Il museo dei numeri. Da zero verso l’infinito, storie dal mondo della matematica
 8817076112, 9788817076111 [PDF]

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Zitiervorschau

Proprietà letteraria riservata

© 2014 RCS Libri S.p.A. Milano ,

ISBN 978-88-17-07611-1

Prima edizione: novembre 2014 Progetto grafico e impaginazione: PEPE nymi

A pag. 9-11: «La gara di matematica», di Cesare Zavattini, da Parliamo tanto di me © Bompiani l RCS Libri S.p.A.

A pag. 13: «Uno per zero», di Cesare Zavattini, da Io sono il diavolo© Bompiani l RCS Libri S.p.A.

A pag. 75-76: O beatrice, di Giovanni Giudici © 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. A pag. 190: «Il trionfo dello zero», da Filastrocche in cielo e in terra © 1980, Maria Ferretti Rodari and Paola Rodari © 1991, Edizioni EL S.r.l., Trieste. A pag. 190: Nummeri, di Trilussa © 1951 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. A pag. 216: Twenty /light rock, testo e musica di Eddie Cochran-Ned Fairchild Copyright

«f 1956 Campbell Connelly and Co. Ltd. Per l'Italia:

Universal Music Publishing Ricordi

s.r.l. -Milano Tutti i diritti riservati-Ali rights reserved. Per gentile concessione di Hai

Leonard MGB (ltaly). A pag. 217: Veintiuno son los dolores, testo originale e musica di Violeta Parra © N.F.C.-42 Av. Montaigne - Paris (France). Subeditore per l'Italia: Essex Italiana Edizioni Musicali Srl-Galleria del Corso, 4-Milano. Tutti i diritti sono riservati a termine di legge. Ali rights reserved. International copyright secured. Per gentile concessione di Essex Italiana Edizioni Musicali Srl-Milano. A pag. 252: Come ho scritto uno dei miei libri, di Itala Calvino© 2002 by Esther Judith Sin­ ger Calvino - Giovanna Calvino e Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.

© H. M. Brock; Erté;

É. Desmazières; L. Fontana; A. Gormley;

K. Haring; S. Hirata; R.

Indiana; J. Johns; R. Magritte; U. Nespolo by SIAE 2014

© Salvador Dali, Gala-Salvador bali Foundation by SIAE 2014 © Andy Warhol Foundation for the Visual Arts by SIAE 2014

L'Editore ha fatto il possibile per reperire i proprietari dei diritti. Rimane a disposizione per gli adempimenti d'uso.

IL MUSEO DEI NUMERI

Così parlarono dei numeri

« Puoi portarmi un uomo che non sappia contare con le dita?» Libro dei morti egiziano, secolo XVI -

«Tutto è numero.» Attribuito a Pitagora, secolo VI -

« Senza numeri, non si può né pensare, né conoscere.» Filolao, Frammenti, secolo -v « l numeri non servono solo ai mercanti per comprare e vendere, ma anche all'anima per arricchirsi.» Platone, Repubblica, secolo -IV «Tu hai disposto tutto con lunghezze, numeri e pesi.»

Libro della Sapienza, secolo -II «Dio ama i numeri dispari.» Virgilio, Bucoliche, secolo -1

«Per qualunque numero si possono trovare molti motivi di lode e di ammirazione.» Plutarco, L'E di Del/i, secolo I «Togli i numeri alle cose, e tutte periranno.» Agostino, Il libero arbitrio, secolo IV «Dovunque c'è numero, c'è bellezza.» Proclo, Commento a Euclide, secolo v «La musica è una disciplina che parla di numeri.» Cassiodoro, Istituzioni, secolo VI

«< numeri perfetti sono tanto rari quanto gli uomini perfetti.» René Descartes, Lettera a Marin Mersenne, 1638 «La musica è un esercizio inconscio di aritmetica da parte della mente che non sa di contare.» Gottfried Leibniz, Lettera a Christian Goldbach, 1712 «l numeri sono le vocali della matematica.» Novalis, Pensierifuggitivi, 1790-1801 «Dio ha creato i numeri interi. Il resto è opera dell'uomo.» Leopold Kronecker, Lezione ai naturalisti di Berlino, 1886 « È possibile che l'insinuazione dell'eterno sia la vera causa di quel piacere speciale che ci procurano le enumerazioni.» Jorge Luis Borges, Storia dell'eternità, 1936 « Che cos'è il numero, che l'uomo l o può capire? E che cos'è l'uomo, che può capire il numero?» Warren McCulloch, In memoria di Alfred Korzybski, 1960 «Non tutto ciò che conta si può contare. E non tutto ciò che si può contare conta.» William Cameron, Sociologia informa/e, 1963 «Il mio numero preferito è "un sacco" .» Woody Allen, Manhattan, 1979 «Tutti i numeri sono notevoli, ma pochi sono stati notati.» François Le Lionnais, I numeri notevoli, 1983 «Qui, dietro i muri, gli dèi giocano: giocano con i numeri, con i quali è fatto l'universo.» Le Corbusier a Sainte-Marie de la Tourette, 1983

PROLOGO

L a gara di matematica

È un ricordo della mia infanzia. Abitavo a Gottinga nel dicembre del 1870. Mio padre ed io giungemmo all'Accademia quando il pre­ sidente Maust stava cominciando l'appello dei partecipanti alla Gara Mondiale di Matematica. Subito babbo andò a mettersi fra gli iscritti dopo avermi affidato alla signora Katten, amica di famiglia. Seppi da lei che il colpo del cannone di Pombo, il bidello, avrebbe segnato l'inizio della storica contesa. La signora Katten mi raccon­ tò un episodio, ignoto ai più, intorno all'attività di Pombo. Costui

Prologo

sparava da trent'anni un colpo di cannone per annunciare il mezzo­ giorno preciso. Una volta se n'era dimenticato. Il dì appresso, allora, aveva sparato il colpo del giorno prima, e così di seguito fino a quel venerdì del 1870. Nessuno a Gottinga si era mai accorto che Pombo sparava il colpo del giorno avanti. Esauriti i preliminari, la gara ebbe inizio alla presenza del principe Ottone e di un ragguardevole gruppo di intellettuali. «Uno, due, tre, quattro,, cinque . . . » Nella sala si udivano soltanto le voci dei gareggianti. Alle dicias­ sette circa, avevano superato il ventesimo migliaio. Il pubblico si appassionava alla nobile contesa e i commenti si intrecciavano. Alle diciannove Alain, della Sorbona, si accasciò sfinito. Alle venti, i su­ perstiti erano sette. «36.767, 36.768, 36.769, 36.770 . . . » Alle ventuno Pombo accese i lampioni. Gli spettatori ne approfit­ tarono per mangiare le provviste portate da casa. «40.7 19, 40.720, 40.721. . . » Io guardavo mio padre, madido di sudore, ma tenace. La signora Katten accarezzandomi i capelli ripeteva come un ritornello: «Che bravo babbo hai», e a me non pareva neppure di avere fame. Alle ventidue precise avvenne il primo colpo di scena. L'algebrista Pull scattò: «Un miliardo». Un "oh" di meraviglia coronò l'inattesa sortita; si restò tutti col fiato sospeso. Binacchi, un italiano, aggiunse issofatto: «Un miliardo di miliardi di miliardi». Nella sala scoppiò un applauso subito represso dal Presidente. Mio padre guardò intorno con superiorità, sorrise alla signora Kat­ ten e cominciò: «Un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi . . . » La folla delirava: «Evviva, evviva». La signora Katten e io, stretti una all'altro, piangevamo dall'emozione. « . . . di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi. . . » IO

La gara di matematica

II presidente Maust, pallidissimo, mormorava a mio padre, tiran­ dolo per le falde della palandrana: «Basta, basta, le farà male». Mio padre seguitava fieramente: « . . . di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi . . . » A poco a poco la sua voce si smorzò, l'ultimo fievole «di miliardi» gli uscì dalle labbra come un sospiro, indi si abbatté sfinito sulla sedia. Gli spettatori in piedi lo acclamavano freneticamente. Il prin­ cipe Ottone gli si avvicinò e stava per appuntargli una medaglia sul petto, quando Gianni Binacchi urlò: «Più uno !» La folla precipitatasi nell'emiciclo portò in trionfo Gianni Binac­ chi. Quando tornammo a casa, mia madre ci aspettava ansiosa alla porta. Pioveva. Il babbo, appena sceso dalla diligenza, le si gettò tra le braccia singhiozzando: «Se avessi detto "più due" avrei vinto io».

li racconto «La gara di matematica» che avete appena terminato, dalla rac­

colta Parliamo tanto di me di Cesare Zavattini (193 1), costituisce una meta­

fora di questo libro, che avete appena iniziato. E che conta storie di numeri in maniera dapprima ordinata e consecutiva, e poi via via più disordinata e rapsodica, saltando dall'uno all'altro con balzi sempre più lunghi, nel vano tentativo di raggiungere l'infinito. A meno di non volerei imbarcare in un'impossibile impresa senza fine, non possiamo infatti dedicare la medesima attenzione a tutti i numeri. An­ che se effettivamente ciascuno lo meriterebbe, in base a un paradossale teo­ rema dimostrato da Constance Reid nell'esergo di Da zero a infinito ( 1 955): I numeri sono tutti interessanti. Infatti, se ce ne fossero alcuni "non

interessanti", tra questi ci sarebbe necessariamente il più piccolo, e già soltanto per questa ragione quel numero sarebbe molto interessante.

