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Avv. Luigi Maria Sanguineti
Il diritto civile ragionato 100 lezioni ragionate per agevolare la preparazione agli esami/concorsi Sesta edizione
Indice
Prefazione
Libro primo: Interesse dello Stato che nessun bene costituente la ricchezza nazionale resti inutilizzato.
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1 – L’interesse dello Stato allo sfruttamento ottimale dei beni » 11 2 – La gestione degli affari altrui » 14 3 – Cenni sulla dichiarazione di assenza e di morte presunta » 21 4 – Perché il legislatore tutela il possesso » 32 5 - La tutela giudiziaria : la “azione” di reintegrazione e la “azione” di manutenzione 6 – Usucapione
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8 – Iura in re aliena 9 –L’onere della prova nell’azione di rivendicazione 10 – In facultativis non datur praescriptio 11 – La prova nell’ambito dell’azione di regolamento di confini 12 – Le servitù prediali 13 – Comunione 14 – (Continuazione) Condominio di edifici
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Libro secondo: Dei vari tipi di obbligazione
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1 – Debiti pecuniari e principio nominalista. Debiti di valore e di valuta 2 – Obbligazioni in solido 3 – Obbligazioni divisibili e indivisibili
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7-La prescrizione estintiva
4 – Novazione oggettiva 5 – Delegazione 6 – Cessione di crediti 7 – Accollo 8 – Cessione del contratto 9 – Contratto a favore di terzi 10 – Pagamento su surrogazione
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Libro terzo: Dei contratti - Del risarcimento da fatto illecito - Dell'arricchimento senza giusta causa. Sezione prima : Interesse dello Stato a che i beni costituenti la ricchezza nazionale vengano al massimo valorizzati. 1 – La funzione sociale del contratto » 2- Vizi del consenso e incapacità delle parti : premessa. 3 - Obbligo di informare la controparte degli errori in cui sta per cadere 4 - L'errore-vizio del contratto. Individuazione della parte che ha diritto che il contratto abbia il contenuto da lei voluto
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5 - ( Continua ) Condizione per l'efficacia del contratto viziato da errore : la non riconoscibilità dell'errore 6 - ( Continua ) Quando il legislatore ritiene “essenziale” un errore 7 -Rettificazione – Convalida del contratto 8 . L'interpretazione del contratto 9 – La tutela del patrimonio dell’incapace. Premessa 10 – L’incapacità naturale 11– La nullità del contratto 12 – Possibili cause della nullità di un contratto: illiceità, della causa, dello oggetto 13 – E' nullo il contratto quando la sua esecuzione determina inevitabilmente l'inadempimento di un'obbligazione ? I diritti reali . 14 – La condizione 15 – La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità 16 – Dell’impossibilità sopravvenuta 17 – La diligenza nell’adempimento …
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18 – I rimedi dati contro l’inadempimento
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Sezione seconda :Interesse dello Stato che i beni costituenti la ricchezza nazionale siano gestiti dalle persone più oneste ( ancorché meno capaci ) 19- La rescissione del contratto per “lesione”o perché concluso in stato di pericolo 20– Annullamento del contratto quando il consenso é stato carpito con dolo 21- Annullamento del contratto quando il consenso é stato estorto con violenza Sezione terza : Interesse dello Stato che eventuali perdite di beni costituenti la ricchezza nazionale siano ripianate gravando sul patrimonio di chi l'ha provocate o di chi, in relazione ad esse, si é arricchito. 22 - I principi che reggono il risarcimento da fatto illecito 23 – Cenni sui vari tipi di responsabilità da fatto illecito. 24 - Arricchimento senza giusta causa Libro quarto ; Diritto di famiglia Sezione prima: La fonte dei diritti e degli obblighi tra i coniugi: il matrimonio.Le condizioni per la sua celebrazione, la sua nullità. Lezione I: Premessa: perché il Legislatore tutela l’istituto famigliare Lezione II: Le condizioni per poter contrarre matrimonio. La nullità di questo Lezione III: L’annullamento del matrimonio: come il Legislatore cerca di evitarlo Lezione IV: Breve commento agli articoli che prevedono la nullità del matrimonio Sezione seconda: Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio Lezione V: Gli obblighi, alla fedeltà, all’assistenza, alla collaborazione, alla coabitazione Lezione VI. L’obbligo di contribuzione Sezione terza: Disposizioni generali sui regimi patrimoniali – Il regime della separazione dei beni.
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Lezione VII: Disposizioni generali Lezione VIII: Il regime della separazione dei beni Sezione quarta: La comunione legale Lezione IX: L’oggetto della comunione legale Lezione X: L’amministrazione della comunione Lezione XI: Le obbligazioni Lezione XII: Lo scioglimento della della comunione Lezione XIII: La divisione
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Sezione quinta: Comunione convenzionale dei beni – Fondo patrimoniale Lezione XIV: La comunione convenzionale dei beni Lezione XV: Il fondo patrimoniale
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Sezione sesta: Rapporti tra genitori e figli. Lezione XVI: Rapporti tra genitori e figli – Premessa Lezione XVII: L’individuazione del genitore biologico Lezione XVIII: Diritti e obblighi reciproci dei genitori e dei figli Lezione XIX: L’adozione
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Sezione settima: Separazione e divorzio Lezione XX: Cause giustificative e iter della separazione e del divorzio Lezione XXI: Diritti e doveri dei coniugi dopo la separazione, in mancanza di figli Lezione XXII: La separazione in presenza di figli Lezione XXIII: Il divorzio Lezione XXIV: I patti tra coniugi
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Sezione ottava: Le alternative al matrimonio Lezione XXV: Le Unioni civili Lezione XXVI: La convivenza
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Libro quinto: Diritto ereditario
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Lezione I: I criteri per la scelta degli eredi Lezione II: Accettazione e rinuncia dell’eredità Lezione III: Eredità giacente. Poteri di vigilanza e
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di amministrazione del chiamato all’eredità Lezione IV: Diritto del chiamato all’inventario. Accettazione coatta. Accettazione con beneficio di inventario Lezione V: Della separazione dei beni del defunto Lezione VI: Petitio hereditatis Lezione VII: Rappresentazione – Accrescimento – Sostituzione Lezione VIII: Revocabilità della dichiarazione testamentaria – I patti successori Lezione IX: I legittimari – L’azione di reintegra della quota loro riservata. Lezione X: Limiti alla volontà testamentaria – Condizioni – Termini – Oneri Lezione XI: Capacità di disporre per testamento. Forma di questo Lezione XII: La divisione e il suo presupposto: la comunione ereditaria Lezione XIII: La divisione (continuazione): L’attribuzione, alle quote, dei beni ereditari Lezione XIV: La divisione (continuazione): Le “imputazioni”, i “prelevamenti”
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Libro sesto: Miscellanea: Donazione – Tutela diritti
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Titolo I: La donazione e le obbligazioni naturali Lezione I: La donazione Lezione II: Le obbligazioni naturali …
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Titolo II: La tutela dei diritti Lezione III: Espropriazione ed esecuzione in forma specifica Lezione IV: Tutela e autotutela dei diritti … Lezione V: Potere del debitore di disporre liberamente del suo patrimonio Lezione VI: Par condicio creditorum … Lezione VII: L’ipoteca … Lezione VIII: Il pegno lezione IX: I privilegi Lezione X: Dell’azione surrogatoria e revocatoria: premessa Lezione XI: L’azione surrogatoria
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Lezione XII: L’azione revocatoria … Lezione XIII: Divieto del patto commissorio Lezione XIV: L’inammissibilità di limiti alla responsabilità patrimoniale del debitore …
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Libro settimo: Domande e risposte -“Distanze” e parti comuni in un condominio spiegate con disegni » 651 Titolo I- Le domande che un esaminatore potrebbe proporre, le risposte che si attende. 1 – Domande e risposte in materia di responsabilità extracontrattuale. 2 – Domande e risposte sul possesso. Titolo 1I: Commento ai disegni sulle “distanze”
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Titolo III: Commento ai disegni sulle parti comuni in un condominio
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Appendice : I disegni a cui fanno riferimento i titoli II e III del Libro settimo
Prefazione alla quinta edizione
Il libro, che con le presenti righe offro alla lettura, deriva, si può dire al ottanta per cento, dal compattamento di alcuni miei altri precedenti libri, che sono stati pubblicati in un arco di tempo che va dal 2011 al 2014, ma che io, in questa quinta edizione, ho cercato di aggiornare tenendo conto delle modifiche intervenute in sede legislativa fino ad oggi. Da qui la diversità di stile che caratterizza le diverse parti del libro: alcune sono dialogate, altre, no; alcune sono fornite di note, altre, no. La mia ambizione era di fare un’Opera che facilitasse, con una esposizione semplice e chiara, la comprensione dell’ardua materia civilistica. Mi sarebbe piaciuto a tal fine intercalare nel discorso anche disegni (e addirittura filmini: scandalo!!!). Di questa idea il lettore troverà nella parte VII un principio di attuazione, limitato alle “distanze” e alle parti comuni di un edificio condominiale; avevo anche raccolto disegni e fotografie per illustrare, come si costruisce un contratto per atto pubblico, come si fa una ricerca ai registri immobiliari, come si presenta una “visura”, un certificato catastale, una “mappa”, ma poi, preso da stanchezza, ho lasciato perdere. La mia speranza é che uno Studioso, non conformista e dotato di spirito innovatore, accetti di sobbarcarsi il compito di ultimare l’Opera lasciata da me incompiuta. Se tale Studioso esiste, mi contatti (la mia email é: [email protected]). La mia intenzione sarebbe di fare un passo indietro e di lasciare il volenteroso libero di completare l’Opera come meglio crede; e, naturalmente, di accettarlo come coautore e di dividere con lui gli utili.
LIBRO I Interesse dello Stato che nessun bene costituente la ricchezza nazionale resti inutilizzato
I. L’interesse dello Stato allo sfruttamento ottimale dei beni.
Doc. Lo Stato, qualsiasi Stato, sia rosso, verde o nero, ha interesse che mercati e negozi siano ben riforniti dei beni, di cui la popolazione desidera fruire e godere. Quindi ha interesse che i campi non siano lasciati incolti e ferme non siano lasciate le macchine delle fabbriche. Questo perché l’aumento della ricchezza nazionale é per uno Stato un aumento di potenza (aumentando la ricchezza, aumenta il prelievo fiscale e quindi i soldi e quindi i mezzi con cui lo Stato può attuare i suoi scopi); e, a parte questo, una popolazione soddisfatta é, per uno Stato, una forza e una sicurezza (le pance piene non fanno rivoluzioni). E allora il problema: a chi affidare la gestione dei beni costituenti gli strumenti per aumentare la ricchezza nazionale? Questo problema, é noto, viene dal nostro stato risolto con l’articolo 42 della Costituzione, che recita: “La proprietà privata é pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata é riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. I modi con cui i beni vengono distribuiti tra i vari soggetti, di cui parla il primo comma dell’art.42 or ora citato, sono detti dall’articolo 922 del Codice civile, che recita: “Modi di acquisto (della proprietà) – La proprietà si acquista per occupazione (923 ss.), per invenzione (927 ss.), per accessione (934 ss.), per specificazione (940), per unione e commistione (934 ss., 939), per usucapione (1158 ss), per effetto di contratti (1321 ss., 1376 ss.) per successione a causa di morte (456 ss,470 ss), e negli altri modi stabiliti dalla legge (1153 ss)”. (I numeri che seguono ai vari “modi di acquisto” si riferiscono agli articoli del codice civile che li disciplinano e sono stati da noi messi per permettere allo studioso una prima ambientazione nella sistematica del codice). E’ noto che lo Stato dà al soggetto, a cui ha attribuito in proprietà un bene, l’esclusivo godimento del bene stesso, contando così che egli da ciò sia pungolato a disporre di questo bene per renderlo al massimo grado produttivo e godibile. Questa esclusività, che il Legislatore riserva al proprietario nel godimento e nella disposizione del bene, risulta evidenziata nell’articolo 832 del C.C., che così definisce il contenuto del diritto di proprietà: “ Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli
obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Disc. Sì, ma qual’é il perché di questa esclusività nel potere di disposizione di un bene?
Doc. Il perché é che due poteri assoluti di disposizione su una stessa cosa si bloccherebbero e paralizzerebbero a vicenda: Tizio vuole coltivare il campo a grano, Caio lo vuole coltivare a segala: il campo rimane incolto. Disc. Però il legislatore pone dei limiti ai poteri del proprietario. Doc. Sì, non é che il diritto di proprietà é quello che dà al suo titolare tutti i possibili e immaginabili poteri sulla res; no, esso é semplicemente quel diritto che dà al suo titolare il massimo di poteri su una res, che il legislatore ritiene di conferire a una persona. Il diritto di proprietà é semplicemente tra gli iura in re (i vari tipi di diritti di disposizione e godimento di una cosa che, come ci riserviamo di vedere meglio in seguito, lo Stato ritiene possibili) quello che conferisce al suo titolare i maggiori poteri. Disc. Ma i limiti che il legislatore pone ai poteri del proprietario da che cosa sono dettati. Doc. Possono essere dettati dalle più varie considerazioni (alla volontà del legislatore, almeno alla volontà del legislatore costituzionale, non si possono mettere restrizioni). Ma qui riteniamo opportuno far notare che la massima parte di tali limiti sono posti nell’interesse della stessa classe dei proprietari. Mi spiego meglio con un esempio: il legislatore fa obbligo al proprietario Tizio di permettere l’accesso nel suo fondo al vicino, Caio, che ne abbia necessità per riparare un muro (vedi meglio l’art. 843), e questo é senz’altro un limite posto a Tizio nel godimento del bene; però é un limite che giova anche a Tizio, dato che anche questi può trovarsi, per compiere delle riparazioni al suo fondo, nella necessità di accedere in quello del vicino. Disc. Tu hai detto che il legislatore conferisce a una persona, a Tizio, la libera disponibilità di un bene (meglio, la più libera disponibilità compatibile con l’interesse pubblico), nella speranza che questi renda al massimo produttivo un bene; ma se questa speranza é mal riposta, se Tizio per nulla si occupa del bene, per nulla lo rende
produttivo? Doc. A questa domanda Ti risponde l’articolo 838, che recita: “ (…..) quando il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità amministrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità”. Disc. Il Legislatore ci va cauto prima di ordinare la espropriazione dei beni che il proprietario non si cura di gestire; io sarei più drastico: “Tu, proprietario di un terreno, non lo coltivi? Te ne esproprio”. Doc. E facendo così....faresti il danno dell’economia nazionale, dato che é fisiologico che chi possiede un patrimonio sia costretto a trascurare la gestione di un bene che lo compone: Tizio ha due campi: il campo A e il campo B; ma non ha i soldi per gestire convenientemente tutti e due i campi (o non ha braccia tanto forti da coltivare tutti e due campi): ha bisogno che la coltivazione del campo A gli renda tanto da poter investire, col suo reddito, anche nella coltivazione del campo B (o che il figlio ancora bambino cresca tanto da aiutarlo nella coltivazione del campo B). Se tu non gli dai tempo e respiro, qualsiasi mastro Don Gesualdo, che come una bestia lavora per accumulare un patrimonio, sarebbe da ciò disincentivato dal pericolo di essere espropriato di uno o più beni da lui così faticosamente acquisiti, solo che si trovasse in temporanea difficoltà di gestirli.
II. La gestione di affari altrui. (Attenzione, le note sono in calce al paragrafo) Abbiamo visto nella precedente lezione che il Legislatore attribuisce al proprietario di un bene il potere esclusivo di disporne: solo tu, Tizio, proprietario della casa A con annesso terreno circostante, puoi decidere, se coltivare questo, se riparare il tetto di quella, se pitturarne le facciate in rosso o in giallo. E qui possiamo aggiungere che, nel secondo comma di un altro importante articolo del codice, l’articolo 1372, il legislatore stabilisce che “il contratto non produce effetto rispetto ai terzi (….)”. Cosicché si può affermare l’esistenza nel nostro Ordinamento di un principio che vieta l’ingerenza negli affari altrui. E la ragion d’essere di tale principio noi già la abbiamo, sia pure marginalmente, detta: evitare una paralisi nella gestione dei beni costituenti la ricchezza nazionale - paralisi che, nata dai possibili conflitti nella gestione, di coloro che vi fossero contemporaneamente ammessi, finirebbe per diminuire, di tali beni, l’ottimale sfruttamento e godimento. Però ci sono dei casi in cui l’ingerenza di un terzo nella gestione di un affare altrui, giova, anziché nuocere, all’economia nazionale: esempio classico: la casa di Tizio brucia, e Tizio si trova nell’interno dell’Africa a cacciare tigri ed elefanti: vogliamo dire a Caio, che generosamente sarebbe disposto a combattere contro il fuoco, “Stop, non puoi il violare il sacro principio che solo il proprietario può gestire le sue cose; e se lo violi, guai a te, rischi di incorrere addirittura nei rigori della legge penale (ad esempio, rischi di incorrere nei rigori dell’articolo 635 Cod. Pen. sul danneggiamento, se sfondi una porta per impossessarti di un attrezzo o se calpesti le aiuole dei fiori) e naturalmente, se provochi danni, li devi risarcire”? Disc. No, di certo: si cercherà invece di incoraggiare Caio a intervenire. Prima di tutto assicurandolo che non incorrerà in nessuna responsabilità penale e civile anche qualora non esistessero gli estremi dello stato di necessità (art. 54 Cod.Pen) (1): “Tranquillo, Caio, vai pure a spegnere l’incendio, perché così facendo eserciti un “diritto” che la legge ti dà, ciò che ti esenta, per l’articolo 51 C.P. (2), dalle sanzioni penali previste dal reato di danneggiamento e, per la mancanza del requisito della “ingiustizia” del danno, dall’obbligo di risarcimento previsto dall’Art. 2043”.(3) In secondo luogo, riconoscendogli un rimborso e un risarcimento per le spese e i
danni da lui nell’occasione subiti. Doc. Bravissimo, ma meno bravo del legislatore il quale si fa carico non solo di escludere una responsabilità penale o civile del “gestore” (tale la veste giuridica che verrebbe a rivestire il Caio del tuo esempio) in base agli articoli da te con tanta encomiabile precisione citati, non solo si fa carico (nell’articolo 2031, che subito andremo a leggere) di tenere indenne il gestore dalle spese, ma, pensando al caso che il “gestore” abbia stipulato dei contratti per ben gestire l’affare dello “interessato” o “gerito” come si preferisca chiamarlo, insomma di Tizio, fa obbligo a questi di adempiere le obbligazioni che Caio con il contratto ha assunte. Disc. Ma perché mai il gestore dovrebbe trovarsi nella necessità di stipulare dei contratti? Doc. Ma perché i casi in cui é necessaria l’ingerenza di Caio (nell’interesse di Tizio) possono essere i più vari e alcuni di essi possono ben richiedere la stipula di un contratto da parte del gestore. Pensa al caso in cui, nell’assenza di Tizio, occorra stipulare un contratto di appalto per riparare un tetto o un muro che minacciano di crollare, pensa al caso in cui Caio trova Tizio, esamine in mezzo alla strada (caso di c.d. “soccorso spontaneo”), per cui occorra noleggiare un’auto per trasportarlo all’ospedale, pensa al caso in cui Caio trova la figlioletta di Tizio piangente sotto la pioggia e in cerca di un riparo, per cui occorra farla ospitare in un albergo, pensa al caso in cui Caio per evitare un incidente con l’auto di Tizio sia costretto a una manovra di emergenza, che porta allo sfascio della sua auto, così che Caio deve stipulare un contratto con un carrozziere a che la rimetta a posto. Disc. Ho capito, ma per chiarirmi meglio le idee vorrei leggermi la disposizione di legge, che tali obblighi, al gerito, impone: qual’è? Doc. E’ il primo comma dell’articolo 2031, che recita: “(Obblighi dell’interessato) – Qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, l’interessato deve adempiere le obbligazioni che il gestore ha assunto in nome di lui, deve tenere indenne il gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte le spese necessarie o utili (….)”. Disc. Però mi pare di capire, in base all’incipit dell’articolo da te riportato, che, se il Caio del nostro esempio non riuscisse a spegnare l’incendio, non verrebbe rimborsato
di nessuna spesa. Doc. No, hai capito male. A che il gestore abbia diritto al rimborso delle spese ecc. basta l’utiliter coeptum, cioé che al momento in cui gli atti gestori furono compiuti essi apparissero utili: Caio ha cercato di spegnere l’incendio, ma non c’é riuscito: poco importa, ha diritto al rimborso delle spese, se c’erano buone probabilità che l’opera di spegnimento desse buon risultato. Disc. Dunque Caio che, visto il tetto di Tizio che fa piovere in casa, incarica una ditta di ripararlo, ha diritto di essere rimborsato di quanto, a tale ditta, pagato. Ma se Caio, non ha dato l’appalto, ma, volendo fare economia, ha provveduto di persona alle riparazioni? Non avrà diritto oltre al rimborso delle spese (per calce e piastrelle ecc.), anche a vedersi pagate le ore spese per fare le riparazioni? Doc. La logica vorrebbe una risposta positiva alla tua domanda, ma secondo alcuni Studiosi ne impone invece una negativa la necessità di evitare il pericolo delle così dette “spese imposte”: Tizio fa il muratore e si trova disoccupato, se vede la facciata della casa di Tizio che avrebbe bisogno di una bella imbiancatura, sarebbe probabilmente tentato di mettersi, lui, a darle il bianco, qualora sapesse che la sua fatica troverebbe una renumerazione, ma ci penserebbe due volte, qualora non avesse a sperare altro che il rimborso delle spese. Disc. Certo, tenere conto dell’esigenza di evitare le “spese imposte” é cosa fondamentale nella disciplina della “gestione di affari altrui”: ogni persona deve essere libera nella scelta delle spese da fare e tu ne hai ben spiegato il perché nella precedente lezione. E certo tale esigenza trova una sua tutela nel limite posto alla liceità della gestione dal requisito dell’utiliter coeptum e, come or ora tu mi hai spiegato, dall’esclusione di un compenso al gestore. Però una tutela insufficiente; che non impedirebbe, per esempio, a Caio, a cui dispiace vedere maltenuta la facciata della casa del vicino Tizio (anche per ragioni economiche: la vicinanza di una casa brutta svalorizza anche una casa bella) di dare l’appalto di rifare tale facciata a una ditta e poi....di presentare il conto a Tizio. Doc. E’ così; ed effettivamente ulteriori limiti vanno apposti alla gestione di affari altrui, - limiti ricavabili, con una interpretazione sistematica, basata soprattutto sul primo comma dell’articolo 2028 e sul secondo comma dell’articolo 2031 del Codice Civile, ma anche sull’articolo 54 Cod. Pen., 48 Cod.Civ., 54 Cod.Civ.
E io ritengo che, a conclusione di tale lavorio interpretativo, si possa dire che presupposti di una valida gestione d’affari altrui sono i seguenti: I - Primo presupposto: il difetto di un divieto, esplicito o implicito, dello “interessato”. Tale presupposto si argomenta dal secondo comma dell’articolo 2031, che recita: “Questa disposizione (idest, la disposizione contenuta nel primo comma dell’articolo, che dà diritto al gestore di ottenere un rimborso spese ecc.) non si applica agli atti di gestione eseguiti contro il divieto dell’interessato, eccetto che tale divieto sia contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. E’ vero che la disposizione or ora riportata si limita, presa alla lettera, solamente ad escludere il diritto al rimborso delle spese, ma essa va chiaramente interpretata in senso estensivo, nel senso cioé che escluda tout court il “diritto” di gestire un affare altrui contro il divieto dell’interessato (con la conseguenza che Caio, il quale, contro il divieto del dominus Sempronio di potare gli alberi del suo giardino, in questo entra lo stesso, non solo non avrà diritto a un rimborso delle spese incontrate nella potatura, ma sarà responsabile dei reati e degli illeciti civili che, per eseguire la potatura, fosse venuto a commettere (si pensi al reato di violazione di domicilio – art, 614 C.P – per essere entrato nelle “appartenenze” di un luogo di privata dimora, così com’è considerato un giardino). II- Secondo presupposto: la c.d. absentia domini, intesa però in senso lato, come impossibilità dell’interessato a gestire l’affare (metti perché malato o all’estero). Questo presupposto si argomenta dal primo comma dell’articolo 2028, che recita: “Chi, senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, é tenuto a continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”. III -Terzo presupposto: la “attualità” della gestione, nel senso che questa, se procrastinata, potrebbe non risultare più utile. In altre parole, fino a che si può sperare che la cessazione della absentia dell’interessato avvenga in tempo per permettergli di decidere, lui direttamente, sull’opportunità di gestire l’affare, la gestione del terzo é inammissibile. Questo presupposto si argomenta (sia pure facendo un po’ di violenza alla logica) dal primo comma dell’articolo 51, che recita: “Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (…)”. IV- Quarto presupposto: la gestione deve apparire utile. Questo presupposto, come abbiamo già avuto occasione di vedere, risulta dall’incipit del primo comma art. 2031. V – Quinto presupposto: la gestione deve mirare solo alla conservazione del patrimonio (o, naturalmente, della vita dell’interessato o di un suo parente verso cui
questi ha un obbligo di assistenza: sua moglie, suo figlio). Caio non ha diritto a provvedere nella absentia di Tizio a costruire nel giardino di questi una piscina (ancorché l’esistenza di una piscina possa valorizzare il giardino e quindi possa considerarsi come utile), ma ha, questo sì, diritto a riparare il tetto (della villa di Tizio) che rischia di andare in rovina. Questo presupposto si ricava dalla parte finale dell’articolo 48 C.C., che, in caso di “scomparsa” di una persona (e, bada, il caso della scomparsa di una persona é, rispetto ai casi previsti dall’art. 2028, un caso più grave e che di per sé autorizzerebbe una più forte ingerenza nei suoi affari), dà, sì, all’autorità giudiziaria il potere di adottare provvedimenti nell’interesse dello scomparso, ma solo se “necessari alla conservazione del patrimonio dello scomparso”. Va da sé che, essendo vietate le gestioni non miranti alla conservazione del patrimonio dello “scomparso”, sono con ciò stesso vietati gli atti di alienazione dei suoi beni (atti che vengono autorizzati, ma con particolari cautele, solo nel caso di uno “scomparso” di cui sia dichiarata la “assenza” - vedi meglio l’art. 49 e l’art. 54). VI- Sesto presupposto: la scientia aliena negotia gerendi, la consapevolezza cioé di stare gerendo un affare altrui e nell’interesse altrui (se Caio si mette a riparare il tetto della casa sapendo che questa é la casa, non sua, ma di Tizio, però fa questo solo perché, preso possesso (abusivo) della casa, vuole dormirci senza che vi piova dentro, non si rientra nell’ipotesi che sto facendo). Questo presupposto (della scientia aliena negotia gerendi) si ricava dall’incipit dell’articolo 2028, e dà la giustificazione di due, diciamo così, vantaggi che il legislatore concede al “gestore”: il vantaggio di essere rimborsato delle spese (vedi meglio, il primo comma art.2031) anche nel caso che la gestione iniziata utilmente, alla fine non si riveli utile e il vantaggio di vedere “moderato il risarcimento dei danni” (vedi il secondo comma dell’art. 2030) conseguenti a un difetto di quella diligenza che, come detto prima, il dominus negotii avrebbe avuto diritto di pretendere da un suo mandatario. Disc. Quindi non é vero che il gestore, come prima tu hai detto, è esentato dal risarcimento dei danni, da lui provocati durante la sua gestione. Doc. Effettivamente avrei dovuto chiarire. Bisogna distinguere: il gestore é esente dal risarcimento di quei danni che qualsiasi mandatario, ancorché diligente, avrebbe causato nel contesto della gestione dell’affare (Caio per arrivare prima dove si é sviluppato l’incendio, calpesta un’aiuola di fiori). Mentre é tenuto al risarcimento dei danni, che un diligente mandatario non avrebbe causato (Caio nel potare un ramo che minaccia di cadere, calpesta per distrazione i fiori). In questo secondo caso, però, il
giudice può “moderare” l’ammontare del risarcimento da lui dovuto. Disc. Dalla citazione del primo comma dell’articolo 2028, che tu prima hai fatta, sembrerebbe doversi dedurre che dalla gestione di affari altrui derivano, non solo diritti, ma anche obblighi. Doc. E’ così. Dalla “gestione” deriva, non solo, come abbiamo or ora visto, un obbligo di eseguirla con la stessa diligenza che si richiede a un mandatario, ma anche l’obbligo “di condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”. Disc. Ma perché vincolare, chi ha iniziato a compiere una buona azione... a continuarla (chi mai penserebbe di obbligare Tizio, che ha dato l’elemosina di dieci, a continuare a dare. ..l’elemosina di dieci? ). Doc. Ma perché certe volte una buona azione, se non continuata, rischia di trasformarsi in una....cattiva azione. Io vedo Sempronio sanguinante sull’asfalto e mi fermo per dargli assistenza: Caio, un altro utente, della strada che, se avesse visto Sempronio bisognoso di assistenza si sarebbe fermato, vedendolo assistito tira dritto. Di conseguenza se a un certo punto io, guardo l’orologio, vedo che faccio tardi a un appuntamento e ….. pianto in asso il povero Sempronio, si può ben dire che io, assumendo in un primo momento l’assistenza di questo, ho fatto, non il suo vantaggio, ma il suo danno. Un danno che dovrò risarcire. Vi é inoltre da considerare che Caio, che subentrasse a Tizio che ha iniziata la gestione, per bene svolgere questa dovrebbe sapere cose che solo Tizio sa (ad esempio, l’esatto contenuto del contratto di appalto da lui stipulato). Anche questo non é un buon motivo per escludere....la staffetta nel corso della gestione? per far quindi obbligo, a chi l’ha iniziata, di continuarla? Disc. Torniamo un poco indietro. Tu prima hai detto che, presupposto di una lecita gestione, é il difetto di una prohibitio domini; ma, dall’ultima parte del secondo comma art.2031, risulta che, all’esistenza di tale presupposto, é prevista un’eccezione. Doc. Sì, e l’eccezione prevista è data dai casi in cui la prohibitio é contraria “alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (comma 2 art. 2031). Si rientra in tale eccezione, ad esempio, nel caso che il proprietario di un muro, che
minaccia di crollare sulla pubblica via, fa divieto di ripararlo (col rischio che il muro crolli e uccida dei passanti); sempre in tale eccezione si rientra, nel caso che un padre snaturato, non solo lasci il figlioletto privo del necessario per vivere, ma faccia anche divieto a terzi di alimentarlo e soccorrerlo. La ragione dell’eccezione de qua é intuitiva: il legislatore lascia decidere al dominus negotii l’opportunità di compiere, o no, un atto di gestione, perché parte del presupposto che, la decisione di chi é il più interessato alla migliore gestione di un affare, sia anche quella che più corrisponde all’interesse pubblico. Ma tale presupposto si dimostra fallace in tutti i casi, in cui il dominus negotii non vuole compiere un atto, che lui, il legislatore, ha ritenuto conforme all’interesse pubblico (tanto da fare obbligo di compierlo). Ecco perché in un tale caso il legislatore fa una deroga al principio dell’illiceità degli atti gestori compiuti contro la volontà del dominus. Disc. Un altro passo indietro. Abbiamo visto quali sono i presupposti per la liceità della gestione; e quindi per avere il diritto: a un rimborso delle spese che questa comporta, a una esclusione del risarcimento dei danni causati senza colpa (ancorché tali danni non si sarebbero verificati, se la gestione non fosse avvenuta), a una riduzione del risarcimento nel caso di danni causati con colpa. E tra tali presupposti tu hai indicato la scientia aliena negotii gerendi. Ma allora, Caio che ha riparato il tetto della casa di Tizio, credendo che fosse la propria casa (metti, perché egli credeva che la vecchia zia fosse morta senza fare testamento, lasciandolo così erede legittimo, mentre invece lo aveva fatto, diseredandolo a favore di Tizio) o Sempronio che, sì, in mala fede ha preso possesso della casa, però compiendovi delle riparazioni e addirittura dei miglioramenti, non possono pretendere nessun rimorso delle spese fatte? Doc. Sì, anche nei casi da te citati - casi che rientrano nella c.d “gestione impropria”o “anomala” - il gestore (anomalo) potrebbe aver diritto a un indennizzo, ma in base a presupposti diversi da quelli prima da noi considerati. Vedremo ciò trattando dell’istituto dello “arricchimento senza giusta causa”. Però va sottolineato già da adesso, che il gestore anomalo non avrà diritto a un rimborso delle spese fatte per la gestione, se questa, non si é conclusa utilmente (quindi non sarà per lui sufficiente dimostrare lo utiliter coeptum per vantare un diritto a tale rimborso) e non avrà comunque diritto a quella “moderazione” dell’ammontare del risarcimento prevista dal secondo comma art.2030.
Disc. Quale la ragione di tale diversità di disciplina? Doc. Evidentemente il legislatore, disciplinando l’istituto della negotiorum gestio ha avuto in mente il caso di colui che, in grado di intervenire per gestire l’affare altrui, non ha nessun interesse (egoistico) a tale intervento (come invece sarebbe il caso del vicino, che interviene a spegnere l’incendio sviluppatosi nel fondo del vicino, per impedire che il fuoco si propaghi anche al suo fondo), ma a tale intervento può essere sollecitato solo da un sentimento di altruismo; e, quindi, cerca di creare un incentivo alla “buona azione” eliminando quei timori (timore di non essere rimborsato delle spese in caso di gestione fallita, timore di dover risarcire i danni) che potrebbero costituire, al compimento di tale buona azione, altrettante remore. Giustamente, però il legislatore non ha ritenuto di creare degli incentivi alla gestione, per chi ad essa sarebbe comunque mosso da motivi egoistici. Disc. Ma quello che tu chiami “gestore anomalo” dovrà risarcire i danni compiuti durante la gestione? Doc. Se ritiene di gestire un affare proprio (é il caso di Tizio che si crede erede ab intestato, mentre in realtà erede é stato nominato Sempronio), no: ognuno delle sue cose é padrone di fare quel che vuole, anche di distruggerle a martellate. Potrebbe però discutersi se egli sia tenuto a un obbligo di risarcimento nei casi in cui riteneva, sì, di gestire un affare proprio, ma per ignoranza colpevole. Mutatis mutandis merita la stessa risposta il caso del gestore anomalo che, dopo aver iniziata una gestione, non la porta a termine, causando così dei danni. Disc. Da quanto hai detto consegue che, chi causa dei danni gestendo un affare altrui sapendo che é altrui (ma agendo nel proprio interesse esclusivo) é tenuto al loro risarcimento. Ma é tenuto a tale risarcimento, anche chi gestisce un affare altrui, sapendo che é altrui, ma anche nel proprio interesse (sto pensando la caso del vicino che interviene per impedire che il fuoco si propaghi al suo fondo)? A me tale soluzione sembrerebbe ingiusta e penso che si debba evitarla applicando l’art. 2045 sullo stato di necessità. Doc. D’accordo con te sull’iniquità di tale soluzione, ma non sull’applicabilità dell’articolo 2045 (mancando, per l’applicazione di tale articolo, l’estremo del “danno grave alla persona). Penso, però, che nella maggioranza dei casi si potrebbe giungere a escludere l’obbligo del risarcimento, applicando l’art. 2044 sulla
“legittima difesa”; dato che l’esenzione da responsabilità deve ritenersi, a mio parere, non solo quando si causi un danno all’altrui cosa per difendere la propria o l’altrui persona, ma, come si argomenta facilmente dall’art. 52 C.P., anche quando si rechi un danno all’altrui cosa per impedire un danno alla propria o altrui cosa, e anche se tale danno deriva, non da un comportamento doloso del terzo danneggiato, ma anche da un suo comportamento dovuto a semplice colpa – colpa certamente ravvisabile, salvo la prova del fortuito di cui all’art.2051, in caso di omessa custodia di una res connessa a una abesntia domini. Note (1) Art. 54 Cod. Pen.: “ Non é punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (….). (2)Art. 51 C.P.: L’esercizio di un diritto o l’adempimento id un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità” (3) Art. 2043 Cod Civ.: “ Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
3 – Cenni sulla dichiarazione di assenza e di morte presunta. Doc. Abbiamo visto come il Legislatore cerca di favorire la gestione di affari altrui (durante la absentia domini); e ne abbiamo visto anche il perché: perché vuole impedire che ciò che costituisce la ricchezza dello Stato (in primis, certo, la vita e la salute dei cittadini, ma anche i beni mobili e immobili nel Paese disponibili) resti improduttivo o addirittura si deteriori o perisca. Senonché chi pur, in via di massima, sarebbe intenzionato ad attivarsi per compiere atti gestori a favore di una persona, trova precise remore a farlo (“Sì, se io dovrò sostenere delle spese, l’interessato avrà l’obbligo di rimborsarmele, ma egli adempirà veramente a questo obbligo? meglio che sia un altro ad attivarsi”) e dei precisi limiti (egli, certo. può “assumere delle obbligazioni” “in nome” dell’interessato – obbligazioni che questi é vincolato, dal primo comma dell’art. 2031, ad adempiere, ma non é facile trovare un terzo, che accetti di mettere la sua firma a un contratto, la cui efficacia per l’assente potrebbe essere resa dubbia da cavilli e discussioni; certo, il gestore può compiere degli atti conservativi di questo o quel bene, che gli risulta in pericolo, però non può compiere atti di alienazione – eppure la salvaguardia del valore di un patrimonio richiederebbe che un bene fosse venduto, quando la sua esistenza si rivelasse un peso morto o quando potesse essere scambiato con soldi o un altro bene, che fossero di maggior valore). La consapevolezza di tali remore e di tali limiti, spinge il legislatore a intervenire con più decisione nei casi in cui la absentia domini diventa chiaramente patologica (il dominus negotii non é più solo “assente”, non é più solo impossibilitato a intervenire per la gestione di questo o quel suo bene, ma é “scomparso”, cioé si tratta di una persona che, come recita l’incipit dell’articolo 48, “ non é più comparsa nel luogo del suo ultimo domicilio e dell’ultima residenza e non se ne hanno più notizie”); e a intervenire concedendo sempre più ampi poteri gestori, quanto maggiore é il tempo che é passato dalla scomparsa del dominus.
All’inizio gli interventi hanno carattere settoriale: qualcuno (di solito un famigliare) segnala con un ricorso la necessità di questo o di quello atto gestorio al tribunale e questi nomina un “curatore” a che (con le spalle coperte dalla decisione del tribunale e sicuro di non rimetterci le spese), tale atto gestorio, compia. Però alla reale salvaguardia di un patrimonio non bastano interventi settoriali (che permettono di riparare il tetto della casa di via Roma, ma che si dimenticano di riscuotere quanto dovuto dagli inquilini di via Garibaldi o si dimenticano di seminare il campo della valle del Chianti): occorre che vi sia chi gestisca tutto il patrimonio o almeno tutto un settore del patrimonio – pungolato a una buona gestione dalla speranza di farne suoi i frutti, e, col passare di un certo numero di anni, di diventare proprietario dei beni stessi. In considerazione di ciò il legislatore “trascorsi due anni dal giorno in cui risale l’ultima notizia” dello scomparso, ne dichiara l’assenza e immette,“ nel possesso temporaneo dei beni” di questi, i presumili eredi (vedi meglio gli artt. 49, 50). Disc. E che dà in concreto agli “immessi” la dichiarazione di assenza? Doc. Dà “l’amministrazione dei beni dell’assente, la rappresentanza di lui in giudizio e il godimento delle rendite” (godimento totale o parziale a seconda della “prossimità” nel grado successorio dell’immesso - vedi meglio l’art.52 e ss). Disc. Certo però i limiti, di cui ancora soffre la gestione, non ne possono non limitare la efficacia. Doc. E proprio in considerazione di ciò, il legislatore dà al Tribunale il potere di dichiarare la morte presunta dell’assente “ quando sono trascorsi dieci anni dal giorno a cui risale l’ultima notizia” (vedi meglio l’art. 58). Disc. E che comporta tale dichiarazione? Doc. Comporta che “ coloro che ottennero l’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente (…) possono disporne liberamente ” (e che “il coniuge può contrarre nuovo matrimonio” - vedi meglio gli artt.63 e 65).
