Il secolo corto [PDF]

Tutta la storia politica del primo decennio del dopoguerra, nel corso del quale gli Stati Uniti detennero il monopolio d

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Italian Pages 499 Year 1994

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Table of contents :
Prefazione dell’autore alla prima edizione 5
Introduzione 10
1. Il bombardamento come filosofia 24
2. Il piano “Totality” 34
3. Il messaggio di Hiroshima 40
4. U n ’idea che veniva da lontano 47
5. Mister Baruch e il buon uso dell’ONU 55
6. Quando piacerà al presidente 62
7. Relatività dell’arma assoluta 68
8. Riportateci a casa: la rivolta delle truppe USA 77
9. Venti caldi in arrivo dal sud del mondo 90
10. In attesa della terza invasione 101
11. Il boomerang rosso 107
12. Una Gestapo americana 119
13. L’avanguardia balcanica 133
14. Evoluzione del concetto di “minaccia” 151
15. Italia terra di conquista 161
16. Il precursore 175
17. Una eredità inconfessabile 254
18. Dal progetto Rosenberg al piano Bushwacker 272
19. La sfida 286
20. Una griglia per arrostire 305
21. Stupefacenti notizie dall’acqua piovana 317
22. Apocalisse nel 1954 325
23. Imprevisti della storia 330
24. La disinformazione strategica 338
25. In guerra a tutti gli effetti 353
26. L’uomo della provvidenza atomica 369
27. Atroci dubbi e tragiche certezze 380
28. Il potere imperiale 396
Note 418
Indice dei nomi 443
Indice analitico
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IL i SECOLO CORTO LA FILOSOFIA DEL BOMBARDAMENTO. LA STORIA DA RISCRIVERE

FILIPPO GAJA Maquis E d it o r e ^ Q f S É f lf if l

Tutta la storia politica del primo decennio del dopoguerra, nel corso del quale gli Stati Uniti detennero il monopolio dell’arma nucleare e godette­ ro dell’invulnerabilità, fu condizionata da un atroce segreto che era a conoscenza soltanto del presidente americano in carica e di poche decine di ministri, ammiragli e generali: i piani per la distruzione atomica dell’Unione Sovietica. In una sequenza allucinante ne furono elaborati, con aggiornamenti e varianti, diciotto. Non si è trattato di esercitazioni teoriche astratte, ma di piani operativi che sarebbero stati messi in atto se soltanto si fossero realizzate le condizioni strategiche opportune. Se fosse stato possibile, il gruppo dirigente americano avrebbe senza esitazioni anticipato di quarant’anni la «distruzione del bolscevismo» con un colpo solo. Il primo piano, elaborato nel dicembre del 1945, cinque mesi dopo il primo bombardamento atomico della storia sulla città giapponese di Hiroshima, prevedeva lo sganciamento di trenta bombe nucleari del tipo Mark III usato su Nagasaki il 9 agosto 1945; gli ultimi piani della serie, nella prima metà degli anni ’50, giungevano a ipotizzare il bombardamentcrdi 300 località grandi e piccole dell’URSS con 450 atomiche. Ma il bombardamento nucleare dell’URSS avrebbe effettivamente incenerito il “ comuniSmo” com’era nei voti degli strate­ ghi americani? Che cosa avrebbe fatto l’Armata Rossa sovietica stan­ ziata nei paesi satelliti dell’Est europeo, fuori portata dal fuoco atomico? Avrebbe invaso l’Europa occidentale in una ultima, disperata offensiva terrestre? Il ministro della Difesa americano James Forrestal, preso nella spirale ossessiva del dilemma se scatenare o no la guerra totale fini per perdere la ragione: internato in un ospedale psichiatrico militare, si gettò dalla finestra e si uccise. La conoscenza di questi piani segreti, resi pubblici dai fisici americani Daniel Axelrod e Mikió Kaku, induce ora a una radicale rilettura della storia europea e italiana degli ultimi quaran­ totto anni. Tutto assume un significato diverso da quello che storici e commentatori politici ci hanno imposto finora. Molti assiomi vengono rovesciati. L’evoluzione degli avvenimenti, la funzione degli uomini e il ruolo delle forze possono ora essere spiegati con piena razionalità. In Italia, territorio di frontiera di importanza strategica chiave neN’immane scontro, ogni fenomeno, più o meno misterioso, dal radicamento della mafia italoamericana in Sicilia, alle elezioni politiche del ’48 alle egemo­ nie politiche, alle stragi, ai poteri occulti, a “ Gladio” , alla P2 e alle loro ramificazioni, e alla corruzione della classe politica, rientra in un quadro perfettamente logico, con riflessi che giungono fino ai giorni nostri e di cui la situazione presente è una diretta conseguenza. «Il secolo corto» costituisce un primo tentativo di rilettura della nostra storia. In ventuno capitoli offre una risposta alle molte angosciose domande che la tardiva conoscenza dei piani segreti del Pentagono solleva. Prima fra tutte la questione chiave: perchè l’attacco nucleare sull’URSS non c’è stato?

Maquis Editore, Milano L. 30.000

A Giordano Cavestro, fulgido eroe, dolce amico, fratello mio. Ti hanno fucilato a diciott’anni perchè volevi un mondo migliore. Non sei morto senza ragione. Eri nel giusto.

Filippo Gaja

Nato a Parma il 4 agosto 1926, aveva appena compiuto i 17 anni nel momento deH’armistizio, F8 settembre 1943. Nel novembre, passa av­ venturosamente le linee e raggiunge il meridione dove si arruola nel Corpo Italiano di Liberazione e partecipa alla guerra antitedesca nelle file del reggimento paracadutisti Nembo del Gruppo di Combattimento Folgore. Già divenuto fin dal 1944 militante attivo della sinistra sociali­ sta, alla fine della guerra inizia la carriera giornalistica, dapprima come redattore del quotidiano del Fronte Popolare la Gazzetta di Milano, e quindi delV Avanti! edito nella capitale lombarda. Dal 1953 lavora come inviato speciale di rotocalchi italiani, Tempo, Settimo Giorno, L ’Espres­ so, Posta, Le Ore. Nel 1960 si integra nella lotta contro la dittatura fascista del generale Franco in Spagna, al fianco di Julio Alvarez del Vayo, principale esponente della sinistra socialista spagnola, che era stato ministro degli Esteri e Commissario Generale per l’Esercito duran­ te la guerra civile 1936-1939. Nell’ambito della strejtta collaborazione con Alvarez del Vayo, assume incarichi di consigliere politico per vari gover­ ni di paesi emergenti d’Asia, Africa e America Latina. In questa veste è presente a molti episodi del processo di decolonizzazione, osservatore critico di guerre e rivoluzioni. Realizza, nello stesso periodo, anche numerosi reportages drammatici. Negli intervalli di tale attività continua a pubblicare libri e inchieste e a dirigere giornali. Negli anni ’60 dirige A vance, organo della Unión Socialista Española in esilio. Nel 1967 fonda, con Alvarez del Vayo, la rivista di informazione politica e interna­ zionale Maquis e la casa editrice omonima, che tuttora dirige. Ha pubblicato: L ’invasione di Cuba, 1961 L ’esercito della lupara, 1962 (prima edizione, seconda edizione 1990) La vita di Che Guevara, 1967 Italia, la crisi più lunga, 1978 La crisi globale, 1980 Le facce nascoste della “nuova” recessione internazionale, 1988 La Rivoluzione in diretta dai muri di Francia, 1989 Le frontiere maledette del Medio Oriente, 1991 D i prossima pubblicazione: La questione serba

Filippo Gaja

IL SECOLO CORTO La filosofia del bombardamento La storia da riscrivere

Maquis Editore

IL SECOLO CORTO In redazione: Licia M azzola Servizi redazionali: D aniele Bastianello T u tti i d iritti di trad u zio n e, di riproduzione e di adattam ento sono riservati p e r tu tti i paesi, com presi i paesi dell’est europeo e la Russia. © A prile 1994, M aquis E ditore M aquis E ditore C asella Postale 16177 - M ilano 20160 Tel: 02-6470659/33603593 (anche fax)

* * *

Nell'im m agine di copertina: un test afoni ico nel \e v a d a

PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE

“Il secolo corto” si presenta come un libro di storia. Suggerisco invece di leggerlo come un libro di attualità. È dopo l’estate del 1993 che ho iniziato a riunire i vecchi appunti via via accumulati nel tempo che prendono qui forma di volume. Chiunque abbia vissuto gli anni della seconda guerra mondiale 1936-1945, della Resistenza e della guerra fredda fino al crollo dei regimi socialisti nell’est europeo, ha ricevuto nel 1993 l’impulso a tirare le somme. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, avevo dieci anni quando è scoppiata la guerra civile in Spagna nel 1936, e ne ho compiuti sessantasette nel momento in cui Eltsin ha massacrato a cannonate i deputati nel Parlamento di Mosca. Chi ha la mia età può dire, in fondo, di essere stato testimone di un’epoca straordi­ naria: in poco più di mezzo secolo è stato coinvolto nella più grande guerra che la storia umana ricordi, ha visto nascere l’era atomica, ha vissuto il più universale degli scontri ideologici, fra socialismo e liberali­ smo, e ha assistito al processo di decolonizzazione che, fra un centinaio di guerre locali e rivoluzioni, ha trasformato dopo cinquecento anni la faccia politica della Terra. Ce n’è abbastanza per riempire densamente una vita. In questo periodo drammatico e tumultuoso l’agnosticismo è stato impossibile. Gli ingranaggi della storia ci hanno travolto tutti. V olenti o nolenti, tutti ci siamo trovati da una parte o dall’altra della barricata. Si arriva alla vecchiaia con un dannato dubbio in testa: da che parte è la ragione? Ho sempre avuto ragione oppure ho sempre avuto torto? Il principale stimolo a lavorare intorno a “Il secolo corto” mi è venuto da un bisogno di certezza. Per questo ho raccolto la riflessione di Ramsey Clark, contenuta nella prefazione allo studio di Michio Kaku e Daniel Axelrod sui piani segreti del Pentagono, a «ripensare e riscrivere la storia» sulla base di una documentazione prima sconosciuta. È un lavoro che ho fatto, lo ripeto, prima di tutto per me stesso. Gli anni su cui ho concentrato la mia attenzione sono quelli fra il 1945 e il 1957: gli anni, per usare un termine oggi corrente, della “svolta” che ha sconvolto il futuro per molti decenni a venire. A mano a mano che l’analisi è la riflessione mi hanno portato a penetrare i risvolti oscuri della politica del dopoguerra, altre considera­ zioni si sono sovrapposte al primo stimolo. Più si scava nel passato, più si 5

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ricade nel presente. Ho finito per dare al mio lavoro ánche un secondo scopo: quello di fornire ai giovani, vittime di una fase demenziale dell’in­ voluzione culturale, che senza loro colpa mancano di una reale memoria storica, la dimostrazione della rigorosa consequenzialità che esiste fra passato e presente, e una traccia per ricostruirla. La manipolazione dell’informazione, associata ai vuoti della formazio­ ne, costituisce un abisso in cui oggi si può precipitare senza averne neppure la percezione. Basta abbandonarsi senza resistenze davanti al video per cadere nel torpore dell’ebetudine politica. Quando, di tempo in tempo, uno squarcio di verità che per qualche motivo casuale si apre sul passato illumina il presente, la sensazione di avere vissuto e di vivere in balia di forze oscure e maligne riceve una conferma brutale. Il passivo consumatore dei mezzi di comunicazione è fatalmente preso fra il sospet­ to di non sapere tutto e il dubbio di non sapere niente di niente. Molti fatti che l’attualità porta oggi prepotentemente alla nostra atten­ zione come fenomeni inusitati la cui ragion d’essere si presenta a prima vista come indecifrabile, hanno le loro radici nei decenni trascorsi e non possono in alcun modo essere spiegati se non cercandone in quelli la genesi. Voglio fare pochi esempi. Come si può spiegare ciò che risulta dall’im­ provviso ciclone giudiziario detto “Mani Pulite” che si è abbattuto sulle classi politica e imprenditoriale italiane dopo la fine della guerra fredda? C ’è un nesso, neppur tanto sottile, che lega evidentemente fra loro i due fenomeni. Non a caso quel famoso ministro socialista, sorpreso dalle iniziative spregiudicate della magistratura si è scoperto sbottando: «Ma come? Non possiamo essere processati come a Norimberga. In fondo siamo noi che abbiamo vinto», riferendosi alla vittoria dell’Ovest sul­ l’Est, della quale è stato implacabile paladino. Si direbbe che la fedeltà atlantica sia stata interpretata come licenza di saccheggio. Non si può comprendere nulla di “Mani Pulite” se non scavando, al di fuori dei miti e dei luoghi comuni, nella storia segreta della guerra fredda. Come, ugualmente, spiegare il declino subito dalla potenza americana proprio nel momento in cui, crollata l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti si presentano sulla scena mondiale, secondo gli esperti, come “l’unica superpotenza ? Non è problema di poco conto in un paese come il nostro praticamente incatenato agli USA. Il declino americano è cominciato in realta trentasette anni fa, con la perdita del monopolio atomico. Occorre non solo tornare indietro nel tempo, ma analizzare e meditare verità rimaste nascoste per scoprirne le ragioni profonde. Aprendo i giornali veniamo investiti dalla scandalo esploso per gli esperimenti atomici su cavie umane compiuti dall’esercito americano negli anni ’50 al fine di studiare la residua combattività di truppe costrette 6

ad attraversare una nube atomica e dopo averne subito le radiazioni. È uno degli interrogativi che trovano spiegazione unicamente nella storia vera di quegli anni, finalmente rivelata dai documenti venuti alla luce. C’è un’altra domanda senza risposta che rimbalza quotidianamente dai teleschermi e dalle prime pagine. Riflette un fenomeno angoscioso cui però l’opinione pubblica finisce passivamente per accostumarsi: è il continuo ricorso alla minaccia di bombardamento. Dopo la guerra del G olfo, nel 1991, in cui tale minaccia fu messa concretamente in atto sull’Irak, con il tragico bilancio finale di decine di migliaia di morti, l’idea del bombardamento come arma di coercizione della volontà dei popoli si è insediata stabilmente nella logica delle relazioni intemazionali. Oggi sono minacciati i Serbi, i Libici, gli Iraniani e i Nordcoreani. Ebbene, l’idea del bombardamento “educativo” o “correttivo” dei paesi ribelli, non è una semplice idea, è una filosofia codificata che ha ben cinquantatré anni di maturazione. Anche in questo caso chi vuole capire deve rivangare nel passato. Vi è ancora un ultimo interrogativo su cui vorrei soffermarmi. Nasce da una strabiliante notizia comparsa nel novembre del 1993, alla quale sia la televisione che la stampa hanno dedicato un rilievo marginale, mentre si tratta di una di quelle novità che possono cambiare il corso della storia. È l’annuncio dato dai militari russi di aver adottato una dottrina nucleare “di primo colpo” . Rovesciando quella che per oltre quarant’anni era stata la strategia difensiva sovietica, la nuova strategia militare russa prevede ora l’attacco nucleare preventivo come forma “attiva” di difesa. D a sola questa notizia ha causato una crisi nel governo americano che si è affrettato a cambiare il ministro della Difesa. In fondo i generali russi dell’armata “bianca” di oggi sono gli stessi dell’Armata Rossa di ieri. Che cosa può averli indotti a un rovesciamento cosi radicale di posizioni? Ancora una volta c’è un solo modo per sciogliere questo nodo: riper­ correre la logica delle opposte strategie, americana e sovietica, dal primo esperimento nucleare di Los Alamos nel luglio del 1945 in poi. Nel succedersi degli avvenimenti che si inseguono con implacabile conse­ guenza logica, di piani e di interventi, dello sviluppo di mezzi e di tecnologie, di mosse strategiche e di contromosse, si giunge a cogliere il vero perché del rovesciamento finale di dottrina. Anche questo non è affare di poco conto, giacché mette in forse tutta l’euforia determinata dalla “vittoria dell’Occidente sull’Oriente”. Questo libro non ha ambizioni di stile. Ha come unica ambizione quella di riunire e presentare ai lettori, nella forma più semplice, i fatti; solo fatti documentati che nessuno potrebbe smentire. Le verità politi­ che sono di solito intuizioni che i documenti giungono a confermare talvolta con secoli di ritardo. Con questo modesto lavoro ho voluto 7

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cogliere l’occasione che permette di dare a una verità politica, già intuita a suo tempo da milioni di persone, il supporto di incontrovertibili docu­ menti che vengono alla luce, in questo caso, con soltanto qualche decen­ nio di ritardo. Ciò che stupisce è la quantità di elementi di giudizio inediti o dimenti­ cati che vengono fuori scavando con rigore nei documenti sepolti nell’o­ blio o chiusi nelle casseforti, e l’enormità della parte di storia che ci è stata sottratta. Siamo ancora cosi poco certi dell’avvenire che il fatto di avere una visione lucida del passato non può che esserci di aiuto nella scelta delle strade da percorrere in futuro, tenendo conto che viviamo nell’epoca in cui la storia presenta ai popoli il conto finale. La partita è ancora aperta, tutto è ancora possibile. Fra quanti leggeranno questo libro vi sarà certamente chi ha militato con convinzione nel mio stesso campo, e altri invece che hanno militato nel campo opposto. L’emozione sarà ugualmente forte per gli uni e per gli altri. Ciascuno trarrà le conseguenze che meglio crede. Ci sono però almeno due considerazioni finali che sono in obbligo di fare. La prima è che la conoscenza dei fatti stravolge tutte le interpreta­ zioni che via via ci sono state date ufficialmente o ufficiosamente dagli intellettuali addetti alla triste bisogna di servire il potere. La storia va interamente rivista alla luce di questi documenti. Non è improbabile che il futuro rovesci giudizi oggi conclamati: che i dèmoni divengano santi, e i santi dèmoni. Tale revisione sarà compito di una nuova generazione di storici. Personalmente, mi assegno un compito più limitato, quello di estrarre alcuni elementi utili per una riflessione politica immediata. La seconda è l’allucinante scoperta di quale immenso potere di vita e di morte può essere delegato, nell’epoca presente, a un piccolo gruppo di uomini, che possono talvolta essere dominati da pregiudizi, da spirito di crociata, o da interessi particolari contrabbandati come interessi di classe o come interessi nazionali, o addirittura come interessi dell’umanità intera. Nulla ci garantisce che chi ha tale immensa responsabilità sia in possesso di un perfetto equilibrio. Facciamo ad esempio il caso di James Forrestal. Per quasi cinque anni le sorti del mondo sono virtualmente dipese dall’influenza che questo banchiere americano investito del ruolo di ministro della Difesa, messo alla testa della più grande forza offensiva esistente al mondo, poteva esercitare sul presidente degli Stati Uniti per scatenare o non scatenare l’attacco nucleare contro l’Unione Sovietica. È stato l’uomo sotto la cui guida sono stati elaborati, uno dopo l’altro, a un ritmo incalzante, i piani segreti più sconvolgenti per la “distruzione del bolscevismo” mediante il fuoco atomico, nell’epoca in cui gli Stati Uniti erano invulnerabili e nella quale perciò l’uso dell’atomica era effettivamente possibile. Ciò che oggi 8

ci fa correre un brivido lungo la schiena non è tanto il racconto della sua vita, quanto quello della sua morte. Ministro della Marina sotto Roosevelt e poi ministro della Difesa sotto il presidente Truman, Forrestal lasciò l’incarico nel marzo 1949. Una settimana dopo aver abbandonato il suo ufficio manifestò delle turbe. Si racconta che nella tranquilla cittadina di Hobe Sound, in Florida, dove si era ritirato, una notte Forrestal, svegliato dal suono di una sirena, con la barba lunga e in pigiama si precipitò per la strada urlando: «Arrivano i Russi, arrivano i Russi!». Fu ricoverato all’ospedale della marina milita­ re di Bethesda. Qui tentò di impiccarsi a una finestra, scivolò, fece un volo di sedici piani, e mori. Nessuno ha mai saputo dirci da quanto tempo Forrestal soffrisse di instabilità mentale. Dalla riflessione che la conoscenza dei fatti ispira ho consolidato l’incrollabile convinzione che la capacità critica è la maggiore delle necessità umane. Sapere, conoscere, è il primo dei diritti e il primo dovere dell’essere umano, verso se stesso e verso gli altri. Vivere senza sapere è condannarsi a essere vittima, a vivere come una paglia al vento o a commettere atroci errori di giudizio. Dal sapere o non sapere dipende se la vita fa di noi un eroe, un criminale o una vittima. Occorre avere un atteggiamento intransigente rispetto all’informazio­ ne, alla profondità, alla imparzialità e alla certezza dell’informazione; un atteggiamento spietatamente critico verso le omissioni e le tendenziosità; una avversione astiosa contro i manipolatori e i diffusori di falsità, siano essi giornalisti, politici, scrittori, esperti o accademici. Occorre odiare il sistema dei segreti e dei poteri occulti. Una errata valutazione indotta da un dato di conoscenza falsato, può stravolgere una vita, mille vite, milioni di vite. La mia speranza è che questa lettura conduca qualcuno a iscriversi a una nuova setta, che mi auguro divenga la più numerosa della Terra, quella degli adoratori della verità. Sento il bisogno di rivolgere un ringraziamento particolare alla collega e amica Licia Mazzola, senza la cui appassionata partecipazione critica alla ricerca e alla redazione questo lavoro non sarebbe mai uscito. Ugualmente debbo ringraziare per il suo spirito di abnegazione Daniele Bastianello, che mi ha dato sua volta un aiuto inestimabile in molti aspetti della produzione del volume.

