e ripensò al modo in cui poteva essersi ferito nel sogno. Il pensiero di lei lo eccitava. Era ancora bellissima. I ricordi si fecero vividi. Si erano sdraiati, abbracciati, sulla paglia e avevano ascoltato la pioggia. Non riuscì a ricordare quello che si erano detti. Non aveva paura che tornasse. Aveva un approccio realistico alla vita. Lei era morta e sepolta. Doveva trattarsi di qualche aberrazione della sua mente, di un problema psichico che fino a quel momento non si era mai manifestato. Poi si guardò il polso e vide la fasciatura. Ma non era stata colpa di sua moglie. Non era stata lei a chiedergli di sfondare il vetro con la mano. Magari poteva stare con lei a un certo livello di esistenza, e godersi i suoi soldi in un altro. Qualcosa gli impedì di prestare credito a questa interpretazione. Si era spaventato sul serio. La paglia umida e l'oscurità, i topi e la pioggia, il freddo che penetrava nelle ossa. Decise quello che doveva fare. Quella sera spense le luci presto. Si mise in ginocchio accanto al letto. Infilò la testa sotto le coperte. Se qualcosa non fosse andata per il verso giusto doveva solo tirarla fuori subito. Attese. Ben presto sentì l'odore della paglia, poi sentì la pioggia e cercò sua moglie. Chiamò piano il suo nome. Vi fu un fruscio. Una mano calda gli accarezzò la guancia. All'inizio tra-

salì. Poi sorrise. Apparve il volto di lei, la guancia accostata alla sua. Il profumo dei suoi capelli lo stordì. Le parole gli riempirono la mente. John. Noi siamo sempre stati una cosa sola. La promessa? Mai separarci. Se uno di noi muore l'altro aspetterà. Se io muoio tu aspetterai e troverò un modo per raggiungerti. Verrò da te e ti porterò via con me. E adesso non ci sono più. Mi hai fatto bere quella cosa e sono morta. E hai aperto la finestra in modo che entrasse la brezza. Ed eccomi tornata. John cominciò a tremare. La voce di sua moglie divenne più dura, la poteva sentire che digrignava i denti. Il suo respiro si fece convulso. Le sue dita gli toccarono il volto, scorsero in mezzo ai capelli e gli accarezzarono la nuca. John cominciò a gemere. Le chiese di lasciarlo andare. Non ci fu risposta. Adesso il respiro di lei era ancora più accelerato. John cercò di tirarsi indietro. Sentiva il pavimento della camera sotto i piedi. Cercò con tutte le sue forze di uscire con la testa da sotto la coperta. Ma la sua stretta era molto forte. Lei cominciò a baciarlo sulle labbra. Aveva la bocca fredda, gli occhi spalancati. Li fissò, mentre i loro respiri si mescolavano. Poi lei si ritrasse e scoppiò a ridere, e dietro la finestra esplose il fulmine. La pioggia scrosciava sul tetto e i topi strepitavano e il cavallo picchiava gli zoccoli e faceva tremare tutto il granaio. Le dita di lei si serrarono sul suo collo. Lui tirò con tutta la forza che aveva e strinse i denti e cercò di liberarsi dalla morsa. Vi fu un dolore improvviso, poi rotolò al suolo. Quando venne l'affittacamere per pulire, due giorni dopo, era nella stessa posizione. Le braccia erano spalancate sulla pozza di sangue ormai secco, e il corpo era freddo e rigido. La testa non fu più trovata. La danza dei morti Voglio andare in cielo sulla Rota-Mota, con la mia bambola io me la telo! Sull'autostrada come una scheggia! E poi ci stringeremo e ci strofineremo e una bella cagnara ci faremo!

CAGNARA, s.f., atto di promiscuità nel gioco d'amore; diffuso a partire dalla Terza guerra mondiale. I due fari gettavano una luce burrosa sull'autostrada. Subito dietro la Rotor-Motors decappottabile, modello C del 1997, la luce come uno spruzzo dai riflessi gialli. La macchina avanzava con tutta la potenza del suo motore a dodici cilindri. Sullo sfondo la notte imbrattava il cielo, nera e tranquilla. La macchina correva. ST. LOUIS 15. «Voglio volare!» cantavano «Dalla Rota-Mota stare a guardare! Posso vivere solo così...» Ecco il quartetto dei cantanti: Len, 23 anni Bud, 24 Barbara, 20 Peggy, 18 Len con Barbara, Bud con Peggy. Bud al volante, agile sulle curve più difficili, scattante lungo le colline ombrose, velocissimo sulle pianure silenziose. Tre salite, su e giù, una quarta più dolce, con il vento che gli scuote la testa, che gli scompiglia i capelli... cantando: Fatti pure una passeggiata sotto le stelle ma a duecento le emozioni son più belle L'ago freme quando tocca quasi i duecento, un'altra pigiatina sul gas e il tachimetro esplode. Un'improvvisa discesa! I loro giovani corpi sussultano e le risa eccitate vengono spazzate via dal vento. Una curva su e giù per una collina, poi a tutta velocità lungo la pianura... un proiettile candido che sfiora il terreno. Volo come il vento sulla mia Rota-Mota volo nel cielo e sulla terra immota. Sul sedile posteriore: «Fatti una pera, Bab.» «Grazie, me la sono fatta dopo cena» (allontanando l'ago collegato al contagocce). Sul sedile anteriore:

«Non mi verrai a dire che questa è la prima volta che vai a St. Louis?» «Ho cominciato la scuola a settembre.» «Ehi, allora sei una burba!» Dal sedile posteriore verso quello anteriore: «Ehi, burba, fatti un frollamuscoli.» FROLLAMUSCOLI, s.f. gergale, le conseguenze dell'atto di iniettarsi una droga in un muscolo; diffuso a partire dalla Terza guerra mondiale. (L'ago passa davanti, il bulbo scintilla come succo ambrato). «Spassatela, ragazza!» Le labbra di Peggy non riuscirono a formare un sorriso. Le sue dita fremevano. «No, grazie, io non...» «Andiamo, burba!» Len tutto piegato in avanti sul sedile, fronte bianca sotto capelli neri e gonfi. Le avvicina l'ago alla faccia. «Goditela, ragazza! Fatti un po' di frollamuscoli!» «Preferisco di no» disse Peggy. «Se non...» «Che ti prende, burba?» strillò Len, e sospinse la gamba contro la gamba di Barbara, già incollata alla sua. Peggy scosse la testa e i capelli biondi le svolazzarono sulla faccia e sugli occhi. Sotto il vestito giallo, sotto il reggiseno bianco, sotto il petto da adolescente... c'era un cuore che batteva forte. Attenta a quello che fai, tesoro, è tutto quello che ti chiediamo. Ricorda, tu sei tutto ciò che ci rimane al mondo. Con le parole della mamma che le martellavano il cuore, si ritrasse quando vide l'ago. «Andiamo, burba!» La macchina spostò con un gemito il suo peso nell'affrontare una curva, e la forza centrifuga spinse Peggy contro il fianco magro di Bud. La sua mano piombò giù e le afferrò la gamba. Sotto il vestito giallo, sotto le calze velate... la carne formicolò. Le labbra la tradirono ancora: il suo sorriso fu una macchia rossa indistinta. «Burba, spassatela!» «Piantala, Len, e la droga falla prendere alle tue amichette.» «Ma bisogna che la nostra novellina impari come ci si buca.» «Piantala, ti ho detto! Lei è la mia ragazza!» La macchina nera avanzava ruggendo, a caccia delle sue luci. Peggy strinse forte la mano di Bud. Il vento soffiava su di loro e infilava dita

ghiacciate fra i capelli. Peggy non avrebbe voluto la mano di Bud così vicina, ma gli era grata comunque. I suoi occhi, che tradivano un po' di preoccupazione, seguivano la strada divorata sotto le ruote. Sul retro cominciò una schermaglia silenziosa, mani eccitate che si toccavano, bocche aperte che si cercavano. Il brivido sfuggente del piacere a centottanta chilometri l'ora. «Rota-Mota bambolina» canticchiava Len fra un bacio e l'altro. Sul sedile anteriore il cuore di una ragazza batteva a fatica. ST. LOUIS 9. «Dici sul serio? Davvero non sei mai stata a St. Louis?» «No, io...» «Allora non hai mai visto la danza degli svitati?» Un'improvvisa contrazione alla gola. «No, io... è lì che... stiamo andando...» «Ehi, la burba non ha mai visto la danza degli svitati!» gridò Bud, rivolto ai due sul retro. Labbra che si staccavano con un risucchio, la gonna risistemata con voluta indifferenza. «Starai scherzando!» disse Len, sparando le parole. «Ragazza, allora non hai mai vissuto!» «Oh, la deve vedere assolutamente» aggiunse Barbara, riallacciandosi un bottone della camicetta. «E allora andiamoci!» strillò Len. «Facciamo provare un brivido alla nostra novellina!» «È uno spasso» disse Bud, stringendole la gamba. «Ci divertiremo laggiù, lo sai, Peg?» La gola di Peggy si mosse nel buio e il vento le artigliò i capelli. Ne aveva sentito parlare, aveva letto qualcosa, ma non avrebbe mai immaginato di... Scegli i compagni molto attentamente, cara. Sii prudente. Ma quando nessuno ti parla per due mesi interi? Quando sei sola e hai voglia di chiacchierare e ridere e sentirti viva? E alla fine qualcuno ti parla e ti chiede se vuoi uscire con loro? «Son Braccio di Ferro il marinaio!» canticchiava Bud. Sul retro fecero il controcanto. Bud frequentava un corso su fumetti e cartoni animati del periodo prebellico. Quella settimana stavano studiando Braccio di Ferro. Bud si era innamorato del marinaio con un occhio solo e aveva raccontato tutto di lui a Len e a Barbara; gli aveva insegnato i dialoghi e la canzone. «Son Braccio di Ferro il marinaio! Mi piace nuotare, nuotare forte, con

le donne dalle gambe storte! Son Braccio di Ferro il marinaio!» Risate. Peggy sorrise senza convinzione. La mano lasciò la sua gamba quando la macchina abbordò una curva con grande stridore di gomme, e lei si sentì scaraventare addosso allo sportello. Il vento le penetrò negli occhi come tanti aghi di ghiaccio e la costrinse a farsi indietro, battendo le palpebre. 160-180-200 all'ora. ST. LOUIS 5. Sii molto prudente, cara. Braccio di Ferro le strizzò l'occhio. «Oh, Olivia, tu sei la mia patatina.» Una gomitata sul fianco di Peggy. «Fammi Olivia... dai.» Peggy sorrise nervosamente. «Non posso.» «Ma come no!» Sul sedile posteriore spuntò Poldo, che annunciò: «Ti pagherò martedì, e tu lo sai, se un hamburger oggi mi offrirai.» Tre voci piene e una quarta un po' meno convinta cantarono a squarciagola, cercando di superare l'ululato del vento: «Di spinaci sono ghiotto e per questo sempre lotto. Son Braccio di Ferro il marinaio, tuu, tuu!» «Son quel che son» ripeté, serio, Braccio di Ferro e appoggiò la mano sulla gamba di Olivia, coperta dalla gonna gialla. Sul sedile posteriore gli altri due membri del quartetto tornarono a dedicarsi alla loro cagnara. ST. LOUIS 1,5. La macchina nera attraversò rombando i sobborghi periferici immersi nel buio. «Infilate i nasoni.» Ognuno tirò fuori la mascherina di plastica, tutta naso e bocca, e se la sistemò sulla faccia. Ganci nelle braghe, che brutta situazione! Sulla faccia mettetevi il nasone! GANCI, p.m., gergale per Germi Anti Civili; diffuso a partire dalla Terza guerra mondiale. «Ti piacerà la danza degli svitati!» le gridò Bud sopra l'urlo del vento. «È fan-ta-sti-ca!» Peggy provò una sensazione di freddo che non era causata dalla notte o dal vento. Ricordati, tesoro, al mondo d'oggi esistono cose terribili. Cose che devi evitare. «Non potremmo andare da qualche altra parte?» disse Peggy, ma la sua voce andò perduta. Udì Bud che cantava: «Mi piace nuotare, nuotare forte, con le donne dalle gambe storte!» Peggy sentì di nuovo la mano di Bud

sulla sua gamba: dietro c'era silenzio, il silenzio di una passione movimentata, ma senza baci. La danza dei morti. Le parole gocciolavano come ghiaccio nel cervello di Peggy. ST. LOUIS. La macchina sfrecciò in mezzo alle rovine. Era un luogo di fumo e di allegrie sfrenate. L'aria risuonava di gemiti e gozzoviglie, e c'era un frastuono di ottoni risonanti che sgorgava da una nuvola di musica... musica del 1997, una fregola di dissonanze contorte. Ballerini con le scarpe a punta mescolavano i corpi pulsanti nel piccolo spazio libero in mezzo alla sala, travolti da una ragnatela di suoni esplosivi, e cantavano: Fammi male! Feriscimi! Tienimi stretto! Riempimi il sangue di caldo diletto! Fa' di me quel che vuoi sul tuo petto! Amore, amore, amor, come una bestia trattami a letto! L'esplosione di suoni era confinata all'interno del cerchio danzante, invece di frammentarsi e disperdersi tutto intorno. «Come una bestia, come una bestia, bestia, bestia trattami a letto!» «Che te ne pare, cara la mia Olivia?» le chiese Braccio di Ferro, tenendola d'occhio, mentre andavano a caccia del cameriere. «Non c'è niente di simile a Sykesville, eh?» Peggy sorrise, ma la sua mano stretta in quella di Bud era torpida. Nel passare accanto a un tavolo tetramente illuminato, si sentì toccare sulla gamba da una mano che non riuscì a vedere. Sobbalzò e finì addosso a un ginocchio duro oltre lo stretto corridoio. Mentre avanzava incespicando, cercando di farsi strada in mezzo alla sala calda e piena di fumo, avvertì una dozzina di occhi che la spogliavano, che abusavano di lei. Bud cercò di sostenerla e lei sentì un tremito che le scuoteva le labbra. «Ehi, che ne dite?» esultò Bud, sedendosi a un tavolo. «Proprio di fronte al palco!» Il cameriere sbucò dalla nebbia di fumo di sigarette e navigò, penna in mano, verso il loro tavolo. «Che vi porto?» Rivolse la domanda urlando e riuscì a superare la cacofonia.

«Whisky e acqua!» Bud e Len ordinarono la stessa cosa, poi si rivolsero alle ragazze. «Che vi porto?» dissero all'unisono, imitando il cameriere. «Pantano verde!» ordinò Barbara e Len trasmise: «Qui un pantano verde!» Gin, Sangue dell'Invasione (rum del 1997), succo di limone, zucchero, ghiaccio tritato e una spruzzata di menta... una bevanda popolare fra le universitarie. «E tu, dolcezza?» chiese Bud alla sua compagna. Peggy sorrise. «Solo un po' di ginger ale» rispose. La sua voce suonò disperatamente fragile nel rumore assordante e nel fumo denso. «Che cosa?» disse Bud, e poi il cameriere aggiunse: «Che ha detto, non ho sentito niente!» «Ginger ale.» «Cosa?» «Ginger ale!» «GINGER ALE!» urlò Len e poco mancò che lo sentisse anche il batterista, dietro la cortina rumorosa che era la musica della band. Len picchiò il pugno sul tavolo. Uno - due - tre. Coro: Ginger Ale era piccolina! Andava a messa ogni mattina. Ma un bel giorno... «Andiamo, andiamo!» strepitò il cameriere. «Sbrighiamoci con quest'ordine, ragazzi! Ho da fare!» «Due whisky con acqua e due pantani verdi!» salmodiò Len e il cameriere scomparve nel vortice turbinante. Peggy sentì il suo piccolo cuore che batteva indifeso. Soprattutto, non bere quando esci con qualcuno. Prometticelo, tesoro, questo devi promettercelo. Si sforzò di ricacciare indietro le istruzioni che le erano rimaste scolpite nel cervello. «Che ne dici di questo posto, dolcezza? Svitato, eh?» Bud le sparò la domanda; era un Bud dalla faccia rossa e raggiante. SVITATO, agg., nell'uso comune come derivato da Persona Non-morta Senza-vita (PNS) Sorrise a Bud, un sorriso nervoso fatto solo per buona educazione. Mosse gli occhi in giro, piegandosi appena e guardò il palco. Svitato. La parola

le si incise nella testa. Svitato, svitato. Il palco era un semicerchio in legno con un raggio di quasi cinque metri. Lungo la circonferenza correva una ringhiera alta fino alla vita che aveva, all'inizio e alla fine, due faretti di un rosso smorto, adesso spenti. Rosso su bianco, le venne in mente. Tesoro, non ti basta la facoltà di economia e commercio di Sykesville? No! Non voglio frequentare una facoltà di economia e commercio, voglio una laurea in belle arti all'università! Vennero servite le bevande e Peggy vide il braccio senza corpo del cameriere che le metteva davanti un bicchierone di colore verde. Il braccio scomparve, veloce come il lampo. La ragazza esaminò il contenuto torbido del bicchiere e vide il ghiaccio tritato che ballonzolava nel liquido. «Un brindisi! Alza il bicchiere, Peg!» tuonò Bud. Tutti sbatacchiarono i bicchieri. «Alla lussuria primordiale!» brindò Bud. «Ai letti smodati!» aggiunse Len. «Alla carne depravata!» concluse Barbara come terzo anello. Gli occhi dei tre si puntarono su Peggy, in attesa. Lei non capì. «Concludi!» le disse Bud, seccato dalla sua mancanza di riflessi. «A... a n-noi» disse lei, esitante. «Che cosa oriiiiiginale» la punzecchiò Barbara, e Peggy sentì le guance morbide che avvampavano. Nessuno se ne accorse, perché i tre Giovani d'America dai quali dipendeva il Futuro si affrettarono a trangugiare avidamente le loro bevande. Peggy giocherellò col bicchiere, con un abbozzo di sorriso dipinto sulle labbra. «Andiamo, ragazza, bevi!» le gridò Bud dall'abisso di un palmo che li separava. «Mandalo giù tutto d'un fiato!» «Spassatela, ragazza» si unì Len, ma senza convinzione, mentre le mani cercavano ancora una gamba morbida. E trovavano, sotto il tavolo, una gamba morbida che le aspettava. Peggy non aveva voglia di bere, aveva paura di farlo. Le parole di sua madre continuavano a martellarla: mai quando esci con qualcuno, tesoro, mai. Sollevò un poco il bicchiere. «Zio Buddy ti darà una mano, ci pensa lui!» Zio Buddy che si china su di lei, la testa contornata da vapori di whisky. Zio Buddy che avvicina il bicchiere gelato alle giovani labbra tremanti. «Andiamo, Olivia, vecchia mia! Cin cin!» Il cocktail le andò di traverso, e sputacchiò goccioline verdastre sulla pettorina del vestito. Il liquido infuocato le gocciolò nello stomaco, tra-

smettendo sensazioni brucianti dentro le vene. Bum bum patapum crash bang POW! Il batterista assestò il coup de grace a quello che un tempo era stato un valzer d'amore. Le luci si abbassarono e Peggy restò seduta a tossire e a lacrimare nell'atmosfera fumosa e soffocante della sala. Sentì la mano di Bud che le stringeva con forza la spalla e, nella penombra, si ritrovò in equilibrio precario con la bocca calda e umida di Bud appiccicata alla sua. Si ritrasse di scatto e a quel punto si accesero i faretti rossi, e vide un Bud dalla faccia a chiazze che allungava la mano verso il bicchiere, gorgogliando: «E per questo sempre lotto.» «Ehi, gli svitati, ecco gli svitati!» disse eccitato Len, sempre alle prese con i suoi brancicamenti. Il cuore di Peggy ebbe un sussulto e pensò che si sarebbe messa a urlare e sarebbe scappata come il vento da quel locale buio e pieno di fumo. Ma una mano da universitario navigato la ancorò alla sedia e lei alzò gli occhi, pallida e atterrita, verso l'uomo che era apparso sul palco e si era piazzato davanti al microfono, sceso dall'alto come un ragno metallico. «Per favore, un attimo di attenzione, signore e signori» disse. Era un uomo dalla faccia torva e dalla voce sepolcrale, i cui occhi si muovevano di qua e di là come carboni accesi. Peggy respirava a fatica, e sentiva il pantano verde che le filtrava dal petto e dallo stomaco in solchi infuocati. Le girava la testa. Mamma. La parola sfuggì dalle cellule della mente ed emerse tremula verso una dimensione consapevole. Mamma, portami a casa. «Come sapete, lo spettacolo a cui state per assistere non è consigliato ai deboli di cuore e ai poveri di volontà.» L'uomo sguazzava fra le parole come una mucca impantanata nel fango. «Lasciate che dia un consiglio a coloro i cui nervi non sono come dovrebbero essere: andatevene adesso. Non ci assumiamo nessuna responsabilità. Non possiamo nemmeno permetterci un medico di servizio.» Nessuno dimostrò di apprezzare anche solo con una risata. «Taglia corto e levati dal palco» borbottò Len fra sé. Peggy sentì che le sue dita si contraevano. «Come sapete» continuò l'uomo con una sonorità consapevolmente artefatta «non vi offriamo del semplice sensazionalismo, ma una onesta dimostrazione scientifica.» «Una scappatoia per gli svitati!» Bud e Len gli scaraventarono addosso le parole con la noncurante reazione di un cane affamato che si fa venire

l'acquolina in bocca quando vede il padrone con la zuppa. Nel 1997 la consuetudine era così radicata da avere assunto lo status di un catechismo obbligatorio. Qualcuno aveva approfittato di una crepa nella legislazione postbellica e adesso gli spettacoli PNS erano ammessi purché prima si specificasse a voce che si trattava di un'esibizione scientifica. Attraverso questa crepa erano passati così tanti abusi che ormai nessuno se ne preoccupava più di tanto. Al governo, già debole di suo, bastava che le infrazioni fossero contenute entro i limiti formali della legge. Quando le grida e i battimani furono evaporati nell'atmosfera fumosa, l'uomo sollevò le braccia in un gesto di paziente benedizione e riprese a parlare. Peggy osservò i movimenti studiati delle sue labbra, mentre il suo cuore prima accelerava i battiti, poi li riduceva a una frequenza lenta e spasmodica. Le gambe le stavano diventando come due pezzi di ghiaccio. Sentì il freddo che risaliva e si scontrava con le fitte infuocate nel petto. Tormentò con le dita la superficie umida del bicchiere. Voglio andarmene, vi prego, riportatemi a casa... Nella sua mente turbinavano di nuovo parole che adesso sembravano inutili. «Signore e signori» concluse l'uomo. «Tenetevi forte.» Un gong emise il suo lugubre, vibrante rimbombo, mentre la voce del presentatore si faceva più tesa e più lenta. «Il fenomeno PNS!» L'uomo era sparito, il microfono era risalito ed era scomparso. Cominciò la musica: un gemito di ottoni con la sordina. L'interpretazione jazzistica del buio tangibile... innestata su una pulsazione ritmata di batteria. Un dolore di sassofono, una minaccia di trombone, un lamento controllato di tromba, che violentarono l'aria in un coro stridulo. Peggy avvertì un brivido lungo la schiena e il suo sguardo calò improvvisamente sul tetro candore del tavolo. Si sentiva circondata da fumo e oscurità, disarmonia e calore. Senza volerlo, guidata solo da un impulso di paura nervosa, alzò il bicchiere e bevve. Lo stillicidio glaciale nella gola le scatenò un altro brivido. Poi altre punture di fuoco liquoroso cominciarono a farle ribollire le vene e un senso di stordimento le partì dalle tempie. Emise un respiro tremante da labbra che non si volevano aprire. Un movimento irrequieto, mormorante, si levò per la sala, un suono come di salici sbattuti dal vento. Peggy non osò sollevare lo sguardo sul purpureo silenzio del palco. Fissò lo scintillio mutevole del bicchiere, senten-

do i muscoli dello stomaco che si contraevano, e il suo cuore che batteva a vuoto. Vorrei andarmene, vi prego, andiamo via. La musica arrancò verso un climax raspante e cacofonico, con gli ottoni che si sforzavano di raggiungere l'unisono senza riuscirci. A un certo punto una mano le toccò la gamba, ed era la mano di Braccio di Ferro il marinaio, che le sussurrò con voce sibilante: «Olivia, sei tu la mia lascivia.» Peggy quasi non sentì la mano e la voce. Come un automa si portò alla bocca il bicchiere freddo e gocciolante e avvertì il gelo nella gola, e poi l'esplosione di calore che si irradiava dentro di lei. SWISH! Il sipario si aprì con tale rapidità che per poco Peggy non lasciò cadere il bicchiere. Le scivolò pesantemente sul tavolino, e il liquido denso schizzò fuori e le bagnò la mano. La musica esplose in schegge stonate che ferivano le orecchie. Peggy sussultò. Sulla tovaglia le sue dita si torcevano, bianche sul bianco, mentre artigli incontrollabili la costringevano a sollevare gli occhi spaventali. La musica si era data alla fuga, schiumando sulla scia di una batteria impazzita. Il locale era una cripta ammutolita, non si sentiva nemmeno respirare. Ragnatele di fumo galleggiavano nella luce purpurea sopra il palcoscenico. Nessun suono, a parte il tam tam soffocato della batteria. Il corpo di Peggy era come pietrificato sulla sedia, trasformato in roccia attorno al cuore palpitante: nell'alone incostante di fumo, stordita dall'alcol, fissava inorridita il punto in cui si trovava quella cosa. Era stata una donna. Aveva i capelli neri, una cornice di ebano aggrovigliato per la maschera di cera che era la sua faccia. Gli occhi cerchiati di nero erano chiusi dietro palpebre lisce e bianche come l'avorio. La bocca, una linea rigida senza labbra, sembrava una ferita rappresa di spada sotto il naso. La gola, le spalle e le braccia erano candide, immobili. Sporgenti dalle maniche di stoffa verde e trasparente, penzolavano mani di alabastro. I faretti ammantavano di scintillìi purpurei i due lati della statua di marmo. Sempre paralizzata, Peggy fissò con occhi sbarrati il volto statico della creatura, incrociando le dita in grembo con tale forza da far defluire tutto il sangue. La vibrazione dei tamburi nell'aria sembrò riempirle il corpo, mentre il ritmo le alterava il battito del cuore.