Anche senza scomodare la logica, basta comunque l'etimologia a dimo­ strare che tutti i numeri sono interessanti. L'aggettivo deriva infatti da inter

esse, "stare nel mezzo" : da cui l'espressione "stato interessante" , per indica­ re il periodo fra il concepimento e il parto. Ora, i numeri interi stanno tutti Il

Prologo

tra lo zero (incluso) e l'infinito (escluso) . Dunque, sono tutti interessanti per definizione. Sia come sia, noi ci accontenteremo di contare storie su una idiosincratica selezione di una cinquantina di numeri principali, partendo dalle piccole cifre del sistema decimale e raggiungendone di vertiginose. Molti altri com­ primari faranno capolino qua e là, ma a un certo punto abbandoneremo l'impresa per sfinimento, come i concorrenti di Zavattini.

!2

La gara di matematica

A differenza del suo racconto, però, il nostro conto inizia non dall' l , ma dallo O, che lui sembra essersi dimenticato. O forse l'aveva semplicemente rimosso, visto che nella sua raccolta Io sono il diavolo ( 194 1 ) si trova un altro racconto, «Uno per zero», che ricorda un tipico episodio di difficoltà infan­

tile con lo O, appunto:

Verso la fine dell'anno il maestro spiegò la moltiplicazione. «Uno per zero uguale a zero.» Il gesso stridette sulla lavagna facendo fremere la lingua dei fan­ ciulli e gli si spezzò fra le unghie. Un bambino guardò i compagni che lo incitavano con gesti - avevano le gote rosse - e alzatosi disse: «Uguale a uno». Il maestro rimase un minuto in silenzio davanti al bambino inti­ morito. Ebbe la voglia di fare un balzo dalla cattedra ai banchi, di mordere gli agnellini, ma si trattenne pencolando verso di loro. «Uno per zero uguale a zero» gridò. Le sue braccia toccarono il sof­ fitto e l'ombra delle braccia percorse i muri, passò sui volti spauriti, uno si mise a piagnucolare. Suonò la campanella, timidi i bambini si disposero in fila secondo il solito e all'ordine del caposquadra segnarono il passo sollevando polvere rossa dall'impiantito in attesa dell'avanti-march del maestro fermo a pugni chiusi con un gran dubbio in mente. Ma basta segnare il passo, perché è ormai giunta l'ora del colpo di can­ none che dichiara aperta la nostra personale "Gara di matematica". Prima di metterei ai blocchi di partenza ci riscalderemo un po' con qualche giro

di pista, ripercorrendo diacronicamente i momenti salienti della storia dei numeri. E poi scatteremo in una corsa sincronica verso numeri sempre più grandi, partendo dallo O e procedendo fino allo sfinimento, nostro e del lettore. Che vinca il migliore ! r--. ' Immagini: 10316 di Ugo Nespolo; Silenzi dorati di Tobia Ravà. 13

Con tare con le dita

Millenni fa il Libro dei morti egiziano domandò: «Puoi portarmi un uomo che non sappia contare con le dita?». Ma, domandiamo noi, che legame c'è, per i vivi, tra le dita e i numeri? Mostrare un indice, o una mano, è forse la stessa cosa che mostrare il numero uno, o il numero cinque? E che differen­ za c'è fra i numeri uno e cinque, e le cifre l e 5 ? Nel 1960 il neurofisiologo Warren McCulloch domandò a sua volta: «Che cos'è il numero, che l'uomo lo può capire? E che cos'è l'uomo, che può capire il numero?». Che legame c'è, dunque, fra numeri e uomini? Gli uomini hanno inventato i numeri dal nulla, o li hanno scoperti nell'esistente? E sono gli unici esseri viventi a intenderli, o anche altri li percepiscono? I7

Le albe del numero

Nei millenni che separano i riti funebri egizi dalle ricerche neurofisio­ logiche moderne, domande come queste hanno stimolato e accompagnato lo sviluppo della cultura umana. Ma il sorgere dei numeri ha preceduto di molto i faraoni e le piramidi: la loro alba risale infatti già alla preistoria, an­ che se essi hanno acquistato, o rivelato, la propria luce solo poco a poco, in tempi e luoghi diversi. Non c'è dubbio, comunque, che la nostra morfologia abbia portato le dita e le mani a rivestire un ruolo privilegiato nell'apprendimento dei numeri e delle operazioni aritmetiche. Non a caso, ancor oggi si usano espressioni come "contare a mano" e "calcolo digitale" . Quest'ultimo aggettivo deriva appunto da digitus, che in latino significa "dito", mentre digit in inglese è passato a significare "cifra".

IB

Contare con le dita

Vari popoli hanno direttamente usato le dita per nominare i primi die­ ci numeri, chiamando ad esempio "pollice destro" l'uno, "indice destro" il due, eccetera. E a volte la numerazione è proseguita con altre parti del corpo, come le mani, i piedi, le braccia e le gambe. Ed è continuata con varie artico­ lazioni, come le nocche, i polsi, i gomiti, le ginocchia e le caviglie, arrivando fino agli occhi, le orecchie, il naso, le narici, i fianchi e i seni, in qualche ordine prestabilito, per arrivare a nominare numeri fino a qualche decina. Con le dita si può andare anche oltre. Anzitutto, utilizzando segni come quelli del linguaggio dei sordomuti per esprimere numeri anche grandi, dalle migliaia ai milioni. E poi, per fare calcoli anche complessi, come le moltiplicazioni, con una tecnica che si insegna e si usa ancor oggi in varie parti del mondo.* L'antichità di queste rappresentazioni e tecniche è dimostrata da alcune pitture murali egizie, e da una gran quantità di tessere romane che mo­ strano da un lato posizioni della mano, e dall'altro il loro valore numerico in cifre. Ne accennano anche vari scrittori, ad esempio Quintiliano nelle

Istituzioni oratorie: Dei numeri si fa spesso uso nel foro, e un avvocato che si inceppi su una moltiplicazione, o mostri anche solo incertezza e goffaggine sulle dita, dà subito una pessima immagine del proprio talento. Anche il gioco della morra è un residuo fossile del tempo in cui si contava con le dita. La leggenda vuole che a inventario sia stata Elena, per giocare con l'amante P aride. Sicuramente era popolare in Egitto, perché è stato raf­ figurato in alcune tombe. E nell'antica Roma, per parlare di un uomo inte­ gerrimo, si diceva che si poteva «giocare alla morra con lui al buio».

Le dita delle mani condussero in maniera naturale all'individuazione del si­ stema decimale, in cui si conta per dieci. E quelle delle mani e dei piedi al *

Per curiosità, volendo ad esempio moltiplicare 7 per 9, si sottrae 5 da entrambi i numeri, ottenendo 2 e 4. Poi si tendono altrettante dita sulle due mani, lasciando le rimanenti 3 e l piegate. La somma del­ le dita tese dà le decine, cioè 6, e il prodotto delle dita piegate le unità, cioè 3. n risultato è dunque 63. -

1-

f,

rg

Le albe del numero

sistema vigesimale, in cui si conta per venti. Ma ci sono altri modi di usare le dita: ad esempio, se ci si serve del pollice per enumerare le falangi delle altre quattro dita di una mano, si arriva al sistema duodecima/e, in cui si conta per dodici. E se si enumerano via via le dozzine sulle dita dell'altra mano, si arriva al sistema sessagesimale, in cui si conta per sessanta.