F.G.

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INTRODUZIONE

Negli ultimi anni sono stati resi di pubblico dominio numerosi docu­ menti segretissimi del Pentagono, diventati accessibili ai ricercatori sulla base della Legge per la Libertà d’informazione, Freedom of Information Act. Riguardano l’Esercito, l’Aeronautica Militare e la Marina Militare degli Stati Uniti, il Ministero della Difesa, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale e la Central Intelligence Agency (CIA). I documenti proven­ gono dalle fonti più diverse: dalla Sezione Militare Moderna degli Archi­ vi Nazionali a Washington, dagli Archivi dei Capi di Stato Maggiore Riuniti, dalla Biblioteca Dwight Eisenhower di Abilene, nel Kansas, dall’Istituto Storico Militare dell’Esercito degli Stati Uniti, dagli archivi personali di John Foster Dulles e di David Lilienthal, da quelli di James Forrestal presso l’Università di Princeton, e dalla Biblioteca del Con­ gresso degli Stati Uniti. Questi documenti sono stati analizzati, organiz­ zati e studiati da alcuni autori americani, i quali hanno completato la documentazione principale con altri rapporti che erano rimasti segreti e il cui contenuto è stato fatto trapelare ufficiosamente da ex funzionari delPamministrazione americana che in varie epoche hanno ricoperto ruoli chiave. Questa somma di dati ci offre un quadro sostanzialmente veridico e completo di ciò che è accaduto all’interno dei circoli dirigenti politici e militari degli Stati Uniti nei primi due decenni del dopoguerra. La parte di tutto questo materiale che è stata utilizzata come traccia del presente studio riguarda il periodo nel corso del quale gli Stati Uniti hanno avuto il monopolio nucleare, a partire dallo scoppio della prima bomba sperimentale nel deserto del Nuovo Messico, il 16 luglio 1945, e dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e 9 agosto 1945. E stata fatta questa scelta per una ragione precisa: perché gli anni del m onopolio nucleare americano sono stati quelli decisivi per la storia dell’umanità nel nostro secolo e con tutta probabilità per vari secoli a venire. In questi anni si è giocato il destino del mondo. In tale periodo gli Stati Uniti hanno perseguito con determinazione implacabile l’obiettivo di essere unici detentori del controllo dell’energia nucleare, disposti a qualsiasi estremo pur di conservarne il monopolio. Gli Stati Uniti, o per essere più precisi il capitale finanziario degli Stati Uniti, i banchieri, i finanzieri e gli industriali, il mondo di Wall Street e la destra politica americana, non avevano aspettato di avere l’arma atomica

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per perseguire il disegno di dominare il mondo. Henry Luce, in un editoriale del febbraio 1941 pubblicato dalla rivista Life, già evocava “thè american century”, il secolo americano, un’epoca dominata dalla poten­ za degli Stati Uniti. Non certo per caso, in quanto Life era un giornale finanziato da Averell Harriman, che all’epoca regnava come padrone assoluto nei trasporti ferroviari e marittimi e deteneva importanti parte­ cipazioni nella maggior parte delle grandi banche americane e che in seguito fu incaricato, fino al 1950, di ripartire gli “aiuti” del piano Marshall in Europa, per poi divenire consigliere prima di Truman e quindi di Johnson. Henry Luce era perciò solo il portavoce di una strategia ufficiale che era stata già stabilita nel luogo dove erano assunte le grandi decisioni: il Council on Foreign Relations, Consiglio per le Relazioni con l’Estero. Edwin Gay, uno dei redattori di Foreign Affairs, rivista ufficiale del Council on Foreign Relations, precisava inequivocabilmente gli obiettivi americani nella guerra: «Quando penso all’impero britannico come ad una eredità che ci appartiene, penso semplicemente al naturale diritto di successione. Quella successione finale è inevitabile» (*). L ’avvento dell’arma atomica nel 1945 ha fornito uno strumento nuovo alla volontà americana di assumere le prerogative sovrane dell’impero britannico: allo stesso modo in cui gli Inglesi avevano usato la cannoniera come estrema arma d’intervento, gli Stati Uniti si disposero a usare la bomba atomica. Secondo i gruppi di analisi del “Council”, la superiorità navale, che aveva consentito le conquiste inglesi, sarebbe stata sostituita dalla superiorità atomica. La Pax Britannica avrebbe lasciato il posto alla Pax Americana. In questo disegno, il mantenimento del monopolio era l’elemento vitale del successo. Questo è il grande obiettivo mancato dagli Stati Uniti. Il periodo di m onopolio atomico assoluto americano è durato formalmente solo 1.485 giorni, meno di cinque anni. Ma al momento dello scoppio della prima bomba atomica sovietica, nell’agosto del 1949, gli Stati Uniti possedeva­ no già un arsenale di 250 bombe del tipo Mark III al plutonio, come quella usata contro Nagasaki, mentre i Sovietici erano solo all’inizio della produzione. La forza nucleare sovietica è divenuta una minaccia reale per gli Stati Uniti solo nel 1957. Perciò si può dire che l’egemonia nucleare statunitense è durata effettivamente solo dodici anni. In questo periodo fra Stati Uniti e Unione Sovietica si è svolta una contesa di spasmodica intensità. Gli aspetti più plateali e apparentemen­ te più minacciosi della guerra fredda, le battaglie verbali, gli attacchi propagandistici e le reciproche intimidazioni, hanno coperto risvolti segreti che ci sono rimasti ignoti fino al momento in cui i piani sconosciuti

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del Pentagono sono venuti alla luce. Ciò che è accaduto all’ombra delle cancellerie e dei comandi militari è stato infinitamente più grave di quanto si è svolto sulla scena aperta. Credevamo di aver corso pericoli immensi, ma in realtà ne abbiamo corsi di ben più grandi e sconvolgenti di quanto allora immaginassimo. In qualsiasi momento lo scontro segreto avrebbe potuto sfociare in una tragedia le cui dimensioni superano la percezione di cui la nostra mente è capace. Sono stati anni tanto più angosciosi in quanto la contesa si è svolta nel campo del possibile. Più tardi, nell’epoca delle bombe all’idrogeno e dell’ipotesi di un conflitto termonucleare, cioè di una guerra ipotizzata com e scambio di colpi atomici di una potenza centinaia, o addirittura migliaia di volte più grande di quella della bomba di Nagasaki, portati a bersaglio da missili intercontinentali, il conflitto USA-URSS è entrato nel campo dell’iperbole. La “mutua distruzione assicurata” ha reso irreale il conflitto, in quanto da tale guerra non avrebbe potuto uscire un vero vincitore ed era perciò impossibile da combattere. Il pericolo reale di conflitto nucleare si verifica solo quando vi è un perdente sicuro, privo di possibilità di risposta, come è accaduto all’iner­ me Giappone del 1945. Come è affermato in modo esplicito dai docu­ menti, il progetto americano di dominio del mondo mediante il monopo­ lio atomico si basava sul principio che nessuno fosse in grado di risponde­ re alla minaccia atomica americana con armi uguali. N el corso degli anni in cui gli Stati Uniti hanno avuto prima il possesso esclusivo dell’arma atomica e poi il predominio in campo nucleare milita­ re, senza possibilità pratica di ritorsione da parte sovietica, la “distruzio­ ne del bolscevismo” mediante il fuoco atomico è stata una possibilità reale: un progetto accarezzato, elaborato, discusso, perfezionato nei minimi particolari dagli Stati Maggiori Riuniti americani, pianificato a livello operativo, messo in atto meticolosamente nella sua fase prepara­ toria, valutato del tutto realistico. Per lo meno da una parte dei vertici militari statunitensi, i piani di distruzione atomica dell’Unione Sovietica potevano e dovevano essere attuati concretamente senza remore quando si fossero presentate le condizioni favorevoli. Se l’attacco nucleare al bolscevismo non si è verificato, ciò è accaduto per una serie di circostan­ ze concomitanti che il presente libro analizza nelle pagine che seguono. La questione dell’uso del fuoco atomico sull’obiettivo ideologico ri­ chiede un approfondimento. La conoscenza dei piani segreti del Penta­ gono ci mostra senza ombra di dubbio che le bombe atomiche dovevano essere sganciate non su obiettivi militari selezionati nell’URSS, o non solo su obiettivi militari, ma soprattutto sulle città dell’Unione Sovietica. Nella parossistica scalata delle intenzioni si è giunti a ipotizzare, nel 1957, nell’ultimo piano del periodo che prendiamo in considerazione, l’attacco 12

contro 3.261 obiettivi sovietici con l’impiego di 5.450 atomiche. Ma il semplice annientamento della potenza militare ed economica sovietica non bastava per annullare un pericolo (“minaccia” nei termini militari statunitensi), la cui natura era molto più sottile delle strutture politico­ militari del regime sovietico. Più precisamente era la “distruzione del bolscevism o” l’obiettivo perseguito. Estirpare il bolscevismo non era solo questione di annientare l’apparato burocratico, l’organizzazione statale, e una parte dei quadri dirigenti dell’URSS. Occorreva raggiunge­ re l’idea bolscevica là dove si era radicata, nelle masse, e per questo si supponeva di dover colpire le città dove le masse che avevano accettato il bolscevismo erano concentrate. Era all’ideologia che si mirava. Nulla di nuovo in realtà, poiché fin dal primo momento, al suo affer­ marsi, le nazioni capitalistiche occidentali avevano identificato nella “perversa razionalità” dell’ideologia bolscevica, capace di sfruttare ogni più piccola debolezza e contraddizione del capitalismo per portarlo alla rovina, il vero nemico. Le idee elaborate da Lenin, e più o meno esattamente messe in pratica dai suoi successori, erano apparse fin dal primo momento ai teorici del capitalismo un sistema logico perfetto, una dottrina di comportamento delle masse sublimatrice di tutte le loro potenzialità nella lotta per rovesciare il potere della proprietà privata. Questa potenza razionale della dottrina rivoluzionaria bolscevica è sem­ pre stata considerata diabolica a Londra e a Washington e più decisiva della stessa potenza militare dei comunisti, in quanto suscettibile di contagiare il mondo. Questo aspetto della questione, cioè l’origine dell’odio feroce che il capitalismo ha nutrito nei confronti del bolscevismo fin dal 1917, è praticamente scomparso dal dibattito culturale dei nostri giorni. Com­ prendere invece perché le democrazie industriali occidentali abbiano individuato nel bolscevismo il grande, o per meglio dire l’unico, vero pericolo, la sola forza capace di distruggere il capitalismo, è decisivo per interpretare la storia. La guerra fredda non è stata in fondo che la continuazione dell’invasio­ ne capitalista della Russia dei Soviet del 1918-1919. La filosofia dello Stato bolscevico creato in Russia da Lenin rimetteva in causa i fonda­ menti del sistema sociale dominante nel mondo, quello del predominio della proprietà e della borghesia. L’insieme del mondo capitalista prese fulmineamente coscienza della minaccia, e, mettendo da parte ogni motivo di discordia, tutti gli Stati capitalisti del mondo si associarono per schiacciare lo Stato bolscevico. Ventuno eserciti di 17 nazioni invasero la Russia bolscevica da oriente, da occidente, da nord e da sud, con lo scopo dichiarato di riportare al potere le classi proprietarie espropriate dalla Repubblica dei Soviet: parteciparono all’intervento 140.000 Francesi, 13

190.000 Rumeni, 140.000 Inglesi, 140.000 Serbi, 200.000 Greci, 40.000 Italiani, oltre a Tedeschi, Polacchi, Giapponesi e Americani. Ben oltre un milione di uomini. Questa fu la prima invasione subita dal regime dei Soviet. Fin dal primo istante fu una lotta spietata, una sanguinosa pre­ messa ai propositi di stragi apocalittiche che incontreremo nell’epoca nucleare. La classe operaia russa, intendendo specificamente gli operai di fabbrica che costituirono il nerbo della resistenza contro l’intervento occidentale, subì una decimazione spaventosa. Nel 1921, al termine della guerra civile, il proletariato industriale in Russia si era ridotto a 1.243.000 unità, cioè aveva perduto sul campo di battaglia oltre la metà dei suoi membri. Si trattava dei migliori quadri rivoluzionari, il che spiega l’indebolimento relativo del primo bolscevismo. Lo spirito con cui l’Occidente affrontò la lotta al bolscevismo è reso insuperabilmente dal Segretario di Stato americano dell’epoca, Robert Lansing. (A titolo di curiosità si può segnalare che Lansing era lo zio di John Foster Dulles e Alien Welsh Dulles). Questi temeva che, se il morbo del bolscevismo si fosse diffuso, avrebbe fatto si che «la massa incapace e ignorante dell’umanità dominasse la Terra». I bolscevichi — continuava Lansing — facevano appello «al proletariato di tutti i paesi, agli ignoranti e ai mentalmente deficienti, che sono incitati a farsi padro­ ni sfruttando la forza della loro preponderanza numerica, (...) un perico­ lo assolutamente reale considerando il processo di agitazione sociale nel mondo intero» (2). Noam Chomsky in Deterrìng Democracy (3), è forse l’unico intellet­ tuale occidentale che abbia affrontato recentemente il tema della identi­ ficazione capitalista del bolscevismo come “minaccia assoluta”. Chom­ sky cita lo storico liberale John Lewis Gaddis, studioso della guerra fredda, il quale spiega nella sua opera The Long Peace che l’aggressione congiunta che segui immediatamente la Rivoluzione Bolscevica fu vista dal consorzio dei paesi capitalisti come una misura “difensiva”, malgra­ do mirasse a installare in Russia, per mezzo della forza, dei governanti graditi a Washington, Londra e Parigi. L’invasione fu proclamata “di­ fensiva” in quanto avveniva «in risposta ad un intervento profondo e potenzialmente suscettibile di gravi conseguenze da parte del nuovo governo Sovietico negli affari interni, non solo dell’Occidente, ma in pratica di ogni paese del mondo», in risposta, cioè, «alla sfida della Rivoluzione alla sopravvivenza stessa dell’ordine capitalista». Gaddis conclude che «la sicurezza degli Stati Uniti era “in pericolo” già nel 1917, e non solo nel 1950, e l’intervento era perciò completamente giustificato come difesa contro il cambiamento dell’ordine sociale in Russia e l’annunziarsi di intenzioni rivoluzionarie» (4). Chomsky commenta: «La valutazione che Gaddis compie ai giorni 14

nostri, riassume la reazione immediata dell’Occidente di fronte alla Rivoluzione Bolscevica. Questa reazione fu espressa da De Witt C. Poole, consigliere americano presso l’ambasciata in Russia, in un memo­ randum per il Segretario di Stato Lansing intitolato “Sugli obiettivi dei Bolscevichi: con particolare riferimento a una rivoluzione mondiale”». Le sfere dirigenti del grande capitale comprendevano che l’universali­ smo bolscevico poteva produrre una forza più grande di quella che il capitalismo avrebbe mai potuto contenere. Il bolscevismo rappresentava perciò il nemico supremo poiché è nell’essenza del movimento bolscevi­ co il fatto di avere «carattere internazionale e non nazionale», volto, afferma Poole, «direttamente alla sovversione di tutti i governi» (5). Chomsky cita ancora lo storico Norman Stone il quale esprime il parere secondo cui un dibattito sulle origine della guerra fredda è sostan­ zialmente inutile poiché fu lo stesso carattere dello Stato sovietico, proiezione storica del bolscevismo, ad essere una delle maggiori cause in assoluto della guerra fredda negli anni ’40 (6). A questa concezione della guerra contro il bolscevismo per cui qualsia­ si iniziativa offensiva degli Stati Uniti e dell’Occidente per provocare il crollo dello Stato sovietico ha in ogni caso un carattere “difensivo”, corrisponde la logica degli aberranti piani di distruzione atomica dell’URSS elaborati a partire dall’estate del 1945. Già nell’invasione del 1918 ogni mezzo di distruzione di massa era stato giustificato. L’aviazio­ ne militare inglese lanciò i gas sui bolscevichi nel nord della Russia «con grande successo», a detta del comando britannico. Il giovane Churchill era ministro della Guerra e dell’Aviazione nel periodo della prima invasione dell’Unione Sovietica. Con l’andare del tem po, fu lui a prendere in mano in misura sempre maggiore la direzione dell’invasione. Sull’uso delle armi chimiche nutriva le idee che possono dedursi dalla sua frase seguente: «Non capisco tutti questi scrupoli riguardo all’uso dei gas (...) Sono decisamente favorevole all’uso dei gas venefici contro tribù incivili (...) Non è necessario usare soltanto i gas più micidiali; possono essere usati gas che provocano gravi disturbi e capaci di spargere un vivo terrore ma che comunque non lascino effetti perma­ nenti gravi sulla maggior parte di coloro che ne sono colpiti (...) Non possiamo in nessuna circostanza accettare l’idea di rinunciare all’uso di qualunque arma disponibile per mettere rapidamente fine al disordine che regna alle nostre frontiere». Per Churchill le armi chimiche costitui­ vano semplicemente «l’applicazione della scienza occidentale alla guerra moderna» (7). Alcuni anni più tardi, nella veste di storico, lo stesso Churchill esplicito sarcasticamente l’ipocrisia della tesi “difensiva” dell’invasione occiden­ tale della Russia bolscevica. A pagina 235 del suo saggio The World 15