Nell'oscurità vuota che stava alle sue spalle sentì Len farfugliare: «Amo mia moglie ma, oh, tu sì che sei un bel cadavere» e sentì il suono asmatico di risatine impotenti che sgorgavano da Bud e Barbara. Il gelo continuava a salire dentro di lei come un'ondata silenziosa di marea. Da qualche parte nel buio denso di fumo un uomo si schiarì nervosamente la gola e dal pubblico si levò un mormorio di sollievo riconoscente. Ancora nessun movimento sul palco, nessun suono se non il ritmo indolente della batteria che picchiava contro il silenzio come qualcuno che cercasse di entrare da una porta lontana. Quella cosa, una vittima senza nome del disastro, rimaneva rigida e pallida mentre il distillato si faceva strada nelle sue vene ostruite dal sangue. Adesso la vibrazione dei tamburi accelerò, come il battito di un cuore in preda al panico. Peggy aveva la sensazione che il gelo cominciasse a divorarla. Cominciò a sentirsi la gola stretta, a respirare con affanno fra le labbra quasi chiuse. Le palpebre della svitata si mossero. Tutto a un tratto sulla sala calò un silenzio spaventoso. Anche il respiro si strozzò nella gola di Peggy quando la ragazza vide gli occhi pallidi che battevano e si aprivano. Qualcosa scricchiolò nella sua immobilità e il corpo di Peggy si schiacciò involontariamente contro lo schienale. I suoi occhi diventarono due grandi cerchi fissi che le risucchiavano nel cervello l'immagine della cosa che una volta era stata una donna. Ancora musica; un mugolio gutturale di ottoni che usciva dal nulla, come un animale fatto di tanti corni che piagnucolasse la sua disperazione in un vicolo senza luce. All'improvviso il braccio destro della svitata scattò sul fianco, con i tendini contratti. Il braccio sinistro si torse allo stesso modo, si protese all'esterno e poi ricadde inerte contro la coscia, striato di bianco e di rosso. Fuori il destro, fuori il sinistro, destro, sinistro, destro-sinistro-destro, come gli arti di una marionetta agitati dai fili di un burattinaio dilettante. La musica seguiva il tempo, con le spazzole della batteria che frusciavano all'unisono con i movimenti convulsi dei muscoli. Peggy si fece ancora più piccola, il corpo freddo e torpido, il volto una maschera livida e stravolta appena sfiorata dalle luci del palco. La svitata mosse il piede destro, con le movenze incontrollate indotte dal distillato che agiva sui muscoli della gamba. Una seconda e una terza contrazione fecero piegare la gamba sinistra, che guizzò all'infuori in uno spasmo violento, mentre il corpo della donna oscillava meccanicamente in a-

vanti, con la seta trasparente che sottolineava le luci e le ombre della figura. Peggy sentì l'improvviso sibilo che usciva dalle labbra strette di Bud e Len e un attacco di nausea le diffuse un senso schiumoso di malessere lungo le pareti dello stomaco. Il palco si velò improvvisamente davanti ai suoi occhi, con uno scintillio acquoso, e le sembrò che la creatura disarticolata puntasse proprio su di lei. Boccheggiò, stravolta dalle vertigini, e si ritrasse inorridita, ma senza riuscire a distogliere lo sguardo da quella faccia deformata. Vide la bocca trasformarsi in un abisso pronto a inghiottirla, poi in una cicatrice deforme e poi di nuovo in una ferita mostruosa. Vide le narici buie che si arricciavano, la carne che fremeva sotto le guance eburnee, le grinze che si aprivano e si chiudevano nel candore purpureo della fronte. Vide un occhio senza vita che ammiccava orrendamente e sentì il rantolo di una risata sbigottita che riempiva la sala. Mentre la musica aumentava di volume fino a diventare un rumore gracchiante, le braccia e le gambe della donna continuavano a dimenarsi con scatti convulsivi che proiettavano il suo corpo di qua e di là sul palco color porpora come una grossa bambola di stracci provvista di una vita spastica. Era un incubo in un sonno senza fine. Mentre guardava il ballo sconnesso e saltellante della svitata, Peggy rabbrividì di un terrore impotente. Il suo sangue era diventato ghiaccio; in lei non c'era più nulla di vitale, a parte il cuore che continuava dolorosamente a pompare come un mantice. I suoi occhi erano sfere impietrite fisse su quel corpo che ancheggiava, bianco e flaccido sotto la seta aderente. Poi qualcosa non andò per il verso giusto. Fino a quel momento la svitata aveva contenuto la sua frenesia muscolare entro una zona di alcuni metri di fronte al piano ambrato che faceva da sfondo alla sua danza parossistica. Adesso, trascinata dal suo movimento scoordinato, si dirigeva verso la ringhiera che circondava il palco. Peggy sentì il tonfo e il gemito cigolante del legno quando il fianco della creatura colpì la ringhiera. Si rattrappì su se stessa, tremando come una foglia, sempre ipnotizzata da quel volto spalmato di rosso i cui lineamenti ordinari erano deformati da contrazioni convulse. La svitata barcollò all'indietro. Peggy vide e sentì le sue mani da lebbrosa che schiaffeggiavano a tempo le cosce ricoperte dalla seta scagliosa. Poi la donna schizzò di nuovo in avanti, come una marionetta delirante, e lo stomaco picchiò con violenza contro la ringhiera di legno. Spalancò la

bocca nera, la richiuse, poi girò su se stessa senza controllo e piombò nuovamente contro la ringhiera, quasi sopra il tavolo a cui era seduta Peggy. Peggy smise di respirare. Sedeva inchiodata alla sedia, le labbra un cerchio tremante di terrore, con il sangue che pulsava nelle tempie. Vide la svitata che si rigirava in un turbinare frenetico di braccia e di gambe bianche. Il volto di un pallore innaturale si avvicinò minacciosamente a Peggy, mentre la svitata si accasciava sulla ringhiera, piegandosi verso il basso. La maschera di bianco screziata di lavanda la fissò da vicino, con gli occhi neri che si spalancavano in un'espressione di orrenda fissità. Peggy ebbe la sensazione che il pavimento cominciasse a muoversi. Il volto livido scomparve nel buio, poi riapparve in un'esplosione di luce. La musica si fece strada dai piedi di Peggy, pesanti come piombo, e le risalì fino al cervello in una sguaiata disarmonia. La svitata continuava a piegarsi in avanti, premendo contro la ringhiera come se volesse oltrepassarla. A ogni movimento convulso il tessuto diafano del vestito scivolava come una pellicola sul suo corpo, e ogni violenta collisione con la ringhiera faceva aderire la verde trasparenza alla carne rigonfia. Peggy seguì con lo sguardo, muta e paralizzata, l'attacco forsennato della creatura contro la ringhiera, incapace di distogliere gli occhi dal volto deformato con la nera corona di capelli crespi e aggrovigliati. Quello che successe dopo durò lo spazio confuso di pochi secondi. L'uomo dalla faccia tetra attraversò di corsa il palco arrossato dai faretti; la cosa che era stata una donna continuò a scagliarsi sulla ringhiera, mulinando le braccia e sporgendo il busto, mentre le gambe rigide tentavano di sollevarsi con movimenti spasmodici. Poi ricadde dall'altra parte, con le dita protese. Peggy si fece ancora più indietro, e l'urlo che stava per sgorgarle dalla gola divenne un mugolio strozzato quando la creatura precipitò sul tavolo, braccia e gambe un groviglio di bianca nudità. Barbara urlò, il pubblico emise dei rantoli soffocati e Peggy vide, con la coda dell'occhio, Bud che scattava con un'espressione di sbigottita sorpresa sulla faccia. La svitata scalciava e si dimenava sul tavolo come un pesce preso all'amo. La musica cessò, e la sua eco stridula si perse nel silenzio; per la sala si diffuse una folata di mormorii agitati e il buio imperversò in un'ondata travolgente che ottenebrò il cervello di Peggy. Poi la mano bianca e fredda le tappò la bocca, gli occhi neri la fissarono

sotto la luce purpurea e Peggy si sentì sprofondare nel buio. La sala piena di fumo e di orrore le girò intorno. Consapevolezza. Le si accese nella testa come una luce velata di candela. Davanti ai suoi occhi un suono mormorante, una macchia indistinta di ombre. Il fiato le gocciolò come sciroppo dalla bocca. «Eccomi, Peg.» Sentì la voce di Bud e avvertì la fredda consistenza metallica della fiasca premuta contro la bocca. Deglutì, sussultando appena quando il liquido le scese caldo nella gola e nello stomaco, poi tossì e allontanò la fiasca con le dita intorpidite. Dietro di lei un fruscio. «Ehi, è rinvenuta» disse Len. «La vecchia Olivia è tornata fra noi.» «Stai bene?» le chiese Barbara. Stava bene. Il suo cuore era come un tamburo appeso a una corda di pianoforte su cui qualcuno battesse molto piano. Non sentiva le mani e le gambe, non tanto per il freddo quanto per un torpore opprimente. I pensieri si muovevano con una tranquilla sonnolenza, il cervello era una macchina che funzionava senza fretta, avvolta in batuffoli di ovatta. Stava bene. Peggy fissò la notte con occhi insonnoliti. Si trovavano in cima a una collina. La decappottabile era ferma sul ciglio della strada. In basso il paese dormiva, un tappeto di luci e ombre sotto una luna color gesso. Un braccio si snodò come un serpente attorno alla sua vita. «Dove siamo?» gli chiese con voce languida. «A pochi chilometri dalla scuola» rispose Bud. «Come ti senti, dolcezza?» Lei si stiracchiò, sentendo il corpo come un delizioso fascio di muscoli tesi. Si abbandonò contro il braccio di Bud. «Benissimo» mormorò con un sorriso stentato e si grattò il punto rigonfio sulla spalla sinistra che le prudeva. La sua carne irradiava calore. La notte aveva una sua fosca luminosità. Le sembrava che ci fosse - chissà dove - un ricordo, ma era rannicchiato e nascosto dietro pieghe di totale appagamento. «Donna, eri proprio andata» disse Bud ridendo, e Barbara aggiunse: «Eri andata eccome!» e Len: «Olivia è finita al tappeto!» «Andata?» Il suo fiacco mormorio si perse nella notte.

La fiasca tornò da lei. Peggy bevve ancora, rilassandosi ulteriormente quando il liquore le iniettò aghi bollenti nelle vene. «Uomo, non ho mai visto uno svitato ballare come quella!» esclamò Len. Un brivido passeggero lungo la sua schiena, poi di nuovo il calore. «Oh,» fece Peggy «è vero, me n'ero dimenticata.» Sorrise. «È stato quello che definirei un gran finale!» esclamò ancora Len, trascinandosi addosso la sua compagna, che disse in un sussurro: «Lenny boy.» «PNS» borbottò Bud, giocherellando con i capelli di Peggy. «Che figli di buona donna.» Annaspò pigramente in cerca della manopola della radio. PNS (Persona Non-morta Senza-vita). Questa orrenda anomalia fisiologica venne scoperta durante la guerra quando, in seguito ad alcuni attacchi con gas batteriologici, si trovarono diversi soldati uccisi ancora in piedi che eseguivano una specie di rotazione spasmodica successivamente nota con il nome di 'danza degli svitati'. Il germe che provocava questa reazione fu poi isolato dal gas e adesso viene impiegato in esperimenti scientifici accuratamente controllati, condotti soltanto in presenza di un'autorizzazione legale e in condizioni di rigorosa sorveglianza. La musica li circondava, e le sue dita malinconiche giungevano fino al cuore. Peggy si era appoggiata al suo compagno e adesso non sentiva il bisogno di allontanare la sua mano. Chissà dove, nel profondo degli strati gelatinosi della sua mente, c'era qualcosa che tentava di scappare. Svolazzava come una falena impazzita, imprigionata nella cera di una candela che diventa sempre più dura, una falena che lotta con tutte le sue forze ma sente che quelle forze l'abbandonano man mano che il guscio si solidifica. Quattro voci cantavano piano nella notte: Se domani il mondo ci sarà ancora, sarò qui ad aspettarti, mio tesoro se anche le stelle ci saranno ancora il mio sogno lo esprimerò a loro Quattro giovani voci che cantano, un mormorio nell'immensità. Quattro corpi, due a due, indolenti, caldi e drogati. Un canto, un abbraccio... un'ac-

cettazione senza parole. Stella splendente, stella luminosa torna domani, la notte non riposa Le voci tacquero, ma il canto proseguì. Una ragazza sospirò. «Non è romantico?» disse Olivia. I figli di Noè Erano appena passate le tre del mattino quando il signor Ketchum oltrepassò il cartello su cui c'era scritto: ZACHRY: AB. 67. Emise un gemito. L'ennesimo paesetto di una fila interminabile sulla costa del Maine. Per un secondo strinse forte gli occhi, poi li riaprì e pigiò sull'acceleratore. La Ford schizzò in avanti. Magari, con un po' di fortuna, avrebbe trovato presto un motel decente, ma non era molto probabile che questo succedesse a Zachry, abitanti 67. Il signor Ketchum aggiustò il corpo massiccio sul sedile e stirò le gambe. Era stata una vacanza deludente. Aveva pensato a un viaggio in macchina attraverso le bellezze storiche del New England, in una comunione ideale con la natura e la nostalgia, invece si era annoiato e stancato, e aveva speso troppo. Il signor Ketchum non era soddisfatto. Mentre percorreva il corso del paesino, sembrava che tutti dormissero. L'unico rumore era quello prodotto dal motore della macchina, e tutto ciò che riusciva a vedere erano i fari davanti a sé, che illuminavano un altro cartello: VELOCITÀ 30 CHILOMETRI. «Certo, certo» borbottò disgustato, abbassando il piede sul gas. Le tre del mattino e i padri della città si aspettavano che lui percorresse la loro pidocchiosa borgata a passo di lumaca. Il signor Ketchum osservò gli edifici scuri che sfrecciavano accanto al finestrino. Tanti saluti, Zachry, disse fra sé. Addio, 67 abitanti. Poi nello specchietto retrovisore comparve l'altra macchina. Circa mezzo isolato più indietro, una berlina con un segnalatore girevole rosso sui tetto. Sapeva di che macchina si trattava. Alzò il piede dall'acceleratore e sentì il cuore che accelerava i battiti. Chissà, forse non si erano accorti che andava così veloce.

La risposta giunse quando la vettura nera si avvicinò alla Ford e un uomo con un grosso cappello si sporse dal finestrino anteriore. «Accosti» abbaiò. Il signor Ketchum deglutì a fatica per via della gola secca e rallentò, accostando l'auto al marciapiede. Tirò il freno a mano, girò la chiavetta e il motore si spense. La macchina della polizia puntò verso il marciapiede e si fermò. Si aprì lo sportello di destra. I fari della Ford delinearono la sagoma scura che si avvicinava. Il signor Ketchum si affrettò a premere con il piede sinistro il pulsante che regolava i fari; le luci si abbassarono. Deglutì di nuovo. Che seccatura. Alle tre del mattino, in un buco sperduto, un bifolco di poliziotto che ti pizzica per eccesso di velocità. Il signor Ketchum digrignò i denti e attese. L'uomo in divisa nera e cappello a tesa larga si sporse dal finestrino. «Patente.» Il signor Ketchum infilò la mano tremante nella tasca interna e tirò fuori il portafogli. Vi frugò in cerca della patente. La porse al poliziotto, notando quanto la sua faccia fosse priva di espressione. Rimase seduto tranquillo mentre il poliziotto puntava la luce della torcia sul documento. «Del New Jersey.» «Già, ecco... proprio così» disse il signor Ketchum. Il poliziotto continuò a esaminare la patente. Il signor Ketchum si mosse a disagio sul sedile e strinse le labbra. «Non è scaduta» disse alla fine. Vide che la testa scura del poliziotto si sollevava. Poi sussultò quando il raggio concentrato della torcia lo abbagliò. Scostò il capo. La luce non c'era più. Il signor Ketchum batté gli occhi, lacrimando. «Nel New Jersey non avete l'abitudine di leggere i cartelli stradali?» gli domandò il poliziotto. «Ecco, io... lei intende dire quel cartello che dice ab... abitanti 67?» «No, intendevo l'altro cartello» ribatté il poliziotto. «Oh.» Il signor Ketchum si schiarì la gola. «Be', quello è l'unico cartello che ho visto» disse. «Allora lei è un cattivo automobilista.» «Ecco, io...» «Su quel cartello c'è scritto che il limite di velocità è di trenta chilometri l'ora. Lei andava quasi a cento.» «Oh. Io... io temo di non averlo visto.» «Il limite di velocità è di trenta chilometri l'ora, che lei lo veda o no.» «Be'... anche... a quest'ora del mattino?»

«Ha visto forse un orario segnato sul cartello?» chiese il poliziotto. «No, certo che no. Voglio dire, il cartello non l'ho visto per niente.» «Davvero non l'ha visto?» Il signor Ketchum sentì i peli che gli si drizzavano sulla nuca. «Andiamo, per favore...» cominciò, senza troppa convinzione, poi s'interruppe e fissò il poliziotto. «Potrei riavere la mia patente?» riuscì finalmente a chiedere quando l'altro non disse nulla. Il poliziotto continuò a rimanere in silenzio. Rimase in piedi sulla strada, immobile. «Posso...?» azzardò il signor Ketchum. «Segua la nostra macchina» disse bruscamente il poliziotto e si allontanò. Il signor Ketchum lo fissò, sbalordito. Fu sul punto di gridargli dietro, ehi, aspetti! Il poliziotto non gli aveva nemmeno restituito la patente. Il signor Ketchum avvertì un'improvvisa sensazione di gelo allo stomaco. «Ma che storia è questa?» disse fra sé mentre seguiva con lo sguardo il poliziotto che risaliva a bordo. La macchina della polizia si scostò dal marciapiede e riaccese il segnalatore rosso sul tetto. Il signor Ketchum la seguì. «Tutto questo è ridicolo» disse ad alta voce. Non avevano il diritto di fare una cosa del genere. Si era forse tornati al Medio evo? Le sue labbra si restrinsero a formare una linea sottile, mentre seguiva la berlina nera lungo la strada principale. Due isolati più avanti la macchina della polizia svoltò. Il signor Ketchum vide che i suoi fari illuminavano la vetrina di un negozio. L'insegna consumata dal tempo diceva: HAND'S GROCERIES. Lungo la strada non c'erano lampioni. Era come guidare in un fiume d'inchiostro. Davanti a lui c'erano solo i tre occhi rossi dei fanalini posteriori e del segnalatore della macchina della polizia; dietro, un'oscurità impenetrabile. La degna conclusione di una giornata perfetta, pensò il signor Ketchum; sorpreso per eccesso di velocità a Zachry, Maine. Scosse la testa e gemette. Ma perché non aveva trascorso la vacanza a Newark? Alzarsi tardi, godersi gli spettacoli, mangiare al ristorante e guardare la televisione. La macchina della polizia svoltò a destra all'angolo successivo, poi, dopo un altro isolato, girò ancora a sinistra e si fermò. Il signor Ketchum accostò subito dietro quando la vide spegnere le luci. Tutto questo non aveva senso. Era solo melodramma da quattro soldi. Avrebbero potuto benissimo fargli la multa in strada. Era una mentalità da contadini. Prendersela con

qualcuno che viene da una grande città serve a darsi un senso di importanza e di rivalsa. Il signor Ketchum attese. Be', non aveva intenzione di mercanteggiare. Avrebbe pagato la sua multa senza dire una parola e poi se ne sarebbe andato. Tirò il freno a mano. All'improvviso aggrottò la fronte, rendendosi conto che potevano multarlo per una somma a loro piacimento. Se volevano potevano fargli pagare anche 500 dollari! Il grasso signor Ketchum aveva sentito parlare della polizia di provincia, e dell'autorità assoluta che esercitava. Si schiarì la gola appiccicaticcia. Be', tutto questo è assurdo, pensò. È la mia immaginazione che galoppa. Il poliziotto aprì lo sportello. «Scenda» gli disse. Non c'erano luci per la strada, e nemmeno nei palazzi vicini. Il signor Ketchum deglutì ancora. Riusciva solo a distinguere la figura nera dell'agente. «Questa... è la stazione di polizia?» chiese. «Spenga i fari e venga con me» disse il poliziotto. Il signor Ketchum premette il pulsante cromato e scese dalla macchina. Il poliziotto sbatté lo sportello, che emise un rumore forte, echeggiante, come se si trovassero all'interno di un magazzino buio, invece che in mezzo a una strada. Il signor Ketchum guardò in alto. L'illusione era completa. Non si vedevano né le stelle né la luna. Cielo e terra erano un'unica massa nera. Le dita robuste del poliziotto lo presero per un braccio. Per un attimo il signor Ketchum perse l'equilibrio, poi si riprese e cominciò a trotterellare accanto all'alta figura del poliziotto. «È buio, qui» si sentì dire con una voce che non gli sembrò del tutto familiare. Il poliziotto non fece commenti. Il suo collega si mise a camminare sull'altro lato. Dannati bifolchi nazisti, si disse. Stavano facendo del loro meglio per intimidirlo. Be', non ci sarebbero riusciti. Il signor Ketchum inalò una zaffata di aria umida, che sapeva di salmastro, e la rilasciò con un brivido. Uno schifo di paese di 67 abitanti, e ci sono due poliziotti a pattugliare la strada alle tre del mattino. Ridicolo. Per poco non inciampò sul gradino. Lo vide solo quando ci fu sopra. Il poliziotto alla sua sinistra lo prese per un gomito. «Grazie» farfugliò automaticamente il signor Ketchum, e quando l'agente non replicò si leccò le labbra. Cordiale come un somaro, pensò, e si

concesse un sorrisetto fugace, tutto per sé. Ecco, così andava meglio. Era inutile lasciarsi intimorire. Batté gli occhi quando la porta venne aperta e, suo malgrado, provò un senso di sollievo che gli ridiede vigore. Era una stazione di polizia, almeno. C'era la scrivania rialzata, la bacheca con gli annunci, una stufa nera e panciuta, non accesa, una panca scalfita addossata al muro, una porta, il pavimento ricoperto da un linoleum unto e screpolato che un tempo era stato verde. «Si sieda e aspetti» gli disse il primo poliziotto. Il signor Ketchum osservò il volto magro e angoloso, il colorito accentuato della carnagione. Non c'era divisione negli occhi, fra iride e pupilla. Erano un'unica macchia scura. La divisa nera che indossava gli si adattava alla perfezione. Il signor Ketchum non riuscì a vedere l'altro poliziotto, perché entrambi entrarono in una stanza adiacente. Rimase per un attimo a fissare la porta chiusa. Era meglio uscire, prendere la macchina e filarsela? No, avevano il suo indirizzo sulla patente. E poi forse volevano proprio che tentasse di fuggire. Non si può mai dire che razza di menti contorte possono avere i poliziotti di questi piccoli paesi. Potevano anche... sparargli, se avesse cercato di darsi alla fuga. Il signor Ketchum sedette pesantemente sulla panca. No, stava lasciando la sua immaginazione libera di correre. Quello era solo un paesino sulla costa del Maine, e la loro unica intenzione era quella di appioppargli una multa per... Be', ma allora perché non lo avevano ancora multato? Cos'era tutta quella sceneggiata? Il corpulento signor Ketchum strinse forte le labbra. Benissimo, lasciamo che recitino il loro copione. Sempre meglio che guidare, comunque. Chiuse gli occhi. Li farò riposare un poco, si disse. Dopo pochi secondi li riaprì. C'era un silenzio eccessivo. Si guardò intorno per la stanza male illuminata. Le pareti erano luride e spoglie, a parte un orologio e un quadro appeso dietro la scrivania. Era il ritratto - con ogni probabilità una copia - di un uomo barbuto. Indossava un berretto da marinaio. Forse uno degli antichi lupi di mare di Zachry. No, forse nemmeno quello. Probabilmente una riproduzione della Sears e Roebuck: Marinaio barbuto. Il signor Ketchum bofonchiò fra sé. Non riusciva proprio a capacitarsi che in una stazione di polizia ci fosse un quadro del genere. Forse perché Zachry si affacciava sull'Atlantico. Magari la sua principale fonte di reddi-

to era proprio la pesca. Ma che importanza aveva, in fin dei conti? Il signor Ketchum abbassò lo sguardo. Sentiva provenire dalla stanza adiacente le voci smorzate dei due poliziotti. Cercò di capire quello che dicevano, senza riuscirci. Fissò innervosito la porta chiusa. Vogliamo muoverci o no? pensò. Tornò a guardare l'orologio. Le tre e ventidue. Lo confrontò con il suo orologio da polso. Più o meno coincideva. La porta si aprì e ne uscirono i due agenti. Uno se ne andò, l'altro - quello che aveva preso la sua patente - si diresse alla scrivania e accese la lampada a collo d'oca, estrasse un voluminoso registro dal primo cassetto e cominciò a scriverci sopra. Era ora, pensò il signor Ketchum. Passò un minuto. «Io...» Il signor Ketchum si schiarì la gola. «Mi scusi...» S'interruppe quando il poliziotto sollevò lo sguardo dal registro e lo trafisse con un'occhiata gelida «Lei mi... cioè, sta per farmi una multa?» Il poliziotto tornò a concentrarsi sul registro. «Aspetti» disse. «Ma sono le tre passate del mat...» Il signor Ketchum si riprese appena in tempo. Si sforzò di sembrare freddo e combattivo. «Va bene» disse, secco. «Sarebbe così gentile da dirmi quanto dovrò aspettare ancora?» Il poliziotto continuò a scrivere sul registro. Il signor Ketchum se ne stava seduto tutto impettito, fissandolo. È intollerabile, si disse. Era l'ultima, fottuta volta che si avvicinava a meno di cento miglia dallo stramaledetto New England. Il poliziotto alzò la testa. «Sposato?» chiese. Il signor Ketchum lo guardò senza capire. «Lei è sposato?» «No, io... c'è scritto sulla patente» sbottò. Provò un fremito di piacere per avergli risposto in quel modo, ma nello stesso tempo avvertiva l'insorgere di uno strano timore ogni volta che parlava con l'agente. «La sua famiglia è nel Jersey?» gli chiese il poliziotto. «Sì. Cioè no. Ho solo una sorella nel Wiscon...» Il signor Ketchum non concluse la frase. Osservò il poliziotto che trascriveva la sua risposta. Aveva una gran voglia di farla finita con quell'indisponente interrogatorio. «Disoccupato?» chiese il poliziotto. «Niente affatto. Niente affatto» rispose risentito il signor Ketchum. «Sono un venditore, e lavoro per conto mio. Acquisto merce all'ingrosso da...»

Gli mancò la voce quando il poliziotto lo guardò in faccia. Deglutì due o tre volte prima che la saliva gli scendesse lungo la gola. Si rese conto di essere seduto proprio sul ciglio della panca, quasi dovesse prepararsi a scattare in difesa della propria vita. Si costrinse a sistemarsi più comodo. Respirò a fondo. Rilassati, si disse. Chiuse volutamente gli occhi. Ecco. Magari si sarebbe fatto un pisolino. Tanto vale prendere il meglio da questa situazione, si disse. La stanza era silenziosa, a parte il ticchettio metallico, insistito, dell'orologio. Il signor Ketchum sentì il cuore che gli batteva con pulsazioni lente e affaticate. Stava scomodo, sulla quella panca dura, e cercò una posizione più adatta alla sua corporatura massiccia. Ridicolo, pensò. Il signor Ketchum aprì gli occhi e aggrottò la fronte. Quel dannato quadro. Sembrava proprio che il marinaio barbuto lo stesse fissando. «Uh!» Il signor Ketchum chiuse la bocca di scatto e spalancò gli occhi, mostrando le iridi dilatate. Si spostò in avanti sulla panca, poi si ritrasse. Un uomo dalla faccia scura era chino su di lui e gli aveva appoggiato una mano sulla spalla. «Sì?» chiese il signor Ketchum, con un sobbalzo al cuore. L'uomo gli sorrise. «Comandante Shipley» disse. «Vuole seguirmi nel mio ufficio?» «Oh» fece il signor Ketchum. «Certo, certo.» Si tirò su, facendo una smorfia quando si accorse che aveva i muscoli della schiena tutti irrigiditi. L'uomo indietreggiò e il signor Ketchum finì di raddrizzarsi con un grugnito, dirigendo automaticamente lo sguardo verso l'orologio alla parete. Erano da poco passate le quattro. «Senta» disse al comandante, ancora non abbastanza sveglio da sentirsi intimidito. «Non potrei pagare la mia multa e andarmene?» Il sorriso di Shipley era privo di calore. «Qui a Zachry le cose funzionano in modo un po' diverso» replicò. Entrarono in un piccolo ufficio che puzzava di chiuso. «Si sieda» disse il comandante, mentre girava intorno alla scrivania. Il signor Ketchum si accomodò su di una scricchiolante sedia con lo schienale rigido. «Non capisco perché non posso pagare la multa e andarmene.» «Ogni cosa a suo tempo» disse Shipley. «Ma...» Il signor Ketchum non finì la frase. Il sorriso di Shipley dava

l'impressione di essere nient'altro che una minaccia diplomaticamente mascherata. Non gli restò che digrignare i denti, schiarirsi la gola e aspettare, mentre l'altro esaminava un foglio di carta sulla scrivania. Notò che il vestito del comandante gli stava malissimo. Buzzurri, pensò il grasso signor Ketchum, non sanno nemmeno conciarsi in modo decente. «Vedo che lei non è sposato» disse Shipley. Il signor Ketchum non replicò. Aveva deciso di ripagarli con la loro stessa moneta: parlare poco o niente. «Ha degli amici nel Maine?» gli chiese Shipley. «Perché?» «Sono solo domande di routine, signor Ketchum» rispose il comandante. «Il suo unico parente è una sorella nel Wisconsin?» Il signor Ketchum lo guardò senza parlare. Che diavolo c'entrava tutto questo con un'infrazione al codice della strada? «Allora?» insisté Shipley. «Ve l'ho già detto; cioè, l'ho detto all'agente. Non vedo...» «È qui per affari?» Il signor Ketchum aprì la bocca senza emettere alcun suono. «Ma perché mi fa tutte queste domande?» gli chiese. Piantala di tremare! ordinò a se stesso, infuriato. «Sono in vacanza. E proprio non capisco quello che sta succedendo! Fino a ora sono stato paziente ma, accidenti, esigo di essere multato e di potermene andare!» «Temo che sia impossibile» disse il comandante. Il signor Ketchum rimase a bocca spalancata. Era come risvegliarsi da un incubo e accorgersi che il sogno non era ancora finito. «Io... io non capisco» disse. «Dovrà comparire davanti al giudice.» «Ma questo è ridicolo.» «Davvero?» «Certo che lo è. Sono un cittadino americano ed esigo che vengano rispettati i miei diritti.» Il sorriso di Shipley svanì. «Lei ha posto un limite ai suoi diritti nel momento in cui ha infranto la nostra legge» disse. «Adesso deve pagare per questo, nel modo che verrà stabilito da noi.» Il signor Ketchum guardò l'altro con espressione vacua. Si rese conto di essere completamente nelle loro mani. Potevano multarlo per un importo a loro piacimento o sbatterlo in galera per un tempo indefinito. Tutte quelle