Viceversa, se si enumerano le dita su una mano e si tiene conto delle cinquine sull'altra mano si arriva naturalmente a un sistema quinario, in cui si conta per cinque: ne rimangono tracce nel nome greco penta, "mano" o "pugno" , per indicare appunto il cinque. Se invece si usano rigorosamente soltanto le dita, senza nessuna semplificazione, ci si limita a un sistema una­ rio, in cui si conta per uno, che è il fondamento dei sistemi additivi come quello originario dei Romani, con la sola cifra I a rappresentare un dito. Torneremo su ciascuno di questi sistemi numerici, che sono tutti stati usati da varie civiltà. E non dimenticheremo il sistema binario, meno natura­ le a prima vista, ma popolare oggi in informatica, e ancora molto diffuso fino a poco tempo fa tra i popoli "primitivi" come i Boscimani e i Pigmei africani, o in alcune tribù polinesiane, in cui si conta per due. Lo spunto, in questo caso, non viene dalle dita, ma dalle varie coppie di organi del corpo umano: mani, braccia, gambe, occhi, orecchi, narici, fianchi, seni . . . �-----

1 Immagini: Due uomini che giocano alla morra di Pietro Barabino; sistema per contare con le dita in un '

libro dell727; pittura rupestre aborigena.

20

Una taglia sui n umeri ·-

-

.

.

L'UOMO DI CRO-MAGNON

Il problema delle registrazioni dei numeri effettuate sulle dita è che sono volatili, e si perdono non appena si aprono o si chiudono le mani. Presto o tardi gli uomini hanno dunque imparato a usare registrazioni più permanen­ ti, diversificate secondo le disponibilità: tacche intagliate su ossi o bastoni, nodi annodati su cordicelle, grani o semi inanellati in rosari. I reperti archeologici mostrano che le tacche, che altro non sono se non stilizzazioni delle dita, si usavano già decine di migliaia di anni fa, all'epoca dell'uomo di Cro-Magnon: dunque, ben prima della scrittura e dell'agricol­ tura, che risalgono all'incirca a cinquemila e diecimila anni fa. A un certo punto si cominciò a capire che si poteva risparmiare sul nu­ mero delle tacche usandone di tipo e di valore diversi. Nel caso delle tacche, poiché fino a quattro si riescono ancora a distinguere a occhio, ma poi si perde il conto, si cominciò a indicare la quinta facendo un segno obliquo sulle prime quattro, alla maniera dei carcerati che annotano sul muro i giorni di condanna che hanno già scontato. 2I

Le albe del numero

I Romani adattarono questo sistema di incisioni alla scrittura. La loro cifra I corrisponde infatti a una tacca verticale, e i numeri da uno a quattro si rappresentavano in origine con il corrispondente numero di tacche. Arri­ vati al cinque, invece di sbarrare quattro tacche verticali con una obliqua si risparmiò, e si usarono due tacche oblique collegate a v. Lo stesso si fece con

il dieci, per il quale si usarono le due tacche oblique incrociate a

x.

In realtà anche una sola tacca non verticale basterebbe per indicare il cinque, e infatti sia i Cinesi che i Maya ne usarono una orizzontale. Quanto ai numeri da uno a quattro, i primi li rappresentavano con altrettante tacche verticali, come i Romani, e i secondi con altrettanti pallini.

Uno degli aspetti più sorprendenti del sistema di tacche è che si sia continuato a usarlo in mezzo mondo fino a tempi recentissimi, e non solo da parte dei pistoleri del Far West sul calcio della pistola! In Europa, ad esempio, ancora fino all'Ottocento le tacche sui bastoni ve­ nivano usate dai governi e dalle banche per registrare crediti o debiti, dai funzionari pubblici per calcolare le date di eventi astronomici e sociali, dagli allevatori e dai pastori per contare le mandrie e i greggi, e dai fornitori e dagli acquirenti per enumerare le merci vendute o acquistate. Testimonianze fossili di queste usanze sono espressioni come "mettere una taglia" e computare, che significa "intagliare" (da

eu

m, "insieme", e putare, "potare").

In Inghilterra l'uso ufficiale del sistema finì in maniera tragicomica, raccon­ tata nel1855 da Charles Dickens in un discorso su La riforma amministrativa:

Secoli fa fu introdotta nella Corte dello Scacchiere una forma primor­ diale di contabilità, consistente nel far tacche su bastoni di legno, alla maniera in cui Robinson Crusoe teneva aggiornato il proprio calenda­ rio nella sua isola sperduta. [ ...] Bisognò attendere il 1 826 perché quei bastoni fossero aboliti! Nel 1834 ci si accorse che ne erano rimaste cataste, e ci si chiese cosa fare di quei legni consumati, mangiati dai vermi e ammuffiti. Si presero appunti e si scambiarono lettere su questo importante argomento. I bastoni furono ospitati a Westminster, e qualunque persona con un 22

Una taglia sui numeri (L'uomo di Cro-Magnon)

po' di sale in zucca si sarebbe accorta che la soluzione migliore era di regalarli come legna da ardere ai poveri che vivevano nelle vicinanze. Ma poiché non erano mai serviti a niente, la burocrazia decise che continuassero a non servire a niente, e decretò che fossero bruciati in privato. Lo si fece in una stufa della Camera dei Lord, che ingolfata dagli stupidi bastoni diede fuoco ai pannelli che rivestivano le pareti. I pannelli diedero fuoco alla Camera dei Lord. La Camera dei Lord diede fuoco alla Camera dei Comuni. Le due Camere furono ridotte in cenere. Si arruolarono architetti per costruirne altre. E la cosa ci è costata due milioni di sterline.

Immagini: tacche su ossi; bastoni intagliati da conto.

23

Lo snodo del n odo --- l PRIMI CINESI E GLI INCA

Concettualmente, registrare numeri mediante tacche su bastoni non è molto diverso dal farlo con nodi su cordicelle. Gli antichi Cinesi ritenevano che la scrittura a caratteri si fosse evoluta da un sistema di computazione e di comunicazione chiamato shengjie, "nodi", che permetteva di modellare l'u­ niverso come una "rete celeste". n passaggio da un sistema ali'altro veniva

attribuito agli auspici del mitico Imperatore Giallo, vissuto tra il -2700 e il -2600, e tuttora considerato il fondatore della civiltà cinese. Più di due millenni dopo, ormai in tempi storici, il classico

Tao Te Ching

(LXXX) rimpiangerà la perdita del sistema dei nodi, auspicando un nostalgico

ritorno ai bei tempi andati in cui lo si usava:

La gente torni ad annodare corde, abbia di nuovo gusto per il cibo, ammirazione per i vestiti, tranquillità nella propria casa, felicità nelle proprie abitudini. 24

Lo snodo del nodo (I primi Cinesi e gli Inca)

Un sistema analogo a quello cinese

fu adottato attorno al

1500 della nostra

era dagli Inca: i quali, per inciso, non solo non sapevano scrivere, ma non

conoscevano neppure la ruota e non usavano animali da traino. li sistema era

costituito di quipu, "nodi", annodati su cordicelle di vari colori raggruppate in matasse, che arrivavano fino ai duemila fili. Esattamente come per le tacche, i nodi avevano varie dimensioni e valo­ ri, e rappresentavano i numeri in

un

sistema decimale. Ma oltre che per la

contabilità, i quipu servivano anche per la trasmissione dei messaggi. Il loro uso era gestito da appositi funzionari, chiamati

quipucamayoc,

"guardiani

dei nodi". Ed essi continuarono a essere usati dai pastori sudamericani fino a tempi recenti, esattamente come le tacche da quelli europei e asiatici.

Un retaggio degli antichi sistemi di computo e scrittura con i nodi sono i rosari, usati in varie religioni per contare le preghiere, le giaculatorie e altre litanie. A seconda dei culti essi tengono i conti di 50 Ave Maria, dei 99 nomi di Allah, delle 108 divinità induiste, o di 108 parole dagli altrettanti volumi del canone buddhista. A volte però i nodi veicolano anche altri significati. A d esempio, quelli sulle frange che pendono dalle fasce per le preghiere mattutine degli Ebrei hanno valori numerici 26 e 39 che codificano, in base al sistema di corrispondenza con le lettere sul quale torneremo, il nome "Jahvé" e l'espressione "Jahvé unico".

Gmmagini: quipu

inca; rosari cristiano, musulmano e buddhista.