Crisis: The Aftermath uscito nel 1929, scriveva: «Forse gli Alleati erano in guerra con la Russia sovietica? Certamente no, ma sparavano a vista contro i Russi sovietici, si trovavano come invasori sul suolo russo, armavano i nemici del governo sovietico, sottoponevano a blocco i suoi porti, e affondavano le sue navi, desideravano ardentemente e organiz­ zavano la sua caduta. Ma non era guerra. Sarebbe stata una interferenza: vergogna! Per loro, ripetevano gli Alleati, era indifferente il modo in cui i Russi risolvevano i loro affari interni. Erano imparziali — Bang!». La destra ultra-liberale e il democraticismo di ispirazione liberale si sono ritrovati solidali sulle tesi secondo cui la distruzione del bolscevismo era un dovere “difensivo” dell’Occidente. Chomsky cita un intervento di Hendrik Hertzberg apparso sulla rivista vessillifera del demoliberalismo N ew Republic che, giustificando l’adesione dei liberaldemocratici alla lotta senza quartiere contro il bolscevismo, affermava: «La manifestazio­ ne esterna [del potere sovietico] consisteva nella convinzione che ogni altro sistema politico o sociale, giudicato secondo gli standard della inevitabilità storica, fosse inferiore e destinato a perire». La causa fondamentale della guerra fredda era perciò nella natura stessa del sistema sovietico e nella sua fede nel suo successo finale a livello storico, una sfida ideologica che non poteva essere tollerata dall’ordine capitalista (8). L ’opinione finale di Chomsky è che «l’assunto su cui si basa questa visione delle cose è che il sistema di organizzazione sociale e di potere statunitense, e l’ideologia che lo accompagna, deve essere universale. Qualsiasi cosa diversa da questa è inaccettabile. Nessuna sfida può essere accettata, nemmeno la fede nella inevitabilità storica di qualcosa di diverso. Stando cosi le cose, ogni azione intrapresa dagli Stati Uniti per estendere il loro sistema e la loro ideologia, è difensiva» (9). L ’effetto collaterale indesiderato e inaspettato dell’intervento dei pae­ si capitalisti in Russia, fu la nascita deH’Armata Rossa sovietica che nel corso della resistenza all’invasione si affermò come una potente forza militare. Un fatto che condizionerà gli 83 anni di storia successivi. La coalizione borghese fu battuta dall’esercito degli operai e dei contadini sovietici con l’aiuto di ben 79.000 ex ufficiali e sottufficiali dell’esercito nazionale russo zarista. Un fenomeno che dimostrava la possibilità di trasformazione dialettica dei corpi militari in senso classista; altro fatto capace di spaventare a morte le democrazie industriali. N el 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, all’URSS sarebbe potuto bastare di assistere allo sgretolamento naturale del sistema capita­ listico. D opo ventotto anni di potere l’idea bolscevica era saldamente insediata nella psicologia delle masse sovietiche e stava naturalmente estendendosi nel mondo sull’onda della vittoria dell’URSS. Era un pro­ cesso naturale slegato dal dinamismo del Comintern, l’organizzazione 16

bolscevica internazionale. La guerra patriottica antitedesca aveva inoltre cementato l’unità dei popoli sovietici, e per eliminare il bolscevismo non sarebbe stato sufficiente uccidere i capi e polverizzare le strutture milita­ ri. Questo concetto trapela sistematicamente fra le righe dei piani segreti del Pentagono per la distruzione atomica del bolscevismo. Americani ed Inglesi avevano d’altronde perfetta coscienza che il conflitto mondiale avrebbe potuto, al suo termine, trasformarsi in una rivoluzione mondiale. Questo tema era stato affrontato da Franklin D elano Roosevelt e da Winston Churchill già il 12 agosto 1941 nell’incon­ tro di Terranova. La “Carta Atlantica” in otto punti, sottoscritta dai due statisti in questa occasione, ha costituito la prima formulazione dell’idea di un ordine giuridico internazionale capace di garantire le potenze occidentali contro la rivolta dei popoli ex coloniali. Tale rivolta era una evenienza sicura, prevista, indipendentemente dal fatto che la Russia sovietica ne avesse assunto la direzione o meno. Formalmente la “Carta” enunciava gli scopi della guerra condotta dalle democrazie anglosassoni e dalla coalizione occidentale contro Hi­ tler e Mussolini, ed era densa di promesse rivolte alle classi subalterne americana e inglese cui si chiedeva di riempire i ranghi degli eserciti da impiegare sui campi di battaglia. Ai popoli coloniali chiamati a loro volta a fornire lavoro, materie prime, e uomini per la guerra, la Carta Atlanti­ ca dischiudeva a parole un futuro radioso: enunciava i “diritti dei popo­ li” , il libero accesso di tutti gli Stati, grandi e piccoli, alle materie prime, il miglioramento delle condizioni sociali, la libertà dei mari, e infine la pace, la sicurezza e il disarmo (10). N ell’insistenza dedicata da Roosevelt e Churchill all’idea del disarmo risiede la chiave di interpretazione della Carta Atlantica. Non si pianifi­ cava soltanto il disarmo di Germania, Italia e Giappone, destinati a essere disarmati in quanto vinti, ma un disarmo più generale, un disarmo universale. La guerra avrebbe condotto inevitabilmente a un risveglio dei popoli coloniali. Ciascuno dei contendenti mirava ad attrarre sotto le proprie bandiere le popolazioni soggette con promesse di libertà. A guerra finita tali promesse avrebbero dovuto essere onorate in qualche maniera. I Francesi arruolavano e armavano Vietnamiti, Cambogiani, Marocchini, Algerini, Tunisini, Senegalesi, Malgasci, gli Olandesi armavano gli Indo­ nesiani, i Belgi armavano i Congolesi, gli Inglesi armavano Indiani, Birmani, Thailandesi, Sudanesi. Nell’agosto del 1941 già poteva intrave­ dersi all’orizzonte, per chiari indizi, il ciclone del dopoguerra, capace di scuotere alle fondamenta e rovesciare “l’ordine” stabilito dalle grandi potenze occidentali in quattro secoli e mezzo di dominio. Al termine della guerra Vietnamiti, Cambogiani, Marocchini, Algerini, Tunisini, 17

Senegalesi, Malgasci, Indonesiani, Congolesi, Indiani,. Birmani, Thai­ landesi, Filippini, Sudanesi, eccetera, si sarebbero trovati con le armi in mano e nelle condizioni non di chiedere, ma di imporre la decolonizza­ zione. Inghilterra, Stati Uniti e Francia diedero la precedenza al regolamento di conti interno all’ordine capitalista, benché fosse palese che il problema principale rimaneva la lotta al bolscevismo e contro la trasformazione socialista del mondo. In questo senso, la seconda guerra mondiale si ridimensiona come un fenomeno relativamente secondario, una paren­ tesi aperta dentro a un processo più vasto, quello diretto alla distruzione del bolscevismo. La Carta Atlantica a dispetto delle sue enunciazioni astratte fu di natura estremamente concreta poiché stabili uno schema pratico per la ripresa della lotta principale una volta chiuso rancidente” della seconda guerra mondiale. A Terranova, Churchill e Roosevelt predisposero il primo abbozzo di una strategia di contenimento della rivoluzione mondiale, nella quale l’idea centrale era costituita dal “disarmo universale”. In ultima analisi, niente di nuovo, in quanto ciò che aveva consentito nei cinque secoli precedenti alle potenze occidentali di stabilire il proprio dominio sul mondo è stata per l’appunto l’assenza di capacità difensiva dei popoli soggetti. La novità era costituita dal fatto che la Carta Atlantica colloca­ va il “disarmo universale” all’interno di una camicia di forza giuridica da far indossare al mondo, volente o nolente, nella forma di una codificazio­ ne del “diritto internazionale”, modellato, è quasi inutile sottolinearlo, nell’interesse delle grandi potenze anglosassoni, che all’epoca erano già certe di vincere la guerra contro Germania Italia e Giappone. Una seconda novità consisteva nella ventilata creazione di una forza interna­ zionale di intervento capace di far rispettare il “diritto internazionale” ed il disarmo. Non sarà inutile una breve digressione sulla nozione di “diritto inter­ nazionale” , tema che anche oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, resta un problema da risolvere. L’opposizione fra forza e diritto nella storia è stata fino ad oggi risolta a favore della forza. La società internazionale fin dalle sue antiche origini è stata un terreno di scontro fra forze materiali. In tale scontro il “bene” dei popoli è rimasto inalteratamente un concet­ to astratto senza rilevanza politica. È solo nel nostro secolo che il problema del “bene” dei popoli, cioè il problema di un diritto e di regole di comportamento valide per tutta la società internazionale, si è affaccia­ to concretamente come conseguenza di tre avvenimenti sopravvenuti nello spazio di cinque anni: una grande guerra mondiale che ha messo in movimento le masse di gran parte del mondo (1914-1918), una grande rivoluzione sociale che ha affermato la superiorità di una specifica dottri­ 18

na rivoluzionaria di validità universale e ha dato luogo alla nascita di un nuovo tipo di Stato collettivista (1917-1918) e infine il primo tentativo di creare una organizzazione istituzionale universale volta soprattutto a regolare le relazioni fra le nazioni dominanti, la “Società delle Nazioni”, nel 1919. Fino al 1919 il potere nel mondo era distribuito fra le diverse entità nazionali con interessi difficilmente conciliabili fra loro, la cui influenza era in relazione diretta al rispettivo grado di potenza politica, economica e militare. Gli Stati si mostravano refrattari a qualsiasi integrazione giuridica e, sia grandi che piccoli, consideravano l’indipendenza un bene irrinunciabile. L’indipendenza era infatti il mezzo con cui le classi deten­ trici del potere in ogni Stato potevano perseguire i propri obiettivi. Il “diritto internazionale” era perciò caratterizzato in senso volontarista. N on vi era alcun “diritto internazionale” senza consenso degli Stati, in quanto l’accettazione di qualsiasi norma giuridica sovranazionale finiva per essere una autolimitazione della sovranità. M olto più del diritto, il vero regolatore della società umana era la guerra. Prima del 1919 il solo accordo che si era potuto trovare fra Stati in materia di diritto era stato quello sottoscritto dalle potenze dominanti a danno dei popoli coloniali nel 1885. Si era trattato di dare una parvenza di legalità alle conquiste intraprese dalle potenze europee nella seconda metà dell’Ottocento. Abbiamo avuto occasione di trattare di questo argomento ne Le frontiere maledette del Medio Oriente (n), un nostro precedente lavoro suH’imperialismo. Qui ci limiteremo a ricordare che la Conferenza di Berlino offri a posteriori una cornice legale per le conqui­ ste coloniali effettuate nel passato e “legalizzò” le conquiste future, e per lungo tempo ha costituito la base della “legalità internazionale” accetta­ ta dai potenti. Sul piano pratico la Conferenza di Berlino sana un accordo di massima tra 15 potenze complici. Ciò che rimase come un dato permanente della “legalità internazionale” fu l’accettazione da parte dei delegati del prin­ cipio della “terra nullius” (terra di nessuno) come fondamento giuridico della presa di possesso di un territorio da parte di una nazione occupante. In ciò l’accordo fu unanime e permanente e per conseguenza la complici­ tà integrale. Il primo trattato di diritto internazionale uscito nel 1886, l’anno successivo alla Conferenza di Berlino, interpretava il diritto di conquista nel seguente modo: «Non si possono occupare che terre non appartenenti ad alcuno e abitate da tribù barbare». La nozione di “tribù barbara” è rimasta poi solidamente inscritta nel vocabolario del colonia­ lismo, deirimperialismo e del razzismo, e non è raro vederla affiorare ancor oggi sulla stampa più marcatamente reazionaria. L ’antagonismo irriducibile fra borghesie nazionali, i limiti geografici 19

possibili all’espansione, le innovazioni negli armamenti e la crisi econo­ mica incombente, condussero in poco più di vent’anni a quello che doveva essere il regolamento di conti definitivo fra potenze coloniali e al più spaventoso dei conflitti: la grande guerra 1914-1918. Prima ancora che la carneficina terminasse, la retrograda monarchia zarista fu rovesciata in Russia, per essere sostituita dal regime bolscevi­ co. L’avvento di una repubblica socialista capace di resistere anche alla forza militare della coalizione borghese era una novità sconvolgente, la prima novità reale in 400 anni di sviluppo della società capitalista, e poneva come urgente la creazione di un quadro giuridico entro cui potessero essere composte le rivalità fra potenze coloniali, rivalità che erano la causa della loro debolezza, e che nello stesso tempo imbrigliasse le velleità di indipendenza dei popoli soggetti. Il tentativo promosso dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson di creare a questo scopo la Società delle Nazioni cozzò tuttavia contro insuperabili ostacoli. Nessuno Stato né grande né piccolo si mostrò disposto ad abdicare al diritto di ricorrere alla forza per difendere i propri interessi. Né esistevano le condizioni perché tale diritto potesse essere anche soltanto limitato. La Società delle Nazioni fu perciò un luogo in cui molti entrarono e uscirono a seconda dei casi e non produsse alcun consolidamento di un “diritto internazionale” né tantomeno produsse la stabilizzazione politi­ ca del mondo. Negli anni ’30, il fallimento della prima organizzazione a vocazione universale divenne sempre più evidente. Ciò che rendeva impossibile all’epoca l’utilizzazione della Società delle Nazioni come forza stabilizzatrice dell’ordine internazionale fu l’equivalenza della forza militare delle grandi potenze. Né Germania, né Inghilterra, né Francia, né Stati Uniti, né Giappone, né tantomeno la marginale Italia, possedevano una potenza militare talmente superiore da poter esercitare una supremazia decisiva nel mondo occidentale. Fin dall’inizio degli anni ’20 al “diritto internazionale” che la Società delle Nazioni tentava di stabilire nell’interesse dei paesi dominanti, si contrappose il “diritto dei popoli” enunciato dai bolscevichi. Le rivolu­ zioni anticoloniali divennero la strategia a lungo termine del socialismo bolscevico. La convocazione del “Congresso dei popoli d’Oriente” di Baku, alla fine dell’agosto 1920, fu l’atto iniziale del processo di emancipazione dei popoli colonizzati e la conseguenza diretta della sconfitta dell’invasione degli eserciti occidentali. Nella notte fra il 30 e il 31 agosto 1920, un treno blindato, proveniente da Mosca, entrò nella stazione di Baku. Citeremo ancora noi stessi da Le frontiere maledette del Medio Oriente: « (...) A bordo, con Grigori Zinoviev, presidente del Comitato Esecu20

tivo del Komintern, erano Karl Radek, Bela Khun, già presidente della Repubblica Ungherese dei Consigli, Ho Chi Minh, John Reed, che sarebbe poi diventato celebre con il suo libro I dieci giorni che sconvolse­ ro il m on do, oltre a un certo numero di delegati, compresi alcuni dirigen­ ti socialisti di tre paesi colonialisti, Francia, Gran Bretagna e Olanda (...) Il documento di convocazione del congresso, redatto da Lenin, era rivolto ai “popoli asserviti d’Oriente”. Zinoviev apri la discussione con una relazione fiume che cominciava: “Al mondo non ci sono solo uomini di razza bianca, non ci sono solo questi europei dei quali esclusivamente tutti si preoccupano” (...) Zinoviev tracciò le linee del futuro dicendo: “Possiamo dire che la Cina, l’India, la Turchia, la Persia, l’Armenia, possono e devono impegnarsi nella lotta per l’instaurazione di regimi socialisti” , e concluse lanciando un grido di guerra: “Compagni! Fratelli! È venuto il giorno in cui si può cominciare l’organizzazione della guerra popolare santa e giusta (...) Fratelli! Siete chiamati alla guerra santa, la guerra santa prima di tutto contro l’imperialismo inglese!”. I congressi­ sti, presi da un entusiasmo indescrivibile, tutti in piedi, brandendo le loro armi, applaudirono a lungo gridando “Jihad, Jihad!” [Guerra santa, Guerra santa!], e “Viva la resurrezione deH’Oriente!”. I servizi d’infor­ mazione occidentali, pur presenti in forze a Baku per l’occasione, non afferrarono tutta la portata deH’avvenimento. Gli agenti delPIntelligence Service inglese spedirono ai loro superiori un rapporto sprezzante in cui si poteva leggere: “La maggioranza dei delegati è analfabeta. Scam­ biare armi e vendere i prodotti che hanno portato con sé li interessa infinitamente di più che i dibattiti del Congresso”. Non furono neppure sfiorati dall’idea che era invece iniziato un movimento di respiro univer­ sale che, se non avrebbe portato ovunque il socialismo com’era nei voti, doveva portare comunque alla disintegrazione del colonialismo» (12). Quel congresso rappresentava l’alba di un processo storico destinato a tasformare profondamente la società umana. Gli anni fra la prima e la seconda guerra mondiale furono quelli dell’incubazione delle rivoluzioni coloniali. Recentemente si è prodotto in Inghilterra un vivace attacco polemico contro il mito di Winston Churchill, condotto dagli storici Alan Clark, ex sottosegretario inglese alla Difesa, e John Charmley, ambedue conservatori d’acciaio. Questi addebitano oggi a Churchill l’errore di non aver preso in considerazione nella primavera del 1941 la possibiltà di conclu- _ dere una pace vantaggiosa con Hitler con la mediazione di Mussolini. La tesi è che se l’Inghilterra avesse fatto la pace con Hitler e Mussolini a condizioni ragionevoli, la forza militare britannica avrebbe potuto essere concentrata in Oriente; i Giapponesi non sarebbero entrati in guerra e l’Inghilterra avrebbe conservato il suo impero ( l3). Non è il caso di 21

entrare qui nei dettagli di questa disputa storica. Resta il fatto che il problema di una possibile rivolta dei popoli coloniali era il tema del dibattito interno alla classe dirigente britannica già nel 1941. Churchill rigettò ogni idea di pace con la Germania e non volle neppure parlare con il vice di Hitler, Rudolf Hess, che nella primavera del 1941 era volato a Londra per proporre, a nome della borghesia tedesca, di cessare la guerra, di rovesciare le alleanze, e di unire gli sforzi di Inghilterra e Germania contro quello che era il comune, vero nemico: il bolscevismo. Churchill in realtà non vedeva le ragioni per cui gli Inglesi avrebbero dovuto rinunciare ad annientare la potenza tedesca: aveva già pronto il suo marchingegno per salvare le colonie, la Carta Atlantica e la strategia del “disarmo universale”, che avrebbero impedito le rivolte dei popoli coloniali. Possiamo essere certi che Churchill non metteva in secondo piano il problema del bolscevismo; semplicemente ne rinviava la soluzio­ ne al termine del conflitto che, secondo le sue previsioni, avrebbe distrut­ to la Germania nazista e contemporaneamente impoverito e indebolito l’Unione Sovietica. Questa strategia era perfettamente chiara non solo in Churchill ma anche in Truman. Il 24 giugno 1941, il giorno dopo l’inizio dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica, Truman disse a un redatto­ re del New York Times: «Se vedremo che la Germania sta vincendo, dovremo aiutare la Russia, e se vedremo che la Russia sta vincendo, dovremo aiutare la Germania, lasciando, in questo modo, che si ammaz­ zino a vicenda nel maggior numero possibile». A guerra finita, nel 1945, lo scontro fra campo capitalista e campo socialista, cosi come quello fra nazioni industrializzate e popoli sottosvi­ luppati e dominati, si ripropose, ingigantito nelle proporzioni e in condi­ zioni mutate. Le varianti imprevedibili che la storia inevitabilmente introduce nei progetti astratti degli statisti avevano cambiato i rapporti di forza. L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica intaccò il sistema pro­ duttivo sovietico, ma con uno sforzo gigantesco e la mobilitazione di tutte le energie nazionali l’URSS usci dalla guerra mondiale con il suo potenziale industriale ancora vitale e in certi settori rafforzato; nella loro avanzata irresistibile verso il cuore della Germania i Sovietici giunsero a Berlino prima degli occidentali e occuparono tutta l’Europa orientale, stabilendo le condizioni per la loro futura strategia di difesa nel dopo­ guerra. Come effètto della vittoriosa “guerra patriottica antitedesca” l’U nione Sovietica realizzò inoltre una straordinaria compattezza popo­ lare attorno al regime dei Soviet; la coalizione occidentale si trovò ridotta praticamente alla sola Inghilterra e agli Stati Uniti perché, mentre Ger­ mania e Italia erano fuori gioco, tutto il resto dell’Europa era ridotto a un cumulo di rovine, e militarmente parlando Francia, Belgio e Olanda erano ridotti a entità trascurabili. L’Inghilterra usa a sua volta fortemen­ 22

te indebolita dal conflitto e in preda a una grave crisi economica; era divenuta una potenza di secondo rango, costretta a passare lo scettro di potenza dominante agli Stati Uniti; infine le masse subalterne inquadrate negli eserciti inglese e americano, a guerra finita, richiedevano con pressante insistenza la pace e la smobilitazione, e rifiutavano qualsiasi continuazione del conflitto contro l’ex alleata URSS. La variante decisiva consistè nell’avvento dell’era atomica. La bomba, che nel 1941 era solo un’ipotesi scientifica, nel 1945, dopo Hiroshima e Nagasaki, era diventata una spaventosa realtà. A partire dal momento in cui l’operatività delParma nucleare fu dimostrata sul terreno, al prezzo di 300.000 morti, tutta la logica miliare subì una profonda trasformazione. Ogni strategia, ogni politica, fu da allora in poi condizionata dall’esisten­ za di quest’arma che, per il fatto di essere in possesso soltanto degli Stati Uniti, assicurava loro il predominio assoluto nel mondo. Il materiale documentario raccolto dagli studiosi statunitensi, in primo luogo da Michio Kaku e Daniel Axelrod, rivela le azioni che i presidenti degli Stati Uniti, i membri del governo, i generali, gli scienziati, e tutti coloro che dettavano la politica americana in materia di armi nucleari, hanno pianificato al fine di usare la forza nucleare per “distruggere il bolscevismo”. Gli autori statunitensi che più profondamente hanno studiato «ciò che è passato per la mente dei dirigenti americani e degli strateghi nucleari» in quel periodo, convengono che questa «è una storia di terrore» ( 14). La domanda se questa storia di terrore sia stata il prodotto di una momentanea deviazione di alcuni militari e politici fanatizzati è logica e lecita. Ma la risposta è negativa. È stata una manifestazione nella forma più cruda della filosofia ispiratrice di tutto il periodo storico che abbiamo vissuto e di quello che stiamo vivendo: “la filosofia del bombardamen­ to ” , che il presente studio analizza e che è diventata pratica corrente ai giorni nostri.