domande che gli avevano rivolto: lui non sapeva perché l'avessero fatto, ma si rendeva conto che le sue risposte lo avevano ritratto come un uomo quasi senza radici, con nessuno che si preoccupasse se era vivo o... La stanza sembrò turbinargli intorno. Cominciò a sudare. «Non potete fare questo» disse, ma non era un argomento valido. «Dovrà passare la notte in carcere» disse il comandante. «Domani mattina vedrà il giudice.» «Ma questo è ridicolo!» esplose il signor Ketchum. «Ridicolo!» Si riprese..«Ho il diritto di fare una telefonata» aggiunse subito. «Posso fare una telefonata. È un mio diritto legale.» «Lo sarebbe» disse Shipley «se ci fosse un telefono a Zachry.» Mentre lo conducevano in cella, il signor Ketchum vide un quadro nel corridoio. Era sempre il marinaio barbuto, ma stavolta non fece caso se il suo sguardo lo seguisse o meno. Il signor Ketchum si mosse. Il suo viso istupidito dal sonno rivelò un'espressione confusa. C'era un rumore metallico alle sue spalle; si alzò, appoggiandosi al gomito. Un poliziotto entrò nella cella portando un vassoio. «Colazione» disse. Era più anziano degli altri agenti, anche di Shipley. Aveva i capelli grigio ferro, e la faccia ben sbarbata sembrava cucita intorno alla bocca e agli occhi. La divisa gli cadeva male. Mentre l'agente stava per richiudere a chiave la porta, il signor Ketchum gli chiese: «Quando vedrò il giudice?» Il poliziotto gli rivolse un'occhiata distratta. «Non lo so» rispose e se ne andò. «Aspetti!» lo chiamò il signor Ketchum. I passi del poliziotto che si allontanava risuonarono cupi sul pavimento di cemento. Il signor Ketchum continuò a fissare il punto il cui si era trovato il poliziotto. Aveva ancora il cervello ottenebrato dal sonno. Si mise a sedere, prese a strofinarsi gli occhi con le dita intorpidite e alzò il polso. Le nove e sette minuti. L'omaccione fece una smorfia. Perdio, l'avrebbero sentito, eccome! Arricciò il naso, annusò, fece per prendere il vassoio, poi ritrasse la mano. «No» borbottò. Non avrebbe mangiato il loro dannato cibo. Se ne rimase seduto rigido, piegato sullo stomaco, a fissarsi i piedi senza scarpe. Ma il suo stomaco non collaborava, brontolando di protesta. «E va bene» disse dopo qualche minuto. Mandò giù la saliva e sollevò il

coperchio del vassoio. Non riuscì a soffocare un oh di sorpresa. Le tre uova erano fritte nel burro, come occhi giallo chiaro che fissavano il soffitto, e circondate da fette lunghe e croccanti di pancetta carnosa. Vicino c'era un piattino con quattro fette di pane tostato alte come un libro, spalmate con riccioli di burro, e una tazzina di marmellata. C'era anche un bel bicchierone di denso succo d'arancia e un piatto di fragole che rosseggiavano in una panna immacolata. Infine un grosso bricco da cui emanava l'aroma fragrante e inconfondibile di un caffè appena uscito dalla caffettiera. Il signor Ketchum prese il bicchiere di aranciata. Ne sorseggiò qualche goccia e se la passò sulla lingua per assaggiarla. L'acido citrico gli diede un piacevole pizzicore. Deglutì. Se anche era avvelenata, doveva essere opera di un maestro. Gli venne l'acquolina in bocca. Ricordò all'improvviso che, poco prima di essere fermato, stava appunto cercando un bar per mettere qualcosa sotto i denti. Mentre mangiava, con cautela ma anche di gusto, il signor Ketchum cercò di immaginare i motivi che si nascondevano dietro quella fantastica colazione. Era sempre la stessa mentalità rurale. Si erano pentiti di quell'errore grossolano. Poteva sembrare una spiegazione poco solida, ma quadrava. Il cibo era magnifico. Una cosa bisognava riconoscerla, a quelli del New England: cucinavano da dio. Di solito il signor Ketchum per colazione mangiava un panino dolce riscaldato e un caffè. Era dal tempo della sua infanzia, nella casa paterna, che non consumava una colazione come quella. Stava mandando giù la terza tazza di caffè cremoso quando in corridoio si sentì un rumore di passi. Il signor Ketchum sorrise. Un tempismo perfetto, pensò. Si alzò. Il comandante Shipley si fermò fuori dalla cella. «Ha fatto colazione?» Il signor Ketchum annuì. Se il comandante si aspettava che lo ringraziasse avrebbe avuto una brutta sorpresa. Il signor Ketchum raccolse la giacca. Il comandante non si mosse. «Allora...?» chiese il signor Ketchum dopo qualche minuto. Cercò di esprimersi in modo freddo e senza arroganza, ma ci riuscì solo a metà. Il comandante Shipley lo guardò in modo inespressivo. Il signor Ketchum si sentì mancare il fiato. «Posso chiedere...?» cominciò.

«Il giudice non è ancora arrivato» disse Shipley. «Ma...» Il signor Ketchum non sapeva più cosa dire. «Sono venuto solo per avvisarla» spiegò Shipley. Si voltò e sparì. Il signor Ketchum era fuori di sé. Guardò gli avanzi della colazione, come se contenessero le risposte ai suoi perché. Si tamburellò un pugno sulla coscia. Intollerabile! Che stavano cercando di fare... intimidirlo? Allora, perdio... ... ci stavano riuscendo. Il signor Ketchum si attaccò alle sbarre. Guardò su, poi fissò il corridoio vuoto. C'era un groppo gelido dentro di lui, come se il cibo si fosse trasformato in piombo nello stomaco. Picchiò una volta il taglio della mano destra contro le sbarre. Perdio! Perdio! Erano le due del pomeriggio quando il comandante Shipley e il poliziotto anziano giunsero alla porta della cella. Senza dire una parola, l'agente la aprì. Il signor Ketchum uscì in corridoio e aspettò di nuovo, approfittandone per infilarsi la giacca mentre la porta veniva richiusa. Marciò a passi corti e decisi in mezzo ai due uomini, e non degnò di un'occhiata il quadro alla parete. «Dove stiamo andando?» chiese. «Il giudice è ammalato» rispose Shipley. «La stiamo portando a casa sua per pagare la multa.» Il signor Ketchum inspirò a fondo. Non avrebbe discusso con loro; proprio non ne aveva voglia. «D'accordo» disse. «Se è così che funzionano le cose da voi.» «Solo così» ribadì il comandante, guardando davanti a sé, senza la minima espressione sul volto. Il signor Ketchum si concesse un timido sorriso. Tanto meglio. Ormai era quasi fatta. Avrebbe pagato la sua multa e se la sarebbe filata. Fuori il tempo era nebbioso. La nebbia veniva dal mare e rotolava lungo la strada come il fumo di un incendio sotto controllo. Il signor Ketchum infilò il cappello e rabbrividì. L'aria umida sembrava filtrargli dentro la carne, e penetrare nelle ossa. Una giornataccia, pensò. Discese i gradini, cercando con gli occhi la sua Ford. Il poliziotto anziano aprì lo sportello posteriore della macchina della polizia e Shipley gli indicò di salire a bordo. «E la mia macchina?» chiese il signor Ketchum. «Torneremo qui dopo che avrà incontrato il giudice» disse Shipley. «Oh, lo...»

Il signor Ketchum ebbe un attimo di esitazione, poi si chinò e si infilò nella macchina, sprofondando sul sedile. Rabbrividì quando il freddo del cuoio passò attraverso i calzoni di lana. Si scostò per fare posto al comandante. Il poliziotto richiuse lo sportello. Di nuovo quel suono vuoto, come il richiudersi del coperchio di una bara all'interno di una cripta. Il signor Ketchum fece un sorrisetto, immaginandosi vittima di una cosa del genere. L'agente salì a bordo e il signor Ketchum sentì il motore che prendeva vita, tossicchiando, con un suono liquido. Se ne stette seduto, esalando respiri piccoli e profondi, mentre il poliziotto toglieva l'aria e dava gas. Guardò fuori dal finestrino alla sua sinistra. La nebbia sembrava proprio fumo. Se non ci fosse stata quell'umidità che penetrava nelle ossa, sarebbe stato come trovarsi all'interno di un garage in fiamme. Il signor Ketchum si schiarì la gola. Sentì il comandante che si muoveva sul sedile accanto a lui. «Freddo» gli disse, in modo automatico. Il comandante non rispose nulla. Il signor Ketchum si appoggiò allo schienale mentre la macchina si staccava dal marciapiede, faceva una svolta a u e si avviava lentamente lungo la strada velata di nebbia. Ascoltò il sibilo stridente delle gomme sull'asfalto bagnato e il fruscio ritmico dei tergicristalli che tracciavano segmenti semicircolari sul parabrezza appannato. Dopo qualche secondo guardò l'orologio. Erano quasi le tre. Mezza giornata buttata via in quella fogna di paese. Tornò a guardare fuori dal finestrino, mentre Zachry scorreva via come un fantasma. Gli sembrò di vedere dei palazzi di mattoni lungo il marciapiede, ma non ne fu sicuro. Abbassò lo sguardo sulle sue mani bianche, poi diede un'occhiata a Shipley. Il comandante se ne stava seduto dritto, rigido come un palo, e aveva gli occhi fissi davanti a sé. Il signor Ketchum deglutì. L'aria sembrava ristagnare nei polmoni. Sulla strada principale la nebbia sembrava ancora più fitta. Probabilmente è il vento che viene dal mare, pensò il signor Ketchum. Guardò lungo la strada, in su e in giù. Negozi e uffici parevano chiusi. Guardò dalla parte opposta. Tutto chiuso anche lì. «Che fine hanno fatto tutti quanti?» chiese. «Cosa?» «Ho chiesto, come mai non c'è nessuno?» «Stanno a casa» disse il comandante.

«Ma è mercoledì» obiettò il signor Ketchum. «I vostri... negozi non sono aperti?» «È una brutta giornata» rispose Shipley. «Non ne vale la pena.» Il signor Ketchum osservò il volto giallastro del funzionario, ma distolse lo sguardo in tutta fretta. Aveva come un senso di gelida premonizione che gli metteva nuovamente in subbuglio lo stomaco. Ma che razza di posto è questo? si chiese. Già era stato brutto starsene in cella, ma lì fuori, in quel mare di nebbia, era ancora peggio. «Già» si sentì dire, con la voce rotta dal nervosismo. «Ci sono soltanto sessantasette abitanti, non è così?» Il comandante non disse nulla. «Quando... quando è stata fondata Zachry?» Nel silenzio sentì Shipley che faceva schioccare rumorosamente le nocche delle dita. «Centocinquanta anni fa» gli rispose. «Sono tanti» commentò il signor Ketchum, deglutendo a fatica. Gli doleva un po' la gola. Andiamo, si disse. Rilassati. «Come mai si chiama Zachry?» Le parole gli sgorgarono quasi suo malgrado. «Fu fondata da uno che si chiamava Noè Zachry» rispose il comandante. «Oh. Oh, capisco. Immagino che quel quadro giù alla stazione...» «Proprio così» disse Shipley. Il signor Ketchum batté le palpebre. Allora quello era Noè Zachry, fondatore del paese che stavano attraversando... ... isolato dopo isolato dopo isolato. Quando ci pensò, il signor Ketchum provò un groppo gelido allo stomaco. Perché c'erano solo sessantasette anime in un centro abitato così grande? Aprì la bocca per chiederlo, ma non ne ebbe il coraggio. La risposta poteva essere quella sbagliata. «Perché ci sono solo...?» Le parole gli vennero fuori lo stesso, prima che potesse impedirselo. Il signor Ketchum sobbalzò sul sedile, turbato, mentre se ne rendeva conto. «Che cosa?» «Niente, niente. Cioè...» Il signor Ketchum respirò a fondo, scosso da un tremito. Niente da fare, doveva saperlo. «Perché ci sono solo sessantasette abitanti?» «Se ne vanno» rispose Shipley. Il signor Ketchum batté gli occhi. La risposta lo aveva deluso. Aggrottò

la fronte. Be', che c'era di strano? Tagliata fuori, antiquata, Zachry non poteva avere grande attrattiva per le generazioni più giovani. Era inevitabile che gravitassero verso luoghi più interessanti. Ketchum spostò il corpo massiccio per trovare una posizione più comoda. Ma certo. Io non vedo l'ora di abbandonare questo posto umido e malsano, si disse, e non vivo nemmeno qui. Il suo sguardo si spostò sul parabrezza, attratto da qualcosa. C'era uno striscione in mezzo alla strada: STASERA GRIGLIATA. Una festa, pensò. Probabilmente si concedevano un po' di baldoria un paio di volte al mese, una bella mangiata di dolcetti locali e un'orgia di reti da pesca per creare un po' di colore locale. «Ma chi era questo Noè Zachry?» chiese. Il silenzio gli stava dando di nuovo ai nervi. «Un capitano di marina» rispose Shipley. «Ah sì?» «Andava a caccia di balene nei mari del sud.» La strada finì all'improvviso. La macchina svoltò a sinistra in una stradina lurida. Il signor Ketchum vide dei cespugli scuri che sfioravano il finestrino. Si sentiva solo il rumore del motore che arrancava in seconda e quello del brecciolino che schizzava da sotto le ruote. Ma dove vive il giudice, in cima una montagna? Spostò il peso del corpo e grugnì. Adesso la nebbia si stava diradando. Si vedeva l'erba e gli alberi, tutti di un colore grigiastro. La macchina girò e si ritrovò a fronteggiare l'oceano. Il signor Ketchum osservò la coltre di nebbia opaca sotto di loro. La macchina girò ancora e stavolta aveva davanti la collina. Il signor Ketchum tossì educatamente. «È... ehm, è quella lassù la casa del giudice?» chiese. «Sì» rispose il comandante. «È in alto» disse il signor Ketchum. La macchina continuò ad arrampicarsi lungo la strada stretta di terra battuta, ritrovandosi davanti ora l'oceano, ora Zachry, ora la casa minacciosa in cima alla collina. Era a tre piani, di un colore bianco sporco, sormontata da una torre molto alta. Sembra vecchia quanto Zachry, pensò il signor Ketchum. La macchina svoltò, e l'oceano si parò nuovamente di fronte a lui. Il signor Ketchum si guardò le mani. Era un effetto della luce o gli tremavano davvero? Cercò di deglutire, ma aveva la gola completamente secca, e fu costretto a tossire rumorosamente. È tutto così stupido, si disse; non c'è un motivo al mondo per questa sceneggiata. Serrò i pugni quasi

senza accorgersene. Adesso la macchina stava risalendo l'ultimo pendio verso la casa. Il signor Ketchum si sentì mancare il fiato. Non voglio andarci, sentì qualcuno dire nella sua testa. Provò l'impulso improvviso di spalancare lo sportello e di scappare via. I muscoli si tesero in modo spasmodico. Chiuse gli occhi. Per l'amor del cielo, basta! strillò fra sé. Non c'era nulla di sbagliato in tutto ciò, se non la sua interpretazione distorta dei fatti. Erano tempi moderni. Ogni cosa aveva una spiegazione e ogni persona aveva una ragione. Anche la gente di Zachry aveva una ragione; una meschina diffidenza nei confronti di tutti quelli che venivano dalla città. Era il loro modo di giustificare una rivalsa, socialmente accettato. Aveva senso. In fin dei conti... La macchina si fermò. Il comandante aprì lo sportello dal suo lato e scese. Il poliziotto andò dietro e aprì l'altro sportello per il signor Ketchum, il quale scoprì che una gamba e un piede si erano addormentati. Dovette aggrapparsi al tettuccio della macchina per non cadere. Sbatté il piede a terra. «Mi si è addormentato» disse. Nessuno dei due uomini fece commenti. Il signor Ketchum diede un'occhiata alla casa e strabuzzò gli occhi. Gli era sembrato di vedere qualcuno che accostava una tenda verde scura. Sobbalzò ed emise un gridolino di sorpresa quando si sentì toccare il braccio e vide il comandante che gli indicava la casa. I tre uomini si avviarono. «Io, ecco... temo di non avere molti contanti con me» disse. «Spero che un assegno al portatore andrà bene lo stesso.» «Certo» lo rassicurò il comandante. Risalirono i gradini della veranda e si fermarono davanti alla porta. Il poliziotto girò una grossa chiave d'ottone e da dentro si sentì risuonare un campanello. Il signor Ketchum sbirciò fra le tendine della porta. Riuscì a distinguere all'interno la sagoma scheletrica di un attaccapanni. Spostò il peso da un piede all'altro e le assi di legno scricchiolarono sotto di lui. Il poliziotto suonò di nuovo il campanello. «Forse sta... troppo male» suggerì il signor Ketchum senza troppa convinzione. Nessuno dei due uomini lo degnò di uno sguardo. Il signor Ketchum sentì i muscoli che si tendevano. Si guardò alle spalle. Potevano afferrarlo se avesse tentato di scappare? Rigirò la testa, disgustato. Paga la tua multa e vattene, si disse pazientemente. Tutto qui. Paghi la multa e te ne vai.

Dentro la casa ci fu un movimento indistinto. Il signor Ketchum guardò su e trasalì, suo malgrado. Una donna alta si stava avvicinando alla porta. La porta si aprì. La donna era magra e indossava un vestito nero lungo fino alle caviglie, con una spilla bianca ovale all'altezza della gola. Aveva la faccia scura, segnata da rughe sottili. Il signor Ketchum si tolse automaticamente il cappello. «Si accomodi» disse la donna. Il signor Ketchum entrò nell'atrio. «Può lasciare qui il cappello» suggerì la donna indicando l'attaccapanni, che sembrava un albero rinseccolito da un incendio. Il signor Ketchum appese il cappello a uno dei pioli scuri. Mentre lo faceva lo sguardo gli cadde su un grosso quadro appeso in fondo alle scale. Fece per dire qualcosa, ma la donna non glielo permise. «Per di qua» intimò, precedendolo. Attraversarono l'atrio. Mentre vi passava accanto il signor Ketchum osservò il quadro. «Chi è quella donna» chiese «che sta in piedi accanto a Zachry?» «Sua moglie» rispose il comandante. «Ma lei...» La voce del signor Ketchum s'interruppe improvvisamente, mentre un gemito gli saliva dalla gola. Sconvolto, lo soffocò schiarendosi subito la voce. Si vergognava di se stesso. Eppure... La moglie di Zachry? La donna aprì una porta. «Aspetti qui dentro» gli disse. L'uomo massiccio entrò. Si girò per dire qualcosa al comandante, appena in tempo per vedere la porta che si chiudeva. «Senta, ehm...» Andò verso la porta e provò la maniglia. Non si apriva. Il signor Ketchum si accigliò, ignorando i battiti forsennati del suo cuore. «Ehi, ma che succede?» La sua voce echeggiò per la stanza, con la sua nota falsamente gioviale. Si voltò e si guardò intorno. La stanza era vuota. Era una stanza quadrata, vuota. Tornò a rivolgersi verso la porta, muovendo le labbra come se cercasse le parole giuste. «E va bene,» disse senza pensarci «è molto...» Girò bruscamente la maniglia. «D'accordo, è uno scherzo molto divertente.» Perdio, doveva essere impazzito. «Ho accettato tutto quello che...» Ci fu un suono che lo fece girare di scatto, snudando i denti. Non c'era niente. La stanza era sempre vuota. Si guardò intorno, in preda a un senso di vertigini. Cos'era quel suono? Un suono cupo e smorzato, come acqua che scorresse a una certa distanza.

«Ehi» disse automaticamente, voltandosi verso la porta. «Ehi!» gridò. «Piantatela! Ma chi credete di essere?» Si girò sulle gambe che gli tremavano. Il suono era più forte. Il signor Ketchum si passò una mano sulla fronte. Era madida di sudore. Lì dentro faceva caldo. «Va bene, va bene,» disse «è uno scherzo simpatico, ma...» Prima di finire la frase, la sua voce si era trasformata in un singhiozzo disperato. Il signor Ketchum barcollò un poco. Guardò la stanza, girò su se stesso e si appoggiò alla porta. La mano protesa toccò la parete e schizzò subito all'indietro. Scottava. «Eh?» si domandò, incredulo. Era impossibile. Era uno scherzo. Era la loro idea distorta di uno scherzo, un gioco che recitavano, un gioco che si chiamava: spaventa il cittadino con la puzza sotto il naso. «E va bene!» urlò. «Va bene! È divertente, è divertentissimo! Adesso fatemi uscire da qui o passerete dei guai!» Picchiò sulla porta, poi la prese a calci. La stanza diventava sempre più calda. Era calda quasi come un... Il signor Ketchum era pietrificato. Spalancò la bocca senza emettere parola. Le domande che gli avevano rivolto. Il fatto che i vestiti cadevano male addosso a tutti quelli che aveva incontrato. Il cibo abbondante che gli avevano servito. Le strade vuote. Il colorito bruno degli uomini e delle donne, quasi da selvaggi. Il modo in cui tutti lo guardavano. E la donna nel quadro. La moglie di Noè Zachry... un'indigena con i denti a punta. STASERA GRIGLIATA. Il signor Ketchum urlò. Prese a calci e spintonò la porta, vi si gettò contro con tutto il peso del corpo massiccio. Urlò con tutto il fiato che aveva. «Fatemi uscire! Fatemi uscire! FATEMI... USCIRE!» La cosa peggiore era che proprio non riusciva a rassegnarsi all'idea che stesse succedendo veramente. L'uomo dei giorni di festa «Farai tardi» disse lei. Lui si appoggiò stancamente contro la spalliera della sedia. «Lo so» rispose.

Erano in cucina e stavano facendo colazione. David non aveva mangiato molto. Più che altro aveva bevuto caffè nero e aveva fissato la tovaglia con aria assente. C'erano delle linee sottili che l'attraversavano e che a lui sembravano incroci autostradali. «Allora?» chiese lei. Lui fu scosso da un brivido e distolse lo sguardo dalla tovaglia. «Sì» rispose. «Va bene.» Continuò a rimanere seduto. «David» disse lei. «Lo so, lo so,» replicò «farò tardi.» Non era arrabbiato. Non c'era più rabbia dentro di lui. «Non c'è dubbio» disse lei, mentre imburrava il pane tostato. Vi spalmò sopra un denso strato di marmellata di lamponi, poi ne morse un pezzo e cominciò a masticarlo rumorosamente. David si alzò e attraversò la cucina. Giunto alla porta si bloccò e si girò, fissando la nuca di sua moglie. «Perché non potrei?» le chiese di nuovo. «Perché non puoi» rispose lei. «Tutto qui.» «Ma perché?» «Perché hanno bisogno di te» gli rispose. «Perché ti pagano bene e tu non potresti fare nient'altro. Non è ovvio?» «Potrebbero trovare qualcun altro.» «Oh, falla finita» disse lei. «Lo sai che non lo farebbero mai.» Lui strinse le mani a pugno. «Perché devo essere io l'unico?» domandò. Lei non rispose. Restò seduta a mangiare il suo pane tostato. «Jean?» «Non c'è più niente da dire» tagliò corto lei, masticando. Si voltò. «E adesso vuoi deciderti ad andare?» continuò. «Non dovresti fare tardi, oggi.» David avvertì un brivido che gli percorreva la came. «No. Oggi no.» Lasciò la cucina e andò al piano di sopra. Si lavò i denti, si lucidò le scarpe e scelse una cravatta. Prima delle otto era sceso di nuovo. Andò in cucina. «Ciao» disse. Sua moglie protese la guancia e lui la baciò. «Ciao, caro» disse lei. «Buona...» S'interruppe di colpo. «... giornata?» completò per lei. «Grazie.» Si voltò. «Sarà un'ottima

giornata.» Aveva smesso di guidare l'auto da un bel po' di tempo. Ogni mattina raggiungeva la stazione a piedi. Non gli piaceva nemmeno farsi dare un passaggio da qualcun altro o prendere un autobus. Alla stazione si fermò sulla banchina ad aspettare il treno. Non aveva un giornale con sé. Non li comprava più. Non gli piaceva leggere i giornali. «'giorno, Garret.» Si voltò e vide Henry Coulter, che lavorava anche lui in centro. Coulter gli diede una pacca sulla schiena. «Buongiorno» disse David. «Come ti va?» chiese Coulter. «Bene, grazie.» «Bene. Che programmi hai, per il quattro luglio?» David deglutì. «Ecco...» cominciò. «Io, invece, porto la famiglia nei boschi» disse Coulter. «Per noi niente fuochi artificiali del cavolo. Tutti sulla vecchia bagnarola e via lontano, finché i fuochi sono finiti.» «In macchina» disse David. «Sissignore» rispose Coulter. «Più lontano possibile.» Cominciò da solo. No, pensò David. Non adesso. Lo ricacciò indietro, nell'oscurità. «... blicità» concluse Coulter. «Eh?» chiese lui. «Ho detto che secondo me le cose vanno bene, nella pubblicità.» David si schiarì la gola. «Oh, certo» disse. «Vanno benone.» Si dimenticava sempre della bugia che aveva raccontato a Coulter. Quando arrivò il treno, lui si sistemò nella carrozza per non fumatori, sapendo che Coulter fumava sempre un sigaro durante il viaggio. Non voleva sedere accanto a Coulter. Non ora. Per tutto il tragitto fino in centro rimase seduto a guardare fuori dal finestrino. Per lo più osservò il traffico sulla strada e sull'autostrada; ma una volta, mentre il treno attraversava sferragliando un ponte, guardò giù verso la superficie di un lago che sembrava uno specchio. Un'altra volta piegò la testa all'indietro e guardò il sole. Era arrivato all'ascensore quando si fermò. «Sale?» chiese l'uomo con l'uniforme marrone, piantando lo sguardo su