25

Si inizia a calcolare ----- GLI ELAMITI E I SUMERI

Un altro strumento di calcolo molto diffuso nell'antichità furono i sassolini o le conchiglie. Dapprima la loro quantità era pari al numero degli oggetti enumerati, e instaurava una corrispondenza biunivoca fra sassolini e oggetti. L'importanza dei sassolini per l'evoluzione del concetto di numeri è testi­ moniata dalla persistenza della parola

calx, calcis,

calcolo,

che deriva dal diminutivo di

"calcinaccio" o "pietruzza": un significato che si è preservato let­

teralmente per i calcoli renali o biliari, ma è ormai puramente metaforico per i calcoli numerici. E l'ambiguità esisteva già in greco, dove psephos significava allo stesso tempo "sasso" e "conto", e psephos "fare un conto".

tithenai "posare una pietra" o

Si inizia a calcolare (Gli Elamiti e i Sumeri)

Come per le tacche e i nodi, anche per i sassolini si è arrivati a usarne di forme e grandezze diverse, per rappresentare numeri diversi. Col tempo si è creato un sistema standardizzato di pietre d'argilla a forma di cilindri, coni e sfere di varie dimensioni, che sono state rinvenute in molti siti archeologici

mediorientali, dalla Turchia all'India. Le loro datazioni variano tra il IX e il II

millennio prima della nostra era, ma si è notato che a partire dal IV millennio queste pietre venivano rinchiuse in contenitori di argilla, chiamati "bolle". Le bolle fungevano da documenti di trasporto di prodotti o merci, e han­ no dato il nome alle nostre "bolle di accompagnamento". La loro funzione era registrare il numero degli oggetti trasportati, a fini di controllo. E una

delle prime civiltà ad adottarle fu quella di Elam, "Terra di Dio", sulla costa iraniana del Golfo Persico, a partire dalla rivoluzione urbana del IV millennio.

27

Le albe del numero

La stratigrafia della città di Susa, centro principale della civiltà elamita, ha permesso di ricostruire una storia che inizia verso il -3500, con la codifica del sistema di contabilità a pietre e bolle d'argilla che precedette l'invenzione della scrittura. Un paio di secoli dopo si inizia a incidere l'esterno delle bolle con disegni delle pietre che stanno all'interno, per evitare di dover rompere le bolle se non per necessità di controllo. Pochi decenni sono poi sufficienti per capire che i disegni svolgono la stessa funzione delle pietre che rappresentano, e verso il -3250 le pietre scompaiono e le bolle vengono rimpiazzate da pani d'argilla con iscrizioni, che costituiscono i prototipi delle

cz/re

numeriche. Poco a poco i pani si

raffinano in tavolette, e al volgere del millennio ai lati delle cifre appaiono i prototipi del migliaio di

lettere della variopinta scrittura proto-elamita,

che

sarà usata tra il -2900 e il -2500. A tutt'oggi essa rimane il più antico esempio di scrittura non ancora decifrata.

Questo percorso dal concreto all'astratto durò poco più di mezzo millen­ nio, e vide gli Elamiti passare in rapida successione da una rappresentazione numerica mediante pietre, a un suo supporto grafico costituito di disegni stilizzati delle pietre, a una rappresentazione autonoma mediante cifre, a un sistema di scrittura completo e in grado di rappresentare non solo le quanti­ tà e i numeri, ma anche gli oggetti che agli inizi ci si limitava a contare.

Si inizia a calcolare (Gli Elami ti e i Sumeri)

I Sumeri usarono un sistema simile a quello degli Elamiti, più o meno con­ temporaneamente a loro. Percorsero tappe analoghe dal concreto all'astrat­ to, approdando infine anch'essi alla scrittura su tavolette d'argilla. E anda­ rono oltre, passando verso il -2700 da un sistema pittografico con migliaia di segni a uno fonetico cuneiforme con qualche decina. Per quanto riguarda la notazione numerica, si era compreso presto che due tipi di pietre, o di cifre, non sono molto meglio di una, perché il secondo tipo si limita a comprimere il primo di un fattore costante. E lo stesso succe­ de per un numero finito di tipi di pietre, o di cifre. Bisogna invece continua­ re la compressione all'infinito: del secondo tipo in un terzo, del terzo in un quarto, e così via, esattamente come facciamo noi con le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, eccetera. I Sumeri scelsero come fattore di compressione 60, invece del più ovvio 10. Essi introdussero, cioè, un sistema sessagesimale basato sul 60 e i suoi multipli, che venne poi mutuato dai Babilonesi, e che noi continuiamo a usare tuttora pet le misure degli angoli e del tempo. Ad esempio, l'ango­ lo giro contiene 3 60 gradi, forse in analogia con l'osservazione che nel suo moto apparente il Sole "gira" attorno alla Terra in circa 360 giorni. E le ore contengono 60 minuti, così come i minuti contengono 60 secondi, per un totale di 3 .600.

Questo sistema richiedeva di nominare tutti i numeri fino a 60. Per evita­ re troppi nomi diversi, si nominarono le unità decimali fino a 10, e le decine

fino a 60, in maniera analoga alla nostra. Il che introdusse un sistema misto, 29

Le albe del numero

in parte sessagesimale e in parte decimale, che dava importanza non solo alle potenze di 60, come 3 .600, ma anche ai loro multipli decimali, come 600 e 36.000. Le cifre sumeriche arcaiche, così come quelle elamite, erano diretta­ mente mutuate dalle forme delle pietre d'argilla contenute nelle bolle. A permettere di determinarne i valori è stata una specie di stele di Rosetta, trovata agli inizi del Novecento a Nuzi, sul fiume Tigri. Si trattava, cioè, di una bolla sul cui involucro esterno era scritta in caratteri cuneiformi la lista degli oggetti corrispondenti alle pietre contenute nell'interno. Si è così scoperto che pietre e cifre corrispondevano ai seguenti numeri:

pietra

cono piccolo sferetta cono grande cono grande bucato sfera sfera bucata

l

cifra

tacca sottile cerchietto tacca spessa cerchietto su tacca spessa cerchio grande cerchietto su cerchio grande

10

60

o

o

600

3.600

/numero/ l

10 60 600 3.600 36.000

36.000

o @

Una tavoletta sumerica trovata a Suruppak, sul fiume Eufrate, e risalente al -2650 circa, costituisce invece la più antica testimonianza di un calcolo aritmetico non banale. Si tratta di una divisione, completa di dividendo, divisore, quoziente e resto, che oggi noi scriveremmo



l.l5 '000

=

164.571 +

�.

r-::agini: pietre d'argilla da conto; bolla elamita; tavoletta babilonese; esempi di sistema sessagesimale: tavoletta circolare neoassira, orologio, bussola.

30

La posizion e missionaria ·---

1 BABILONESI

Gli Elamiti e i Sumeri usavano un sistema additivo analogo a quelli in se­ guito adottati dagli Egizi, i Greci, i Romani, gli Aztechi, e molti altri popoli dell'antichità. Tutti questi sistemi avevano alcuni vantaggi, perché richiedevano di usare soltanto le cifre di riferimento. Ad esempio, per scrivere 2.030 i Romani regi­ stravano la presenza di due migliaia M e tre decine x, senza doversi preoccu­ pare dell'assenza delle centinaia c e delle unità 1. E senza doversi nemmeno preoccupare dell'ordine, visto che qualunque permutazione di MMXXX era ammissibile, per la commutatività dell'addizione. I sistemi puramente additivi avevano però almeno due svantaggi. Da un lato, era necessario un simbolo diverso per tutte le infinite potenze della base: ad esempio, x, c e M per 10, 100 e 1 .000. Dall'altro lato, le rappresentazioni dei 3I

Le albe del numero

numeri potevano richiedere molte ripetizioni delle cifre: ad esempio, scrivere

9.999 ne richiedeva trentasei, e cioè nove per ciascuna lettera M, c, x e 1.

Una prima semplificazione la intuirono già i Sumeri, quando introdussero una notazione per il 10 nel sistema sessagesimale. Si potevano, cioè, usare altri simboli oltre a quelli per l'unità e le potenze della base: ad esempio, sem­ pre nel caso dei Romani,

v, L e D per 5, 50 e 500. In tal caso, scrivere 9.999 si

riduceva a un'espressione con venti simboli.

Una semplificazione più radicale fu l'invenzione di sistemi misti, additivi e moltiplicativi allo stesso tempo. Ad esempio, nel sistema decimale tradiziona­ le usato dai Cinesi ancor oggi, e vecchio di tremilacinquecento anni, ci sono

simboli corrispondenti ai numeri da l a 9 per contare non solo le unità, ma

anche il numero delle potenze della base, indicate con altri appositi simboli. In tal modo .diventa possibile scrivere 9.999 con soli otto simboli, equivalenti a 9M9c9x9r nel sistema romano, con un notevole risparmio di notazione.

uno

sette

due

otto

tre

nove

quattro

dieci

cinque

sei

cento

mille

La numerazione orale che noi continuiamo tuttora a impiegare è di questo tipo, ed esprime il numero 9.999 nella forma novemila-novecento-novanta-nove, specificando appunto la quantità decimale delle migliaia, centinaia, decine e

unità. li suffisso "anta" per le decine deriva dal latino

ginta, appunto.