1. IL BOMBARDAMENTO COME FILOSOFIA

N elle conversazioni fra Winston Churchill e Franklin Delano Roose­ velt dell’agosto 1941 a Terranova per l’elaborazione della Carta Atlanti­ ca i due statisti, come abbiamo accennato nell’introduzione, avevano annunciato la creazione di un «più ampio e permanente sistema di sicurezza generale». Quando si trattò di rendere pubblica la dichiarazio­ ne relativa al nuovo sistema delle relazioni internazionali, si svolse un dibattito intorno al nome che questo avrebbe dovuto assumere. Ciò accadeva subito dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, e la dichiarazione, che riguardava principalmen­ te i piani per il proseguimento della guerra contro le potenze dell’Asse, avrebbe dovuto essere firmata con la dizione “le Potenze Alleate”. R oosevelt volle invece che le potenze si autodefinissero “le Nazioni U nite” (*). Churchill ritenne che suonasse bene e accettò. La dichiara­ zione fu pubblicata il Io gennaio 1942 con la firma “le Nazioni Unite”. Qualche mese più tardi, Roosevelt spiegò ai suoi collaboratori il proprio schema per una organizzazione mondiale. Ciò risulta da un memorandum della Casa Bianca del 13 novembre 1942. Il testo diceva esattamente: «L’idea centrale implica una situazione in cui dovrebbero esistere quattro gendarmi nel mondo — Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia e Cina — cui sarà attribuita la responsabilità di mantenere la pace. Il resto del mondo dovrebbe disarmarsi (...) Dovrebbero essere organiz­ zate ispezioni da parte dei quattro gendarmi in tutti i paesi (...) Non appena qualcuno degli altri paesi fosse colto nell’atto di armarsi, dovreb­ be essere minacciato di quarantena, e se la quarantena non avesse effetto dovrebbe essere bombardato» (2). Negli ultimi tempi si è detto e scritto molto intorno a ciò che le Nazioni U nite erano destinate ad essere in origine. Rileggendo quanto è stato scritto, si giunge alla conclusione che i commentatori non si sono dati la pena di chiarire, sulla base dei documenti, quali fossero in realtà queste “intenzioni originarie” . Dall’analisi dei documenti emerge infatti senza possibilità di smentita che nelle prime intenzioni dei suoi fondatori l’O N U doveva essere un organismo oligarchico, per mezzo del quale un piccolo numero di Stati sovrani posti al di sopra della legge avrebbero controllato il resto del mondo in una sorta di “ordine” etichettato come “legalità internazionale”. La Carta delle Nazioni Unite è stata pensata in 24

modo specifico per realizzare questa intenzione. Lo schema tracciato da R oosevelt fu presentato a Inglesi e Sovietici. La logica ispiratrice era scoperta: il principio della “legalità” non figurava in alcuna sua parte e la funzione assegnata all’organizzazione non era neppure lontanamente l’autogoverno dei popoli, ma il governo del mondo da parte dei suoi quattro gendarmi. Il progetto di Roosevelt incontrò però resistenze vivaci a Londra e a Mosca. A Churchill non piaceva lo schema americano di una organizza­ zione universale che sarebbe stata una sorta di parodia di Stato mondia­ le. Era favorevole piuttosto a una serie di organizzazioni regionali, ognuna delle quali sarebbe ricaduta inevitabilmente nella sfera di in­ fluenza di una delle grandi potenze. Le organizzazioni regionali avrebbe­ ro consentito all’Inghilterra di mantenere la propria supremazia in parte dell’Asia e dell’Africa. Churchill fini poi per accettare lo schema ameri­ cano per le Nazioni Unite, ma solo per ragioni di forza maggiore. Certamente non erano sfuggiti a Churchill i mutamenti intervenuti dopo l’inizio della guerra in Europa nella direzione e negli orientamenti della politica estera americana. Durante gli anni della Grande Depres­ sione i rapporti fra il grande capitale finanziario americano e l’Ammini­ strazione Roosevelt erano stati gelidi. Con l’adozione delle leggi del New D eal, a partire dal 1933, e l’evoluzione dell’opinione popolare in favore dello “stato assistenziale”, il mondo degli affari vide i propri interessi minacciati e creò la American Liberty League, per condurre una “crocia­ ta” contro quella che fu subito chiamata “la minaccia rossa” (3). Dimo­ strandosi infruttuosi gli interventi sul Congresso, la “League” decise di esercitare la sua pressione sui giudici conservatori. Un comitato compo­ sto dai 58 più noti avvocati degli Stati Uniti, espressione degli interessi di banche, industrie e gruppi finanziari, intraprese la demolizione giuridica dell’opera di Franklin Delano Roosevelt e fra il 1934 e il 1937 riuscì a ottenere che la Corte Suprema dichiarasse incostituzionali 12 leggi cardi­ ne promulgate dal presidente. Ma il continuo degradarsi della situazione in Europa, dove l’aggressi­ vità del nazismo preludeva chiaramente allo scoppio di un conflitto generale, suggerì, verso la fine del 1938, un rovesciamento radicale di posizioni nel capitalismo americano. Un vento nuovo cominciò a spirare a Wall Street. Banchieri e indu­ striali presero coscienza del fatto che dalle rovine del colonialismo euro­ peo sarebbe emerso un nuovo ordine mondiale. Gli imperi coloniali inglese e francese si avviavano alla disgregazione. Il dibattito interno al potere economico americano sulle prospettive aperte daH’imminente guerra mondiale prese le mosse fin dallo scoppio della guerra civile in Spagna, e si svolse all’interno della sua istituzione 25

più rappresentativa, il CounciI on Foreign Relations, un “gruppo di studio” alla cui origine erano i banchieri Rockefeller, e che era andato via via raggruppando il fior fiore della banca, della finanza, deH’industria e del mondo accademico degli Stati Uniti. La sua funzione dichiarata era quella di esercitare una influenza diretta «sugli aspetti internazionali della politica americana, dell’economia e della strategia». Nel corso del 1937 e del 1938 fra i membri del “CounciI” andò affermandosi la convin­ zione che stava per presentarsi al capitalismo americano l’irripetibile occasione storica di ereditare le prerogative imperiali che Inglesi, Fran­ cesi, Tedeschi e Giapponesi si avviavano inevitabilmente a perdere. Lasciando da parte ogni pregiudizio, il mondo degli affari rovesciò prontamente le proprie posizioni riguardo a Roosevelt, mirando a utiliz­ zare il grande ascendente che il presidente esercitava sulle masse popola­ ri americane la cui forza sarebbe stata necessaria per conquistare il mondo, e saltò direttamente sul carro dell’Amministrazione Roosevelt. Prima ancora che la guerra avesse inizio in Europa, si produsse silenzio­ samente, mediante nomine presidenziali, una migrazione di rappresen­ tanti del mondo degli affari da Wall Street alle strutture di comando dell’apparato amministrativo statunitense. Il presidente possedeva all’e­ poca la facoltà di scegliere circa 1.500 persone da assumere alle dipen­ denze dirette della Casa Bianca e 1.200 funzionari speciali incaricati di elaborare le grandi linee politiche o di ricoprire compiti di fiducia, senza necessità di approvazione del Senato. Fino al 1939 le attenzioni maggiori del Dipartimento di Stato erano state rivolte quasi esclusivamznte al continente americano. Il ministero degli Esteri degli Stati Uniti era carente di organico, di specialisti e di esperienza quanto al resto del mondo. Vi era perciò molto spazio per i “tecnici” di Wall Street. R oosevelt usò largamente del suo potere discrezionale di nomina per favorire l’ingresso dell’élite economico-finanziaria nelle stanze del pote­ re politico, il che prova che l’operazione si svolse sulla base di un preciso accordo fra il presidente e i suoi antichi detrattori. Alla fine del 1939 tale accordo assunse tutte le caratteristiche di un vero e proprio contratto, stipulato fra Cordell Hull, Segretario di Stato in carica, e Walter Mallory, direttore esecutivo del CounciI on Foreign Relations (4). Sulla base di tale patto il “CounciI” mise a disposizione del Dipartimento di Stato un gruppo di analisti del massimo livello al fine di elaborare i piani strategici a lungo termine della politica estera americana in vista di un intervento degli Stati Uniti nel conflitto. Alcuni fra i principali banchieri di investi­ mento e presidenti di importanti società lasciarono le poltrone di coman­ do deH’industria e della finanza privata a New York per insediarsi nelle posizioni chiave del ministero degli Esteri e della Difesa a Washington. Vennero istituiti quattro gruppi separati di pianificazione strategica: uno 26

per sicurezza ed armamenti, uno per economia e finanza, uno politico e uno territoriale. Con ciò i programmi dell’alta finanza divennero di fatto la linea politica ufficiale degli Stati Uniti. Da più d’un documento si può dedurre con esattezza in che cosa il grande capitale americano identificasse gli interessi degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. Wall Street intravedeva la possibilità, o per meglio dire coltivava la certezza, che al termine del conflitto gli USA avrebbero “ereditato” l’impero inglese. Nelle riunioni segrete tra il Dipartimento di Stato e il Council on Foreign Relations a partire dal 1939 si programmava dettagliatamente e esplicitamente il ruolo degli Stati Uniti come sostituti dell’Inghilterra nel dominio del mondo. Gli appunti del Sottocomitato per la Sicurezza del Comitato del “Council” per la politica estera definivano i probabili parametri della politica estera post-bellica degli Stati Uniti nei seguenti termini: «(...) L ’impero inglese cosi come lo abbiamo conosciuto nel passato non riapparirà mai più (...) Gli Stati Uniti potrebbero dover prendere il suo posto». Più avanti lo stesso testo ribadiva: «Gli USA devono coltivare la visione di una regolamentazione del mondo, dopo questa guerra, che ci permetta di imporre le nostre condizioni, consistenti forse in una Pax Americana» (5). N el 1942, il direttore del “Council”, Isaiah Bowen, scriveva: «La misura della nostra vittoria corrisponderà alla misura del nostro domi­ nio» preconizzando che gli Stati Uniti mettessero sotto il proprio control­ lo tutte le aree strategicamente importanti per dominare l’orbe terrac­ queo (6). Al di là della retorica sulla liquidazione del nazismo e del fascismo, gli Stati Uniti iniziarono la seconda guerra mondiale con un preciso programma imperiale. Se tale programma era lontano dallo spirito delle masse americane, era chiarissimo in quello della classe dirigente statunitense. Oggi si sa dai documenti che fra il 1940 e il 1946 si sono tenute 362 riunioni fra i membri del “Council” e il Dipartimento di Stato o il ministero della Difesa, divenuto ministero della Guerra. Lukas J. Anthony ha rivelato in uno studio apparso sul New York Times Magazine del 21 novembre 1971 intitolato “Il Council on Foreign Relations è un club? un seminario? un presidium? un governo invisibile?”, che «(...) a partire dal 1942 i gruppi del “Council” furono praticamente assorbiti aH’interno del Dipartimento di Stato e lo inondarono con 682 “memo­ randum”» (7). I verbali delle riunioni segrete, oggi divenuti di pubblico dominio, mostrano che gli uomini d’affari del “Council” consideravano la forza militare come il fattore essenziale per una futura espansione della poten­ za statunitense. Il giornalista Joseph Kraft, anch’egli membro del 27

“Council” , ricorda che Henry Stimson andò a Washington per assumere il ministero della Guerra portando con sé un piccolo nucleo di uomini allora poco conosciuti, divenuti celebri in seguito, che crearono le strut­ ture della macchina bellica americana per la conquista del mondo. Lo stesso presidente del “Council” John McCloy, presidente anche della Chase Bank, assunse accanto a Stimson il ruolo di responsabile del personale del ministero della Guerra. Quando Stimson e McCloy aveva­ no bisogno di un uomo scorrevano la lista dei membri del “Council” e facevano una telefonata a New York (8). L’ondata migratoria dei personaggi di Wall Street entrati neH’Amministrazione Roosevelt, che comprendeva uomini come James Forrestal, Averell Harriman, Robert Lovett, John Foster Dulles, Alien Dulles, Paul Nitze, arrivò a un centinaio di elementi. Costituirono un circolo “di vecchi amici” che ha dominato la politica estera, quella militare e la diplomazia segreta americana per tutta la guerra e per i due decenni successivi. Con poche eccezioni, avevano idee di estrema destra ed erano inclini alla utilizzazione integrale e senza remore della potenza che avevano contribuito a creare. L’istituzione delle Nazioni Unite è entrata nella strategia dettata da questo comitato d’affari installato alla guida della politica americana per il trionfo della “vocazione imperiale” degli Stati Uniti. Chi desidera spiegarsi l’origine della politica americana deve forzatamente far riferimento a questo periodo nel quale si realizzò la completa compenetrazione fra potere politico e potere economico negli Stati Uniti. Nel 1941 il governo americano decise di non creare un complesso industriale di Stato per la produzione degli armamenti necessari alla guerra, e di rimettersi invece all’industria privata per fabbricare aerei, navi, carri armati, cannoni e la stessa bomba atomica. Ciò segnò l’atto di nascita del complesso militare-industriale che ha dominato la politica americana fino ai nostri giorni. In pratica il governo degli Stati Uniti cadde sotto la tutela degli interessi industriali. La scelta di un particolare indirizzo strategico e dei conseguenti strumenti bellici di attuazione, comportando una gigantesca mole di commesse industriali e di profitti, divenne oggetto di feroci battaglie di corridoio, prima ancora di dar luogo a scontri politici in Congresso e in Senato. Qualche cifra può illustrare la dimensione del fenomeno. Nel 1941 la produzione bellica americana ammontava a soli 8.400 milioni di dollari; nel 1942 sali a 30.200 milioni, ma i contratti stipulati con l’industria privata quell’anno ammontarono a 100.000 milioni di dollari. Nel 1939 si producevano negli Stati Uniti 5.865 aerei; nel 1944 se ne produssero 93.369, tutti da parte dell’industria privata. In tutto il periodo bellico furono venduti da privati al governo 274.941 apparecchi. Le costruzioni del solo naviglio mercanti­ 28

le che nel 1940 toccavano appena il milione di tonnellate crebbero durante il conflitto fino a superare i 55 milioni di tonnellate. Per tale produzione occorsero colossali quantitativi di materie prime interamente forniti dalPindustria privata. Il trasferimento di ricchezza dalle casse pubbliche a quelle private si misura nel bilancio federale, che dalla media di 8 miliardi di dollari l’anno nel decennio 1930-1939, sali al livello dei 98 miliardi e 303 milioni di dollari del 1945. La spesa totale del governo degli Stati Uniti per la guerra fu, ufficialmente, di 321 miliardi di dollari, più del doppio di quanto il governo federale aveva speso nei 152 anni fra il 1789 e il 1941 (9). La bomba atomica fu una invenzione essenzialmente militare realizza­ ta dall’Army’s Manhattan District Corps of Engineers, denominazione convenzionale di un reparto militare segretissimo al comando del genera­ le Leslie Richard Groves sotto la cui autorità agivano gli scienziati incorporati nel cosiddetto “Progetto Manhattan”. L’industria e la finan­ za americane si trovarono alla fine nelle mani come grazioso dono dello Stato americano quello che a buon titolo potrebbe essere definito “l’affa­ re del secolo” : lo sfruttamento dell’energia nucleare, sia a scopi bellici che a scopi pacifici. Già nel periodo bellico, tutte le fasi essenziali della produzione dell’ar­ ma atomica, ivi comprese le ricerche, la lavorazione dell’uranio, la costruzione degli impianti di separazione, vennero affidate per contratto ai vari monopoli. Il momento inziale fu la costruzione presso la Du Pont de Nemours, a Hanford, di tre pile a grafite capaci di produrre plutonio. L ’unico mutamento che si ebbe dopo la fine della guerra riguardò sempli­ cemente l’influenza relativa dei diversi monopoli. La General Electric Corporation assunse quella posizione dominante che il trust chimico Du Pont aveva avuto nella fase iniziale del progetto ( 10). Vi parteciparono altre potenti industrie degli Stati Uniti, fra le quali i complessi Kellex, Westinghouse, Monsanto Chemical, Dow Chemical e Carbide e Chemi­ cals. Una volta che la “Missione di bombardamento speciale n. 13”, cioè la distruzione della città giapponese di Hiroshima, ebbe dimostrato l’efficacia dell’arma, e dopo che le relazioni scientifiche ebbero segnalato le possibilità di sfruttamento economico dell’energia nucleare, la que­ stione atomica divenne un pozzo di San Patrizio in cui tutta l’industria e la finanza vollero mettere le mani. Il comitato tecnico che preparò la “relazione Lilienthal” sul controllo internazionale dell’energia atomica aveva fra i suoi componenti Chester R. Barnard, presidente della società N ew York Bell Telephone, Charles A. Thomas, vicepresidente della Monsanto Chemical, e Harold A. Winne, vicepresidente della General Electric. La prima delegazione americana nella Commissione per l’ener­ gia atomica dell’ONU, di cui ci occuperemo più diffusamente in un 29