4. Perché il legislatore tutela il possesso. ( Si suggerisce allo studioso di integrare il presente e i seguenti capitoli sul possesso con quanto detto nel cap.1 Tit.I Libro VII : “Domande e risposte sul possesso” ). Lo studioso troverà in questo e nel seguente capitolo l'esposizione frazionata in “noterelle”. Ciò é dovuto al fatto che questa parte del libro l'ho scritta per poi pubblicarla su face-book ( su cui, com'é noto, non é opportuno pubblicare scritti troppo ampi )
Prima noterellaTizio stanco di rompersi la schiena dando di vanga sul campo, un bel giorno, senza neanche chiudere la porta, se ne va a cercar fortuna in città. Renzi , bravo lavoratore disoccupato, vede la casa disabitata, il campo incolto, ha bisogno di pane e di companatico, e decide : “Prendo la vanga, che Tizio ha lasciata inutilizzata, e mi metto io a coltivare il campo, ricavandone del buon grano da vendere al mercato”. Domanda : farebbe bene , o no, lo Stato a incoraggiare Renzi nella decisione che ha presa ? Risposta ovvia : certo che sì : la società ha bisogno che i mercati siano ricchi e ben forniti a che la gente, sazia, faccia funzionare fabbriche e uffici. Quindi lo Stato non può permettersi che un campo, così come del resto nessun altro bene, resti inutilizzato. E vari sono i modi con cui lo Stato può incoraggiare il bravo Renzi a utilizzare il campo lasciato in abbandono : in primo luogo, può proteggerlo contro chi vorrebbe di questo spogliarlo o molestarlo nella sua utilizzazione ( confronta gli artt. 1168 ss.sulle così dette “azioni possessorie”, naturalmente, ci intratterremo in seguito
diffusamente ); in secondo luogo, può dargli la speranza che, se continuerà nel possesso del campo, ne potrebbe venire col tempo proprietario ( confronta gli artt. 1158 ss. sull'usucapione – anche su questa ci intratterremo a dire diffusamente in seguito ); in terzo luogo, può rassicurarlo che, anche se il proprietario tornerà a farsi vivo e riotterrà il possesso del campo, egli ( idest, Renzi ), se ne avesse tratto dei “frutti”, se li potrebbe tenere, se avesse fatto spese per riparazioni, se le vedrebbe rimborsate e se avesse fatti dei miglioramenti, avrebbe diritto di avere, per essi un'indennità ( confronta, ponendo attenzione ai punti in cui il nostro diritto positivo si discosta parzialmente da quanto ora detto, gli artt. 1148 ss). Seconda noterella Ma a tutti quelli che entrano nel campo, lasciato abbandonato dal proprietario, per goderne e in qualche modo utilizzarlo ( metti, coltivandolo o semplicemente cogliendovi frutta e legna o ancor più semplicemente.... giocandoci al pallone), lo Stato concede i benefici e le tutele di cui si é parlato nella precedente “noterella” ? Certamente, no : tali tutele e tali benefici li darà solo a chi vede animato da un serio proposito ( di utilizzare il campo ). L'ideale sarebbe che lo Stato, una volta che sa che un bene é in stato di abbandono, facesse un bel concorso e, tra i vari concorrenti, scegliesse, per attribuirgli il potere di utilizzare tale bene, quello che desse più garanzie di, tale potere, effettivamente esercitare. Chiaro che però si tratta di un ideale irrealizzabile. Per questo il legislatore non può che limitarsi a dare ai suoi magistrati dei criteri sul come individuare, tra le varie persone che potrebbero pretendere i poteri e le tutele di cui si é parlato, quella che più li merita ( li merita perché? perché dà più affidamento di utilizzare, nell'interesse, sì, suo, ma anche della società, il bene in stato di abbandono ). Il nostro legislatore fa ciò nell'articolo 1148 – articolo questo che, direttamente, ci dice solo che cosa si deve intendere per “possesso” e quindi chi deve intendersi per “possessore” di un bene, ma che, indirettamente, ci dà la chiave per sapere quel che a noi giuristi soprattutto interessa, cioé chi é la persona a cui si riferiscono le varie norme del codice, che attribuiscono questo o quel potere, questa o quella tutela al “possessore” o a chi é “nel possesso” di un bene. E così, ad esempio, se vogliamo sapere a chi si riferisce l'articolo 1150, quando recita : “ Il possessore, anche se di mala fede, ha diritto al rimborso delle spese fatte per le riparazioni ecc.eec”, é all'art. 1140 che dobbiamo ricorrere.
Ma che dice questo così importante articolo 1140? Ecco quel che dice : “Il possesso é il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale. - Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”. Terza noterellaDiciamolo pure, l'articolo 1140 é un po' un....abacadabra. Certe cose che dice non si capiscono : ad esempio, perché definire il possesso come un “potere sulla cosa”. Evidentemente con ciò il legislatore si riferisce , non a un potere giuridico, ma a un potere di fatto; se nonché per uno Stato non esistono dei “poteri di fatto” ( cioé dei poteri da lui non concessi) ma solo dei fatti ( da prendere in considerazione per concedere certi poteri giuridici ). Tuttavia una paziente lettura dell'articolo ci permette di cavare, dalle nebbie che lo avvolgono, alcune conclusioni abbastanza certe sulle condizioni che debbono sussistere perché il nostro Renzi , entrato così volenterosamente a dar di zappa nel campo da Tizio abbandonato, se ne possa considerare possessore ( e quindi possa godere dei diritti e delle tutele che, al possessore, il legislatore concede ) . Primo, egli deve poter disporre ( naturalmente, non giuridicamente ma ) materialmente della cosa senza dipendere dalla autorizzazione o dal consenso di chicchessia : nel campo egli deve poter entrare quando gli pare e piace. La condizione della libera disponibilità del bene é importante perché implicitamente rimanda ad un'altra condizione , quella a cui gli antichi giureconsulti alludevano parlando di possessio corpore : Renzi deve “detenere” il bene, nel senso etimologico, di tenere il bene in modo che altri non glielo possano sottrarre; quindi Renzi non può starsene in un ufficio in città ( anche se ha in tasca le chiavi necessarie per entrare liberamente nel campo ) preoccupandosi solo di pagare le imposte dovute per il campo o anche di andarvi di tanto in tanto per controllare che non vada in rovina : no, il legislatore vuole che Renzi utilizzi il campo e perciò vuole che stia sul campo corpore . Il legislatore non dice ciò claris verbis, ma l'interprete può dedurlo dal contenuto del capoverso dell'articolo. Che dice questo capoverso? Ricordiamolo : dice che “si può possedere direttamente o a mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa”. Quindi il legislatore riconosce il possesso anche a chi, dopo averla conseguita, ha ceduto ad altri la libera disponibilità del bene – metti, Renzi ha affittato il campo a Bianchi - purché la persona a cui e' stata ceduta tale libera disponibilità del bene ( nell'esempio, il Bianchi) “detenga” la cosa. Ma, ecco il punto, se il Legislatore é disposto a riconoscere come possessore Renzi solo se la persona da lui immessa nel
fondo “detenga” questo, significa che la “detenzione”del bene, la possessio corpore, per Lui é un requisito ineliminabile del possesso e che Egli ( idest, il legislatore ), qualora il nostro Renzi non avesse immesso nel campo altri, non sarebbe disposto a riconoscerlo “possessore” , nel caso non lo “detenesse”. Abbiamo visto come il legislatore é disposto a riconoscere la qualità di possessore ( con tutte le tutele e i vantaggi relativi ) anche a chi, come il Renzi, avendo immesso altri ( il Bianchi ) nella “detenzione” - idest nella libera disponibilità del bene -, con ciò stesso, tale libera disponibilità del bene, ha persa ( e infatti il Renzi non può più entrare nel fondo una volta che vi ha immesso il Bianchi senza chiedere di questi l'autorizzazione ). Ciò significa che per il legislatore si può possedere animo. Però attenzione, per il legislatore , sì può possedere animo, ma non solo animo : il nostro Renzi, se vuole godere dei vantaggi e delle tutele che il legislatore riserva al possessore, non può starsene in un ufficio cittadino “pensando al campo come un bene in suo possesso” e basta: in tal caso sognerebbe, si illuderebbe: egli o detiene direttamente il bene o, se ne trasmette la detenzione ad altri (al Bianchi), deve riservarsi il potere di controllare che tale detenzione effettivamente sussista , per intervenire nel caso cessi ( nel caso, Bianchi, stanco di zappare se ne vada a vivere in città lasciando il campo in stato di abbandono ); perché é questo che in definitiva giustifica la concessione a Renzi, che non detiene ( e quindi non utilizza ) il campo, la stessa tutela che gli verrebbe concessa se detenesse ( il campo ) : il fatto che egli ( idest, il Renzi), pur immettendo il Bianchi nella detenzione, si é riservato il potere di controllare ( e quindi presumibilmente controlla ) che il campo non resti inutilizzato. E invero quel che allo Stato interessa é che il campo non cada in stato di abbandono e già, il semplice interessamento di Renzi a che ciò non avvenga, giustifica ai suoi occhi la di lui tutela, Quarta noterella. Abbiamo visto nella precedente noterella la prima condizione necessaria a che a una persona, al Renzi, il protagonista dei nostri esempi, venga riconosciuta la qualità di possessore: la possessio corpore ( o quella che si potrebbe chiamare una “quasi possessio corpore” e con questo termine ci riferiamo all'ipotesi di Renzi che dà in affitto a Bianchi il campo in cui si era immesso – ma , per semplicità di esposizione, in prosieguo ci dimenticheremo di tale ipotesi e ci riferiremo solo al caso di una detenzione diretta : Renzi non dà in affitto il campo, ma lo coltiva direttamente ). Tanto premesso, passiamo a dire della seconda condizione necessaria a che a una persona, al nostro Renzi, venga riconosciuta la qualità di possessore.
Seconda condizione. Renzi non solo deve avere la disponibilità materiale del campo, non solo deve detenerlo, deve anche utilizzarlo : da che risulta ciò ? Risulta dal primo comma dell'articolo 1140, l'articolo che stiamo cercando di interpretare : per tale comma é possessore chi compie sul bene detenuto le “attività corrispondenti all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale” . Ma perché il legislatore riconosce i poteri e le tutele riservate al possessore solo a chi compie un'attività corrispondente a quella che può compiere il proprietario, l'usufruttuario, il titolare di una servitù (…..) e non a chi compie un'attività corrispondente ad esempio a quella che può compiere un affittuario? Ecco la risposta che sembra più logica : perché il legislatore non vuole riconoscere , gli importanti diritti e tutele che riconosce al possessore, se non a chi ha un programma di ampio respiro nella utilizzazione del fondo. Ma da che cosa risulterà questo programma di ampio respiro del detentore? Dalle attività dirette all'utilizzazione del bene ? Ciò potrà avvenire, ma solo in casi rarissimi, dato che gli atti con cui l'affittuario utilizza un fondo, solo in casi eccezionali si distinguono da quelli con cui il proprietario lo utilizza ( per tali casi eccezionali si può pensare al taglio di un albero di alto fusto, taglio che non é consentito all'affittuario ). Il programma di ampio respiro in parola, piuttosto risulterà dalle opere fatte dal detentore del bene per salvaguardare la sua detenzione ( pensiamo alla recinzione del campo con filo spinato...) o da spese che si giustificano solo con una sua intenzione di una lunga permanenza nel campo ( riparazione del tetto, semina del campo, acquisto di una mucca...). Terza condizione : le opere, da cui risulta il programma di ampio respiro nell'utilizzazione del bene, debbono “essere manifeste”, cioé quivis de populo deve poterne avere conoscenza semplicemente guardando il bene ( senza necessità di consultare registri pubblici....). Questa condizione noi la riportiamo perché effettivamente risulta dal'articolo ; ma a nostro modesto parere é ….un fuor d'opera. Infatti si giustifica solo per alcune tutele e diritti concessi dal legislatore : la tutela data dall'azione di reintegra, l'usucapione. Mentre non ha ragione di essere per altre tutele e diritti : i diritti del possessore al rimborso da parte del proprietario di alcune spese, l'azione di manutenzione. In particolare la legittimazione a questa ultima “azione” ( il non essere cioé, chi agisce, un semplice detentore, ma aver egli il possesso corrispondente a un diritto reale ) si potranno (e dovranno ) dimostrare semplicemente con la produzione del titolo che giustifica il possesso.
In subiecta materia si é soliti dire che il possesso é costituito da due elementi la possessio corpore e l' animus possidendi. Sul primo concetto ci siamo già soffermati. Che dire del secondo ?é un concetto utile ? Secondo noi é un concetto ( non da sopravalutare ma ) utile: ad esempio per spiegare quando il possessore che ha immesso un terzo nella detenzione continua a essere considerato possessore; e anche per spiegare la rilevanza che ha il programma – il che vale a dire l'intenzione del detentore - di procedere a una utilizzazione di ampio respiro del bene. Quinta noterella Abbiamo detto che il Legislatore concede dei poteri e delle tutele al possessore. Ora dobbiamo aggiungere che li concede per gradi. Una volta che Renzi ha acquisita la detenzione del campo, lo possiede corpore ( il che non significa che egli debba stare tutte le 24 ore di un giorno o tutti i sette giorni della settimana nel campo, basta che non lo perda d'occhio - come il viaggiatore in treno, che può anche lasciare il suo posto, ma mettendoci capello cioé stando attento che altri non lo occupi ); una volta che ha svolto attività sul campo che dimostrano che egli vuole utilizzarlo a 360 gradi; una volta cioé che, sia con la detenzione del campo sia con l'ampiezza della attività da lui nel campo svolta, ha dimostrato di non essere un barbone che entra nel campo solo per prendervi la legna o la frutta e magari anche per dormirci, ma pensando di andarsene dopo pochi giorni o anche dopo pochi mesi ; allora il legislatore comincia a tutelare Renzi : come ? Impedendo ad altri di ostacolarlo nella utilizzazione del campo ( dove “utilizzazione del campo” = apprensione delle utilità che il campo può dare – con ciò volendoci noi riferire sia alle utilità che Renzi potrà offrire in un domani sul mercato per riceverne dei soldi , come le mele e il grano che dal campo può ricavare, sia alle utilità che egli direttamente può godere, come il dormire in un buon letto nella casa annessa al campo ). Il legislatore impedirà anche quei comportamenti che impediscono una utilizzazione parziale del campo ? impedirà, ad esempio, a un pastore di far pascolare le sue greggi in quella parte del campo in cui l'erba cresce particolarmente verde , impedendo però così a Renzi di seminarvi ? Certo, che sì : il legislatore punta al massimo : vuole incoraggiare Renzi a coltivare tutto il campo e non solo una sua parte. Nasceranno in Renzi dal suo possesso del campo anche dei diritti verso il suo vicino ? Certo: nasceranno quei diritti il cui esercizio non ostacola la produttività del campo del vicino : Renzi, se gli vola il capello nel campo del vicino potrà andare a riprenderselo ( art. 843 ), se il vicino fa noiose immissioni di fumo potrà vietargliele ( art. 844 ), se il vicino non si preoccupa di evitare che dal suo campo derivino danni a
quello da lui ( idest, da Renzi ) occupato ( si pensi al muro di Caio che minaccia di franare, all'albero di Caio che minaccia di cadere ), egli ( idest, sempre Renzi ) potrà tutelare il suo bene con l'esercizio delle c.d. azioni nunciatorie, azione di danno temuto e di nuova opera ( artt. 1171, 1172 ). Sesta noterella Potrà Renzi, il possessore del campo, impedire - oltre alle attività del vicino Caio indicate nella precedente “noterella” - anche quelle attività del vicino che sono,sì, dei “pesi” per il suo fondo ( idest, per il fondo di Renzi ), ma rappresentano utilità per il fondo del vicino ( perché permettono al suo possessore di prendere l'acqua necessaria per le sue bestie, di portare al mercato le mele e il grano da lui raccolti …) ? Bisogna distinguere. Non lo potrà fino a che, il suo perseverare nel possesso almeno per un tempo apprezzabile ( un anno ), non avrà dimostrata la serietà dei suoi propositi nell'utilizzazione del fondo. E non lo potrà per i seguenti due buoni motivi: Primo motivo: perché non si comprenderebbe la ragione per cui il legislatore dovrebbe negare al vicino Di Renzi, Caio quel che ha concesso a Renzi : quando Tizio ( il proprietario del fondo ) se ne é andato a godere le delizie della città, é come se avesse lasciata una tavola imbandita alla discrezione di chiunque avesse fame : Renzi si é servito prendendo il più ( gli spaghetti e il pollo arrosto ) e va bene, ma perché impedire a Caio, il suo vicino, di prendere la frutta e il dessert? Secondo motivo : e' vero che il peso imposto da Caio sul fondo di Renzi ne diminuisce la produttività, ma chi può escludere che il Renzi – dopo aver impedito a Caio di prendere acqua dal suo fondo, di passare con il suo autocarro nel suo fondo (….) - poi lasci baracca e burattini, per tornarsene in città ? In tal caso la società avrebbe perso il beneficio dato dall'aumento di produttività del fondo di Caio, senza avere, in compenso, il beneficio di un aumento di produttività del fondo di Renzi. Solo quando Renzì – perseverando nel possesso almeno per un anno – avrà dimostrata la serietà dei suoi propositi, solo allora gli si potrà concedere il diritto di impedire al vicino la costituzione di servitù sul suo fondo. Ma, metti che Caio abbia iniziato il suo possesso di una servitù nell'agosto 2016 e Renzi abbia maturato un anno di possesso nel novembre 2017, Renzi potrà impedire a Caio di proseguire nel possesso della servitù nel 2017 e negli altri anni futuri ? No : egli potrà solo impedire di iniziare il possesso di una servitù a partire dal dicembre 2017 .
5. La tutela giudiziaria del possesso : la “azione” di reintegrazione e la “azione” di manutenzione.
Continuiamo nella nostra esposizione sul “possesso”, sempre “noterelle”
frazionandola in
Settima noterellaIl legislatore concede al possessore ( nonché al detentore ) il beneficio di una particolare “azione”, la “azione di reintegrazione”, che é un po' una sorta di scorciatoia, che porta più rapidamente alla sentenza. Non é che il possessore possa usare di questa scorciatoia per tutelare ogni e qualsiasi suo interesse ( che venga leso ). E infatti non tutte le lesioni agli interessi del possessore richiedono un rapido intervento della Giustizia : il vicino immette fastidiose nubi di fumo nel campo detenuto da Renzi oppure impedisce a Renzi di raccogliere le mele cadute dal suo albero ( idest, dall'albero di Renzi ) nel suo terreno ( idest nel terreno del vicino ) ? sarebbe meglio che la sentenza ci fosse già il giorno dopo il fattaccio, ma pazienza se arriva dopo un anno ( o due ! ). Metti invece che Pinco Pallino abbia tenuto un comportamento che ha costretto Renzi ad abbandonare il campo o che, se perdura, finirà per costringere Renzi ad abbandonare il campo : qui é ben necessario un rapido intervento della giustizia : mica si può lasciare Renzi a dormire sotto le stelle !
Tanto premesso, vediamo cosa dice l'articolo che prevede la azione di reintegrazione , l'articolo 1168. Art. 1168 : “ Chi é stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l'anno del sofferto spoglio, chiedere contro l'autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo. - L'azione é altresì concessa a chi ha la detenzione della cosa, tranne il caso che l'abbia per ragioni di servizio o di ospitalità. Se lo spoglio é clandestino, il termine per chiedere la reintegrazione decorre dal giorno della scoperta dello spoglio. - La reintegrazione deve ordinarsi dal giudice sulla semplice notorietà del fatto senza dilazione”. Di seguito un commento, brevissimo, data la natura della presente opera. L'azione é data quando il possessore è “spogliato del possesso” cioé impedito nella utilizzazione ( anche nella utilizzazione parziale – e il perché lo abbiamo detto in una precedente noterella ) del bene posseduto. Lo spoglio ha da essere “violento” o “occulto” ? Assolutamente, no. Che lo spoglio debba essere compiuto “vi vel clam” lo insegnavano gli antichi giureconsulti romani, che vivevano in una società in cui era sopratutto importante impedire gli atti che potevano turbare l'ordine pubblico ( per cui occorreva un rapido intervento della Autorità “ne cives ad arma veniant” ) . Nella nostra società, quel che interessa al legislatore civile é che non venga frapposto un impedimento alla utilizzazione e alla produttività di un bene : le modalità con cui é posto tale impedimento ( se di reale e vero impedimento si tratta ) non rilevano : l'impedire il turbamento dell'ordine pubblico essendo riservato alle norme del codice penale : tu, Renzi, sei minacciato nel tuo fondo da Pinco Pallino ? chiama i carabinieri . Quindi esempi di impedimenti giustificanti il ricorso all'azione revocatoria sono, sì, quello di Pinco Pallino che, con la pistola in pugno ha estromesso Renzi dal fondo, ma anche quello di Pinco Pallino che con molta cortesia, dicendo “buon giorno e buona sera”, ha alzato una tenda in mezzo al campo ( posseduto da Renzi ) con la chiara intenzione di restarvi per un tempo indeterminato ma prevedibilmente lungo. E infatti, in un tal caso, come farà Renzi a dormire tranquillo nel suo letto ( “Non potrebbe quel Tizio venire in casa ad aggredirmi?!!” ), come potrà Renzi decidersi a seminare il grano ( “ E se quel Tizio domani si sveglia deciso a scavare una piscina dove ho seminato? Inutile che mi affatichi domani a gettar la semente”). Chiaro che in una tale situazione Renzi è spogliato dal campo non meno che se questo Pinco Pallino lo avesse scacciato con la rivoltella in pugno. Ottava noterella –
L'articolo 1168 ammette all'esercizio dell'azione di reintegra , non solo il possessore, ma anche il c.d. “detentore qualificato”. Che deve intendersi per “detentore qualificato” ? Per tale deve intendersi chi ha un interesse suo proprio alla detenzione, come il locatario, l'affittuario e, anche, il mandatario ; quindi, non é detentore qualificato, chi é nella detenzione per ragioni di servizio o per ragioni di ospitalità . Ora , perché il detentore qualificato viene ammesso all'esercizio dell'azione di reintegrazione contro gli spogli ; mentre, come vedremo, non é ammesso all'esercizio dell'azione di manutenzione contro le semplici turbative – cosa per cui, per farle cessare é costretto a contare solo sull'intervento di chi lo ha immesso nella detenzione ( il locatore...) ? La risposta più logica a tale domanda sembra la seguente : il detentore qualificato é ammesso a un diretto esercizio dell'azione di reintegra perché lo “spoglio” rappresenta una lesione più grave della “turbativa” e soprattutto una lesione che richiede quell'intervento rapido, che non sarebbe possibile se per ottenerlo il detentore dovesse subire la lungaggine di richiedere l'interessamento di un terzo ( il locatore...). L'azione di reintegrazione può essere proposta ( come risulta dal primo comma dell'articolo in esame ) solo “entro l'anno del sofferto spoglio”. Ma questo termine, se lo spoglio é “clandestino” ( cioé , avviene senza che il possessore ne possa aver conoscenza, ancorché sia vigile e controlli con diligenza il suo possesso), viene fatto decorrere, dal terzo comma dell'articolo, “dal giorno della scoperta dello spoglio”. Ora come può essere che una persona venga spogliata di un bene senza che ne possa saper niente ? Può essere : si pensi a Pinco Pallino che ai margini del latifondo posseduto da Renzi, si é messo a coltivare un suo orticello. Nona noterellaIl legislatore concede al possessore ( ma non al detentore ) di tutelare i suoi interessi ( meglio, alcuni suoi interessi) tramite una procedura dotata, come quella che abbiamo visto nelle noterelle precedenti, di una particolare celerità – a questa procedura ci si riferisce tradizionalmente con il nome di “ azione di manutenzione”. Vediamo cosa dice l'articolo 1170 che la disciplina. Art. 1170 : “Chi é stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili può, entro l'anno della turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo. L'azione é data se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non é stato acquistato violentemente o clandestinamente. Qualora il possesso sia stato
acquistato in modo violento o clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità é cessata.Anche colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni indicate nel comma precedente”. Due parole di commento. Autorevolmente, e secondo noi giustamente, si ritiene che l'azione di manutenzione presenti due aspetti : uno, previsto dal primo comma, conservativo, in quanto mira a far cessare le “turbative” ( facendo chiudere una veduta non regolamentare, facendo demolire un fabbricato costruito in violazione delle distanze legali....) ; l'altro, previsto dal terzo comma, recuperatorio, in quanto mira a far riottenere, a chi ne è stato privato, il possesso, anche nelle ipotesi in cui non sarebbe più azionabile la domanda di reintegra, mancandone i presupposti ( presupposti che, secondo la lettera della legge, sono la violenza e la clandestinità dello spoglio, mentre secondo noi sono semplicemente una situazione che impedisce la utilizzazione del bene ).
Circa l'aspetto conservativo dell'azione, va chiarito che questa può essere utilizzata solo per far cessare le turbative più gravi, che sono quelle che derivano da un'attività corrispondente all'esercizio di una servitù. Le turbative di altro genere ( quelle ad esempio generate da delle “immissioni” di fumi, di rumori ecc. ) potranno, sì, essere fatte cessare, ma agendo per le vie ordinarie. Ricordiamo, poi, che le turbative che il possessore molestato può pretendere di far cessare, sono solo quelle nate dopo che si é maturato l'anno del suo possesso. E veniamo a dire due parole sull'azione di manutenzione nel suo aspetto recuperatorio. Con tutta evidenza essa si rivela utile solo nei casi in cui per recuperare il possesso di cui si é stati spogliati non si può esercitare l'azione di reintegra. Ma quali sono questi casi ? Sono, a nostro parere, solo quelli in cui uno spoglio, sì, c'é stato, ma é stato compiuto senza un vero animus spoliandi. E infatti quando manca questo animus la azione di reintegra non si può esercitare. Due esempi di una mancanza dell'animus spoliandi nello spoliator . Primo esempio: Renzi se ne parte dal fondo posseduto, per un lungo viaggio. Sempronio vede sempre le finestre chiuse, nessuna anima viva che entra e esce: pensa che la casa sia disabitata, entra e si immette nel possesso ( in nessun modo pensando di stare ledendo il possesso altrui ). Secondo esempio : Renzi vende il fondo posseduto a Sempronio,
che naturalmente si immette nel suo possesso. Il contratto per un qualche vizio viene annullato. In tali casi Renzi , per rientrare nel possesso, non potrebbe utilizzare l'azione di reintegra : infatti Sempronio si é immesso nel possesso della casa in perfetta buona fede e senza nessunissimo animus spoliandi. Però, Renzi può recuperare il possesso con l'azione di manutenzione
6 – Usucapione. Doc. Lo Stato conferisce a Sempronio, che é nel possesso di un diritto reale di godimento, la possibilità di “usucapire” tale diritto, cioé di “acquistare” tale diritto “in virtù del possesso continuato” per un certo numero di anni (confronta la formula dell’articolo 1158). E abbiamo già visto perché lo Stato fa questo: lo fa perché pensa (giustamente! ) che, fino a che penderà su Sempronio la spada di Damocle di quel ritorno, del legittimo titolare del diritto, che lo priverebbe del bene posseduto, egli non sarà portato a preoccuparsi di conservare e migliorare il bene posseduto (“A che prò, io, Sempronio, debbo spendere tempo e denaro per fare questo e quello miglioramento, questo e quel atto di conservazione, se del bene così conservato e migliorato, non io e i miei figli, ma il proprietario e i suoi figli verranno a godere?”). Non deve stupire, quindi, che lo Stato non dia la possibilità di usucapire a quei titolari di diritti reali, come l’ipoteca e il pegno, costituiti solo a garanzia di un credito; e infatti va escluso già in partenza che, titolari di diritti su beni al cui godimento non hanno interesse, abbiano interesse al loro miglioramento (e non deve trarre in inganno il fatto che l’articolo 1153, nel suo comma terzo, preveda l’acquisto mediante il
possesso di uno di tali diritti, il pegno: e infatti, con tale articolo, il legislatore solo si preoccupa di rendere rapido e sicuro l’acquisto di certi diritti, e tra di essi ben può stare il diritto di pegno - e non di incentivare la migliore gestione dei beni oggetto di tali diritti). Disc. - Ma lo Stato ammette l’istituto della usucapione solo perché mosso da un interesse alla migliore gestione dei beni? Doc. No, egli é a ciò mosso anche dalla necessità di evitare - a chi é costretto a rivendicare, davanti a un giudice, la sua titolarità di un “diritto reale” - quella probatio diabolica, che diverrebbe la prova di questo suo diritto, se egli non potesse giovarsi dell’istituto dell’usucapione. Disc. Capisco, potendosene giovare, basterà al rivendicante, per vedere accolta la sua rivendica, provare, che egli ha posseduto per un certo numero di anni tal diritto. Doc. In ciò, aggiungi, essendo agevolato dalla possibilità, datagli dal’articolo 1146, di sommare, al tempo del suo possesso, quello del suo dante causa. Disc. Che dice precisamente tale articolo 1146? Doc. L’articolo 1146 recita: “Successione nel possesso. Accessione nel possesso – Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione. Il successore a titolo particolare può unire al proprio possesso quello del suo autore per goderne gli effetti”. Applicazione del primo comma. Cornelio aveva acquistato in mala fede la proprietà del fondo A quattro anni prima di morire: l’erede Sempronio per perfezionare l’usucapione dovrà continuare il possesso per 16 anni, in quanto non potrà giovarsi dell’abbreviazione del tempo (necessario per usucapire) prevista dall’articolo 1159 (forse che egli non “continua” il possesso del de cuius? forse che questi non era in malafede al momento dell’acquisto del fondo? forse che la malafede nell’acquisto non impedisce di giovarsi dell’articolo 1159 e non fa rientrare la fattispecie nell’usucapione ordinaria ventennale prevista dall’articolo 1158? ). Applicazione del secondo comma. Sempronio ha acquistato il fondo A da Cornelio. Egli ha acquistato in buona fede il fondo, mentre Cornelio era in perfetta mala fede quando due anni prima lo aveva acquistato da Lucrezia. In questo caso, Sempronio
non deve aggiungere necessariamente il suo possesso a quello di Cornelio: può scegliere Se sceglierà di aggiungerlo non potrà, secondo l’interpretazione migliore, giovarsi del beneficio del termine abbreviato previsto dall’articolo 1159 e sarà costretto a perfezionare l’usucapione dopo diciotto anni (forse che il suo dante causa non era in malafede al momento di acquistare da Lucrezia? ). Se, invece, sceglierà di non aggiungere il suo al possesso di Cornelio, potrà beneficiare del termine abbreviato di cui all’art. 1159 e pertanto usucapirà in soli dieci anni. Disc. Proprio vero che la vita é un gioco di prestigio! Ma torniamo a quello che mi sembra lo scopo primario dell’istituto della usucapione: l’incentivazione a conservare e migliorare i beni, che costituiscono la ricchezza nazionale. Mi pare che tale scopo dovrebbe indurre il legislatore a ridurre al massimo il tempo necessario per usucapire. Doc. Certo che sì; ma senza esagerare, perché se esagerasse (nel ridurre il tempo necessario a usucapire), finirebbe per scoraggiare la classe dei proprietari; e Mastro don Gesualdo, se avesse a temere che, nell’arco di due o tre anni, solo che le circostanze della vita lo costringessero a trascurare un bene, rischierebbe di perderlo, non vivrebbe sonni tranquilli e soprattutto non spenderebbe tempo e fatica per acquisire dei beni e per conservarli e migliorarli. Il fatto é che l’istituto, che stiamo studiando, é come Giano Bifronte: una sua faccia é data dalla prescrizione acquisitiva, l’altra da quella estintiva. E se Sempronio in base alla prescrizione acquisitiva (alias, usucapione) acquisisce la proprietà sul fondo A, Mastro Don Gesualdo, in forza della prescrizione estintiva automaticamente perde la proprietà, che aveva sullo stesso fondo A. Disc. Ma in base a che principi é disciplinata la prescrizione acquisitiva, l’usucapione di cui stiamo parlando.? Doc. Dalle stesse disposizioni che regolano la prescrizione estintiva (forse che prescrizione estintiva e acquisitiva non sono aspetti diversi dello stesso fenomeno giuridico?). Ciò risulta dall’art. 1165, che recita: “Applicazione di norme sulla prescrizione – Le disposizioni generali sulla prescrizione, quelle relative alle cause di sospensione e d’interruzione e al computo dei termini si osservano in quanto applicabili, rispetto all’usucapione”. Quindi la usucapione potrà essere interrotta da parte del dominus con una domanda giudiziale (vedi meglio l’art. 2943); con l’effetto di dare inizio a un nuovo periodo di
prescrizione acquisitiva (art. 2945). E sarà sospesa in considerazione dei rapporti che intercorrono tra parte usucapente e dominus (art. 2941) o della incapacità (interdizione, minore età...) o impossibilità, dovuta al servizio militare, del dominus (vedi meglio l’articolo 2942). Disc. Ma risulta, dallo stesso articolo 1166 da te riportato, che vi possono essere disposizioni dettate per la prescrizione estintiva, che non sono applicabili per quella acquisitiva. Doc. E in effetti vi sono. Ti cito le più importanti. Secondo l’interpretazione più accolta, non sono applicabili in materia di prescrizione acquisitiva né la disposizione dell’articolo 2944 né la disposizione di cui al quarto comma dell’articolo 2943. Ed effettivamente bisogna riconoscere che - mentre il riconoscimento del debito svolge un’utile funzione nell’economia, perché evita di costringere il creditore al pronto realizzo del suo credito, in una situazione in cui egli e il debitore avrebbero interesse a prorogarne il pagamento - invece, il riconoscimento del diritto del dominus, fatto dal possessore, se portasse all’interruzione dell’usucapione, non farebbe che prorogare una situazione di imperfetto sfruttamento di un bene con danno per la società. Anche l’inammissibilità di una interruzione realizzata in modo diverso dalla proposizione di una domanda giudiziale (metti, realizzata con una diffida a lasciare l’immobile, fatta per lettera raccomandata), secondo me merita approvazione. E’ vero che, costringere il dominus a proporre una domanda giudiziale per impedire la prescrizione del suo diritto, significa costringere, chi ha subito già un torto (quello dello spossessamento), a subire un ulteriore torto, quello di esborsi pecuniari anche non indifferenti (spese per un avvocato, spese giudiziali...); ma é anche vero, che l’interruzione di una usucapione non sembra opportuna, a meno che il dominus dimostri con una sua energica azione (com’é quella di proporre una domanda giudiziale) che, al bene da cui si é lasciato spossessare, tiene davvero, per cui si ha da sperare davvero che, una volta estromesso l’attuale possessore, lui si metta a gestirlo e a farlo fruttare. Disc. Queste, da te ora dette, sono le uniche diversità di disciplina tra usucapione e prescrizione estintiva? Doc. No, ce ne sono altre, risultanti da precisi articoli del codice.
Disc. Che aspetti a riportare e a fare un breve commento di tali articoli?! Doc. Comincio con riportare l’art. 1166. Art. 1166: “ Inefficacia delle cause d’impedimento e di sospensione rispetto al terzo possessore – Nell’usucapione ventennale non hanno luogo, riguardo al terzo possessore di un immobile o di un diritto reale sopra un immobile, né l’impedimento derivante da condizione o da termine, né le cause di sospensione indicate dall’art. 2942. L’impedimento derivante da condizione o da termine e le cause di sospensione menzionate da detto articolo non sono nemmeno opponibili al terzo possessore nella prescrizione per non uso dei diritti reali sui beni da lui posseduti”. Sappiamo che in base ai principi (vedi art. 2935) “ La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. Quindi - se Caio ha acquistato l’immobile A, di cui Sempronio possiede il diritto di proprietà, nel gennaio 2016, ma nell’atto di acquisto si stabilisce che gli effetti di tale atto si produrranno solo dal gennaio 2021 - si dovrebbe pensare che solo dal gennaio 2021 decorra la prescrizione estintiva del potere, che ha Caio, di interrompere la usucapione di Sempronio. E così é, nel caso che, il termine fissato per l’usucapione dell’immobile A da parte di Sempronio, fosse inferiore ai venti anni. Però il legislatore, con la norma in commento, nel caso che tale termine fosse invece ventennale, ritiene giusto, proprio in considerazione della lunghezza di tale termine, di far decorrere la prescrizione estintiva già dal gennaio 2016. Mutatis mutandis il discorso va ripetuto per il caso che Caio vanti un diritto reale, metti un diritto di servitù, sul fondo posseduto da Sempronio. Esempio: quando Caio eredita il fondo B servito da una servitù di passo sul fondo A, mancano ancora dieci anni all’estinzione (per non uso) di tale servitù. Caio ha solo cinque anni di età e quindi diventerà maggiorenne solo tra tredici anni; ebbene il legislatore non sospende il corso della prescrizione estintiva del diritto di servitù, durante il periodo in cui Caio, minorenne e senza tutore, non é ancora in grado di tutelare i suoi interessi, per cui il diritto di servitù rischia di essere già estinto quando Caio sarà diventato maggiorenne (certo é ben inverosimile che, in così gran lasso di tempo, non si nomini a Caio un tutore, il quale provveda all’interruzione della prescrizione, e proprio in tale inverosimiglianza sta la ratio della norma). Disc. Forza, passa ad altri articoli, che contemplano una deroga alle disposizioni sulla prescrizione estintiva dei crediti-
Doc. Riporterò il secondo comma dell’articolo 1141 e l’articolo 1164. Art. 1141 comma 2: “Se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finché il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. Ciò vale anche per i successori a titolo universale” Art.1164: “Interversione del possesso – Chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non é mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso é stato mutato”. Con le disposizioni sopra riportate il legislatore vuole impedire che un’usucapione si compia senza che il dominus, ancorché bonus pater familias, sia posto in grado di avvertirla. Quindi, lo dico subito, le disposizioni de quibus hanno la stessa ratio, che va attribuita all’articolo 1163, che, come vedremo subito, non permette l’usucapione al possessore “clandestino”. Disc. Ma com’é possibile che il dominus non si accorga, che hanno iniziato a esercitare il loro possesso come se fossero proprietari, Sempronio che detiene il bene solo come affittuario o Cornelio che lo detiene solo come usufruttuario (e mi permetto di qualificare Cornelio come detentore, ancorché sia usufruttuario, perché mi pare che egli effettivamente, rispetto al dominus, vada considerato come detentore)? Doc. Hai fatto benissimo a qualificare Cornelio come detentore perché tale effettivamente egli é (per cui il legislatore invece di due norme avrebbe potuto limitarsi a formularne una sola). Ma chiudo la parentesi e vengo alla risposta alla tua domanda. Il dominus, Sempronio, non può accorgersi che Caio e Cornelio hanno iniziato a possedere come proprietari, per la semplice ragione che, la più parte degli atti di gestione di un bene, che può compiere un proprietario, li può compiere anche l’affittuario Sempronio e l’usufruttuario Caio (per riferirmi agli esempi da te fatti). Pertanto occorre che la mutatio animi (nel possesso o nella detenzione) risulti al dominus da un atto diverso da quelli con cui può venire gestito il bene da parte di un affittuario o usufruttuario - “atto diverso” che sia incompatibile col diritto dal dominus concesso e sia al dominus portato a conoscenza.
Disc. Ma perché non dovrebbe bastare un atto di gestione incompatibile col diritto detenuto: metti l’usufruttuario non “rispetta la destinazione economica del bene” (art. 981) oppure taglia alberi di alto fusto (art. 990) -? Doc. Non può bastare, dato che c’é pericolo che tale atto (di abusiva gestione) possa sfuggire, anche per lungo tempo, all’attenzione pure di un bonus pater familias (dato che non si può pretendere, neppure da un bonus pater familias, che stia sempre con gli occhi addosso al usufruttuario o all’affittuario di un suo bene, per controllare che non abusi del diritto concessogli) Nel condominio, in cui tale pericolo non c’è (in quanto si suppone che non possa non cadere sotto gli occhi di un condomino quel che nel condominio accade), può in effetti bastare, a mutare il titolo del possesso del comunista (pur in assenza di una sua opposizione formale al diritto degli altri partecipanti alla comunione), anche un suo atto di gestione, che ecceda chiaramente i suoi poteri: e infatti il secondo comma dell’articolo 1102 si limita a dire che “ Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Disc. Passa a un’altra norma, che deroga alle disposizioni sulla prescrizione estintiva dei crediti. Doc. Articolo 1144, che recita: “ Atti di tolleranza – Gli atti compiuti con l’altrui tolleranza non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso”. Disc. Un articolo strano quello da te ora riportato, perché sembra considerare a favore del dominus, quella tolleranza del possesso altrui, che invece ritenevo fosse la giustificazione della spogliazione del dominus a favore del possessore tollerato. Doc. C’è tolleranza e tolleranza: c’é la tolleranza che nasce dal disinteressamento del dominus alla gestione del bene (ed é questa, che il legislatore sanziona con la spogliazione del dominus), e c’é la tolleranza che nasce dalla benevolenza (la tolleranza che porta Sempronio a dare il buon giorno, e con un bel sorriso, a Caio che passa sul
suo terreno). E’ questa seconda, ovviamente, la tolleranza presa in c
onsiderazione dall’art. 1144, a tutela del dominus tollerante. Tutela contro che cosa?