David. «Sale?» ripeté. Poi richiuse le porte scorrevoli. David restò immobile. La gente cominciò ad accalcarsi intorno a lui. Dopo un attimo si voltò e si fece largo a spallate, infilandosi tra le porte. Mentre usciva, il calore infuocato di luglio lo avvolse. Camminò lungo il marciapiede come un sonnambulo. All'isolato successivo entrò in un bar. Dentro era fresco e buio. Non c'erano clienti. Non si vedeva nemmeno il barista. David si lasciò cadere nell'ombra di un separé e si sfilò il cappello. Appoggiò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Non poteva farlo. Proprio non poteva andare in ufficio. Qualsiasi cosa dicesse Jean, o chiunque altro. Strinse il bordo del tavolo con le mani e continuò a stringere fino a quando le dita non gli divennero esangui. Non ci sarebbe andato, nemmeno per sogno. «Desidera qualcosa?» domandò una voce. David riaprì gli occhi. Il barista era in piedi accanto al separé e lo fissava. «Sì, ecco... birra» rispose. Detestava la birra, ma sapeva di dover consumare qualcosa, in cambio del privilegio di restarsene seduto e indisturbato in quel fresco silenzio. Non l'avrebbe bevuta. Il barista gli portò la birra e David la pagò. Poi, quando l'altro se ne fu andato, si mise a rigirare lentamente il bicchiere sul piano del tavolo. Mentre lo faceva cominciò di nuovo. Lo ricacciò via con un rantolo. No! disse, con disperazione. Dopo un po' si alzò e lasciò il bar. Erano le dieci passate. Naturalmente non aveva nessuna importanza. Sapevano che era sempre in ritardo. Sapevano che cercava sempre di liberarsene e che non ci riusciva mai. Il suo ufficio si trovava sul retro dell'appartamento, uno stretto cubicolo provvisto soltanto di un tappeto, un divano e una piccola scrivania con sopra matite e fogli di carta bianca. Era tutto quello che gli serviva. Una volta aveva avuto una segretaria, ma non gli era piaciuta l'idea di una donna seduta fuori dalla porta che lo sentiva urlare. Entrò senza che lo vedesse nessuno. Si infilò dal corridoio attraverso un ingresso di servizio. Appena entrato richiuse la porta a chiave, poi si tolse la giacca e la depose sulla scrivania. L'aria era viziata, nella stanza, così andò alla finestra e l'apri. In basso la città si muoveva. Rimase lì a guardare. Quanti, stavolta? si domandò. Emise un sospiro profondo e si voltò. Be', ormai c'era. Era inutile esitare

ancora. Ormai era costretto a farlo. La cosa migliore era liberarsene al più presto e non pensarci più. Chiuse le veneziane, si diresse verso il divano e si sdraiò. Armeggiò un poco con il cuscino, si stiracchiò e s'immobilizzò. Quasi subito sentì le membra che s'intorpidivano. Ebbe inizio. Stavolta non lo bloccò. Gli gocciolò nel cervello come ghiaccio sciolto. Infuriò come vento d'inverno. Vorticò come nevischio. Saltò e corse e s'inarcò ed esplose e la sua mente ne fu piena. David s'irrigidì e cominciò a respirare a fatica, con il petto che si torceva per il bisogno d'aria, e il battito del cuore come una pugnalata violenta. Le mani si ripiegarono come artigli bianchi, stringendo e graffiando il divano. Tremò e gemette e si contorse. Alla fine urlò. Urlò per un tempo molto lungo. Quando fu tutto finito, giacque inerte e immobile sul divano, gli occhi come sfere di vetro ghiacciato. Appena ne fu capace sollevò il braccio e guardò l'orologio. Erano quasi le due. Si rimise in piedi non senza fatica. Si sentiva le ossa pesanti come piombo, ma riuscì ad arrancare fino alla scrivania e a sedersi. Scrisse su un foglio di carta e, quando ebbe concluso, si lasciò andare e si addormentò, esausto. Più tardi si svegliò e portò il foglio di carta al suo superiore, il quale gli rivolse un'occhiata e annuì. «Quattrocentottantasei, eh?» disse il superiore. «Ne è sicuro?» «Sicurissimo» rispose David con calma. «Li ho visti uno per uno.» Si guardò bene dal dire che fra loro c'erano Coulter e la sua famiglia. «Benissimo» disse il superiore. «Adesso vediamo. Quattrocentocinquantadue per incidenti stradali, diciotto per annegamento, sette per insolazione, tre per effetto dei fuochi artificiali e sei per cause diverse.» Come quella ragazzina che morirà in un incendio, pensò David. Come quel bambino che ingerirà veleno per formiche. Come quella donna che verrà giustiziata sulla sedia elettrica, o quell'uomo ucciso dal morso di un serpente. «Be'» disse il superiore. «Diciamo... oh, quattrocentocinquanta. Fa sempre impressione quando muore più gente di quanto prevediamo.» «Certo» disse David. La notizia era sulla prima pagina di tutti i giornali quello stesso pomeriggio. Mentre David se ne tornava a casa, l'uomo di fronte a lui si rivolse al vicino e gli disse: «Quello che mi piacerebbe sapere è... ma come diavo-

lo fanno a saperlo?» David si alzò e andò verso la piattaforma in fondo alla vettura. Fino a quando non scese rimase ad ascoltare il cigolio regolare delle ruote e pensò a quel quattro di luglio. Il nuovo vicino di casa 20 luglio Era il momento di trasferirsi. Aveva trovato una piccola casa ammobiliata su Sylmar Street. Il sabato mattina vi si stabilì e fece il giro dei vicini per presentarsi. «Buongiorno» disse al vecchio che stava sfoltendo l'edera nella casa accanto. «Mi chiamo Theodore Gordon. Mi sono appena trasferito.» Il vecchio si raddrizzò e gli strinse la mano. «Come va?» chiese. Si chiamava Joseph Alston. Un cane uscì scodinzolando dalla veranda e andò ad annusare i risvolti dei pantaloni di Theodore. «Sta facendo la sua conoscenza» disse il vecchio. «Com'è carino» commentò Theodore. Dalla parte opposta della strada abitava Inez Ferrel. Era una donna magra, più vicina ai trenta che ai quaranta, e lo accolse sulla porta in vestaglia. Theodore si scusò per il disturbo. «Oh, non c'è problema» disse lei. Quando suo marito era in giro a vendere, aveva un sacco di tempo libero. «Spero che saremo buoni vicini» le disse Theodore. «Sono sicura di sì» rispose Inez Ferrel. Lo seguì con lo sguardo dalla finestra mentre lui si allontanava. Alla porta successiva, proprio di fronte a casa sua, bussò piano perché c'era un cartello con su scritto: LAVORATORE NOTTURNO. Aprì la porta Dorothy Backus, una donnetta dall'aria scialba, sui trentacinque anni. «Felicissimo di conoscerla» disse Theodore. Subito dopo c'era la famiglia di Walter Morton. Mentre Theodore risaliva il vialetto, sentì Bianca Morton che parlava ad alta voce con il figlio, Walter jr. «Non sei abbastanza grande per stare fuori fino alle tre del mattino!» gli stava dicendo. «Soprattutto con una ragazza giovane come Katherine McCann!»

Theodore bussò e il signor Morton, cinquantadue anni, calvo, gli aprì la porta. «Sono appena venuto ad abitare dall'altra parte della strada» disse Theodore, sorridendo a entrambi. Patty Jefferson, alla porta successiva, lo fece accomodare. Mentre parlava con lei, Theodore vide, dalla finestra che affacciava sul retro, il marito, Arthur, che riempiva una piscina di gomma per i loro due figli, un ragazzo e una ragazza. «Gli piace tanto quella piscina» disse Patty, con un sorriso. «Ci scommetto» replicò Theodore. Mentre si allontanava notò la casa vuota subito dopo. Di fronte, rispetto ai Jefferson, c'erano i McCann e la loro figlia quattordicenne, Katherine. Mentre Theodore si avvicinava alla porta sentì la voce di James McCann che diceva: «Ah, ma è impazzito. Perché mai dovrei prendermi il suo tagliabordi? Solo perché mi ha prestato un paio di volte il suo pidocchioso tagliaerba?» «Tesoro, ti prego» disse Faye McCann. «Devo finire questi appunti in tempo per la prossima riunione del Consiglio...» «Solo perché Kathy esce con quel moccioso di suo figlio...» brontolò suo marito. Theodore bussò alla porta e si presentò. Scambiò qualche parola con loro, informando la signora McCann che avrebbe aderito con piacere al Consiglio nazionale dei cristiani e degli ebrei. Era un'organizzazione degna di rispetto. «Che lavoro fa, Gordon?» gli chiese McCann. «Sono nel campo della distribuzione» rispose Theodore. Alla porta successiva due ragazzi tagliavano l'erba e la raccoglievano col rastrello, mentre il loro cane gli saltellava intorno. «Salve» disse Theodore. I ragazzi gli risposero con un grugnito e lo seguirono con lo sguardo mentre risaliva verso la veranda. Il cane lo ignorò. «Io gliel'avevo detto.» La voce di Henry Putnam gli giunse attraverso la finestra del salotto. «Metti un negro nel mio quartiere e vedrai come va a finire. Tutto qui.» «Sì, caro» rispose la signora Irma Putnam. Theodore bussò alla porta e il signor Putnam gli venne ad aprire in canottiera. Sua moglie era sdraiata sul divano. Soffriva di cuore, gli spiegò il signor Putnam. «Oh, mi dispiace» commentò Theodore. Nell'ultima casa vivevano i signori Gorse.

«Mi sono appena trasferito qui accanto» disse Theodore. Strinse la mano asciutta di Eleanor Gorse e lei gli spiegò che suo padre era al lavoro. «È lui?» chiese Theodore, indicando il ritratto di un vecchio dalla faccia dura appeso sopra il caminetto dove faceva bella mostra una quantità di oggetti religiosi. «Sì» rispose Eleanor, sui trentacinque, e piuttosto brutta. «Be', spero che saremo buoni vicini» disse Theodore. Nel pomeriggio andò nel suo nuovo ufficio e preparò la camera oscura. 23 luglio Quella mattina, prima di uscire per andare in ufficio, controllò l'elenco del telefono e scarabocchiò quattro numeri. Compose il primo. «Potrebbe mandare un taxi al 12057 di Sylmar Street?» disse. «Grazie.» Compose il secondo numero. «Le spiacerebbe mandare un tecnico a casa mia?» chiese. «Sul mio televisore non si vede niente. Abito al 12070 di Sylmar Street.» Chiamò il terzo numero. «Vorrei pubblicare questo annuncio sull'edizione domenicale» disse. «Ford del 1957. Condizioni perfette. Settecentottantanove dollari. Esatto, settecentottantanove. La targa è DA-4-7408.» Fece la quarta telefonata e fissò un appuntamento per il pomeriggio con il signor Jeremiah Osborne. Poi aspettò accanto alla finestra del salotto finché il taxi non si fermò davanti a casa Backus. Mentre si allontanava in macchina, un furgoncino della ditta che riparava i televisori lo sorpassò. Si guardò indietro e lo vide fermarsi di fronte alla casa di Henry Putnam. Egregi signori, scrisse a macchina appena arrivato in ufficio, vi prego di farmi avere dieci copie della vostra pubblicazione, per le quali allego assegno di cento dollari. Aggiunse nome e indirizzo. La busta cadde nella cassetta della posta in partenza. 27 luglio Quando Inez Ferrel uscì di casa, quella sera, Theodore la seguì con la macchina. Giunta in centro, la signora Ferrel scese dall'autobus ed entrò in un bar chiamato La lanterna irlandese. Dopo aver parcheggiato, anche Theodore entrò di soppiatto e si infilò in un separé che lo nascondeva alla vista.

Inez Ferrel era dalla parte opposta della sala, appollaiata su uno sgabello davanti al bancone. Si era tolta la giacca e sotto aveva un maglione giallo molto attillato. Theodore fece scorrere lo sguardo sulla posa studiata del suo petto. Più tardi un uomo l'avvicinò, parlò e rise con lei, e le tenne compagnia per un po' di tempo. Theodore li vide uscire sottobraccio. Pagò il suo caffè e li seguì. Fu un tragitto breve; la signora Ferrel e l'uomo entrarono in un albergo all'isolato successivo. Theodore se ne tornò a casa fischiettando. Il mattino dopo, quando Eleanor Gorse e suo padre furono usciti insieme alla signora Backus, Theodore li seguì. Li incontrò nell'atrio della chiesa subito dopo la fine della funzione. Non era una straordinaria coincidenza, disse, che anche lui fosse battista? E strinse forte la mano indurita di Donald Gorse. Mentre passeggiavano sotto il sole, Theodore chiese loro se avrebbero avuto piacere di pranzare insieme a lui a casa sua. La signora Backus sorrise poco convinta e disse qualcosa a proposito di suo marito. Donald Gorse sembrò esitante. «Oh, la prego» lo supplicò Theodore. «Così farete felice un povero vedovo.» «Vedovo» ripeté il signor Gorse. Theodore abbassò la testa. «Sono passati tanti anni» disse. «Polmonite.» «È battista da molto tempo?» gli chiese il signor Gorse. «Dalla nascita» rispose Theodore, infervorato. «È stata la mia sola consolazione.» Per pranzo servì bistecchine di agnello, piselli e patate arrosto. Come dessert mele cotte e caffè. «Sono così felice che abbiate condiviso il mio umile pasto» disse. «Questo significa applicare, alla lettera, il comandamento 'ama il prossimo tuo come te stesso'.» Sorrise a Eleanor, che gli restituì un sorriso tirato. Quella sera, mentre faceva buio, Theodore si fece una passeggiata. Quando passò davanti a casa McCann sentì il telefono che suonava, poi James McCann che gridava: «C'è un errore, dannazione! Ma per quale cavolo di motivo dovrei vendere una Ford del '57 per settecentottantanove miseri dollari?» Il telefono venne sbattuto giù. «Ma che cavolo!» ripeté James McCann, esasperato. «Tesoro, ti prego, cerca di essere più tollerante!» lo pregò sua moglie.

Il telefono squillò di nuovo. Theodore proseguì la passeggiata. 1° agosto Alle due e un quarto in punto del mattino Theodore uscì furtivamente di casa, strappò una delle strisce più lunghe dell'edera di Joseph Alston e la lasciò sul marciapiede. Al mattino, mentre stava per andarsene, vide Walter Morton jr. diretto verso casa McCann con una coperta, un asciugamano e una radio portatile. Il vecchio stava raccogliendo la sua pianta. «È stata strappata?» chiese Theodore. Joseph Alston rispose con un grugnito. «Ecco cos'era...» disse Theodore. «Che cosa?» Il vecchio alzò gli occhi. «Stanotte» rispose Theodore «ho sentito dei rumori, fuori. Ho dato un'occhiata e ho visto un paio di ragazzi.» «Li ha visti in faccia?» chiese Alston, assumendo un'espressione corrucciata. «No, era troppo buio» disse Theodore. «Ma direi che avevano... oh, più o meno l'età dei due Putnam. Non che fossero loro, naturalmente.» Joe Alston annuì lentamente, scrutando la strada. Theodore guidò fino al viale e parcheggiò. Venti minuti più tardi Walter Morton jr. e Katherine McCann salirono su un autobus. Alla spiaggia, Theodore si sedette qualche metro dietro di loro. «Quel Mack è proprio un tipo buffo» sentì dire a Walter Morton. «Gli viene voglia, si fa una corsa fino a Tijuana, e solo per il gusto di arrivare fin lì.» Dopo un po' i due ragazzi corsero verso l'acqua, ridendo. Theodore si alzò e si diresse verso una cabina telefonica. «Vorrei installare una piscina nel mio cortile, la settimana prossima» disse. Diede tutti i particolari. Tornato alla spiaggia sedette pazientemente in attesa finché Walter Morton e la ragazza non si abbracciarono. Poi, con cadenze ben calcolate, premette l'otturatore nascosto nel palmo della mano. Completata l'opera tornò alla macchina, riabbottonandosi la camicia sotto cui era sistemata la piccola macchina fotografica. Sulla strada per l'ufficio si fermò da un ferramenta e acquistò un pennello e un barattolo di vernice nera.

Passò il pomeriggio a stampare le fotografie. Le truccò in modo che sembrassero scattate di notte, e come se la giovane coppia fosse impegnata in ben più che un semplice abbraccio. La busta scivolò silenziosamente nella cassetta della posta in uscita. 5 agosto La strada era silenziosa e deserta. Theodore la attraversò in scarpe da tennis, senza fare rumore. Trovò il tagliaerba dei Morton nel cortile sul retro. Lo prese con delicatezza e lo portò dall'altra parte della strada, nel garage dei McCann. Aprì piano la porta e la fece scivolare dietro il banco da lavoro. La busta con le fotografie la nascose in un cassetto sotto una scatola di chiodi. Poi tornò a casa, telefonò a James McCann e, camuffando la voce, gli chiese se la Ford era ancora in vendita. Al mattino il portalettere lasciò un pacchetto voluminoso sulla veranda dei Gorse. Eleanor Gorse uscì di casa e l'apri, tirando fuori una delle pubblicazioni. Theodore seguì con lo sguardo l'occhiata furtiva della donna, e il colorito crescente sulle sue guance. Quella sera, mentre stava tagliando l'erba, vide Walter Morton Sr. attraversare di corsa la strada e dirigersi verso James McCann, che stava potando i cespugli. Li sentì parlare ad alta voce. Alla fine tutti e due entrarono nel garage dei McCann e Morton ne uscì poco dopo sospingendo il suo tagliaerba e ignorando le vivaci proteste di McCann. Dalla parte opposta della strada, Arthur Jefferson stava tornando a casa dal lavoro. I due figli dei Putnam erano in sella alla loro bicicletta, seguiti al piccolo trotto dal cane. Una porta sbatté proprio di fronte al punto in cui Theodore si era sistemato per osservare. Voltò la testa e vide il signor Backus, in abito da lavoro, che si precipitava verso la sua macchina, borbottando infuriato: «Una piscina!» Theodore osservò la casa successiva e scorse Inez Ferrel che si muoveva nel salotto. Sorrise e tagliò l'erba sul lato della casa, dando una sbirciata nella camera da letto di Eleanor Gorse. Era seduta con la schiena voltata alla finestra, e stava leggendo qualcosa. Quando sentì il rumore del tagliaerba si alzò e lasciò la camera, infilando la grossa busta nel cassetto di un comò. 15 agosto

Henry Putnam venne ad aprire la porta. «Buonasera» disse Theodore. «Spero di non disturbare.» «Eravamo di là, a chiacchierare con i genitori di Irma» disse Putnam. «Ripartono domani mattina per New York.» «Davvero? Be', mi trattengo solo un momento.» Theodore gli mostrò un paio di pistole giocattolo. «Una fabbrica per la quale lavoro se ne stava liberando» disse «e ho pensato che potessero piacere ai suoi figli.» «Be', certo» disse Putnam. Si allontanò per andare a cercare i figli. Mentre il padrone di casa era assente, Theodore si appropriò di un paio di bustine di fiammiferi su cui c'era scritto: Vini e liquori Putnam. Le mise in tasca prima che il padre gli portasse i ragazzi per ringraziarlo. «Davvero gentile da parte sua, Gordon» gli disse poi sulla porta. «Lo apprezzo molto.» «È stato un piacere» ribatté Gordon. Tornato a casa regolò la radiosveglia sulle tre e un quarto e si mise a letto. Quando cominciò la musica uscì senza fare rumore e strappò quarantasette piantine di edera, sparpagliandole sul marciapiede di Alston. «Oh, no» esclamò la mattina, rivolto ad Alston. Scosse la testa, allibito. Joseph Alston non disse nulla. Si limitò a rivolgere occhiate velenose per tutto l'isolato. «Lasci che l'aiuti» disse Theodore. Il vecchio fece cenno di no, ma Theodore insisté. Si recò al più vicino vivaio e acquistò due sacchetti di muschio di torba, poi si accovacciò vicino ad Alston e gli diede una mano a risistemare le piantine. «Ha sentito niente stanotte?» gli domandò il vecchio. «Pensa che siano stati di nuovo quei ragazzi?» gli chiese Theodore, aprendo la bocca per lo stupore. «Io non ho detto niente» replicò Alston. Più tardi Theodore prese la macchina e andò in centro, dove comprò una dozzina di cartoline. Le portò in ufficio. Caro Walt, scrisse in brutta calligrafia sul retro di una, queste le ho prese a Tijuana. Sono abbastanza piccanti per te? Scrisse l'indirizzo, ma non aggiunse jr. dopo Walter Morton. La gettò nella casetta della posta in uscita. 23 agosto

«Signora Ferrel!» La donna sussultò sullo sgabello del bar. «Ah, signor...» «Gordon» concluse lui con un sorriso. «Che bello rivederla.» «Già.» La donna strinse le labbra, per nascondere il tremito. «Viene qui spesso?» le chiese Theodore. «Oh no, mai» rispose lei di corsa. «Io... sto aspettando qualcuno. Un'amica.» «Oh, capisco» disse Theodore. «Be', gradirebbe la compagnia di un vedovo che si sente solo, finché non arriva la sua amica?» «Ecco...» La signora Ferrel si strinse nelle spalle. «Direi di sì.» Aveva le labbra tinte di un rosso vivace, che contrastava con la carnagione bianchissima. Il maglione aderente metteva in risalto il petto generoso. Dopo un po', visto che l'amica della signora Ferrel non arrivava, i due s'infilarono in un separé piuttosto riservato. Poi, quando la signora Ferrel si ritirò in bagno per rifarsi il trucco, Theodore infilò una polverina incolore e inodore nel suo bicchiere. Appena tornata la donna bevve e dopo qualche minuto si ritrovò sotto gli effetti della droga. Rivolse un sorriso a Theodore. «Lei mi piace, signor Gordon» gli confessò, con le parole che uscivano a fatica dalla bocca impastata. Poco dopo l'accompagnò, malferma sulle gambe, fino alla macchina e la portò in un motel. Dentro la camera l'aiutò a togliersi le calze, la giarrettiera e le scarpe e quindi, mentre lei posava con il compiacimento indotto dalla droga, le scattò diverse fotografie. Quando lei crollò, alle due del mattino, Theodore la rivestì e la condusse a casa. La depositò sul letto completamente vestita, dopo di che uscì e versò del diserbante concentrato sulle piantine appena risistemate di Alston. Tornato in casa compose il numero di Jefferson. «Sì» rispose Arthur Jefferson, con voce irritata. «Vattene da questo quartiere o te ne pentirai» gli disse Theodore a bassa voce, e riattaccò. Al mattino andò a casa della signora Ferrel e suonò il campanello. «Salve» le disse educatamente. «Si sente meglio?» Lei lo fissò senza capire, mentre Theodore le spiegava che la sera prima si era sentita molto male e che lui l'aveva riportata a casa dal bar. «Spero che adesso stia meglio» concluse. «Sì» disse lei, confusa. «Io... io sto bene.» Mentre si allontanava, Theodore vide James McCann, rosso in volto, che

si dirigeva verso la casa dei Morton con una busta in mano. Era accompagnato dalla moglie, disperata. «Bisogna essere tolleranti, Jim» la sentì dire. 31 agosto Alle due e un quarto del mattino Theodore prese il pennello e il barattolo di vernice e uscì di casa. Giunto a casa dei Jefferson posò il barattolo e scarabocchiò sulla porta la parola NEGRO! Poi attraversò la strada lasciando gocciolare qua e là la vernice. Lasciò il barattolo sotto il portico sul retro della casa di Henry Putnam, rovesciando per sbaglio la ciotola del cane. Per fortuna il cane dei Putnam dormiva dentro. In seguito versò dell'altro diserbante sull'edera di Alston. Al mattino, quando Donald Gorse uscì per andare al lavoro, prese una grossa busta e andò a trovare la signora Gorse. «Guardi questa» le disse, tirando fuori dalla busta una pubblicazione pornografica. «L'ho ricevuta con la posta di stamattina. La guardi!» Gliela gettò fra le mani. Lei la tenne in mano come se fosse un insetto schifoso. «Non è orrenda?» le disse. Lei fece una faccia disgustata. «Rivoltante» rincarò la dose. «Volevo controllare da lei e da altri vicini, prima di avvisare la polizia» disse Theodore. «Ha ricevuto porcherie come questa?» Eleanor Gorse s'inalberò. «Perché avrei dovuto riceverne?» gli domandò. Theodore si allontanò e vide il vecchio Alston inginocchiato accanto alle sue piantine. «Come va?» gli chiese. «Stanno morendo.» Theodore assunse un'aria afflitta. «Come può essere?» chiese. Alston scosse la testa. «Oh, ma è orribile.» Theodore si voltò, continuando a disapprovare con voce chioccia. Mentre si dirigeva verso casa vide, in fondo alla strada, Arthur Jefferson che stava ripulendo la porta e, dalla parte opposta, Henry Putnam che lo osservava con attenzione. Lei lo aspettava sulla porta. «Signora McCann» disse Theodore, sorpreso. «Sono così felice di vederla.»

«Quello che sono venuta a dirle potrebbe non farle piacere» replicò lei, in tono angosciato. «Eh?» fece Theodore. Entrarono in casa. «Sono successe un sacco di... cose in questo quartiere, da quando lei si è trasferito» disse la signora McCann dopo che si furono seduti in salotto. «Cose?» «Credo lei sappia ciò che intendo dire» disse la signora McCann. «Ma questa... questa vigliaccheria sulla porta del signor Jefferson è troppo, signor Gordon, davvero troppo...» Theodore fece un gesto d'impotenza. «Non capisco.» «La prego, non renda le cose più difficili» disse lei. «Potrei dover chiamare le autorità, se queste cose non cessano, signor Gordon. Detesto la sola idea di fare una cosa del genere, ma...» «Autorità?» ripeté Theodore, terrorizzato. «Nulla di tutto questo è mai successo prima che lei si trasferisse qui, signor Gordon» disse la donna. «Mi creda, odio doverglielo dire, ma proprio non ho scelta. Il fatto che a lei non sia successo niente del genere...» S'interruppe, sbalordita, quando un singhiozzo squassò il petto di Theodore. Lo fissò senza sapere cosa fare. «Signor Gordon...» cominciò, incerta. «Non so quali siano queste cose di cui lei sta parlando,» disse Theodore con voce rotta dal pianto «ma preferirei uccidermi piuttosto che fare del male a qualcuno, signora McCann.» Si guardò intorno, come per accertarsi che fossero soli. «Le dirò una cosa che non ho mai rivelato ad anima viva» le disse, asciugandosi una lacrima. «Io non mi chiamo Gordon» aggiunse. «Mi chiamo Gottlieb. Sono ebreo. Ho trascorso un anno a Dachau.» La signora McCann mosse le labbra, ma non disse nulla. Il volto cominciava a farsi rosso. «Ne sono uscito che ero un relitto» continuò Theodore. «Non mi rimane molto da vivere. Mia moglie è morta, i miei tre figli sono morti. Sono solo come un cane. Voglio solo vivere in pace, in un posto tranquillo come questo, in mezzo a gente come voi. Voglio essere un buon vicino, un amico...» «Signor... Gottlieb» disse lei, incapace di trattenere la commozione. Quando se ne fu andata, Theodore restò in salotto, silenzioso, le mani strette forte sui fianchi. Poi andò in cucina per ricomporsi. «Buongiorno, signora Backus» disse un'ora dopo, quando la donnetta gli

aprì la porta. «Mi chiedevo se potrei rivolgerle qualche domanda sulla nostra chiesa.» «Oh. Oh, ma certo.» Si fece da parte, tutta eccitata. «Non vuole... accomodarsi?» «Farò pianissimo, in modo da non svegliare suo marito» disse in un sussurro Theodore. Si accorse che la donna stava guardando la sua mano bendata. «Mi sono scottato» spiegò. «E ora, a proposito della chiesa. Oh, c'è qualcuno che sta bussando alla porta di dietro.» «Davvero?» Quando la donna si fu spostata in cucina, Theodore aprì la porta del ripostiglio e lasciò cadere alcune fotografie dietro una pila di calosce e di attrezzi da giardinaggio. La richiuse prima che lei tornasse. «Non c'era nessuno» gli disse. «Avrei giurato...» Sorrise, per scusarsi. Gli cadde l'occhio su una borsa rotonda appoggiata a terra. «Oh, il signor Backus gioca a bowling?» «Il mercoledì e il venerdì sera, quando finisce il turno» rispose lei. «C'è una sala aperta tutta la notte, sulla Western Avenue.» «Io adoro giocare a bowling» disse Theodore. Le domandò della chiesa, poi se ne andò. Mentre scendeva il vialetto sentì delle voci che provenivano da casa Morton. «Non ti bastava Katherine McCann e quelle orribili fotografie» strillava la signora Morton. «Adesso anche questo... schifo!» «Ma mamma!» protestò Walter jr. 14 settembre Theodore si svegliò e spense la radiosveglia. Si alzò, infilò una bottiglietta di polvere grigia nella tasca e uscì di casa senza farsi notare. Giunto a destinazione, spruzzò la polvere nella ciotola dell'acqua e la mescolò col dito fino a scioglierla. Ritornato a casa scrisse in tutta fretta quattro lettere che dicevano: Arthur Jefferson sta cercando di passare per bianco. È mio cugino e deve accettare di essere nero come tutti noi. Faccio questo nel suo interesse. Le firmò John Thomas Jefferson, e ne indirizzò tre a Donald Gorse, alla famiglia Morton e al signor Henry Putnam. Aveva appena finito, quando vide la signora Backus che si dirigeva verso il viale e la seguì. «Posso farle compagnia?» le chiese. «Oh» disse lei. «Certo.»