prossimo capitolo, era presieduta da Bernard Baruch, agente di Borsa di Wall Street, e comprendeva John Hancock, cointeressato nella compa­ gnia di investimenti bancari Lehman Bros., Ferdinand Eberstadt, legato alla banca di investimenti Dillon and Read, e Fred Searls Jr., presidente della Newmont Mining, del gruppo Morgan. Inoltre, la delegazione americana aveva come consulenti, come informava il New York Times del 19 maggio 1946, «quei dirigenti deH’industria statunitense che hanno realizzato con successo il programma atomico». L’estrazione dei minera­ li di uranio fu affidata interamente a società private, la West Rand Consolidated, la Blycoruitzicht Gold, la Daggafontein Mines e la We­ stern R eefs (n ). La fonte dell’uranio fu inizialmente il Sud Africa, allora sotto controllo inglese, e questa fu la vera ragione per la quale gli Stati Uniti furono obbligati ad associare fin dall’inizio gli Inglesi alle ricerche e allo sviluppo dell’energia atomica. Se si considerano gli enormi interessi privati che erano direttamente rappresentati nello sfruttamento dell’ato­ m o, appare evidente che l’Atomic Energy Commission, Commissione per l’Energia Atomica, creata dal governo degli Stati Uniti teoricamente per il controllo statale dell’energia atomica, fu praticamente il mezzo con cui i monopoli privati controllarono l’industria nucleare degli Stati Uniti fin dai suoi albori. Cosi come negli affari esteri, nella marina, nell’aviazione, nell’eserci­ to, e nella produzione bellica, il mondo degli affari introdusse i suoi uomini nei servizi segreti. William Donovan, il capo dell’Office of Secret Services (OSS), prima della guerra faceva l’avvocato e proveniva dalla ricca borghesia newyorkese, e riempi il servizio dei più bei nomi della buona società e di Wall Street. Eccone un campione significativo: Theodore Ryan (maggior azionista di Equitable Life Insurance), Henry Ringling North (proprietario del Ringling Circus), John Haskell (vicepresi­ dente del New York Stock Exchange, la Borsa di New York), James Hugh Angleton (azionista della National Cash Register), William Davis Junior (banchiere di Filadelfia), Paul Mellon ( della famiglia Mellon), Clifton Carter (della famiglia Carter), David Brace (multimilionario), Junius ed Henry Morgan (delle banche Morgan), William Vanderbilt (della famiglia Vanderbilt), Alfred Du Pont (della famiglia Du Pont), John Arcibold (Standard Oil), William Suhling (grande produttore di tabacco), Alien Dulles (avvocato del potente studio Sullivan & Cromwell rappresentante degli interessi delle grandi “corporations”, ed egli stesso banchiere) ( 12). Mentre andava elaborando il progetto per le Nazioni Unite Roosevelt si trovava, largamente convinto e consenziente, nella posizione di espo­ nente della strategia dettata da questo comitato d’affari installato alla guida della politica americana. La creazione dell’ONU doveva perciò 30

corrispondere alla “vocazione imperiale” del vero gruppo dirigente degli Stati Uniti. Certamente tutto questo doveva essere noto a Winston Churchill e al governo di guerra inglese. Ma già nel corso della prima fase del conflitto mondiale gli Stati Uniti avevano acquisito una posizione di forza nelle relazioni anglo-americane. La stessa sopravvivenza della popolazione delle isole britanniche era assicurata essenzialmente dai rifornimenti americani. Gli Inglesi erano quindi troppo deboli nel 1942 per puntare i piedi di fronte all’alleato. I gendarmi del mondo non avrebbero potuto in quel momento essere che tre: Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica. Cina e Francia non esistevano come Stati reali in quel momento: la Francia era occupata dai Tedeschi e la Cina dai Giapponesi. Ma con grande irritazione di Chur­ chill, Roosevelt insistette per includere fra i gendarmi sovrani anche la Cina, dando per scontato che questa sarebbe rimasta nella sfera di influenza degli Stati Uniti nel mondo post-bellico. L’ipotesi di una vitto­ ria delle forze rivoluzionarie guidate da Mao Tse-tung non era neppure presa in considerazione da Roosevelt. Per contropartita Churchill insi­ stette perché anche la Francia divenisse uno degli Stati sovrani che avrebbero dominato le Nazioni Unite. Voleva — disse — “un cuscinet­ to ” fra Inghilterra e URSS. Cosi i “gendarmi” furono cinque. Churchill si allineò infine sulle posizioni americane e collaborò con Roosevelt per far accettare lo schema delle Nazioni Unite anche ai Sovietici. Gli argomenti usati da Roosevelt e da Churchill per persuadere Stalin a partecipare alla costruzione delle Nazioni Unite rendono lampante quali fossero le intenzioni originarie poi concretizzate nelle strutture dell’O NU. Durante la Conferenza di Yalta, nel dicembre 1944, Stalin faceva mostra esplicitamente di diffidare della proposta americana per una organizzazione universale. Churchill gli spiegò perché le Nazioni Unite progettate da Roosevelt non avrebbero rappresentato alcun pericolo per gli interessi sovietici. Nel volume IV della Storia della Seconda Guerra M ondiale scritta da Churchill, si legge: «Io dissi che, per come avevo inteso la questione, i poteri dell’Organizzazione Mondiale non avrebbe­ ro potuto essere usati contro la Gran Bretagna se lei non fosse stata convinta e avesse rifiutato di acconsentire. Stalin domandò se era davve­ ro cosi, e io gli assicurai di si (...) “I miei compagni a Mosca”, disse Stalin, “non possono dimenticare quello che è successo nel dicembre 1939, durante la guerra russo-finlandese, quando Inglesi e Francesi usarono la Società delle Nazioni contro di noi e riuscirono ad isolare ed espellerne l’URSS e come più tardi si mobilitarono contro di noi e parlarono di crociata contro la Russia. Possiamo avere qualche garanzia 31

che questo genere di cose non potrà più accadere?” Eden, [ministro degli Esteri inglese] fece rilevare che la proposta americana lo rendeva impos­ sibile. Io dissi che erano state formulate speciali clausole sull’unanimità delle Grandi Potenze (...) Stalin promise allora di studiare il piano» (13). Qui è la prova inconfutabile che tanto Washington, che Mosca e Londra erano fermamente decise a rimanere al di sopra dell’organismo internazionale che stavano costruendo. La Conferenza di San Francisco si apri il 25 aprile 1945, tredici giorni dopo la morte di Roosevelt, con la partecipazione di 50 Stati, e procedet­ te a gettare le basi per l’edificazione delle Nazioni Unite. Al fine di accelerare i lavori gli Americani tennero un atteggiamento conciliante nei confronti dell’URSS. I Sovietici non frapposero ostacoli e il 26 giugno 1945 la Carta dell’O N U fu approvata e sottoscritta da tutto il mondo politicamente reale in quel momento, escluse Germania e Italia. La “Carta” si presentava soprattutto come una formidabile costruzione di parole, formulata in modo abbastanza vago e ambiguo da poter consentire le interpretazioni più diverse e occultare le intenzioni più inconfessate. Sarebbero stati i rapporti di forze reali tra i gendarmi a dare un contenuto concreto agli articoli della “Carta” e alle sue enunciazioni astratte. E i fattori variabili o imponderabili si annunciavano molteplici, quali il peso che avrebbe avuto l’URSS nel mondo post-bellico e la dinamica che avrebbe assunto il movimento di emancipazione dei popoli coloniali. La “Carta” abbracciava questa grande materia in poche parole. L’arti­ colo 1 rispondeva all’aspirazione più universale, dopo la carneficina della seconda guerra mondiale, bandendo l’uso della violenza bellica come m etodo per regolare i contrasti fra Stati, e attribuiva alle Nazioni Unite il compito di mantenere la pace. L’articolo 2 corrispondeva al naturale desiderio di uguaglianza di tutti i popoli che avevano partecipato al conflitto con il miraggio della libertà dal bisogno, proclamando le Nazio­ ni U nite come fondate sul principio della parità sovrana dei suoi membri, presenti e futuri. Ma se è difficile leggere nell’animo umano, ancora più difficile è leggere nei piani segreti della diplomazia. Una lettura più realistica della “Carta” forniva un quadro diverso del futuro. Si sarebbe avuta si una “pace mondiale”, ma attraverso leggi elaborate dagli Stati Uniti, dettate dalle Nazioni Unite e applicate dal Consiglio di Sicurezza. I paesi che avessero tentato di armarsi e di sottrarsi alle regole imposte dagli USA, sarebbero stati bombardati. Prodotto della diplomazia americana, l’ON U sarebbe stata anche lo strumento della supremazia americana nel mondo, con il correttivo dell’associazione al potere di controllo del mondo di altri quattro “gendarmi”: Inghilterra, Francia, Cina, Unione 32

Sovietica, vale a dire quei paesi che dopo la scomparsa di Germania, Italia e Giappone come potenze militari, non sarebbero stati, a causa della loro dimensione e della loro forza, puramente e semplicemente dominabili da parte degli Stati Uniti. Il modo in cui gli Americani avevano convinto i quattro “gendarmi” ad associarsi nel dominio del mondo era stato la concessione del diritto di veto nell’organo esecutivo, il Consiglio di Sicurezza. L’uso del veto garantiva che il Consiglio di Sicurezza non avrebbe potuto agire in maniera contraria agli interessi di una qualsiasi delle cinque potenze.

2. IL PIANO “TOTALITY”

D opo la Conferenza di San Francisco si apri il 17 luglio 1945 quella di Potsdam, la conferenza dei vincitori della guerra in Europa. Il conflitto continuava in Asia, contro i Giapponesi. U n mondo stremato dalle perdite umane e dalle distruzioni della lunga guerra guardava con ansia ai tre “grandi” intenti, in apparenza, a conso­ lidare la vittoria sulla Germania nazista e a costruire una pace durevole. Sui giornali di tutto il mondo comparivano le fotografie dei soldati sovietici e americani che fraternizzavano sulle rive dell’Elba. I rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica si presentavano come calorosi e sem­ bravano preludere a un’era di armonia. U n Truman esultante e prodigo di larghi sorrisi strinse la mano a Stalin e a Churchill nel castello di Cecelienhof, a Potsdam, qualche chilometro fuori Berlino. In quel momento il presidente americano aveva già ricevu­ to il famoso telegramma «Il bimbo è nato in modo soddisfacente» che annunciava l’avvenuta esplosione ad Alamogordo, nel Nuovo Messico, alle 5,10 del 16 luglio, della prima carica nucleare della storia. M olte cose erano accadute prima che si giungesse al telegramma fatidico, fatti di importanza decisiva per intepretare il senso della storia. N ell’economia della presente trattazione non è possibile affrontare l’argomento per esteso e dobbiamo limitarci a una cronologia indicativa. Dalla fine del 1942 erano in funzione negli Stati Uniti tre grandi centri nucleari per la realizzazione della bomba, denominati in codice Centro X , Centro Y e Centro W. “X ” era situato nella valle del Tennessee a Oak Ridge, “W” era quello di Hanford nello Stato di Washington, presso la D u Pont, cui abbiamo fatto cenno nel primo capitolo, e “Y ”, sorta di campo di concentramento per premi Nobel, dove erano riuniti tutti i maggiori scienziati sottoposti a stretto controllo, sorgeva a Los Alamos, nel Nuovo Messico. Il 19 agosto 1943, quando i lavori erano giunti al punto di dare la certezza scientifica che il risultato finale sarebbe stata un’arma di tremen­ da potenza, Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada sottoscrissero il “patto atom ico” di Québec per un suo uso comune. Fu un patto segreto e non ne fu data comunicazione alcuna all’alleata URSS. N ell’ottobre dello stesso anno Niels Bohr, uno dei più grandi fisici del secolo, riuscì a fuggire dalla Danimarca e a raggiungere l’Inghilterra e nel 34

maggio del 1944 incontrò Churchill per tentare di convincerlo della necessità di informare il governo sovietico dello stato di avanzamento degli studi per la fabbricazione della bomba. A seguito di questo collo­ quio, Bohr ritenne necessario mettere nero su bianco il suo punto di vista con un memorandum indirizzato a Roosevelt e allo stesso Churchill, nel quale sottolineava: «(...) Si sta mettendo a punto una nuova arma di potenza ineguagliata che modificherà completamente i dati futuri della guerra». Il 16 agosto 1944 Bohr ebbe un colloquio riservato con Roose­ velt e sollecitò anche lui a informare ufficialmente Stalin delle ricerche in corso e a concordare con i Sovietici un programma per il controllo internazionale dell’energia atomica. Le sollecitazioni di Bohr ottennero però l’effetto contrario a quello desiderato. Roosevelt e Churchill si riunirono segretamente a Hyde Park il 18 e 19 settembre 1944 per discutere sulla questione, ma presero la decisione contraria, sottoscrivendo un promemoria nel quale affermava­ no l’intenzione di non mettere i Sovietici al corrente delle ricerche atomiche. L ’incontro di Hyde Park fu mantenuto segretissimo e nessuno degli scienziati che partecipavano al Progetto Manhattan ne fu informa­ to. I calcoli della immensa potenza distruttrice della nuova arma comin­ ciavano a creare in molti ricercatori problemi di coscienza. All’interno della comunità scientifico-militare già si manifestavano due indirizzi opposti: vi erano i partigiani della politica del segreto e del mantenimen­ to del monopolio angloamericano e i partigiani di un accordo intemazio­ nale fondato sulla libertà della ricerca e sulla diffusione universale della scoperta. Se conosciuta, la decisione di escludere i Sovietici avrebbe assunto un esplicito valore politico e avrebbe potuto determinare una opposizione di principio nel gruppo di scienziati di varie nazionalità impegnati a fabbricare la bomba. Questi si sentivano soldati di una guerra contro il nazismo e il fascismo, non necessariamente al servizio dei piani di egemonia angloamericani. Sul finire del 1944 il dilemma se utilizzare o no, e come utilizzare, la potenza dell’esplosivo nucleare, cominciò a porsi non più come una questione filosofico-morale astratta, ma in termini di decisione politica. Benché se ne discutesse molto anche fra gli scienziati, il vero dibattito si svolgeva fra i pochi politici che erano al corrente del progetto atomico — come il banchiere Alexander Sachs, il consigliere personale del presiden­ te, James F. Byrnes, e il ministro della Guerra Henry Stimson — e i militari rappresentati dal generale Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan. Questi attendevano di conoscere i dati tecnici dell’arma ancora sconosciuta e di valutare la sua potenza devastante per formulare una dottrina dell’impiego, ma non avevano dubbi di sorta sull’opportuni­ tà di impiegarla. Byrnes sottopose a Roosevelt un memorandum per 35

segnalargli che, dato l’enorme costo della bomba — 2 miliardi di dollari — l’opinione pubblica americana e il Congresso non avrebbero accettato che una tale somma di denaro fosse stata spesa in pura perdita, e perciò l’arma doveva essere utilizzata non appena operativa. Nell’ambito ri­ stretto dei consiglieri che influivano sulle decisioni di Roosevelt non vi erano seri dubbi sull’opportunità di usare sul campo la forza nucleare. Vi fu solo qualche tentativo di razionalizzare l’impiego della nuova arma per evitare agli Stati Uniti le ricadute negative eventuali. Nel dicembre del 1944 Sachs, amico personale di Roosevelt, l’uomo che era servito da tramite fra gli scienziati e la Casa Bianca per convincere il presidente a dare l’avvio al Progetto Manhattan, redasse un memorandum per sugge­ rire un impiego articolato dell’arma atomica. Sachs propose che la bom­ ba fosse fatta esplodere preventivamente, a titolo di dimostrazione della sua potenza, di fronte a un pubblico di testimoni composto di scienziati e dei rappresentanti di tutte le religioni comprese l’islamica e la buddista. A ll’esplosione dimostrativa sarebbe seguita una dichiarazione ufficiale degli Stati Uniti indirizzata ai nemici, Germania e Giappone, per chiede­ re loro di liberare da uomini e animali una zona determinata del loro territorio su cui sarebbe stata sganciata l’atomica. A seguito di tale dimostrazione degli effetti reali di un bombardamento atomico, gli Stati Uniti avrebbero lanciato l’ultimatum finale, esigendo la capitolazione immediata del nemico. Gli Stati Uniti avrebbero cosi usato l’arma, spaventato il mondo, imposto la propria volontà ed evitato ogni ripercus­ sione negativa. Le idee di Sachs incontrarono molto scetticismo in parti­ colare fra gli Stati Maggiori. Il mito che vuole Roosevelt angosciato e incerto, reticente di fronte alle pressanti richieste di decisione, sembra fabbricato per avvolgere in un alone di umanità il personaggio. Le perplessità espresse dagli scienzia­ ti in vari memorandum e documenti di certo furono ininfluenti sulle scelte finali. La decisione di mantenere il monopolio dell’arma nucleare nell’ambi­ to di Stati Uniti, Inghilterra e Canada era già stata consolidata da due anni — come abbiamo visto — in un patto diplomatico e quella di tenere l’URSS all’oscuro di tutto era già stata oggetto di un accordo segreto da un anno. Nella Conferenza di Yalta, fra il 4 e PII febbraio 1945, nella quale teoricamente il mondo fu diviso in sfere definite di influenza fra i vincitori, Roosevelt e Churchill incontrarono Stalin, strappandogli l’im­ pegno che l’Unione Sovietica sarebbe entrata in guerra contro il Giappo­ ne entro tre mesi dalla fine del conflitto in Europa allo scopo di accelera­ re il crollo dell’Impero del Sol Levante. Si parlò di molti argomenti. Ma non una sola sillaba fu pronunciata sull’imminente realizzazione dell’ar­ ma atomica. 36

Le prime decisioni operative sul lancio di due bombe, una all’uranio e l’altra al plutonio, sul Giappone, furono prese già nella primavera del 1945. La lista dei 10 obiettivi possibili comprendeva le città giapponesi che per la loro dimensione e collocazione si offrivano come bersaglio ideale in quanto potevano essere distrutte con una sola bomba. La base di partenza dei bombardieri nell’isola di Tinian, nell’arcipelago delle Marianne, era già pronta da tempo. Toccò a Truman, a causa della morte improvvisa di Roosevelt il 12 aprile 1945, impartire l’ordine definitivo come nuovo presidente degli Stati Uniti, ma la “decisone capitale” era già stata presa prima che il successore di Roosevelt entrasse alla Casa Bianca. Prima di accedere al potere Truman non sapeva neppure che esistesse una ricerca nucleare per scopi bellici. L’esistenza del Progetto Manhattan gli fu comunicata dopo il giuramento. La scelta di usare l’atomica sui Giapponesi era già stata presa da Frankin Delano Roosevelt e non tanto per accelerare la fine della guerra, ma come atto iniziale della conquista dell’egemonia americana sul mondo. In un articolo pubblicato su Harpers’ Magazine nel febbraio 1947 il ministro della Guerra degli anni di Roosevelt, Stimson, scrisse: «Dal 1941 al 1945 in nessun momento mai ho sentito il presidente Roosevelt o qualunque altro responsabile politico lasciar supporre che l’energia atomica non sarebbe stata impiegata nella guer­ ra». Winston Churchill è stato ancora più esplicito. Nel dodicesimo volume della sua storia della seconda guerra mondiale ha scritto: «Resta storicamente stabilito che il problema di sapere se bisognava o no utiliz­ zare la bomba atomica per costringere il Giappone a capitolare non si è neppure mai posto. L’accordo fu unanime, automatico, incontestato». A ll’apertura della Conferenza di Potsdam, il 17 luglio 1945, Stalin mostrò a Truman un messaggio che gli era stato appena recapitato da Mosca. Annunciava l’arrivo nella capitale sovietica dell’ex primo mini­ stro giapponese Fumimaro Konoye, inviato dall’imperatore Hirohito latore della richiesta di mettere fine alla guerra. Nel suo passaggio fondamentale il messaggio diceva testualmente: «(...) Sua Maestà Impe­ riale è profondamente colpita dal numero di vittime che s’accresce giorno dopo giorno e dai sacrifici sempre più grandi che i cittadini dei diversi paesi impegnati nel conflitto devono affrontare. Il suo cuore desidera la conclusione rapida di questa guerra». Spogliata di tutti i suoi orpelli edificanti, questa era una offerta di capitolazione bella e buona. Stalin chiese a Truman se si dovesse rispondere positivamente al messaggio e il presidente americano si oppose fermamente. Truman aveva appena ricevuto la notizia che la prima bomba atomica era esplosa “in modo soddisfacente” . Ma si era trattato di una esplosione al suolo di componenti nucleari e non dell’esplosione in aria di una vera 37