Anche qui, come nei due articoli precedentemente esaminati, contro il pericolo che si attui a danno del dominus una usucapione “clandestina”: Caio che fino ad allora é
passato sul terreno di Sempronio con la sua tolleranza, decide di usucapire il diritto di passo e comincia a transitare sul terreno di Sempronio con l’animus possidendi. Sì, ma come fa Sempronio a saperlo? Caio infatti transita ora come transitava prima, solo l’animus é mutato, ma. ..solus deus est scrutator cordium. Disc. Ma Caio può ben comportarsi in modo da rendere palese il suo animus possidendi (ad esempio rifiutando a Sempronio il saluto) Doc. Certamente, e in tal caso non si potrà più dire ch’egli passa sul sentiero grazie alla tolleranza di Sempronio ed egli potrà usucapire il diritto di passo. Disc. Un altro articolo, sempre derogante alle disposizioni sulla prescrizione estintiva. Doc. L’articolo 1163, che recita: “ Vizi del possesso – Il possesso acquistato in modo violento e clandestino non giova per l’usucapione, se non dal momento in cui la violenza e la clandestinità é cessata”. Disc. Perché mai tale articolo deroga alle disposizioni di cui agli articoli 2934 e ss.? Doc. Perché per nessuno di tali articoli il decorso della prescrizione é impedito dalla violenza, intesa a impedire la interruzione della prescrizione, o dalla clandestinità, diciamo così, del diritto di credito. Caio minaccia il suo creditore Sempronio di ucciderlo, se oserà chiedere al giudice la sua condanna al pagamento del debito? La prescrizione corre lo stesso, anche se la violenza subita impedisce a Sempronio di esercitare il suo diritto (certo però Caio dovrà risarcire i danni conseguenti al suo atto e tra tali danni ci sarà il mancato realizzo del credito) . Cornelia addirittura sottrae al suo creditore il documento che prova il suo credito? Idem come sopra, la prescrizione corre lo stesso. Disc. Quando si ha clandestinità del possesso? Quando il possessore ha usato artifici per nascondere al dominus la usucapione? Doc. La clandestinità sussiste anche in difetto di un animus celandi del possessore, e si ha semplicemente quando vi é ignoranza del possesso da parte del dominus e tale ignoranza non é dovuta a un suo disinteresse alla gestione del bene. Per avere un esempio di possesso clandestino, pensa a Caio che, in un remoto angolo di un grande
fondo, si mette a coltivare dei pomodori o dell’insalata: non si può pretendere dal proprietario di un fondo che vigili su ogni più piccolo angolo di questo! Altro esempio può essere la adprehensio di un appartamento, che viene utilizzato dal proprietario solo di estate e si trova in un remoto paesello di montagna. Disc. Voltiamo pagina: parliamo degli elementi che costituiscono il presupposto necessario di un’usucapione. Doc. Sono essenzialmente cinque: 1) il possesso, 2) l’essere il possesso continuo; 3) l’essere il possesso non interrotto; 4) l’essere il possesso pacifico e pubblico.; 5) la durata del possesso per un certo tempo. Disc. Quando si ha un possesso mancante di continuità? Doc. Quando il possessore dopo essersi spogliato del possesso lo riprende. In tal caso con la nuova adprehensio si ha un nuovo possesso; che potrebbe essere caratterizzato in modo diverso dal primo (possesso): il primo potrebbe essere possesso di buona fede e il secondo di mala fede. Metti, Sempronio, quando ha acquistato e preso possesso di quel tale immobile, era in buona fede, perché credeva di stare acquistando a domino - e quindi va considerato, come vedremo, possessore in buona fede; al momento, invece, della seconda adprehensio, sa che chi gli ha venduto non era il dominus, quindi é in mala fede e come in mala fede va considerato. Disc. Ma quando può dirsi che Sempronio si é spogliato del possesso? Doc. Certo, a ciò non basta un allontanamento dal corpus possessionis: Sempronio che, dopo essersi fatte le sue brave ferie estive nella sua casetta in montagna, se ne torna in città, non si spoglia certo del suo possesso di questa casetta. D’altra parte, non basta il solo animus possidendi, se Sempronio non si é preoccupato di lasciare segni inequivoci della sua volontà di tornare nel possesso pieno (cioé, animo et corpore) del bene. Disc. Quando si ha interruzione del possesso? Doc. Quando “il possessore viene privato del possesso” (co.1 art. 1167). (Ma l’interruzione “si ha come non avvenuta se é stata proposta l’azione diretta a ricuperare il possesso e questo é stato recuperato” - co. 2 sempre art. 1167).
L’interruzione prevista dall’art. 1167 si dice “naturale”, e si distingue dalla interruzione civile prevista dall’articolo 2943, perché, mentre questa incide sul tempo necessario a usucapire (che deve riprendere ex novo), quella influisce sulla qualità (buona o mala fede) del possesso (per il che possiamo rinviare a quanto detto poco sopra a proposito della “discontinuità” del possesso). Disc. Della pacificità e della pubblicità (dove “pubblicità del possesso” non é che il contrario di “clandestinità del possesso”) abbiamo già parlato a commento dell’articolo 1163. Quindi possiamo passare subito a parlare della durata del possesso. Doc. La durata più lunga dell’usucapione é di venti anni (vedi art.1158,co.1, art. 1160 c.1 art.1161co.2), la più breve é di tre anni (vedi comma 1 art. 1162). Tra l’uno e l’altro estremo si situa una usucapione di durata pari a dieci anni (v. art.1160 c.2, art.1161c.1, art. 1162 c.2). L’usucapione che si compie in venti anni si chiama “ordinaria”, le altre si chiamano “abbreviate”. Disc. Da che dipende la durata della usucapione? Doc. Dipende dal tipo di bene posseduto (bene immobile, universalità di mobili, bene mobile registrato, bene mobile non registrato) e dall’esistenza o meno dei seguenti elementi: buona fede, astratta idoneità del titolo a trasferire il diritto usucapito, trascrizione del titolo. Disc. Quando si ha buona fede? Doc. Te lo dice l’art. 1147, che recita. “ E’ possessore in buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto. La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave. La buona fede é presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Ai fini dell’applicazione degli articoli 1158 e ss. (diversa soluzione potrebbe adottarsi nell’applicazione, ad esempio, degli artt. 1148 e ss.), l’ignoranza, di cui parla il primo comma (dell’articolo sopra riportato), può essere definita come “ignoranza di acquistare a non domino”. Stante il disposto del terzo comma (sempre del sopra riportato articolo), secondo cui l’ignoranza posteriore al “tempo dell’acquisto” non nuoce, diventa importante
stabilire se, quando il compimento dell’atto giuridico fonte del diritto (pensa simpliciter a una compravendita) e la consegna del bene non coincidono nel tempo. l’acquisto, a cui si riferiscono gli articoli 1159 e ss., si perfeziona solo con l’ultimo di tali elementi o già col primo. Io ritengo che si perfezioni già col primo. Disc. Quando difetta l’astratta idoneità del titolo a trasferire il bene? Doc. In due casi: 1) quando il titolo non é idoneo a trasferire il diritto oggetto dell’usucapione (ad esempio, nel titolo si trasferiva un diritto di usufrutto mentre il diritto posseduto, é la proprietà); 2) quando il titolo é nullo. Disc. E se é solo annullabile? Doc. Il titolo si considererà valido (ai fini dell’usucapione). Disc. Ma perché il titolo nullo non si considera valido a tale fine? Doc. Perchè sarebbe illogico che il legislatore, da una parte, stabilisse la nullità del titolo per impedirgli di produrre effetti giuridici, e in primis l’acquisto del diritto (che ne é oggetto) da una delle parti, e, dall’altra, agevolasse tale acquisto abbreviando i tempi dell’usucapione. Disc. E se il titolo annullabile viene effettivamente annullato? Doc. L’annullamento avendo effetto retroattivo, anche, l’abbreviazione del tempo utile a usucapire, viene meno. Disc. Perché subordinare l’abbreviazione del termine alla trascrizione del titolo? Doc. Naturalmente per pungolare le parti alla trascrizione; e questo, a sua volta, perché la trascrizione può servire a permettere al terzo proprietario (il vero proprietario! ) di aver conoscenza (con un po’ di fortuna), dell’usucapione in corso. In altre parole, il subordinare, l’abbreviazione del termine ad usucapionem. alla trascrizione, rientra nella politica del legislatore di ammettere l’usucapione solo quando lo svolgersi di questa é percepibile dal pubblico (del resto non é sempre per questa politica che il legislatore dichiara inusucapibili – vedi art. 1061 - le servitù non apparenti? ).
7 : Prescrizione estintiva Doc.- Poniamo che Tizio sia debitore di centomila euro a Caio ; questi potrebbe esigere il pagamento da subito, ma non si fa vivo. E così passano i giorni e i mesi e gli anni. Tizio nel timore che Caio un bel giorno si faccia vivo e gli chieda i centomila euro, se li tiene in cassaforte pronto a darli a Caio. Il quale però continua a non farsi vivo. Certo Tizio potrebbe , farsi avanti, bussare alla porta di Caio e ...pagarlo ( oppure metterlo in mora, vedi l'art.1206 e seguenti ).Però non é...tanto stupido da fare ciò ( non gli é stato sempre insegnato che non bisogna “destare il can che dorme” ? ). Risultato : centomila euro che potrebbero essere utilmente impiegati, metti, per un opera edilizia o comunque per dar del lavoro a tante braccia, che un lavoro
l'aspettano e invece sono lasciate inoperose , giacciono inutilizzati in una cassaforte. Può uno Stato tollerare questo ? Certamente, no. Per questo lo Stato, dopo un certo periodo di tempo che il creditore non ha esercitato il suo diritto, lo estingue. Disc. Da che articolo risulta ciò ? Doc. Dall'art. 2934 che recita nel suo primo comma : “ Ogni diritto si estingue per prescrizione quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”. Disc.- Ma il diritto si prescrive anche se, prima del termine indicato dal legislatore, Caio, il creditore, ha iniziato un giudizio per avere i suoi soldi ? Doc- Naturalmente in tal caso il termine fissato dal legislatore per la prescrizione si considera interrotto. Infatti la prescrizione del diritto é giustificata agli occhi del legislatore dall'inerzia del creditore (“ Se Caio non chiede i soldi significa che egli non saprebbe come utilizzarli : lasciamo allora che a utilizzarli pensi il suo debitore, Tizio” ). Quindi se il creditore compie un atto che dimostra la sua seria volontà di riscuotere i soldi ( una domanda giudiziaria, come tu hai detto, ma anche un qualsiasi altro atto che valga a costituire in mora il suo debitore – v. art. 2943 ) o se il debitore riconosce formalmente e chiaramente il diritto del suo creditore ( ciò che fa pensare a un accordo tra quello e questo per prorogare la scadenza del debito ) il Legislatore considera interrotto il tempo stabilito per la prescrizione : questo tempo era di dieci anni e Caio ha notificata la sua domanda giudiziaria il 10 settembre ? Ebbene dal 10 settembre ricominciano a decorrere i dieci anni. Vi é da aggiungere che il legislatore prevede anche dei casi in cui la prescrizione é sospesa ( in considerazione della difficoltà, anche solo psicologica, che ha il creditore ad esercitare il suo diritto ) ( v. art. 2941 ). Disc.- Questo vale per ogni caso in cui il mancato esercizio di un diritto nel tempo determinato dal legislatore determina la sua estinzione ? Doc.- No, questo vale solo nei casi in cui l'estinzione del diritto mira a sbloccare soldi ed energie che invece il persistere del diritto lascerebbe inutilizzati. Vi sono casi però in cui l'estinzione del diritto, se non esercitato entro il termine dato dal legislatore, non mira a sbloccare soldi ed energie, ma a permettere il tempestivo compimento di operazioni ( che fatte oltre un certo tempo perderebbero di validità o
comunque diventerebbero ingiustamente più onerose : si pensi al termine dato dall'art. 1495 al compratore per denunziare i vizi della cosa : questo termine ha la sua ragion d'essere nel fatto che un'operazione di verifica fatta oltre un certo tempo non potrebbe più stabilire se i vizi sono imputabili al venditore o al mal uso della cosa fatto dal compratore ). In tali casi ( casi che nella terminologia del codice sono detti di “decadenza”, e non di “prescrizione” – vedi l'art. 2964 e segg. ) naturalmente non avrebbe senso riconoscere al titolare del diritto il potere di rinviare la scadenza del termine con un suo atto ( interruttivo di questo termine ).
8- Iura in re aliena (N.B. Le note sono in calce al capitolo) Doc. Con le parole “iura in re aliena” io intendo riferirmi – non solo a quei diritti che pacificamente sono considerati “diritti reali” (1): diritto di enfiteusi (art. 957 e segg.), di usufrutto (art.978 e segg.), di uso (art. 1021 e segg.), di abitazione (art. 1022 e segg.), di servitù (art. 1027 segg.) - ma anche al diritto di locazione (art. 1571 e segg.) e, in genere, a tutti quegli altri diritti che possono nascere dal fatto che, il proprietario di una cosa, rinuncia o trasferisce alcuni dei poteri, che formano il contenuto del suo diritto, a favore di un’altra persona (che viene così ad acquistare, su quella stessa
cosa, dei poteri). La facoltà del proprietario di costituire dei iura in re aliena (ancorché non scevra di inconvenienti) presenta il vantaggio di consentire il coordinato e razionale sfruttamento di più fondi appartenenti a diversi proprietari (così come accade nel caso di una servitù, altius non tollendi, non aedificandi, di acquaeductus....) e l’integrale sfruttamento di un patrimonio (Tizio ha due fondi: uno é in grado di coltivarlo subito, per l’altro dovrebbe aspettare che il figlio cresca e gli dia una mano: invece di lasciarlo inutilizzato, nel frattempo lo darà in usufrutto; oppure, ha la fortuna di avere nel suo terreno una fonte che getta dieci ettolitri al giorno, mentre a lui ne basterebbero cinque: invece di lasciare sprecare gli altri cinque ettolitri, concederà al vicino, che di acqua ha penuria, una servitus acquae haustus). Disc. Però la coesistenza, su uno stesso bene, del diritto di proprietà e di uno (o più) diritti minori, di cui tu prima hai parlato, penso che farà sorgere dei problemi. Doc. Certo. Problemi che principalmente attengono a: la durata (dello ius in re aliena), la modificabilità della res (da parte del titolare dello ius in re aliena), le riparazioni (da effettuare sulla res, in vigenza dello ius in re aliena). Disc. Da che nascono i problemi relativamente alla durata? Doc. Nascono dal fatto che – mentre l’interesse della Società é quello che tutti i beni siano al massimo resi produttivi - i limiti che sono connaturati allo ius in re aliena, tolgono al suo titolare la possibilità e l’incentivo ad attivarsi per vaste e radicali opere di miglioramento della cosa. Disc. E come cerca di evitare questo inconveniente, il legislatore? Doc. Cerca di evitarlo limitando nel tempo la durata dello ius in re aliena. E così vediamo nel nostro codice un articolo 1573, per cui “ la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni”, e un art. 979 per cui “ la durata dell’usufrutto non può eccedere la vita dell’usufruttuario”. Disc. Il legislatore si preoccupa di porre un limite temporale a tutti gli iura in re aliena? Doc. No, da tale limite esenta, l’enfiteusi, le servitù e il diritto di superficie. Ma per
tale esenzione c’è una ragione. L’enfiteusi può essere perpetua (v. art. 958) senza determinare una stagnazione delle iniziative migliorative, data l’ampiezza dei poteri ad essa connaturata e la concessione (art. 971) all’enfiteuta del potere di affrancazione (che gli dà la possibilità di godere dei frutti delle sue iniziative). La perpetuità (peraltro solo eventuale) delle servitù, se può anche frenare la produttività del fondo servente (in alcuni limitati casi), senz’altro incrementa quella del fondo dominante. E, mutatis mutandis, quel che ho detto ora per le servitù può ripetersi per il diritto di superficie. Disc. Tu hai parlato di problemi che nascono da possibili iniziative del titolare dello ius in re aliena intese a modificare la res. Doc. E infatti tali iniziative potrebbero comportare una modifica in peius del valore che la res avrà per il proprietario (rispetto a quello che per lui aveva al momento della costituzione del ius in re aliena). Disc. Come può accadere questo? Doc. Te lo spiego con un esempio. Sempronio costituisce sul suo aranceto un diritto di usufrutto a favore di Caio. Se questi trasforma il fondo ricevuto, da aranceto in uliveto, può anche, così facendo aumentarne il valore commerciale. Ma rischia di diminuire il valore che esso ha per il suo proprietario, per Sempronio. Disc. Perché?
Doc. Perché questi sa come si trattano gli aranci e dove si trovano i loro compratori all’ingrosso, ma nulla sa sul commercio degli ulivi e quindi non saprebbe sfruttare adeguatamente un uliveto. - il che é come dire che, restituendoglielo trasformato in uliveto, Caio gli restituirebbe il fondo diminuito di valore. Questo spiega perché il legislatore dopo aver detto, nell’art. 981, che “l’usufruttuario ha diritto di godere della cosa” - continua dicendo “ ma deve rispettarne la destinazione economica” Vedi anche per un’altra applicazione del principio sopra enunciato, l’art. 1587, che impone al conduttore di “prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze”: vedi ancora l’art. 1102, che chiaramente non riguarda un ius in re
aliena. ma che mi piace qui citare perché in definitiva costituisce anch’esso pur sempre un’applicazione del principio sopra detto, là dove, dopo aver dichiarato che “ciascun partecipante (alla comunione) può servirsi della cosa comune”, aggiunge “ purché non ne alteri la destinazione”. Disc. E veniamo al problema che nasce dalla necessità di riparazioni alla res. Doc. Più che un problema é un rompicapo. Disc. Perché? perché é difficile individuare il criterio a cui ispirarsi, nei casi in cui si tratta di stabilire chi gravare (il proprietario o il titolare dello ius in re aliena) delle spese necessarie per le riparazioni? Doc. In teoria tale criterio potrebbe essere individuato. E’ la sua applicazione pratica che diventa impossibile. Disc. E quale sarebbe tale criterio applicabile in teoria? Doc. Sarebbe quello che permetta il raggiungimento dei tre seguenti scopi: primo, creare una dissuasione al eventuale negligente uso della res da parte del titolare dello ius in re aliena; secondo, non venire, però, a gravare troppo questi (dato che questi, per il fatto stesso di non essere economicamente in grado di comprarsi la res, va considerato la parte debole del rapporto), cosa per cui dovrebbe essere sollevato dalle spese che dovrebbero presumersi per lui particolarmente pesanti, in base al tipo, più o meno “ricco” della res, e del reddito che questa produce (a meno che tali spese fossero da lui prevedibili); terzo, evitare un arricchimento del proprietario (il che si avrebbe qualora, la cosa riparata, continuasse ad essere utilizzabile per lungo tempo, dopo la estinzione dello ius in re aliena). Disc. Però questo criterio, dicevi, non é in pratica adottabile. E allora? Doc. E allora...io lascio la parola a un illustre Studioso, il G. Provera - il quale, trattando dell’art. 1570, dopo aver rilevato (in, Locazione, Commentario ScaialojaBranca, Bologna-Roma, 1980, p.196) che la “distinzione fra manutenzione ordinaria e straordinaria (o fra riparazioni ordinarie e straordinarie o fra spese ordinarie e straordinarie) non si presenta affatto agevole”- così continua: “ In mancanza di una definizione legislativa, la dottrina ha cercato di individuare criteri sufficientemente
precisi, comunque tali da consentire la soluzione di ogni problema derivante dalla distinzione sopra indicata. Si tratta, però, di criteri tanto elastici da lasciare al giudice un ampio margine di discrezionalità. In via largamente approssimativa si può ritenere che le opere di manutenzione ordinaria sono quelle che, oltre ad essere normalmente prevedibili entro un certo lasso di tempo, comportano altresì una spesa tutto sommato modesta rispetto al valore e al reddito della cosa, tanto da potersi considerare inerente alla sua produzione. Le opere di manutenzione straordinaria, invece, sono quelle, che non sono prevedibili come effetto normale a breve o medio termine, che consistono nella sostituzione o nel ripristino di parti essenziali della struttura della cosa e il cui costo normale risulta sproporzionato al reddito normale” (le parole da me messe in corsivo costituiscono una citazione, fatta dal Provera, del Pugliese, in Usufrutto, p. 512 e ss.). Nota (1) Per il concetto di diritti reali rinviamo allo studioso al capitolo ad hoc che si trova inserito nel “Libro terzo”
9 – L’onere della prova nell’azione di rivendicazione ( Attenzione : le note sono in calce ) Che significa provare la proprietà di un bene? come norma, significa provare l’acquisto a titolo originario (di solito per usucapione) del diritto (di proprietà su tale bene) in capo a sé o al proprio dante causa o al dante causa del proprio dante causa e così via: una probatio diabolica, anche se mitigata nel suo rigore dagli istituti della successio e della accessio possessionis (art. 1146) e dalla possibilità di giovarsi come prove, non solo di scritti e documenti, ma anche di testimonianze e presunzioni. Si pensi al caso di A, che conviene in giudizio B, che come lui ha acquistato da C: se B contesta la validità dell’acquisto di A e C, ma ammette l’esistenza di un diritto di proprietà di C (e si dovrà presumere che l’ammetta, anche se si limita a non
contestarlo (1), A (l’attore in rivendica) potrà ritenere pacifica l’esistenza di tale diritto (e limitarsi a provare la validità del suo acquisto (2)). E se invece B (il convenuto in rivendica) contesta il diritto del suo stesso dante causa (idest, di C)? Qui secondo noi bisogna distinguere: se B è nel possesso del bene, la contestazione costringe A a provare l’esistenza del diritto di C (in pratica li costringe alla probatio diabolica), se invece B non è nel possesso del bene (3), la sua contestazione non grava (necessariamente) (4) A, il rivendicante della probatio diabolica (5). Si pensi ancora (per avere un altro esempio di esenzione dalla probatio dabolica ad A, che conviene in giudizio B, a cui ebbe precedentemente a dare in comodato (o in locazione o in deposito …) un bene. e che ora rifiuta di restituirglielo, contestando il suo diritto di proprietà. Nessun dubbio che ad A basterà, per ottenere la condanna alla restituzione del bene, la prova di averlo prima dato in comodato (o in locazione ….) a B. Guai se si costringesse, chi ha stipulato un contratto, che implica il trasferimento all’altra parte della detenzione di un bene, a dare la prova (come si è spiegato, difficilissima) della sua proprietà per riaverlo indietro: il traffico giuridico si bloccherebbe: tutti esiterebbero a stipulare simili contratti per il timore di perdere definitivamente il bene trasferito. A questo punto lo studioso dirà “Tutti quelli finora fatti sonno bei discorsi e anche convincenti: ma che dice il codice?”. Ebbene il codice sul punto della prova (che è il punto focale della reivinidicatio) nulla dice. Infatti il comma 1 dell’art. 948 si limita a recitare “(Azione di rivendicazione). Il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l’attore a proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno”. Però l’art. 948, se non aiuta il giurista a risolvere il problema della prova (e forse è bene che sia cosi), toglie alcuni ostacoli (non piccoli) a chi è costretto ad agire in rivendica. In primo luogo, consentendogli l’azione nei confronti sia del possessore che del detentore (6). In secondo luogo, stabilendo la perpetuatio legitimationis, consentendo cioè la prosecuzione della rivendica contro il possessore, che, dopo la proposizione della domanda, abbia cessato di possedere. Note. (1) Infatti presumere che B contesti e disconosca il diritto di proprietà di C significherebbe presumere la sua malafede al momento dell’acquisto di C, in quanto solo un uomo di mala fede è disposto a comprare da chi sa non essere il proprietario. Questo mentre invece la buona fede va sempre presunta. (2) In definitiva, nella fattispecie in esame (diverso il discorso per la fattispecie che dopo
esamineremo), non si fa altro che applicare il principio processuale che solleva l’attore dalla prova dei fatti, dal convenuto, non contestati. Nella dottrina e nella giurisprudenza francese ha buona accoglienza la c.d. “doctrine du droit meilleur” secondo cui ragioni pratiche ed equitative convincono in certi casi ad attenuare il rigore della prova e a ritenere che “on ne puisse réclamer du revendiquant que la preuve d’un droit meilleur ou plus probabile que celui du defendeur”. In Italia tale teoria è rifiutata. E anche noi, lo vogliamo chiarire scanso di equivoci, condividiamo le affermazioni giurisprudenziali che “l’attore ha l’onere di provare il suo diritto di proprietà anche se il convenuto non vanti su di essa (idest, sulla cosa) un proprio diritto” e che neppure se il convenuto abbia invocato “un proprio diritto sulla cosa e la sua prova sia fallita vien meno l’onere dell’attore di provare il diritto domenicale”- cfr su tali citazioni S. Ferrari (Rivendicazione, dir. Vig., in Enc. Dir., p. 56). Però si deve riconoscere che in nessuno dei casi ora citati (a differenza del caso esemplificato nel testo) vi è una ammissione, neppure implicita, del convenuto sulla esistenza del diritto del dante causa (proprio e dell’attore). Per tale ipotesi (per l’ipotesi cioè che il convenuto riconosca il diritto di proprietà del comune dante causa) acquista invece rilievo l’insegnamento giurisprudenziale che, il rigore dell’onere probatorio nell’azione di rivendica, va commisurato alle concrete particolarità della singola controversia, dovendo il giudice tenere conto delle ammissioni del convenuto (Cass. 24 Dicembre 1977 n. 5669) e che “l’intensità e l’estensione dell’onere probatorio del rivendicante devono (…) subire opportuni temperamenti a seconda della linea difensiva del convenuto” (cfr. Cass. 10 Marzo 1969 n. 771). Nella Dottrina, il Martino (Della Proprietà, in Commentario Scialoja-Branca, 1964, p. 415) ritiene che “qualora il convenuto eccepisca un titolo di acquisto, che non contrasti con la proprietà del dante causa dell’attore, questi non è tenuto a provare il dominio del suo attore” e giustifica tale soluzione così: “Si tratta di un limite logico dell’onere della prova, che deve essere valutato sempre in relazione alle pretese delle parti. (3) Caso in cui, a dire il vero, non ci si trova più in un’ipotesi di azione di rivendicazione, ma di accertamento. (4) E non lo graverò se egli riuscirà a dimostrare semplicemente di avere “le droit meilleur”: egli ha, ad esempio, acquistato in buona fede, mentre B era in mala fede. (5) E questo perché noi riteniamo che l’azione di accertamento (cioè l’azione volta a far dichiarare il diritto di proprietà nei confronti di chi non è né possessore né detentore del bene) necessiti di una minor prova che l’azione di rivendica. Ciò che è il linea col principio, secondo cui lo Stato, per accogliere la domanda dell’attore, deve chiedergli una prova tanto più rigorosa, quanto più pesanti sono i danni che, dall’accoglimento di tale domanda, deriverebbero al convenuto. Ora appunto, una sentenza che accolga una rivendica, risulta più pesante per il convenuto di una sentenza che accolga un’azione di accertamento: nel primo caso infatti si ha uno spossessamento del convenuto, nel secondo no. Sul fatto che l’azione di accertamento necessiti di prova meno rigorosa vedi Silvia Ferrari (Rivendicazione, p. 56) con numerose citazioni di Autori pro e contro. Vero è che molti Autori accolgono la tesi del minor rigore di prova per il fatto che l’attore può vantare in caso si azione di accertamento una “presunzione di proprietà fondata sul possesso”, ciò che impedisce a noi di giovarci della loro autorità nell’esempio fatto nel testo (in cui si suppone che né l’attore né il
convenuto abbiano ancora conseguito il possesso della res). (6) Tale “alternativa consentita dall’attore”- spiega Silvia Ferrari (Rivendicazione, p. 52) –“trova la sua ragione d’essere nello scopo di sollevare l’attore dalla necessità di specificare preventivamente la natura della relazione di disponibilità materiale del convenuto nei confronti della cosa rivendicata”. Tale possibilità concessa all’attore (dal codice), è controbilanciata dalla possibilità, riconosciuta (dalla giurisprudenza) al detentore convenuto in giudizio, di effettuare la c.d. laudatio actoris: il detentore può ottenere di essere estromesso dal giudizio indicando il soggetto in nome del quale detiene. Le ragioni della concessione al detentore di tale possibilità “consistono, da un lato, nell’economia dei giudizi così realizzata evitando all’attore di doversi procurare un nuovo titolo esecutivo nei confronti del possessore mediato, ove questi abbia ottenuto la restituzione del bene, dall’altro, nell’interesse del detentore a sottrarsi al giudizio e al rischio di dover risarcire al proprio autore, nel casi di soccombenza, il danno per la perdita del bene” – sul punto cfr. Silvia Ferrari (Rivendicazione, cit., p.53).
10- In facultativis non datur praescriptio Abbiamo avuta già occasione di vedere che il legislatore ritiene fisiologico e normale che una persona non usi di tutti i beni, che vengono a formare il suo patrimonio. A maggior ragione Egli non può non ritenere fisiologico e normale che un proprietario (un enfiteuta, un usufruttuario …) non colga tutte le utilità che il bene (oggetto del suo diritto) potrebbe offrirgli. Caio non potrà disporre della somma necessaria per costruire nel suo fondo quel grattacielo, che ne costituirà il maggior ornamento, se non tra cinquant’anni? Aspetti pure tranquillo, senza nessun timore di perdere la (preziosa) facoltà di edificare (e senza essere costretto dal timore di decadere da tale facoltà a costruire una casupola invece che un grattacielo o a venire a patti con
un’agenzia immobiliare strozzina!). Perché il legislatore ammette, si, il non uso di un diritto (in re aliena),ma solo per un certo periodo di tempo (oltre il quale ne determina l’estinzione), mentre invece per la “facoltà” esclude ogni forma di prescrizione estintiva? Perché, mentre l’estinzione del diritto (in re aliena) non usato, apre la possibilità ad altri (e precisamente al proprietario) di utilizzare (di nuovo o più ampiamente) la cosa, l’estinzione di una facoltà comporterebbe sic et simpliciter la perdita di una utilità (che la cosa potrebbe invece ancora offrire): se, ragionando ad absurdo, Caio, il proprietario, perdesse la facultas aedificandi dopo 20 anni che non ne avesse usato, il suo terreno diventerebbe sic et simpliciter inedificabile, mentre invece se Sempronio perdesse per non uso il suo diritto di usufrutto sul campo A, ci penserebbe Caio, il proprietario, a cogliervi le mele e a seminarvi il grano. Ma se il legislatore riconosce l’opportunità di un’estinzione (per non uso) di una servitù di veduta, in quanto pensa che tale estinzione sbloccherà, per così dire, energie e iniziative economiche nel proprietario del fondo servente (Caio il proprietario del fondo servente potrebbe decidersi a fare una veranda o, addirittura, a costruire una villetta là dove prima aveva ragione di temere che il vicino aprisse un importuno balcone), perché Egli (idest, il legislatore) non riconosce l’opportunità di una estinzione (col tempo) di una facoltà di aprire una veduta? Evidentemente – ecco la risposta più o meno soddisfacente, ma la migliore che noi si sappia trovare – perche egli, il Legislatore, pensa che la possibilità dell’apertura di una veduta col rispetto delle distanze legali non sia sentito dal vicino come un pericolo tale da fargli astenere da una qualsiasi apprezzabile forma di utilizzazione del fondo. 11- La prova nell’ambito dell’azione di regolamento di confini E’ un’applicazione del principio commentato nel paragrafo precedente (cioè del principio, In facultativis non datur praescriptio) che il proprietario di un fondo costituito, metti, da tre diversi appezzamenti – A (un bosco), B (un prato), C (un terreno seminativo) – non perda il suo diritto su uno di tali appezzamenti, anche se per lunghissimo tempo non vi ha mai messo piede e minimamente se n’è curato. E in definitiva è sempre un’applicazione di tale (fondamentale) principio che una persona possa acquistare col tempo la proprietà di tutto un fondo (come in un prossimo paragrafo spiegheremo, possa usucapire tutto un fondo), anche se di fatto non ne abbia posseduto che alcuni appezzamenti (Tizio, per rifarci all’esempio prima introdotto, nel bosco non ha mai messo piede e tuttavia ne usucapisce anche il bosco, se è nel possesso del terreno seminativo e del prato).(1)
Che cosa c’entra tutto questo con l’azione di regolamento dei confini, si domanderà a questo punto lo sbigottito studioso? C’entra: metta, lo studioso, che Caio si veda contestata tutta la proprietà del fondo: basterà ch’egli dimostri, di aver pascolate le sue pecore nel prato di B e di aver seminato nel terreno di C, per 20 anni, e con ciò stesso avrà dimostrato il suo possesso di tutto il fondo e la sua usucapione. (ergo, la sua proprietà) di tutto il fondo. Ma metta ora lo studioso che a Caio venga contestata solo la proprietà sull’appezzamento A (il bosco): è ben possibile ch’egli su tale apprezzamenti mai abbia messo piede e che, ciononostante, ne sia proprietario (per quanto detto prima): quindi assurdo sarebbe imporgli di provare la sua proprietà (sul bosco) con il suo possesso continuato (del bosco)! Il legislatore è di ciò ben consapevole e per questo nell’art. 950 stabilisce che nell’azione di regolamento di confini (azione che si risolve in definitiva nella controversa sulla proprietà di un particolare appezzamento di terreno) “ogni mezzo di prova è ammesso” e che “in mancanza di altri elementi, il giudice si attiene al confine delineato dalle mappe catastali”. (1) “Perché si abbia il possesso di un fondo, ai fini dell’usucapione, non è necessario compiere atti di possesso su ogni punto di esso, ma è sufficiente tenerlo come proprio nella sua completa individualità, con la possibilità di esercitarvi il potere di fatto su ogni parte, sempre che lo si voglia” (Cass. civ., 28 marzo 1958, n. 7077, in Giur.it. Rep., 1958, v. Usucapione, n.6).
12 – Le servitù prediali (N.B- Le note sono in calce ) Che cosa deve intendersi per “servitù”? Ce lo dice l’articolo 1027, che recita: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario”. Quindi, perché ci si trovi di fronte a una servitù occorre che la limitazione dei poteri di disposizione e di godimento imposta al proprietario di un fondo (il “peso” impostogli, per usare il termine legislativo) abbia i requisiti della: I, predialità; II, alterità; III, utilitas. Predialità. Tale requisito ha i tre seguenti significati: Primo significato: le “limitazioni” (di cui abbiamo parlato sopra) debbono riguardare i poteri di disposizione e di godimento su un predio, su un fondo. Se il proprietario
del fondo A si obbliga a recarsi ogni giorno ad innaffiare i fiori del vicino, egli senza dubbio accetta con ciò una limitazione dei suoi poteri di disposizione, ma sulla sua persona (e non sul suo predio!) e pertanto non ci troviamo di fronte ad una servitù prediale. Secondo significato: se A vende il fondo a M su cui ha costituita una servitù, questa continua a sussistere, solo che grava non più lui ma chi ha acquistata la proprietà da lui. Così come se fosse una qualità (negativa) inerente al fondo (non diversa dall’essere questo argilloso, franoso, da pascolo …). Terzo significato: il peso (per usare il termine legislativo) imposto dal fondo (c.d. servente) deve ridondare a vantaggio di un altro fondo (ma - si domanderà lo studioso – i fondi posso avere dei vantaggi? No, di certo, i fondi, come tutte le cose inerti e insensibili, non possono avere dei vantaggi, ma dire che il peso imposto al fondo servente – melius al proprietario del fondo servente - deve ridondare a vantaggio di un altro fondo, è un modo immaginifico e un po’ suggestivo, comunque tradizionalmente accettato, per significare che i vantaggi che ridondano sul proprietario del fondo dominante debbono presentare le caratteristiche che …. se lo studioso ha un po’ di pazienza gli diremo subito. Fermiamoci un po’ su questo punto perché è il punto nodale in subiecta materia: non hanno diritto di cittadinanza nel nostro diritto le servitù personali (1): il mobilificio Fabris potrà acquistare dal proprietario del fondo A il diritto di cavarvi il marmo, che gli necessita per adornare i suoi mobili, ma tale diritto (salve le migliori precisazioni che daremo in seguito) non potrà assurgere alla dignità di diritto reale: se il proprietario del fondo A venderà questo ad un terzo, tale terzo non sarà obbligato a permettere al mobilificio di continuare a cavare marmo dal fondo. Perché questo? perché questa caratteristica della “predialità”? Perché le limitazioni imposte a un fondo, da una parte, potrebbero non essere particolarmente vantaggiose per chi ne beneficia, dall’altra, potrebbero rivelarsi un grave intralcio allo sviluppo economico: Caio ha acquistato il diritto di fare footing ogni mattina nel fondo vicino: bene, ma non sarebbe assurdo che l’esistenza di tale diritto impedisse l’acquisto del fondo (servente) da parte del cavalier Rossi, che vi vorrebbe costruire un supermercato? Chiaramente, sì: l’interesse di Caio alla corsetta mattutina deve soccombere di fronte all’interesse della collettività ad avere il supermercato. Quindi il legislatore è disposto a riconoscere il carattere della realità (nel senso spiegato nel nono paragrafo) a un diritto che implica limitazioni (di disposizione, di godimento) su chi possiede un fondo (il fondo “servente”), solo quando la sua esistenza corrisponde a una particolarmente forte utilitas del suo titolare. E siccome la valutazione della forza, della intensità che deve avere tale utilitas (per riconoscere il carattere della realità,
ecc.ecc.) il legislatore non la può rimettere alla discrezionalità dell’Autorità Giudiziaria (dato che ogni potenziale acquirente di un fondo vuole sapere con sicurezza se esso gode o è gravato da una “servitù”), Egli, (idest, il Legislatore) cerca di dare un criterio - e particolarmente chiaro e sicuro (ancorché in alcune marginali fattispecie possa comportare delle irrazionalità) – per determinare quando tale forte utilitas ci sia (alias, quando ci sia una servitù prediale) e quando, no. E tale criterio (netto e sicuro) Egli lo trova nel fatto che, la limitazione ai poteri del proprietario del fondo servente (il “peso “ imposto al fondo servente), soddisfa un interesse legato al possesso di un altro fondo: con ciò volendosi intendere che. il venir meno della tutela di tale interesse, verrebbe anche a vanificare o a ridurre in modo apprezzabile l’utilitas, dal possesso di tale secondo fondo, ricavabile. Qualche esempio. Io sono proprietario di un fondo, bello ma intercluso (oppure, mancante d’acqua …): costituisco una servitus itineris (una servitus acquaedoctus…) a carico del fondo limitrofo: nessun dubbio che tale servitù abbia il carattere della predialità: infatti, se venisse meno la tutela al mio interesse a passare sul fondo vicino, verrebbe meno (o almeno scemerebbe moltissimo) anche ogni utilità che il fondo potrebbe dare (a me e a chiunque acquistasse da me il fondo!): che valore può avere un fondo in cui ci si può recare solo con l’elicottero?!? Altro esempio (che ricaviamo da un famoso frammento del Digesto) (2): Nigerio nel suo fondo A raccoglie frutta e prepara marmellate che vende in vasetto d’argilla (da lui fabbricati). L’industria di Nigerio è attiva in quanto e solo in quanto egli può prendere la materia prima dei vasetti (l’argilla) nel terreno limitrofo di Sempronio: c’è anche il terreno di Cornelio che è argilloso, ma è una decina di chilometri e il costo di un trasporto da così lontano si mangerebbe tutti i guadagni. Nigerio, quindi, da uomo prudente, prima di impiantare l’industria conserviera (e spendere il soldi per i relativi macchinari), si è assicurato dal vicino il diritto di prendere argilla: può essere qualificato, tale diritto, come servitù prediale? Senz’altro, se è vero che, venuta meno la possibilità di prendere l’argilla dal vicino, verrebbe meno per Nigerio (e per chiunque altro acquistasse da lui il fondo e la fabbrica da lui costruita sul fondo!) anche l’utilità di esercitare l’industria conserviera (e quindi l’utilità di possedere il fondo su cui tale industria è impiantata). (3) A questo punto può essere utile per lo studioso porre a confronto quest’ultimo esempio con quello (introdotto all’inizio) del mobilificio Fabris che, pur avendo sede in Bologna, si procura i marmi in quel di Carrara, nel fondo A del Bianchi. Il venire meno della possibilità di cavar marmi dal fondo di A, non incide per nulla sull’utilità, o meno, del mantenere la sede del mobilificio dov’era prima: se la sede in via Pastolozzi di Bologna ci stava bene prima, ci starà bene anche ora: non è cambiando
sede che il mobilificio risolve il problema economico creatogli dall’impossibilità di continuare la cava nel fondo A: egli può pensare di risolvere tale problema solo acquistando un altro diritto di cava da un altro fondo carrarese. Invece, il venire meno della possibilità di cavar argilla, pone effettivamente a Nigerio il problema della convenienza, o no, di sbaraccare: quale indice più chiaro che, nel primo caso, ci troviamo ad una servitù personale e, nel secondo, ad una servitù prediale? Dagli esempi ora portati, risulta (implicitamente) che non è un requisito essenziale delle servitù la vicinitas (forse che Nigerio non potrebbe avere interesse a cavar l’argilla tanto necessaria alla sua industria, da un fondo distante anche un chilometro? Forse che pure in tale ipotesi il venir meno della cava non potrebbe vanificare o ridurre l’utilitas di conservare l’industria e il fondo su cui è impiantata?!)(4). Oltre alla predilità sono invece, come già si è accennato, ulteriori requisiti della servitù: la utilitas e la “alterità” del fondo. Alterità del fondo. Questo requisito viene tradizionalmente espresso col brocardo “Nemini res sua servit”; e sembra essere il corollario più di una legge logica che di una legge giuridica: è logico che nessuno possa chiedere una tutela giuridica contro se stesso! Però sulla portata di questo principio bisogna intendersi: nulla impedisce a Caio, proprietario di due fondi finitimi, A e B, di costituire su B un diritto di enfiteusi a favore di Cornelio, nello stesso tempo costituendo, sempre su B ma a favore del fondo di cui conserva la piena proprietà, una servitù (metti di passo, di presa d’acqua…). Utilitas. Già gli antichi giureconsulti ritenevano che tale requisito dovesse intendersi in senso lato, comprensivo dell’amoenitas; e la chiara lettera dell’art. 1028 (5) toglie ora ogni possibile dubbio sul punto (6). Discutibile, invece, se l’utilitas debba essere di entità apprezzabile o se basti, invece, per ritenere l’esistenza di una servitù, ch’essa arrechi una qualsiasi utilità, anche minima, al fondo dominante. Noi riteniamo valida la prima alternativa (la servitù deve arrecare un’apprezzabile utilità): Tizio ama fare il footing e il suo giardino è troppo piccolo per dar sfogo alle sue energie: egli acquista dal vicino Cornelio il diritto di correre nel suo fondo. Certamente si può dire che il venir meno di questo diritto diminuirebbe per Tizio il gusto e il piacere del viver nel suo fondo (idest, l’utilitas di questo), tuttavia noi negheremmo a una tale diritto la qualità di “realità” (7) (alias, che sia un diritto di servitù). È invece pacifico che non sia un requisito della servitù la c.d. “perpetua causa”(8): certamente un diritto di servitù può essere costituito ad tempus (per soli 30,40 anni, metti) e in risposta ad un bisogno transeunte del fondo dominante (9).