32

ginta:

come in

nona­

La posizione missionaria (I Babilonesi)

A questo punto rimaneva soltanto da compiere "un piccolo passo per i mate­ matici, ma un passo da gigante per la matematica", introducendo un sistema po­

sizionate in cui la menzione dei simboli per le potenze della base fosse eliminata in favore della posizione della cifra corrispondente, in un ordine crescente da destra a sinistra. Un'invenzione semplice ma geniale, che nel tempo evangelizzò

il mondo intero. A questo sistema si arrivò probabilmente per gradi, visto che le tavolette del­

la città sumera di Mari, distrutta verso il -1755 da Hammurabi, mostrano che i

suoi abitanti scrivevano già i numeri fino a 1 .000 in tale maniera, ma mantene­ vano ancora per quelli superiori il sistema sumerico. Furono infine i Babilonesi, più o meno in quel periodo, a estendere il proprio sistema misto, vecchio ormai di mezzo millennio, nel primo sistema posizionale completo della storia.

Le potenze della base furono abbandonate, e i numeri da l a 59 vennero

indicati con combinazioni di due soli simboli: un chiodo verticale per le unità, e un punzone orizzontale per le decine. Naturalmente, bisognava an­ che segnalare l'eventuale mancanza di una potenza della base: ad esempio, per distinguere tra numeri quali i nostri 2.300, 2.030, 2.003 , 230, 203 e 23 . I Babilonesi lasciarono semplicemente spazi vuoti nei posti appropriati, ma era facile far confusione nel riconoscere o meno l'esistenza di uno spazio vuoto, e nel distinguerlo da due o più. In tal caso doveva essere la natura del problema, o il contesto, a guidare verso l'interpretazione corretta.

.., l 1'!2 m3 "4 W5 R'J6 167 f/8 1119 � 10

�.., 11 �1'! 12 �m 13 �" 14 �w 15 �R'J 16 �16 17 �f/ 18 � 111 19 -« 20

«"l 21 «1'1 22 «m 23 «w 24 «w 25 «RJ 26 «16 27 «fl 28 «111 29 � 30

«("l 31 «{1'! 32 « (Jl -l

?;

L

E come la geometria degli antichi è costruita a partire dai punti, così la teoria degli insiemi dei moderni si costruisce a partire dall'insieme vuoto. Essa si riduce dunque letteralmente a un edificio di pure forme, che si dissol­ ve in ultima analisi nel nulla: una visione, questa, molto vicina alla shunyata buddhista, per la quale le cose non sono solo contenitori vuoti, ma sono vuote apparenze di contenitori. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l'essenza della cipolla pelandola, come nel Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867) , o in

Vestire

gli ignudi di Pirandello ( 1922 ) . O se si cerca l'essenza del carciofo sfoglian­ dolo, come nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein ( 1 95 3 ) .

l ·

Immagini: lo O di Erté; l'ombra di Peter Pan in una scena del film Disney; il mare di buchi di Yellow Submarine; lo spartito della marcia funebre di Alphonse Allais; Concetto spazzate #2 di Lucio Fontana; la locandina originale di Gioventù bruczata; l'Enso, simbolo sacro del buddhismo zen, nell'opera dell'artista calligrafo Seiko Hirata; la copertina di con il titolo ; Vuoto quantico di Antony Gormley; Zero di Robert Indiana; la mappa della Caccza allo Snark di Lewis Carroll.

77

L'Un ità, organ o del Partito Mon ista ----- �

----

-

L'uno, secondo elemento della lista dei numeri interi, è in realtà il penultimo arrivato. E prima dell'invenzione o scoperta dello zero, era il primo elemento della lista, ma l'ultimo arrivato. La sua nascita risale al -250 circa, ed è dovuta al logico stoico Crisippo. Prima di allora i numeri interi venivano considerati come la "misura di una molteplicità", mentre l'unità veniva percepita come il contrario di una molte-

L'Unità, organo del Partito Monista (l)

plicità. In particolare, non come l'inizio della serie dei numeri, bensì come il loro arché, "principio" o "origine" . Una differenza sottolineata dal fatto che la moltiplicazione per uno non ha nessun effetto, diversamente dalla moltipli­ cazione per qualunque altro numero. Nella Metafisica Aristotele cercò di mediare fra le due posizioni, distin­ guendo da un lato l'"unità di misura" , e dall'altro la "molteplicità del misu­ rato" . Ma Crisippo capì che non c'era bisogno di mediazioni: bastava consi­ derare l'unità come la misura di una molteplicità " degenere" , e dunque come un numero a tutti gli effetti. La mancanza del numero uno non aveva comunque impedito in prece­ denza agli uomini di considerarne degli analoghi nei campi più disparati, come già era successo per lo zero. ....--- 1

---·

Quegli zeri primordiali che sono il Nessuno e il Nulla ammettono sia negazioni come Qualcuno e Qualcosa, sia contrari come Tutti e Tutto. Benché queste distinzioni risalgano al trattato Sull'interpretazione di Aristotele, i filosofi e i let­ terati tendono a ignorarle, e quando parlano dell'Uno finiscono spesso col fare una gran confusione. Infatti lo intendono a volte in maniera relativa, come uni­

tà o unicità di un "tutto unico". E altre volte in maniera assoluta, come totalità del "tutto esistente", all'insegna del motto "Uno per Tutto, e Tutto per Uno". Se Qualcuno e Qualcosa vengono presi in

un

senso sufficientemente ge­

nerico, possono comunque indicare qualunque persona e qualunque cosa, e dunque diventano i protagonisti di tutta la letteratura e di tutta l'arte. Ma a volte vengono intesi in un senso più specifico, come nella popolare e diffusa religione del qualcosismo, basata sulla vaga e incerta credenza che " qualcosa ci dev'essere" , "qualcosa c'è", o "qualcosa ci sarà". E spesso il cerchio si chiude, quando quel " qualcosa" viene identificato con un "qualcuno", che è il dio venerato nel qualcunismo. ----

1 ----

Una versione teologicamente più elaborata del " qualcunismo" è il

monotei­ smo, che professa l'unicità della divinità, e spesso la chiama appunto Uno. 79

Unità

La qualifica è però ambigua, perché può indicare, in senso assoluto, che " c'è un unico Dio " , e altri non ce ne sono. O, in senso relativo, che " c'è un unico

vero Dio" , e tutti gli altri sono "falsi e bugiardi" .

Il monoteismo è oggi largamente praticato in Occidente, m a h a un'origi­ ne mediorientale. La sua invenzione si deve ad Akhenaton, "Servo di Aton" , che verso il - 1350 sostituì il variopinto

pantheon egizio, popolato da una

schiera di creature mitologiche capitanate da una sorta di Giove chiamato Amon, con il culto di un unico principio vitale, identificato nel disco solare e chiamato Aton.

So

L'Unità, organo del Partito Monista (l)

Qualche secolo dopo Mosè, o chi per esso, introdusse il monoteismo fra gli Ebrei. ll decalogo ebraico è però ambiguo al proposito, perché il primo comandamento recita testualmente: «Non avrai altri dèi di fronte a me», e sembra dunque incitare all'adorazione di un solo Dio, più che all'afferma­ zione della sua unicità. Il Credo cristiano professa invece un monoteismo trinitario, in cui un unico Dio si presenta nella forma di tre persone distinte: Padre, Figlio e Spirito Santo. Molti però ritengono il "monoteismo trinitario" un ossimoro, e lo considerano una forma di politeismo mascherato. Non tutti i Cristiani sono però d'accordo sul Credo: ad esempio, gli antichi Ariani e i moderni Unitari ritengono che il Figlio non sia Dio, ma solo un mediatore tra il Padre e l'uomo. Viceversa, il politeismo è spesso il travestimento di un monoteismo, quando trascende le distinzioni tra i propri dèi. Ad esempio, nell'induismo Brahma, Vishnu e Shiva, rispettivamente Creatore, Preservatore e Distrutto­ re dell'universo, sono tre forme di un unico Brahman. Nell'antica religione egizia, Iside assommava tutte le divinità e veniva chiamata "colei che ha die-

Sr

Unità

cimila nomi" . E nella tarda religione greca, Apollo era una sorta di super­ divinità dell'ecumenismo panellenico, dagli innumerevoli epiteti: in partico­

lare, secondo I.:E di Delfi di Plutarco, il suo stesso nome veniva interpretato come a-pollai, "non molti" , e dunque letteralmente "uno " . · ·-·-----

1

---

In filosofia il monoteismo prende le forme del

monismo, che afferma la vera

realtà del solo Uno, in contrapposizione alla falsa apparenza della moltepli­ cità. Ciò nonostante, e paradossalmente, di questo "Uno" ce ne sono molti, a seconda di come lo si declina. Ad esempio: •

Per il monismo materialista l'Uno è la materia, per il monismo idealista lo spirito, e per il monismo neutro qualcos'altro da specificare.