bomba. Il presidente americano attendeva ancora di conoscere i partico­ lari sul volume di fuoco sprigionato dalla prima “bomba A ” e sulla possibilità che potesse essere impiegata sul campo come arma operativa. Il tono dei rapporti fra la delegazione americana e quella sovietica era stato fino a quel momento cordiale. Tale rimase ancora per qualche giorno. Ma d’improvviso, il 21 luglio, come ricorda lo stesso Churchill, il presidente americano cambiò repentinamente modo di fare nei riguardi dei Sovietici, assumendo toni da dominatore. Nelle discussioni con la parte sovietica, aveva più l’aria di impartire ordini che di cercare punti d’intesa. Il motivo è presto detto: un aereo speciale aveva portato da Washington un rapporto completo segretissimo sull’esplosione atomica sperimentale, in cui il ministro della Difesa Stimson descriveva l’immen­ sa potenza dell’ordigno, risultata molto superiore a quella prevista dai calcoli dei fisici teorici ('). La politica americana disponeva ora dell’arma assoluta: un’arma tal­ mente distruttiva da mettere il mondo in ginocchio. Gli Stati Uniti, e soltanto gli Stati Uniti, possedevano la bomba atomica. Truman affrontò con i Sovietici il tema della nuova arma solo a conferenza pressoché conclusa, lasciando cadere l’annuncio quasi inci­ dentalmente e senza nominare la parola “atomo”. Come lo stesso Tru­ man racconta nelle sue memorie: «Il 24 menzionai con aria noncurante a Stalin che noi avevamo un’arma nuova di potenza distruttiva inusitata. Il “premier” russo non manifestò alcun interesse particolare. Tutto ciò che disse fu che era contento di saperlo e che si augurava che ne avremmo fatto buon uso contro i Giapponesi». Il presidente impartì l’ordine di sganciare le atomiche sul Giappone lo stesso giorno 24, cioè poco dopo o poco prima della sua conversazione con Stalin. Dal testo dell’ordine si ricava indirettamente il perché Tru­ man aveva chiesto a Stalin di non rispondere all’offerta di resa dell’impe­ ratore giapponese: voleva il tempo per poter dare al mondo, e prima di tutto ai Sovietici, una dimostrazione pratica dell’efficacia terroristica della nuova arma. L’ordine esecutivo comprendeva una rigorosa racco­ mandazione al generale Cari Spaatz, comandante delle forze armate strategiche, sul mantenimento del più assoluto segreto relativamente all’arma atomica e ai suoi effetti (2). L ’indifferenza di Stalin al velato annuncio di Truman era solo appa­ rente. Il leader sovietico sapeva benissimo che si trattava dell’arma atomica e forse ne sapeva di più dello stesso Truman. I servizi segreti sovietici seguivano da presso gli esperimenti americani fin dal 1942. Perché Stalin lasciò deliberatamente cadere l’argomento? È probabile che ritenesse di avere già sufficienti informazioni. Ciò che voleva evitare era di dover affrontare con il presidente americano l’argomento del 38

punto in cui erano giunte le ricerche atomiche sovietiche. Non voleva fornire informazioni. Il lettore ne scoprirà il motivo leggendo più avanti il capitolo dedicato alla bomba sovietica. Si era già entrati nell’era della “diplomazia atomica”. In definitiva si può dire che quell’ambiguo annuncio di Truman a Stalin conteneva già in sé la prima minaccia nucleare rivolta all'Unione Sovietica. Stalin colse fulmineamente il messaggio. Subito dopo l’incontro con Truman convo­ cò il maresciallo Zhukov e gli ordinò: «Bisogna accelerare» (3). Subito dopo essere tornato a Washington, Truman ordinò al generale Eisenhower di predisporre un piano ultra segreto per una possibile guerra totale contro l’Unione Sovietica. Eisenhower assegnò al piano d’attacco americano contro l’URSS la denominazione in codice di piano Totality (4). Lo storico militare inglese John Bradley ha commentato in seguito che forse questa era la prima volta nella storia in cui un membro di una alleanza concepiva un piano di attacco contro uno dei suoi alleati nel momento stesso in cui celebravano una comune vittoria. Una delle riserve mentali con cui erano state concepite da Roosevelt e da Churchill le Nazioni Unite cominciava a manifestarsi in chiaro: i gendarmi doveva­ no possibilmente ridursi da cinque a quattro mediante l’eliminazione chirurgica del gendarme sovietico. L’arma atomica apriva potenzialità impreviste alla filosofia del bombardamento.

3. IL MESSAGGIO DI HIROSHIMA

Il 6 agosto 1945, quarantuno giorni dopo che gli Stati Uniti avevano fatto approvare e sottoscrivere a San Francisco il loro schema per le Nazioni Unite e la “Carta” con la quale si bandiva in linea di principio il ricorso alla violenza bellica nelle relazioni fra Stati, e quattro giorni dopo la conclusione della Conferenza di Potsdam, l’aviazione americana di­ strusse la città giapponese di Hiroshima, di 340.000 abitanti, con la prima bomba atomica usata dall’uomo sull’uomo nella storia dell’umanità. A lle 8,15 del mattino tre bombardieri B-29 provenienti da nord a 8.500 metri di quota apparvero improvvisamente nel cielo. Uno di essi si staccò dalla formazione e scese in picchiata sulla città, sganciando una unica bomba di potenza pari a 12,5 chilotoni diTNT, al nucleo di uranio. Dopo una caduta di circa un minuto, la bomba esplose a 564 metri d’altezza con una terrificante detonazione producendo una sfera di fuoco di centinaia di metri di diametro formata di gas roventi, a una temperatura di oltre 300.000 gradi. Come un’idra a tre teste, la bomba produsse tre tipi di forze distrutti­ ve: un’onda d’urto di violenza enorme, procedente alla velocità del suono, che appiatti al suolo tutti gli edifici per un raggio di due chilome­ tri; raggi termici con una temperatura superiore a quella della superficie solare, che produssero bruciature sulle parti esposte dei corpi umani fino a una distanza di 3 chilometri e mezzo; e radiazioni propagatesi con la velocità della luce, la cui efficacia mortale era destinata a perdurare nel tempo. Il 35% dell’energia totale prodotta dalla bomba consisteva in raggi termici, circa il 50% dell’energia era contenuto nell’onda d’urto esplosiva, e circa il 15% era energia radioattiva. Una colonna di fumo a forma di fungo si levò pressoché istantaneamente dal centro dell’esplosione e sali a 3.000 metri di altezza in 48 secondi, e in otto minuti e mezzo raggiunse i confini fra la troposfera e la stratosfera. Circa 20 minuti dopo l’eplosione, su Hiroshima si sviluppò una tempe­ sta di fuoco causata dalla rarefazione deH’aria sovrastante la zona colpita dalla bomba; si manifestò con un forte vento proveniente da tutte le direzioni verso il centro della zona colpita. Il vento raggiunse una veloci­ tà massima di 60 chilometri circa due o tre ore dopo l’esplosione e perdurò diminuendo di intensità per circa 6 ore, cambiando più volte 40

direzione, sollevando le lamiere zincate dei tetti, tizzoni ardenti e mate­ riali infiammati che mulinavano e ricadevano qua e là portando distruzio­ ne e morte. Il vento fu accompagnato da una pioggia intermittente, densa e vischiosa, provocata dalla condensazione del vapore acqueo contenuto nella massa d’aria ascendente. Leggera al centro e più forte a circa 1.200 metri dal punto zero, verso nord e verso ovest, la pioggia, definita dalla voce popolare “la pioggia nera”, determinò la ricaduta a terra di particelle radioattive di cui la nube atomica era carica e fu causa di un numero enorme di vittime per contaminazione. Dosi mortali di radiazione iniziale ricaddero fino a 1.200 metri dal punto zero. Dosi di radiazione semi-mortale di 400 curies furono constatate a distanze molto maggiori. La tempesta di fuoco fece si che ogni materiale o struttura combustibile fossero distrutti. Decine di migliaia di persone morirono istantaneamente. Migliaia di esseri umani, i più vicini al centro delle esplosioni, letteralmente scom­ parvero, dissolte dal fuoco atomico. Nel corso delle due prime settimane dopo i bombardamenti, il numero dei morti, compresi quelli periti all’istante, superò i 150.000-160.000. Alla fine di dicembre del 1945 il numero delle vittime prodotte dalla “malattia atomica” aveva portato a un totale di 190.000-230.000 (130.000-150.000 per Hiroshima e 60.00080.000 per Nagasaki). Quando la radio giapponese in lingua inglese “Tokio Rose” annunciò che gli effetti delle radiazioni facevano molti morti fra i sopravvissuti alle esplosioni, gli ambienti ufficiali a Washington manifestarono viva sor­ presa. Quando il rapporto sui decessi e le malattie causate dalle radiazio­ ni giunse a Washington, i capi militari respinsero l’informazione definen­ dola «propaganda giapponese» non corrispondente «ad alcun dato scientifico conosciuto». Da allora si discute su due dubbi: l’uno che gli scienziati, i politici e i militari sapessero poco della bomba quando decisero di utilizzarla; l’altro, che sapessero tutto e che abbiano agito con efferato cinismo. Ciò che vi è di certo è che la malattia atomica ha continuato a mietere in Giappone decine di migliaia di vittime negli anni e nei decenni successivi. Il responsabile militare del progetto per la bomba atomica riferì al Senato americano sui danni inferti: «A Hiroshima fu praticamente arsa e distrutta ogni cosa entro un raggio di due chilometri dal punto dello scoppio. Fra i 2 e i 3 chilometri dal punto dell’esplosione la distruzione fu totale, e i danni da incendio parziali. Da 3 fino a 5 chilometri di raggio, ogni cosa venne distrutta al 50%. Oltre un raggio di 5 chilometri i danni furono abbastanza lievi, con rottura dei tetti fino ad una distanza di 8 chilometri. I vetri si ruppero fino ad un raggio di 20 chilometri» ('). Harry Truman, che attendeva informazioni a bordo dell’incrociatore 41

Augusta al largo della coste atlantiche degli Stati Uniti commentò: «È il più grande giorno della storia». Nella notte fra il 6 e il 7 agosto parlò alla radio per annunciare: «È una bomba atomica. Abbiamo dominato l’e­ nergia fondamentale dell’universo. La forza da cui il sole trae la sua potenza è stata lanciata contro coloro che hanno portato la guerra in Estremo Oriente». A lle 11,02 del 9 agosto 1945, tre giorni dopo, una seconda bomba atomica, questa al nucleo di plutonio e di una potenza quasi doppia rispetto a quella di Hiroshima, pari a 22 chilotoni di TNT, fu sganciata sulla città di Nagasaki, popolata di 195.000 abitanti. Lo stesso giorno, conformemente agli impegni presi a Yalta, l’URSS dichiarò guerra al Giappone. Il 10 agosto Truman parlò di nuovo alla radio. Dopo una esposizione ottimistica della situazione internazionale all’indomani della Conferenza di Potsdam e un breve commento sull’entrata delle truppe sovietiche in Manciuria, il presidente illustrò agli Americani l’importanza dell’impie­ go della nuova bomba. Nello stesso tempo, il messaggio radiofonico forniva al mondo una indicazione inequivoca su ciò che vi era da atten­ dersi dagli Stati Uniti: «(...) In questi primi attacchi desideravamo evitare quanto più possibile di uccidere dei civili. Ma non è che un avvertimento. Se il Giappone non si arrenderà, altre bombe saranno sganciate sulle sue industrie belliche e, purtroppo, migliaia di civili moriranno. Invito i Giapponesi ad abbandonare immediatamente le città industriali e a sottrarsi alla distruzione. La bomba atomica è troppo pericolosa per essere consegnata ad un mondo senza legge. Per questo motivo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada, che possiedono il segreto della sua produzione, non hanno l’intenzione di rivelarlo, fino a che non si saranno trovati i mezzi per controllare questa bomba e per proteggerci, noi e il resto del mondo, da una distruzione totale. Ci costituiamo in depositari di questa nuova forza, al fine di evitare che ne sia fatto un uso pericoloso, e per orientarne l’utilizzo per il bene dell’u­ manità». La frase conclusiva conteneva una esplicita affermazione di egemonia universale di cui l’arma nucleare si annunciava come lo strumento: «Siamo in grado di dire che usciamo da questa guerra come la nazione più potente del mondo. La nazione più potente, forse, di tutta la storia» (2). Era la proclamazione della “Pax americana”, divenuta poi sinonimo di guerra atomica. Il numero complessivo delle perdite umane causate dai due bombardamenti non ha mai potuto essere stabilito con esattezza, ma si dà la cifra di 300.000 morti come la più vicina alla realtà. La questione se l’uso deH’arma atomica sul Giappone con il sacrificio 42

di trecentomila vite sia stato o no militarmente necessario per ottenerne la resa è una di quelle che più hanno tormentato le generazioni che sono state testimoni delFawento dell’era atomica. Abbiamo visto nel capitolo precedente che Stalin a Potsdam comunicò a Truman l’intenzione di resa dell’imperatore Hirohito. Ma il governo americano aveva già ricevuto in giugno direttamente, attraverso un canale diplomatico portoghese, un’offerta di resa immediata del Giappone. La sola condizione posta era che fosse preservata la monarchia nipponica. Le due bombe atomiche furono sganciate sul Giappone, ma chi era il vero destinatario? La ricerca storica ha seppellito l’idea che il lancio delle due atomiche possa avere avuto come obiettivo quello di costringere il Giappone alla resa. Giova forse insistere brevemente sull’argomento per sgomberare il terreno da ogni dubbio. Già il rapporto finale dell’aviazione statunitense sul bombardamento di Hiroshima e Nagasaki (3) smentì le tesi ufficialmente sostenute da Truman secondo le quali i Giapponesi si erano arresi solo dopo aver constatato la propria impotenza di fronte alla forza distruttiva della bomba atomica. Il rapporto affermava testualmente che «(...) certamen­ te prima del 31 dicembre 1945 e con ogni probabilità prima del 1° novembre 1945 [data prevista per l’“Operazione Olympic”, cioè per l’invasione del Giappone da parte dell’esercito degli Stati Uniti] i Giap­ ponesi si sarebbero arresi anche se la bomba atomica non fosse stata usata e anche se nessuna invasione fosse stata contemplata». Questa conclusione era confermata anche dalla prima stesura originale del rap­ porto finale dell’esercito sulla guerra condotta contro il Giappone. Il rapporto rivelava che l’Alto Comando giapponese aveva già preso la decisione di arrendersi il 26 giugno 1945, più di un mese prima del bombardamento di Hiroshima. Tutti i documenti militari un tempo segreti e ora divenuti di pubblico dominio smentiscono la pretesa di Truman che l’atomica sia servita a salvare le vite di un milione di soldati americani. Il Comitato degli Stati Maggiori Riuniti per la pianificazione della guerra era giunto alla conclusione già il 15 giugno 1945, due mesi prima di Hiroshima, che l’Operazione Olympic di invasione dell’isola giapponese di Kyushu prevista per il 1° novembre 1945, sarebbe costata forse 20.000 morti. Se ciò non fosse bastato a determinare il crollo finale del Giappone, un secondo sbarco nelle pianure di Tokyo avrebbe dovuto aver luogo intorno al 1° marzo 1946. Anche per questa seconda operazio­ ne i pianificatori prevedevano perdite non superiori a 20.000 uomini. Ma questi documenti sono rimasti inaccessibili per decenni. Truman conti­ nuò invece incessantemente a gonfiare le cifre. Quando era presidente diceva che le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano salvato le vite di 43

250.000 uomini; nel 1955 dichiarò che ordinando il bombardamento atomico aveva salvato le vite di mezzo milione di uomini, e fini per sostenere che la “saggia” decisione di atomizzare 300.000 Giapponesi aveva impedito a un milione di Americani di morire nell’invasione del Giappone (4). Già nel 1948 il fisico inglese Blackett nel suo studio Military and Politicai Consecuences ofA tom ic Energy, Conseguenze militari e politi­ che dell’energia nucleare, era giunto alla conclusione, analizzando tutti i dati conosciuti fino a quel momento, che il bombardamento di Hiroshi­ ma e Nagasaki non aveva avuto alcun valore militare. Blackett fu poi seguito in questa interpretazione dei fatti da altri scrittori, anche americani, come Norman Cousin e Thomas Finletter. Q uest’ultimo era un uomo dell’establishment e fu a capo prima dell’Air Policy Committee e poi della missione per il Piano Marshall a Londra. Il ragionamento che questi autori, di ispirazione ideologica molto differente fra loro, sviluppano, è a un dipresso il seguente: all’inizio dell’agosto 1945 la motivazione originale della “corsa alla bomba”, vale a dire il timore di vedere la Germania nazista vincere la competizione scientifica e tecnologica, non esisteva più. Hitler si era suicidato e la guerra in Europa era finita da due mesi. Il Giappone era già vinto e pronto a firmare la resa. La flotta e l’aviazione giapponesi erano state praticamente distrutte e gli aerei americani dominavano sia il territorio che le acque costiere del Giappone. Esistevano ancora un forte esercito sul territorio nazionale e l’armata del Kwantung dislocata in Manciuria, ma già a Tokio si discuteva dell’opportunità di arrendersi. L’invasione del territorio giapponese non era prevista prima del novembre 1945. È evidente che non esistevano motivi urgenti di carattere militare che potessero giustificare tanta precipitazione nell’impiegare le bombe ato­ miche. Precipitazione è il termine esatto. Soltanto tre settimane separa­ rono il giorno in cui si accertò che era possibile usare la bomba atomica da quello in cui essa fu effettivamente impiegata contro il Giappone. Senza dubbio, in tutta la storia della tecnica militare, non vi è altro esempio di una simile precipitazione nell’uso di una nuova arma. Stimson rivelò successivamente che quelle bombe erano le uniche in possesso degli Stati Uniti in quel momento e che la fabbricazione procedeva molto lentamen­ te. Quali furono, quindi, i motivi di tanta fretta? Secondo gli autori menzionati un’altra considerazione si aggiunge per portarci alla conclusione che Truman e i suoi generali furono sospinti da una fretta diabolica derivante da motivi inconfessati. I governanti di Washington potevano facilmente prevedere le ripercussioni sfavorevoli che avrebbe avuto in tutto il mondo l’uso di un’arma cosi terrificante contro le popolazioni civili. Senza dubbio, i dirigenti americani dovette­ 44

ro rendersi conto della tremenda responsabilità che gli Stati Uniti si assumevano impiegando la bomba atomica e delle incalcolabili conse­ guenze che una tale decisione avrebbe avuto nel futuro. Il rapporto sugli «Aspetti sociali e politici della scoperta dell’energia atomica», steso dal cosiddetto “Comitato Franck” (5) e presentato al presidente degli Stati Uniti nel giugno del 1945, già ammoniva esplicitamente il governo a non usare la bomba atomica sulla popolazione civile. Questo Comitato com­ prendeva i più quotati fisici atomici americani e, certamente, aveva a Washington una considerevole influenza. Perché presidente, governo e Stato Maggiore si siano risolti a passar sopra a una cosi autorevole raccomandazione, i motivi devono forzatamente essere stati gravi, impellenti e non di ordine militare. I tre autori identificano questa motivazione nell’impegno che l’Unione Sovietica aveva assunto di intervenire contro il Giappone tre mesi dopo la fine della guerra in Europa. Tale impegno scadeva F8 agosto 1945. Ecco come Blackett descrive le considerazioni che portarono gli strate­ ghi di Washington alla decisione di bombardare: «Si consideri la situazio­ ne quale dovette apparire a Washington sulla fine del luglio 1945. Dopo una lotta vittoriosa, ma aspramente combattuta, le forze americane avevano distrutto la marina giapponese e la flotta mercantile, gran parte dell’aviazione e molte divisioni dell’esercito, ma non si erano ancora scontrate con il grosso delle forze terrestri. Se le bombe non fossero state lanciate, la progettata offensiva sovietica in Manciuria, cosi a lungo richiesta e cosi favorevolmente accolta (almeno ufficialmente), avrebbe comunque raggiunto i suoi scopi secondo i piani prestabiliti. Doveva averlo previsto chiaramente l’Alto Comando alleato, che ben conosceva la grande superiorità delle armate sovietiche in mezzi corazzati, artiglie­ rie e aviazione. Senza il lancio delle bombe, l’America avrebbe visto le armate sovietiche impegnare in battaglia la maggior parte dell’esercito giapponese, invadere la Manciuria e fare mezzo milione di prigionieri. E tutto questo sarebbe accaduto mentre l’esercito americano si trovava lontano dal territorio nipponico, a Iwojima e Okinawa» (6). Ecco perché in tutta fretta le due bombe atomiche — le uniche esistenti — furono trasportate attraverso il Pacifico per essere sganciate su Hiroshima e Nagasaki, appena in tempo per ottenere che il governo giapponese si arrendesse unicamente alle forze americane. Questa, per Blackett, fu la ragione reale per cui venne usato precipito­ samente tutto l’arsenale atomico esistente su Hiroshima e Nagasaki: fare in modo che il Giappone si arrendesse esclusivamente a MacArthur e all’esercito degli Stati Uniti. L’offensiva sovietica segui vittoriosamente il corso prestabilito, ma passò quasi inosservata tra la sensazione destata nel mondo dallo sganciamento delle due atomiche. Senza l’offensiva 45