Note. (1) Il Branca (Delle servitù prediali, in Commentario Scalja-Branca, Bologna, 19547, p. 292) nota che l’inammissibilità di servitù personali – in cui si esprime il principio del favor libertatis dei fondi – si spiega con la considerazione “ l’utilizzazione parziale del fondo importa un frazionamento irrazionale dei poteri (con residui di godimento e di suo a favore del proprietario)” cosa che “la società non può vedere di buon occhio almeno nell’ambito dei rapporti con vincolo erga omnes”. (2) D.8.3.6. pr. citato anche dal Branca (Delle servitù.cit.,p.299). (3) Per il capoversi dell’art. 1029, l’utilità – che la servitù è diretta a procurare- può “essere inerente alla destinazione industriale del fondo”. Da questa formulazione (a dir vero un po’ confusa) della legge, si vuole dedurre che, per l’esistenza della servitù, non basta che essa miri a rendere economicamente vantaggiosa un’industria esercitata in un fondo, ma occorre pure che, ai fini dell’esercizio dell’industria, siano state fatte opere od eseguire delle modifiche nel fondo (alias, ai fini dell’esercizio dell’industria si siano investiti nel fondo, pochi o tanti, dei capitali). Ma è meglio che qui noi lasciamo la parla al già citato, Cod. civ. ann. a cura del Perlingieri (sub art. 1028, p. 330), che così sintetizza il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale sul punto: “Per destinazione industriale s’intende l’esistenza o la predisposizione nel fondo dominante di quei mezzi particolari che consentono l’esercizio dell’industria”. Le servitù di cui stanno parlando vengono chiamate “servitù industriali”, nel gruppo di tali servitù sono fatte rientrare le “servitù di non concorrenza, consistenti ad es. nel divieto di costruire sul fondo servente uno stabilimento che produca cose eguali o simili a quelle prodotte nello stabilimento del fondo dominante”. Si distinguono dalle servitù industriali e non hanno diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento le cc.dd. “servitù aziendali, nelle quali il vantaggio va esclusivamente all’industria e non al fondo”. Sui punti in questione vedi l’ottimo Perlingieri (Op.cit. p. 330 e 331) che, come sopra, fornisce numerosissimi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. Noi crediamo che, se lo studioso seguirà criteri da noi dati nel testo, approderà alla giusta soluzione dei casi che la Professione gli presenterà (senza arenarsi nelle secche di distinzioni bizantine: quando mai si può dire che un vantaggio va al fondo e non all’industria?!). (4) Sul punto che né la vicinitas né tanto meno la contiguità dei fondi siano requisiti essenziali per la costituizione della servitù, sono unanimi la dottrina e la giurisprudenza. Confronta per tutti, Grosso e Deiana, Le Servitù prediali, Torino, 1963,I,p.202. (5) L’articolo 1028 recita: “(Nozione dell’utilità) – La utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Può del pari essere inerente alla destinazione industriale del fondo”. In base alla formulazione dell’art. 1028 si ritiene che con la costituzione di una servitù possa “essere soddisfatto qualunque bisogno del fondo dominante, da quello che assicura una maggiore amenità, abitabilità, comodità (…) a quello di evitare rumori o esalazioni o esercizi che abbiano una destinazione spiacevole o fastidiosa” – sul punto già citato il Cod.civ.ann., sub art. 1028, p. 329, con ivi citazioni dottrinali e giurisprudenziali.
La formulazione dell’art. 1027 (dove si parla della servitù come di un peso imposto ad un fondo “per l’utilità di un altro fondo”) parrebbe suggerire l’idea di un carattere oggettivo dell’utilitas: in altri termini perché a un ius in re aliena possa attribuirsi l’efficacia erga omnes (la qualificazione di servitù) occorrerebbe che l’utilitas, che mira ad assicurare, possa essere apprezzata come tale, non solo da chi, lo ius in re aliena, ha costituito, ma anche da qualsiasi altra persona, in particolare da un eventuale acquirente del fondo (dominante). Per ciò stesso, la costituzione di una servitù dovrebbe comportare un aumento del valore del fondo (dominante, naturalmente). Certamente noi escluderemmo che la qualifica di un diritto come servitù possa dipendere solo dall’arbitraria decisione di Caio proprietario del “fono servente” (decisione che, si badi, verrebbe a vincolare anche Sempronio che, putacaso, acquistasse da lui il fondo!). Però il fatto che, come vedremo, una servitù si possa costituire anche in risposta ad un bisogno non permanente del fondo, ci porta a non escludere che la regola, valida come criterio di massima, che la servitù per essere tale deve essere tale da comportare un vantaggio anche per un eventuale acquirente del fondo (dominante), possa avere delle eccezioni: quel che veramente importa è che l’utilitas che dà la servitù al fondo dominante sia tale da giustificare che sia assoggettato al suo vincolo anche un eventuale acquirente del fondo servente. Eguali perplessità ci sembra avere il Branca, il quale osserva come “l’aumento stesso de valore di un fondo come conseguenza dell’attribuzione di un diritto al proprietario di questo, non è un criterio universalmente sicuro per concludere che si tratti di servitù” (Delle servitù, cit..p.298). (7) Confortati in tale sede dal ben noto cifr. Latino (D.8.1.8.) in cui il Giurista precisa che coglier frutta, passeggiare, pranzare nel terreno altrui, non possono essere il contenuto di una servitù. E questo, non perché, come dice il Branca (Delle servitù, cit.,p..297), in tali casi “l’utilità è normalmente personale”. Non c’è diritto (e a ciò quelli di servitù non fanno di certo eccezione!) che non miri ad assicurare una “utilità personale”. Però in alcuni casi essa è talmente apprezzabile da far attribuire al diritto il carattere della realità, e in altri (come quelli esemplificati nel citato frammento), no. (8) Branca (Delle servitù.cit.,p..297) ritiene ammissibile la servitù “quando c’è un sanatorio o un albergo, a vantaggio dei quali sono stato assicurati i diritti di camminare, passeggiare ecc, in alieno”. Il che ci trova pienamente consenzienti; qui l’utilitas del fondo dominante è veramente apprezzabile. (9) Confronta sul punto, per tutti: Lucchese, Il requisito della perpetua causa e le servitù irregolari, in Vita notarile, 1975,p.85 ss. (10) Si fa però giustamente osservare che il bisogno del fondo dominante, pur non dovendo essere permanente, deve avere una certa stabilità e durevolezza (Albano, Della proprietà, in Commentario al codice civile; UTET, 1968,II,p,294).
14 - Comunione (N.B. Le note sono in calce ) Poniamo che A, B, C stipulino un contratto di compravendita per l’acquisto di un terreno, metti un aranceto: conseguenza (effetto giuridico del contratto nei loro confronti) sarà ch’essi risulteranno titolari di un eguale (1) diritto sull’aranceto – diritto che però non sarà più un diritto di proprietà (tre diritti di proprietà non possono coesistere su una stessa cosa)(2) ma un quid, un diritto diverso, che si può chiamare “diritto di comproprietà” (nella fattispecie – e che sarebbe invece diritto di cosufrutto,
diritto di coservitù, se oggetto dell’acquisto fosse stata una servitù e così via). La coesistenza di tali diritti darà senza dubbio luogo a dei problemi (3); problemi che il nostro codice cerca di risolvere negli articoli 1100 e segg. (4) e di cui noi di seguito evidenzieremo i principali. I. Limiti al diritto d’uso di ciascun comunista. Per l’articolo 1102 “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”. L’importante principio che stabilisce questo articolo, è che B, C (gli altri comunisti), non hanno diritto di proibire al comunista A un dato uso della res communis, se questo uso non impedisce loro di usare della stessa (scilicet, non solo nelle stesse forme di A, ma anche in forme diverse)(5). Quindi mentre i comproprietari B e C (per rifarci all’esempio prima introdotto) potrebbero dire a un terzo qualsiasi, che volesse venire a zappare e a cogliere i frutti nel fondo da loro lasciato in abbandono, “Si, è vero, noi non coltiveremmo né in altra maniera useremmo del terreno, ma ciò nulla significa; se vuoi zapparci, se vuoi coglierne i frutti tu devi darci tot di soldi”; tale discorso essi non potrebbero ripetere a C (il terzo comproprietario): egli potrebbe benissimo totalmente usare della res, se totalmente gli altri comproprietari non la usassero (5bis): “Voi, B e C, non volete usare dell’appartamento comprato insieme? Ebbene io vado a dormirci tutti i giorni. Non è forse questa una soluzione naturale, una soluzione corrispondente all’interesse dello Stato a che tutti i beni costituenti la ricchezza nazionale siano al massimo utilizzati? Certamente, si! Ma diverso è il caso in cui l’uso, che della res communis faccia un comunista, impedisca agli altri comunisti di usarne loro: A e B, comproprietari di un cavallo, vogliono montarlo nello stesso giorno e nella stessa ora. In tal caso l’interesse di A e quello di B hanno pari dignità e pari diritto alla tutela dello Stato: si tratterà per Questi (idest, per lo Stato) di trovare il criterio più adatto per arbitrare e risolvere il conflitto (insorto tra A e B) - e di ciò parleremo in seguito. Il comunista, come deve astenersi da quei comportamenti che impediscono un uso (un uso qualsiasi), che della res un altro comunista intende fare, così anche deve astenersi da quei comportamenti che semplicemente rischiano di impedire un uso, che altro comunista potrebbe in futuro voler fare. E ciò spiega il divieto di “alterare la destinazione” della res (che l’art. 1102 impone). Infatti, se A trasforma l’aranceto, acquistato con B e C, ma lasciato in abbandono da B e C, in un uliveto, non potrebbe
certo dirsi che con ciò impedisca a B e C di farne sul momento uso (dato che B e C sul momento sono in città presi in tutti altri pensieri che la coltivazione del campo), però potrebbe ben dirsi che con ciò rischia di impedire il possibile uso che B e C potrebbero in futuro voler fare del campo: B e C hanno comprato l’aranceto perché, commercianti in agrumi, si riservano un domani di cavarne arance da vendere al mercato: ora, che uso essi potranno fare del campo, una volta che è stato trasformato in uliveto? Essi conoscono il mercato delle arance e non delle ulive. A, mutando la primitiva destinazione del campo, in pratica ha impedito loro di farne (in un domani) uso. Più in generale si può dire che il partecipe alla comunione deve astenersi da un uso della cosa – sia che tale uso assuma le forme di un uti vero e proprio (passeggiare, cavalcare, abitare…nella cosa comune) o di un frui (cogliere le arance dell’aranceto, riscuotere e far esclusivamente proprio il canone dell’appartamento locato…) - tutte le volte in cui è possibile che il suo comportamento contrasti col programma di utilizzazione della res di un altro partecipante: tu, A, comproprietario dell’aranceto vuoi cogliere le arance? Non puoi farlo, a meno che non vi sia il consenso espresso o tacito degli altri partecipanti. “Ma le arance sono mature”: “tu, le giudichi mature, B e C potrebbero ritenerle ancora acerbe”; “ Ma io mi prendo solo un terzo”; “Dici tu che ti prendi un terzo, B e C potrebbero ritenere che prendi di più”. Questa regola, a ben guardare, corrisponde a quell’elementare principio del diritto che fa divieto a una persona di farsi ragione da sé: bisogna che sia un terzo a dire se essa ha veramente ragione o ha invece ragione chi vuole tenere un comportamento col suo contrastante. E questo terzo in una comunione non può che essere la maggioranza dei comunisti riunita in assemblea (o quella sorta di mandatario di tale maggioranza, che è l’amministratore)(6). Nel dirimere i conflitti insorti sull’uso della res communis, l’assemblea non dovrà proporsi di tutelare un interesse sacrificando l’opposto, ma di trovare un modus vivendi, un’armonizzazione tra gli interessi in conflitto (modus vivendi che consisterà di solito in una divisione nello spazio (7) o nel tempo (8) del godimento). In ogni caso l’assemblea dovrà osservanza a quanto dispone il capoverso dell’art. 1101: il concorso dei partecipanti, tanto dei vantaggi quanto nei pesi della comunione, dovrà essere in proporzione delle rispettive quote: se A, in caso di scioglimento della comunione, avrebbe diritto a metà della res (9), pure a metà dei “vantaggi” che questa arreca (durante lo stato d’indivisione) egli avrà diritto: e ciò significa, non solo che, se si vota, il voto A varrà quanto quello di B e C messi insieme, ma, per quel che più interessa, che nel godimento del bene egli avrà diritto a quanto B e C messi insieme
hanno diritto (se sono disponibili 4 posti macchina nel parcheggio, due ne toccheranno a lui, e gli altri due a B e C insieme) (10). II. Limiti al potere di amministrazione della res communis. Il godimento di un bene presuppone l’amministrazione del bene; e questo pone spesso vari complessi problemi (il campo lo si affitta o lo si coltiva direttamente? lo si coltiva a grano o a soia? si è verificato il tal danno: vale la pena di ripararlo? e a quale impresa rivolgersi?sostituire il mulino a vento con un mulino elettrico più funzionale?…). Se i partecipanti hanno, com’è possibile, idee diverse sulla soluzione da darsi a tali problemi, chi decide? Ovvio, la maggioranza. Ma deciderà secondo il principio del “ogni persona un voto” oppure si darà al voto di ogni comunista un peso proporzionale al valore della sua quota? È questa una domanda a cui, come abbiamo già visto, risponde in via di principio il cpv. art. 1101: il peso decisionale di ciascun comunista è proporzionale alla sua quota, e tale risposta viene ribadita per la “comunione in generale” dagli articoli 1105 e 1108, che calcolano le maggioranze necessarie per le varie delibere “ secondo il valore delle quote” (v. il co.2. art. 1105 e l’incipit del co.1 art 1108). E quella così data, è senz’altro un risposta dettata da un’arida ma giusta logica di mercato; per convincersene basta ritornare all’esempio fatto all’inizio: A, B, C intendono comprare quel certo terreno, ma a ciò occorre che A versi i due terzi del prezzo perché i portafogli esangui di B e C più di un terzo non danno: si convincerà mai A a ciò, se saprà che, poi, ad amministrare il bene saranno B e C che lo metteranno costantemente in minoranza? Certamente, no: A è disposto a sborsare di più, solo se sa che poi il suo voto conterà di più. Tuttavia a tale criterio, si ripete di per sé giusto, si è ritenuto di derogare per quel particolare tipo di comunione che è il “condominio di edifici”: l’art. 1136 calcola le maggioranze, occorrenti per l’approvazione delle delibere condominiali, non solamente in base al valore delle quote rappresentate da un voto, ma anche in base ai voti: per cui se, metti, si tratta di decidere a quale ditta appaltare il lavaggio delle scale comuni, il voto di A ancorché rappresenti i due terzi del valore non prevale se B e C dicono di no (v.art. 1136 co.2). Evidentemente tale deroga è stata data dalla preoccupazione di salvaguardare la pace sociale in quella piccola comunità che è il condominio: se un condominio è costituito da 9 condomini + Paperon de Paperoni, la cui quota di comproprietà è uguale a due terzi, si possono anche calcolare le maggioranze solo in base alle quote, con la conseguenza che la volontà di Paperon de Paperoni prevarrà sempre, ma alla fine occorrerà…..mettere un carabiniere a piantonare l’appartamento e a salvaguardare l’incolumità fisica di questo! Abbiamo visto come si calcolano le maggioranze; ma per ogni delibera occorrerà
sempre la maggioranza? No, alcune volte, occorrerà una maggioranza semplice, altre volte, una maggioranza qualificata; perché una maggioranza qualificata? Perché occorre dare (se non la sicurezza, almeno) una certa garanzia, a chi intende partecipare ad una comunione, contro il verificarsi di due eventualità (assai temute): la prima, è che l’aspettativa di poter trarre dalla res communis certe utilità (io compro questo aranceto per poi vendere arance sul mercato) venga frustrata (il che può avvenire, oltre che con il cambio di destinazione del bene: non provvedendo alla riparazione del bene, con la locazione del bene, specie se fatta per lungo tempo, e, a maggior ragione, con la costituzione di un diritto reale sul bene o addirittura con la vendita del bene); la seconda (eventualità temuta), è che si sia trascinati in spese eccessive (anche se utili: utilissimo cambiare il mulino a vento con un mulino elettrico, ma io, i centomila euro che mi costerebbe ciò, li impiego, in maniera ancora più utile per me, nel riparare il tetto della mia casa (11). Orbene una certa garanzia contro il verificarsi di tali eventualità il nostro codice civile già la dà, imponendo (negli artt. 1108, 1136) per certe delibere appunto la maggioranza qualificata (e così, dovendosi considerar una locazione di lunga durata, anche se infranovennale, atto di straordinaria amministrazione, per la sua delibera occorrerà la maggioranza qualificata; e ancora la maggioranza qualificata occorrerà per le “innovazioni”(12). Vi sono poi delibere che l’assemblea non può prendere neanche a maggioranza. Esse sono in primo luogo quelle che pregiudicano (ingiustamente) il diritto di un comunista sulla res communis: tali sarebbero le delibere che frustrassero l’aspettativa del comunista a ricavare l’utilitas dalla res, o disponendo il cambio della sua destinazione economica (cambio di un terreno da aranceto ad uliveto) o negando quelle riparazioni necessarie per la funzionalità della cosa (non si provvede a riparare il tetto della casa), o alienando, costituendo un diritto reale o una locazione ultranovennale sulla cosa; ancora tali (idest, tali da pregiudicare il diritto del comunista sulla res communis) sarebbero le delibere che procedessero a ripartire il godimento della res prescindendo dal valore della quota del comunista (A è proprietario per ½ e gli viene riconosciuto un godimento pari solo a ⅓). In secondo luogo, l’assemblea non può prendere neanche a maggioranza qualificata le delibere che pregiudicano il diritto del comunista (non sulla res communis, ma) sulla res propria: se A è proprietario di un fondo confinante con quello che ha in comune con B e C, l’assemblea del fondo comune non può imporgli di astenersi nel suo fondo privato da una certa attività (ad esempio giudicata troppo rumorosa) (13).
III. Modi di formazione delle delibere assembleari. Abbiamo visto come le decisioni relative all’amministrazione della res communis sono prese a maggioranza (variamente calcolata) dei partecipanti alla comunione, si, ma quali procedure seguire e quali modalità adottare, al fine di pervenire alla decisione migliore possibile? Certamente a ciò occorrerà riconoscere a tutti i partecipanti il diritto di “concorrere nell’amministrazione della cosa comune” (così, co.1 art. 1105); ma tale “concorso” non potrà consistere solo nell’espressione di un voto (“Consento all’installazione dell’ascensore” “Mi oppongo alla nomina di un amministratore”): esso dovrà anche comportare la possibilità di convincere gli altri (comunisti) a dare un certo voto, e quindi la possibilità di interscambio di opinioni tra i vari comunisti (A, informato che C vuole fare nominare un amministratore, parla con C per dirgli che no, la nomina di un amministratore è una spesa inutile) – interscambio che, di per sé, potrebbe avvenire anche in colloqui separati, ma che avrebbe una “resa” migliore se avvenisse in un’assemblea (se in un’assemblea A dice a C che l’amministratore non è necessario ecc., B, che lo sente, può replicare). Non occorrerà, ovviamente, che tutti i partecipanti alla comunione siano presenti all’assemblea (anche se sarà opportuno pretendere un dato quorum di presenze per ogni delibera); ma occorrerà che tutti siano stati avvisati (e infatti anche se, su 100 partecipanti alla comunione, 99 fossero presenti e avessero detto “si”, ma A, il centesimo non fosse stato avvisato, basterebbe questo per legittimare il dubbio che A, intervenendo, avrebbe fatto valere ragioni capaci di mutare i 99 “si” in “no”), e non solo, occorrerà anche che tutti (i partecipanti alla comunione) siano stati informati dell’oggetto della delibera (solo se A saprà che nell’assemblea si discuterà della nomina di un amministratore, potrà andare all’assemblea preparato, ad es. provvisto della documentazione necessaria, per dimostrare che no, l’amministratore non va nominato). Veniamo al diritto positivo, a quel che dice il nostro Codice, ebbene non è da credere che questo dia sempre precise disposizioni su tutti i punti sopra indicati: lo fa abbastanza per quel che riguarda il condominio (v. art. 1136), ma per quel che riguarda la “comunione in generale” si limita a stabilire (nel co.3 art. 1105) che “per la validità delle deliberazioni della maggioranza si richiede che tutti i partecipanti siano preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione”; senza chiarire neanche se questa va presa nell’ambito di un’assemblea o no (ma la prima soluzione sembra preferibile).
IV. Le difese concesse al comunista contro le decisioni della maggioranza. “Le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini” (14); si, se però sono prese effettivamente “a norma degli articoli precedenti” (tutti i comunisti sono stati convocati, si sono rispettati i quorum prescritti…) e comunque sono conformi “alla legge e al regolamento di condominio”(15) (non pregiudicano i diritti dei comunisti, non sono contrarie all’ordine pubblico…): ma se non lo sono? A tale domanda rispondono l’art. 1109 (per la Comunione in generale) e l’art. 1137 (per il condominio degli edifici) (16); entrambi ammettendo nel caso il ricorso all’Autorità Giudiziaria, ma entrambi sottoponendolo allo (strettissimo) termine di 30 giorni. I problemi soprattutto nascono sui limiti di applicabilità del termine di decadenza: oltre a delibere soggette al termine di decadenza di 30 giorni (c.d. delibere “annullabili”), ve ne sono altre che, a tale termine, sfuggono nel senso che possono essere impugnate in ogni tempo (c.d. delibere “nulle”)? Certamente, si: non si può pensare che, da tale brevissimo termine, siano iugulati anche ricorsi contro delibere, che potrebbero ledere diritti fondamentali del condomino: l’assemblea a maggioranza semplice ha deliberato di vendere l’immobile: possibile che tale delibera diventi inattaccabile solo perché il comunista (pregiudicato nei suoi diritti) non è stato tanto lesto da impugnare entro i trenta giorni? Chiaramente non è possibile; e si tratta allora di trovare un valido criterio per distinguere le delibere nulle da quelle solo annullabili. Criterio che, secondo noi, dovrebbe essere il seguente: ci troviamo di fronte ad una delibera solo annullabile, se l’assemblea, reinvestita della decisione sullo stesso oggetto, potrebbe, nonostante il voto negativo del condomino ricorrente, validamente prendere una delibera dello stesso contenuto di quella invalida (ad esempio, perché non erano stati convocati tutti i comunisti o non era stato rispettato un dato quorum): negli altri casi ci troviamo di fronte una delibera nulla (e pertanto sarà tale la delibera che approva a maggioranza la vendita del bene comune o la esecuzione di innovazioni che comportino “una spesa eccessivamente gravosa”)(17). Quid iuris, se la maggioranza dei comunisti, non decide invalidamente, ma semplicemente “non fa”? In tal caso il comunista (interessato) potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria; ciò in forza del 4° co. art. 1105, che recita: “Se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune o non si forma una maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria. Questa provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore.”
Ma oltre a ricorrere all’Autorità giudiziaria, entro certi limiti (posti ad evitare che l’eccesso di iniziativa di un comunista ponga gli altri di fronte a dei “fatti compiuti”) il comunista può “fare da sé”; ciò si argomenta dagli articoli 1110 e 1134. Infatti l’art. 1110 dispone che “Il partecipante che, in caso di trascuranza degli altri partecipanti o dell’amministratore, ha sostenuto spese necessarie per la conservazione della cosa comune, ha diritto al rimborso” e l’art. 1134 a sua volta recita (con formula parzialmente differente ma, secondo noi, con contenuto identico) che “Il condomino che ha assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente”.
V. Scioglimento della comunione. L’amministrazione di una comunione pone dei problemi la cui soluzione non è facile e finisce per creare tensioni, anche forti, tra i comunisti: communio mater discordarum; tanto più che spesso la comunione non è volontaria: pertanto i comunisti non si sono scelti, come i soci, intuitus personae, non vi è insomma tra di loro quell’affectio che permette ai soci di superare i conflitti. Si comprende quindi che il diritto (v. art. 1111) riconosce “sempre” “a ciascuno dei partecipanti il potere di “domandate lo scioglimento della comunione”: in comunione nemo compellitur invitus deteneri. Note. (1) Eguali almeno qualitativamente; mentre quantitativamente, vedremo, che potrebbero essere diverso. (2) Dal momento che il diritto di proprietà consiste “nel diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”- v. art. 832. (3) Di solito, frequenti e usuranti: di immensae contentiones parlavano i giuristi dell’antica Roma (Paul.D.8,2,26) – cfr. G. Branca, Della Comunione, in Commentario Scialoja-Branca, cit., p.62. (4) Ancorché si possono ipotizzare, non solo comunioni (alias, coesistenze su uno stesso bene) di diritti reali, ma anche di altri diritti (A,B,C acquistano con un contratto di locazione un “comune” diritto di conduzione su un appartamento), il codice, con gli articoli citati si propone di disciplinare solo i casi in cui la “proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone” (v. art.1100). Sul punto che “anche taluni diritti di obbligazione e più precisamente quelli che si usa chiamare “diritti (relativi) di godimento” sono interessati all’istituto della comunione”, cfr. Guarini
(Comunione – dir. Civ., in Enc. Dir., VIII, 1961,p.246). (5) E pertanto B e C potranno vantare un ius prohibendi, contro il fatto che A usi dell’immobile per fare dell’equitazione, anche se tale fatto non impedisca loro di fare dell’equitazione, ma di coltivare il terreno. (5bis) Stando questa possibilità che ha un comunista A, di usare, nell’inerzia i nella tolleranza degli altri compartecipi, B e C, della res communis nel modo più ampio, si determina il pericolo del sorgere di un pericoloso equivoco: metti, A usa della res intendendone usucapire la solitaria proprietà (o anche, una quota o poteri maggiori di quelli a lui concessi dal titolo) e gli altri comunisti credono che egli si stia giovando solo della loro tolleranza, ma senza tendere o diminuire il loro diritto. Per impedire tale equivoco il 2° co dell’art.1102 stabilisce che “Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.” Insegna Branca (Della comunione, cit., p. 94) che al comunista “per usucapire il diritto di proprietà esclusiva su tutta la cosa, occorre comportarsi rispetto a questa come padrone; ma non sono sufficienti ad invertire il titolo, atti di mera gestione (per es. il raccolto di tutti i prodotti, ecc.), non basta però quel contegno che permetterebbe all’estraneo di usucapire la proprietà: occorre invece qualcosa che sia incompatibile col permanere del compossesso degli altri (…) è necessario che il possesso apparisca esclusivo nei loro confronti; ma non ne senso rigido dell’art. 1141, e non è necessario che degli atti di possesso gli altri siamo venuti a conoscenza: ad es. la presunzione di tolleranza non si regge facilmente se per venti anni un compartecipe ha, non soltanto raccolto lui solo, ma anche preso e utilizzato per sé ogni provento della cosa comune”. (6) Previsto per la comunione dall’art. 1106, che recita: Con la maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente, può essere formato un regolamento per l’ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune. Nello stesso modo l’amministrazione può essere delegata ad uno o più partecipanti, o anche a un estraneo, determinandosi i poteri e gli obblighi dell’amministratore. L’amministratore, previsto solo come un optional per le semplici comunioni, è imposto come un obbligo per i condomini con più di quattro partecipanti (v.art.1129). All’amministratore, l’art. 1130 n.2 affida il compito (tra l’altro) di “ disciplinare l’uso della cosa comune”. (7) La parte a sud del campo sarà coltivata da B, quella a nord, da A. (8) A monterà il cavallo nei giorni pari, B, in quelli dispari. Sui diversi possibili modi di divisione del godimento della res communis si diffonde il Branca (Della comunione, cit., pp 61 ss). (9) E infatti la “quota”, di cui parla l’art.1101, “è rappresentativa di una aspettativa di diritto autonomo – aspettativa che si realizzerà in sede di divisione” – sul punto cfr. Guarino (Comunione, cit., p.253).
(10) Peraltro, come fa notare A. Guarino (Comunione, cit., p.256), nulla vieta che un regolamento speciale porti deroga al principio della rigida proporzionalità, ma è da dubitare che la deroga possa giungere al punto di ridurre a zero il concorso di uno o più comunisti ai vantaggi della comunione: il che non tanto si dice perché sia inammissibile una sorta di “comunione leonina”, quanto perché in diritto ridotto al nulla sarebbe una contraddizione in termini. (11) Il partecipe ad una comunione, come non vuole essere trascinato in spese eccessive, così a maggior ragione, non vuole essere esposto a grossi rischi economici; il che inevitabilmente accadrebbe se, da membro di una comunione, si vedesse trasformato in membro di una società. Il che però può avvenire, perché l’amministrazione di una comunione tende certe volte a evolvere in attività caratterizzate da tale dinamismo e da tale rischio imprenditoriale da far apparire opportuno riferirsi alle norme sulla società, non solo per la disciplina della rappresentanza (A,B,C, i comproprietari del bene che supporta l’attività, non debbono più prendere le decisioni relative a questa in assemblea, ma possono prenderle individualmente, come individualmente possono assumere impegni verso terzi – v. communis artt. 2257 ss, 2266 ss.), ma anche per la disciplina della responsabilità per i debiti contratti per la res communis (A non può più liberarsi della responsabilità patrimoniale per tali debiti semplicemente rinunziando al diritto di proprietà – v. art. 1104 co.1 – ma a salvaguardia del suo patrimonio individuale, conserva solo un limitato beneficium escussionis – v. art. 2268). Per meglio rendersi conto di come gradualmente i comunisti possono passare da una amministrazione diciamo “statica e di scarso rischio economico”, ad una, invece, dinamica e di elevato rischio economico, consideriamo il caso di A, B, C comproprietari di un terreno, In prima ipotesi, essi possono limitarsi a usare e godere direttamente del terreno (vi passeggiano, vi colgono i frutti ch’essi consumano…): in questa ipotesi il rischio economico è praticamente ridotto a zero. Facciamo un passo avanti e mettiamoci nella ipotesi II: A,B,C decidono di coltivare il terreno per vendere a terzi i suoi frutti: in tal caso senza dubbio vanno incontro ad un certo rischio economico: essi potrebbero spendere tot per sementi e paghe ai braccianti e una grandinata potrebbe mandare in malora il raccolto; spese tante, utile niente. Ancora un passo avanti: ipotesi III: A,B,C decidono di comprare delle sedie, un telone, una macchina da proiezione, di pagare chi faccia questa funzionare e…di aprire un cinema a cielo scoperto: in tal caso ci troviamo chiaramente di fronte ad un’attività che richiede pronte decisioni (cosa che non sarebbe semplice se tali decisioni dovessero essere prese da A,B,C riuniti in assemblea) e che comporta un notevole rischio economico (rischio per A, B,C, ma anche per terzi che fanno affari con loro, per cui parrebbe opportuno, a garanzia della serietà delle decisioni, che tale rischio assumono, non concedere più a A,B,C, di…svicolare dalle loro responsabilità semplicemente rinunciando al diritto di comproprietà della res communis). Problema: quale disciplina adottare per tali tre diverse ipotesi? Noi crediamo che la soluzione giusta al problema, non solo per l’ipotesi II ma anche per l’ipotesi III (e, in genere, per ogni altra ipotesi in cui i comunisti decidono di compiere un’attività a carattere speculativo: si fa una spesa per ricavarne da terzi un utile) sia quella di ritenere la coesistenza, accanto a una comunione (la comunione della res che supporta l’attività economica; nell’esempio, del terreno), di una società
(che, negli esempi, avrebbe ad oggetto un’attività commerciale- ipotesi III – e un’attività agricola – ipotesi II); non diversamente di quanto accadrebbe se A,B,C avessero dato in locazione il loro bene a una società terza (metti la società “Buona terra” o la società “Filmica”). Con la conseguenza che per alcune decisioni e per alcuni atti (dei comproprietari-soci) si adotterebbero norme sulla comunione (ad esempio, per le decisioni relative alla riparazione della res communis), per altre decisione e per altri atti (ad esempio per decidere sul licenziamento di un operaio) si applicherebbero le norme sulla società. Può essere utile chiudere l’argomento con la seguente decisione giurisprudenziale (ancorché da noi non completamente condivisa) riportata sub art. 1100 dal Codice Civile commentato a cura di Trabucchi: “In tema di differenza tra società e comunione, in cui si verifica comunque un conferimento di beni o il fenomeno di una massa di beni in comune, rileva la prevalenza della comunione dell’elemento statico e nella società di quello dinamico, nel senso che i beni sui quali cade il condominio sino direttamente oggetto di godimento secondo la destinazione loro propria, mentre – nella società – sono strumento per il compimento di un’attività, i cui utili saranno impartiti fra le parti, senza che ad escludere l’esistenza di una società (occasionale) sia sufficiente l’unicità dell’affare (82/4446)”. (12) Ed inoltre per le innovazioni si richiederà che siano “dirette al miglioramento della cosa a renderne più comodo o redditizio il godimento, non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa” –v. il co.1 art. 1108, v. anche l’art. 1121. Può chiarire il concetto di innovazione la seguente citazione giurisprudenziale (tratta dal Codice civile, annotato dal Trabucchi, p.806). “Compie un’innovazione ai sensi dell’art. 1108 il partecipante alla comunione che. per fare migliore uso della cosa comune, compia su questa delle opere che ne importino un mutamento della materialità e della forma (69/2514)”. (13) Chiaro, però, che l’assemblea potrà deliberare di agire giudizialmente contro A, ai sensi dell’art. 844, se ne sussisteranno gli estremi. Il problema delle interferenze (sulla proprietà privata) dell’organo amministratore della comunione (assemblea o amministratore) si pone sopratutto nell’ambito dei condomini, E non è sempre facile stabilire quando del condominio interferisca con l’attività intra moenia (e pertanto insindacabile) del condominio. Ad esempio: il condominio può imporre il “ silenzio” oltre una certa ora di notte? Sembrerebbe di no, salvo sempre l’applicabilità dell’art. 844. Il condominio può imporre di non esercitare una certa attività? Sembrerebbe di si, per alcune attività (ad esempio, per quelle mediche, dato che le persone malate, per entrare nell’appartamento del medico, debbono pur passare dalle scale ed esporre quindi gli altri comunisti al pericolo d contagio). Il condominio può proibire di esporre il bucato dalle finestre? Sembrerebbe di si, dato che la biancheria viene ad utilizzare (però deturpandola) una parte comune dell’edificio. (14) Così recita il 1° co. art. 1137 (che è in materia condominiale, ma che sul punto può essere considerato di carattere generale). (15) Arg. dall’incipit del 2° co. art. 1137. (16) L’art.1109 recita: “Ciascuno dei componenti la minoranza dissenziente può impugnare davanti all’autorità giudiziaria le deliberazioni della maggioranza:1) nel caso previsto dal secondo comma dell’articolo 1105, se la deliberazione è gravemente pregiudizievole alla cosa comune;2) se
non è stata osservata la disposizione del terzo comma dell’articolo 1105;3) se la deliberazione relativa a innovazioni o ad altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è in contrasto con le norme del primo e del secondo comma dell’articolo 1108 - L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni dalla deliberazione. Per gli assenti il termine decorre dal giorno in cui è stata loro comunicata la deliberazione. In pendenza del giudizio, l’autorità giudiziaria può ordinare la sospensione del provvedimento deliberato.” L’art. 1137 co. 2 recita: “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”. Come lo studioso avrà notato, l’art. 1109 sembra ammettere il ricorso in limiti più ristretti che l’art. 1137, ma ciò non può essere e non è: è semplicemente che il legislatore – nel caso della comunione, la cui disciplina è caratterizzata da maggiore semplicità rispetto a quella del condominio – ha ritenuto opportuno individuare i possibili casi di delibera in contrasto con la legge e non limitarsi al generico riferimento di cui al co. 2 art. 1137. (17) La giurisprudenza non sembra seguire criteri univoci per distinguere tra delibere annullabili e delibere nulle. Di seguito facciamo, comunque, qualche citazione (traendola dal Codice civile annotato a cura di P. Rescigno, Giuffrè, 2001,p.1060). Sono state ritenute nulle: le deliberazioni prese con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge (CC.8 agosto 2009/10427: CC.16 novembre 1992/12281); le deliberazioni che dispongono innovazioni lesive dei diritti di un condomino alle cose e servizi comuni e su quelle di proprietà esclusiva (CC.9 aprile 1980/2288); le deliberazioni adottate a maggioranza, con le quali si deroghi ai criteri legali di ripartizione delle spese (CC.5 maggio 1980/2928); le deliberazioni con cui sia stato approvato un nuovo regolamento che indebitamente riduca le parti comuni dell’edificio (CC.12 gennaio 1965/1197); le deliberazioni di approvazione delle tabelle millesimali adottate senza il consenso unanime dei condomini (CC.1 dicembre 1999/14037).