Per il

monismo sostanziale l'Uno è una sostanza, ma per il monismo in­ dividuale è un individuo. Parola, questa, che significa letteralmente "in­ divisibile" o "inseparabile": dunque, appunto, "uno" , come sottolinea

l'inglese one-sel/ per "se stessi" . •

Per il

monismo assoluto l'Uno è tutto, ma per il monismo relativo è solo

qualcosa: owiamente sempre con l'articolo determinativo e la maiuscola, cioè quel particolare Qualcosa. In Occidente la dottrina che "l'Uno è il Tutto" ha trovato i suoi primi profeti nella "Banda dei tre P greci" , ciascuno con il suo stile letterario: Par­ menide nel poema Sulla natura, Platone nel dialogo Parmenide, e Platino nei saggi delle Enneadi. A loro si è poi accodata una lunga lista di predicatori, dai neoplatonici rinascimentali agli idealisti tedeschi, che a seconda dei casi hanno chiamato l'Uno Anima Mundi, Monade delle Monadi, Spirito Asso­ luto, Essere, Materia, Energia, Natura, Universo . . . Come si può immaginare dalle vicende della teologia negativa, anche la dottrina che "l'Uno è il Nulla" ha avuto i suoi predicatori. Uno degli ulti­ mi in ordine di tempo è stato Edgar Allan Poe, che nel "poema in prosa"

Eureka (1848) ha temporaneamente abbandonato i racconti dell'orrore per 82

L'Unità, organo del Partito Monista (l)

dedicarsi a un saggio dello stesso genere. I risultati delle sue ricerche li ha riassunti lui stesso nel 1 848, in una lettera a George Isbell:

Io mostro che l'Unità è il Nulla. Tutta la materia, che origina dall'Uni­ tà, è originata dal Nulla, nel senso che è stata creata. E tutta ritornerà all'Unità, cioè al Nulla. Naturalmente, le due dottrine messe insieme riportano per transitività al nichilismo del "Tutto è Nulla" , che era appunto il succo della speculazione di Plotino. L'identificazione di Uno, Nulla e Tutto ha poi trovato una rap­

presentazione metaforica nell ' Uno,

nessuno e centomila di Luigi Pirandello

( 1 926), che la applica alla coscienza del protagonista: in un processo di gra­

duale disfacimento, essa parte dall'unicità e approda alla frammentazione, passando per l'annullamento.

È però in Oriente che il monismo ha permeato il pensiero filosofico e la

pratica religiosa, spingendo verso la ricerca della vera essenza della realtà al di là delle false apparenze della

maya, "illusione" . In questo caso l'Uno è

stato variamente identificato con il Brahman, il Vuoto o il Tao, e la sua com­ prensione è divenuta lo scopo di tutta la speculazione induista, buddhista e taoista. ·--- 1 ---

Unità

In pittura e in musica, le tele

monocrome anticipate da Alphonse Allais alla

fine dell'Ottocento e sfruttate da molti nel Novecento, da Kazimir Malevich a Yves Klein, così come le composizioni a un solo suono quali la Sinfonia mo­

notona dello stesso Klein ( 1 947) , costituiscono altrettanti analoghi cromatici e acustici dell'unicità. Le unità cromatiche sono infatti costituite dai colori pun prodotti fisicamen­ te dai prismi, e corrispondenti matematicamente a onde luminose perfettamen­ te sinusoidali. Nel 1666 Isaac Newton mostrò che la luce bianca, passando attraverso un prisma, si decompone appunto in colori puri, che non vengono ulteriormente decomposti dal passaggio attraverso un secondo prisma.

AU BORO DI LA JliR ROUGE ,..... _...... _, ,,

IIIA NIPULATION DI L"OCRI PAR DiS COCUS ICTÉRIQUES ,,

L 'Unità, organo del Partito Monista (l)

Le unità sonore sono invece costituite dai suoni puri prodotti fisicamente dai diapason, e corrispondenti matematicamente a onde atmosferiche per­ fettamente sinusoidali. Nel 1 807 Joseph Fourier mostrò teoricamente che tutti i suoni si possono ridurre a somme infinite di suoni puri. E nel 1860 Hermann von Helmholtz confermò praticamente che un'orchestra di diapa­ son può riprodurre qualunque suono, dal canto di un soprano al frastuono di un uragano: cosa oggi resa popolare dai sintetizzatori elettronici. Esattamente come i numeri interi, anche i colori puri e i suoni puri sono in quantità infinita, perché infinite sono le possibili lunghezze, o le possibili frequenze, delle onde luminose o atmosferiche. Le riduzioni dei colori fon­ damentali a tre, o delle note della scala a sette o dodici, sono dunque pura­ mente convenzionali, anche se non arbitrarie (vedi pp. 166 e 235 ) . ·--- 1 ---

quanti e le particelle elementari. In chi­ mica, gli atomi e le molecole. In biologia, le cellule e gli individui delle varie specie. In astronomia, i vari corpi celesti: pianeti, comete, asteroidi e stelle. In cosmologia, i sistemi stellari e le galassie. Ma anche e soprattutto l'universo,

In fisica, le unità individuali sono i

che letteralmente significa "a senso unico" , e dunque dovrebbe essere uno solo per definizione, in una nuova versione della millenaria tensione fra Uno e Tutto. Oggi però la teoria dei plurz'versi, anticipata da William James in

Un

universo pluralistico ( 1 909) , postula l'esistenza di molti ossimorici "universi" , per ora soltanto ipotetici. In un'altra direzione, l'intero programma scientifico si può sintetizzare come il tentativo di spiegare in maniera unitaria una molteplicità sempre più vasta di fenomeni apparentemente diversi. La prima generica formulazione di questo programma risale al tentativo di Parmenide di ridurre all'immuta­ bilità dell'essere il dinamismo del divenire. Ma in seguito se ne sono trovate espressioni più precise, dalle teorie unificate ai prindpi di conservazione. Tra le unificazioni più note e fondamentali possiamo ricordare

l'elettro­ magnetismo di James Clerk Maxwell (187 3 ) , lo spazio-tempo e la massa-ener­ gia di Albert Einstein ( 1 905 ), la quantoelettrodinamica di Richard Feynman, Julian Schwinger e Sin-Itiro Tomonaga ( 1 949) , e la forza elettrodebole di Sheldon Glashow, Abdus Salam e Steven Weinberg ( 1 967) . Mancano ancora ss

Unità

all'appello una grande unificazione, che metta insieme la forza elettrodebole con la forza nucleare forte, e una teoria del tutto, che completi l'opera unifi­ cando anche la gravitazione con esse. Quanto alle conservazioni, l'antico motto "nulla si crea, nulla si distrug­ ge, tutto si trasforma" era già una formulazione del principio di conservazio­ ne della massa, poi precisato da Antoine Lavoisier (1789). Sono poi seguiti princìpi di conservazione di ogni possibile quantità,

dall'energia alla carica

elettrica. E nel 1918 Emmy Noether ha scoperto una nuova unificazione, tra le simmetrie delle leggi di un sistema e le conservazioni delle sue proprietà. ---

1

----

In aritmetica, anche prima di venir considerato come un numero alla pari degli altri, l'l è stato percepito come il loro principio generatore, e per esten­ sione come un'immagine dell'Uno filosofico. Opportunamente ipostatizza­ to, esso venne dunque elevato alle rarefatte altezze descritte nel romanzo

Archeologia dello zero da Alain Nadaud ( 1 984) : Nel corso delle sue sofisticate costruzioni Pitagora si vedeva sempre riportato al primo dei numeri, che conteneva in potenza tutti gli altri, e dava inizio all'infinita catena della numerazione. All'Uno indivisibi­ le, e dunque irriducibile a qualunque altra cosa diversa da sé: simile in questo, comunque, all'illimitata serie dei numeri interi che lo seguiva­ no, e che attraverso lo spazio facevano eco alla sua divinità. Nell'Uno l'origine del mondo si rammentava a se stessa: niente lo precedeva, e tutto ciò che lo seguiva non era altro che il suo valore moltiplicato all'infinito. La monade, primordiale ed eterna, s'identi­ ficava immediatamente con l'immagine stessa di questa totalità, che prendeva il nome di Completamento, Perfezione, o addirittura Divi­ nità: ciò al di qua e al di là del quale non si poteva pensare più niente.

co

ll nome "uno" ha però un significato più prosaico. Deriva infatti dal gre­

oinos, che indicava l'asso dei dadi: cioè la faccia con la rappresentazione del numero uno, appunto. Il nome "asso" deriva a sua volta dal latino assis, "asse" , che indicava la moneta usata dai Romani come unità di riferimento: 86

L'Unità, organo del Partito Monista (l)

ne ritroveremo in seguito la sesta parte nei sestanti, e la dodicesima parte nelle once (vedi pp. 156 e 236).