nucleare americana sarebbe toccato all’Armata Rossa sconfiggere sul campo di battaglia il grosso delle forze terrestri giapponesi. In tal caso la dimensione della vittoria ottenuta dall’Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale si sarebbe ingigantita e l’influenza dell’URSS si sarebbe grandemente estesa in Oriente e in tutto il mondo. Il bolscevismo sareb­ be stato il vero trionfatore del conflitto. Anche Cousins e Finletter hanno portato validi argomenti a favore della tesi secondo la quale il motivo fondamentale della decisione di impiegare le bombe atomiche contro il Giappone fu di natura politica e non militare. Parlando dal punto di vista americano si sono chiesti innanzitutto se sarebbe stato possibile dare ai Giapponesi e al mondo una dimostrazione della potenza delle atomiche mediante un esperimento effettuato sotto il controllo delle Nazioni Unite per presentare poi un ultimatum al Giappone, rovesciando cosi sui Giapponesi stessi il peso della responsabilità. La risposta al quesito è negativa. Per Cousins e Finletter non c’era più tempo sufficiente, tra il 16 luglio, data dell’esperimento nel Nuovo Messico che dimostrò la possibilità di usare la bomba, e l’8 agosto, data in cui scadeva l’impegno preso dall’Unione Sovietica a intervenire contro il Giappone, per fare tutti i complicati preparativi richiesti da una esplosione atomica sperimentale. E concludono: «No, era impossibile effettuare un esperimento del genere se lo scopo reale era quello di mettere in ginocchio il Giappone prima che la Russia intervenis­ se». Senza falsi pudori i due autori, che come ripetiamo vedono le cose dal punto di vista americano, scoprono le carte, giustificando pienamen­ te la distruzione esemplare di Hiroshima e Nagasaki ed esplicitandone il vero motivo. Dicono infatti: «E si può sostenere che questa decisione era giusta; che si trattava del legittimo esercizio della politica di potenza in un mondo crudele e tempestoso; che, agendo cosi, abbiamo evitato una lotta per il controllo effettivo del Giappone, quale vi è stata invece in Germania e in Italia; infine, che se noi non fossimo usciti dalla guerra in netto vantaggio sulla Russia, non avremmo avuto nessuna possibilità di opporci alla sua espansione» (7). In base a tutte queste considerazioni, è difficile non condividere la conclusione, cui giunge Blackett, che «il lancio delle bombe atomiche, più che l’ultimo avvenimento militare della seconda guerra mondiale, rappresenta il primo atto della guerra fredda contro l’Unione Sovietica». Questa interpretazione delle origini della guerra fredda è ormai ben documentata e sostenuta da tutta una nuova generazione di storici quali Gar Alperowitch, Barton J. Bernstein, Gregg Herken, Martin J. Sherwin e Daniel Yergin. Sarebbe ozioso insistere sull’argomento e rimandia­ mo i lettori a questi autori per maggiore documentazione.

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4. U N ’IDEA CHE VENIVA DA LONTANO

Quando era nata realmente l’idea di usare l’arma atomica per annien­ tare il bolscevismo? Questo non è più un interrogativo almeno dal 1984. Converrà aprire una parentesi per ricordare un episodio significativo. Sul finire di quell’anno il principe Saddrudin Aga Khan, presidente del “Gruppo di Bellerive”, convocò a Ginevra una conferenza con la parte­ cipazione di 200 scienziati, accademici e diplomatici chiamati a discutere sulla guerra nucleare, la proliferazione e le sue conseguenze. Per gli Stati Uniti era presente Richard Perle, vice ministro della Difesa incaricato dei problemi della sicurezza nazionale, e strenuo difensore della supre­ mazia nucleare americana (nel 1984 il monopolio nucleare americano era da tempo finito). L’ultimo giorno della conferenza Perle prese la parola e fece una tirata antisovietica di quelle che non si sentivano spesso a Ginevra, città della diplomazia. Per parte sovietica erano presenti Georgiy Arbatov, celebre scienziato membro dell’Accademia delle Scienze di Mosca, e Anatoly Gromyko, figlio di Andreij Gromyko che in quel momento era presidente dell’URSS. Arbatov prese la parola per rispon­ dere a Perle, lanciando un’accusa di fuoco: «Lo scopo del bombarda­ mento atomico di Hiroshima e Nagasaki non è stato tanto la sconfitta del nemico, il Giappone, quanto l’intimidazione dell’alleato, l’Unione So­ vietica» . Fin qui, nulla di nuovo: normale polemica da guerra fredda. Ma dopo Arbatov prese la parola Joseph Rotblatt, uno degli scienziati che sotto la guida di Robert Oppenheimer avevano costruito la bomba atomica, autorità, quindi, indiscutibile. Rotblatt, fra lo stupore degli astanti, compresi i rappresentanti sovietici, raccontò che nel marzo del 1944, quando ancora la bomba era solo formule e calcoli, il generale Groves lo aveva informato che lo scopo finale della costruzione dell’arma nucleare era l’Unione Sovietica. Rotblatt riferì le parole esatte di Gro­ ves: «Voi capite benissimo, ovviamente, che l’obiettivo reale della fab­ bricazione della bomba è quello di soggiogare i nostri nemici principali, i Russi» ('). L ’idea di attaccare l’URSS veniva dunque da lontano. Il piano Totality sviluppava pertanto una tendenza quasi naturale dei militari americani. L’idea che l’URSS dovesse diventare il nuovo nemico degli Stati Uniti era corrente negli alti comandi statunitensi già prima che la seconda guerra mondiale terminasse. Nel suo Preparing for thè Next Al

War Michael S. Sherry riferisce che nel corso della stessa Conferenza di Potsdam il generale Henry Arnold, che era al seguito di Truman come consigliere, «riteneva che il nostro primo nemico dovesse essere la Russia» (2). Numerosi generali nelle loro discussioni interne giungevano a invocare una immediata prova di forza contro l’Unione Sovietica. La decisione di avviare lo studio per il piano Totality andava nella direzione auspicata dagli Stati Maggiori. Costituì il primo approccio al problema. L ’era atomica era appena iniziata, non esistevano esperienze precedenti alle quali fare riferimento. Non vi erano ancora studi specifici sulla reale capacità distruttiva della bomba e tantomeno sugli effetti differenziati dell’arma nucleare sui vari tipi di materiali e sulle persone. Vi erano delle differenze notevoli fra i due obiettivi giapponesi colpiti e quelli che sarebbero stati eventualmente gli obiettivi sovietici. Nelle città giappo­ nesi molte delle abitazioni erano costruite in legno, le città sovietiche erano invece in cemento armato, pietra e ferro. I Sovietici ebbero il primo rapporto dettagliato diretto sulle capacità devastanti di una bomba atomica dal giornalista australiano Wilfred Burchett, che seguiva la guerra in Estremo Oriente come corrispondente del giornale inglese Daily Express e che giunse a Hiroshima alla fine di agosto. Conosciamo il tenore delle cose che Burchett fece sapere a Mosca dall’articolo che parallelamente questi scrisse per il Daily Ex­ press, che lo pubblicò il 5 settembre 1945 con il titolo “The Atomic Plague” , La peste atomica, e un sottotitolo che rifletteva la sua emozio­ ne: «Ciò che scrivo è un avvertimento per il mondo intero». «A Hiroshima — raccontava Burchett — poco meno di un mese dopo 10 scoppio della prima bomba atomica che distrusse la città e fece tremare 11 mondo, gente non toccata direttamente dal cataclisma sta morendo ancora, misteriosamente, orribilmente, per un male sconosciuto per il quale non trovo altro nome che quello di peste atomica. Hiroshima non assomiglia a una città bombardata. Fa pensare a una città sulla quale sia passato un enorme rullo compressore che l’abbia stritolata, annientata per sempre (...) Negli ospedali ho scoperto persone che, pur non avendo ricevuto alcuna ferita al momento dell’esplosione, stavano tuttavia mo­ rendo per i suoi misteriosi effetti. Senza apparente ragione cominciano a sentirsi male, perdono l’appetito, gli cadono i capelli, sui loro corpi appaiono macchie bluastre. Quindi cominciano a sanguinare, dalle orec­ chie, dal naso e dalla bocca. A ll’inizio i medici attribuivano questi sintomi a una debolezza generale dell’organismo e somministravano ai pazienti della vitamina A per mezzo di iniezioni. L’effetto era orribile. La carne prendeva a marcire attorno al buco fatto dall’ago della siringa. Ogni volta tutto ciò è terminato con la morte della vittima. Questo è uno degli effetti a distanza della prima bomba atomica lanciata dall’uomo 48

sull’uomo, e quello che ho visto mi è bastato (...)». Burchett terminava con un calcolo approssimativo delle perdite prodotte da un solo ordigno, secondo le incerte informazioni fornitegli dai Giapponesi sul posto: «(...) Sono stati contati 53.000 morti, 30.000 altre persone sono date com e scomparse, il che significa senza dubbio possibile che sono anch’esse morte. Durante la giornata che ho trascorso a Hiroshima 100 persone sono morte per gli effetti della bomba: facevano parte dei 13.000 feriti gravi fatti dall’esplosione. Muoiono al ritmo di circa un centinaio al giorno e verosimilmente sono tutti condannati. Ce ne sono altri 40.000 che risultano feriti (...)» (3). Fu soltanto il 13 settembre che sulla stampa americana apparve la prima risposta alle accuse di Burchett. Sotto il titolo “No Radioactivity in Hiroshima Ruin” , Non c’è radioattività nelle rovine di Hiroshima, il New Y ork Times pubblicò una corrispondenza “via radio” a firma William H. Lawrence, inviato speciale che faceva parte del gruppo di giornalisti «accreditati presso le forze americane» sul fronte giapponese. Lawrence era nello stesso tempo responsabile delle relazioni pubbliche del Proget­ to Manhattan ed era stato il solo giornalista ammesso ad assistere a Los Alam os al primo esperimento atomico e l’unico a presenziare al bombar­ damento di Nagasaki da bordo dell’aereo che aveva sganciato la bomba Mark-III. Diceva esattamente Lawrence sul New York Times: «Il gene­ rale di brigata T. F. Farrel, presidente della Commisione per la bomba atomica del ministero della Guerra ha dichiarato questa sera, dopo aver ispezionato le rovine di Hiroshima, che la potenza esplosiva deH’arma segreta era ancora più grande di quanto i suoi inventori avessero immagi­ nato, ma ha negato categoricamente che la bomba abbia sviluppato una pericolosa radioattività persistente nelle rovine della città o che abbia provocato una specie di gas mortale al momento dell’esplosione. Il generale ha specificato che il 9 settembre, data nella quale l’ispezione era cominciata, il suo gruppo di specialisti non aveva trovato alcuna traccia di radioattività residua nella zona distrutta e che, a suo giudizio, non vi era alcun pericolo a risiedervi, attualmente». In un altro articolo pubbli­ cato nello stesso numero del giornale, ma separatamente, Lawrence, negando ancora la presenza di radiazioni nei luoghi delle esplosioni atomiche, aggiungeva il seguente commento: «I Giapponesi pretendono che vi siano stati dei morti a causa delle radiazioni. Se ciò è vero sono stati molto pochi. E se vi sono state delle radiazioni sono state emesse durante l’esplosione, e non dopo (...) Un esame delle loro dichiarazioni rivela che i Giapponesi mantengono la loro propaganda su questa linea per creare l’impressione cha abbiamo vinto la guerra in maniera sleale e per tentare di ottenere condizioni meno dure» (4). Oggi, quasi cinquant’anni dopo, ne sappiamo abbastanza sull’energia 49

atomica per comprendere che queste dichiarazioni ingannevoli costitui­ vano non una semplice falsità, ma un delitto contro l’umanità. A giudicare dalla scarsità delle informazioni pubblicate dai due grandi quotidiani Pravda e Izvestia, l’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima non suscitò alcuna particolare emozione a Mosca. Izvestia, giornale della sera, si accontentò di pubblicare in quarta pagina, senza commenti, il dispaccio dell’agenzia Tass sulla dichiarazione fatta alla radio da Truman la notte del 6 agosto. La stessa cosa fece la Pravda. Il 9 agosto i due quotidiani annunciarono in prima pagina l’entrata in guerra dell’URSS contro il Giappone, ma non fecero alcuna menzione della seconda bomba atomica lanciata su Nagasaki. Poiché la città era stata bombardata alle 11 del mattino, corrispondenti alle 5 del mattino a Mosca, grazie alla differenza oraria Izvestia, come giornale del pomerig­ gio, avrebbe avuto la possibilità di dare la notizia, e non la diede. Soltanto il 16 agosto Izvestia, a proposito del ruolo avuto dall’Armata Rossa per indurre il Giappone alla capitolazione, diede un giudizio sulla bomba atomica: «Certi giornali americani tentano di ridurre l’apporto dell’U nione Sovietica alla causa comune degli Alleati. Il giornale di New York Daily News, ad esempio, si riempie la bocca di parole vuote nei seguenti termini: “Avremmo potuto vincere la guerra con le sole bombe atom iche” . La sensazione provocata dalla bomba atomica è stata sicura­ mente per certi borghesi ottusi il classico albero che nasconde la foresta. Conviene ricordare loro la sensata riflessione di lord Mountbatten, che in una conferenza stampa a Londra, il 9 agosto, ha dichiarato: “Sarebbe un’assoluta stupidaggine supporre che la bomba atomica possa da sola mettere fine a una guerra”» (5). Wilfred Burchett fu autore di uno dei più grandi scoop di tutta la storia del giornalismo, arrivando avventurosamente a Hiroshima due giorni dopo la capitolazione del Giappone (che firmò la resa il 2 settembre 1945) e prima dei generali americani. Se avesse tardato, non avrebbe mai potuto raggiungere Hiroshima. I primi reparti di soldati americani giun­ sero a occupare fisicamente Hiroshima e Nagasaki solo il 3 ottobre 1945, otto settimane dopo il bombardamento. I resoconti diretti sugli effetti della bomba atomica giunsero all’opinione pubblica americana soltanto nel tardo autunno di quell’anno e, benché fossero tutti di inviati speciali sotto tutela dell’esercito, produssero una reazione d’orrore. L’uso di un’arma di sterminio indiscriminato cosi distruttiva suscitò una tale avversione nel senso comune della gente che i militari si sentirono obbligati a prendere delle misure per impedire la circolazione delle informazioni sugli effetti dell’arma nucleare. Sul duplice bombardamen­ to atomico calò la politica dell’oblio. Le due città furono rese inaccessibi­ li a qualunque visitatore non appartenente ai corpi statunitensi specializ­ 50

zati. Tra l’ottobre e il novembre 1945 tutti gli ospedali e le cliniche giapponesi che ospitavano vittime “atomizzate” furono censiti dalle autorità di occupazione. Il 14 ottobre 1945 una speciale autorità militare fece chiudere anche l’ospedale giapponese per lo studio e il trattamento delle malattie atomiche di Ujina. Tutto il materiale di studio fu requisito; furono confiscati i reperti anatomici ricavati dai cadaveri delle vittime, e tutte le fotografie, i film, i documenti. I medici giapponesi ricevettero l’imposizione di non parlare neanche con i cittadini americani dei risultati delle loro osservazioni sulle conseguenze dei bombardamenti atomici sull’uomo. I primi trattati di studiosi giapponesi sulle patologie provoca­ te dalle atomiche uscirono pressoché clandestini. Fino alla fíne dell’occu­ pazione americana del Giappone, nel 1951-1952, neppure a Hiroshima fu possibile avere un quadro preciso delle malattie croniche da radiazioni e delle malattie postume imputabili alla bomba. U n distaccamento speciale dei corpi medici militari era stato costituito da tempo e aveva cominciato a operare fin dai primi studi sulla bomba, seguendo il lavoro degli scienziati, ed era stato attivo a Los Alamos durante la costruzione dell’atomica. Il reparto giunse in forze ad Hiroshi­ ma con i primi soldati destinati al presidio della zona, con un duplice scopo, prodigare cure ai sopravvissuti ed effettuare ricerche precise sugli effetti patologici a breve, medio e lungo termine del bombardamento nucleare. In seguito venne formata una Commissione mista di ricerca nippo-americana di medici e biologi, che nel 1947 si trasformò in un organismo permanente, PAtomic Bomb Casualty Commission (ABCC), Commissione sulle vittime della bomba atomica, trasformatasi più tardi nella Radiation Effects Research Foundation, Fondazione per la ricerca sugli effetti delle radiazioni. Tale servizio, che possiede importanti labo­ ratori di ricerca, è sostenuto dall’Accademia delle Scienze di Washington e dall’Istituto Nazionale della Sanità di Tokio e lavora in collaborazione con l’Hiroshima Atomic Bomb Hospital, Ospedale della Bomba Atomi­ ca di Hiroshima che ancor oggi, a distanza di 49 anni, continua a curare gente affetta dalle conseguenze del bombardamento. I ricercatori stra­ nieri sono stati ammessi solo raramente ai lavori di queste istituzioni, il cui scopo fu quello di monopolizzare, fino agli anni ’50, a beneficio degli Stati Uniti le informazioni sugli effetti delle radiazioni sprigionate dalle bombe atomiche e soffocare la loro diffusione negli Stati Uniti, in Giap­ pone e nel mondo. La politica dell’oblio funzionò perfettamente. Gradualmente la que­ stione passò in secondo piano agli occhi dell’opinione pubblica. L’allora Capo di Stato Maggiore generale Dwight Eisenhower contribuì ad argi­ nare le paure delle masse americane con una dichiarazione solenne, resa alla fine dell’estate del 1945, secondo la quale gli Stati Uniti non avrebbe­ 51

ro mai più usato per primi l’arma atomica. Sebbene gli storici abbiano per lunghi anni sostenuto che questa dichiarazione di Eisenhower rifletteva la politica militare ufficiale degli Stati Uniti, la verità era diametralmente opposta. I documenti segreti del Pentagono ora resi pubblici ci dicono che già il 19 luglio 1945, subito dopo lo scoppio dell’ordigno sperimentale di Alamogordo, diciotto giorni prima dello sganciamento della bomba operativa su un obiettivo giapponese prestabilito, i Capi di Stato Maggio­ re avevano elaborato un documento segreto, classificato JCS 1496, che segnalava in modo estremamente chiaro l’adozione di una politica di “primo colpo” come il rovesciamento rivoluzionario di ogni precedente politica militare degli Stati Uniti. Il documento costituì la premessa dottrinaria al bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Un mese più tardi, il 29 agosto 1945, cioè venti giorni dopo che Nagasaki era stata cancellata dalla carta geografica, sulla base delle documentazioni foto­ grafiche delle devastazioni prodotte dalla bomba Mark-III i Capi di Stato Maggiore definirono meglio tale direttiva. Nel documento segreto Minu­ te Joint Staff Planner’s 2l6th Meeting (6) si leggeva: «(...) Questo punto deve essere sottolineato. Deve essere chiaro che questo è un nuovo concetto di politica, che differisce dall’atteggiamento americano del passato rispetto alla guerra». Numerose riunioni segretissime si sussegui­ rono quell’estate al Pentagono, e il 19 settembre 1945 i Capi di Stato Maggiore Riuniti adottarono formalmente la politica del “primo colpo” in caso di guerra nucleare. Nel documento JCS 149/3, i Capi di Stato Maggiore precisavano: «Nel passato, gli USA hanno potuto attenersi ad una tradizione di non colpire mai fino a che non fossero attaccati. Per il futuro, la nostra forza militare dovrà essere capace di sopraffare il nemico e di annientare la sua volontà e capacità di fare guerra prima che possa infliggerci un danno significativo» (7). Il 20 settembre 1945, gli stessi Capi di Stato Maggiore produssero una versione riveduta del documento JCS 1496 che sosteneva: «(...) Non ci si può permettere, a causa di idee forvianti e azzardate sull’opportunità che gli U SA evitino ogni atteggiamento aggressivo, di lasciare che un primo colpo possa venire sferrato contro di noi». In caso di crisi, gli Stati Uniti avrebbero dovuto premere per una sua soluzione diplomatica, ma nello stesso tempo dovevano «attuare tutti i preparativi per sferrare il primo colpo se necessario» (8). Tutta una serie di altri documenti segretissimi dei Capi di Stato Maggiore confermano che al Pentagono si riteneva l’attacco di primo colpo atomico come una politica militare realistica. Il 30 ottobre 1945 i Capi di Stato Maggiore scrissero nel documento JCS Ì477 che «l’avvento della bomba atomica esalta come mai in precedenza l’importanza della sorpresa nell’inizio di una guerra (...) Cosa che mette in rilievo l’importanza non soltanto della preparazione per la difesa 52