14 – (Continuazione) Condominio di edifici (N.B. Le note sono in calce ) Nel paragrafo precedente ci siamo riferiti, nei nostri esempi, solo ai casi di comunione volontarie; ma accanto a quelle volontarie, esistono le comunioni forzose (1) e di esse il principale esempio è dato proprio dai “condomini negli edifici”. Questo tipo di comunione nasce dal fatto che alcuni beni (gli appartamenti (2) A,B,C siti nell’edificio), passibili di proprietà individua, hanno bisogno, per bene svolgere la loro funzione, degli stessi beni M,N,O,P (nel senso che M, si pensi alle scale o ai
muri perimetrali dell’edificio, è destinato a servire sia l’appartamento A, che gli appartamenti B e C, N di nuovo serve sia ad A che a B e C e così via). Con la conseguenza che chi è proprietario di un bene (metti, dell’appartamento A), è bon gré mal gré costretto ad avere in comune con gli altri proprietari (i proprietari degli appartamenti B e C) un certo numero di beni (appunto i beni M,N,O. P: le scale, i muri perimetrali, l’androne, il tetto….dell’edificio). Come si può ben intuire i principali problemi che pone la situazione sono due: A) determinazione delle cose effettivamente comuni; B) determinazione dei pesi che sopportano e dei vantaggi di cui godono, rispetto queste cose in comune, i singoli proprietari. A) Determinazione delle cose in comune. L’art. 1117 cerca di farne un elenco esauriente (3), ma è pacifico che tale tentativo non è riuscito: l’elenco dell’art. 1117 non deve considerarsi tassativo (4). Comunque, passando in rassegna le “parti comuni”, dal legislatore, elencate, si vede che accanto a “parti” necessariamente comuni, in quanto mancando di esse i singoli appartamenti non servirebbe all’uso cui sono destinati (forse che la stessa struttura dei vari appartamenti si reggerebbe senza muri maestri e i tetti? forse che gli appartamenti sarebbero abitabili senza gli impianti idrici e fognari?), vi sono parti che, invece, non possono considerarsi necessariamente comuni, in quanto, anche in loro mancanza, i singoli appartamenti sarebbero abitabili (forse che l’esistenza, di locali per la portineria o di una lavanderia, è indispensabile per l’abitabilità di un appartamento?). Ora, mentre il primo tipo di “parti” e di “opere” (i muri maestri, gli impianti idrici…) non potrà cadere in comunione, a prescindere da quel che dica o non dica il “titolo”(5), il secondo tipo di parti (locali della portineria, lavanderia…) si presume, sì, in comunione, solo però “se il contrario non risulta dal titolo”) (6). B) Determinazione dei pesi e dei vantaggi relativi alle cose comuni. I criteri per la ripartizione dei “pesi” sono indicati dall’art. 1123 (7) e in teoria sono ineccepibili. È ineccepibile, ad esempio, che le spese di conservazione di un muro maestro gravino sui proprietari dei tre appartamenti A,B,C di cui è formato un edificio, in proporzione del loro valore (v. co.1 articolo citato): infatti, se, metti, gli appartamenti B e C valgono ciascuno 300, mentre l’appartamento A vale 600 cioè il doppio, chi può dubitare che il proprietario di A debba sostenere il doppio della spesa, dal momento che, dal crollo dell’edificio, subirebbe il doppio del danno? Ed è ancora ineccepibile (v. co2 articolo citato) che, se è crollato il lastrico solare, da cui tutti i proprietari degli appartamenti traevano l’eguale utile di averne la copertura dell’edificio, ma da cui il proprietario di un appartamento traeva l’ulteriore utile di usarne in maniera solitaria per passeggiarvi e stendervi la roba, quest’ultimo
proprietario debba contribuire per la ricostruzione del lastrico con un quid pluris. Dunque, si ripete, ineccepibili sono i criteri indicati dall’articolo 1123; è la loro applicazione alle situazioni concrete che diventa tormentata e difficile. Ad esempio, come quantificare quel quid pluris, che, chi ha “l’uso del lastrico solare”, deve, rispetto al quantum dovuto dagli altri comproprietari? L’art. 1126 lo stabilisce, ma inevitabilmente in maniera arbitraria. E il discorso va ripetuto mutatis per la ripartizione delle spese che il legislatore fa per le scale (art. 1124), per i soffitti, le volte e i solai (art. 1125). E passiamo ai vantaggi che ciascun singolo proprietario può trarre dalle cose comuni. La misura di tali vantaggi è indicata nell’art. 1118, che recita: “Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene. - Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni. - Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.(…)”. Cuius commoda, eius incommoda: se il proprietario A deve contribuire il doppio nelle spese necessarie per tenere in piedi l’edificio, è anche giusto che tragga il doppio dei vantaggi dall’esistenza dell’edificio. Note. (1) Sui diversi tipi possibili di comunione (volontaria, incidentale, forzosa) v. A. Guarino, Comunione, cit.,p. 253). (2)Noi anche di seguito parleremo di “appartamenti”, anche se più correttamente si dovrebbe parlare, come fa il legislatore, di “piano o porzioni di piani”. (3)L’art. 1117 recita: “Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in
caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.” (4) Cfr. F.A. Marina. Giacobbe (Condominio degli edifici, Enc. Dir., p. 283). (5) Con questa denominazione si deve intendere il particolare negozio giuridico inter vivos o mortis causa (ma in ogni caso consacrato per iscritto) da cui hanno avuto origine concreta i diritti dei proprietari di singoli piani o frazioni di piano in un determinato edificio ed in cui, nel contempo, sono state stabilite norme specifiche per l’uso ed il godimento di cose destiate a restare in comunione pro indiviso – e, perciò, fonte preminente nella disciplina dei rapporti di condominio, alla quale la legge subentra solo in via sussidiaria” – così Federico Alessandro Marina e Giovanni Giacobbe (in Condominio negli edifici, cit., p. 824). (6) E, pertanto, se la ditta costruttrice del fabbricato, nell’atto con cui ha venduto il primo appartamento, ha specificato “ A Giobatta vendo l’appartamento A con annessi locali di portineria”, questi locali non saranno più di proprietà comune, ma di proprietà di Giobatta, anche se naturalmente nulla impedirà al condomino di prendere in affitto tali locali per farne sede della portineria. (7) L’articolo 1123 recita: “Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne. Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.
LIBRO secondo Dei vari tipi di obbligazione
(Per tipografo : Libro da inserie da altro file )
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Libro Terzo Contratti – Risarcimento da fatto illecito - Arricchimento senza giusta causa
Sezione prima : Interesse dello Stato a che le utilità, che possono dare i beni costituenti la ricchezza nazionale, vengano al massimo valorizzate. 1) La funzione sociale del contratto Doc.- Mettiamo il caso : Tizio ha nel suo magazzino novanta quintali di grano : trenta di troppo, perché sessanta basterebbero a sfamarlo ; ma nella sua scuderia non ha quel cavallo da corsa, che desidera tanto. Gonzalez, invece, ha tredici cavalli : uno di troppo, perché dodici gli basterebbero, ma, ahimè, non ha nessun sacco di grano per sfamarsi. La cosa più logica sarebbe che Tizio desse a Gonzalez quei trenta sacchi di grano, che per lui hanno una utilità zero, e Gonzalez desse a Tizio uno dei suo tredici cavalli. E Tizio avrebbe desiderio di fare questo scambio, ma a ciò non si decide per timore che l'altra parte, Gonzalez, ricevuto il grano, non gli dia il cavallo e, mutatis mutandis, identico timore ha Gonzalez. E' a questo punto che interviene lo Stato, dando a Tizio e Gonzalez la sua solenne garanzia : “Coraggio, promettetevi, di dare, l'uno, i sacchi di grano e, l'altro, il cavallo, e io vi dò questa garanzia : se uno di voi non manterrà la sua promessa, io userò tutto il mio potere di coercizione per far sì che, quanto promesso, bon gré mal gré, sia mantenuto”.
Disc. Perché lo Stato si scomoda a intervenire, perché dà questa solenne promessa ?
Doc.- Perché é suo interesse che la ricchezza nazionale aumenti, e lo scambio dei beni tra Tizio e Gonzalez la fa appunto aumentare.
Disc.- A me non sembra : prima dello scambio, ci sono novanta sacchi di grano e, dopo lo scambio, ce ne saranno ancora novanta e, prima, ci sono tredici cavalli e, dopo, ce ne saranno ancora tredici.
Doc.- Sì, é vero, ma la ricchezza di una nazione non é data dalla quantità di beni che ha, ma dalla somma delle utilità che tali beni sono in grado di dare : prima ( dello scambio ) le utilità che danno i beni in possesso di Tizio sono quattro ( mettiamo che appunto quattro siano le utilità che potrebbero dare i sessanta sacchi di grano in possesso a Tizio ) + zero ( perché zero sono le utilità che danno i residui trenta sacchi) ; e similmente, prima ( dello scambio ), sono quattro le utilità che danno i beni posseduti da Gonzalez ( mettiamo che appunto quattro siano le utilità che danno i dodici cavalli in possesso a Gonzalez ) + zero ( perché zero é l'utilità che dà a Gonzalez il residuo tredicesimo cavallo ). Quindi, prima ( dello scambio ), la somma delle utilità che danno i beni posseduti da Tizio e Gonzalez é otto. Dopo lo scambio, le utilità che daranno il grano e il cavallo in possesso di Tizio saranno 4 + 2 ( mettendo che due siano le utilità che darebbe a Tizio il suo nuovo acquisto, il cavallo ) e, mutatis mutandis, le utilità che daranno i cavalli e il grano in possesso di Gonzalez sarànno 4 + 2 ( mettendo che due siano le utilità che darebbero a Gonzalez i trenta sacchi acquistati da Trizio ) : quindi la nazione, dopo lo scambio, si troverà ad avere beni che danno utilità dodici, mentre prima ( dello scambio ) aveva beni danti solo utilità otto.
Disc.- Capisco. E penso che le parti, Tizio e Gonzalez, una volta che avranno ottenuta dallo Stato quella solenne garanzia di cui sopra si é detto, non esiteranno più a stipulare il contratto, perché completamente tranquillizzate.
Doc.- Tranquillizzate, invece, fino a un certo punto, perché tale garanzia non elimina per loro totalmente il “rischio contrattuale”.
Disc.- Ma che rischio corre, che cosa ha ad temere, per esempio, Gonzalez, dopo la solenne promessa dello Stato ?
Doc.- Varie cose ha da temere .
Prima di tutto, Gonzalez ha da temere che lo Stato con tutta la sua vantata forza coercitiva non riesca a costringere Tizio ad adempiere la sua obbligazione; e infatti il potere coercitivo dello Stato ha dei limiti : se una volta ottenuto il cavallo, Tizio non dà il grano promesso, lo Stato che può fare ? D'accordo, può mandare un pubblico ufficiale a prendere manu militari i trenta sacchi di grano promessi : ma se Tizio fa trovare i suoi granai vuoti e per di più vuoto il suo portafoglio, lo Stato che può fare? nulla! In secondo luogo Gonzalez ha da temere che....lo Stato si rimangi la promessa fatta ( annulli il contratto , lo dichiari risolto o rescisso, insomma non riconosca più il diritto di Gonzalez ad avere il grano promessigli ).
Disc. Ma se lo Stato si rimangerà la sua promessa ( annullando, risolvendo il contratto ….... ) lo farà senza dubbio per delle “buone ragioni”
Doc.- Senza dubbio, sì; ma é comprensibile che l'affidamento che Gonzalez riporrà nel fatto che il grano promessogli gli venga effettivamente dato, dipenderà dal calcolo che egli farà , non solo sulla efficienza coercitiva dello Stato ( rispetto all'obbligazione assunta dalla sua controparte ), ma anche sul numero di “buone ragioni” che potrebbero convincere lo Stato a rimangiarsi la sua promessa ( annullando, risolvendo il contratto....). E di questo dovremo ricordarci quando studieremo certi istituti ( come l'annullamento del contratto per vizio del consenso, come la risoluzione per eccessiva onerosità....) : uno Stato che ha veramente interesse che i beni circolino, che i contratti si facciano e quindi vuole creare nei suoi sudditi l'affidamento che i diritti da loro contrattualmente acquisiti verranno rispettati, in altre parole, lo Stato che vuole “tutelare l'affidamento delle parti” nell'esecuzione del contratto, deve diminuire il numero delle “buone ragioni” che potrebbero portare ad azzerare l'efficacia del contratto ( mi sia permessa di usare espressioni non giuridicamente corrette al cento per cento, ma credo espressive ).
2- Vizi del consenso e incapacità delle parti : premessa. Doc.- Abbiamo visto che gli scambi ( di beni con beni, di beni con servizi.....) sono tutelati dal legislatore in quanto ritenuti favorevoli al benessere sociale. Si suppone che Tizio, ricevendo da Caio, in cambio del suo sacco di riso , un sacco di grano, veda aumentare le utilità ( la ofelimità ) che il suo patrimonio può dare. Tale supposizione ovviamente si fonda sul presupposto che le parti abbiano ben calcolata la convenienza dello scambio da loro fatto. Vi sono però dei casi in cui la supposizione che questo sia veramente avvenuto, che la parte abbia veramente fatto un buon calcolo sulla convenienza del contratto, viene a cadere, risultando che tale calcolo é basato su un errore ( spontaneo o causato da un comportamento doloso altrui ) . Vi sono, poi, degli altri casi in cui risulta , che la parte ha operato il suo calcolo, sì, su elementi da lei esattamente conosciuti, però, diciamo così, anomali : Caio punta la rivoltella contro Tizio e lo minaccia “ O mi vendi la tua villa per cento o ci rimetti la vita” : Tizio fa il calcolo che é meglio tenersi la vita che ottenere il giusto prezzo della villa e con ciò calcola giustamente la convenienza del baratto propostogli da Caio ( la vita contro la villa ), ma ciò non giustifica di certo la supposizione che sia conveniente per Tizio ( idest, aumenti le utilità che può dare il patrimonio di Tizio ) il contratto (vendita della villa per cento ) a cui questi appone la sua firma. Infine vi sono dei casi in cui, la supposizione che il contratto stipulato da una parte, da Tizio, aumenti le utilità che il suo patrimonio può dare, viene a mancare di ogni fondamento per la incapacità di Tizio a fare un calcolo di convenienza serio o fiondato – incapacità in alcuni casi presunta ( come nel caso di contratto stipulato da persona interdetta ) e in altri casi addirittura provata ( casi di così detta incapacità naturale – art. 428).
Disc. E allora ?
Doc. E allora il legislatore si trova a dover sbrogliare un pasticcio da cui non se ne può uscire senza danni. E il problema per lui é su chi, su quale delle parti che hanno stipulato il contratto , far ricadere tali danni. Avendo presente che, se ritiene la validità del contratto, tali danni ricadranno sulla parte che ha fatto un calcolo di
convenienza viziato, se, invece, annulla il contratto, i danni ricadranno sulla parte che, sulla validità del contratto, ha fatto affidamento ( e che, metti, in base a tale suo affidamento ha fatto spese da cui altrimenti si sarebbe astenuta : Tizio ha festeggiata la vendita della villa, poi annullata, con una costosissima crociera ).
Disc.- Io direi che il legislatore dovrebbe far ricadere i danni sulla parte che con colpa o dolo ha causato il contratto-pasticcio.
Doc. Il criterio di far ricadere il danno su chi lo ha colposamente o, peggio, dolosamente causato, é in effetti un criterio che il legislatore adotta in materia di “risarcimento da fatto illecito – artt. 2043 e seguenti ): se l'auto di Tizio cozza contro quella di Caio , il danno ( sotto forma di obbligo di risarcimento ) viene in effetti fatto ricadere su chi dei due autisti ha per colpa causato l'incidente. Però, tale criterio, il legislatore non lo ritiene accettabile , in via generale, nella materia che qui ci interessa : e infatti vedremo, parlando del vizio del consenso determinato dal c.d. “errore spontaneo” ( cioé, non causato da dolo altrui ), che il legislatore dà, sì, rilevanza all'errore, ma non dà nessuna rilevanza alla colpevolezza dell'errore. E questo perché in subiecta materia il problema per il legislatore si complica : non si tratta più per lui solo di individuare quale delle parti, coinvolte nel fatto causativo del danno, é presumibilmente la peggiore amministratrice del suo patrimonio ( per restringere di questo la consistenza e la quantità, accollandole l'obbligo risarcitorio come meglio spiegato nella lezione dedicata al “risarcimento da fatto illecito” ), ma si tratta soprattutto per lui di adottare una soluzione che non scoraggi le persone ad affrontare il “rischio contrattuale”, in altre parole si tratta soprattutto per lui di “tutelare l'affidamento” ( riposto nella validità del contratto da uno dei contraenti ). Ma tutto questo lo vedremo meglio parlando appunto dei vizi del consenso.
Disc. Tu hai detto che in via generale il legislatore non tiene conto della colpevolezza dell'errore, in cui una parte sia caduta.
Doc. Sì, perché, in via eccezionale, egli invece ne tiene conto in materia di compravendita ( vedi l'art. 1490 e, sopratutto, l'ultima parte dell'articolo 1491 ). Ora però dobbiamo cominciare a parlare della disciplina data in via generale dal legislatore ai “vizi del consenso” ( dato alla stipula di un contratto ) . Non prima però di aver dati alcuni cenni sul problema dell'esistenza , o no, di un obbligo delle parti di avvisare le controparti degli errori in cui stessero per cadere . E infatti, l'inesistenza di un tale obbligo rileva per escludere la rilevanza della “riconoscibilità” dell'errore ( in cui la controparte fosse caduta - “riconoscibilità” che, come vedremo, é un requisito per l'annullabilità del contratto ), mentre la sua esistenza rileva per riconoscere alla parte caduta in errore un diritto al risarcimento ( e questo anche nei casi in cui, metti per la mancanza del requisito della “essenzialità” dell'errore, non le fosse riconosciuto un diritto all'annullamento del contratto ). E, ancor prima di ciò e cioè subito, sarà opportuno dare lettura di due articoli chiave in subiecta materia, l'articolo 1425 e l'art. 1427 ( entrambi posti all'inizio del capo XII intitolato “ Dell'annullabilità del contratto”) – e questo perché la loro conoscenza permetterà allo studioso di meglio inquadrare i discorsi che andremo a fare. Art. 1425 ( che porta la rubrica “ Incapacità delle parti”) : “ Il contratto é annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare. - E' parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall'art. 428, il contratto stipulato da persona incapace d'intendere o di volere”. Art. 1427 ( che porta la rubrica “Errore, violenza o dolo” ): “Il contraente il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l'annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti”.
Disc. Un'ultima domanda : perché ritenere l'annullabilità e non sic et simpliciter la nullità del contratto il cui consenso é viziato ?
Doc. Perché quel contratto, non conveniente, al momento della stipula, per Tizio ( la parte, che ha espresso un consenso viziato ), potrebbe per lui dimostrarsi conveniente in seguito: Tizio ha, sì, venduta la sua splendida villa solo per cento in quanto Caio , con la pistola lo minacciava di bruciargli le cervella, ma ora quella villa, che prima valeva duecento ora vale solo cinquanta : quello che appariva un cattivo
contratto, si rivela un ottimo affare : allora perché dichiararlo invalido ? Per avvantaggiare quel farabutto di Caio che ora sarebbe ben contento se il contratto venisse annullato ? Chiaro, poi, che la decisione, sull'annullabilità o meno, deve essere rimessa alla volontà di Tizio, dato che é lui, alla fin fine, il miglior giudice della convenienza o meno di tenere in vita o no il contratto.
3 : Obbligo di informare la controparte degli errori in cui sta per cadere. Disc.- Rossi che nel corso delle trattative contrattuali si avvede che la controparte Bianchi é caduta in un errore ( rilevante per lei al fine di decidere sulla convenienza del contratto ) deve di ciò avvisarla ?
Doc.- In via di principio, sì. A questa risposta conducono due articoli, l'articolo 1338 e l'articolo 1337. L'articolo 1338 ci consente di dire ( in via di principio, ripeto ) che Rossi deve avvisare Bianchi di quegli errori che giustificherebbero l'annullamento del contratto. Infatti l'articolo 1338 recita : “La parte che conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte é tenuta a risarcire il danno da questa risentito per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto”
Disc.- Però a me sembra che ci sia un differenza, sia pur sottile, tra errore sulla validità del contratto ed errore che giustifica la invalidità del contratto.
Doc. Forse sì, forse hai ragione; però anche se l'art. 1338 si riferisse direttamente solo ai casi di errori cadenti sulla validità del contratto, nulla impedirebbe di applicarlo ( in base a un'interpretazione estensiva) anche agli errori che giustificherebbe l'invalidità del contratto. E vengo al secondo articolo a cui prima mi sono riferito, l'articolo 1337. Questo articolo ci permette di dire che la controparte va avvertita anche degli errori che non giustificherebbero un annullamento del contratto. Infatti l'articolo 1337 recita : “ Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. E non si può dubitare che sia contrario a buona fede, il non avvisare la parte, con cui si sta trattando, di un errore in cui essa sia caduta - questo anche se tale errore non giustificherebbe l'annullamento del contratto ( Rossi si accorge che la controparte si appresta a firmare il contratto credendo che la cosa vendutale le sarà consegnata a domicilio, mentre nel contratto é scritto che
invece dovrà essere lei ad andare a prenderla – come vedremo tale errore non può considerarsi “essenziale” e quindi giustificare l'annullamento, ciò nonostante.....)
Disc.- Però tu prima hai detto che solo in via di principio tali articoli portano a dire che la parte deve avvisare la controparte degli errori in cui sta per cadere; e ciò mi fa pensare che tale principio subisca delle deroghe.
Doc. E infatti é così. L'obbligo diciamo così di informativa sussiste solo : A ) Se si tratta di errore su un fatto e non su un ragionamento. E infatti non si può imporre a Rossi di salire in cattedra e mettersi a insegnare a Bianchi perché sbaglia a pensare così e colà. Faccio un esempio per farti comprendere la differenza tra errore sul fatto e errore sul ragionamento. Esempio : Bianchi dice a Rossi di volergli comprare cento quintali di grano per poi rivenderlo in Argentina, dato che in quel paese c'é stata una grande siccità e quindi la sua popolazione é disposta a pagare lautamente il grano che arriva dall'Italia. Se Bianchi sbaglia nel ritenere che vi sia stata in Argentina una siccità, sbaglia su un fatto. Se Bianchi sbaglia nel dedurre dall'esistenza della siccità un aumento dei prezzi tale da giustificare l'esportazione di grano in Argentina, sbaglia su un ragionamento.
B) L'obbligo di informativa sussiste solo se si tratta di un fatto su cui Rossi ha conoscenze certe . Infatti non si può obbligare una parte a dire cose che potrebbero essere errate. Mi spiego anche qui con degli esempi: Bianchi dice a Rossi di volergli comprare quel tal cavallo perché, avendo esso vinto il Gran premio di Parigi, vincerà anche il “gran premio” di Roma. Rossi sa bene che il cavallo non ha mai vinto nessun “gran premio” di Parigi ( perché lo ha avuto nelle sue scuderie fin dalla nascita), quindi deve informare Bianchi dell'errore in cui é caduto. Bianchi va da Rossi per comprare quel tal quadro credendolo un “Raffaello” : errore, il quadro é dovuto al pennello di un bravo imitatore di Raffaello e nulla più. Rossi deve dirlo a Bianchi ? No, e “no” perché tale sua convinzione egli la trae da una serie di deduzioni (il tocco della pennellata ecc. ) - deduzioni che ogni buon intenditore d'arte condividerebbe – ma che in definitiva potrebbero essere errate. Distinguere tra errore sul fatto ed errore sul ragionamento é importante perché certi studiosi facendo d'ogni erba un fascio escludono dagli errori che giustificano l'annullamento ( errori che come vedremo si chiamano “essenziali” ) quelli che cadono sui “motivi” ( a stipulare il contratto ). No, un “motivo” non é altro che un
ragionamento ( o se preferiamo, un “calcolo” ) basato su di un fatto : se l'errore cade sul fatto su cui si basa il ragionamento ( il calcolo ) può benissimo giustificare, sussistendo le altre condizioni che poi vedremo, l'annullamento. Prova ne é che molti errori che pacificamente giustificano l'annullamento – come, ad esempio, l'errore sulla qualità ,sono “fatti” che hanno “motivato” la parte a stipulare il contratto in base a un ragionamento.
4. L'errore-vizio del contratto . Individuazione della parte che ha diritto che il contratto abbia il contenuto da lei voluto-
Doc.- Torniamo a un esempio già introdotto: Tizio vuole prendere in locazione il cavallo di Gonzalez, che porta il numero tre, ma, per scarsa conoscenza della lingua spagnola, dice: “ Quiero alquiler el cabajo treze ( credendo erroneamente che “treze” in spagnolo significhi tre, mentre invece significa tredici ). Se Gonzalez si rende conto dell'errore di Tizio e accetta la proposta con la volontà di dargli il cavallo tre, nulla quaestio : nonostante l'errore nell'espressione della volontà, in realtà nessun errore nel consenso ci é stato : il contratto é perfettamente valido e ha come contenuto quello voluto concordemente da Tizio e Gonzalez. Ma mettiamo che Gonzalez accetti la proposta, ma con la volontà di dare in locazione il cavallo tredici e non tre. Chiaro che , sia che si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Gonzales o quello voluto da Tizio, il contratto perderebbe la sua funzione sociale di aumentare la ricchezza nazionale . Infatti, se si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Gonzalez, aumenterebbero, sì, le utilità che darebbero i beni in possesso di questi, ma non aumenterebbero le utilità dei beni che verrebbero ad essere in possesso di Tizio: questi era disposto a rinunciare all'utilità che gli davano i trenta sacchi di grano ( il prezzo della locazione ) al fine di avere la maggiore utilità che gli darebbe la disponibilità di un cavallo da corsa ( come in effetti é il cavallo tre ), mentre il cavallo tredici, che é un cavallo da tiro, a lui dà utilità zero. D'altra parte se si attribuisse al contratto il contenuto voluto da Tizio, si rischierebbe di diminuire le utilità che davano i beni in possesso di Gonzalez : metti, il cavallo da corsa per lui dava una utilità dieci, mentre i trenta sacchi di grano per lui danno solo una utilità cinque . Insomma, l'errore delle parti crea un bel imbroglio. Vediamo le istruzioni che il legislatore dà al giudice per dipanarlo. I- Per prima cosa , tu, giudice, devi ( con la cosiddetta attività interpretativa del contratto ) determinare qual'é stata la reale volontà di ciascuno dei due contraenti., di Tizio e di Gonzales.
II - Come seconda cosa, devi stabilire quale volontà una persona di media intelligenza avrebbe attribuito a Tizio e Gonzalez ( in base alle parole da loro usate e al comportamento da loro tenuto – v. art 1362 ). III- A questo punto, se ti accorgi che le due volontà divergono, sono diverse – ciò che significa che entrambe le parti sono cadute in errore : Gonzalex attribuendo a Tizio la volontà di prendere il cavallo tredici e Tizio attribuendo a Conzalez la volontà di dare il cavallo tre – devi verificare se una delle due volontà coincide con quella sub II (la volontà che l'uomo di media intelligenza avrebbe attribuito alle parti) Se il contenuto A voluto da una delle parti, coincide col contenuto al contratto attribuito come sub II ( da una persona di media intelligenza ), ebbene il contenuto A sarà quello che tu giudice dovrai attribuire al contratto. E' evidente che, nell'esempio fatto, il contenuto da attribuire al contratto sarà quello voluto da Gonzalez, dato che ogni persona di media intelligenza avrebbe interpretato le parole dette da Tizio come espressione di volere affittare il cavallo tredici. Chiaro che le cose non saranno sempre così semplici come nell'esempio fatto. Potranno darsi dei casi in cui nessuna delle due volontà delle parti coincide con quella ricostruita come sub II: Tizio dice di volere il cavallo tre, Gonzales vuole dare il cavallo sedici e ciascuna persona di media intelligenza avrebbe capito che oggetto del contratto era il cavallo tredici. Oppure le parole usate dalle parti sono un abacadabra, non si capisce assolutamente quale sia stata la loro volontà. In tali casi il contratto é ( non annullabile, non nullo, ma ) inesistente.
5 - ( Continuazione ) La condizione per l'efficacia del contratto viziato da errore : la non riconoscibilità dell'errore. Doc..-Torniamo al nostro esempio : siamo giunti al punto, nella nostra telenovela giuridica, in cui al contratto va attribuito il contenuto, voluto da Gonzales – e, secondo tale contenuto, a Tizio, in locazione, spetta il cavallo tredici. Ma ciò basta perché questo contratto possa essere davvero eseguito da Gonzalez ? perché egli possa pretendere i 30 sacchi di grano dando in cambio solo il cavallo tredici ? No, perché ciò avvenga occorre che l'errore di Tizio non fosse stato riconoscibile da Gonzalez.
Disc- Da che cosa risulta ciò ?
Doc.- Risulta dagli articoli 1428 e 1431 . L'articolo 1428 recita : “L'errore é causa di annullamento del contratto quando é essenziale ed é riconoscibile” L'articolo 1431 recita : “L'errore si considera riconoscibile quando, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo”.
Disc.- Ritenendo la validità del contratto, nel caso che l'errore non sia riconoscibile, é come se il legislatore dicesse a Gonzales “ Tranquillo Gonzalez, firma il contratto : se non c'é nessun elemento che indichi che la tua controparte é caduta in errore, nessuno ti metterà nei guai chiedendo, del contratto, l'annullamento” : in buona sostanza, quindi, con gli articoli da te citati, il legislatore vuole tutelare l'affidamento delle parti. Giusto ?
Doc. Giustissimo. Ma se Gonzalez é in colpa , perché poteva riconoscere l'errore di Tizio o, peggio, l'ha riconosciuto, allora cessa ogni ragione di tutela di Gonzalez. Salvo quanto diremo a proposito dell'errore essenziale, trattando del quale però distingueremo il caso in cui Tizio non ha riconosciuto l'errore, sia pure per colpa, dal caso in cui l'ha riconosciuto.
Disc.- Ma che c'entra l'errore essenziale col discorso che stiamo facendo ?
Doc.- C'entra perché la non essenzialità dell'errore giustifica un'eccezione all'eccezione: il contratto deve essere eseguito secondo la volontà di Gonzalez, salvo il caso ( prima eccezione ) che l'errore fosse riconoscibile, a meno che ( eccezione all'eccezione ) che l'errore non fosse essenziale.
Disc- Quel che mi é chiaro, nonostante la tortuosità della tua esposizione, é che ci sono dei casi in cui il legislatore ritiene la validità del contratto tra Tizio e Gonzales nonostante che l'errore di Tizio fosse da Gonzalez riconoscibile. Ma come si giustifica ciò ?
Doc.- Si giustifica sempre con la tutela dell'affidamento . Infatti l'annullamento del contratto può avere un costo pesantissimo per Gonzalez. Dimentica che oggetto del contratto fosse lo scambio tra un cavallo e del grano : mettiti nel caso che Gonzales col contratto avesse acquistato un terreno per costruirvi una villetta : passa qualche mese ( o qualche anno ) Gonzalez comincia a costruire la sua villetta, quando un bel giorno gli si presenta la ex controparte, Tizio, che gli intima “Alto là, tu non puoi costruire un bel niente, il contratto é annullabile”; oppure, ancora peggio, Tizio, ottenuto l'annullamento, chiede ( nei casi in cui naturalmente glielo permette il quarto comma dell'art. 936), che la villetta sia....tolta dal terreno . Sia nell'un caso che nell'altro, un bel guaio per Gonzalez, no ?! Ecco perché il legislatore - ponendosi nel caso, che evidentemente ritiene sia il maggioritario, della parte ( Gonzalez ) che, pur essendo l'errore riconoscibile non l'abbia riconosciuto ( e, bada, ponendosi solo in questo caso, non in quello in cui la parte ha riconosciuto l'errore – in tal caso infatti non ci sarebbe nessun “affidamento” da tutelare ) - ebbene, ripeto, il legislatore
ponendosi nel caso in cui la parte abbia agito colposamente, l'obbliga , sì, al risarcimento dei danni, ma salva la validità del contratto.
Disc.- In tutti i casi ?
Doc.- No, questo sarebbe troppo : forse che il legislatore non deve preoccuparsi anche degli interessi di Tizio, della parte che é caduta in errore ? certo, cadendovi presumibilmente per colpa, ma forse che in colpa non é caduto anche Gonzalez, la sua controparte ?
Disc.- E allora ?
Doc.- Allora il legislatore mantiene la validità del contratto solo quando l'errore non sia essenziale.
Disc.- Ma quando un errore può dirsi essenziale ?
Doc. La logica vorrebbe che il legislatore , nel valutare l'essenzialità dell'errore che vizia un contratto - il che, in pratica, è come dire, nel valutare se annullare il contratto o mantenerlo valido - comparasse la gravità delle conseguenze che comporterebbe l'esecuzione del contratto per la parte ( Tizio ) caduta in errore sul suo contenuto e la gravità delle conseguenze dell'annullamento del contratto per la parte (Gonzalez ) caduta in colpa per non aver riconosciuto tale errore ; e poi optasse, per l'annullabilità, se le conseguenze di questa risultassero meno gravi delle conseguenze di un esecuzione del contratto; e viceversa. L'applicazione di tale criterio, però, implicherebbe la considerazione di vari elementi in realtà imponderabili, cosa per cui il legislatore sembra preferire criteri più sbrigativi ma di più facile applicazione. Nel prossimo capitolo li vedremo.
6. Quando il legislatore ritiene “essenziale” un errore- Perché, nei casi in cui l'errore é riconoscibile ed essenziale, non si ritiene la validità del contratto voluto dalla parte errante.
Doc.- Il legislatore fa nell'articolo 1429 un elenco di errori che ritiene essenziali. Ecco quel che ci dice tale articolo. Art. 1429 : “L'errore é essenziale: 1) quando cade sulla natura o sull'oggetto e del contratto; 2) quando cade sull'identità dell'oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso; 3) quando cade sull'identità o sulle qualità della persona dell'altro contraente, sempre che l'una o le altre siano state determinanti del consenso; 4) quando, trattandosi di errore di diritto, é stata la ragione unica o principale del contratto”. Alcuni esempi a spiegazione del dictum del legislatore. Esempio di errore che cade sulla natura del contratto : Tizio ritiene erroneamente di stipulare un contratto di locazione, mentre invece sta stipulando una compravendita. Esempio di errore che cade sull'oggetto del contratto : Tizio crede di acquistare l'appartamento di via Roma, mentre sta acquistando l'appartamento di via Garibaldi. Errore sull'identità dell'oggetto della prestazione : Tizio crede di obbligarsi a dipingere un quadro, mentre mentre si sta obbligando a dare il bianco a un appartamento”. Errore su una qualità dell'oggetto della prestazione : Tizio crede di acquistare porcellane di Gretz, mentre invece sta acquistando porcellane di Murano.
Errore sull'identità della persona dell'altro contraente : Tizio crede di dare in locazione la sua bella villa al miliardario Berlusca Vittorio mentre la sta dando in locazione al nullatenente Berlusca Antonio. Errore sulle qualità dell'altro contraente : Tizio crede di stare assumendo, per dirigere il suo ufficio contabile, un diplomato in ragioneria, mentre sta assumendo un laureato in belle lettere. Esempio di errore di diritto : Tizio crede di comprare un terreno edificabile, mentre sta invece comprando un terreno con divieto di edificabilità.
Disc.- Ma l'elenco fatto dal legislatore é tassativo o esemplificativo ?
Doc.-Io credo che sia tassativo. Anche se con ciò si finisce per ammettere la validità di contratti effettivamente molto pregiudizievoli per la parte caduta in errore . Si pensi a questi casi : nel contratto il termine fissato, per il pagamento del prezzo di vendita, a Tizio é indicato nel 15 settembre 2018, mentre Tizio, credendo che il termine scadesse il 15 dicembre 2017, per l'ottobre del 2017 aveva assunto con terzi obbligazioni, contando di adempierle col prezzo ricavato dalla vendita ; e ancora : Tizio compra un cavallo nel Texas credendo che gli sarebbe consegnato in Italia, mentre invece deve andarselo a prendere nel Texas ( con i rilevanti costi che ciò comporta per lui ); e ancora: Tizio crede che il pagamento, che deve fare del prezzo, sia subordinato alla condizione sospensiva, che egli venda un altro suo terreno, mentre così non é.
Disc.- Domanda : il codice trattando dell' errore ( come vizio del consenso ) contempla il caso di chi stipula, sì, un contratto per errore essenziale ( stipula l'acquisto dell'appartamento di via Roma mentre era sua intenzione comprare quello di via Napoli), ma l'avrebbe stipulato lo stesso, però a condizioni diverse, anche se non fosse caduto in errore ( Tizio ha acquistato l'appartamento di via Roma per cento, che lui era disposto a pagare solo per quello di via Napoli, però sarebbe stato disposto ad acquistare anche l'appartamento di via Roma, se, invece che a cento, gli fosse stato venduto a cinquanta) ?
Doc.- No, il legislatore contempla la fattispecie da te prospettata solo nella disciplina che dà al caso del consenso carpito con dolo. Ma io credo che la normativa sul punto, anche se direttamente si riferisce solo a casi in cui la parte stipula il contratto perché indotta in errore con dolo, sia applicabile ( e a maggior ragione ) anche a casi in cui la parte stipula perché caduta in errore spontaneo ( infatti tale normativa é sfavorevole alla parte errante, ora, se il legislatore é disposto a sacrificare l'interesse della parte errante nei casi in cui essa, essendo vittima del dolo della controparte, ci si aspetterebbe che fosse con particolare forza tutelata, é da pensare che egli, idest il legislatore, a maggior ragione sarà disposto a sacrificare tale interesse in caso di errore spontaneo, in cui essa non potrebbe vantare diritto a una particolare tutela ).
Disc.- Io comprendo la tutela che il legislatore fa dell'affidamento di Gonzales nella validità del contratto ; ma, una volta che sono venute a mancare le ragioni che giustificano tale tutela ( dato che l'errore della controparte Tizio era riconoscibile o addirittura riconosciuto ), perché il legislatore non tutela l'interesse di Tizio ( parte caduta in errore ) stabilendo la validità ( non più del contratto voluto da Gonzalez, ma ) del contratto da Tizio ( parte caduta in errore) voluto ? Tu, Tizio, credevi di comprare con trenta sacchi di grano il cavallo tre? Ebbene, Gonzalez sarà obbligato a darti il cavallo tre. Infatti mi pare di aver capito che l'interesse ( indubbio!) della parte errante a veder riconosciuta la validità del contratto da lei voluto, non é per nulla tutelato.
Doc.- Sì, hai capito bene: il legislatore riconosce alla parte errante solo un diritto all'annullamento del contratto ( e al risarcimento del danno ). Perché questo? Perché potrebbe costituire una sanzione troppo sproporzionata all'inadempimento ( poco importa se colposo o doloso ) dell'obbligo che aveva Gonzalez di informare Tizio dell'errore in cui era caduto ( “Guarda, Tizio, nel contratto si parla del cavallo tredici e non del cavallo tre come pensi tu” ) vincolarlo a un contratto ( il contratto voluto da Tizio ) che potrebbe per lui risultare oltremodo gravoso ( si pensi al caso in cui il prezzo del cavallo tre, magnifico cavallo da corsa, era indicato da Tizio solo in dieci,così come se fosse solo un cavallo da tiro, mentre il giusto prezzo sarebbe stato cento ).
7- Rettificazione – Convalida del contratto. Doc. Leggi l'art. 1442.
Disc. L'art. 1442, sotto la rubrica “Mantenimento del contratto rettificato”, recita : “ La parte in errore non può domandare l'annullamento se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l'altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere”. Quindi se le parti sono d'accordo, il contratto voluto dalla parte caduta in errore, viene convalidato.
Doc.- No. Dicendo questo tu commetti due errori. Il primo, é che l'articolo 1432 non fa per nulla l'ipotesi che le due parti siano d'accordo. Se Caio offre di eseguire il contratto che Tizio, la parte caduta in errore, aveva intenzione di concludere, e questa ha un ripensamento e dice di non voler più il contratto che prima voleva, ciò non importa : si esegue lo stesso il contratto che essa prima voleva. Secondo errore da te commesso : tu hai parlato di “convalida” del contratto, ma la situazione a cui si riferisce l'art.1444, che disciplina appunto la convalida del contratto annullabile, é ben diversa da quella prevista dall'articolo 1432 in esame.
Disc.- Perché, diversa ?
Doc.- Perché, a prescindere che la convalida é un negozio che proviene dalla parte caduta in errore, da Tizio e non da Caio, quello che viene confermato con essa, non é
il contratto voluto dal convalidante ( che avrebbe potuto chiedere l'annullamento ), ma il contratto voluto dalla sua controparte, da Caio. Mi spiego ricorrendo a un esempio prima fatto : Tizio ha comprato per errore il cavallo numero “uno” mentre voleva comprare il cavallo numero “tre”. Ebbene, con la convalida resta confermato il suo acquisto del cavallo “uno” ( così come voleva la controparte, che era esposta all'annullamento del contratto, perché, metti, non aveva riconosciuto l'errore di Tizio, ancorché fosse riconoscibile ).
Disc. Ma a prescindere da quanto da te ora osservato, la convalida, prevista dall'articolo 1444, e la rettifica, prevista dall'articolo 1432, hanno una disciplina diversa ?