«Ieri sera non ho visto suo marito» le disse. La donna lo guardò. «Ho pensato di raggiungerlo alla sala di bowling,» spiegò Theodore «ma temo che stesse ancora male.» «Male?» «Ho chiesto informazioni all'uomo che stava alla cassa e lui mi ha detto che il signor Backus non era venuto perché stava male.» «Oh» fece la signora Backus, con una voce appena alterata. «Be', sarà per venerdì prossimo» disse Theodore. In seguito, mentre tornava indietro, vide un furgone davanti a casa di Henry Putnam. Un uomo uscì dal vicolo portando con sé un piccolo corpo avvolto in una coperta e lo depose dentro il furgone. I due figli di Putnam seguirono la scena piangendo. Gli venne ad aprire Arthur Jefferson. Theodore mostrò la lettera a lui e alla moglie. «Mi è arrivata stamattina» disse. «Tutto questo è mostruoso!» esclamò Jefferson mentre la leggeva. «Certo che lo è» confermò Theodore. Stavano ancora chiacchierando, quando Jefferson guardò fuori dalla finestra, verso la casa dei Putnam dalla parte opposta della strada. 15 settembre La nebbia pallida del mattino avvolgeva Sylmar Street. Theodore l'attraversò in silenzio. Giunto sotto il portico posteriore dei Jefferson diede fuoco a una scatola di giornali umidi. Mentre cominciava a bruciare attraversò il cortile e, con un solo colpo di coltello, bucò la piscina di gomma. Mentre se ne andava sentì l'acqua che usciva gorgogliando sul prato. Lasciò cadere nel vicolo una scatola di fiammiferi su cui c'era scritto: Vini e liquori Putnam. Poco dopo le sei di quella stessa mattina si svegliò al suono della sirena e sentì la piccola casa che tremava mentre passavano i pesanti mezzi dei pompieri. Si girò sul fianco, sbadigliò e mormorò: «Ottimamente.» 17 settembre Quando Theodore bussò alla porta gli venne ad aprire una Dorothy Backus dal colorito terreo. «Posso accompagnarla in macchina fino alla chiesa?» le chiese Theo-

dore. «Io... io credo di non... di non sentirmi troppo bene» mormorò a fatica la signora Backus. «Oh, mi dispiace» disse Theodore. Notò il bordo di alcune fotografie che le sporgevano dalla tasca del grembiule. Mentre se ne andava, vide i Morton che salivano in macchina: Bianca non parlava, e i due Walter erano palesemente a disagio. C'era un'auto della polizia parcheggiata più su, davanti a casa di Arthur Jefferson. Theodore andò in chiesa con Donald Gorse, il quale gli spiegò che Eleanor era ammalata. «Mi dispiace tanto» disse Theodore. Quel pomeriggio passò un po' di tempo a casa dei Jefferson aiutandoli a ripulire la veranda posteriore dai resti dell'incendio. Quando vide la piscina squarciata andò subito in macchina al più vicino negozio e ne comprò un'altra. «Ma loro amavano quella piscina» disse Theodore, quando Patty Jefferson protestò. «Me l'ha detto lei.» Fece l'occhiolino ad Arthur Jefferson, ma quel pomeriggio lui non fu molto espansivo. 23 settembre Poco prima di cena Theodore vide il cane di Alston che passeggiava per la strada. Prese il fucile giocattolo e gli sparò un colpo silenzioso dalla finestra della camera da letto. Il cane si leccò freneticamente il fianco e girò su se stesso. Poi si diresse verso casa, uggiolando. Parecchi minuti dopo, Theodore uscì e cominciò a tirare su la serranda del garage. Vide il vecchio che correva lungo il vicolo, con il cane fra le braccia. «Che è successo?» chiese Theodore. «Non lo so» rispose Alston, spaventato, con un filo di voce. «È ferito.» «Presto!» disse Theodore. «Nella mia macchina!» Portò di corsa Alston e il cane dal più vicino veterinario, ignorando tre cartelli di stop, e lasciandosi sfuggire un gemito quando il vecchio alzò fiaccamente la mano e disse, quasi piangendo: «Sangue!» Per tre ore Theodore attese nell'anticamera del veterinario, finché Alston uscì, malfermo sulle gambe, grigio in faccia. «No» disse Theodore, balzando in piedi.

Riaccompagnò il vecchio piangente alla macchina e lo portò a casa. Lì Alston gli disse che preferiva restare solo, perciò Theodore se ne andò. Poco dopo la macchina bianca e nera della polizia si fermò davanti alla casa di Alston e il vecchio accompagnò i due agenti oltre la casa di Theodore. Passò qualche minuto e Theodore sentì delle grida furiose in fondo alla strada. Durò a lungo. 27 settembre «Buonasera» disse Theodore, facendo un inchino. Eleanor Gorse lo salutò con un cenno rigido del capo. «Ho portato a lei e a suo padre un pasticcio di carne» disse Theodore, sorridendo, mostrandole un piatto ricoperto da un tovagliolo. Quando lei gli disse che suo padre era uscito per andare a lavorare di notte, Theodore espresse il suo rammarico con un sospiro, fingendo di non averlo visto partire in macchina quello stesso pomeriggio. «Be', allora» disse offrendole il piatto «è per lei. Con i miei più sinceri ossequi.» Scendendo dalla veranda vide Arthur Jefferson e Henry Putnam in piedi sotto un lampione, in fondo all'isolato. Mentre guardava, Arthur Jefferson colpì l'altro e dopo un attimo i due uomini si stavano azzuffando sul marciapiede. Theodore corse verso di loro. «Ma è terribile!» ansimò, mentre li separava. «Si faccia gli affari suoi!» lo ammonì Jefferson. Poi, rivolto a Putnam, lo minacciò: «Quanto a lei, sarà bene che mi spieghi come mai quel barattolo di vernice si trovava sotto la sua veranda! La polizia potrà anche essere convinta che se ho trovato la scatola di fiammiferi con il nome della sua ditta nel mio vicolo è stata solo una combinazione, ma io non ci credo!» «Io non le spiegherò un bel niente» replicò Putnam, con disprezzo. «Negro.» «Negro! Oh, ma certo. Lei ha creduto per primo a questa storia, stupido...» Per cinque volte Theodore cercò di dividerli, e solo quando Jefferson lo colpì involontariamente al naso la tensione si sciolse. Jefferson gli rivolse qualche rapida parola di scusa e poi, lanciando uno sguardo omicida verso Putnam, se ne andò. «Mi dispiace che sia stato colpito» gli disse Putnam, premuroso. «Maledetto negro.»

«Oh, lei si sbaglia di certo» disse Theodore, toccandosi il naso. «Il signor Jefferson mi ha confessato di temere molto le persone che credono a questa diceria. Perché ne va di mezzo il valore delle sue due case, capisce.» «Due?» chiese Putnam. «Sì, possiede anche quella casa vuota accanto alla sua» disse Theodore. «Credevo che lo sapesse.» «No» disse Putnam, guardingo. «Be', vede,» disse Theodore «se la gente pensa che il signor Jefferson è un negro, il valore delle sue case calerà.» «E calerà anche il valore di tutte le altre» disse Putnam, lanciando un'occhiata velenosa dalla parte opposta della strada. «Quel lurido figlio di...» Theodore gli diede una pacca sulla spalla. «Come va il soggiorno a New York dei suoi suoceri?» gli chiese, come se volesse cambiare argomento. «Stanno tornando» rispose Putnam. «Bene» disse Theodore. Andò a casa e per un'oretta lesse dei giornali umoristici. Poi uscì. Gli aprì una Eleanor Gorse più vistosa che mai. Aveva l'accappatoio in disordine, e gli occhi quasi febbricitanti. «Posso riavere il mio piatto?» le domandò educatamente. Lei grugnì e si fece da parte, barcollando. La mano di Theodore, nel passare, sfiorò la sua e lei si ritrasse come se fosse stata ferita. «Ah, l'ha mangiato tutto» disse Theodore, notando le briciole sul fondo del piatto. Si voltò. «Quando torna suo padre?» Il corpo di Eleanor sembrò irrigidirsi. «Dopo mezzanotte» farfugliò. Theodore si diresse verso l'interruttore e spense la luce. La sentì che boccheggiava nel buio. «No» disse la donna con un filo di voce. «È questo che vuoi, Eleanor?» le chiese, afferrandola con violenza. Lei rispose all'abbraccio con un rantolo di eccitazione. Sotto l'accappatoio c'era solo la sua carne fremente. Più tardi, mentre lei russava soddisfatta sul pavimento della cucina, Theodore andò a prendere la macchina fotografica che aveva lasciato fuori dalla porta. Tirò giù le tende, diede una sistemata alle braccia e alle gambe di Eleanor e scattò una dozzina di foto. Poi se ne andò a casa e lavò il piatto. Prima di andare a letto fece una telefonata. «Western Union» disse. «Messaggio per la signora Irma Putnam, 12070 Sylmar Street.»

«Sono io» disse lei. «Entrambi genitori deceduti in un incidente automobilistico oggi pomeriggio» disse Theodore. «Attendo notizie in merito disposizione salme. Firmato Capo della polizia di Tulsa, Okla...» All'altro capo del filo si sentì un grido strozzato, poi un tonfo. Quando Henry Putnam esclamò: «Irma!», Theodore riappese. Dopo che l'ambulanza ebbe portato via la donna, Theodore uscì e strappò trentacinque piantine di edera di Joseph Alston. Lasciò in mezzo al disastro un'altra scatola di fiammiferi della ditta Vini e liquori Putnam. 28 settembre Al mattino, dopo che Donald Gorse fu uscito per andare al lavoro, Theodore si presentò a casa sua. Eleanor cercò di bloccare la porta, ma lui entrò a forza. «Voglio dei soldi» disse. «In cambio di queste.» Tirò fuori le copie delle foto di Eleanor, la donna si ritrasse, coprendosi la bocca con una mano. «Tuo padre ne riceverà una serie stasera stessa» le disse «a meno che tu non mi dia duecento dollari.» «Ma io...» «Stasera.» Uscì e andò in centro con la macchina. Raggiunse l'ufficio della Società immobiliare Jeremiah Osborne, dove firmò il contratto di vendita della casa disabitata al 12069 di Sylmar Street, a favore del signor George Jackson. Gli strinse la mano. «Non si preoccupi» gli disse, per incoraggiarlo. «Anche i suoi vicini sono persone di colore.» Tornato a casa, trovò una macchina della polizia davanti alla casa dei Backus. «Che è successo?» chiese a Joseph Alston, che se ne stava seduto in silenzio sulla veranda. «La signora Backus» disse il vecchio, che sembrava privo di vita «ha cercato di uccidere la signora Ferrel.» «Sul serio?» disse Theodore. Quella sera, in ufficio, aggiornò il registro a pagina 700. La signora Ferrel è ricoverata in fin di vita in un ospedale della città per ferite da coltello. La signora Backus è in carcere: era si-

cura che il marito la tradisse. Joseph Alston è stato accusato di avere avvelenato un cane, forse più di uno. I figli dei Putnam sono accusati di avere sparato al cane di Alston che gli rovinava il prato. La signora Putnam è morta d'infarto. Il signor Putnam è sotto processo per distruzione di proprietà altrui. I Jefferson sono sospettati di essere neri. I McCann e i Morton sono nemici mortali. Tutti credono che Katherine McCann abbia avuto una relazione con Walter Morton jr. Il ragazzo è stato mandato in una scuola di Washington. Eleanor Corse si è impiccata. Lavoro completato. Era il momento di trasferirsi. Grilli Dopo cena scesero fino al lago e guardarono la superficie su cui si rifletteva la luna. «Bello, eh?» disse lei. «Mmm-mmm.» «È stata una vacanza piacevole.» «Sì, proprio piacevole.» Dietro di loro la porta a doppio battente sul portico dell'albergo si aprì e si richiuse. Qualcuno si incamminò lungo il vialetto di ghiaia, diretto verso il lago. Jean si guardò dietro una spalla. «Chi è?» chiese Hal senza voltarsi. «L'uomo che abbiamo visto in sala da pranzo» rispose lei. Dopo qualche attimo l'uomo giunse alla spiaggia. Non parlò e non li degnò di un'occhiata. Aveva lo sguardo fisso oltre il lago, verso i boschi lontani. «Dovremmo parlargli?» chiese lei con un filo di voce. «Non lo so» rispose lui in un sussurro. Tornarono a contemplare il lago e il braccio di Hal scivolò attorno alla vita della donna. All'improvviso l'altro chiese: «Li sentite?» «Prego?» disse Hal. L'ometto si voltò e li guardò. I suoi occhi sembravano scintillare sotto la luce della luna. «Vi ho chiesto se li sentite» ripeté. Dopo una breve pausa, fu Hal a chiedere: «Chi?» «I grilli.»

I due rimasero in silenzio. Alla fine Jean si schiarì la gola. «Sì, sono deliziosi» disse. «Deliziosi?» L'uomo distolse lo sguardo. Dopo un momento, si rigirò e si mise a camminare verso di loro. «Mi chiamo John Morgan» disse. «Hal e Jean Galloway» rispose lui; seguì un silenzio imbarazzato. «È una serata magnifica» commentò Jean. «Lo sarebbe, se non fosse per loro» replicò il signor Morgan. «I grilli.» «Perché non le piacciono?» chiese Jean. Per un attimo il signor Morgan sembrò ascoltare chissà cosa, rigido in volto. La gola aguzza si mosse. Poi si costrinse a sorridere. «Concedetemi il favore di offrirvi un bicchiere di vino» disse. «Be'...» cominciò Hal. «Vi prego.» C'era una fretta improvvisa, nella voce del signor Morgan. La sala da pranzo era come un'enorme caverna piena di ombre. L'unica luce proveniva dalla piccola lampada sul tavolo, che proiettava le loro ombre informi sulle pareti. «Alla vostra salute» disse il signor Morgan, sollevando il bicchiere. Il vino era secco, dal sapore intenso. Gocciolò gelido nella gola di Jean, facendola rabbrividire. «Allora, che cos'ha contro i grilli?» chiese Hal. Il signor Morgan abbassò il bicchiere. «Non so se dovrei dirvelo» rispose. Li osservò con attenzione. Jean si sentì a disagio sotto quello sguardo indagatore e allungò la mano verso il bicchiere per bere un sorso. Improvvisamente, con un movimento così brusco da farle vacillare la mano e rovesciare un po' di vino, il signor Morgan tirò fuori un piccolo taccuino nero dalla tasca della giacca. Lo depose delicatamente sul tavolo. «Ecco» disse. «Che cos'è?» chiese Hal. «Un cifrario» rispose il signor Morgan. Lo guardarono versarsi nel bicchiere un altro po' di vino, poi appoggiare la bottiglia, la cui ombra si disegnò sulla tovaglia. Sollevò il bicchiere e ne fece roteare il gambo fra le dita. «È il codice dei grilli» disse. Jean rabbrividì, senza sapere bene perché. Non c'era niente di terribile in quelle parole. Era il modo in cui il signor Morgan le aveva pronunciate.

Il signor Morgan si sporse in avanti, gli occhi luccicanti al bagliore della lampada. «Statemi a sentire» disse. «Non è che emettono semplicemente dei suoni incomprensibili, quando sfregano le ali.» Fece una pausa. «Mandano dei messaggi» aggiunse. Jean si sentiva come un blocco di legno. Era come se la stanza si muovesse intorno a lei, in cerca di stabilità, come se ogni cosa si sporgesse verso di lei. «Perché ci dice questo?» chiese Hal. «Perché adesso lo so con certezza» rispose il signor Morgan. Si sporse ancora di più. «Avete mai ascoltato con attenzione il canto dei grilli?» chiese. «Voglio dire, proprio con attenzione? Se lo aveste fatto, avreste colto un ritmo nei loro rumori. Una cadenza... un tempo preciso. «Io l'ho fatto» riprese subito dopo. «Li ho ascoltati per sette anni. E più li ascoltavo più mi convincevo che il loro rumore era un codice, che trasmettevano messaggi nella notte. «Poi, più o meno una settimana fa, tutto a un tratto ho sentito lo schema. È una specie di codice Morse solo che, naturalmente, i suoni sono diversi.» Il signor Morgan smise di parlare e fissò il taccuino nero. «Ed ecco qui» disse. «Dopo sette anni di lavoro, l'ho trovato. L'ho decifrato.» La gola gli andò su e giù in modo convulso quando sollevò il bicchiere e lo svuotò in un sorso. «Bene... cosa dicono?» chiese Hal, un po' a disagio. Il signor Morgan lo guardò. «Nomi» rispose. «Guardi, le faccio vedere.» Infilò una mano in tasca e ne estrasse un mozzicone di matita. Strappò una pagina bianca dal taccuino e cominciò a scrivere, farfugliando fra sé. «Impulso, impulso - silenzio - impulso, doppio impulso - silenzio - impulso - silenzio...» Hal e Jean si scambiarono un'occhiata. Hal si sforzò di sorridere ma senza riuscirci. Poi tornarono a guardare l'ometto chino sul tavolo, intento ad ascoltare i grilli e a scrivere. Il signor Morgan posò la matita. «Così vi farete un'idea» disse, porgendo loro il foglio di carta. Lo lessero. MARIE CADMAN, c'era scritto. JOHN JOSEPH ASTER, SAMUEL... «Vedete?» disse il signor Morgan. «Nomi.» «Di chi?» si sentì costretta a chiedere Jean, anche se non ne aveva la mi-

nima voglia. Il signor Morgan teneva il taccuino nella mano stretta a pugno. «I nomi dei morti» rispose. Più tardi, quella notte, Jean si stese nel letto con Hal e gli si strinse forte addosso. «Ho freddo» mormorò. «Sei spaventata.» «E tu no?» «Be',» disse lui «forse lo sono, ma non nel modo che credi.» «Come sarebbe?» «Non credo a quello che ci ha detto. Ma potrebbe essere un uomo pericoloso. È di questo che ho paura.» «Dove li avrà presi quei nomi?» «Magari sono amici suoi» rispose lui. «Magari li ha letti sulle lapidi. Potrebbe anche esserseli inventati di sana pianta.» Emise una specie di grugnito. «Ma non credo che siano stati i grilli a dirglieli» aggiunse. Jean si fece piccola contro il suo corpo. «Meno male che gli hai detto che eravamo stanchi» disse. «Penso che non lo avrei sopportato ancora per molto.» «Tesoro,» disse Hal «c'è un simpatico signore che ci svela il segreto dei grilli e tu lo disprezzi così tanto?» «Hal,» ribatté lei «non riuscirò più ad apprezzare i grilli finché campo.» Giacquero vicini e si addormentarono. Fuori, nel buio immobile, i grilli continuarono a sfregare le ali fino al mattino. Il signor Morgan attraversò a passo veloce la sala da pranzo e si mise a sedere al loro tavolo. «È tutto il giorno che vi cerco» disse. «Dovete aiutarmi.» La bocca di Hal si irrigidì. «Aiutarla come?» chiese, posando la forchetta. «Lo sanno che ho scoperto tutto» rispose l'uomo. «E mi danno la caccia.» «Chi, i grilli?» chiese Hal, freddo. «Non lo so» rispose il signor Morgan. «O loro oppure...» Jean stringeva coltello e forchetta con le dita contratte. Chissà perché, sentì un brivido risalirle su per le gambe. «Signor Morgan.» Hal stava cercando di non perdere la pazienza. «Cercate di capirmi» li implorò il signor Morgan. «I grilli sono al servi-

zio dei morti. Sono i morti a mandare questi messaggi.» «Perché?» «Stanno compilando un elenco di tutti i loro nomi» rispose il signor Morgan. «Continuano a inviare messaggi attraverso i grilli in modo che gli altri sappiano.» «Perché?» ripeté Hal. Le mani del signor Morgan tremavano. «Non lo so, non lo so» rispose. «Forse quando ci saranno abbastanza nomi, quando saranno pronti in numero sufficiente, loro...» La sua gola si muoveva freneticamente. «Loro torneranno» concluse. Dopo un attimo Hal chiese: «Che cosa le fa credere di essere in pericolo?» «Perché mentre stavo scrivendo altri nomi, ieri sera,» spiegò il signor Morgan «hanno pronunciato il mio.» Fu Hal a rompere l'imbarazzato silenzio. «Cosa possiamo fare?» chiese con un tono di voce che confinava col disagio. «Restate con me» rispose il signor Morgan. «Così non potranno prendermi.» Jean fissò nervosamente il marito. «Non vi darò nessun fastidio» disse il signor Morgan. «Non mi siederà nemmeno qui, mi sistemerò dalla parte opposta della sala. In modo da potervi vedere.» Si alzò rapidamente e tirò fuori il taccuino. «Vi dispiace tenerlo voi?» chiese. Prima che potessero obiettare qualcosa, si allontanò e attraversò la sala da pranzo, ondeggiando fra i tavoli coperti da tovaglie bianche. Si accomodò a una quindicina di metri, rivolto verso di loro. Lo videro allungare la mano e accendere la lampada. «E adesso che facciamo?» chiese Jean. «Ce ne staremo qui un altro po'» rispose Hal. «Ci scoleremo la bottiglia e quando sarà finita ce ne andremo a dormire.» «Dobbiamo proprio restare?» «Tesoro, chissà che gli frulla nel cervello, a quell'uomo. Non ho intenzione di correre rischi.» Jean chiuse gli occhi ed espirò rumorosamente. «Che modo di concludere una vacanza» disse. Hal allungò la mano e prese il taccuino. Mentre lo faceva si rese conto

del frinire dei grilli all'esterno. Sfogliò rapidamente le pagine. Erano disposte in ordine alfabetico, tre lettere su ogni pagina con l'equivalente in impulsi. «Ci sta guardando» disse Jean. «Ignoralo.» Jean si sporse ed esaminò il taccuino insieme a lui. I suoi occhi si muovevano sulle sequenze di punti e linee. «Pensi che ci sia qualcosa di vero?» chiese. «Speriamo di no» rispose Hal. Si sforzò di prestare ascolto al rumore dei grilli, per scoprire qualche punto di somiglianza con gli appunti. Non ci riuscì. Dopo parecchi minuti richiuse il libretto. Quando la bottiglia di vino fu vuota, Hal si alzò in piedi. «È ora di andare a nanna, tesoro.» Prima che Jean fosse in piedi, il signor Morgan era già a metà strada verso il loro tavolo. «Ve ne andate?» chiese. «Signor Morgan, sono quasi le undici» replicò Hal. «Siamo stanchi. Mi dispiace, ma dobbiamo andare a dormire.» L'ometto rimase muto, fissando ora l'uno ora l'altra con espressione supplichevole, disperata. Sembrò lì lì per dire qualcosa, poi le sue spalle strette ricaddero giù e lo sguardo si perse sul pavimento. Lo sentirono deglutire. «Avrà cura del taccuino?» chiese. «Non lo rivuole?» «No.» Il signor Morgan si voltò. Dopo qualche passo si fermò e si guardò indietro. «Potete lasciare aperta la porta della camera, così potrei... chiamarvi?» «D'accordo, signor Morgan» disse Hal. Un fiacco sorriso deformò le labbra del signor Morgan. «Grazie» disse e si allontanò. L'urlo li svegliò dopo le quattro. Hal sentì le dita di Jean che gli artigliavano il braccio mentre balzavano entrambi a sedere sul letto, fissando nel buio. «Cos'è stato?» ansimò Jean. «Non lo so.» Hal scalciò via le coperte e posò i piedi a terra. «Non lasciarmi!» esclamò Jean. «Allora vieni anche tu!»

Sul soffitto del corridoio c'era una lampadina fioca. Hal corse sulle assi di legno in direzione della camera del signor Morgan. La porta era chiusa, anche se prima era stata lasciata aperta. Hal picchiò il pugno. «Signor Morgan!» chiamò. Da dentro la camera provenne un fruscio improvviso, una specie di crepitio simile a quello prodotto da un migliaio di tamburini scatenati. A quel frastuono la mano di Hal si ritrasse di scatto dalla maniglia. «Che diavolo era?» chiese Jean in un bisbiglio terrorizzato. Hal non rispose. Rimasero immobili, senza sapere cosa fare. Poi, all'interno, il rumore cessò. Hal respirò a fondo e spalancò la porta. L'urlo morì nella gola di Jean. Disteso in una pozza di sangue, imbiancato dalla luna, c'era il signor Morgan, con la pelle strappata via come se gli avessero passato sopra chissà quante lame di rasoio. Nel vetro della finestra c'era un'apertura. Jean rimase come paralizzata, un pugno premuto contro la bocca, mentre Hal si spostava a lato del signor Morgan. Si mise in ginocchio accanto all'uomo inerte e gli appoggiò la mano sul petto, dove il pigiama era stato fatto a brandelli. Sotto le dita tremanti sentì un battito fievolissimo. Il signor Morgan aprì gli occhi. Occhi spalancati, fissi, che non riconoscevano nulla, che sembravano attraversare il corpo di Hal. «P-H-I-L-I-P M-A-X-W-E-L-L.» Il signor Morgan pronunciò il nome con voce gorgogliante. «M-A-R-Y G-A-B-R-I-E-L» sillabò ancora il signor Morgan, con occhi vitrei e inespressivi. Il suo petto fremette un'ultima volta. Gli occhi si spalancarono ancora di più. «J-O-H-N M-O-R-G-A-N» riuscì a dire. Poi gli occhi cominciarono a mettersi a fuoco su Hal. C'era un rantolo orribile nella sua gola. Come se i suoni gli venissero strappati uno a uno da qualche potere al di fuori della sua volontà, parlò di nuovo. «H-A-R-O-L-D G-A-L-L-O-W-A-Y» sillabò. «J-E-A-N G-A-L-L-OWA-Y.» Poi si ritrovarono soli insieme a un cadavere. Fuori, nella notte, un milione di grilli continuava a sfregarsi le ali. Primo anniversario Appena prima di uscire di casa, giovedì mattina, Adeline gli chiese: «So

ancora di acido, per te?» Norman la guardò con aria di rimprovero. «Allora, sì o no?» Lui le fece scivolare le braccia attorno alla vita e le mordicchiò la gola. «Dai, dimmelo» insisté Adeline. Norman assunse un'aria rassegnata. «Proprio non me la perdoni, vero?» le disse. «Insomma, sei stato tu a dirlo, tesoro. E per di più in occasione del nostro primo anniversario!» Norman avvicinò la guancia a quella di lei. «È vero, l'ho detto» mormorò. «Mi vorrai concedere un passo falso, una volta ogni tanto?» «Non mi hai risposto.» «Vuoi sapere se sai di acido? Ma certo che no.» La tenne stretta e assaporò la fragranza dei suoi capelli. «Perdonato?» Lei lo baciò sulla punta del naso, gli sorrise e, per l'ennesima volta, Norman non poté che stupirsi della fortuna di avere trovato una moglie stupenda come lei. Iniziavano adesso il secondo anno di matrimonio, ma era come se fossero ancora in luna di miele. Norman le sollevò il viso e la baciò. «Mi prendesse un colpo» disse. «Che c'è che non va? So ancora di acido?» «No.» Lui sembrava confuso. «Adesso non sai di niente.» «E così non ha nessun sapore, per lei» disse il dottor Phillips. Norman sorrise. «Lo so che sembra ridicolo» ammise. «Be', è un caso unico, questo devo ammetterlo» ribatté il dottor Phillips. «Più di quanto lei creda» aggiunse Norman, con un sorriso un po' troppo costruito. «Cioè?» «Non ho nessuna difficoltà a sentire gli altri sapori.» Prima di replicare, il dottor Phillips lo fissò a lungo. «L'odore di sua moglie riesce a sentirlo?» gli chiese alla fine. «Sì.» «Ne è sicuro?» «Sì. Che c'entra questo con...» Norman si interruppe. «Lei intende dire che il gusto e l'olfatto vanno insieme» disse. Phillips annuì. «Se può sentire il suo odore, dovrebbe essere in grado di sentire anche il suo... sapore.»

«Immagino che dovrebbe essere così» obiettò Norman. «Ma non ci riesco.» Il dottor Phillips grugnì qualcosa di incomprensibile. «È un bel problema.» «Nessuna idea?» chiese Norman. «Non in questo momento,» rispose Phillips «anche se sospetto che possa trattarsi di un'allergia di qualche tipo.» Norman sembrò contrariato. «Speriamo di scoprirlo presto» disse. Quando Norman entrò in cucina, Adeline lasciò subito perdere le faccende. «Cosa ha detto il dottor Phillips?» «Che sono allergico a te.» «Non è vero» lo rimproverò lei, scherzosamente. «Invece sì.» «Dai, cerca di essere serio.» «Ha detto che dovrò sostenere alcuni esami allergologici.» «Non pensa che sia qualcosa di cui doversi preoccupare, vero?» gli chiese Adeline. «No.» «Oh, bene.» Apparve sollevata. «Bene un accidente» grugnì lui. «Sentire che sapore hai è uno dei pochi piaceri che ho nella vita.» «Piantala.» Si divincolò da lui e riprese a sbrigare le sue faccende. Norman tornò ad abbracciarla e strofinò il naso contro la nuca di lei. «Vorrei tanto poter sentire che sapore hai» le disse. «Mi piace la tua fragranza.» Lei gli accarezzò la guancia. «Ti amo» disse. Norman ebbe un sussulto ed emise un suono stupito. «Cosa c'è che non va?» gli chiese lei. Lui annusò. «Che roba è?» Si guardò intorno. «La spazzatura l'hai messa fuori?» le domandò. Adeline si affrettò a rispondere, tranquilla: «Sì, Norman.» «Be', qui dentro c'è qualcosa che puzza dannatamente. Forse...» Lasciò la frase a metà, notando l'espressione sul viso di sua moglie. Aveva le labbra strette e all'improvviso capì. «Tesoro, non penserai che volessi dire...» «Perché, non l'hai forse detto?» La sua voce era debole, e scossa da un tremito. «Adeline, andiamo.»