immediata, ma anche di colpire per primi, se necessario, contro la fonte del minacciato attacco (...) In futuro il fattore sorpresa sarà (...) la sola garanzia di successo» (9). Queste enunciazioni di assoluta chiarezza sgomberano il campo da qualsiasi ipotesi di distorsione della realtà nella valutazione dei successivi piani di attacco atomico contro l’URSS. Nel novembre del 1945 i Capi di Stato Maggiore Riuniti commissiona­ rono al “Joint Intelligence Committee”, cioè ai servizi segreti militari riuniti, uno studio segretissimo sulla realizzabilità di un attacco nucleare sull'Unione Sovietica. Il primo piano in assoluto per un attacco atomico sull’URSS fu approvato tre mesi soltanto dopo Hiroshima e Nagasaki. Il suo nome in codice era JIC 32911 Strategie Vulnerability o f thè URSS to a Lim ited A ir Attack, Vulnerabilità strategica dell’Unione Sovietica a un attacco aereo limitato. Tenuto conto della potenza devastante constatata in Giappone, il piano Strategie Vulnerability prevedeva il bombardamen­ to di sorpresa di 20 città sovietiche con il lancio da 20 a 30 atomiche del tipo Mark-III usato per distruggere Nagasaki. Strategie Vulnerability individuava 20 città sovietiche da annientare con il primo colpo, e cioè: Mosca, Gorki, Kuibyshev, Sverdlovak, Novosibirsk, Omsk, Saratov, Kazan, Leningrado, Baku, Tashkent, Chelyabinsk, Nizhni, Tagil, Magnitogorsk, Molotov, Tbilisi, Stalinsk, Grozny, Irkutsk e Yaroslavl (10). Lo studio raccomandava un attacco atomico di sorpresa contro i Sovietici, non solo per fermare un’aggressione, ma anche se fosse risulta­ to evidente che l’URSS era sul punto di ottenere la capacità di attaccare gli Stati Uniti, o, più semplicemente, che i Sovietici fossero sul punto di acquisire la capacità di respingere un attacco americano. I servizi segreti militari ammettevano tra l’altro che l’URSS non costi­ tuiva alcuna immediata minaccia, e affermavano esplicitamente: «L’U ­ nione Sovietica non è in grado di attaccare il territorio continentale degli Stati Uniti nel prossimo futuro. Senza una marina militare degna di questo nome e con una marina commerciale di seconda categoria, opera­ zioni sovietiche al di là degli oceani sono da escludere». La filosofia del bombardamento aveva fatto dunque in poche settima­ ne un ulteriore considerevole balzo in avanti. Non si trattava più del fatto che nessuno doveva poter attaccare gli Stati Uniti, ma nessuno doveva neppure essere in condizione di potersi difendere da un attacco america­ no. Tutti gli Stati del mondo, dal più grande al più piccolo, dovevano essere inermi di fronte agli USA, disponibili a subire passivamente qualsiasi attacco punitivo. Scopo dichiarato di Strategie Vulnerability era quello di impedire che l’U RSS potesse giungere a fabbricare armi atomiche. Nel gennaio del 1946 il generale Groves estese ulteriormente la filosofia del bombarda53

men, introducendo nel suo rapporto, allora segretissimo, O urArm y o f thè Fure as Influenced by Nuclear Weapons, Come il nostro esercito del futuisarà influenzato dalle armi nucleari, l’idea dell’uso sistematico del bomlrdamento atomico su qualunque nazione fosse sul punto di svilup­ pare na propria arma atomica. Groves accusava senza mezzi termini i dirigiti degli Stati Uniti di eccesso di “idealismo” e li invitava a una magpre concretezza: «Se fossimo veramente realisti, e non idealisti comdimostriamo di essere, non dovremmo permettere a nessuna potenzEtraniera (...) di fabbricare o di possedere armi nucleari. Dovrem­ mo ctruggere la sua capacità di realizzarle prima che sia progredita abbaanza da minacciarci (...) Noi e i nostri alleati fidati [lo ricordiamo: solo anada e Inghilterra] dovremo avere la supremazia esclusiva in quest campo, il che significa che a nessuna altra nazione può essere permso di avere armi atomiche» ("). Il liite di ciò che poteva giustificare un bombardamento preventivo, o perieglio dire un bombardamento nucleare preventivo su di un paese qualssi da parte degli Stati Uniti, era stato arretrato da Groves al semp:e «progresso negli studi o nei progetti» che potevano condurre uno Sto a possedere l’arma atomica. La losofia del bombardamento sembrava essere giunta al suo limite estreD. Ma era veramente cosi?

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5. MISTER BARUCH E IL BUON USO DELL’ONU

Il possesso esclusivo della bomba atomica collocò gli Stati Uniti nella posizione migliore per trasformare l’idea di supremazia mondiale statu­ nitense in quella di egemonia assoluta. D al gennaio 1946 la diplomazia atomica americana si dispiegò a tutto campo in senso offensivo, tanto sul piano segreto che su quello scoperto. Sul piano segreto, gli Stati Maggiori passarono dall’enunciazione teo­ rica e dagli studi preparatori alla redazione del primo piano operativo per una guerra nucleare totale contro l’Unione Sovietica. Si chiamò piano Pincher. Restava, naturalmente, chiuso ermeticamente nelle casseforti del Pentagono, ma forniva la logica a tutta la politica degli Stati Uniti, costituendone il presupposto occulto. Analizzeremo Pincher in modo particolareggiato più avanti. Sul terreno aperto produsse una manifesta­ zione plateale di ostentazione della forza nucleare militare americana, con esplicito intendimento intimidatorio verso l’Unione Sovietica. Fu l’“Operazione Crossroads”, operazione crocevia, messa in atto nelle isole della Micronesia, nel Pacifico. N ell’autunno del 1944 gli Stati Uniti avevano intrapreso l’occupazione dell’arcipelago della Micronesia, che gli atlanti geografici fino a quel momento riportavano come “Isole sotto mandato giapponese”. Prima della fine della guerra vi costruirono cinque grandi basi aero-navali a Peleliu, Angaur, Saipan, Tinian e Kwajalein. Tinian divenne il più grande aerodromo del mondo, con 200.000 militari addetti. Da qui l’aviazione americana lanciò 29.000 attacchi di bombardieri B-29 sul Giappone, compresi quelli per sganciare le bombe atomiche su Hiroshi­ ma e Nagasaki. D opo la resa del Giappone gli Stati Uniti estesero la loro autorità su tutte le 2.100 isole dell’arcipelago, comprendenti le Marianne del Nord, Belau, gli Stati Federati della Micronesia (Yap, Truk, Pohnpei, Kostrae) e le isole Marshall, e sui loro 150.000 abitanti. Al suo ritorno dalla Conferenza di Potsdam, Truman aveva già annunciato con assoluta chiarezza: «Non vogliamo trarre da questa guerra nessun guada­ gno territoriale, né profitto, né vantaggio egoistico, ma manterremo le basi militari necessarie per la completa salvaguardia dei nostri interessi (...) Le basi che i nostri esperti militari valuteranno come indispensabili per la nostra sicurezza, quelle le acquisiremo» ('). I militari sarebbero stati favorevoli a una pura e semplice annessione di 55

tutta la regione oceanica comprendente la moltitudine di isole. Il Diparti­ mento di Stato preferì, nel 1947, dare una parvenza legale all’occupazio­ ne mediante un semplice accordo con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU che concesse le isole agli Stati Uniti in amministrazione fiduciaria sotto teorica supervisione intemazionale ma con il permesso di “fortificarle” , cioè di utilizzarle a scopi militari. Il trattamento riservato dagli America­ ni agli abitanti indigeni divenne in seguito una questione spinosa che suscitò a Washington più irritazione che preoccupazione. Celebre è rimasta la frase del “premio Nobel per la pace” Henry Kissinger che infastidito sbottò: «Ci sono soltanto 90.000 persone laggiù. E chi se ne fotte!» (2). Secondo l’articolo 6 dell’accordo di amministrazione fiducia­ ria gli Stati Uniti si impegnavano a «proteggere gli abitanti contro la perdita delle loro risorse» e la loro salute (3). L’accordo fu firmato solo nel 1947. Ma in precedenza, il 24 gennaio 1946, gli Stati Uniti avevano annunciato la scelta dell’atollo di Bikini, nelle isole Marshall, per il pubblico spettacolo passato alla storia sotto il nome di Operazione Crossroads, destinato a dimostrare le terrificanti capacità distruttive della nuova arma atomica usando come bersaglio una flotta di navi in disarmo residuate dalla guerra. Il 17 marzo 1946, 166 isolani di Bikini vennero trasportati nell’atollo disabitato di Rongerik, 130 miglia a sud-est, che era disabitato in quanto inabitabile, a causa della limitatezza delle sue risorse (4). Nel momento in cui attuavano la deportazione degli indigeni gli Stati Uniti agivano sulla base del diritto di conquista. È dubbio che avessero qualsiasi titolo legale per imporre l’abbandono dell’isola agli abitanti. A Bikini, furono concentrati 42.000 tra scienziati e militari, 250 navi, 150 aerei, per la prima serie di test atomici del dopoguerra. Il 1° luglio 1946 un B-29 lanciò una bomba al plutonio Mark-III da 23 chilotoni, denominata in codice “A ble”, su di un bersaglio costituito dallo schiera­ mento di 93 navi in disarmo della seconda guerra mondiale. “Baker”, la prima esplosione nucleare subacquea del mondo, fu fatta detonare il 25 luglio in mezzo alle 25 navi che galleggiavano ancora dopo lo scoppio della prima bomba. La Radiologica! Safety Section, Sezione Sicurezza Radiologica, diretta dal colonnello Stafford Warren, aveva previsto che se la colonna d’acqua radioattiva prodotta dall’esplosione sottomarina non si fosse innalzata al di sopra di 10.000 piedi, la situazione della radioattività sarebbe stata “estremamente pericolosa” (5). La colonna d’acqua causata dal test si sollevò in effetti soltanto fino a 6.000 piedi di altezza e l’intera laguna di Bikini fu avvolta in una nebbia altamente radioattiva. La contaminazione fu talmente grave che il terzo test atomico previsto della serie, “Charlie”, fu cancellato. Gli effetti del test atomico “Baker” furono cosi allucinanti che la 56

relazione finale redatta dai Capi di Stato Maggiore Riuniti sembrava uscita dalla penna di un autore di racconti delForrore: «Il test Baker — informava la relazione — ha fornito la prova che l’esplosione di una bomba in una massa d’acqua contigua ad una città potrebbe accrescere in misura enorme i suoi effetti per quanto concerne la radioattività, con il crearsi di una nebbia la quale, essendo contaminata dai prodotti della fissione, e venendo dispersa dal vento su superfici m olto estese, non avrebbe soltanto un effetto letale immediato, ma darebbe origine ad un pericolo a lungo termine costituito dalla contami­ nazione delle strutture a causa del deposito di particelle radioattive». N ella sua conclusione, la relazione prefigurava uno scenario apocalittico: «Non siamo in grado di formarci un quadro mentale adeguato del disa­ stro di natura molteplice che si abbatterebbe su di una moderna città colpita da una o più bombe atomiche e avvolta da una nebbia radioattiva. D ei sopravvissuti nelle aree contaminate, alcuni sarebbero condannati a morire per gli effetti delle radiazioni nello spazio di ore, altri di giorni, altri di anni. Ma, essendo tali aree irregolari per forma e dimensione, determinate dalla topografia e dai venti, non avrebbero limiti visibili. Nessuno tra i sopravvissuti potrebbe essere certo di non far parte del numero dei condannati, e in questo modo, in aggiunta ad ognuno dei motivi di terrore immediati, migliaia di persone sarebbero colpite da una paura della morte unita all’incertezza del momento del suo arrivo» (#). Poiché le bombe “A ble” e “Baker” erano state fatte scoppiare come ostentazione di potenza, era evidentemente su queste basi che gli Stati Uniti intendevano affermare il proprio predominio sulla scena intema­ zionale postbellica. La conservazione a qualsiasi costo del monopolio nucleare divenne in m odo sempre più ossessivo il cardine della politica egemonica degli Stati Uniti. Per diversi anni la convinzione dei dirigenti americani che esistes­ sero le condizioni per la conservazione sine die del monopolio nucleare fu massima e assoluta. Truman aveva chiesto un giorno al fisico Robert Oppenheimer quando i Sovietici avrebbero potuto avere la bomba. Oppenheimer disse che non ne aveva la minima idea, e domandò a sua volta a Truman quando lui pensasse che l’avrebbero avuta. Il presidente rispose: «Mai» (7). Il generale Groves coltivava la certezza che i Sovietici avrebbero impiegato vent’anni per fabbricare un’arma nucleare. Dopo Hiroshima e Nagasaki, i militari avevano fulmineamente sviluppato il culto del monopolio atomico e pretendevano di saperne più degli scien- ziati. Parlando del generale William Leahy, uno tra quelli che ipotizzava­ no un monopolio atomico indefinito per gli Stati Uniti, lo scienziato Vannevar Bush scrisse più tardi: «C’è gente cui il comando conferisce la convinzione di essere onniscienti. La loro idea era quella di una 57

parte dell’opinione pubblica e di molti membri del Congresso: c’è un “segreto” della bomba, scritto magari su un unico foglio di carta, una specie di formula magica. Se la conserviamo bene, saremo i soli, indefini­ tamente, ad avere delle bombe atomiche». Nel settembre del 1945 Bush aveva scritto a Truman per avvisarlo che, dopo che gli Americani aveva­ no provato al mondo che l’atomica funzionava, il solo problema che si poneva ai Sovietici per fabbricarla era di ordine tecnico. «Il segreto — aveva scritto Bush a Truman — risiede principalmente nei particolari della costruzione, nel procedimento di fabbricazione». E aveva predetto che ai Sovietici sarebbero bastati dai tre ai cinque anni per produrre la bomba. Naturalmente la sua opinione fu tenuta in non cale. James Forrestal era il capofila di coloro che chiedevano che gli Stati Uniti imponessero con ogni mezzo il monopolio atomico al mondo, e condusse all’interno del governo Truman la battaglia per l’eliminazione dei ministri titubanti. In una riunione tenuta alla Casa Bianca il 21 settembre 1945, disse esplicitamente: «(...) La bomba e la sua tecnologia sono proprietà del popolo americano (...) I Russi, come i Giapponesi, hanno una mentalità essenzialmente orientale. Voler guadagnare la loro simpatia e la loro comprensione prima di avere la prova, su un lungo periodo, che manterranno i loro impegni, non serve a niente (...) Non ci si guadagna niente a fare accordi con loro». Forrestal chiese in quell’oc­ casione l’istituzionalizzazione del monopolio nucleare da parte degli Stati Uniti e affermò che gli Americani dovevano «farsi dare dalle Nazioni Unite il mandato sulla bomba atomica» (8). Fu Bernard Baruch, un importante finanziere di Wall Street, ad essere incaricato di portare la questione del monopolio nucleare americano davanti all’ONU. N el marzo del 1946, mentre gli Stati Maggiori stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli del primo piano operativo di distruzione dell’U R SS, il governo degli Stati Uniti diede inizio a New York a un negoziato sul controllo delle armi atomiche nell’ambito delle Nazioni U nite. Il piano originale era di Dean Acheson e David Lilienthal. Propo­ neva l’istituzione di un “alto commissiarato dell’ONU per l’energia atomica” che avrebbe esteso la sua autorità di controllo sia sulle materie prime che sulle installazioni industriali necessarie alla produzione di armi nucleari. La questione delle ispezioni era lasciata nel vago, e non preve­ deva sanzioni. Ma Truman, con scelta improvvisa, escluse Acheson e Lilienthal dalla guida del negoziato all’ONU e nominò al loro posto Bernard Baruch. Questi assunse l’incarico annunciando, come è stato poi rivelato da Vannevar Bush: « (...) Io sono un duro. Metterò da parte gli scienziati perché so della bomba tutto quello che ho bisogno di sapere: fa bum e uccide milioni di persone. È un problema etico e politico». Fra i 58

suoi stretti collaboratori all’ONU spiccava il banchiere John Hancock. Il primo atto di Baruch nel prendere in mano il negoziato fu quello di consultare i capi militari americani per fare in modo che le proposte che avrebbe presentato all’ONU corrispondessero «alla politica militare de­ gli Stati Uniti e alle esigenze della sicurezza nazionale». Il mandato che Baruch ricevette dai Capi di Stato Maggiore fu univoco: la bomba atomica doveva rimanere monopolio americano, e più specificamente bisognava mettere in piedi un sistema di controllo capace di impedire ai " Sovietici di fabbricarla. Dwight Eisenhower scrisse una nota per Baruch: «N oi non possiamo limitare la nostra capacità di produzione o di utilizza­ zione di quest’arma». Il generale si dichiarava contrario a qualsiasi misura che potesse «mettere in causa l’attuale potenza mondiale degli U SA » e sottolineava che «la prima cosa da fare era istituire (...) un sistema di ispezione completo». Baruch diede più peso all’opinione dei militari che a quella degli scienziati, e fece sua l’idea che i Sovietici sarebbero stati incapaci per molti anni di fabbricare l’arma atomica, e anche di procurarsi l’uranio necessario. Partendo da questo presupposto, il 13 giugno del 1946 Ba­ ruch presentò alle Nazioni Unite il suo progetto per il controllo delle armi nucleari e in generale dell’energia atomica. La base di partenza sottintesa del “Piano Baruch” era che, a quella data, soltanto gli Stati Uniti avevano prodotto bombe atomiche e posse­ devano una industria nucleare capace di fabbricarne. Il piano proponeva la creazione di un commissariato internazionale per l’energia atomica che gradualmente avrebbe assunto il controllo assoluto di tutte le materie prime e di tutte le industrie atomiche del mondo. Fra i poteri di tale organismo dovevano esserci la direzione o la proprietà di tutti gli impian­ ti atomici ritenuti potenzialmente pericolosi per la sicurezza mondiale, il potere di controllare, ispezionare e autorizzare tutte le altre applicazioni dell’energia atomica, l’incarico di promuoverne le applicazioni vantag­ giose e la responsabilità delle ricerche e dei loro concreti sviluppi. Qua­ lunque paese avesse tentato di sottrarsi all’autorità del Commissariato sarebbe stato sanzionato. Il piano prevedeva tremende punizioni per la nazione che avesse comunque tentato di giungere a fabbricare bombe atomiche, fra cui anche la possibilità di un bombardamento nucleare.