Doc.- Inevitabilmente, dato che questa ( idest, la rettifica ) fa sorgere una problematica che quella ( idest, la convalida ) non fa sorgere. E con ciò mi riferisco alla problematica relativa alla tutela dei terzi in buona fede. Infatti, con la convalida Tizio conferma il contenuto del contratto come appare ai terzi : egli dice di voler comprare, non più il cavallo tre, ma il cavallo uno e i terzi che leggono il contratto ( come da Tizio e Caio stipulato illo tempore ) vi vedono scritto effettivamente che Tizio aveva dichiarato di comprare il cavallo uno Con la rettifica, invece, si conferma un contenuto del contratto diverso da quello che appare ai terzi : dal contratto come rettificato risulta che Caio vende a Tizio il cavallo tre, mentre nel contratto stipulato illo tempore sta scritto che Caio vende a Tizio il cavallo uno.
Disc.- Ma il legislatore dà esplicita soluzione ai problemi di tutela dei terzi, che possono nascere in caso di rettifica ?
Doc. No, la soluzione va tratta dall'art. 1445, che indica gli “effetti dell'annullamento nei confronti dei terzi”.
8 - Dell’interpretazione del contratto Disc. Che cosa sì intende per interpretazione di un contratto? Doc. A rigore per interpretazione del contratto dovrebbe intendersi l’attività volta ad accertare sia quale contratto ciascuna delle parti aveva intenzione di stipulare,sia quale contratto apparirebbe come voluto dalle parti, a un terzo di normale intelligenza che interrogasse le parole (o le lettere) da esse usate per esprimere la loro intenzione. La prima attività serve a stabilire se le parti avevano, per usare le parole del legislatore, una “comune intenzione”, cioé volevano un contratto dello stesso contenuto. Disc. E la seconda attività a che serve? ’ Doc. Serve a stabilire, in caso di constata divergenza delle intenzioni delle parti, se il contratto, da una di esse voluto, corrisponde a quello che apparirebbe come, da entrambe le parti, voluto a quel terzo di normale intelligenza di cui si é fatta ora parola. Disc. Ed é importante stabilire ciò? Doc. Certo che é importante! Infatti se risulta una divergenza nelle volontà delle parti, Tizio ha voluto il contratto A mentre Caio, invece, ha voluto il contratto B, se questo contratto B corrisponde a quello che apparirebbe (come voluto da entrambe le parti) al terzo, questo contratto B viene, per così dire, privilegiato. Disc. In che senso? Doc. Nel senso che, se l’errore di Tizio, sulla esistenza di una “comune intenzione contrattuale tra lui e Caio, non era riconoscibile (art. 1428) si darà esecuzione al
contratto voluto da Caio. Disc. E se invece l’errore era riconoscibile? Doc. Se invece l’errore era riconoscibile (e inoltre “essenziale”) Tizio potrà, sì, chiedere l’annullamento del contratto, ma non potrà chiedere alternativamente che venga eseguito il contratto da lui voluto. Disc. Ho capito: anche se é vero che, se Tizio é caduto in errore sulla esistenza di una “comune intenzione” contrattuale tra lui e la controparte, anche Caio in identico errore é caduto, viene privilegiata la volontà contrattuale di Caio, perché corrisponde a quella volontà che risulta dalla “lettera” del contratto. Doc. Sì, il legislatore dà una sorta di premio alla parte che, nelle trattative contrattuali e nella conclusione del contratto, ha dimostrata competenza e diligenza. E perché dia questo premio lo abbiamo visto nella lezione dedicata ai vizi del consenso. Disc. Ma se Tizio vuole il contratto A e Caio il contratto B e dalla lettera, con cui si sono espresse le due volontà, risulterebbe come voluto il contratto C? Doc. In tal caso il contratto é annullabile salva la possibilità di un parte di aderire al contratto voluta dall’altra (in applicazione analogica dell’articolo 1432). Disc. Con ciò tu hai detto cosa dovrebbe intendersi per interpretazione secondo te. Ma cosa deve intendersi per interpretazione secondo il legislatore? Doc. Il legislatore adotta un concetto più ampio di interpretazione: per lui l’interpretazione é l’attività volta a determinare sic et simpliciter il contenuto da attribuire al contratto. Quindi il legislatore ricomprende nel concetto di interpretazione, non solo l’attività volta a individuare le intenzioni delle parti, ma anche l’attività volta a supplire a tale intenzione qualora risulti “dubbia”o totalmente oscura. Disc. A questo punto possiamo cominciare a passare in rivista i criteri che il legislatore dà all’interprete per individuare la intenzione delle parti. Doc. Il primo criterio é dato implicitamente dall’articolo 1362: l’interprete deve
partire dal presupposto che la volontà delle parti sia conforme a quella risultante dalla lettera del contratto. Questo naturalmente in mancanza di elementi contrastanti con tale conclusione. Disc. Perché dici che il legislatore dà solo “implicitamente” tale criterio? Doc. Perché esplicitamente il legislatore dice solo, nella seconda parte dell’articolo, che l’interprete non deve “limitarsi al senso letterale delle parole”. Ma naturalmente, se l’interprete non deve limitarsi a tenere conto del “senso letterale delle parole”, ciò significa che, del “senso letterale delle parole”, deve tenere conto. Più precisamente l’articolo 1362, sotto la rubrica “Intenzione dei contraenti” nel suo primo comma recita: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”. Disc. Però, mentre tu dici che l’interprete deve indagare quale é stata la intenzione di ciascuna parte, il legislatore, invece, dice che l’interprete deve indagare la “comune intenzione” delle parti. Doc. Sì, però la “comune intenzione” delle parti”, ci può essere oppure no, mentre la intenzione, che ciascuna delle parti ha avuto nel concludere il contratto, non può non esserci. In realtà il legislatore, se ben avesse conosciuta l’arte sua, avrebbe dovuto formulare il primo comma dell’articolo 1362 così: “Nell’interpretare il contratto si deve indagare la intenzione delle parti al fine di verificare se al momento della sua conclusione era comune.” Questo il primo comma, che avrebbe dovuto essere seguito da un secondo comma più o meno così formulato: “Ai fini del primo comma, si deve tenere conto sia del senso letterale delle parole usate dalle parti nella conclusione del contratto sia del loro comportamento” continuando poi come detto nell’attuale secondo comma dell’articolo in questione. Disc. Ma leggiamolo bene, senza fretta, questo secondo comma. Doc. D’accordo. Tale secondo comma recita: “Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”. E’ quello, offertoci da secondo comma dell’art.1362, un criterio che si basa evidentemente sulla aspettativa che le parti abbiano tenuto, sia al momento della conclusione del contratto sia nella loro condotta anteriore e posteriore a tale
momento, un comportamento coerente: se Tizio, prima di firmare il contratto di acquisto con Caio, commerciante in cavalli, si preoccupò di montare il cavallo B senza degnare di uno sguardo il cavallo A, é chiaro che, anche se firmò un contratto in cui appariva venduto il cavallo A, egli voleva comprare il cavallo B. Disc. Passiamo al terzo elemento che l’interprete deve tenere in conto per individuare la volontà delle parti. Doc. Questo elemento lo indica o meglio pretende di indicarlo l’articolo 1363, che, sotto la rubrica, “Interpretazione complessiva delle clausole”, recita: “Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto”. La prima parte dell’articolo offre un criterio (“Si deve interpretare la clausola A tenendo conto di quel che dice la clausola B e così via”) che, come già abbiamo visto essere per il criterio offerto dal secondo comma dell’articolo 1362, si basa sull’aspettativa di una coerenza nel comportamento delle parti, più particolarmente di una coerenza nella soluzione delle varie questioni che la materia disciplinata dal contratto presentava. Disc. Questo per quel che riguarda la prima parte dell’articolo e per quel che riguarda la seconda? A me questa seconda parte francamente sembra ripetitiva della prima: infatti,siccome il “complesso dell’atto” é dato dalla somma delle clausole nell’atto stesso contenute, é chiaro che, quando hai detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dalle altre clausole, hai anche detto che il senso di una clausola va stabilito tenendo conto del senso risultante dal complesso dell’atto. Doc. Ciò é evidente. Per cui, per escludere il difetto di una inammissibile ripetitività nella seconda parte dell’articolo 1363, bisogna interpretare questa come se dicesse che, nel dare, a una questione, una soluzione – soluzione che le parti hanno omessa o hanno data in maniera non chiara - bisogna tenere conto, di un quid, che il legislatore non esplicita, ma che a noi sembra ragionevole ravvisare nello scopo pratico perseguito dalle parti; quid risultante (non già dal “complesso dell’atto” cioé da tutte le clausole – il che sarebbe assurdo, ma) da questa o quella clausola contrattuale o anche da elementi extracontrattuali. Faccio un esempio: se Tizio vende a Caio delle mucche e risulta (non necessariamente dal contratto, ma anche da prove aliunde ricavate) che il campo di
Caio é privo di un pozzo a cui abbeverare le mucche, siccome é chiaro che Caio, comprando le mucche, voleva fare un allevamento di mucche, é anche chiaro che la questione se Tizio deve o no lasciare abbeverare le mucche nel suo pozzo va risulta positivamente per Caio. Disc. Passiamo al criterio interpretativo offerto dall’articolo 1364, il quale, sotto la rubrica, “Espressioni generali”, recita: “Per quanto generali siano le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare”. Doc. Questo articolo enuncia un principio di assoluta ovvietà: é chiaro che chi ha lo scopo di accertare la volontà delle parti (alias, l’interprete) può, sì, utilizzare la “lettera” del contratto, come strumento per realizzare tale scopo, ma una volta che, utilizzando strumenti esegetici diversi, é giunto ad accertare tale volontà, non deve cadere nell’assurdità di concludere che essa... non é come gli appare, ma come risulta dalla “lettera” del contratto. Disc. Passiamo all’articolo 1365 che, sotto la rubrica “Indicazioni esemplificative”, recita: “Quando in un contratto si é espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali secondo ragione, può estendersi lo stesso patto” Doc. Direi che l’enunciato dell’articolo 1365, più che ovvio é tautologico: se un caso é portato come esempio dell’applicazione di un patto é ovvio che ciò non esclude ma anzi, per definizione, presuppone che tale patto sia applicabile ad altri casi. Disc. Passiamo all’articolo 1366 che, sotto la rubrica” Interpretazione di buona fede”, recita: “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede “Doc. Siccome le norme, che stiamo esaminando, sono rivolte, sì, anche alle parti, ma soprattutto sono rivolte al giudice (a cui spetta il compito, nel disaccordo delle parti, di dare l’interpretazione del contratto), é evidente che l’articolo in esame non vuol dire che chi interpreta il contratto lo deve interpretare in buona fede: infatti la buona fede del giudice é un “dato scontato” nell’applicazione di qualsiasi norma del codice (civile). Se così é, l’articolo in esame non può che significare, che il contratto va interpretato partendo dal presupposto che le parti, nelle trattative precontrattuali e al momento di
concludere il contratto, si siano comportate secondo buona fede. Disc. Ma il giudice deve partire da tale presupposto e attribuire a una parte, a Tizio, un comportamento secondo buona fede, anche quando aliunde risulta che é un autentico farabutto? Doc. Io ritengo di sì. Ritengo infatti che con l’articolo in esame si compia un salto qualitativo: dagli articoli con cui il legislatore si propone di dare all’interprete criteri per accertare la reale volontà contrattuale delle parti, si passa agli articoli con cui il legislatore mira ad attribuire al contratto quel contenuto che egli ritiene più giusto e opportuno – se del caso facendo violenza alla reale volontà delle parti. Attribuendo a Tizio quel comportamento in buona fede su cui la controparte Caio aveva ragione di confidare, il legislatore vuole premiare il bonus civis a scapito del malus civis; d’altra parte non é forse interesse della società che, i beni costituenti la ricchezza nazionale. vadano nei patrimoni dei buoni e non dei malvagi? Disc. Passiamo all’articolo 1367, che, sotto la rubrica “Conservazione del contratto”, recita: Nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Anche per questo articolo si può dire che, pur in presenza di elementi maggioritari che imporrebbero di ritenere la nullità (o anche, perché no? la annullabilità) di una clausola o di tutto intero il contratto, a quella o a questo si deve attribuire, invece, il senso che la nullità (o annullabilità) porti ad escludere? Doc. Io direi di no. Certo ha un buon fondamento la presunzione che le parti non abbiano voluto dare a una clausola o al contratto un contenuto, che porterebbe alla loro nullità - questo, se non altro, perché di solito le persone non gettano via il loro tempo per fare qualche cosa (che nel caso sarebbe il contratto o la clausola) che sarà poi gettato nel nulla. E di tale presunzione si deve tenere conto. Però, se pur tenendo conto di tale presunzione e di eventuali altri elementi che depongono per una validità della clausola (o del contratto), altri elementi più consistenti e forti depongono in senso contrario, cioé per la nullità, la calusola (o il contratto) dovranno essere considerati nulli. Solo quando una clausola é ambigua, cioé quando gli elementi, che depongono per un senso (quello che porterebbe a ritenerne la validità), sono controbilanciati, da elementi che deporrebbero in senso contrario (quello che porterebbe a ritenerne la nullità), si deve dare la preferenza ai primi. A tale soluzione conduce, sia la lettera dell’articolo, che parla di “dubbio”(e parlare di
“dubbio” non sarebbe il caso quando la maggior parte degli elementi convince per la nullità), sia il criterio esegetico, che vuole che si possa attribuire al legislatore la volontà di fare eccezione a un principio (nel caso al principio del rispetto della volontà delle parti contraenti). solo quando tale volontà chiaramente risulta. Disc. Passiamo ora all’articolo 1368, che, sotto la rubrica “Pratiche generali interpretative”, recita: “Le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto é stato concluso. Nei contratti in cui una delle parti é imprenditore, le clausole ambigue s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui é la sede dell’impresa”. Doc. L’articolo si basa su una presunzione (superabile però da elementi contrari!) presunzione che, però, per quel che riguarda il secondo comma, risente un po’ del favor per l’imprenditore, che ispira spesso il nostro legislatore e che già risulta dal primo comma dell’articolo 1341 (il quale, come é noto, recita “Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto, questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza”). Disc. Il favor di cui tu hai parlato a proposito dell’articolo 1368 mi pare controbilanciato dal disposto dell’articolo 1370, che, sotto la rubrica, “Interpretazione contro l’autore della clausola”, recita: “Le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, s’interpretano nel dubbio, a favore dell’altro”. Doc. Sì, questa disposizione é sfavorevole all’imprenditore ed evidentemente mira a pungolarlo alla massima chiarezza nella formulazione delle condizioni generali di contratto o nella redazione dei moduli e dei formulari. Disc. Passiamo all’articolo 1369 che, sotto la rubrica “Espressioni con più sensi”, recita: Le espressioni che possono avere più sensi devono nel dubbio essere intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”. Doc. L’articolo fa l’ipotesi che l’interprete si trovi, come l’asino di Buridano, di fronte a due possibili contenuti del contratto (o di una clausola), che potrebbero essere egualmente considerati corrispondenti alla volontà delle parti. In tal caso, impone il legislatore, tu, interprete, devi attribuire al contratto (o alla clausola) “il
senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”. Disc. E siamo arrivati finalmente all’ultimo articolo disciplinante la interpretazione del contratto: l’articolo 1371, che, sotto la rubrica “Regole finali”, recita: “Qualora, nonostante l’applicazione delle norme contenute in questo capo, il contratto rimanga oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, se é a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti se é a titolo oneroso”. Doc. Il legislatore, mentre nell’articolo 1369 faceva l’ipotesi di un interprete, che si trova di fronte a “espressioni” che rimandano a due o più significati (plausibili), nell’articolo in esame fa invece l’ipotesi di un interprete che, poveretto, si trova di fronte a “espressioni” senza nessun significato (o con un significato inaccettabile, anche per elementi extracontrattuali). E allora adotta una soluzione....salomonica.
9 - La tutela del patrimonio dell’incapace. Premessa Disc. Abbiamo visto nelle precedenti lezioni che l’accordo delle parti per lo scambio di beni e servizi é tutelato dallo Stato in quanto ritenuto utile ad aumentare la ofelimità della ricchezza nazionale (Caio ha tre quintali di grano, di cui però due sono per lui superflui, dato che un solo sacco basta alle sue necessità, e allora dà il secondo sacco a Mevio, che nei suoi magazzini non ha del grano ma un eccesso di mele, per avere un quintale di queste, e dà l’altro sacco a Sempronio, che ha un eccesso di formaggi, per avere un quintale di questi; e tutti e tre, Caio, Mevio, Cornelio vivono meglio). Però questo risultato (di una maggiore ofelimità della ricchezza nazionale) si raggiunge, se le scelte operate da Caio, Mevio, Sempronio sono oculate: se Caio dà via tutti i suoi tre quintali di grano per avere due quintali di formaggio e un quintale di mele, lasciando così vuoti i suoi magazzini del prezioso cereale....i conti non tornano: il benessere della società non aumenta, ma diminuisce. La decisione errata di Caio può essere semplicemente dovuta al fatto, che egli ha operato il suo calcolo economico credendo erroneamente, che esistessero circostanze ed elementi invece inesistenti (Caio per errore credeva di stare acquistando un sacco di mele mentre invece il sacco, datogli in cambio del suo grano, era pieno di pere, di cui nulla avrebbe saputo che fare). In tal caso il legislatore a certe condizioni (quelle condizioni di cui abbiamo parlato studiando i vizi del consenso), é disposto ad annullare il contratto stipulato da Caio. Senonché la scelta di Caio potrebbe essere sbagliata, non perché egli ha basato i suoi calcoli su falsi elementi, ma semplicemente perché....non é stato capace di calcolare.
In tal caso si presenta per il legislatore il (grosso) problema: merita tutela il patrimonio dell’incapace? E se si, come attuare tale tutela? Tu, a questo problema, che soluzione daresti? Disc. La soluzione più conforme all’interesse della società - interesse che vuole che i beni costituenti la ricchezza nazionale siano gestiti da persone capaci e non da persone superficiali o fannullone. Quindi non annullerei i contratti stipulati rovinosamente da Caio, ma guarderei con simpatia, in quanto in definitiva cosa utile alla società, al travaso di beni dal patrimonio dell’imbelle Caio a quello dell’abile don Gesualdo. Doc. Non é però detto che, chi é abile, sia anche onesto e corretto amministratore, e l’interesse della società potrebbe portare a preferire, all’abile ma disonesto don Gesualdo, il meno abile ma più onesto Repetto. Ma a prescindere da ciò, devono rendere cauto il legislatore, nella tutela dell’interesse da te segnalato, due considerazioni. La prima, viene in rilievo quando la incapacità prevedibilmente é destinata a cessare in un breve lasso di tempo. E’ il caso di Francesco che, avendo troppo libato a Bacco, ha sottoscritto un contratto disastroso, ma che già l’indomani, ritornato sobrio, si dimostrerà quell’ottimo e sagace uomo d’affari, che é sempre stato. E’ il caso ancora di Franceschino che, sì, ora, dalla giovane età, é reso inesperto e incapace, ma che in un domani, raggiunta la maggiore età, si rivelerà buon amministratore del suo patrimonio. In entrambi i casi non c’é ragione per dire che, i beni del patrimonio di Francesco e di Franceschino, sarebbero meglio amministrati, se si trovassero nel patrimonio dell’abile ma senza troppi scrupoli don Gesualdo. Più giusto appare annullare il contratto stipulato sotto i fumi del vino da Francesco, e nominare una persona che temporaneamente sostituisca Franceschino nell’amministrazione del suo patrimonio. Ciò lo vedremo meglio parlando della incapacità naturale, della responsabilità genitoriale e della tutela dei minori. La seconda considerazione é che, anche in caso di incapacità destinata a durare indefinitamente nel tempo, contrastano con l’interesse, da te segnalato e che porterebbe alla dispersione del patrimonio dell’incapace, un interesse della famiglia e un interesse dello Stato, che appaiono del tutto meritevoli di tutela e che premono per la conservazione del patrimonio dell’incapace. Disc. Perché la dispersione del patrimonio di Caio nuoce alla sua famiglia.?
Doc. Perché vi sono persone che dipendono economicamente da Caio, l’incapace: la moglie di Caio ha diritto ad avere da lui un assegno di mantenimento: se Caio si impoverisce non glielo può più corrispondere. I figli di Caio hanno l’aspettativa di ereditare parte dei beni, che compongono il patrimonio ora in proprietà del loro padre: prospettiva legittima dato che tali beni, non sono solo frutto del lavoro di Caio, ma anche di quello dei suoi antenati (Caio ha ereditato il campo, in cui ha seminato il frumento, da suo padre che l’ha acquistato a prezzo di dure fatiche e risparmi e l’ha trasmesso a Caio perché egli a sua volta lo trasmettesse ai suoi figli). Se il patrimonio di cui ora é titolare Caio si disperde, i figli nulla erediteranno. Disc. D’accordo, la dispersione del patrimonio dell’incapace danneggia la sua famiglia. Ma in che danneggia lo Stato? Doc. Lo danneggia perché, il depauperamento dell’incapace, lo obbliga a provvedere ai bisogni di questo con il denaro pubblico. Disc. Mettiamo che sulla bilancia del legislatore pesino più i due interessi da te ora detti, che quello che vorrebbe dar via libera ai meccanismi economici, che porterebbero all’impoverimento dell’incapace. Come può operare, quali strumenti può usare il legislatore per impedire questa dispersione? Doc. Nei casi che l’incapacità sia destinata a durare nel tempo, di certo non si può pensare di risolvere il problema della tutela del patrimonio dell’incapace, verificando di volta in volta se i contratti da questi posti in essere sono, o no, economicamente convenienti, per poi annullarli se non lo sono. L’unico strumento che lo Stato può utilizzare é quello dell’incapacitazione. Dove per “incapacitazione” di una persona deve intendersi che, tutti i negozi, tutti i contratti da questa persona posti in essere, possono essere annullati, senza necessità di provare che sono contrari all’interesse dell’incapace. Disc. Ma chi chiederà l’annullamento di tali contratti? Doc. La persona a cui appunto lo Stato avrà affidato il compito di tutelare il patrimonio dell’incapace. Persona che, beninteso, avrà, non solo il compito di provocare l’annullamento dei contratti posti in essere dall’incapace, ma anche, anzi soprattutto, di gestirne il patrimonio ponendo in essere i contratti a ciò necessari.
Disc. Senza preoccuparsi della persona dell’incapace? Doc. Certo che sì, certo che dovrà preoccuparsi della persona dell’incapace; ma ciò ai fini del discorso che ora facciamo e che é limitato alla tutela del patrimonio, non interessa. Disc. A questo punto il problema: il concetto di incapacità é un concetto relativo: il ragionier Rossi, confrontato alla media delle persone, può essere considerato una persona perfettamente capace, ma confrontato a un genio degli affari come il cavalier Berlusca appare come un incapace: allora chi “incapacitare” e chi no. A quali criteri riferirsi per dare risposta a questo (fondamentale) problema? Doc. A criteri che limitino al massimo l’adozione della misura della “incapacitazione” - misura giustamente guardata, per gli abusi a cui si presta, con diffidenza dalla popolazione. Quali siano tali criteri lo vedremo parlando dell’interdizione, dell’inabilitazione, dell’amministrazione di sostegno. Nella prossima lezione ci limiteremo a parlare della cosiddetta incapacità naturale, quella che rende annullabili i contratti stipulati da una persona incapace, anche se questa non é minore di età e non é stata, incapace, dichiarata: il caso del nostro Francesco, che troppo si é lasciato tentare da una bottiglia di buon spumante.
10 - L’incapacità naturale Nel caso di un minore o di un interdetto, inabilitato o beneficiario di una amministrazione di sostegno, per determinare se é invalido, o no, il negozio (posto in essere dal minore, dall’interdetto, dall’inabilitato, dal beneficiario), non occorre verificare se essi erano, al momento di porlo in essere, incapaci di intendere o di volere. Anzi, anche se addirittura fosse provato che il minore Rossi o l’inabilitato Bianchi o addirittura l’interdetto Verdi erano, al momento di firmare quel contratto, in uno stato di super-capacità (Rossi, ancorché sedicenne, sarebbe stato in grado di mettere nel sacco il diavolo, Bianchi, ancorché inabilitato, in quel caso particolare – l’eccezione che conferma la regola! - si dimostrò abilissimo uomo di affari....) ebbene l’invalidità del negozio andrebbe lo stesso dichiarata. Di contro a questa ipotesi ve ne sono però altre in cui, l’invalidità del negozio, andrà dichiarata solo se é provato, che, chi l’ha posto in essere, era, in quel momento, incapace di intendere o di volere. Il Legislatore disciplina queste ipotesi (definite col termine non proprio felice di “incapacità naturale”) nell’articolo 428. Questo articolo stabilisce l’annullabilità di un atto (si badi, di un atto qualsiasi, non solo di un contratto) quando sussistono le seguenti condizioni. Prima condizione: dall’atto risulti un “grave pregiudizio” al suo autore. Tale condizione é stabilita, sia per non gravare il tribunale di troppe laboriose indagini (di
quelle laboriose indagini che, invece, si renderebbero necessarie se il pregiudizio da accertare fosse lieve) sia per non colpire con una troppo pesante sanzione (quella sanzione sui generis rappresentata dall’annullamento di un contratto – contratto sulla cui base si sono forse già costruiti programmi e fatte spese) una controparte, che non appare meritevole di una particola severità, dal momento che sapeva, sì, del pregiudizio derivante (all’incapace) dall’atto, ma sapeva anche, che solo, di un lieve pregiudizio, si trattava. Seconda condizione – Per l’annullabilità occorre la “malafede dell’altro contraente”. Tale “condizione” é prevista dal secondo comma dell’art. 428 e si giustifica con tutta evidenza con la tutela del traffico giuridico. A avrebbe titubanza a stringere un accordo con B, se avesse a temere un suo annullamento anche in caso di un’incapacità di intendere o di volere di B, che da lui non potesse essere avvertita (né per la “qualità del contratto”, né per il pregiudizio che a B il contratto apportava, né per un’altra qualsiasi circostanza). A nostro parere la malafede non richiede la conoscenza del “pregiudizio”, che dall’atto può derivare alla controparte, ma solo della menomazione delle sue facoltà intellettive o volitive: non compete ad A la valutazione se il contratto, che si accinge a firmare con B, é a questo di pregiudizio o no: solo gli compete il dovere di non firmare un atto, che la controparte B non é in grado di valutare, se le é di pregiudizio o no. Terza condizione. Per l’annullabilità del negozio occorre (e questa é la condizione fondamentalissima!) che il suo autore, al momento di compierlo, fosse “incapace di intendere o di volere” (“qualsiasi” fosse la “causa” di tale sua incapacità!). E qui si pone il grosso problema: di quale gravità, di quale grado deve essere l’incapacità per consentire l’annullabilità dell’atto? Sembra logico ritenere che, se una persona ha una tale incapacità da essere interdetta, l’atto da lei compiuto debba essere annullato (purché tale incapacità fosse conosciuta dalla controparte). E in tal senso dispone chiaramente il quarto comma dell’articolo 427. Noi però riteniamo che si abbia annullabilità del contratto, non solo in tale ipotesi, ma anche quando l’atto sia compiuto a cagione di una disfunzione delle facoltà intellettive o volitive, che abbia ridotta e scemata la normale capacità di intendere o di volere del suo autore (anche se non l’ha ridotta e abbassata fino a un livello, in cui una incapacità di intendere o di volere giustificherebbe l’interdizione): l’alcool ingurgitato da mister Rockefeller ha, sì, scemato visibilmente la sua capacità di intendere o di volere (egli non ha più l’abituale prontezza di memoria e di riflessi, né l’abituale, oculata, riservatezza....) ma non l’ha rimbecillito (anche con l’alcool nel
sangue il suo cervello capisce l’affare trattato meglio di un cowboy del Texas e anche dell’uomo medio americano)? Fa niente, il contratto da lui sottoscritto é lo stesso annullabile: la male fede di chi ha profittato della sua menomazione per fargli concludere un affare, che, nel pieno delle sue facoltà, mai avrebbe concluso, va (appunto con l’annullamento del contratto) sanzionata.
11: La nullità del contratto. Doc. Abbiamo visto come l’incapacità (di intendere e di volere) e i vizi della volontà giustifichino l’annullamento del contratto, solo che in tal senso sia presentata – nel (breve) termine stabilito dalla Legge e senza che prima sia intervenuta convalida del contratto – una richiesta dalla parte (la cui volontà, al momento della stipula, era viziata o che era incapace). Ora cercheremo di vedere ciò che può giustificare (non l’annullamento, ma) la dichiarazione di nullità di un contratto. Disc. Sì, benissimo, ma prima dimmi che cosa si intende per contratto nullo. Nullo é il contratto che il Legislatore considera mai esistito, tamquam non esset? Doc. No, dire questo non sarebbe esatto: che Tizio abbia stipulato un contratto (ancorché nullo) é una realtà ed é una realtà su cui il Legislatore non può chiudere gli occhi. Disc. In che senso?
Doc. Nel senso che – se pur gli effetti giuridici voluti (come conseguenza del contratto) dalle parti non sono, dal Legislatore, concessi – altri, da Lui, non possono essere negati. Disc. Ad esempio? Doc. Ad esempio il Conservatore dei Pubblici Registri Immobiliari non potrà rifiutarsi di trascrivere il contratto adducendo che é nullo (v. art. 2074). Inoltre, e direi soprattutto, il contratto (nullo) può essere convertito in un contratto a tutti gli effetti valido. Disc. Questo in forza di quale articolo? Doc. In forza dell’articolo 1424, che recita: “Il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità”. Disc. Ho capito, vi é una importante differenza tra contratto nullo e contratto inesistente. Ma ora dimmi, qual’é la differenza di disciplina tra contratto annullabile e contratto nullo? Doc. La prima, e direi più importante, differenza, é che – mentre “l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse é stato stabilito dalla legge” (così recita l’art. 1441) - invece (come recita l’art. 1421) “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Disc. Quindi la nullità non può essere fatta valere da quivis de populo, ma solo da chi “vi ha interesse”. Doc. Beninteso, un interesse meritevole di tutela. Insomma,il Legislatore vuole evitare due cose: 1) che avanzi la domanda di nullità del contratto tra Caio e Sempronio, un qualsiasi Pinco Pallino che, non avendo nulla da perdere da un suo rigetto, neanche si sentirebbe impegnato a sostenerla efficacemente in un contraddittorio (che potrebbe prolungarsi nel tempo), col risultato che potrebbe alla fine essere dichiarato valido un contratto, invece, nullo; 2) che Caio, la parte del contratto che ne contesta la nullità, venga da più persone convenuta in successivi,
sempre nuovi processi (Flavio nel 2012 conviene Caio per far dichiarare la nullità del contratto: la domanda é respinta; ma Claudio nel 2012 la ripropone ecc.ecc.), col risultato che Caio, defaticato, rinuncia a sostenere il contraddittorio e viene dichiarato valido un contratto che, invece, é nullo. Disc. Fai ora un esempio di persona, il cui interesse a far valere la nullità, é tutelato dal Legislatore. Doc. Pensa al fideiussore, che ha interesse a far dichiarare nullo il contratto, da cui deriva l’obbligazione principale (dato che ciò lo libererebbe dal suo obbligo di garanzia). Disc. Che altre differenze caratterizzano la nullità rispetto alla annullabilità? Doc. Quella che – mentre l’azione di annullamento si prescrive in un termine molto breve (art. 1442) - “l’azione per far dichiarare la nullità non é soggetta a prescrizione, salvi gli effetti della usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione” (così l’art. 1422) e quella che – mentre il contratto annullabile può essere convalidato (art. 1444) - “il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente” (art. 1423). Disc. Come si giustificano tali differenze? Doc. La seconda, ovviamente si giustifica col fatto che la convalida non sarebbe altro che la ripetizione dell’atto nullo (e quindi nulla anch’essa), la prima (idest, la imprescrittibilità dell’azione) si giustifica col fatto che, quando il Legislatore stabilisce la nullità di un contratto lo fa per togliere alle parti la speranza di potersi valere della forza dello Stato per raggiungere lo scopo pratico a cui col contratto mirano e tale dissuasione riesce tanto più forte e recisa se le parti sanno di non poter sperare in una prescrizione dell’azione volta a dichiarare la nullità. Disc. E se un qualsiasi Pinco Pallino ha acquistato da Caio, una delle parti del contratto nullo, un diritto, metti quel diritto di proprietà che Caio aveva a sua volta acquistato da Sempronio, l’altro contraente? anche il contratto tra Pinco Pallino e Caio si considererà nullo? Oppure, come abbiamo visto accadere per il contratto annullabile (art. 1445) l’interesse di Pinco Pallino a non vedere pregiudicato il suo acquisto dalla invalidità del contratto stipulato dal suo dante causa, verrà tutelato,
almeno nel caso che egli sia in buona fede e il contratto sia a titolo oneroso? Doc. No, non verrà tutelato, nel senso che Pinco Pallino non acquisirà la proprietà della res a lui, da Caio, trasferita; con tutto ciò, bada, commetteresti un errore nel considerare il contratto da lui stipulato con Caio come nullo, si tratterebbe infatti di un contratto perfettamente valido, anhce se risolubile (vedi melius l’art. 1478). Disc. E tuttavia se il contratto stipulato da Caio, il suo dante causa, fosse stato annullabile, non nullo, Pinco Pallini avrebbe acquistato (se in buona fede ecc.) la proprietà del bene, da Caio, alienatogli. Come si giustifica questa diversità di disciplina? Doc. Si giustifica col fatto che – mentre nel caso di un contratto annullabile potrebbe essere difficile per un terzo accorgesi della causa di annullabilità, (come potrebbe il nostro Pinco Pallino sapere se la controparte di Caio, il suo dante causa, era caduta in errore, se questo errore era riconoscibile ecc.ecc.) - invece, nel caso di contratto nullo, non poteva non balzare agli occhi di Pinco Pallino, solo che fosse stato tanto diligente e prudente di recarsi alla Conservatoria dei Registri Immobiliari per leggersi il contratto stipulato da Caio, la nullità del contratto da questi stipulato (da tale contratto risultava che per acquistare l’immobile Caio si era obbligato a compiere un atto illecito? siccome in tal caso, come vedremo, il contratto é nullo, a Pinco Pallino, non poteva non apparire chiara la nullità del contratto stipulato da Caio).
12 - Possibili cause della nullità di un contratto (illiceità della causa, dello oggetto...). Disc. Abbiamo visto che cosa deve intendersi per nullità di un contratto; vediamo ora da che cosa può essere, la nullità, giustificata. Doc. Le più varie sono le considerazioni che, per un Legislatore, possono giustificare la nullità di un contratto (e alcune possono essere giuste e altre errate, forse che il Legislatore é immune da errori, forse che non può prendere decisioni assurde e illogiche?). E questo impedisce al Giurista di dare una esauriente risposta alla tua domanda. Disc. Però – dal momento che la nullità di un contratto viene dichiarata a prescindere da una richiesta delle parti che lo hanno stipulato (e quindi anche contro la loro volontà e presumibilmente contro il loro interesse) il Giurista almeno potrà dire che la nullità (al contrario dell’annullabilità) di un contratto viene, dal Legislatore, ritenuta per tutelare interessi confliggenti o almeno estranei a quelli delle parti del contratto.
Doc. Di massima può dirlo; ma solo “di massima”, dato che in alcuni casi la nullità viene ritenuta dal Legislatore proprio a tutela delle parti che l’hanno stipulato. Disc. Comincia a portare i principali casi in cui la nullità viene ritenuta a tutela di interessi confliggenti o almeno estranei a quelli delle parti. Doc. D’accordo, comincerò a portare dei casi in cui il comportamento a cui una parte vorrebbe vincolarsi col contratto frustra un interesse che il legislatore tutela. Primo caso: illiceità dell’oggetto del contrattoEsempio: Sparafucile si obbliga a uccidere il duca di Mantova e Rigoletto si obbliga a dargli tot. Disc. E’ evidente il perché, il Legislatore, non può ritenere valido un tale contratto. Infatti, se tale lo ritenesse, cadrebbe in contraddizione in quanto verrebbe a tutelare un interesse (quello di Rigoletto all’uccisione del duca) confliggente con quello che, con l’articolo 575 Cod. Pen., Egli si propone di tutelare (l’interesse del duca alla vita); quindi ben si può dire che così facendo (idest ritenendo la validità del contratto) si darebbe la zappa sui piedi: nell’articolo 575 Cod. Pen. io, legislatore, minaccio di tot anni di reclusione Sparafucile per dissuaderlo dall’uccidere, e, poi, ritenendo valido il contratto da lui stipulato con Rigoletto, minaccio di obbligarlo al risarcimento se non uccide, di più, (verso Rigoletto) mi impegno (sempre io, legislatore) a procedere all’esecuzione forzata dell’obbligo (assunto da Sparafucile) di uccidere. Assurdo! Chiara dunque la nullità del contratto nei casi in questo vincola a un comportamento illecito. Ma c’é anche una norma da cui si evince tale nullità? Doc. Certo, e, non una, ma due sono le norme da cui si evince tale nullità: l’articolo 1346 e l’articolo 1418. Disc. Che dice l’articolo 1346? Doc. L’articolo 1346 recita: “L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile”. Disc. E che stabilisce l’articolo 1418? Doc. L’articolo 1418 stabilisce la nullità di un contratto quando il suo oggetto manca
di uno “dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346” (l’articolo sopra riportato). Più precisamente l’articolo 1418 (sotto la rubrica “Cause di nullità del contratto”) recita: “Il contratto é nullo quando é contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga altrimenti. - Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346.- Il contratto é altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”. Disc. Hai fatto un caso di contratto ritenuto dal Legislatore nullo per la ragione che il comportamento a cui si vincolerebbe con esso una parte frustra un interesse tutelato dal legislatore, fanne un secondo Doc. Ecco un secondo caso: l’illiceità dei motivi che hanno convinto le parti a concludere il contratto. Esempio: Rigoletto si obbliga a vendere un coltello a Sparafucile, il quale si obbliga a dare tot, coltivando (ecco il punto!) il proposito di usare il coltello per uccidere il povero duca. Qui di per sé, nessuno dei due comportamenti a cui si obbligano le parti é illecito, però é chiaro che anche qui il Legislatore verrebbe a darsi la...zappa sui piedi ritenendo la validità del contratto, dato che vincolare giuridicamente Rigoletto a dare il coltello a Sparafucile significherebbe agevolare questi in un comportamento (l’uccisione del duca) che lede un interesse tutelato da una norma. Disc. Quindi il legislatore ritiene senz’altro la nullità del contratto tra Rigoletto e sparafucile. Doc. E invece, no. Egli fa dei “distinguo”. Precisamente l’articolo 1345 (che porta la rubrica “motivo illecito” e, val la pena di notarlo é inserito nella sezione seconda intitolata “Della causa del contratto”) recita: “Il contratto é illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito comune ad entrambe”. Disc. Ho capito: perché il contratto tra Rigoletto e Sparafucile sia considerato illecito, non basta che Sparafucile lo concluda per un motivo illecito, occorre che Rigoletto sappia del motivo (illecito) che spinge Sparafucile a concludere il contratto. E del resto questo é logico, la minaccia dello Stato a Rigoletto “Attento se vendi a Sparafucile il coltello che questi si propone di usare per uccidere, io, poi, non ti aiuterò a farti pagare il prezzo di tale coltello”, ha senso ed acquista efficacia
intimidatoria solo se Rigoletto sa che Sparafucile intende usare il coltello per uccidere. Doc. Sì, é così. Però bada, perché lo Stato rifiuti la validità del contratto non basta il sospetto che Rigoletto “sapesse”: occorre la certezza che egli “sapesse”. E siccome la prova certa che Rigoletto “sapesse”, in pratica, é data dal fatto che egli si avvantaggiò oltre l’usuale nella vendita (chiese cento per un coltello che normalmente si vende a dieci), si può comprendere come da molti Studiosi si sostenga che, per ritenere l’illiceità del contratto (e, quindi, come vedremo subito, la sua nullità), non basti che la controparte (Rigoletto) sapesse, ma occorre un quid pluris: cioé che si avvantaggiò del fatto che la controparte era mossa da un motivo illecito. Disc. Dalle parole usate dal Legislatore (e precisamente dall’avverbio “esclusivamente”: il contratto deve essere stato concluso “esclusivamente per un motivo illecito comune”) sembrerebbe che, se Sparafucile avesse comprato il coltello, oltre che per uccidere, anche....per affettarci il salame, il contratto sarebbe valido. Doc. Ciò sarebbe assurdo. Chiaramente l’articolo va interpretato nel senso che, sempre restando fermo che il contratto deve considerarsi nullo solo che Rigoletto sapesse del motivo illecito, si deve presumere che non “sapesse”, qualora altri motivi, oltre quello illecito, potevano ispirare Sparafucile ad acquistare il coltello. Disc. Tu hai parlato di nullità del contratto se la parte conosce il motivo illecito ecc.ecc.. Però a leggerlo bene l’articolo 1345 si limita a parlare di “illiceità” del contratto. Doc. Sì, ma l’articolo 1345 va letto in relazione all’articolo 1418, che elenca tra le cause di nullità anche “la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345”. Disc. Giusto. Passiamo a un terzo caso di nullità del contratto per la ragione che la parte vorrebbe con esso vincolarsi a un comportamento lesivo di un interesse dal Legislatore tutelato. Doc. Terzo caso: illiceità della causa del contratto. Questo terzo “caso” si può ricavare dagli articoli 1343 e 1418. L’articolo 1343 (sotto la rubrica “Causa illecita”) recita: “La causa é illecita quando é contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”. L’articolo
1418, nel suo secondo comma, recita “Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa …..”. Disc. Ma che cosa intende il Legislatore per “causa” di un contratto? Doc.Ah, questo il legislatore non lo dice, per la semplice ragione che é discusso e non é chiaro tra gli Studiosi che cosa, la “causa”, sia. Tuttavia la maggior parte degli Studiosi ritiene che per “causa” di un contratto debba intendersi la sua “funzione economica-sociale”; per cui, ad esempio, la causa di un contratto di compravendita sarebbe il trasferimento della proprietà di un bene verso il corrispettivo di un prezzo, la causa di un contratto di locazione, sarebbe l’attribuzione del godimento di una cosa verso un corrispettivo, e così via. Siccome parlare di “illecita funzione economica e sociale” di un contratto ha tutta l’aria di un inammissibile ossimoro, tu, ai fini del discorso che ora facciamo, limitati a fare molto semplicemente l’equazione: causa = tipo di scambio di beni e servizi che le parti di un contratto si propongono. Disc. Farò così, ma almeno dammi un esempio di causa illecita in quanto contraria a norme imperative. Doc. Quest’esempio te lo dò rimandandoti all’art.166bis, che recita: “E’ nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”. Disc.Abbiamo visto quando la “causa” di un contratto é contraria a norme imperative, vediamo ora quando deve considerarsi contraria all’ordine pubblico e al buon costume. Per cominciare cosa si deve intendere per “ordine pubblico” e “buon costume” Doc. L’esatto significato di questi due concetti é dibattuto tra gli Studiosi. Personalmente ritengo che la distinzione tra “ordine pubblico” e “buon costume” sia artificiosa e che si possa tout court parlare solamente di “ordine pubblico”. Operata questa prima semplificazione, ritengo poi che si debba ritenere contrario all’ordine pubblico (“ordine pubblico interno”, contrapposto all’ordine pubblico internazionale) ogni tipo di scambio di beni e servizi, che venga a ledere una di quelle idee-forza che, secondo il Legislatore, consentono l’ordinato e armonioso svolgersi del vivere sociale. Disc. Spiegati meglio.