Ancor oggi diciamo "un asso" per indicare "il numero uno" : sia nelle car­ te, sia in senso metaforico. E usiamo le espressioni "in fila per uno" , "ancora uno", "uno di troppo" , "uno che sia uno", "uno su mille", "uno dei tanti" , "uno per tutti" , "pericolo numero uno" , "nemico pubblico numero uno" e "formula uno" . Oltre a "caso unico" , "esemplare unico" e "senso unico" . E naturalmente fanno riferimento al numero uno le parole con il prefisso greco

mono, "solo" o "isolato" . Oltre ai già citati monoteismo e monismo,

anche monade, monogamia, monopolio, monologo, monotono, monotema­ tico, monocultura, monolinguismo, monolocale, monoposto, monovolume, monouso, monoblocco, monocolo, monocromo, monocorde, monogramma, monorotaia e monoplano. Senza dimenticare i monomi e i monoidi della ma­ tematica, i monomeri e i monossidi della chimica, i monoliti della geologia, i monozigoti della biologia e le monocotiledoni della botanica. ---

1 ---

In geometria, un esempio minimale della coincidenza di Tutto, Uno e Nulla è il punto, che preso da solo rappresenta un intero universo a sé stante, costituito di un unico elemento a zero dimensioni. Questa sua triplice natura è stata sin­ tetizzata da Edwin Abbott nella BK o Phi Beta Kap­ pa. Nei codoni del DNA e dell'RNA, come l'AUG della metionina. E nelle divisioni delle cifre dei numeri maggiori di 999. Nella comunicazione, infine, le invocazioni sono in genere ripetute tre volte. Ad esempio, il mantra della pace induista termina con shanti, shanti, shanti. Il Sanctus, non a caso chiamato anche Tersanctus, recita: «Santo, Santo, Santo è il Signore». Il giuramento islamico ripete per tre volte il nome di Dio in tre forme diverse: wallahi, billahi, tallahi. E il triplice gri­ do di giubilo dei marinai inglesi hip, hip, hurrah è ormai entrato nell'uso comune. ,

I I4

Non c'è due senza tre (3)

Anche gli indovinelli si presentano spesso in tre parti, a cominciare da quello della Sfinge a Edipo: «Chi è che prima cammina su quattro gambe, poi su due, e poi su tre?». E spesso vengono in teme, come nella storia di Turandot. Altrettanto per i desideri, come quelli concessi ad Aladino dal genio della lampada.

---

3

----

In musica abbondano le terze, che sono intervalli distanti tre note consecutive nella scala eptatonica: ad esempio do-mi (maggiore), o mi-sol (minore). E ab­ bondano anche le triadi, che sono accordi formati da tre note distanti due ter­ ze consecutive: ad esempio, do-mi-sol (do maggiore), o mi-sol-si (mi minore). Una composizione per tre strumenti si chiama trio, e viene suonata da un terzetto di musicisti. Nella musica classica il trio è stato spesso usato come parte centrale di una composizione a sua volta ternaria, come il minuetto o lo scherzo, anche se in seguito ha perso il significato letterale legato ai tre strumenti(sti) . Ad esempio, a partire da Beethoven lo scherzo è stato spesso usato come movimento di una sonata o di una sinfonia, e dunque il corri­ spondente trio è stato suonato a volte da solisti, e altre da intere orchestre. 115

Unità

---- .3

------- --·

In fisiologia, tre sono i foglietti germinativi in cui si differenzia l'embrione:

endoderma, mesoderma, ectoderma.

E tre i sistemi corporei in cui si struttura

l'organismo, a partire dai foglietti germinativi: viscerale, muscolare e cerebrale. A questa tricotomia sono riconducibili i tre

tipi fisiologici: viscerotonico,

somatotonico e cerebrotonico, rispettivamente concentrati sull'avere, il fare e l'essere. Le tre

anime:

concupiscibile, volitiva e razionale in Platone, o vege­

tativa, sensitiva e intellettiva in Aristotele. I tre

caratteri: bilioso,

sanguigno e

flemmatico in Ippocrate (vedi p. 132), o sulfureo, mercuriale e salino in Para­ celso.

E le tre intelligenze:

reattiva, percettiva e riflessiva in William James, o

animale, militare e umana in Aldous Huxley. Alla stessa tricotomia corrispondono anche, più generalmente, le /asi della vita: adolescenza, maturità e vecchiaia (non a caso chiamata "terza età"). I tipi di

amore:

romantico, fisico e coniugale. Gli

stoico e scettico.

E le scuole psicanalitiche

atteggiamenti filoso/ici:

epicureo,

originarie: freudiana, adleriana e

junghiana. Ciascuna delle quali ha le proprie classificazioni temarie: dalle fasi anale, fallica e orale, alle patologie delle nevrosi, psicosi e perversioni. Tre sono anche i sistemi di comunicazione che armonizzano le funzioni cor­ poree: endocrino, immunitario e nervoso, regolati da ormoni, anticorpi e neu­

coni della retina (vedi p. 106), sensibili ai tre colori fondamentali: rosso, verde e blu. E tre i canali semicircolari mutuamente

rotrasmettitori. Tre i già citati

perpendicolari situati nell'orecchio interno, che registrano i tre possibili movi-

II6

Non c'è due senza tre (3)

menti rotatori della testa (dall'alto in basso, da destra a sinistra, da una spalla all'altra) e forniscono la percezione della tridimensionalità dello spazio.

---

3 ---

A proposito di "perversioni",se la Coppia formata da un Lui e una Lei forniva l'esempio archetipico della dualità,con l'aggiunta di un Altro o di un'Altra si

il duo a tre che anagramma "adulterio". Non a caso si parla al proposito di un triangolo amoroso, e tutti

trasforma nell'esempio archetipico della trinità:

percepiscono istintivamente l'incremento di complessità nel rapporto di cop­ pia causato dall'arrivo di un "terzo incomodo". La stessa tensione fra due e tre si ritrova nella gravitazione newtoniana, quando si calcolano le interazioni reciproche dei corpi: fisici,in questo caso,

più che biologici. n problema monogamo di due soli corpi

è stato risolto in

maniera esatta da Isaac Newton nei Principia ( 1687) : entrambi i corpi si muo­ vono su orbite ellittiche,con il baricentro del sistema in un fuoco comune. Come già in biologia,il caso poligamo di tre corpi è non solo più eccitante, almeno per due terzi dei partecipanti,ma anche molto più difficile da gestire. Soluzioni approssimate si possono ottenere considerando dapprima il caso monogamo,e poi perturbandolo in modo da tener conto dell'interferenza del "terzo incomodo " , esattamente come si fa nella vita (extra)coniugale. Per quanto riguarda le soluzioni esatte, Henri Poincaré scoprì alla fine dell'Ottocento che il problema dei tre corpi è insolubile,instabile e caotico: più precisamente,benché si conoscano esattamente le forze in gioco, in generale il comportamento del sistema non si può descrivere esplicitamente,non si man­ tiene indefinitamente,e dipende fortemente dalle condizioni iniziali.

n che spiega perché sia impossibile prevedere dove i triangoli di corpi, fisi­

ci o biologici,andranno a parare. Perché diventi difficile stabilizzarli in

ména­

ge à trois duraturi. E perché ogni storia costituisca comunque un caso a sé: per somma fortuna, ovviamente,dei romanzieri,dei cineasti e degli psicanalisti.

----

3 ----·

n passaggio da due a tre è critico non soltanto nella teoria della gravitazione,ma

nelle aree più disparate. Tanto da far sospettare l'esistenza di un ostacolo na-

I I7

Unità

turale al pensiero, che si rivela in grado di affrontare e risolvere praticamente situazioni di estrema semplicità, ma si trova in difficoltà o nell'impossibilità di farlo teoricamente in situazioni anche solo leggermente più complesse. Nell'equa distribuzione delle risorse, ad esempio, il problema è esempli­ ficato dalla divisione di una torta. Se ci sono solo due persone a spartirsela, per evitare recriminazioni basta far tagliare la torta a una di esse, e far sce­ gliere la fetta all'altra: così agirono istintivamente Abramo e Lot nel Genesi (xnr), per occupare la terra di Cana. Ma con più persone niente di così sem­ plice funziona, e già nel caso di tre possono essere necessari fino a cinque tagli successivi, per ottenere una divisione soddisfacente per tutti.