«Prima ho un sapore acido. Adesso...» La stoppò con un lungo bacio «Ti amo» le disse. «Lo capisci? Ti amo. Credi che potrei farti del male?» Lei rabbrividì fra le sue braccia. «Tu mi hai fatto del male» disse con un filo di voce. La strinse a sé e le accarezzò i capelli. La baciò con dolcezza sulle labbra, le guance, gli occhi. Le ripeté quanto l'amasse. Si sforzò di ignorare quell'odore. Aprì gli occhi all'improvviso e si mise in ascolto. Fissò l'oscurità senza vedere. Perché si era svegliato? Girò la testa e allungò la mano sul materasso. Quando la toccò, Adeline si mosse appena nel sonno. Norman si rigirò sul fianco e si rannicchiò accanto a lei. Si schiacciò contro il morbido tepore del suo corpo, facendo scivolare languidamente la mano sul suo fianco. Appoggiò la guancia contro la schiena di lei e ricominciò a scivolare nel sonno. Gli occhi si riaprirono di scatto. Spaventato, avvicinò il naso alla sua pelle e fiutò. Un pungiglione ghiacciato gli trafisse il cervello. Mio Dio, cosa c'è che non va? Annusò ancora, più a fondo. Si adagiò contro di lei, immobile, cercando di non farsi prendere dal panico. Avrebbe potuto capire, accettare, se il senso del gusto e dell'olfatto si stavano atrofizzando. Ma non era così. Anche in quel momento sentiva benissimo il sapore pungente del caffè che aveva bevuto quella sera stessa. Sentiva il debole odore delle sigarette schiacciate nel posacenere sul comodino. Senza nemmeno troppo sforzo poteva sentire l'odore della lana emanato dalla coperta che aveva addosso. E allora perché? Adeline era la cosa più importante della sua vita. E gli riusciva intollerabile l'idea che, poco per volta, i suoi sensi stessero perdendo la capacità di riconoscerla. Era il loro ristorante preferito fin da quando erano fidanzati. Ne apprezzavano la cucina, l'atmosfera tranquilla, il gruppo che suonava musica da ballo a cena. Dopo averci pensato a lungo, Norman aveva scelto quel locale perché lo giudicava il più adatto per discutere serenamente del loro problema. Ma se ne stava già pentendo. Non c'era atmosfera capace di alleviare la tensione che provava, e che non nascondeva. «Che altro può essere?» domandò, avvilito. «Non ho niente, dal punto di vista fisico.» Scansò il piatto che non aveva nemmeno toccato.

«Ma perché, Norman?» «Magari lo sapessi» disse lui. Lei appoggiò la mano sulla sua. «Ti prego, non preoccuparti» cercò di rincuorarlo. «Ma come faccio?» disse lui. «È un incubo. Ho perso una parte di te, Adeline.» «Tesoro, non fare così» lo pregò. «Non sopporto di vederti infelice.» «Io sono infelice» replicò Norman. Strofinò un dito sulla tovaglia. «E ormai mi sono rassegnato all'idea di vedere un analista.» Alzò gli occhi. «Dev'essere la mia mente» aggiunse. «E... maledizione! Non lo sopporto. Voglio liberarmene.» Si costrinse a sorridere, notando la paura negli occhi di lei. «Oh, all'inferno» disse. «Andrò da un analista e lui mi guarirà. Su, andiamo a ballare.» Lei riuscì a restituirgli il sorriso «Signora, lei è uno schianto» le disse mentre si lanciavano nella danza. «Oh, ti amo tanto» rispose Adeline in un sussurro. Fu proprio nel bel mezzo del ballo che cominciò a sentirla in modo diverso. Norman la tenne stretta, con la guancia premuta contro la sua, in modo che lei non potesse vedere l'espressione disgustata che aveva in faccia. «E adesso è sparito?» concluse il dottor Bernstrom. Norman soffiò una boccata di fumo e schiacciò la sigaretta nel posacenere. «Esatto» confermò, in tono rabbioso. «Quando?» «Stamattina» rispose Norman. La pelle si era irrigidita sulle guance. «Nessun gusto. Nessun odore.» Rabbrividì, sgomento. «E adesso non ho più nemmeno la sensazione del tatto.» Gli si ruppe la voce. «Cosa c'è che non va?» gli chiese in tono implorante. «Che razza di esaurimento è questo?» «Non è del tutto incomprensibile» replicò Bernstrom. Norman lo fissò ansioso. «Di che si tratta, allora?» gli chiese. «Si ricordi quello che le ho detto: riguarda soltanto mia moglie. A parte lei...» «Capisco» disse Bernstrom. «Ma insomma, che cos'è?» «Avrà sentito parlare della cecità isterica.» «Sì.»

«E anche della sordità isterica.» «Sì, ma...» «C'è qualche motivo, quindi, per cui non dovrebbe esistere una limitazione isterica degli altri sensi?» «Ho capito, ma perché?» Il dottor Bernstrom sorrise. «Immagino» disse «che lei sia venuto da me proprio per questo.» Prima o poi doveva accettare la realtà di quella situazione. Per quanto amasse sua moglie. Successe allora, mentre se ne stava seduto da solo in salotto, fissando la pagina di un giornale senza vederla. Analizziamo i fatti. Mercoledì sera l'aveva baciata e, aggrottando la fronte, le aveva detto: «Sai di acido, tesoro.» Lei si era irrigidita e lo aveva respinto. Sul momento Norman aveva preso la sua reazione come una logica conseguenza: si era sentita insultata. Adesso si sforzò di ricostruire il suo comportamento successivo in modo più dettagliato. Perché il giovedì mattina lui non era stato capace di cogliere il minimo sapore di lei. Norman guardò con aria colpevole verso la cucina, dove Adeline stava mettendo in ordine. A parte il suono incostante dei suoi passi, la casa era silenziosa. Analizziamo i fatti, si ripeté. Si appoggiò allo schienale della poltrona e cominciò a rivederli con gli occhi della mente. Successivamente, il sabato, aveva cominciato a sentire quell'odore fetido di marcio. Se l'avesse accusata di esserne la causa, lei si sarebbe offesa a morte. Infatti non le aveva detto niente, di questo era sicuro. Si era guardato in giro per la cucina, poi le aveva chiesto se aveva messo fuori la spazzatura. Eppure Adeline aveva pensato subito che si riferisse a lei. E quella notte, quando si era svegliato, non riusciva più a sentire nulla, di lei. Norman chiuse gli occhi. Doveva avere la mente proprio in subbuglio, se riusciva a concepire pensieri del genere. Amava Adeline, non ne poteva fare a meno. Come poteva accettare l'idea che fosse lei, in qualche modo, la responsabile di tutto quello che era successo? Lasciò ancora andare la mente, senza farsi condizionare. Al ristorante, mentre ballavano, all'improvviso lei gli era sembrata fredda. Gli era sembrata - inutile girarci intorno - molle come una poltiglia. Poi, quella mattina...

Norman gettò via il giornale. Basta così! Tremando, fissò un punto sulla parete di fronte a lui con occhi rabbiosi, spaventati. Sono io, si disse, io! Non avrebbe permesso che la sua mente distruggesse la cosa più bella della sua vita. Non avrebbe permesso... Fu come se all'improvviso fosse diventato di pietra: rimase lì a bocca aperta, con gli occhi sgranati a fissare il nulla. Poi, lentamente - così lentamente che sentì il leggero scricchiolio delle ossa del collo - si voltò a guardare verso la cucina. Adeline era sempre in movimento. Ma non era il suono dei suoi passi, quello che sentiva. Si alzò, senza quasi avere consapevolezza del proprio corpo. Si sentì costretto ad attraversare il salotto e la piccola sala da pranzo, con le pantofole che non facevano il minimo rumore. Si fermò fuori dalla porta della cucina e ascoltò i suoni prodotti da sua moglie con un'espressione di repulsione dipinta sul viso. Poi silenzio. Si fece coraggio e aprì la porta. Adeline era davanti al frigorifero. Si voltò e gli sorrise. «Stavo proprio per portarti...» Non finì la frase e lo guardò senza capire. «Norman?» disse. Lui non riusciva a parlare. Rimase impalato sulla soglia a fissarla. «Norman, che c'è?» gli chiese lei. Lui fu scosso da un brivido violento. Adeline posò il piatto con il budino al cioccolato e corse verso di lui. Norman non riuscì a controllarsi: si ritrasse con un grido di paura, con un'espressione di sgomento sul volto. «Norman, che ti succede?» «Non lo so» rispose lui con un filo di voce. Adeline fece per avvicinarsi di nuovo e si bloccò quando lui urlò di terrore. Tutto a un tratto lei s'irrigidì, come se avesse capito e si sentisse indignata. «Che c'è adesso?» gli chiese di nuovo. «Voglio saperlo.» Lui riuscì solo a scuotere la testa. «Voglio saperlo, Norman!» «No.» Lo disse piano, timoroso. Adeline strinse le labbra tremanti. «Non ne posso più di questa storia» disse. «Parlo sul serio, Norman.» Mentre gli passava accanto, lui si ritrasse con uno scatto. Si tenne lontano e la seguì con lo sguardo mentre lei saliva le scale, inorridito dai rumori che produceva. Si coprì le orecchie con le mani paralizzate e rimase lì,

tremando come una foglia. Sono io! si disse di nuovo, e lo ripeté più di una volta, finché le parole persero di significato: sono io, io, io! Al piano di sopra la porta della camera da letto si richiuse con violenza. Norman abbassò le mani e si mosse a disagio verso le scale. Doveva farle sapere che l'amava, che era tutta colpa della sua mente. Avrebbe capito. Aprì la porta della camera, si fece strada nella penombra e sedette sul letto. Sentì che lei si girava e capì che lo stava guardando. «Mi dispiace» disse. «Io... io sto male.» «No» disse lei, con voce piatta, senza vita. Norman la fissò. «Come?» «Con gli altri, con gli amici, i negozianti, non c'è problema...» disse. «Non mi vedono abbastanza. Con te è diverso. Stiamo insieme troppo a lungo. Lo sforzo di nascondertelo, ora dopo ora, giorno dopo giorno, per un anno intero, è stato troppo per me. Ho perso il potere di controllare la tua mente. Tutto quello che posso fare è... annullare i tuoi sensi, uno dopo l'altro.» «Non mi verrai a dire che...» «... che queste cose sono reali? Te lo dico. Sono reali. Il sapore, l'odore, il... quello che hai sentito stanotte.» Norman fissava come impietrito la sagoma scura di sua moglie. «Avrei dovuto intervenire su tutti i tuoi sensi quando è cominciato» riprese lei. «Allora sarebbe stato facile. Adesso è troppo tardi.» «Ma di che diavolo stai parlando?» riuscì a farfugliare Norman. «Non è giusto!» gridò lei. «Sono stata una buona moglie per te! Perché sarei dovuta tornare indietro? Non tornerò indietro! Mi troverò qualcun altro. E la prossima volta non commetterò lo stesso errore!» Norman si ritrasse da lei e si alzò, con le gambe che non lo sorreggevano più, cercando a tastoni l'interruttore della luce. «Non toccarlo!» gli ordinò la voce. La luce si accese, abbagliandolo. Sentì un movimento sul letto e si girò di scatto. Non riuscì nemmeno a urlare. L'urlo si coagulò nella sua gola mentre osservava la massa informe che stava indietreggiando, gocciolando putridume. «E va bene!» Le parole gli esplosero nel cervello dandogli l'illusione del suono. «E va bene, adesso mi conosci!» I suoi sensi tornarono a funzionare immediatamente. L'aria era impregnata dell'odore di quella cosa. Norman si fece indietro, perse l'equilibrio, cadde. Vide la massa viscida sollevarsi dal letto e puntare verso di lui. Poi

la sua mente venne inghiottita da un'oscurità travolgente e gli sembrò di correre lungo un corridoio senza luce, inseguito da una voce implorante che continuava a ripetere senza tregua: «Ti prego! Non voglio tornare indietro! Nessuno di noi vuole tornare indietro! Amami, fammi restare con te! Amami, amami, amami...» La preda Amelia rientrò nel suo appartamento alle sei e un quarto. Appese il cappotto nell'armadietto del corridoio, portò il pacchetto in salotto e sedette sul divano. Mentre scartava il pacchetto tenendolo appoggiato in grembo si sfilò le scarpe. La scatola di legno sembrava una bara. Amelia ne sollevò il coperchio e sorrise. Era il bambolotto più brutto che avesse mai visto. Di legno lavorato, lungo una ventina di centimetri, aveva un corpo scheletrico e una testa spropositata. La sua espressione era cattiva in modo maniacale, i denti aguzzi erano completamente a nudo, gli occhi maligni sporgevano dalle orbite. Nella mano destra stringeva una spada lunga più di lui. Un'elegante catena d'oro gli cingeva il corpo dalle spalle alle ginocchia. Fra il bambolotto e la parete interna della scatola era infilato un piccolo rotolo di carta. Amelia lo prese e lo aprì. C'era una scritta, vergata a mano, che cominciava con le parole: Ecco Colui Che Uccide, e proseguiva: è un cacciatore spietato. Amelia sorrise mentre finiva di leggere la scritta. Arthur ne sarebbe stato soddisfatto. Il pensiero di Arthur la spinse a voltarsi per guardare il telefono sul tavolino. Dopo un po' emise un sospiro e appoggiò sul divano la scatola di legno. Si posò il telefono sulle ginocchia, prese la cornetta e compose un numero. Rispose sua madre. «Ciao, mamma» disse Amelia. «Non sei ancora uscita?» le chiese sua madre. Amelia cercò di trovare il coraggio. «Mamma, lo so, è venerdì sera...» cominciò. Non riuscì a concludere. Dall'altra parte della linea seguì il silenzio. Amelia chiuse gli occhi. Mamma, ti prego, pensò. Deglutì. «C'è un uomo» disse. «Si chiama Arthur Breslow. È un insegnante di liceo.» «Allora non vieni» disse sua madre. Amelia rabbrividì. «È il suo compleanno» spiegò. Aprì gli occhi e fissò il bambolotto. «Diciamo che gli ho promesso di... passare la serata insieme

a lui.» Sua madre rimase silenziosa. Comunque stasera non danno nessun film interessante, proseguì la mente di Amelia. «Possiamo andarci domani sera» disse. Sua madre rimase silenziosa. «Mamma?» «Adesso anche il venerdì sera è troppo per te.» «Mamma, ci vediamo due o tre sere alla settimana.» «Mi vieni a fare visita» disse sua madre. «E pensare che la tua camera è ancora qui.» «Mamma, non ricominciamo con questa storia» disse Amelia. Non sono una bambina, pensò. Piantala di trattarmi come se lo fossi! «Da quanto tempo vi vedete?» chiese sua madre. «Un mese, più o meno.» «E non mi hai detto niente» aggiunse sua madre. «Avevo intenzione di dirtelo.» La testa di Amelia cominciava a pulsare. Non mi farò venire il mal di testa, pensò. Guardò il bambolotto. Sembrava che la osservasse. «È un brav'uomo, mamma.» Sua madre non parlò. Amelia sentì i muscoli dello stomaco che si contraevano. Stasera non riuscirò a mangiare, pensò. All'improvviso si accorse di essersi rannicchiata sul telefono. Si costrinse a mettersi dritta. Ho trentatré anni, si disse. Allungò la mano e prese il bambolotto dalla scatola. «Dovresti vedere che regalo gli ho comprato per il suo compleanno» riprese. «L'ho trovato in un negozietto di oggetti strani sulla Terza. È un autentico feticcio Zuni, estremamente raro. Arthur è un patito dell'antropologia. Gliel'ho preso per questo.» Sulla linea solo il silenzio. E va bene, non parlare, pensò Amelia. «È un feticcio per la caccia» continuò, imponendosi di apparire calma. «Pare che dentro ci sia intrappolato lo spirito di un cacciatore Zuni. Ha intorno una catena d'oro che serve a impedire allo spirito di...» Non le venne in mente la parola. Fece scorrere un dito tremante lungo la catena. «... di fuggire, credo» concluse. «Si chiama Colui Che Uccide. Dovresti vedere la faccia che ha.» Sentì lacrime calde scivolarle lungo le guance. «Divertiti» disse sua madre e riappese. Amelia fissò la cornetta, ascoltando il segnale della linea. Ma perché è sempre così? si domandò. Risistemò la cornetta sulla forcella e mise via il telefono. La stanza in penombra le appariva sfocata. Mise in piedi il bambolotto sull'orlo del tavolino e si alzò. Adesso mi farò un bagno, si disse.

Uscirò con lui e passeremo una magnifica serata. Attraversò il salotto. Una magnifica serata, ripeteva inutilmente il suo cervello. Sapeva che non era possibile. Oh. mamma! pensò. Mentre andava in camera da letto strinse i pugni in un accesso di rabbia impotente. Nel salotto, il feticcio cadde dal bordo del tavolino. Atterrò a testa in giù e la punta della spada, infilandosi nel tappeto, lo puntellò con le gambe per aria. La bella catena d'oro cominciò a scivolare verso il basso. Era quasi buio quando Amelia tornò in salotto. Si era spogliata e indossava l'accappatoio di spugna. In bagno l'acqua scorreva nella vasca. Si mise a sedere sul divano e si appoggiò il telefono in grembo. Lo fissò per diversi minuti. Alla fine, con un lungo sospiro, sollevò la cornetta e compose un numero. «Arthur?» disse quando lui rispose. «Sì?» Amelia conosceva il tono... affabile ma sospettoso. Non riuscì a proferire parola. «Tua madre» fece infine Arthur. Quella fredda, pesante sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco. «È la nostra serata... ci vediamo sempre il venerdì...» S'interruppe e attese. Arthur non disse nulla. «Te ne ho già parlato prima.» «Lo so che me ne hai parlato» ribatté lui. Amelia si strofinò la tempia. «È ancora lei a comandare la tua vita, vero?» disse Arthur. Amelia s'irrigidì. «È solo che non voglio più ferire i suoi sentimenti» replicò. «Per lei è stata dura accettare il fatto che me ne sia andata di casa.» «Nemmeno io voglio ferire i suoi sentimenti» disse Arthur. «Ma quanti compleanni festeggio ogni anno? L'avevamo programmato.» «Lo so.» Amelia sentì i muscoli dello stomaco contrarsi di nuovo. «Hai davvero intenzione di permettere che ti faccia questo?» chiese Arthur. «Per un venerdì sera in tutto l'anno?» Amelia chiuse gli occhi. Le sue labbra si mossero senza emettere alcun suono. È solo che non posso più ferire i suoi sentimenti, pensò. Deglutì. «È mia madre» mormorò. «Benissimo» disse lui. «Mi dispiace. Ci contavo molto, ma...» Fece una pausa. «Mi dispiace» ripeté. Riappese la cornetta senza sbatterla. Amelia rimase a lungo seduta in silenzio, ascoltando il segnale della linea. Sussultò quando una voce registrata disse: «Riappenda, prego.» Men-

tre sistemava la cornetta, rimise il telefono sul tavolino. E tanti saluti al regalo di compleanno, pensò. Ormai sarebbe inutile darlo ad Arthur. Allungò la mano e accese la lampada da tavolo. L'indomani avrebbe riportato il bambolotto al negozio. Il bambolotto non era più sul tavolino. Amelia guardò in terra e vide la catena d'oro distesa sul tappeto. Si piegò sulle ginocchia e la raccolse, lasciandola cadere dentro la scatola. Il bambolotto non era sotto il tavolino. Amelia si chinò ancora di più e frugò sotto il divano. Urlò, ritraendo di scatto la mano. Si raddrizzò, avvicinò la mano alla lampada e la osservò. C'era qualcosa sotto l'unghia dell'indice. Mentre la estraeva fu scossa da un brivido. Era la punta della spada del feticcio. La lasciò cadere nella scatola e infilò il dito in bocca. Si piegò di nuovo e frugò con maggiore prudenza sotto il divano. Non riuscì a trovare il bambolotto. Si alzò in piedi con un gemito d'insofferenza e cominciò a scostare l'estremità del divano dal muro. Era tremendamente pesante. Ricordò la sera in cui lei e sua madre avevano acquistato i mobili. Lei avrebbe preferito arredare l'appartamento in stile danese, ma sua madre aveva insistito per prendere quel massiccio divano in legno d'acero: era in svendita. Amelia grugnì mentre lo trascinava lontano dalla parete. Sentiva l'acqua che scorreva nel bagno. Sarebbe stato meglio chiuderla al più presto. Guardò la sezione di tappeto che aveva messo allo scoperto e vide la spada senza punta. Ma il bambolotto non era lì. Amelia la raccolse e l'appoggiò sul tavolino. Decise che il bambolotto doveva essersi incastrato sotto il divano; quando lo aveva spostato, si era spostato a sua volta. Le sembrò di sentire un suono dietro di lei, un suono esile, saltellante. Amelia si voltò. Il suono era cessato. Avvertì un brivido gelato risalirle lungo il lato posteriore delle gambe. «È Colui Che Uccide» disse con un sorriso. «Si sarà sfilato la sua catena e se ne sarà andato...» S'interruppe all'improvviso. Aveva sentito un rumore in cucina, su questo non c'erano dubbi; un rumore metallico, raspante. Innervosita, Amelia deglutì a fatica. Ma che succede? si domandò. Attraversò il salotto e si diresse verso la cucina, accendendo la luce. Diede un'occhiata. Sembrava tutto normale. Il suo sguardo si mosse esitante lungo il piano cottura, dove c'era una pentola piena d'acqua, sul tavolo e sulla sedia, sui cassetti e sugli sportelli dell'armadietto, tutti chiusi, sull'orologio, sul piccolo frigorifero con il libro di ricette appoggiato sopra, sul quadro appeso alla parete, sulla rastrelliera di coltelli fissata sul fianco dell'armadietto...

... mancava il coltello piccolo. Amelia fissò inebetita la rastrelliera. Non essere sciocca, si disse. Doveva averlo infilato nel cassetto, tutto qui. Entrò in cucina e aprì il cassetto con le posate. Il coltello non c'era. Un altro suono le fece abbassare subito lo sguardo sul pavimento. Boccheggiò per lo shock. Per diversi secondi fu incapace di reagire; poi, ritornando verso la porta, guardò in salotto, con il cuore che batteva all'impazzata. Era stata la sua immaginazione? Era sicura di aver visto qualcosa muoversi... «Oh, andiamo» disse, con uno sbuffo di disprezzo. Non aveva visto un bel niente. Dall'altra parte della stanza la lampada si spense. Amelia trasalì in modo così repentino da sbattere il gomito destro contro lo stipite. Emise un grido di dolore e si strinse il gomito con l'altra mano, chiudendo momentaneamente gli occhi. Il suo viso era una maschera di sofferenza. Riaprì gli occhi e fissò il salotto buio. «Andiamo» disse a se stessa, contrariata. Tre rumori e una lampadina che si fulmina non possono sommarsi e formare una cosa così assurda come... Rimosse il pensiero con la forza di volontà. Doveva andare a chiudere l'acqua. Lasciò la cucina e si diresse verso il corridoio. Si massaggiò il gomito, facendo una smorfia. Ci fu un altro suono. Amelia si raggelò. Qualcosa si muoveva lungo il tappeto verso di lei. Guardò in basso, senza proferire parola. No, pensò. Allora lo vide... un movimento rapido a livello del pavimento. Vi fu un bagliore metallico e subito dopo una fitta atroce di dolore al polpaccio destro. Amelia boccheggiò. Scalciò alla cieca. Ancora dolore. Sentì il calore del sangue che le gocciolava sulla carne. Si voltò e schizzò in corridoio. Il bordo del tappeto scivolò sotto i suoi piedi e lei cadde contro il muro, mentre un dolore bruciante le trafiggeva la caviglia destra. Si sorresse alla parete per evitare di cadere, poi si accasciò su un fianco. Si divincolò e cominciò a singhiozzare, impaurita. Altro movimento, buio su buio. Dolore alla caviglia sinistra, poi di nuovo alla destra. Amelia urlò. Qualcosa le strisciò lungo la coscia. Lei Si ritrasse annaspando, poi barcollò alla cieca e per poco non ricadde. Lottò per conservare l'equilibrio, agitando le mani in modo forsennato. Con la mano destra di taglio fece presa sulla parete, sorreggendosi. Si girò e corse verso la camera da letto buia. Sbatté la porta e vi si appoggiò con tutto il corpo,

ansimando. Qualcosa picchiava dall'altra parte, qualcosa di piccolo, all'altezza del pavimento. Amalia ascoltò, cercando di non respirare in modo troppo rumoroso. Tirò con circospezione la maniglia, per accertarsi che la serratura fosse ben chiusa. Quando non sentì più rumori provenire dall'altra parte, indietreggiò verso il letto. Andò a sbattere contro il bordo del materasso e trasalì. Si lasciò cadere, afferrò il secondo telefono e se lo mise sulle ginocchia. Chi poteva chiamare? La polizia? L'avrebbero presa per matta. Sua madre? Era troppo lontana. Stava componendo il numero di Arthur alla luce che proveniva dal bagno quando la maniglia cominciò a girare. Tutto a un tratto non riuscì più a muovere le dita. Fissava la stanza in penombra. La serratura fece clic. Il telefono le scivolò dalle ginocchia. Lo sentì sbattere sul tappeto mentre la porta si spalancava. Qualcosa si lasciò cadere dalla maniglia esterna. Amelia scattò all'indietro, ritraendo le gambe. Un'ombra indistinta sgattaiolò lungo il tappeto, verso il letto. La seguì con lo sguardo, a bocca spalancata. Non è vero, pensò. S'irrigidì quando sentì tirare la sopracoperta. Si stava arrampicando per raggiungerla. No, pensò; non è vero. Non riusciva a muoversi. Fissò il bordo del materasso. Apparve qualcosa che sembrava una piccola testa. Amelia si ritrasse con un grido strozzato, si lanciò dall'altra parte del letto e saltò a terra. Si precipitò in bagno, girò su se stessa e chiuse di scatto la porta, ansimando per il dolore alla caviglia. Fece appena in tempo a premere il pulsante che bloccava la serratura. Qualcosa picchiò contro la base della porta. Amelia sentì un rumore come di un topo che grattasse. Poi ci fu silenzio. Si voltò e si piegò sulla vasca. L'acqua sfiorava l'orlo. Mentre richiudeva i rubinetti vide gocce di sangue che cadevano nell'acqua. Si raddrizzò e andò verso lo specchio sopra il lavello, dietro il quale c'era l'armadietto dei medicinali. Quando vide la ferita sul collo trattenne il fiato, inorridita. Vi premette sopra una mano tremante. All'improvviso si rese conto del dolore alle gambe e guardò giù. Era stata colpita a tutti e due i polpacci. Il sangue le colava sulle caviglie, e gocciolava oltre i piedi. Amelia scoppiò a piangere. Il sangue s'infilò fra le dita della mano che si era portata al collo e le bagnò i polsi. Intravide il suo volto riflesso nello specchio attraverso un velo di lacrime. C'era qualcosa dentro di lei che la fece infuriare, lo smarrimento, quella sgomenta capitolazione. No, pensò. Allungò la mano verso lo sportello

dell'armadietto, lo aprì, tirò fuori tintura di iodio, garza e cerotto. Richiuse il coperchio del water e vi si lasciò cadere, restando sempre vigile. Ingaggiò una specie di lotta per togliere il tappo alla boccetta di tintura. Dovette sbatterlo forte tre volte contro il bordo del lavello prima che si aprisse. Il bruciore del disinfettante sulle caviglie la lasciò senza fiato. Amelia strinse i denti mentre arrotolava la garza sulla gamba destra. Un suono la fece girare verso la porta. Vide la lama che veniva infilata con violenza nella fessura fra porta e pavimento. Cerca di ferirmi i piedi, pensò; crede che sia lì. Tradurre tutto ciò in pensieri le sembrò irreale. Ecco Colui Che Uccide: le parole scritte sul rotolo le tornarono d'improvviso alla mente. È un cacciatore spietato. Amelia fissò come istupidita la lama del coltello che spuntava da sotto la porta. Dio, pensò. Si bendò in tutta fretta anche l'altra gamba, poi si alzò e, guardandosi allo specchio, ripulì il sangue dal collo con una salvietta. Passò un po' di tintura di iodio sui margini della ferita, fremendo per il dolore insopportabile. Ci fu un nuovo rumore, e lei si girò di scatto, con il cuore che sembrava volerle saltare fuori dal petto. Mosse un passo verso la porta e si chinò, ascoltando con attenzione. Da dentro la maniglia proveniva un debole suono metallico. Il bambolotto stava cercando di far girare la serratura. Amelia indietreggiò lentamente, tenendo sempre d'occhio la maniglia. Cercò di visualizzare il feticcio. Era appeso alla maniglia con un braccio e usava l'altro per sondare il buco della serratura con il coltello? Era un'immagine assurda. Amelia sentì un formicolio gelato alla base del collo. Non devo farlo entrare, si disse. Un grido rauco le uscì dalla bocca quando il pulsante della maniglia scattò verso di lei. D'istinto Amelia allungò un braccio e strappò un asciugamano dalla mensola. La maniglia girò, la serratura scattò. La porta cominciò ad aprirsi. Il bambolotto piombò dentro come un proiettile. Si mosse in modo così rapido che la sua immagine fu solo una macchia indistinta agli occhi di Amelia. Agitò con violenza l'asciugamano verso il basso, come se si stesse difendendo da un grosso insetto. Il bambolotto venne sbattuto contro la parete. Amelia spinse con forza l'asciugamano e schizzò via caracollando, mentre il dolore alla caviglia le strappava gemiti soffocati. Spalancò la porta e si precipitò in camera da letto. Era giunta quasi alla porta che dava sul corridoio quando la caviglia cedette. Cadde a faccia in giù sul tappeto con un urlo strozzato. Ci fu un ru-

more dietro di lei. Si rigirò e vide il feticcio che usciva dalla porta del bagno come un ragno all'attacco. Vide la lama del coltello scintillare sotto la luce. Poi il bambolotto scomparve nell'ombra, e si precipitò verso di lei. Amelia arrancò per ritrarsi. Si guardò alle spalle, vide il ripostiglio e indietreggiò verso quell'oscurità, annaspando in cerca della maniglia. Di nuovo dolore, come una pugnalata gelida sul piede. Amelia urlò e si fece ancora più indietro. Alzò la mano e tirò giù un cappotto, che cadde addosso al feticcio. Continuò a tirare giù tutto quello che le capitava a tiro. Il feticcio si ritrovò sepolto sotto un mucchio di maglioni, gonne e vestiti. Amelia si gettò oltre quel fagotto di abiti in movimento, si rimise in piedi con la forza di volontà e corse zoppicando in corridoio, più veloce che poté. Lo strepito sotto i vestiti diminuì d'intensità man mano che si allontanava. Arrancò fino alla porta. Girò la chiave e tirò la maniglia. La porta era bloccata. Amelia allungò freneticamente la mano verso il catenaccio, ma era stato chiuso. Cercò di aprirlo, ma senza riuscirci. Vi si aggrappò, colta da un terrore improvviso. La base era tutta deformata e la catenella non scorreva più. «No» mormorò. Era in trappola. «Oh Dio.» Cominciò a picchiare sulla porta. «Vi prego, aiutatemi. Aiutatemi!» Rumori in camera da letto. Amelia ruotò su se stessa e si diresse zoppicando verso il salotto. Cadde sulle ginocchia accanto al divano, annaspando per prendere il telefono, ma le dita le tremavano così tanto che non riuscì a comporre il numero. Cominciò a singhiozzare, poi si rigirò con un grido strozzato. Il bambolotto si stava precipitando su di lei dal corridoio. Amelia afferrò un posacenere dal tavolino e lo lanciò contro il bambolotto. Lanciò un vaso, una scatola di legno, una statuina. Non riuscì a colpire il feticcio, che la raggiunse e cominciò a colpirla sulle gambe. Amelia arretrò alla cieca e cadde sul tavolino. Si rotolò sulle ginocchia e si rimise in piedi. Corse incespicando verso il corridoio, tirandosi dietro tutti i mobili per bloccare il bambolotto. Rovesciò una sedia, un tavolo. Prese una lampada e la gettò a terra. Tornata in corridoio si girò su se stessa e si lanciò verso il ripostiglio, sbattendosi la porta alle spalle. Tenne ferma la maniglia con le dita contratte. Il suo respiro caldo le ricadeva sulla faccia a ondate. Urlò quando il coltello spuntò da sotto la porta, e la punta affilata affondò in uno degli alluci. Si fece ancora più indietro, rafforzando la presa sulla maniglia. L'accappatoio le penzolava davanti, aperto. Sentì il rivolo di sangue che le scendeva in mezzo ai seni. Le gambe erano quasi insensibili per il dolore. Chiuse gli occhi. Per favore, qualcuno mi aiuti, pensò.