Doc. Ogni società tutela alcune “idee-forza” nella convinzione che, se tali idee rovinassero, anche tutta la società rovinerebbe. Pensa al valore che in una società patriarcale potevano avere idee come: “la donna deve essere fedele al marito” “i figli debbono rispetto ai genitori” “la donna deve vestire da donna e l’uomo da uomo”. Disc. Anche la nostra “società dei consumi” ha di queste “idee-forza”? Doc. Certamente, pochine ma ne ha, pensa alle idee: “la donna é pari all’uomo” “i genitori debbono lasciare liberi i figli di scegliere la loro strada” “una persona ha diritto di disporre liberamente della sua vita sessuale”. Ora, continuando il discorso, é chiaro che le idee-forza perdono sempre più, scusa il bisticcio di parole, la loro forza, quanto più si verificano nella società comportamenti che le contraddicono: ad esempio, se in una società patriarcale aumenta il numero delle donne che girano per le strade con i calzoni, l’idea-forza, secondo cui “le donne debbono distinguersi nel vestire dagli uomini”, si affievolisce. Ora, questo affievolimento delle idee-forza (su cui si basa la società), é sentito come un danno dal Legislatore, il quale pertanto (con il combinato disposto degli articoli 1343 e 1418 co.2) rifiuta di considerare validi quei contratti (idest, rifiuta di mettere la sua forza al servizio di quei contratti) con cui le parti si vincolano a un comportamento lesivo di tali idee. Disc. Fai qualche esempio di contratto nullo perché la sua “causa” é illecita in quanto contraria all’ordine pubblico. Doc. Pensa al contratto con cui Tizio si obbliga a non divorziare; pensa ancora al contratto con cui Tizio si obbliga a vendere un suo occhio. Disc. Mi sembra che si siano portati abbastanza esempi di nullità di un contratto dovuta alla ragione che il comportamento a cui, con esso, le parti intendono vincolarsi, contraddice un interesse dello Stato. Ma tu hai detto che certe volte la nullità del contratto é decretata in quanto esso viene a ledere l’interesse, non dello Stato, ma di terzi. Puoi portare di ciò almeno un esempio? Doc. Pensa all’inosservanza della “forma, quando risulta che é prescritta dalla legge sotto pena di nullità” (vedi il combinato disposto art.1325n4 e 1418).Caso di nullità di cui l’esempio più importante é dato dall’articolo 1350 (l’articolo secondo cui
“Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità: 1) i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili;2) i contratti che costituiscono, modificano o trasferiscono il diritto di usufrutto ecc.ecc. ecc.”). Disc. Ma questo articolo non ha l’esclusivo scopo di tutelare le parti (Caio e Sempronio),costringendole, prima che concludano il contratto, a quella battuta di arresto, che la redazione di questo per iscritto impone, e quindi a quell’approfondimento, che può evitare loro deprecabili errori sull’effettiva convenienza del contratto stesso? Doc. Questo scopo nel Legislatore senza dubbio esiste, ma coesiste con esso lo scopo di rendere, il più possibile chiaro e soprattutto certo, il contenuto del contratto, stipulato tra Caio e Sempronio, ai loro futuri aventi causa. Insomma il Legislatore vuole che Tizio, che vuole acquistare da Caio quel fondo Corneliano, da questi, a sua volta, acquistato da Sempronio, possa sapere con certezza (con quella certezza che solo gli può dare la lettura di un contratto messo per iscritto), se Semprono nel vendere a Caio si é riservato, metti, qualche “servitù” sul fondo venduto. Proprio perché il legislatore, imponendo una data forma a un contratto vuole, sì, tutelare le parti di questo (Caio e Sempronio), ma anche e soprattutto vuole tutelare gli interessi dei loro futuri aventi causa, si spiega perché Egli stabilisca per il difetto di forma, non l’annullamento (cosa per cui, passato un certo tempo, prescrittasi la relativa azione,il contratto dovrebbe considerarsi valido), ma la sua nullità. Disc. Abbiamo visto esempi di casi in cui il contratto viene ritenuto nullo in quanto lesivo di un interesse generale o di terzi; ma tu hai detto che il Legislatore può ritenere nullo un contratto anche in quanto lesivo di un interesse delle parti stesse. Doc. Sì, tali casi esistono, e sono ricavabili dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1325. L’articolo 1418 ci dice che “produce nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti dall’articolo 1325”. A sua volta l’art. 1325, recita: “I requisiti del contratto sono: 1) l’accordo delle parti;2) la causa; 3) l’oggetto; 4)la forma, quando risulta che é prescritta dalla legge a pen di nullità”. Ora esempi di casi, in cui la nullità é stabilita dal Legislatore a tutela delle parti del contratto, si possono ricavare dal difetto dei requisiti indicati (dall’art.1325) nel numero 1), accordo delle parti, e nel numero 2), “causa” (del contratto).
Disc. Parlando di difetto di accordo delle parti, penso che il Legislatore si riferisca, non a un semplice loro disaccordo sul contenuto del contratto (come lo abbiamo studiato parlando dell’annullabilità del contratto: Caio vuole vendere A e Sempronio capisce che voglia vendere B), ma a una vera e radicale mancanza di accordo: ad esempio,l’accettazione di Caio alla proposta fatta da Sempronio giunge quando già questi l’ha revocata. Doc. E’ così. Disc. Allora é facile capire perché, la nullità di un contratto per difetto di accordo tra le parti, é dettata a tutela dell’interesse di queste: infatti ben si comprende come sarebbe contrario all’interesse di Sempronio l’essere vincolato da un contratto che egli mai si é sognato di stipulare; meno comprensibile é perché il legislatore non provveda a tutelare questo interesse (di Sempronio) semplicemente condendogli di annullare il contratto (quando venisse a sapere della sua esistenza). Doc. In effetti ciò non é molto comprensibile. Disc. Passiamo al secondo requisito del contratto, la cui mancanza determina, di questo, la nullità: la causa. Quando si può dire che un contratto manca di “causa”? Doc. Per comprendere quando avvenga questo, tu devi ricordare quanto da noi detto nei discorsi fatti all’inizio della trattazione sul contratto stesso. Ricordi, vero, che noi si era detto che il Legislatore, riconosce una utile funzione economico-sociale ai contratti e quindi li ritiene “validi” (giuridicamente), in quanto, lo scambio di beni e servizi tra le persone, viene ad aumentare, di tali beni e servizi, la “utilità”? Disc. Certo che lo ricordo. Doc. Allora facilmente comprenderai come questa funzione economico-sociale nel contratto tra Caio e Sempronio, venga a mancare, quando Caio, che ha stipulato questo contratto per ottenere la tutela (giuridica) del suo interesse ad ottenere B, in realtà, per avere tale tutela, non aveva bisogno di stipulare nessun contratto (o perché già aveva B o perché, la tutela del suo interesse ad avere B, già gli era concessa). Disc. Fai degli esempi.
Doc. Primo esempio: Caio e Sempronio stipulano una permuta: “Io, Caio, dò a te, Sempronio, l’immobile A, e tu, Sempronio, dai a me, Caio, l’immobile B”. Però l’immobile B, non era di Sempronio, ma già apparteneva a Caio. L’articolo 1478 non essendo nel caso applicabile, lo strumento contrattuale non svolgerebbe nel caso nessun funzione economico- sociale; anzi si rivelerebbe per Caio una trappola, in quanto Caio, continuerebbe a subire la perdita di A (da lui dato in permuta a Sempronio) senza ricevere in cambio nulla, se fortunatamente il combinato disposto degli articoli 1325 e 1418 non gli concedesse di ottenere la dichiarazione di nullità del contratto. Disc. Quindi, nel caso, l’applicazione di tale combinato disposto, avrebbe la funzione della “matta” nel gioco di carte o di un passe-partout capace di aprire le porte che una lacuna della normativa lascerebbe chiuse. Doc. E’ così. Disc. Passiamo ad un altro esempio. Doc.Caio si obbliga a dare tot a Sempronio e questi in cambio si obbliga.....a non bruciargli la casa (attenzione! questo esempio é diverso da quello fatto in un precedente lezione, trattando della annullabilità dei contratti: l’esempio della precedente lezione era “Caio stipula il contratto con Sempronio perché questi gli minaccia di bruciare la causa” e la soluzione, del caso così esemplificato, era appunto l’annullamento del contratto e non la sua nullità, dato che, così si era ragionato, in prosieguo Caio avrebbe potuto trovare conveniente quel contratto che aveva stipulato solo sotto minaccia – qui però non é così). Chiaro che nel caso (idest, nel caso invece esemplificato nella presente lezione) manca la causa e il contratto é nullo, in quanto Sempronio, obbligandosi a non danneggiare Caio, si obbliga a quel che già, per l’articolo 635, era obbligato (quindi Caio ha stipulato un contratto per avere una tutela, che già la legge gli concedeva). Disc. Abbiamo visto dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo perché lesivo di un interesse dello Stato o di terzi, abbiamo visto dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo perché lesivo degli interessi delle parti, ma ci sono dei casi in cui il contratto viene ritenuto nullo, non perché lede qualche interesse, ma perché é una cosa inutile, un ingombrante assurdo giuridico?
Doc. Sì, ci sono anche tali casi. E si possono ricavare, alcuni, dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1346, altri dal combinato disposto degli articoli 1418 e 1325 n.3. Infatti da tali articoli risulta che il contratto é nullo quando il suo oggetto manca o é impossibile o é indeterminato o é indeterminabile. Ora é chiaro che un contratto con oggetto impossibile o indeterminato o assolutamente indeterminabile, non potendo essere eseguito, neanche può ledere l’interesse di qualcuno: é come una macchina che non può partire e, non potendo partire, non può investire nessuno. Disc. E se il contratto non é assolutamente indeterminabile, in quanto la sua determinazione é possibile ancorché rimessa all’arbitrio di una delle parti? Doc. In tal caso, il contratto sempre nullo (per un interessante raffronto vedi quanto detta il Legislatore nell’articolo 1355 a proposito della condizione meramente potestativa), dovrebbe considerarsi tale, non per vizio dello “oggetto”, ma della “causa”.
13 : E' nullo un contratto quando la sua esecuzione determina inevitabilmente l'inadempimento di una obbligazione ? Il perché della validità dei contratti costitutivi di diritti reali.
Disc.-Poniamoci in questo caso. Sempronio ha una fabbrica di bulloni e si é obbligato a consegnarne a Caio I dieci quintali, al prezzo di cento ciascuno, per il 10 settembre. Caio II, anche lui, come Caio I, ha necessità di avere dei bulloni e propone a Sempronio di vendergliene dieci quintali , anche lui, come Caio I, per il 10
settembre, ma pronto a pagare,non cento come Caio I, ma duecento. Sempronio siccome la sua fabbrica non ce la fa a produrre 20 quintali per la data richiesta sia da Caio I che da Caio II - deve scegliere e sceglie di accettare la proposta di Caio II : il contratto così stipulato tra Caio II e Sempronio, é valido, o no, ecco il problema. Mi porterebbe a dire di no, quel che si é detto nel precedente capitolo sul perché della nullità del contratto avente oggetto illecito : e infatti il legislatore - se, dopo aver promesso a Caio I “Io, Stato, mi impegno a costringere Sempronio ad adempiere il contratto con te stipulato, quindi a darti dieci sacchi di bulloni”, a Caio II ancora promettesse “ Io, Stato italiano, mi impegno a costringere Sempronio a darti dieci sacchi di bulloni” - chiaramente cadrebbe in contraddizione ( in quanto, costringere Sempronio a dare dieci sacchi a CaioII, significherebbe impedirgli di dare dieci sacchi a Caio I). D'altra parte, indubbiamente é interesse del legislatore che i dieci sacchi di bulloni siano dati a chi, di questi, userà per produrre le cose più utili alla gente, e il fatto che Caio II sia disposto a pagare i bulloni il doppio , fa presumere che userà di questi per fare cose, che la gente é disposta a pagare il doppio, in quanto a lei doppiamente utili rispetto a quelle altre cose che, con i bulloni, intende fare Caio I. E, in definitiva, valutati i pro e i contro, la soluzione che mi pare la più giusta, é quella di ritenere valido il contratto tra Sempronio e Caio II e di obbligare Sempronio a risarcire a Caio I il danno conseguente al suo inadempimento. Tu che ne pensi? tu pensi che sia valido un contratto, quando l'adempimento di una delle obbligazioni, che alle parti ne derivano, costringe all'inadempimento di altra obbligazione verso un terzo?
Doc.- Certamente é importante per lo Stato dimostrare ai suoi sudditi di saper mantenere le promesse fatte, nel caso costringendo Sempronio ad adempiere la sua obbligazione verso Caio I ( e, bada, costringere a ciò Sempronio, allo Stato non sarebbe difficile : basterebbe che dichiarasse la nullità del contratto che Sempronio ha concluso con Caio II ). Però , come tu hai bene osservato, non sempre, costringere il debitore ad adempiere alle sue obbligazioni, é utile alla società. Il caso da te fatto, di ciò é un esempio. Volendone aggiungere un altro, si può pensare al caso seguente : Sempronio avendo nella sua villa una fonte molto salutifera si é obbligato a permettere a Caio I di attingervi quando vuole. Metti ora che un grosso imprenditore, Caio II, volendo
costruire un grattacielo sul terreno di Sempronio, gli proponga : “Vendimi la tua villa e ti darò un milione”. Chiaro che, non solo Sempronio, ma la società tutta, ha interesse che il contratto tra Sempronio e Caio II si concluda e che il grattacielo si faccia, dando così lavoro e una abitazione a centinaia di persone.
Disc. E allora ? Dì qualcosa di preciso. Nel caso che una persona abbia stipulato, prima, il contratto A, e, dopo, il contratto B, la cui esecuzione comporta la violazione del contratto A, il legislatore ritiene valido tale contratto posteriore B ?
Doc. La cosa non liquet, non é chiaro il pensiero del legislatore sul punto. Però si può dire che ci sono dei casi in cui indubbiamente, almeno a mio parere, il legislatore ritiene la validità del contratto posteriore B e, bada, a prescindere che chi l'ha stipulato sapesse o no del precedente contratto A.
Disc. Citami alcuni di questi casi.
Doc.-Pensa al caso di Sempronio, che dà in locazione il suo appartamento di via Roma a Caio I. Poi, riceve da Caio II una migliore offerta e fa un altro contratto, con cui dà in locazione l'appartamento a questi. Se Caio II é lesto e occupa l'appartamento prima di Caio I, l'articolo 1380 attribuisce a lui il “godimento” dell'appartamento (e ciò, a sua volta, significa che il legislatore considera il contratto tra Caio II e Sempronio perfettamente valido ).
Disc. Ma che dice precisamente l'articolo 1380 ?
Doc.- Ecco quel che dice : “Se con successivi contratti, una persona concede a diversi contraenti un diritto personale di godimento relativo alla stessa cosa, il godimento spetta al contraente che per primo l'ha conseguito”.
Ti faccio un altro caso ( in cui risulta la volontà del legislatore di ritenere valido ed efficace il contratto posteriore ). Sempronio, dopo aver venduto il suo appartamento a Caio I, lo vende a Caio II ( naturalmente perché questi gli ha fatta una migliore offerta ). Orbene, se Caio II, pur sapendo della precedente vendita, più lesto di Caio I, prima di lui trascrive nei Registri Immobiliari il suo contratto , metti trascrive il 10 settembre mentre Caio I trascrive il 20 settembre, il legislatore , é a lui ( idest, a Caio II ) e non a Caio I , che attribuisce la proprietà dell'appartamento ( e questo,evidentemente, perché considera perfettamente valido il contratto tra Caio II e Sempronio).
Disc.. Da che risulta questo ?
Doc.- Dal secondo comma dell'articolo 2644, che di seguito ti riporto ( ma tu, leggendo, tieni presente che le parole tra parentesi sono mie e non del legislatore ) : “Seguita la trascrizione ( di un contratto, meglio di uno dei contratti previsti dall'articolo 2643 ) non può avere effetto contro colui che ha trascritto ( nel nostro esempio, Caio II ) alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore ( tale nel nostro esempio sarebbe Sempronio ), quantunque l'acquisto ( di Caio I, nel nostro esempio ) risalga a data anteriore”.
Disc.- Ma nel caso da te precedentemente fatto ( di Sempronio che dà, prima, a Caio il diritto di attingere alla fontanella della villa, e poi vende questa a Caio II ), che succederà?
Doc. Succederà che si considererà valido il contratto stipulato tra Sempronio e Caio II, anche se con ciò si verrà a dare a Caio II il potere di escludere Caio I dalla possibilità di attingere alla fontana.
Disc - Ma perché si verrebbe a dare a Caio II tale ius excludendi ? A me, invece, parrebbe che si dovrebbe applicare nel caso il principio Prior in tempore potior in iure . Infatti é vero che Caio II ha acquistato da Sempronio il diritto di proprietà , più precisamente e concretamente il fascio di diritti che il legislatore ricollega al diritto di proprietà, ma ha acquistato tale fascio di diritti dopo che Sempronio già ne aveva dato via uno di questi : precisamente il diritto di vietare ( ius excludendi ) a Caio I di attingere dalla fontanella.
Doc.- Il tuo ragionamento ha dalla sua la logica, ma ha contro il diritto positivo. Infatti il nostro Ordinamento giuridico conosce tutta una serie di diritti , denominati “diritti reali” - ( che precisamente sono : il diritto di proprietà, il diritto di enfiteusi, il diritto di usufrutto, di superficie, di uso, di abitazione , di servitù, e qui mi fermo, anche se alcuni allungano la lista con il diritto di ipoteca e di pegno e, altri ancora, con il diritto di locazione ) - i quali sono, per così dire, dei super-diritti o, se più ti piace, dei diritti privilegiati. Ora uno dei privilegi di un diritto reale é che, chi lo acquista, con il suo acquisto, certe volte comprime e certe altre volte addirittura azzera i precedenti diritti da altri acquistati ( che potrebbero, all'esercizio del diritto reale da lui acquistato, essere di ostacolo ).
Disc- Ma oltre a tale capacità distruttiva,il diritto reale ha altre caratteristiche ?
Doc.- Ha parecchie altre caratteristiche ( può essere usucapito, é soggetto al regime delle trascrizioni nei registri immobiliari....) ; ma la sua più importante caratteristica é che, una volta acquisito, la sua esistenza non dipende più dalla volontà di chi lo ha concesso : abbiamo visto che Sempronio, il quale ha concesso, in un primo tempo, a Caio I il diritto di attingere alla fontanella, in un secondo tempo, ha la possibilità di privare Caio I di tale diritto ( vendendo a Caio II ); ora tale possibilità, che Sempronio ha con Caio I, non ce l'ha più con Caio II, che da lui ha acquistato il diritto ( reale ) di proprietà ( purché ben s'intende, Caio II provveda a trascrivere tempestivamente il contratto che dà vita a tale suo diritto ).
Disc- Ma allora, tornando all'esempio prima fatto, se Caio I fosse stato tanto furbo di acquistare, non un semplice diritto di attingere acqua, ma un diritto reale di attingere acqua, avrebbe poi potuto opporre a Caio II “ Non mi importa nulla del grattacielo che vuoi costruire, io ho diritto di continuare ad attingere dalla fontanella quando mi pare e piace”- ?
Doc.- In teoria, sì ( se il diritto da lui acquistato é effettivamente un diritto reale ). Ma tieni presente che non sempre il legislatore riconosce alle parti il potere di arricchire, diciamo così, del privilegio della realità, il diritto oggetto del loro contratto (e il caso da te fatto, é proprio uno dei casi in cui il legislatore non concederebbe tale potere ). E il legislatore non sempre riconosce alle parti tale diritto, proprio perché, come abbiamo prima visto, ci sono casi in cui é opportuno lasciare alle parti un margine di discrezionalità nell'adempimento dei loro obblighi. Torniamo all'esempio prima fatto di Caio, che vuole acquistare il diritto di attingere alla fontanella. E metti che Sempronio e Caio I , solo che l'avessero voluto, avessero potuto adornare, diciamo così, il diritto di attingere acqua, del privilegio della realità. Lo fanno e, poi, Caio II si presenta pronto a dare un milione pur di poter costruire il suo grattacielo. Ebbene a lui, Sempronio, se veramente avesse avuto e usato il potere di rivestire, il diritto concesso a Caio I, del carattere della realità, sarebbe stato costretto a rispondere “Mi rincresce, signor Caio II, io ho, sì, il potere di venderle la villa, ma lei, se l'acquista, non avrà il potere di costruire il grattacielo, perché a ciò osterà il diritto di Caio I di attingere acqua alla fontanella”. Bel guaio, no?! se Sempronio, avendosi legate incautamente le mani, fosse costretto a rispondere così! Bel guaio per lui e per la società tutta.
Disc-. Ma Sempronio e Caio I - nei casi in cui il legislatore sarebbe disposto a concedere loro la facoltà di rivestire del carattere della realità il diritto, che, del loro contratto, é oggetto - possono rinunciare a tale facoltà ?
Doc- Certamente, sì. Mettiamoci nel caso che il nostro Caio I voglia acquistare il diritto di passare nel fondo finitimo di Sempronio ( metti, per poter più facilmente
accedere alla strada comunale ) e, naturalmente, Sempronio consenta a concedere tale diritto. In questo caso, é pacifico che Caio I e Sempronio potrebbero rivestire tale diritto del carattere della realità ( in linguaggio leguleio, é pacifico che Caio I e Sempronio potrebbero costituire un diritto di servitù e precisamente il diritto di servitù di passo ). Però nulla vieta che Sempronio conceda a Caio II il diritto di passo con la clausola che, se mai venderà il suo fondo, il suo acquirente non sarà obbligato a permettere il passo.
Disc.- In quali casi il legislatore concede alle parti di rivestire un diritto del carattere della realità ?
Doc. Nei casi in cui ciò verrebbe ad aumentare la ricchezza nazionale. Sono consapevole che la mia é una risposta quasi lapalissiana , ma, data la natura dell'opera, di più non posso diffondermi a dire sul punto.
14 – La condizione Doc. Abbiamo visto (parlando dell’errore come causa di annullamento di un contratto) che la Legge non attribuisce nessuna rilevanza giuridica agli eventi, sul cui verificarsi o no, una parte ha basato il suo calcolo di convenienza relativo alla stipula del contratto: Caio ha acquistati da Sempronio cento quintali di grano al fine di venderli in Argentina, calcolando che questo Paese, venga colpito da una siccità che azzeri la raccolta del grano e renda prezioso quello importato dall’estero: il fatto che la siccità non si sia verificata nulla toglie all’efficacia del contratto: Caio dovrà lo stesso pagare a Sempronio il grano.
Disc. Quindi si può dire che Caio stipulando il contratto accettava che l’alea dell’evento “siccità in Argentina” ricadesse su di lui. Doc. E’ così. Però il Legislatore offre a Caio un modo molto semplice di liberarsi da tale alea. Disc. Quale? Doc. Convenire con la controparte che gli effetti del contratto si verificheranno solo se si verificherà l’evento A (“siccità in Argentina”) o anche stabilire che gli effetti del contratto verranno meno se tale evento A non si sarà verificato. Disc. Da quale articolo risulta questa utilissima possibilità data a Caio? Doc. Risulta dall’articolo 1353, che (sotto la rubrica “Contratto condizionale”) così recita: ”Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione di un contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro o incerto”. Quando la produzione degli effetti giuridici del contratto é subordinata al verificarsi, o no di un evento, si parla di condizione sospensiva, quando é invece subordinata, al verificarsi (o no) di un evento, la cessazione di tali effetti, si parla di condizione risolutiva. Disc. Però l’articolo 1353 solleva Caio solo dall’alea connessa al verificarsi, o no, di un “avvenimento futuro e incerto”; mentre Caio potrebbe subire l’alea di un avvenimento passato ma per lui, soggettivamente, incerto (“Io, Caio, avrei la convenienza ad acquistare il grano in Italia per rivenderlo in Argentina, se questo Paese fosse stato colpito dalla siccità, ma purtroppo non so se tale siccità ci sia stata o no realmente”). Doc. Ma il Legislatore non intende con il disposto dell’articolo 1353 togliere a Caio la possibilità di evitare l’alea, connessa a un evento passato ma per lui incerto, inserendo nel contratto una clausola che ne subordini l’efficacia o ne stabilisca la risoluzione a seconda che si sia verificato, o no, quell’evento. La possibilità di inserire tale clausola a Caio nessuno la contesta. Semplicemente tale clausola non si chiama “condizione” ma “supposizione” o “condizione impropria” e a lei non si applicano alcune norme che, alla “condizione propria”, si applicano – e stando che la
individuazione delle norme che si applicano alla “condizione propria” e non a quella “impropria” é intuitiva, io neanche mi preoccuperò di indicartele e proseguirò il mio discorso con riferimento unicamente alla clausola etichettata “condizione”. Disc. Limitiamoci allora a parlare solo della condizione propriamente detta: da quel che capisco Caio potrà realizzare il suo scopo pratico di sollevarsi dall’alea connessa all’evento “siccità in Argentina”, sia inserendo nel contratto una condizione sospensiva (“Il contratto avrà efficacia solo se si sarà verificata la siccità”) che risolutiva (“Il contratto perderà efficacia se la siccità non si sarà verificata”) Doc. E’ così: la differenza sarà solo che, nel primo caso (condizione sospensiva), Caio potrà aspettare di pagare il prezzo e Sempronio potrà aspettare di dare la merce fino al realizzarsi della condizione; nel secondo (condizione risolutiva), Caio e Sempronio dovranno subito adempiere le loro obbligazioni, ma con l’obbligo, nel caso si verifichi la condizione (risolutiva), di dover restituire, il primo (Caio), il grano e, il secondo (Sempronio), i soldi. Disc. Quindi inserendo la condizione sotto forma risolutiva implicitamente accetteranno il rischio, il primo (Caio), di...non rivedere più i suoi soldi e, il secondo (Sempronio), di non rivedere più i sacchi di grano o di rivederli deteriorati. Doc. E’ così. Ma sul punto mi riservo di ritornare, se il tempo a mia disposizione mi permetterà di parlare dell’articolo 1361 – articolo che disciplina, sì, solo la sorte spettante agli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, pendente la condizione, é spettata la gestione della cosa (oggetto del contratto), però dà l’occasione all’interprete di dire su quale parte vengono a gravare i danni intervenuti durante tale gestione (su chi viene a gravare il deterioramento del grano acquistato da Caio, per riferirci all’esempio prima fatto). Disc. Le parti possono convenire che l’efficacia del contratto sia subordinata al verificarsi di qualsiasi tipo di evento? Doc. A questa tua domanda risponde l’articolo 1354, che (sotto la rubrica “Condizioni illecite o impossibili”), nei suoi due primi commi recita: “E’ nullo il contratto al quale é apposta una condizione, sospensiva o risolutiva, contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. - La condizione impossibile rende nullo il contratto se é sospensiva; se é risolutiva, si ha come non apposta”.
Potrai meglio comprendere, quando si abbia una condizione contraria all’ordine pubblico o al buon costume, ricordando quanto detto a proposito di questi concetti parlando della nullità del contratto dovuta a “causa illecita” (art. 1343) e potrai meglio comprendere, quando si abbia una condizione contraria a norme imperative, tenendo presente che tale é non solo quella condizione, che una norma proibisce di inserire in un contratto, ma altresì quella (condizione) che subordina l’efficacia o la risoluzione di un contratto a un comportamento illecito (insomma, il legislatore, parlando nell’articolo in esame di “condizione contraria a norme imperative”, vuole esprimere un concetto comprensivo sia della “causa illecita in quanto contraria norme imperativa” di cui parla l’articolo 1343, sia dello “oggetto” illecito del contratto, di cui parla nell’articolo 1346). Disc. Quindi sarebbe nullo il contratto a cui fosse apposta ad esempio la condizione “Se il capo dello Stato sarà ucciso, io, Caio, mi obbligherò a dare a te, Sempronio, tot, e tu. Sempronio, mi venderei l’immobile A”. Doc. No, in tal caso il contratto non sarà per niente nullo. Infatti la ratio dell’articolo 1354 é quella di ritenere inammissibili le condizioni che possano sollecitare una delle parti (quella interessata all’avveramento della condizione) a un comportamento contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume. Disc. La condizione da me portata come esempio, però potrebbe sollecitare a ciò qualora una delle parti fosse un anarchico o comunque una persona interessata all’uccisione del capo dello Stato. Doc. Giusta correzione: in realtà il giudizio sull’illiceità della condizione va ponderato tenendo conto della qualità delle parti e di tutto il contesto in cui il contratto é stipulato. Disc. Quanto alla condizione impossibile, mi pare chiaro il perché essa renda nullo il contratto, se sospensiva (il contratto in tal caso é come una macchina senza motore che va...rottamata) e il perché vada, invece, considerata come non apposta, se risolutiva (“condizione risolutiva che non potrà mai avverarsi” = a macchina che sicuramente nella sua futura marcia non incontrerà intoppi, e allora perché mettere su tale macchina il cartello “Attenzione: possibilità che non si arrivi al capolinea”, ché tale é il messaggio che viene a dare la condizione risolutiva a chi la legge?)
Pertanto passo a un’altra domanda: dovrebbero considerarsi validi dei contratti così “condizionati”: “Il contratto con cui, io, Caio, compro da te,Sempronio, il fondo A sarà efficace a condizione che io nel futuro tale lo dichiari”, “La compravendita con cui io, Caio, acquisto da te, Sempronio, la casa A, sarà valida a condizione che tu dia il bianco alle sue facciate”? Doc. No, tali contratti dovrebbero considerarsi invalidi, ai sensi dell’articolo 1355, che (sotto la rubrica “Condizione meramente potestativa”) recita: “E’ nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”. Disc. Quale la spiegazione di ciò? Doc. La spiegazione che viene più spontanea – in quanto suggerita dal fatto che l’invalidamento del contratto assume la forma, non dell’annullamento, ma della dichiarazione di nullità – é che questa nullità, dal Legislatore, sia stabilia a tutela dell’interesse, non delle parti, ma di un terzo. E infatti ben potrebbe il contratto sottoposto a condizione meramente potestativa ledere, di un terzo, gli interessi. Disc. Perché? Doc. Perché una parte del contratto, Caio, per la prima parte dell’articolo 1357 (che recita “Chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporne in pendenza di questa”) potrebbe, ancorché sia ancora pendente la condizione, disporre dell’immobile A acquistato dalla controparte, Sempronio, vendendolo a Flavio; e perché, per la seconda parte dello stesso articolo 1357 (che recita “ma gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla stessa condizione”) la condizione meramente potestativa verrebbe, in tal caso, automaticamente a gravare anche il secondo contratto (quello stipulato da Caio con Flavio). Disc. Ma questa possibile lesione degli interessi del terzo si verifica, non solo in caso di condizione meramente potestativa, ma in ogni caso che una condizione venga apposta a un contratto: se Caio e Sempronio avessero apposto, al contratto da loro stipulato, la condizione semplice, non potestativa, “il contratto diventerà efficace solo se la nave partita dal Brasile toccherà i porti italiani”, ebbene anche in tale caso
Flavio correrebbe il rischio, comprando l’immobile A da Caio, di vedere il suo contratto gravato da tale clausola. Evidentemente la nullità del contratto non é disposta dal Legislatore per tutelare l’eventuale affidamento del terzo, di Flavio; e del resto questi, se vuole tutelarsi contro il pericolo che, il contratto che sta per stipulare con Caio, sia gravato da una condizione (da lui non desiderata), non ha che da andare all’ufficio dei Registri Immobiliari e leggersi il contratto stipulato da Caio con Sempronio. In conclusione a me sembra più ragionevole spiegare la nullità del contratto sottoposto a condizione meramente potestativa, col fatto che il Legislatore ritiene inammissibile che la efficacia di un contratto dipenda dalla mera volontà di una parte. Doc. Neanche questa spiegazione é soddisfacente, perché risulta da alcuni articoli del Codice, che il Legislatore, di fronte ad accordi delle parti che fanno dipendere dalla mera volontà di una parte l’esistenza di un contratto o, più riduttivamente, l’adempimento di una obbligazione nascente da un contratto, non reagisce dichiarando la nullità dell’accordo, ma semplicemente si limita a vincolare a un termine l’espressione di tale volontà; e così il legislatore non dichiara la nullità del contratto a cui sia apposta la clausola cum voluero (art. 1183) e in particolare non dichiara la nullità del patto di opzione, del patto cioè che é disciplinato dall’art. 1331, il quale recita: “Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329. - Se per l’accettazione non é stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice”. Proprio in considerazione di tutto questo, io ritengo che la migliore spiegazione della nullità del contratto subordinato a condizione meramente potestativa, sia che il Legislatore non ritenga ammissibile subordinare l’efficacia di un contratto al verificarsi di un quid (la dichiarazione della volontà di una parte di volere o non volere l’efficacia del contratto) che, potendo (appunto perché dipende dalla mera volontà di una parte), realizzarsi subito o in un determinato e ragionevole lasso di tempo, viene invece lasciato, nel tempo, indeterminato. Disc. Però, se il legislatore veramente volesse che un contratto non sottostasse per un tempo indeterminato alla spada di Damocle del verificarsi di un futuro evento, dovrebbe...eliminare l’istituto della condizione, dato che buona parte delle condizioni, forse la maggior parte di esse, sono incerte, non solo nel an, ma altresì nel quando.