In democrazia, il problema si presenta quando si debbano integrare in un ordine sociale le preferenze individuali espresse nel voto, scegliendo fra pro­ poste in un referendum, o fra candidati in un'elezione. Se le scelte sono sol­ tanto due, Kenneth May ha dimostrato nel 1952 che la votazione a maggio­ ranza è l'unico procedimento che permetta a ciascuno di votare per chi vuole, mantenga l' anonimità del voto, e il cui risultato dipenda unicamente dai voti espressi. Ma se le scelte sono tre o più, Kenneth Arrow ha dimostrato nel 195 1 che non esiste nessun procedimento che soddisfi condizioni analoghe. In economia, il problema ritorna quando si debba raggiungere un equili­ brio tra la domanda e l'offerta in un mercato. Se le merci sono soltanto due, lo stesso Arrow e Gérard Debreu hanno dimostrato nel 1954 che l'equilibrio effettivamente esiste, ottenendo rispettivamente il premio Nobel per l'ecoII8

Non c'è due senza tre (3)

nomia nel 1972 e nel 1983 . Ma se le merci sono tre o più, come succedeva persino in Unione Sovietica, Herbert Scarf ha dimostrato nel 1960 che se anche il sistema raggiunge l'equilibrio, non è detto che lo mantenga. E Hugo Sonnenschein ha aggiunto nel 1972 che anche quando l'equilibrio esiste in teoria, non è detto che il mercato lo raggiunga in pratica, o che vi ritorni quando se ne allontana. --- 3

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Altrettanto critico è nella logica il passaggio da due valori di verità a tre o più, e non a caso ha richiesto un paio di millenni per essere concretizzato. La logica classica, basata sul "vero" e sul "falso", fu sviluppata in manie­ ra informale da Aristotele e Crisippo già nei secoli -IV e -III, e fu facilmente tradotta in maniera algebrica da George Boole nell'A nalisi matematica della logica (1847). Basta infatti identificare il "vero" e il "falso" con l' l e lo O, e tradurre di conseguenza le operazioni logiche in operazioni aritmetiche. Ad esempio, il fatto che una congiunzione sia vera quando entrambi i congiunti sono veri, e falsa altrimenti, si traduce nelle quattro equazioni l x l = l

e

l x o = o x l = o x o = o.

Per sviluppare invece una logica in cui ci fossero tre o più valori di verità si dovette attendere il 1920, quando Jan Lukasiewicz riuscì ad aggiungere il "possibile" al "vero" e al "falso", assegnandogli il valore 112. Interpretando le operazioni logiche in maniera più complicata che nel caso classico, fu possibile conservare il principio di non contraddizione, pur lasciando ovvia­ mente cadere il principio del terzo escluso. Si chiarì in tal modo che, contrariamente a ciò che credeva il povero Hegel, la logica dialettica non ha nulla a che vedere con il primo principio, e tutto a che vedere con il secondo. Da un lato, infatti, l'esistenza di una sintesi dimostra che la tesi e l'antitesi non erano in realtà fra loro contraddittorie, bensì complementari. E, dall'altro lato, che non erano i corni di un dilemma, bensì solo due possibilità fra tre o più. ---

3

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II9

Unità

Dopo aver accennato a varie trinità e tripartizioni, come esempi della triade universale, è ora di affrontare direttamente il tre, come numero. Anzitutto, la cifra 3 che lo rappresenta è derivata, come già lo era la cifra 2 , dal processo di scrivere senza alzare la penna tre trattini paralleli orizzontali, come usava­ no gli antichi Brahmini e usano ancora i Cinesi moderni. Quanto al nome, il 3 si chiamava in sanscrito tri, in greco treis e in latino tres. Di qui la radice usata in innumerevoli termini che indicano tripartizioni, come triplo, trittico, trilogia, tricolore, trivio, trifoglio, trigesimo, trimestre, triennio, trifora, tribolo, tripudio, trisavolo, trireme, triciclo, triclinio, tridente, tricefalo, trigemino, tricipite, tripolo, eccetera. Ma anche tribù (dall'originaria tripartizione dei cittadini romani in Latini, Sabini ed Etruschi), da cui deriva­ no a loro volta tribuna, tribuna, tribunale, tributo, eccetera. Lo stesso vale per il derivato ter, come in tema, che è uno dei sinonimi usati per il 3 , insieme a trio, triade e tripletta. Ma, ancora una volta, in questo campo noi siamo solo timidi imitatori degli Indiani, che usavano più libe­ ramente anche i nomi delle più svariate teme della loro cultura: i tempi co­ smici, i mondi fenomenici, gli aspetti della materia, gli stati della coscienza, i corpi di Dio, gli occhi di Shiva, le lettere del mantra Aum . . .

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3

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In geometria, tre punti non allineati costituiscono i vertici di un triangolo, con tre angoli e tre lati. E per essi passa sempre un cerchio, costituito da tre !20

Non c'è due senza tre (3)

elementi: centro, raggio e circonferenza. Tre coordinate permettono invece di descrivere i punti dello spazio tridimensionale, che è quello del nostro mondo fisico, in cui le cose hanno lunghezza, profondità e altezza. Come i prodotti di due numeri corrispondono ad aree di rettangoli, i pro­ dotti di tre corrispondono a volumi di parallelepipedi, ma i prodotti di quat­ tro o più non hanno un'analoga interpretazione fisica. Per questo i Greci si limitarono ai primi due, chiamandoli numeri piani e numeri solidi, ma in tal modo si legarono le mani e ritardarono il completo sviluppo dell'aritmetica e dell'algebra. Quanto alle classificazioni trinitarie, la geometria ne abbonda. Ci sono tre tipi di angoli: acuti, retti e ottusi. Tre tipi di triangoli: equilateri, isosceli e scaleni. Tre tipi di ricoprimenti regolari del piano: triangolari, quadrati ed esagonali. E, soprattutto, tre tipi di geometrie: sferica, euclidea ed ellittica, caratterizzate dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettiva­ mente maggiore, uguale o minore di due angoli retti. ----

3 ----

In aritmetica, 3 è un numero primo: dispari, come lo sono tutti i numeri primi eccetto il 2. Ed è anche la somma di l e 2, il che lo rende un numero triangolare, nel senso che si può rappresentare con tre pallini disposti a triangolo equilatero. Ricorsivamente, i numeri triangolari si generano sommando via via gli interi in ordine di grandezza, cioè l , 2, 3 , 4, 5, eccetera, ottenendo l , 3 , 6, 10, 15, eccetera. Sinteticamente, i numeri triangolari si esprimono invece me­ diante la formula n(n + 1 )/2, che calcola da un lato la somma dei numeri da l a n, e dall'altro l'area di un triangolo di base n e altezza n + l . In particola­ re, 3 è l'unico numero primo triangolare.

1 e

• a • •

• • • 6 • • •

• • • • • • 10 • • • •

• • • • • • • • • • 15 • • • • •

11 10 luglio 1796 il diciannovenne Cari Gauss trovò una connessione mol­ to più profonda tra il 3 e i numeri triangolari, dimostrando che ogni intero si può scrivere come la somma di al più tre numeri triangolari, non necessaria121

Unità

mente distinti: ad esempio, 20 è uguale a 10 più 10. Sul suo diario la scoper­ ta fu concisamente registrata così: EUREKA!

num

-

3

=

�+�+ �.

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In algebra, la lunga saga legata alla soluzione dell'equazione di terzo grado

ax3 + b:x? + ex + d = O è un ulteriore esempio della difficoltà del passaggio dal due al tre. Mentre la formula risolutiva per l'equazione di secondo grado era infatti nota già ai Babilonesi (vedi p. 104), quella per il grado successivo dovette attendere il Cinquecento, e il contributo congiunto della scuola ita­ liana di Scipione dal Ferro, Niccolò Fontana (detto Tartaglia) e Gerolamo Cardano. Oggi sappiamo che la difficoltà sta nel fatto che, anche nei casi particola­ ri in cui l'equazione abbia solo soluzioni reali, qualunque formula risolutiva generale richiede comunque l'uso di numeri complessi, che poi si cancellano miracolosamente. Per curiosità, la formula trovata dagli Italiani per l'equa­ zione x' = mx + n, alla quale si può sempre ridurre qualunque equazione di terzo grado, è

Prima della scoperta di questa formula, risolvere un'equazione di terzo grado era considerata un'impresa difficile, e spesso disperata. E poiché i ma­ tematici di allora si guadagnavano il pane anche facendo disfide pubbliche, di qui deriva l'espressione "fare un terzo grado" , che in origine era dunque riferita alla proposta di soluzione di un' equazi