Si irrigidì quando la maniglia cominciò a girare nella sua presa. Sentì un brivido gelido attraversarle la carne. Non poteva essere più forte di lei, non poteva. Amelia strinse di più. Per favore, pensò. La tempia urtò contro il fianco di una valigia appoggiata sullo scaffale. Il pensiero le esplose nel cervello. Continuò a stringere la maniglia con la mano destra e alzò la sinistra, annaspando per raggiungere la valigia. I fermagli erano aperti. Con uno strappo improvviso girò la maniglia, e si spinse contro la porta con tutta la forza che aveva. La sentì sbattere contro la parete. Il feticcio cadde giù con un rumore sordo. Amelia tirò giù la valigia. Spalancò il coperchio e si mise in ginocchio nel ripostiglio, tenendo aperta la valigia come un libro. Si fece coraggio, sgranando gli occhi e stringendo forte i denti. Sentì il peso del bambolotto quando andò a sbattere contro il fondo della valigia. Richiuse all'istante il coperchio e appoggiò la valigia sul pavimento. Vi si buttò sopra e la tenne chiusa con il corpo, mentre con le dita tremanti bloccava i fermagli. Il suono che emisero mentre li richiudeva la fece singhiozzare per il sollievo. Gettò lontano la valigia, che scivolò lungo il corridoio e andò a sbattere contro la parete. Amelia si rimise in piedi barcollando, sforzandosi di non prestare ascolto al frenetico scalciare e graffiare che proveniva dall'interno della valigia. Accese la luce del corridoio e cercò di aprire il catenaccio. Era incastrato in modo irreparabile. Si voltò e zoppicò per il salotto, guardandosi le gambe. Le fasciature pendevano, tutte e due le gambe erano rigate di sangue raggrumato, e qualcuna delle ferite sanguinava ancora. Si tastò la gola. Il taglio era ancora umido. Amelia strinse le labbra scosse da un tremito. Aveva bisogno di un dottore, subito. Andò a prendere in cucina la pinza per il ghiaccio e tornò in corridoio. Un rumore come di qualcosa che veniva taglialo le fece girare lo sguardo verso la valigia. Trattenne il respiro. La lama del coltello sporgeva dal fianco della valigia, muovendosi in su e in giù con il ritmo di una sega. Amelia la fissò inorridita. Si sentiva come se il suo corpo fosse diventato di pietra. Raggiunse la valigia, sempre zoppicando, e vi si inginocchiò accanto, guardando con repulsione la lama che segava. Era macchiata di sangue. Cercò di afferrarla con le dita della sinistra, di tirarla fuori. La lama si torse, rigirandosi, e lei urlò, ritraendo di scatto la mano. Aveva un taglio profondo sul pollice. Il sangue le scorreva sul palmo della mano. Amelia si premette il dito contro l'accappatoio. Ebbe come la sensazione che la sua

mente stesse perdendo lucidità. Si rimise in piedi, arrancò verso la porta e cominciò a forzare il catenaccio. Non riuscì a farlo scorrere. Cominciava a farle male il pollice. Infilò la pinza sotto il gancio che lo fissava al muro e fece leva. La punta della pinza si spezzò. Amelia scivolò e per poco non cadde. Si tirò su, mugolando. Le mancava il tempo, il tempo. Si guardò intorno, disperata. La finestra! Poteva gettare fuori la valigia! La visualizzò che precipitava nel buio. Senza perdere tempo lasciò cadere la pinza e si voltò verso la valigia. Rimase raggelata. Il bambolotto aveva già tirato fuori la testa e le spalle dallo squarcio nel fianco. Amelia lo seguì con lo sguardo mentre si sforzava di uscire del tutto. Rimase paralizzata. Il feticcio, mentre si dimenava, la stava fissando. No, pensò, non è vero. Il bambolotto liberò le gambe e saltò a terra. Amelia si ritrasse con uno scatto e corse in salotto. Il piede destro atterrò su una scheggia del vaso rotto. La sentì affondare nella carne del calcagno e perse l'equilibrio. Atterrò sul fianco e cominciò a dibattersi. Il bambolotto le fu addosso con un balzo. Vide il luccichio della lama. Scalciò selvaggiamente, scaraventando a terra il feticcio. Si rimise in piedi e corse in cucina, si girò e si appoggiò alla porta, spingendola con tutte le forze. Qualcosa le impediva di richiudersi. Amelia ebbe l'impressione di sentire un grido trafiggerle la testa. Abbassò lo sguardo e vide il coltello, brandito da una minuscola mano di legno. Il braccio del bambolotto era incastrato fra la porta e lo stipite! Amelia premette contro la porta con tutta la forza che aveva, meravigliandosi della resistenza che veniva esercitata dalla parte opposta. Vi fu un rumore secco. Un sorriso cattivo le increspò le labbra. Continuò a sospingere la porta con sempre maggiore energia. L'urlo nella sua mente divenne più forte, perdendosi nel suono del legno che si scheggiava. La lama del coltello piegò verso il basso. Amelia si mise in ginocchio e la tirò via. Lanciò il coltello in cucina, e vide la mano e il braccio che si staccavano dal manico e cadevano a terra. Con un rumore soffocato riuscì a rialzarsi in piedi e gettò il coltello nel lavandino. La porta le sbatté contro un fianco; il bambolotto si precipitò dentro. Amelia si ritrasse di scatto. Sollevò la sedia e la scagliò contro il feticcio, che la evitò con un salto, poi l'aggirò. Amelia prese la pentola con l'acqua dal piano cottura e la tirò giù. La pentola rimbalzò rumorosamente sul pavimento, innaffiando il bambolotto.

Lo guardò con attenzione. Non la inseguiva più. Cercava di arrampicarsi sul lavandino, saltando e afferrandosi al mobiletto con una mano. Vuole il coltello, pensò lei. Deve avere la sua arma. All'improvviso seppe ciò che doveva fare. Si avvicinò alla cucina a gas, abbassò lo sportello del forno e girò la manopola al massimo. Mentre si girava per afferrare il bambolotto sentì l'esplosione soffocata del gas che si accendeva. Il bambolotto cominciò a dimenarsi e a scalciare. Sentendosi sbalzare da una parte all'altra della cucina dai suoi frenetici scuotimenti, Amelia cominciò a urlare. Il grido di prima tornò a riempirle la mente e tutto a un tratto lei seppe che era lo spirito nel feticcio a gridare. Amelia scivolò e crollò contro il tavolo ma si tenne e, mettendosi in ginocchio davanti al torno aperto, vi gettò dentro il bambolotto. Richiuse lo sportello di scatto e vi si appoggiò contro. Per poco lo sportello non venne scardinato. Amelia spinse con la spalla, poi con la schiena, voltandosi per fare leva con le gambe contro la parete. Cercò di ignorare il forsennato dibattersi del bambolotto dentro il forno. Osservò il sangue rosso che le usciva pulsando dal piede. Cominciò a sentire il puzzo di legno bruciato e chiuse gli occhi. Lo sportello stava diventando bollente. Si spostò appena. Il frastuono del bambolotto che scalciava e picchiava le riempiva le orecchie. L'urlo le si riversava dentro il cervello. Sapeva che si sarebbe ustionata la schiena, ma non osò muoversi. Il puzzo di legno bruciato divenne più forte. Il piede le faceva un male terribile. Amelia alzò gli occhi verso l'orologio sulla parete. Mancavano quattro minuti alle sette. Seguì la lancetta rossa dei secondi che si muoveva lentamente. Passò un minuto. Adesso l'urlo nella sua mente stava diminuendo d'intensità. Si mosse ancora, a disagio, stringendo i denti per sopportare il bruciore alla schiena. Passò un altro minuto. Lo scalciare e il dimenarsi cessarono. L'urlo era sempre più fievole. Il puzzo di legno bruciato aveva riempito la cucina. Nell'aria aleggiava uno strato di fumo grigio. Lo vedranno, pensò Amelia. Adesso che è finito tutto verranno ad aiutarmi. È così che vanno sempre le cose. Cominciò a spostarsi lentamente dallo sportello del forno, pronta ad appoggiarci di nuovo il peso del corpo nel caso ce ne fosse stato bisogno. Girò su se stessa e si mise in ginocchio. Il fetore del legno bruciato le fece venire la nausea. Pero doveva sapere. Allungò la mano e abbassò lo sportello.

Qualcosa di buio e opprimente l'attraversò tutta e udì ancora quell'urlo nella sua testa, mentre la vampa del forno la investiva e la impregnava. Adesso era un urlo di vittoria. Amelia si rialzò e spense il forno. Prese dal cassetto un altro paio di pinze per il ghiaccio e sollevò il frammento di legno annerito e contorto. Lo lasciò cadere nel lavandino e vi fece scorrere l'acqua sopra fino a quando non smise di fumare. Poi andò in camera da letto, prese il telefono e abbassò la forcella. Dopo un attimo rilasciò la forcella e compose il numero di sua madre. «Sono Amelia, mamma» disse. «Mi dispiace di essermi comportata in quel modo. Mi piacerebbe se passassimo la serata insieme. Però si è fatto un po' tardi. Ti andrebbe di venire da me. così proseguiamo direttamente per il cinema?» Ascoltò. «Bene» disse. «Ti aspetto.» Riattaccò e tornò in cucina, dove sfilò dalla rastrelliera il coltello più lungo. Poi andò alla porta e tirò indietro il catenaccio, che adesso scorreva liberamente. Portò il coltello in salotto, si tolse l'accappatoio e si esibì in una danza di caccia, colma della gioia della caccia, della gioia dell'uccisione imminente. Poi sedette a gambe incrociate nell'angolo. Colui Che Uccide sedeva a gambe incrociate in un angolo, nel buio, in attesa della preda che stava per arrivare. Una voce ai confini della realtà di Luca Crovi e Sebastiano Pezzani Ore 22.30, la spia rossa del telefono in linea si accende nello studio B di Radiodue. Nella stanza seduti a un tavolo verde che potrebbe sembrare da poker ci sono il conduttore radiofonico Luca Crovi, il traduttore e rocker Sebastiano Pezzani e il direttore di Urania Giuseppe Lippi. Dall'altra parte dell'oceano risponde alla chiamata lo scrittore Richard Matheson, settantasette anni, una leggenda vivente della letteratura e del cinema fantastico. Entrate allora con noi in quella zona ai confini della realtà rileggendo quello che Richard Matheson ha raccontato nel dicembre 2003 in onda sulle frequenze di Radiodue, durante una puntata speciale del programma Tutti i colori del giallo. Buon viaggio. Il suo sodalizio con Roger Corman è stato fenomenale e ha prodotto cult movies come I vivi e i morti (1960); Il Pozzo e il pendolo (1961); I raccon-

ti del terrore (1962); I Maghi del terrore (1963). Cosa pensa oggi di quei film che hanno cambiato l'immaginario horror di milioni di persone e quale fu all'epoca il suo approccio alle storie originali di Poe? House of Usher (I vivi e i morti) è il primo film che mi abbiano mai chiesto di realizzare e fare quel film mi stava davvero a cuore. Avevo letto la storia originale di Poe e l'avevo amata e continuava a spaventarmi ogni volta che la rileggevo. La modificai leggermente, aggiunsi dei personaggi e preparai così una scaletta completa che potesse andare bene per una sceneggiatura cinematografica. All'inizio ebbi contatti solo con l'American International e solamente diverso tempo dopo che avevo iniziato il mio lavoro venni a sapere del coinvolgimento di Roger Corman. Sembra che molti critici considerino quei quattro film che realizzammo insieme nel giro di tre anni quanto di più vicino all'originale di Poe ci possa essere e forse hanno ragione, se si fa eccezione per uno dei racconti brevi compresi ne I racconti del terrore che devo ammettere che è tutto farina del mio sacco. Amo molto questa pellicola, è il primo film da me sceneggiato che possa vantare la partecipazione di un colosso del cinema del terrore come Vincent Price. Quando lo vidi per la prima volta, il suo aspetto mi sorprese molto perché me l'ero sempre immaginato con una barba alla Van Dyck, certo non come si presentò in quell'occasione. Ma lui era convinto che quello dovesse essere il suo aspetto e devo dire che era semplicemente perfetto. Come nacque la collaborazione con Rod Serling per la serie Ai confini della realtà (The Twilight Zone)? E quali dei racconti che ha scritto per quella serie televisiva le paiono ancor oggi esemplari? Charles Beaumont è sempre stato un mio caro amico. Venimmo entrambi invitati alla proiezione della puntata-pilota della serie Ai confini della realtà, dopodiché ci recammo direttamente nell'ufficio di produzione del serial e incontrammo il produttore Rod Serling. Presentammo le nostre idee e queste convinsero subito Serling a metterci sotto contratto, e una volta tornati a casa le buttammo giù. Charles Beaumont vendette subito alcuni dei suoi racconti e ne fece un adattamento per la serie. Per i primi anni, io scrissi solo storie originali. È buffo, ma giusto l'altra sera la CBS ha trasmesso un programma che è stato una sorta di celebrazione del 75° anniversario della rete e non poteva certo mancare un riferimento a una delle serie più rappresentative del suo periodo storico, ovvero Ai confini della realtà. E in effetti hanno proprio trasmesso una delle mie storie, quella che

vede William Shatner alle prese con un aereo sulla cui ala si è posato un oggetto non meglio identificato (Incubo a seimila metri, Nightmare at 20.000 Feet, N.d.R.). Pare che quando la gente parla della serie, quello sia l'episodio preferito. Io certo non me lo aspettavo ma sembra proprio che le cose stiano così. Devo dire che mi è piaciuto molto realizzare quella storia e ho sempre pensato che fosse superiore alla versione cinematografica che ne fu realizzata poi da George Miller per il film a episodi prodotto nel 1983 da Steven Spielberg. Il personaggio interpretato da Shatner (attore che tutti poi ricorderanno negli anni per essere stato il Capitano Kirk della serie fantascientifica Star Trek) aveva avuto un esaurimento nervoso nel corso di un volo simile a quello che vive nell'episodio di Ai confini della realtà e fa di tutto per evitare di impazzire quando si accorge che uno strano essere, adagiato sull'ala dell'aereo da turismo sul quale sta viaggiando, ha deciso di sabotarlo definitivamente. È ovvio che questo rendesse il contesto nel quale si muoveva Shatner molto interessante. Devo dire che l'attore è stato semplicemente fantastico, davvero eccezionale in quell'episodio. C'è un altro episodio di Ai confini della realtà che ha particolarmente a cuore? È ovvio che alcuni episodi mi piacciano più di altri. Per esempio, credo che Steel, diretto da Don Weis con Lee Marvin fosse fantastico. È la storia di un uomo, Steel Kelly, che per trovare i soldi per riparare il suo robottino domestico è costretto a combattere sul ring contro un gigantesco e agguerritissimo androide. Credo che poi che entrambi gli episodi di Ai confini della realtà interpretati da Shatner su mie storie siano magistrali. Del primo ho già parlato, mentre nel secondo, Nick of Time, Shatner è nei panni dello sposino Don Carter e vive un'allucinata luna di miele con la moglie Pat in un bar dove trova una diabolica macchina della fortuna. Tutte e due le storie sono state realizzate magistralmente. Pensando invece ad episodi non scritti da me, forse quello che mi ha colpito di più è il primo della serie, quello sul pilota della prima guerra mondiale che atterra in una base moderna... credo che anche quello sia stato ben prodotto. Sono comunque stati davvero pochissimi quelli di cui non sia rimasto soddisfatto. Mi è piaciuto molto anche A World in His Own, nel quale l'attore Keenan Wyn riesce a trasformare in personaggi reali tutte le persone di cui parla al suo registratore, gli basta citarli e descriverli e immediatamente dopo prendono vita. L'unico caso in cui Rod Serling sia stato 'cancellato' dalla televisione fu nell'ultimo episodio della stagione... Rod Serling stesso infatti appare al-

la fine dell'episodio che io avevo scritto. Non era una novità, lo faceva sempre, per rilasciare un rapidissimo commento che introduceva alle storie. Dunque Rod comincia a raccontare che ovviamente tutte quelle cose ridicole che vediamo sullo schermo non succedono seriamente nella vita di tutti i giorni. C'è una dissolvenza e la macchina inquadra la protagonista dell'episodio che dice, «Rod, avresti fatto meglio a non dire una cosa del genere», tenendo in mano una busta contenente una cassetta e, dopo aver pronunciato il nome Rod Serling, la getta nel camino acceso. E Rod dice, «Ecco come vanno le cose» e scompare. Le sono piaciute le successive serie di Ai confini della realtà a colori? No! A dire il vero, non me n'è piaciuta neanche una. Quante ne hanno fatte? Se non sbaglio tre. Non credo che abbiano catturato l'essenza dell'originale. Devo dire che nessuno si è espresso sul fatto che la serie originale di Ai confini della realtà era in bianco e nero, ovvero un modo decisamente più drammatico di presentare quel tipo di storie. Erano ben scritte, ecco tutto. Charles Beaumont e io abbiamo scritto alcune ottime sceneggiature. Lo stesso Rod Serling ha scritto delle ottime sceneggiature. Insomma, si è trattato di una serie molto ispirata. A chi mi chiede come mai Ai confini della realtà sia durata così a lungo, io rispondo che la risposta è semplice: si tratta di storie interessanti. Stephen King ha sempre dichiarato di essere un suo ammiratore ma anche un suo allievo. Che cosa ha imparato l'allievo dal maestro e qual è secondo lei la forza delle storie di King? Credo che la mia maggiore influenza su King stia nel fatto che lui, al pari di molti altri scrittori, prima di iniziare a leggere i miei libri scrivesse storie fantasy e horror su castelli, cimiteri, vampiri, mentre le mie storie raccontavano di fatti terribili che accadono nel quartiere e al supermercato. Credo che questo gli abbia offerto una prospettiva narrativa completamente diversa. La cosa che King sa fare meglio, ovviamente, è raccontare delle storie. È un bravo narratore e io stesso mi considero un narratore. Ci parli un po' del rapporto che ha con suo figlio, Richard Christian Matheson. Si tratta di uno degli autori americani di storie fantastiche più popolari degli ultimi vent'anni. C'è mai stata competizione fra voi due? Vi siete influenzati reciprocamente? No. L'ho sempre incoraggiato e ho letto alcuni dei suoi primi scritti.

Quando me lo chiede, li leggo tuttora. Ma oggi non posso certo dirgli nulla, non posso certo correggerlo: oggi scrive delle sceneggiature meravigliose. Ha appena terminato di scrivere e produrre un film per la casa di produzione Showtime. Il titolo è Paradise e parla di una famiglia evangelica. È una storia eccezionale. Le riprese, che si sono svolte a Salt Lake City, sono terminate da poco. Quando verrà trasmesso? Non so bene. La casa di produzione deve dare il via definitivo. Sono certo che uscirà non appena avranno visto la versione definitiva del film, che al momento è ancora in fase di editing. È stato prodotto davvero bene, sotto la regia di Frank Pierson, un regista eccellente. Immagino lei sia orgoglioso di suo figlio... Certo che lo sono. Sono orgoglioso di mio figlio Christian che credo abbia scritto delle cose ottime. Anche mia figlia Ally è attivissima nel versante della scrittura per il cinema. Ha appena venduto una serie di telefilm alla televisione canadese realizzati da lei insieme al marito: dovranno produrre circa 88 ore di pellicola. Incredibile, non le pare? Scrivono insieme ma lei si occupa soprattutto della produzione. Dunque sono molto orgoglioso anche di loro. Che cosa significa per lei la parola 'shock ' e come mai l'ha utilizzata nel titolo di ben quattro diverse raccolte di racconti? Non è stata una mia scelta. È stato l'editore a impormela. Non ho una particolare predilezione per la parola 'shock'. Com'è che si chiama l'operazione militare in Iraq? 'Shock & Awe'. No, non mi piace. Credo che aver dato quel titolo alle mie raccolte di racconti sia stato fuorviarne. E che ci dice del termine 'paura'? Il termine paura è relativo a una serie piuttosto ampia di eventi. Si può avere paura di prendersi un raffreddore oppure, per estremizzare, di avere come vicino di casa un vampiro. Non esiste un limite alle paure degli esseri umani, dalla paura più mondana a quella più stravagante. E allora cos'è che fa paura a Richard Matheson? In questo momento nulla in particolare. Grazie a Dio, i miei figli sono cresciuti e sono in ottima salute e anche mia moglie sta bene: è ancora con

me e ha una sua attività lavorativa. E io stesso vengo intervistato da un sacco di gente diversa. Prendiamo questa intervista, per esempio. C'è molta gente che scrive articoli su di me e che non l'ha mai fatto prima. Ho come la sensazione che se vivi sufficientemente a lungo, prima o poi qualcuno si accorgerà di te. Sono certo che ci si sia accorti di lei, signor Matheson. D'altra parte la mole di lavoro che lei ci ha regalato negli anni è impressionante. Ecco spiegato come mai lei ci interessa ancora e noi siamo qui a intervistarla. Da giovane, lei credeva all'Uomo Nero? No! (una bella risata) Tutte le sue storie oscillano tra amore e morte. Come mai per lei questi due elementi sono così essenziali? Amore e morte? Non capisco che rapporto ci sia... A quanto pare nelle sue storie non manca mai una componente di sentimenti profondi... In genere, quando parlo d'amore è sull'amore che concentro la mia attenzione. È quello che succede, per fare un esempio, nel mio romanzo intitolato Somewhere in Time. Un tempo questo romanzo aveva un titolo diverso, ovvero Big Time Revision. Poi ne abbiamo fatto un film che ho intitolato Somewhere in Time. Era una storia d'amore, nient'altro. E un altro mio romanzo, Al di là dei sogni, sulla vita oltre la morte, era imperniato sull'amore di un marito per la moglie e su ciò che quel marito sarebbe stato disposto a fare pur di salvarla. Lei ha influenzato due generazioni di lettori con le sue storie fantasy, horror e western. Cosa pensa del mercato americano contemporaneo, per quel che riguarda i libri di narrativa? Pensa che ci sia ancora spazio per la creatività oppure è convinto del contrario? Il settore editoriale si è drammaticamente deteriorato perché i grandi editori non pensano ad altro che a individuare un nuovo best-seller. Da questo punto di vista non ci sono differenze rispetto al settore cinematografico. L'industria cinematografica è solo interessata a produrre cose che rendano un sacco di soldi. Ecco perché Stephen King ha tanto successo. Praticamente tutto quello che scrive diventa un best-seller. La stessa cosa vale per Dean Koontz e Peter Straub. I loro romanzi diventano automaticamente

dei best-seller. Cosa aveva in mente quando ha iniziato a scrivere? Non saprei. Posso solo dire che sentivo come una compulsione a raccontare delle storie e, una volta finito il college, quando mi misi a scrivere iniziai dalla fantascienza. Non dimentichiamo che la fantasy e la fantascienza erano un settore molto vasto con una settantina di riviste di vario tipo sulle quali avevi la possibilità di esprimerti e all'epoca, oltre a essere una persona creativa, io ero anche una persona molto pratica. Ecco perché ho subito concentrato i miei sforzi su quel mercato. Va anche detto che ho sempre avuto un vero interesse per la fantasy, fin da quando ero bambino. Non posso dire altrettanto per la fantascienza. Quali sono i suoi autori preferiti, quelli che l'hanno presumibilmente influenzata? È ovvio che quando io e i miei coetanei ci siamo messi a scrivere per la prima volta, Ray Bradbury ha esercitato su tutti una grande autorità. Abbiamo tutti provato a scrivere come lui e nessuno di noi ci è riuscito, cosa che ci ha spinti a sviluppare il nostro stile personale. Ci sono diversi scrittori di fantascienza, fantasy e di altri generi che mi hanno colpito. Per esempio c'è uno scrittore olandese che ha scritto cose come The Fourposter e altri meravigliosi romanzi che io adoro... Come si chiama? Mi sfugge il nome... (Jan de Hartog, 1914-2002, N.d.R.). È da un po' di tempo che non leggo narrativa. Oggi quando leggo preferisco i libri di politica, di metafisica, saggi, insomma qualunque cosa. A lei si deve un adattamento televisivo di Cronache marziane di Bradbury. Che cosa può dirci in proposito? Alcune cose non erano male ma nel complesso non posso dire di ritenermi soddisfatto. A Ray non è piaciuto granché e io lo capisco: alcune scene erano fantastiche ma nel complesso credo che non sia stato un progetto molto riuscito. E mi è dispiaciuto molto che Bradbury non ne sia rimasto soddisfatto perché davvero avrei voluto farlo contento più di ogni altra cosa. Ecco perché sono stato molto fedele alle sue pagine, non ho concesso nulla all'improvvisazione. Cosa l'ha spinta alla decisione di scrivere dei noir nella prima fase della sua camera? E come ha scoperto il mercato fantasy?

Be', è tutta la vita che leggo libri fantasy! Da quando ero bambino, ho sempre letto quegli enormi libri di favole: il libro verde, il libro giallo... enormi antologie di fiabe. Le ho lette tutte e naturalmente ho anche letto i libri di uno scrittore, che non credo sia più in vita, che si chiamava Kenneth Roberts, che ha scritto un lungo romanzo storico, Passaggio a nordovest e altri romanzi ancora dedicati alla Frontiera. Li ho letti tutti. Insomma, il romanzo storico e avventuroso mi è sempre piaciuto come pure il genere fantasy. Come vi ho già detto, il discorso è diverso per la fantascienza: mi ci sono trovato coinvolto perché era molto in voga quando ho iniziato a scrivere, e siccome sono sempre stato una persona pratica ho scelto di cimentarmi con quel genere. Con il tempo, ho subito una sorta di trasformazione spontanea e ho in qualche maniera amalgamato i diversi generi in base alle mie inclinazioni personali. In quale misura il cinema e le sceneggiature hanno influenzato il suo modo di scrivere romanzi? Mi è sempre piaciuto andare al cinema. Da ragazzino leggevo tanto e andavo a vedere tutti i film che mi era possibile vedere. Da adolescente mi piacevano soprattutto i film di Val Lewton, come Cat People e altri. In seguito, quando mi trovai a lavorare per Ai confini della realtà, cercai di convincere la produzione ad avvalersi di Jacques Tourneur, che aveva curato la regia di Cat People, uno dei miei film preferiti, e devo dire che lui realizzò una puntata fantastica con Gladys Cooper, inoltre fu il regista di uno dei film che io scrissi per l'American International che si intitolava I maghi del terrore, forse il mio preferito in assoluto. Non so se siano in molti a conoscerlo ma io lo trovo divertentissimo. Anche se in genere non vengo considerato un autore comico! In Italia, alcuni dei suoi primi romanzi sono stati messi in commercio sotto l'etichetta 'fantascienza', mentre una recente riedizione di Io sono leggenda viene venduta come un thriller sofisticato, come un romanzo di grande qualità letteraria. Ed è un romanzo di grande qualità, pur se con un'atmosfera horror. Cosa pensa della tendenza a ingabbiare un autore all'interno di un genere? Sempre che abbia un'opinione in proposito... È buffo ma credo che Io sono leggenda sia il mio unico vero romanzo di fantascienza. È probabile che non tutti siano d'accordo con me ma ho parlato con una dottoressa e ho letto molte ricerche e tutti gli elementi biologici che presento nel libro per fornire una spiegazione all'esistenza dei

vampiri sono assolutamente logici. Insomma, li analizzo in dettaglio: il loro aspetto, come distruggerli, perché debbano restare all'interno di una casa, e così discorrendo. Non credo di aver scritto un'altra storia del genere. Non credo che Tre millimetri al giorno fosse un libro di fantascienza. Piuttosto raccontava la storia di un uomo che rimpicciolisce sempre più e narra delle emozioni che avverte nel corso di quella trasformazione. Cosa ne pensa della divisione dei romanzi per generi letterari tanto cara ai critici? La detesto! Scrivo ogni tanto degli articoli ma l'unico editoriale nonfiction che io abbia mai scritto è stato per il Writers Digest. Si trattò di un vero e proprio attacco a quel tipo di mentalità che tende a fare distinzioni di genere. Una volta tenni un discorso a un convegno di scrittori scagliandomi contro la scrittura di genere. Sono convinto che uno scrittore che ragiona per generi sia fuori strada. È forse vero che i lettori avvertono la necessità di distinguere gli scrittori in base al genere, di inserirli in comode nicchie, ma io ho sempre cercato di evitare quest'operazione. Ho scelto appositamente di scrivere romanzi che contenessero elementi noir ed elementi horror e proprio in quel discorso sottolineai che è talmente facile saltare da un genere all'altro che si può ambientare una storia d'amore su Marte come se si trattasse di un romanzo di fantascienza e che si può viceversa ambientare quella stessa storia d'amore nel buon vecchio West ed ecco che si è scritto un western, oppure si può dislocarla in Transilvania ed ecco un romanzo dell'orrore! L'idea stessa di costringere uno scrittore entro confini predefiniti mi è aliena. Ci sono degli scrittori che continuano a scrivere la stessa cosa, che non la smettono mai di ripetersi, ma io ho sempre cercato di non incappare in questo tranello. Credo che a volte i miei lettori siano un po' confusi perché ho la tendenza a saltare da un genere all'altro. Di recente ho scritto cinque romanzi sul vecchio West e credo che questo abbia sorpreso i miei lettori e anche il romanzo d'amore è stato una sorpresa. Ho scritto un romanzo che aveva per protagonisti dei soldati di fanteria impegnati nella seconda guerra mondiale e credo sia un ottimo libro. E poi ho scritto Al di là dei sogni che è un romanzo metafisico che tratta della vita oltre la morte. Ciò che mi interessa è scrivere delle storie e l'ambientazione non fa realmente differenza, a patto che mi intrighi. È convinto che il grande successo di pubblico ottenuto dal film Il Signore degli Anelli, tratto dall'omonima saga di J.R.R. Tolkien, possa aprire

nuove porte agli autori fantasy? No. Non credo che ci siano molti Tolkien in giro. Personalmente, non sono mai stato in grado di scrivere storie su troll che abitano sotto i ponti, e altre strane creature come gli elfi che se ne vanno in giro per le campagne. Io mi sono piuttosto sempre concentrato sulla realtà contemporanea. Certo il libro di Tolkien è fantastico e ci sono altri autori che non sono niente male. Mi viene in mente La spada nella roccia di T.H. White, un romanzo meraviglioso che mi ha molto colpito quando avevo una ventina d'anni. Davvero meraviglioso. Sono convinto che se uno scrittore è in grado di cimentarsi a quei livelli con quel genere di narrativa, allora il successo è assicurato. A quanto pare J.K. Rowling è stata capace di farlo con la serie di Harry Potter. Lei crede nell'esoterismo e nella stregoneria? Be', c'è un autore che ha scritto un libro sulla magia nera e su altre cose di questo genere... credo che abbia anche scritto un capitolo intitolato 'Magia nera'. Ebbene, per tutto il capitolo questo scrittore non fa altro che ammonire il lettore, dicendogli di stare alla larga da queste cose. Credo che il potere della mente sia illimitato e che possa causare danni terrificanti. Non so fino a che livello, ma so che succedono delle cose e che ci sono delle forze in questo mondo di cui noi siamo fondamentalmente all'oscuro. Nel 1950 la rivista The Magazine of Science Fiction pubblicò il suo primo racconto Nato di uomo e di donna. Può dirci qualcosa di quella storia che ci parla in prima persona del mondo di una creatura deforme che vive in uno scantinato dove è sottoposta a indicibili abusi familiari? In effetti quello è il mio primo racconto a essere stato pubblicato. Lo scrissi subito dopo la fine dell'università. A quel tempo mi parve interessante occuparmi di cosa potesse succedere a una famiglia normale che avesse messo al mondo una specie di mostro. Avevo ventitré anni e fortunatamente non mi preoccupai di rivedere l'idea che questi genitori potessero portare a casa il neonato e relegarlo nello scantinato. Mi rendo conto che si tratta di un'idea assurda. Dopo essermi sposato e aver avuto dei figli, ci riflettei sopra e dissi a me stesso che si trattava di un'idea completamente folle: probabilmente i dottori non avrebbero mai consentito a una creatura del genere di sopravvivere e se anche lo avessero fatto lo avrebbero confinato in un istituto; quel che è certo è che non avrebbero permesso ai genitori di riportarlo a casa per poi rinchiuderlo in uno scantinato. In ogni mo-

do siccome quando scrissi il racconto non ci pensai e poiché ero piuttosto ingenuo, questa storia finì per diventare un piccolo classico e mi diede grande notorietà. Fu insomma un bel trampolino di lancio. Non mi verrà a dire che lei ha rinchiuso i suoi figli nello scantinato, vero? No! (risatina di sorpresa) Devo dire che a volte la tentazione l'ho avuta... Comunque ho scritto Tre millimetri al giorno nello scantinato. Come spiega che ancora oggi alcuni dei suoi libri (come Io sono leggenda, Tre millimetri al giorno, Io sono Helen Driscoll) vengano ripetutamente stampati con successo e continuino a essere oggetto di remake cinematografici, ufficiali o meno? The Incredible Shrinking Man (Radiazioni BIX - distruzione uomo) è il titolo che il produttore del film scelse per la pellicola di Jack Arnold tratta dal mio Tre millimetri al giorno (in originale The Shrinking Man, N.d.R.). Il produttore voleva qualcosa di sensazionale, come se un uomo che rimpicciolisce non fosse un fatto di per sé sensazionale. A quel punto hanno messo lo stesso titolo anche al libro perché il film aveva ottenuto un grande successo. Ma credo di averti interrotto... Stavo solo chiedendole cosa pensa del continuo successo di vendita delle sue opere. Come ho già detto in precedenza, credo che Ai confini della realtà sia durato così a lungo perché la serie è tratta da storie interessanti. C'è stato un tizio che ha scritto un saggio sulla carriera di alcuni sceneggiatori di film degli anni '50 e '60. Tra quegli autori figuravo anch'io e il titolo della sezione a me dedicata era 'Richard Matheson: narratore'. È esattamente ciò che penso di essere. Ecco perché credo che Ai confini della realtà abbia avuto tanto successo: racconta storie interessanti e se si raccontano delle storie interessanti non si rischia di passare di moda. Certo può capitare che una vecchia storia zoppichi. Prendiamo per esempio Io sono leggenda. Originariamente la storia si sarebbe dovuta svolgere in quello che al tempo era un futuro non troppo vicino, ovvero nel 1976. È ovvio che oggi questo suoni strano ma certo non avrei potuto continuare ad aggiornarla a ogni ristampa... Inoltre quello per me era il futuro! Be', potrebbe rappresentare uno spunto interessante: aggiornare una

storia in occasione di una ristampa! Non funzionerebbe! Se io avessi aggiornato la storia di Io sono leggenda collocandola nel XXI secolo, per esempio, il libro avrebbe dovuto tener conto di una serie di trasformazioni avvenute nella società mentre quando scrissi Io sono leggenda e Tre millimetri al giorno (che però era ambientato nel suo tempo), persino il 1976 non era così lontano da far pensare che ogni aspetto della società potesse cambiare radicalmente. Ma se oggi dovessi collocare quella storia in un futuro realmente distante, allora dovrei preoccuparmi di tali implicazioni. Come ha avuto l'idea di scrivere Io sono leggenda e Tre millimetri al giorno? Da ragazzino andai a vedere Dracula con Bela Lugosi e, a dispetto della mia giovane età, mi venne l'ispirazione. Passarono diversi anni prima che io mi mettessi a scrivere ma l'idea di base era questa: se un vampiro fa così paura, cosa succederebbe se tutta l'umanità fosse fatta di vampiri, con l'eccezione di un uomo? L'idea mi venne da quel film e da quella considerazione. Devo dire che i film mi hanno ispirato moltissime volte. Una volta andai a vedere una pellicola di cui ora mi sfugge il titolo. Ricordo solo che vi recitavano Ray Milland e Aldo Ray. A un certo punto del film, Ray Milland se ne andava stizzito, prendeva il suo cappello e se lo metteva in testa ma era il cappello di Ray ed era talmente grande da scendergli fin sotto le orecchie. Al che mi sono domandato: e se un uomo si infilasse un cappello che è certo sia il suo e gli succedesse comunque una cosa del genere, rendendosi conto di essere diventato più piccolo? Ecco da dove ho preso l'ispirazione per Tre millimetri al giorno. E cosa mi dice di Io sono Helen Driscoll? Come ti dicevo, mi andava l'idea di spezzare i comparti divisori dei diversi generi. Mi andava l'idea di scrivere un romanzo che contenesse gli elementi del giallo e quelli della storia di fantasmi. Una curiosità interessante è il fatto che le ambientazioni dei miei romanzi sono case in cui io e la mia famiglia abbiamo realmente vissuto. Io sono leggenda e Io sono Helen Driscoll sono ambientati nella casa in cui abbiamo vissuto per un certo periodo a Gardena, California, mentre Tre millimetri al giorno si svolge nella nostra casa di Long Island, in un posto chiamato Sand Beach. Anche Al di là dei sogni e Somewhere in Time (dai quali sono poi stati tratti due film rispettivamente con Robin Willimas e Christopher Reeves) si

svolgono in case nelle quali abbiamo effettivamente vissuto. Se non mi sbaglio, l'unica storia che non si svolga in una delle nostre abitazioni fu La casa d'inferno, perché non riuscivo proprio a immaginare nessuna delle nostre case che avesse le caratteristiche della casa infestata che avevo in mente. Dunque ebbi le mie difficoltà a trovare la collocazione ideale per il racconto. Per cui andai a visitare il castello degli Hearst a San Simon, in Cambria e non appena lo vidi mi dissi che era l'ideale. Così acquistai uno dei loro libri che erano ricchi di foto a colori delle diverse stanze e lo sfruttai come modello per La casa d'inferno. Cosa ne pensa della riduzione cinematografica di Io sono Helen Driscoll che ha preso il titolo Echi mortali? Un gran film! David Koepp ne ha scritto la sceneggiatura e curato la regia. Devo dire che è stato molto fedele al mio libro e che ha fatto un lavoro magnifico. Le è piaciuto come ha recitato Kevin Bacon nel film tratto dal suo libro? Sì, direi che è stato molto bravo. La sua recitazione si mantiene sempre su livelli eccelsi. Non riesco a capire come mai non sia diventato una vera star, visto che è così bravo... È d'accordo sul fatto che La notte dei morti viventi di George Romero si avvicina maggiormente alle atmosfere di Io sono leggenda di quanto facciano L'ultimo uomo sulla terra di Umberto Ragona (sceneggiato da lei stesso) e 1975 - Occhi bianchi sul pianeta Terra con Charlton Heston? Assolutamente sì. Per un certo periodo di tempo lavorai come consulente creativo per la Disney e mi capitò di incontrare Romero. In passato mi era venuta un'idea che mi era parsa gli potesse interessare. Quando mi vide, alzò le mani come se io fossi sul punto di prenderlo a pugni e disse: «Spiacente, la sua idea non ha fatto soldi!» Certo che ho visto quel film in televisione e mi sono detto: «Non sapevo avessero girato Io sono leggenda...» Divertente... L'ha definito un omaggio, che in pratica significa che non ha dovuto darmi un soldo per realizzarlo! Ma almeno è stato carino, vero?

Sì, è una persona estremamente simpatica. Le è capitato di invidiare Evan Hunter (Ed McBain)? Circolano voci sul suo rapporto controverso con Alfred Hitchcock, soprattutto in relazione alla preparazione dei film Gli uccelli. Cosa c'entra Evan Hunter con quel film? Non è stato lui a completare la sceneggiatura dei film? Sinceramente non lo sapevo. Quello che so è che io non ho scritto una sola riga di quella sceneggiatura. Credo di essermi pregiudicato la possibilità di ottenere quell'incarico il giorno in cui incontrai Alfred Hitchcock. Ci sarebbero dovuti essere anche il mio agente e i collaboratori di Hitchcock ma alla fine non si presentò nessuno e io mi ritrovai da solo con lui. La prima cosa che gli dissi fu: «Signor Hitchcock, credo che non sia una buona idea far comparire quegli uccelli troppo spesso», al che Hitchcock assunse un'espressione schifata e, con inconfondibile accento britannico, disse semplicemente, «No, no, no!» Ecco tutto. Fu l'inizio e la fine del mio coinvolgimento. In seguito scrissi dei soggetti per la serie Alfred Hitchcock presenta ma non ho mai più avuto occasione di incontrarlo. Cosa ci può raccontare del lungo sodalizio avuto con Dan Curtis? Lo incontrai per la prima volta negli uffici della ABC più o meno quando stava per produrre The Night Stalker, un adattamento di un romanzo inedito di un certo Jeff Rice intitolato The Kolchack Tapes. Andammo subito d'accordo. Il primo episodio ebbe talmente successo che ovviamente venne realizzato subito un sequel che fui io a scrivere. Il titolo era The Night Strangler, ambientato a Seattle, una città dove io e la mia famiglia eravamo stati in campeggio. Ovviamente non avevamo piantato le tende a Seattle ma eravamo passati di lì nel corso del nostro viaggio. Lavorammo bene e dunque continuammo a fare delle cose insieme, come Scream at the Wolf, Dracula, Trilogy of Terror etc. C'era un bel rapporto fra di noi. Dan Curtis è sempre stata una persona estremamente lunatica ma ha sempre rispettato il mio lavoro - il che certo non guasta - e comunque è dotato di un incredibile senso dell'umorismo, il che ci aiutò a superare i momenti di attrito. È un bravissimo regista. Cielo! Ha realizzato due incredibili miniserie, The Winds of War e War and Remembrance e se non sbaglio nel secondo caso si è occupato lui stesso di gran parte della sceneggiatura. È una persona di incredibile talento.

La serie The Night Stalker, con protagonista il giornalista Kolchack che diventa cacciatore di alieni e vampiri pare abbia ispirato la famosissima serie di X-Files, come ha dichiarato in più di un'occasione Chris Carter. Cosa ricorda di quella serie? Le è piaciuta la serie successivamente creata da Carter? Non mi è piaciuta particolarmente. Avrebbe dovuto realizzarla Dan Curtis ma immagino che non abbia raggiunto un accordo economico soddisfacente e se si fosse occupato lui di quella serie probabilmente io avrei scritto alcune delle relative storie. Siccome, però, lui non ebbe niente a che fare con quella serie, nemmeno io ci lavorai. Per quanto riguarda nello specifico X-Files, Chris Carter in più di una occasione ha dichiarato apertamente di essersi ispirato al personaggio di Kolchak. Non ricordo quante apparizioni abbia fatto ma so che nella serie X-Files c'è un personaggio che è l'unico di tutto il Senato a credere in ciò che Mulder e Scully vanno facendo. Questo personaggio si chiama Senatore Matheson. Si trovò bene a sceneggiare Lo Squalo 3? Non credo il risultato sia stato particolarmente buono. Scrissi una storia grezza che al tempo pensavo fosse ottima. Ma devo dire che è quello che penso sempre quando scrivo qualcosa... (nota di sarcasmo nella voce). Ma il film che ne risultò fu ben diverso. La produzione aveva questa strana fissazione: lo squalo non poteva essere lo stesso dei precedenti episodi perché quello squalo era stato ucciso con una scarica elettrica (risatina) nel corso di Lo Squalo 2 ma quando il figlio del protagonista, o uno dei suoi fratelli, se ne va in Florida, anche questo enorme squalo bianco lo segue per minacciarlo. Credo che sia davvero poco credibile. Credo che la regia sia stata piuttosto debole e anche che non si siano sufficientemente attenuti alla mia sceneggiatura. Una volta andai in Florida con il regista e con un'altra persona e poco dopo il nostro arrivo assistemmo alla proiezione di un film in 3D che si intitolava Seascapes o qualcosa del genere. Quella pellicola era davvero impressionante così io dissi ai miei due compagni, «Wow! Non sarebbe fantastico intitolare il nuovo episodio Lo Squalo in 3D e realizzarlo in tre dimensioni?». In effetti cercarono di realizzarlo in quel modo ma lo fecero così male che non avrebbe avuto alcun senso proiettarlo in 3D e così alla fine i produttori abbandonarono del tutto il progetto. Sono davvero convinto che la mia sceneggiatura fosse largamente superiore al risultato finale.

È vero che la storia da lei sceneggiata per Duel è ispirata a un episodio della sua vita? Sì, è vero. Avevo un amico scrittore, ora scomparso, che si chiamava Jerry Soul. Era uno scrittore di fantascienza. Una volta andammo a giocare a golf in un posto chiamato Elkon's Ranch, oltre Moore Park. Interrompemmo la partita per pranzare sul posto e fu allora che venimmo a sapere che il presidente Kennedy era stato assassinato. La notizia ci sconvolse e non riuscimmo a mangiare niente e certo non concludemmo la partita. Salimmo in macchina e iniziammo a percorrere questa strada tortuosa che passava per un canyon quand'ecco che un enorme camion iniziò a tallonarci, facendosi sempre più minaccioso. Jerry dovette accelerare e andare sempre più veloce. Insomma, per farla breve finimmo fuori strada e così facemmo un testa-coda in una nuvola di polvere e il camion ci sfrecciò accanto come se niente fosse. Naturalmente noi eravamo sotto shock. La cosa buffa, ancora oggi, è ammettere che, una volta passato lo spavento iniziale, lo scrittore che è in me prese il sopravvento. Fu come se una parte del mio cervello non tenesse conto dello spavento e dicesse: «Questa sì che sarebbe una bella storia!» Così mi sono annotato alcune delle sensazioni provate, sensazioni che avrebbero rappresentato l'idea di base della storia. In realtà passò una decina d'anni prima che io scrivessi quel racconto ma è così che ebbi l'ispirazione. Se non sbaglio una volta ho incontrato Spielberg nel corso delle riprese. In particolare nel corso delle riprese della scena del bar. Era tutto talmente realistico che ero convinto che quel bar fosse davvero aperto! Non mi accorsi neppure che le persone che stavano al bar erano degli attori! Spielberg fece un ottimo lavoro e quel film lo lanciò alla grande. Pare abbia dichiarato che prima di fare un film si va sempre a vedere Duel. Per esempio, realizzò Lo Squalo come se fosse un 'duello' con lo squalo, appunto. E di Poltergeist, invece, che opinione ha? Mandai alla produzione una cassetta di una puntata di Ai confini della realtà intitolata Little Girl Lost (La ragazzina scomparsa, N.d.T.), ispirata al mio racconto Dai canali e quando uscì Poltergeist qualcuno mi disse che dalla mia storia era stata realizzata una pellicola. Non sono certo una persona aggressiva e dunque ho fatto finta di niente. Comunque credo di essere stato ripagato in molti altri modi. Anzitutto Spielberg, che di quel film era il produttore, e Tobe Hooper che lo girò hanno sempre dichiarato

di essersi ispirati al mio racconto e inoltre in seguito fecero di tutto per farmi attribuire la consulenza creativa dell'ultima serie di Amazing Stories e per farmi scrivere la sceneggiatura per il film Twilight Zone. Secondo lei i classici della narrativa horror, mi riferisco per esempio a Lovecraft, possono godere ancora oggi di grande successo? Credo che siano un po' datati. Infatti l'ambiente che descrivono è terribilmente antiquato mentre l'ambiente di cui, per esempio, io oppure Stephen King parliamo, appartiene alla contemporaneità ed è popolato da personaggi realistici. Lovecraft è stato un ottimo scrittore ma a me non è mai piaciuto particolarmente. Una sua caratteristica costante è la scelta di parlare per un'ottantina di pagine di un evento talmente orribile da non riuscire a descriverlo, per poi descriverlo dettagliatamente all'ottantunesima pagina! Sono racconti che non mi hanno mai particolarmente appassionato, ecco tutto. Dunque non sono la persona più adatta a giudicare Lovecraft. Se Robert Bloch fosse ancora in vita, sarebbe più indicato. Era un grande ammiratore di Lovecraft, per un certo periodo ebbero la possibilità di intessere una ricca corrispondenza reciproca. Bloch era un ottimo scrittore, davvero, e un amico, oltre che un uomo estremamente affascinante. Può dirci qualcosa del suo West? Cos'è per lei la Frontiera? In realtà sono molti anni che non scrivo storie western. Da ragazzino adoravo i film western. Durante la seconda guerra mondiale, mentre ero ricoverato in ospedale in Inghilterra, per qualche mese passai il tempo leggendo un paio di romanzi western al giorno. Oggi non mi ricordo nemmeno i nomi degli autori né i titoli ma è come se avessi fatto un corso accelerato di western. Come ho già detto, negli anni '60 e '70 pubblicai diversi racconti soprattutto sulle cosiddette riviste 'pulp' e dopo aver scritto il titolo del quinto racconto, almeno penso fosse il quinto, decisi che ne avevo avuto abbastanza. Al pari di molti altri scrittori di western, anch'io raccontavo gli aspetti minimalisti di pistoleri e sceriffi, e mi resi conto che si trattava di una presentazione incompleta del vecchio West, mentre avrei preferito scrivere racconti che avessero per protagonisti personaggi comuni del West: mogli e madri che desideravano avere una scuola e una chiesa e che aspiravano a sistemarsi. Insomma quel modo convenzionale di rappresentare il West non mi interessava abbastanza e così smisi di scrivere racconti di quel tipo.

Mi pare di capire che lo stile di Louis Lamour non le sia mai particolarmente piaciuto... No, non l'ho mai letto. Qualcuno mi ha parlato di un altro autore di cui in questo momento mi sfugge il nome. A quanto pare una grossa casa editrice lo contattò e gli propose di scrivere dei western per loro conto, promettendogli di fare di lui un autore di grande successo e di fare del suo nome il sinonimo di romanzo western, ma lui non accettò. Dopodiché fecero la stessa proposta a Louis Lamour e come ben sapete Lamour divenne un gigante della letteratura western. Poco fa ci ha detto di aver trascorso un certo periodo in un ospedale militare in Inghilterra. Dove aveva combattuto e che tipo di ferita aveva subito? Ero di stanza in Germania. La ferita che ho riportato non era di arma da fuoco né una lacerazione dovuta a una scheggia di granata bensì una cosa molto più banale: la nostra divisa da combattimento prevedeva delle calosce molto pesanti da posizionare sugli anfibi impermeabili. Non so a tutt'oggi come mai ce le fecero togliere, costringendoci ad attraversare dei corsi d'acqua. Pioveva spesso. Sembrava che quando ci trovavamo a combattere non facesse altro che piovere. Probabilmente i colpi d'artiglieria in qualche misura contribuivano a innescare le nuvole. Continuavano a bombardarci, così dovemmo scavare delle buche e restarvi rintanati per giorni e giorni, mentre la pioggia ci perseguitava. I miei piedi ebbero la peggio. Con un termine molto romantico dissero che i miei piedi erano 'congelati' ma noi li chiamavamo 'piedi da trincea', il che significa che praticamente non ero più in grado di camminare e dovetti andare al pronto soccorso. Quando mi tolsi gli anfibi scoprii che avevo i piedi massacrati: erano una infiorescenza di carne putrefatta e vi garantisco che non era una bella scena da vedere. Scoprii inoltre che le condizioni dei miei piedi non si erano ancora aggravate al punto da richiedere un'amputazione, come purtroppo succedeva a molti soldati. Così venni ricoverato in un ospedale tedesco, dopodiché a Parigi e poi per parecchio tempo in Inghilterra. Per finire, venni rispedito a un centro di riabilitazione nel North Carolina. Sta lavorando a qualche progetto in questo momento? Niente di particolare, se si fa eccezione per questo spettacolo teatrale che ho scritto e che si intitola Now You See It. Si tratta di una commedia noir che ha per protagonista un illusionista di professione. Ho già un produtto-

re, un regista, il miglior tecnico luci di New York, il miglior consulente di magia che si possa trovare negli Usa (che lavora, tra gli altri, per David Copperfield). Siamo quasi pronti ma ci manca ancora l'attore principale. Abbiamo degli ottimi contatti a Londra e pare che alcuni teatri siano interessati a ospitare lo spettacolo. Disponiamo già del budget di produzione. Insomma, ci manca solo l'attore protagonista. Se troviamo quello giusto, lo spettacolo potrebbe prendere il via all'inizio del nuovo anno. Signor Matheson è stato un piacere averla con noi questa sera a Tutti i colori del giallo. E cosa significa? Significa qualcosa come tutte le sfumature del thriller... Potete mandarmi una copia della cassetta del programma? Certamente. Se mi lascia il suo indirizzo di posta... Certo. Ovviamente ci terrei che il mio indirizzo restasse segreto, insomma che voi non lo diffondiate in giro. Non si preoccupi, non lo pubblicheremo su una rivista né lo daremo a chicchessia! (risatina) Okay! Arrivederci! Arrivederci! (applausi in studio) Chi è che ha sparato? Nessuno. Sono solo i tecnici in studio che hanno applaudito. Be', mi tranquillizza sapere che non volevate... spararmi! FINE