Doc. Ma una persona può rassegnarsi a un inconveniente quando non lo può evitare, e invece evitarlo quando lo può. Voglio dire, il legislatore può rassegnarsi all’inconveniente che l’efficacia del contratto dipenda da un quid il cui verificarsi sia indeterminato nel tempo, se eliminare tale inconveniente non gli é possibile, se non sacrificando l’aspettativa di una parte all’efficacia del contratto (l’aspettativa di Caio all’efficacia della compravendita e quindi all’acquisto dell’immobile A, nell’esempio prima fatto); mentre può decidere di eliminare tale inconveniente, se ciò gli é possibile. Disc. E come gli é possibile eliminare l’inconveniente della mancanza di un termine posto alla parte, del tipo “Tu, Caio, entro tre mesi devi dichiarare se vuoi che il contratto sia o no efficace” -? Doc. Gli é possibile, dichiarando la nullità del contratto e convertendo (ai sensi dell’articolo 1424) il contratto (così reso nullo) in un “patto di opzione” (con la conseguenza che il termine alla parte, a che dichiari la sua volontà, sarà apposto dal giudice ai sensi del secondo comma art. 1331). Disc. Voltiamo pagina. Parliamo delle condizioni, non meramente potestative, ma potestative semplici (quindi non determinanti la nullità del contratto).Vuoi farne qualche esempio? Doc. Ti farò due esempi di condizioni ritenute potestative semplici o da questo o da quello Studioso della materia (e poi mi riserverò di dire la mia opinione). Primo esempio: “Io, Caio, compro da Te, Sempronio, il terreno A, a condizione che tu presenti la domanda di concessione edilizia e il Comune, tale domanda, accetti”. Va subito notato che, nel caso esemplificato, l’efficacia del contratto dipende, sì, dalla mera volontà di una parte (dalla mera volontà di Sempronio che può decidere di presentare la domanda oppure no), ma anche da un quid aliud (che sarebbe, nell’esempio, l’accoglimento, da parte del Comune, della domanda presentata da Sempronio). Va ancora notato che la mancata presentazione della domanda non sarebbe per Sempronio indolore: infatti, tale mancata presentazione, venendo a costituire un inadempimento a un obbligo imposto dalla c.d. buona fede contrattuale, lo obbligherebbe al risarcimento. Secondo esempio: “Io, Caio, acquisto la villa A da Te, Sempronio, a condizione che
tu, prima, dia il bianco alle sue facciate, restando inteso che se tu non darai il bianco e il contratto di conseguenza diventerà inefficace, tu dovrai pagare una penale”. Anche a proposito di questo secondo esempio, vi é da notare, che, il non dare il bianco, optando di conseguenza per l’inefficacia del contratto, avrebbe un costo per Sempronio: costo rappresentato evidentemente dal pagamento della penale. Disc. Tu ritieni validi entrambi gli esempi? Doc. No, ritengo valido solo il primo. Infatti, solo nel caso del primo esempio, manca quella possibilità di fissare un ben determinato dies entro il quale, la parte interessata all’efficacia del contratto (nell’esempio, Caio), possa finalmente sapere se tale suo interesse ha avuto soddisfazione o no.. Possibilità, che viene ad evitare al legislatore la scelta secca: dichiaro nullo (ma senza conversione in patto di opzione, cioé si sarebbe tentati di dire “dichiaro assolutamente nullo”) il contratto, sacrificando le aspettative della parte che sarebbe interessata a che il contratto acquisti i suoi effetti (tanto interessata da tollerare il peso di una lunga e forse inutile attesa: Caio che nella speranza di acquisire l’immobile A sarebbe disposto anche ad aspettare per un lunghissimo tempo le decisioni di Sempronio), oppure, pur di non sacrificare tali aspettative della parte, ritengo valido il contratto? Disc. Scelta secca che, mi pare di capire, il Legislatore non può non risolvere che nel senso della validità del contratto. Doc. E certo, se il legislatore optasse per la nullità del contratto si comporterebbe come quel medico che, per guarire il paziente dal mal di denti, gli taglia... la testa: meglio per Caio aspettare pazientemente che si risolva il dile,mma “efficacia-sì” / efficacia-no” del contratto, piuttosto che perdere ogni speranza che il contratto diventi efficace. Si potrebbe anche dire: contento Caio, contento il mondo. Il Legislatore altro non può fare se non applicare il secondo comma della art. 1331, ben inteso quando l’applicazione di tale comma ha senso cioé ha veramente l’effetto di portare a fissare quel famoso dies in cui avrà risposta l’interrogativo sulla efficacia del contratto. Disc. E mi pare di comprendere che, nel caso di cui all’esempio, l’applicazione di tale comma non conseguirebbe tale scopo. Doc. No, non lo conseguirebbe; ed é chiaro perché: perché il giudice potrebbe porre,
sì, un termine a Sempronio perché presenti la domanda di licenza, ma certo non potrebbe porre un termine al Comune perché decida se concedere o no la licenza. Disc. E di conseguenza il dubbio sull’efficacia del contratto persisterebbe. Veniamo al secondo esempio. Doc. Non nego che avendo, la decisione di Sempronio di optare per la inefficacia del contratto, un costo (il costo del pagamento della penale), Sempronio abbia anche delle remore a prenderla - remore che possono rendere più improbabile e in definitiva più rara tale decisione. Ciò però non esclude l’inconveniente dell’indeterminatezza, perdurante nel tempo, sulla decisione di Sempronio. E’ quindi l’opportunità di eliminare tale inconveniente (dichiarando la nullità del contratto, convertendo poi questo in patto di opzione ecc.ecc.), cosa che si può fare solo ritenendo, la condizione la condizione de qua, meramente potestativa. Disc. Un’ultima domanda sull’argomento: una condizione risolutiva può essere meramente potestativa? Doc. La maggior parte degli Studiosi lo nega argomentando, sia dal fatto che l’articolo 1355 si riferisce solo alle condizioni sospensive sia dal fatto che il nostro Ordinamento offre l’esempio di condizioni risolutive meramente potestative, che però non rendono nullo il contratto (e con ciò gli Studiosi si riferiscono soprattutto alla c.d. “caparra penitenziale”, che concede un diritto di recesso per chi la presta – vedi l’articolo 1386). Disc. Voltiamo pagina. Tu prima hai detto, commentando il primo esempio di condizione potestativa semplice, che la c.d. buona fede contrattuale farebbe obbligo a Sempronio di presentare la domanda di licenza. Debbo da ciò dedurre che le parti sono obbligate ad attivarsi per favorire l’avveramento della condizione? Doc. No. Le parti non sono obbligate a ciò, a meno che un loro attivarsi tenendo un dato comportamento (dato, nell’esempio, dalla presentazione della domanda di licenza da parte di Sempronio) sia conditio sine qua non per il realizzarsi della condizione. Così vanno secondo me interpretati gli articoli 1358 e 1359, che recitano: il primo (l’articolo 1359): “Colui che si é obbligato o che ha alienato un diritto sotto
condizione sospensiva ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte”; il secondo (l’articolo 1359): “La condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa”. Disc. Il secondo articolo da te riportato (l’articolo 1359) sembra partire dal presupposto che solo una delle due parti nel contratto, solo Caio o solo Sempronio, possa avere interesse al non verificarsi della condizione. Invece a me sembrerebbe che entrambe le parti potrebbero avere un tale interesse. Chiarisco il mio pensiero portando questo caso: Caio propone l’acquisto del fondo A a Sempronio, il quale accetta pretendendo, però, che sia inserita nel contratto la clausola, secondo cui questo avrà efficacia solo quando arriverà in Italia quel certo suo parente portando quel certo bel pacco di dollari a cui lui, Sempronio, potrà attingere per pagare il prezzo. Ebbene, nel caso, sia Caio che Sempronio, potrebbero avere un ripensamento, che li porterebbe ad impedire l’efficacia del contratto (Sempronio potrebbe pensare col senno del poi “Chi me la fa fare di vendere per cento, come ho pattuito con Sempronio, dal momento che Flavio mi dà duecento” e Sempronio, a sua volta. potrebbe pensare “Chi me la fa fare di dare cento per quell’immobile che, a pensarci bene, non vale neanche cinquanta”. Dico bene? Doc. Dici benissimo e il legislatore si esprime molto male: solo se il mancato avverarsi della condizione sarà dovuto a Sempronio, il contratto avrà esecuzione anche se la condizione non si é avverata (imputet sibi, Sempronio, se non avrà i soldi per pagare il prezzo: se non voleva esporsi al rischio di inadempienza, non doveva impedire il verificarsi della condizione). Se al contrario il mancato avveramento della condizione é dovuto a Caio (cioé alla parte che era disponibile a concludere il contratto anche senza la condizione, perché evidentemente pensava che, anche senza di essa, le era possibile eseguire il contratto e trarne vantaggi) naturalmente la condizione non si considererà avverata, e la controparte, idest Sempronio, potrà chiedere la risoluzione del contratto, e il risarcimento dei danni a Caio (é infatti chiaro che Sempronio non può essere obbligato ad eseguire il contratto, non essendosi verificato quell’evento, che gli rendeva possibile e vantaggiosa la sua esecuzione). 15 – Risoluzione del contratto per eccessiva onerosità
Doc. Interesse della società, lo sappiamo, é che i suoi membri si scambino tra di loro beni e servizi, in altre parole che facciano dei contratti. Senonché la gente non ama le avventure se non nei film, e, più il contratto appare ad essa un’avventura, più forti sono le remore che ha per stipularlo. Per superare tali remore il legislatore deve dare soddisfazione a due diverse esigenze delle parti: quella di certezza e quella di sicurezza, che però, ahimé, sono antitetiche, nel senso che, se dai soddisfazione ad una, quasi inevitabilmente, sacrifichi l’altra. Disc. Non é che ti capisca molto; e per capirti meglio, ora farò un caso concreto e tu, poi, mi dirai che cosa vuole l’esigenza di certezza delle parti e che cosa vuole la loro esigenza di sicurezza. Caio vuol comprare da Sempronio il terreno A per edificarvi e naturalmente Sempronio, per stabilire il prezzo, si basa sull’utile che Caio potrebbe ricavare dall’acquisto: più questo utile é alto, più alto sarà il prezzo che pretenderà: tu, Caio, se ottenessi la concessione ad edificare ricaveresti dal terreno un reddito Tot = seicento, e, se non la ottenessi, ricaveresti un reddito pari solo alla metà di Tot. cioè a trecento? Allora il prezzo sarà oscillante tra trecento e seicento (e la sua fissazione dipenderà dall’abilità delle parti nel condurre le trattative). Mettiamo ora che Sempronio, abile e furbo uomo d’affari, spunti il prezzo di seicento: dimmi tu,cosa pretenderebbe la sua esigenza di certezza? Doc. Semplice, l’esigenza di certezza di Sempronio pretenderebbe che, una volta stabilito che il prezzo é di seicento, poi, Caio non si possa rifiutare di pagarlo, dicendo, che egli aveva errato nei calcoli, che non aveva tenuto conto che il Comune, nonostante tante assicurazioni datigli dal Sindaco, non avrebbe dato la licenza e così via. Disc. E in effetti di questa esigenza di Sempronio noi, studiando il vizio del consenso indotto da errore, abbiamo già parlato; e abbiamo visto che é tutelata dal combinato disposto degli articoli 1429 e 1431: tu. Caio, hai errato nel calcolo della convenienza per te del contratto (hai commesso un errore sui motivi)? peggio per te, anche se tale errore era da Sempronio conosciuto, tu non potrai chiedere l’annullamento del contratto. Questo perché Caio e Sempronio hanno diritto di concentrarsi ciascuno a fare il suo compitino, a calcolare la sua convenienza nel contratto: anche se Sempronio si é accorto che nei tuoi calcoli tu, Caio, non tenevi conto della possibilità che si verificasse il fatto A, egli non era tenuto a rompersi la testa per stabilire se, verificandosi il fatto A, il contratto non era per te conveniente: egli insomma non era
tenuto a spendere tempo e fatica per studiare al tuo posto la convenienza per te del contratto. Chiarito quel che vuole la esigenza di certezza di Sempronio, dimmi però adesso cosa pretenderebbe la esigenza di sicurezza di Caio. Doc. Pretenderebbe la risoluzione del contratto qualora il Comune non rilasciasse la licenza. Come vedi, soddisfare la esigenza di certezza di Sempronio, significa sacrificare la esigenza di sicurezza di Caio. Disc. Io non sarei così pessimista: Caio e Sempronio potrebbero pur sempre salvare capra e cavoli stabilendo il prezzo a seicento, ma subordinando l’efficacia del contratto alla condizione che la licenza fosse concessa. Doc. Ma, no, anche in questo caso la esigenza di certezza di Sempronio sarebbe lesa: egli infatti potrebbe essere, sì, certo che, una volta verificatasi la condizione, il suo diritto al prezzo di seicento non gli potrebbe essere più contestato, ma non potrebbe essere certo che la condizione si verificherà, che, quindi, il contratto avrà efficacia o no. E bada questa incertezza non sarebbe priva per lui di un danno economico: il Comune potrebbe aspettare mesi se non anni a decidere se dare o no la concessione, e durante questo tempo potrebbe bussare, alla porta di Sempronio un terzo, Flavio, per proporre per l’acquisto del terreno Tot - proposta che Sempronio dovrebbe rifiutare (bada, rifiutare col rischio che la condizione non si realizzi, e vada in fumo sia il contratto con Caio che quello con Flavio); ancora, sempre nell’incertezza che il contratto si faccia, Sempronio, sì, potrebbe coltivare il terreno, ma dovrebbe rinunciare a quelle migliorie che ne aumenterebbero il reddito (dato che, se la licenza fosse concessa, di tale maggiore reddito finirebbe per godere solo Caio). Come vedi tutti questi inconvenienti (e altri ce ne potrebbero essere) si traducono in soldi, soldi che Sempronio perde. Disc. Mi rendo conto che l’inserimento della condizione, di cui prima ho detto, si risolverebbe in un rischio e quindi in un costo per Sempronio, ma tale costo potrebbe essere compensato da una maggiorazione del prezzo: questo, invece di essere fissato in seicento, potrebbe essere fissato in settecento. Doc. Sì, indubbiamente l’apposizione al contratto, anche se con una correzione del prezzo, di una “condizione”, potrebbe essere una soluzione; ma non del tutto
soddisfacente, però, in quanto l’esistenza della condizione verrebbe a creare un’alternativa secca: efficacia del contratto (se la condizione si realizza) oppure risoluzione del contratto (se la condizione non si realizza): tertium non datur, anche se le parti potrebbero avere ancora interesse alla stipula del contratto, solo che il prezzo fosse ridotto. Disc. Ma chi impedisca a Caio e Sempronio di stabilire il prezzo in seicento con l’accordo che, se la licenza non viene concessa, il contratto non si risolve, ma si riduce il prezzo in modo da renderlo adeguato al minor reddito che, dal terreno, Caio ricaverà, non potendo edificarvi ma solo potendo coltivarlo a patate e cavoli? Doc. Nessuno. Ed in effetti proprio questa é la soluzione che il legislatore i adotta nella disciplina del contratto di appalto e negli artt. 1467 e segg. Disc. Com’é la disciplina del contratto di appalto sul punto? Doc. La disciplina del contratto d’appalto in sintesi (ma tu vedi melius gli articoli 1664 e 1660) prevede che “qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti e diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo” e che “se nel corso dell’opera si manifestino difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, questi ha diritto a un equo compenso”; questo nell’articolo 1664, nell’articolo 1660 poi prevede che se “per l’esecuzione dell’opera a regola d’arte é necessario apportare variazioni al progetto e le parti non si accordano, spetta al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo”. Disc. E l’articolo 1467 che dice? Doc. L’articolo 1467 (che ha la sua sede nella sezione terza intitolata “Dell’eccessiva onerosità” e ha per rubrica “Contratto con prestazioni corrispettive”) così recita: “Nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti é divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’art. 1458. - La
risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto.- La parte contro la quale é domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”. Disc.Data l’importanza di questo articolo é opportuno procedere a un suo più approfondito esame. Comincia a dire quali sono i presupposti a che Caio - che si é obbligato con Sempronio a consegnargli, cento tappeti persiani - possa ottenere la risoluzione del contratto ai sensi dell’articolo 1467. Doc. Tali presupposti sono: I – La eccessiva onerosità della prestazione. II- La mancanza di una offerta della controparte di modificare equamente le condizioni del contratto. III.- L’essere dovuta tale eccessiva onerosità ad avvenimenti straordinari e imprevedibili. IV – L’essere intervenuta tale eccessiva onerosità dopo la stipula del contratto. Disc. Un breve commento per ciascuno di tali presupposti cominciando dal primo: quando può considerarsi eccessivamente onerosa la prestazione? Doc. Il legislatore non lo dice. Ma l’interprete può ricavare un criterio orientativo per determinare ciò, dagli articoli sull’appalto che sopra abbiamo riportati: il metro per misurare la eccessività della prestazione é dato dalla sua onerosità al momento della stipula; e non occorre, per ritenere eccessiva la onerosità, che essa sia raddoppiata, o triplicata, insomma aumentata di moltissimo: potrebbe anche ritenersi eccessiva, l’onerosità, quando supera di un sesto il valore della controprestazione. Ciò che va escluso é che il legislatore ritenga eccessiva l’onerosità solo quando essa ponga in difficoltà (economica) la parte che chiede la risoluzione - Caio, nell’esempio. Il legislatore non dà a Caio la chance della risoluzione per evitargli un tracollo economico, ma solo per permettergli di riportare a un giusto equilibrio le prestazioni sue e di Sempronio. Disc. Quindi, a quell’equilibrio che tali prestazioni avevano al momento del contratto. Doc. Non é detto. Ma questo lo vedremo meglio quando parleremo del terzo comma
dell’articolo in esame. Disc. Tu attribuisci all’articolo 1467 lo scopo di eliminare il disquilibrio verificatosi nel tempo tra le prestazioni di Caio e Sempronio; ma se così é, debbo concludere che la risoluzione può essere domandata da Caio, non solo quando é aumentato il costo della sua prestazione (perché é aumentato il costo della materie prime, il costo del lavoro, il costo del trasporto del tappeto finito ecc.), ma anche quando é diminuita per lui l’utilità della controprestazione di Sempronio: dopo che già Caio ha stipulato il contratto con Sempronio, bussa alla sua porta Flavio disposto a offrirgli, in cambio dei cento tappeti, non Tot (il prezzo stipulato con Sempronio), ma il doppio di Tot, oppure, Sempronio si é obbligato a dare in cambio dei tappeti un autoveicolo e Caio si é accorto che, di tale autoveicolo, non ha più necessità (metti, perché tale autoveicolo serviva per trasportare e vendere dei tappeti a Bagdad, ma tale possibilità, di esportare i tappeti in tale città, é sfumata). Doc. No, il legislatore non intende dare, con l’articolo 1467, la possibilità a Caio di risolvere il contratto nel caso di un calo di utilità della controprestazione. Ciò si ricava facilmente dall’articolo 1465. In base a tale articolo, se Sempronio, in cambio dei tappeti si é obbligato a dare a Caio quel certo quadro che adorna la sua casa e questo quadro (dopo la stipula del contratto) perde di valore, metti perché deterioratosi o addirittura viene distrutto, Caio non può chiedere la risoluzione del contratto perché l’utilità della controprestazione si é per lui ridotta (anche grandemente!) o addirittura si é azzerata. Del resto non mi risulta che qualcuno sostenga che, essendosi Sempronio obbligato a dare duecento euro ed essendosi svalutato l’euro metti del cento per cento, Caio possa chiedere la risoluzione del contratto, dal momento che il valore della controprestazione (la capacità di acquisto degli euro) si é ridotto alla metà. Disc. Passiamo al secondo presupposto, che deve esistere a che Caio possa domandare la risoluzione: il non avere Sempronio offerto “di modificare equamente le condizioni del contratto”. Doc. Sì, se lo scopo dell’articolo 1467, concedendo la risoluzione del contratto, é quello di liberare una parte, Caio, dall’eseguire una prestazione quando il valore di questa é diventato squilibrato rispetto al valore della controprestazione, ben si comprende che il Legislatore (con il terzo comma dell’articolo in esame), tale risoluzione, escluda, una volta che la controparte, Sempronio, accetti di riequilibrare
le due prestazioni. Disc. Torno alla domanda che già prima ti ho fatta: la prestazione di Sempronio va modificata al fine di ricreare, tra essa e quella di Caio, lo stesso equilibrio che tra loro vi era al momento della stipula del contratto? Chiarisco l’idea: metti che Caio abbia preteso da Sempronio, al momento della stipula, duecento, mentre il prezzo che si operava nel mercato dei tappeti era la metà del prezzo, da Caio, preteso (cioé, cento), se l’onere della prestazione per Caio si fosse quadruplicato, Sempronio dovrebbe aumentare il valore della sua prestazione a ottocento oppure solo alla metà di ottocento, cioé a quattrocento? Doc. Anche se la cosa può essere discutibile, io ritengo che Sempronio sia tenuto a elevare la sua prestazione solo fino a creare il giusto equilibrio (cioé fino al livello di quattrocento) e non fino a ricreare il precedente equilibrio, quello esistente al momento della stipula. A tale conclusione mi porta la considerazione: 1) che nel terzo comma in esame, si parla di “modifica equa” del contratto; 2) che, il fatto che, in tale terzo comma, si parli di “modifica delle condizioni” (e non semplicemente della controprestazione), fa pensare che, quello che si chiede al giudice, non é un semplice calcolo matematico (la onerosità é aumentata del quadruplo, quindi, io, giudice, aumento del quadruplo la prestazione di Sempronio), ma un riesame condotto funditus delle precedenti condizioni contrattuali – riesame che mancherebbe di ragion sufficiente se mirasse solo a ritoccare la controprestazione di Sempronio; 3) dal fatto che negli articoli 1660 e 1664 (già riportati), sì, l’aumento di onerosità della prestazione dell’appaltatore, viene misurato in una percentuale del prezzo (dell’appalto), ma, l’aumento della prestazione del committente (l’appalto). viene, invece, determinato con riferimento all’equità; 4) che pare giusto che il Legislatore non si faccia complice di C nel perpetuare una prepotenza (economica), ma approfitti della domanda di risoluzione per eliminare (il più possibile) tale prepotenza. Disc. Passiamo ora all’esame del terzo presupposto: l’essere dovuta l’eccessività dell’onere gravante a Caio ad “avvenimenti straordinari e imprevedibili”. Doc. Che la risoluzione del contratto, a Caio, sia concessa solo quando era da lui imprevedibile l’avvenimento, che ha causato l’aumento dell’onerosità della sua prestazione, é giustificato dal fatto che, sia la risoluzione, sia la modifica del contratto per riequilibrare le prestazioni, comportano un danno per Sempronio (infatti, se il contratto é risolto, Sempronio perde la possibilità di conseguire quei vantaggi, che,
col contratto, si era proposto, se, invece,il contratto non é risolto ma la sua prestazione viene modifica in aumento, Sempronio vede scombussolato il calcolo economico da lui fatto). Subordinare la risoluzione all’imprevedibilità dell’avvenimento significa pungolare Caio ad operare il calcolo di convenienza con diligenza. Disc. Sì, ma con quale diligenza? Con una super-diligenza, così come porterebbe a credere la endiade (“avvenimenti straordinari e imprevedibili) o con la diligenza del buon padre di famiglia? Doc. Con la diligenza che si pretende dall’operatore medio nel settore di commercio a cui si riferisce il contratto: se si tratta di un contratto di appalto, con la diligenza di un buon appaltatore. L’aggettivo “straordinari”, infatti, non deve essere considerato un rafforzativo dell’aggettivo “imprevedibili”; se non altro perché l’espressione “l’avvenimento A é straordinario” di per sé non significa che l’ avvenimento A sia molto probabile, ma solo che non si é verificato secondo il suo normale ordine di probabilità: se l’eruzione del Vulcano A avviene normalmente una volta ogni decennio, qualora tale eruzione avvenga due volte in un decennio, la seconda eruzione si qualificherà come evento straordinario, anche se, in definitiva, era poco probabile che si verificasse. Disc. Allora qual’é la funzione di tale aggettivo? Doc. Tale aggettivo ha la funzione, non di enfatizzare il grado di diligenza richiesto a Caio, ma di limitare, l’applicabilità dell’articolo 1467, subordinando la risoluzione, non a un qualsiasi avvenimento dannoso,sì, ma dannoso (in quanto abbia determinato l’aumento della onerosità) solo per a Caio (pensa all’incendio del magazzino in cui Caio teneva le materie prime occorrenti per fare i tappeti), ma a un avvenimento dannoso relativo a tutta una categoria di operatori economici: ad esempio, a tutta la categoria degli appaltatori (pensa a un aumento delle materie prime). Disc. Passiamo (finalmente!) all’ultimo presupposto a cui é subordinata la proponibilità della domanda di risoluzione: l’essere intervenuta, l’onerosità, dopo la stipula del contratto. Doc. Il legislatore evidentemente ritiene che, se, l’avvenimento determinante la maggiore onerosità della prestazione, esisteva prima della conclusione del contratto,
lungi dall’essere imprevedibile, non poteva non essere da Caio conosciuto e tenuto presente nel calcolo della controprestazione da richiedere. Disc. Noi abbiamo fatto finora l’ipotesi di un contratto a prestazioni corrispettive; ma non può farsi l’ipotesi di una prestazione (eccessivamente onerosa) che ha la sua fonte in un contratto con obbligazioni di una sola parte? Doc. Certamente sì; e infatti il legislatore prevede tale ipotesi nell’articolo 1468 che (sotto la rubrica “Contratto con obbligazioni di una sola parte”) recita: Nell’ipotesi prevista nell’articolo precedente, se si tratta di un contratto nel quale una sola delle parti ha assunto obbligazioni, questa può chiedere una riduzione della sua prestazione ovvero una modificazione nelle modalità di esecuzione, sufficienti per ricondurla ad equità”. Disc. Però l’articolo 1468 non concede alla parte onerata, a Caio, il diritto di domandare la risoluzione, perché? Doc. Perché, la concessione del potere di chiedere la risoluzione, può dare luogo ad abusi, se non vi é una controparte che può bloccarla – ma bloccarla naturalmente per ragioni la cui serietà é garantita dal fatto che essa é disposta ad accettare una modifica delle sue prestazioni; cosa quest’ultima che naturalmente nel contratto con obbligazioni di una sola parte non é concepibile (cosa potrebbe offrire di modificare il beneficiario dell’obbligazione di Caio, dal momento che egli a niente é obbligato?). Disc. Ora ti faccio due casi e tu mi dici se rispetto ad essi é applicabile l’articolo 1467. Primo caso. Caio vende a Sempronio l’immobile A per cento – prezzo che sarebbe spropositato se sia Caio che Sempronio non partissero dal presupposto che il Comune rilascerà la licenza edilizia. Però invece accade proprio questo: il Comune non rilascia la licenza”. Secondo caso: Caio prende in locazione da Sempronio un appartamento su una via di Londra per cento al mese – prezzo che sarebbe spropositato se sia Caio che Sempronio non partissero dal presupposto che proprio per tale via passerà nel giorno tal dei tali il corteo della Regina – Purtroppo il giorno tal dei tali la Regina si prende... l’influenza e il corteo non si fa”. Domanda: può applicarsi nei due casi ora riportati l’articolo 1497?
Doc. Chiaramente, no. Infatti abbiamo visto che una parte non può chiedere la risoluzione per il fatto che é diminuita per lei l’utilità della controprestazione (e nei casi da te fatti, la domanda di risoluzione avrebbe la sua ragione, nel primo, nella diminuita utilità del terreno, in quanto non più edificabile e, nel secondo, nella diminuita utilità dell’appartamento, in quanto da esso non si può più vedere passare il corteo). Disc. Però, a prescindere da una applicabilità dell’articolo 1467, il fatto che il prezzo (troppo alto) si giustifichi solo con il fatto che entrambe le parti presupponevano ecc.ecc.. non rileva per ritenere la risolubilità del contratto? Doc. Effettivamente non pochi Studiosi ritengono che questo fatto (il fatto cioé che le parti abbiano deciso di stipulare il contratto solo sul presupposto dell’esistenza di una data circostanza di fatto o di diritto) giustifichi (se la circostanza poi non si verifica) la risoluzione del contratto stesso; e pertanto tali Studiosi si sono fatti propugnatori di una teoria detta appunto della “Presupposizione”. Disc. Più precisamente quando si ha secondo tali Studiosi una “presupposizione”? Doc. Ti rispondo con le seguenti parole (da me lette nel vol. III, pag. 519, di “Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale”- opera diretta da. G.Alpa e M. Bessone): “Con massima pressoché costante la giurisprudenza afferma che si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto, desumibile dal contenuto del negozio pur in mancanza di un espresso riferimento, di cui le parti hanno tenuto conto in modo da costituire il presupposto obiettivo del negozio, risulta difforme da quella sopravvenuta indipendentemente dalla loro volontà”. Disc. Ma questa teoria della presupposizione a te sembra valida? Doc.Io non la ritengo tale. Infatti. O tu desumi da una norma di diritto che il contratto é risolubile quando le parti hanno consentito al contratto nel presupposto ecc.ecc – ma io non conosco nessuna norma da cui ciò si possa argomentare, oppure lo desumi dalla volontà delle parti - beninteso, però, da una volontà delle parti di subordinare l’efficacia del contratto alla condizione che un dato fatto (il fatto “presupposto”) non si verifichi. Disc. E tu ritieni che negli esempi fatti, non avendo le parti espressamente subordinata
l’efficacia del contratto al non verificarsi di tale fatto, cioé essendo la condizione, da esse voluta, rimasta implicita e non espressa, di tale condizione non si possa tenere conto? Doc. No, io non dico che di una condizione non si possa tenere conto quando é solo implicita. Al contrario ritengo che, se, in via di interpretazione, si accerta che le parti hanno voluta una certa “condizione”, di essa debba tenersi conto, anche se non espressa (a patto, però, che per il contratto, a cui dovrebbe accedere la “condizione, non sia imposta la forma scritta, com’é nel primo “caso” da te portato; perché in tal ipotesi, la necessità della forma scritta prevista per il contratto, sussisterebbe anche per la clausola che esprime la “condizione”). Dico solo che di una condizione si può tenere conto solo se é realmente...una condizione. E perché si possa parlare di contratto condizionato al verificarsi del fatto A, non basta che Caio e Sempronio, le parti del contratto, abbiano fissato un dato prezzo nel presupposto che tale fatto A sopravvenga, no assolutamente: occorre che le parti abbiano voluto subordinare al verificarsi di tale fatto il contratto, ciò che va provato e non può certo considerarsi provato dal semplice fatto che le parti avevano stipulato il contratto nel presupposto che si verificasse il fatto A, dato che io, Caio, posso benissimo accettare il prezzo di cento nel presupposto (e, sarebbe meglio dire, nella speranza) che si verifichi il fatto A, ma senza volere con ciò apporre una “condizione” che subordini l’efficacia del contratto al verificarsi del fatto A (metti, perché, come abbiamo visto, l’apposizione di una condizione, ha un prezzo, che a me Caio non piace pagare). 16- Dell’impossibilità sopravvenutaDoc. Parleremo oggi della “impossibilità sopravvenuta”: artt. 1463 e segg. L’impossibilità della prestazione quando sussiste al momento della conclusione del contratto, determina, come abbiamo visto in una precedente lezione, la nullità del contratto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 1346 e 1418; quando invece é sopravvenuta, bisogna distinguere se tale impossibilità non é oppure é imputabile a un fatto del debitore. Questo perché - mentre in entrambi i casi, la prestazione non potrà essere eseguita (proprio perché “impossibile”) e il debitore non potrà chiedere la controprestazione (perché altrimenti il sinallagma funzionale risulterebbe squilibrato a sfavore del creditore: Caio si é obbligato a dare A per avere da Sempronio B, se Sempronio, impossibilitato a dare B, potesse chiedere A a Caio, aumenterebbe il danno di questo, danno che invece il Legislatore si propone di alleviare al massimo) - solo nel primo
caso (impossibilità non imputabile a fatto del debitore) il debitore, Sempronio, dovrà restituire la prestazione secondo le “norme relative alla ripetizione dell’indebito” Disc. E questa é una differenza importante.? Doc. Certo che sì, perché significa ad esempio che se, il debitore Sempronio, ha ricevuto in pagamento da Caio il fondo A e ne ha colti i frutti, egli (se in buona fede) dovrà restituire i frutti solo percepiti “dal giorno della domanda” (art. 2033) e se ha ricevuto, metti ancora, un autoveicolo che si é deteriorato, egli, se in buona fede, non risponderà di tale deterioramento, anche se dovuto a fatto proprio. (vedi co. 3 art. 2037). Mentre nel secondo caso (impossibilità dovuta a fatto del debitore) Sempronio, il debitore, dovrà rimborsare Caio secondo le regole sul risarcimento del danno di cui all’articolo 1223; ciò che significa che, dovendosi considerare il mancato recepimento dei frutti e il deterioramento dell’auto, rientranti nel “danno emergente” subito da Caio, Sempronio, di tale danno dovrà risarcire Caio, poco importando che fosse, quando l’ha causato, in buona o mala fede. Disc. Tutto questo da che risulta? Doc. Risulta dal combinato disposto degli articoli 1463 e 1256. L’articolo 1463 (sotto la rubrica “Impossibilità totale” recita: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può richiedere la controprestazione, e deve erstituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito” L’art. 1256 (sotto la rubrica “Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea”) recita nel suo primo comma: “L’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”. Disc. Si dovrebbe argomentare a contrario dall’articolo 1256, che, quando la prestazione diventa impossibile per un causa non imputabile al debitore, l’obbligazione non si estingue; ma com’é possibile che non si estingua se é impossibile eseguirla? Doc. Sì, hai ragione, anche in questo caso l’obbligazione si estingue; però dando origine al sorgere di altre obbligazioni (in primis, l’obbligazione di risarcire i danni); per cui il legislatore meglio avrebbe detto, se invece di parlare di obbligazione che si
estingue, avesse parlato di obbligazione che si trasforma. Disc. Fai qualche esempio di prestazione diventata impossibile. Doc. Primo esempio: il tenore Caruso ha la faringe infiammata, per cui non può andare a cantare alla Scala di Milano. Secondo esempio: Sempronio si é obbligato a consegnare per il giorno 15 una torta nuziale all’Hotel “Cime bianche”, che sta sulla cima di una montagna e a cui si può arrivare solo passando su un ponte: questo cade il giorno quattordici, quando Sempronio non é più in grado di noleggiare un elicottero, che lo faccia giungere in cima alla montagna. Disc. Fammi ora un esempio di impossibilità dovuta a causa imputabile al debitore. Doc. Sempronio il giorno 14 ha avuta la balzana idea di passare sul ponte, di cui all’esempio precedente, con un carrarmato e lo ha fatto crollare. Disc. E’ chiaro che il Legislatore, dando rilievo alla circostanza che l’impossibilità della prestazione sia o no dovuta al fatto del debitore, intende fare applicazione del principio Causa causae est causa causati. Però la logica vuole che la causa causae, possa essere considerata causa causati solo se ha la stessa, diciamo così, qualificazione soggettiva della causa (la causa dell’evento dannoso): se io uccido una persona guidando l’auto mentre sono in stato di incapacità di intendere, rispondo di omicidio doloso o colposo, secondo i casi, solo se nello stato di incapacità di intendere mi sono messo io stesso colposamente o dolosamente. Logica quindi vorrebbe che, dell’inadempimento di una prestazione, Sempronio, il debitore, fosse considerato responsabile, solo qualora di tale inadempimento fosse chiamato a rispondere oggettivamente, mentre se invece fosse chiamato a risponderne solo per colpa, del fatto causativo dell’impossibilità dovrebbe essere chiamato a rispondere solo se tale fatto causativo, tale causa causae fosse dovuto a sua colpa. Doc. Bravissimo, il tuo ragionamento non fa una grinza; e va pertanto ritenuto che il Legislatore, quando (negli articoli 1218, 1256...) si limita a parlare di “causa non imputabile al debitore”, dicit minus quam voluit. Disc. Un’altra lacuna mi pare sia addebitabile al dettato legislativo: esso prevede il caso dell’intervenuta impossibilità della prestazione, ma non quello, diciamo così limitrofo ma non identico, del sopravvenuto sorgere di una difficoltà all’esecuzione
della prestazione, difficoltà superabile solo con un maggior onere del debitore (maggiore onere, in termini di tempo, fatica, soldi...). Faccio qualche esempio. Primo esempio: Sempronio, si é obbligato a dare il bianco in casa di Caio per mille euro, ma si é rotto un braccio: egli non può più dare il bianco, ma lo potrebbe dare il suo collega Cornelio, che però pretende mille euro. Chiaro che, la rottura del braccio, comporta per Sempronio un aumento degli oneri connessi all’adempimento. Secondo esempio: Sempronio si é obbligato a consegnare la torta nuziale per il giorno 15 (mi sto rifacendo a un esempio prima fatto). Crolla il ponte, ma l’Hotel sarebbe pur sempre raggiungibile pagando un elicottero. Cosa che però aumenterebbe gli oneri connessi all’adempimento, e non di molto, ma di moltissimo. Concludo: in tutti questi casi, Sempronio, il debitore, si considererebbe inadempiente se si rifiutasse di accollarsi i maggiori oneri (pagando il collega, noleggiando l’elicottero...)? Doc. E’ discutibile e discusso quale sia la risposta da dare alla tua domanda; io però ritengo che essa richieda una risposta positiva: quando si verifica un aumento degli oneri connessi all’adempimento di una obbligazione, al Legislatore si pone il problema, se addossare al debitore lo svantaggio di sostenere tali oneri o se addossare al creditore lo svantaggio a lui derivante da una risoluzione del contratto; e, parlando dell’articolo 1467, abbiamo visto, che il Legislatore sottopone a rigorosi limiti la risoluzione del contratto per l’intervento di eventi, che rendono la prestazione più onerosa di quanto programmato dal debitore): il contratto é risolubile solo se, la sopravvenuta sua maggiore onerosità é “eccessiva”, solo se non era previsto o prevedibile l’evento che l’ha causata e, dulcis in fundo, solo se riguarda tutta una categoria di operatori economici. Oltre a tali limiti non si può andare. Disc. Ma a me sembra assurdo che il povero Sempronio, per adempiere una obbligazione (la consegna della torta), che gli potrebbe rendere cento euro, sia costretto a spenderne diecimila e più (per noleggiare un elicottero). Doc. Dura lex sed lex: ogni persona che mette la sua firma sotto un contratto sa di esporsi a dei rischi. Metti che Sempronio si fosse obbligato a consegnare il giorno quindici, non la torta, ma cento quintali di soia: il giorno quattordici il suo magazzino prende fuoco, della soia non resta più che la cenere e Sempronio deve comprare altrettanti sacchi di soia e consegnarli al creditore, se non vuole essere considerato inadempiente. E nessun Studioso, che io sappia, sostiene che Sempronio possa domandare la risoluzione del contratto, lamentando la sua sopravvenuta, maggiore
onerosità. D’altronde non mancano a Sempronio, il debitore, gli strumenti giuridici per sottrarsi al peso, divenuto per lui eccessivo, dell’adempimento dell’obbligazione, o, almeno. della sua esecuzione in forma specifica. Disc. Quali sono questi strumenti? Doc. Sono il domandare la risoluzione per eccessiva onerosità, di cui già abbiamo detto, e sic et simpliciter....il dichiarare di non volere adempiere alla obbligazione, su di lui gravante. In tal caso, naturalmente, il creditore potrà, anzi dovrà, considerarlo inadempiente (ma non potrà addossargli i danni che, se pur derivanti dall’inadempimento, erano da lui evitabili, una volta conosciuta la volontà del debitore di non adempiere). Disc. Non vedo il vantaggio per il debitore di essere considerato inadempiente. Doc. Il vantaggio invece c’é ed é quello di evitare l’esecuzione forzata in forma specifica e semplicemente sottostare all’esecuzione per equivalente (che dovrebbe essere meno per lui costosa, che l’esecuzione spontanea dell’obbligo). Questo in forza dell’articolo 2058 che (sotto la rubrica “Risarcimento in forma specifica) recita: “Il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”. Disc. A questo punto possiamo, penso, passare all’esame dell’articolo 1464 che (sotto la rubrica “Impossibilità parziale”) recita: “Quando la prestazione di una parte é divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale” Quindi, in caso di impossibilità parziale della prestazione dovuta da Sempronio, il creditore Caio può scegliere se chiedere l’altra (parziale) prestazione, ovviamente con una proporzionale riduzione della sua prestazione, oppure se recedere dal contratto. Doc. Sì, però tieni presente che la sua non può essere una scelta arbitraria, non può costituire un comodo espediente per liberarsi da dei vincoli contrattuali diventati troppo pesanti: se Sempronio si era obbligato a dare dieci canarini e uno ha pensato
bene di sfuggire dalla gabbia e rendersi uccel di bosco, Caio, il creditore, non potrà recedere dal contratto. Lo potrà se invece, avendo chiesto due orecchini, ne potrebbe avere solo uno, perché l’altro é andato smarrito. Ti può essere utile confrontare già da ora l’articolo in esame con gli articoli 1455 e 1181, di cui ci riserviamo di parlare in una delle prossime lezioni. Disc. Sempronio, il debitore della prestazione divenuta parzialmente impossibile, non può anche lui recedere dal contratto, se la controprestazione, ridotta come preteso da Caio, per lui perde interesse? Doc. No
17- La diligenza nell’adempimento. Doc. I presupposti (negativi) dell’adempimento sono: 1) la totale inesecuzione della prestazione quando essa é possibile; 2) la totale inesecuzione quando essa é, sì, impossibile ma per causa imputabile al debitore; 3) la esecuzione “inesatta” della prestazione. Disc. Che significa inesatta esecuzione della prestazione? Doc. Significa che la prestazione é stata eseguita senza la dovuta diligenza e senza rispettare il termine fissato per la sua esecuzione. Questo é almeno il significato con cui viene usato dal Legislatore l’avverbio “esattamente” nell’articolo 1218, che (sotto la rubrica “Responsabilità del debitore”) recita: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta é tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo é stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. Entrando più funditus nell’esame dell’articolo sopra riportato, e volendo basarci sulla sua formulazione letterale, dobbiamo concludere a contrario sensu che le cose che il Legislatore ci vuole con tale articolo comunicare sono le seguenti: 1) che la totale o parziale inesecuzione della prestazione dovuta a impossibilità della prestazione,non costituisce inadempimento, se deriva da causa “estranea”, cioé non imputabile al debitore; 2) che però la prova di tale impossibilità e che essa non é dovuta a fatto imputabile al debitore incombe al debitore stesso; 3) che, non solo la esecuzione fatta con la dovuta diligenza e nel rispetto dovuto dei termini, esclude la responsabilità del debitore, ma la esclude altresì la esecuzione non conforme alla diligenza e non rispettosa dei termini, quando la non conformità alla diligenza e il mancato rispetto dei termini é dovuto a causa non imputabile al
debitore; 4) che però la prova dell’impossibilità sub 3 (idest l’impossibilità ad osservare la dovuta diligenza nell’esecuzione e i termini dovuti) incombe al debitore. Disc. Insomma si può dire che con l’articolo 1218 il legislatore ha voluto dirci un mucchio di cose – cose che però meglio avrebbe fatto ad esprimere in articoli separati. E per di più ripetendo cose che già risultavano da altri articoli; e con ciò mi riferisco a quanto detto sub 1) – che già risulta dal disposto dell’articolo 1256. Doc. Cosa a dir il vero questa perdonabile in quanto dell’articolo 1256 risulta, sì, quanto sub 1; ma non quanto sub 2, che cioé la prova dell’impossibilità e del fatto che essa non deriva da causa imputabile al debitore va provata dal debitore. Vero é che, se é perdonabile l’errore per eccesso commesso dal legislatore, é più difficilmente perdonabile l’errore da lui commesso per difetto. Disc. E da che sarebbe dato questo errore per difetto? Doc. Sarebbe dato dal fatto che egli fa riferimento nell’articolo 1218 a uno solo dei tre diritti che, come vedremo studiando l’articolo 1453, nascono, nel creditore, dall’inadempimento: il diritto al risarcimento; dimenticandosi così il Legislatore degli altri due diritti: il diritto all’esecuzione coatta e alla risoluzione: forse che per tali diritti non vale la regola che essi nascono in caso di inesecuzione della prestazione o di inesecuzione inesatta della prestazione, se il debitore non prova che tale inesecuzione é dovuta a impossibilità ecc,ecc.? Disc. Non guardiamo il pelo nell’uovo. Piuttosto dimmi perché il legislatore invece di dire “il debitore che non esegue esattamente la prestazione” non dice più chiaramente “il debitore che non esegue con la dovuta diligenza la prestazione”? Doc. Qui il legislatore fa benissimo, infatti dal momento che, oggetto della obbligazione, é, per l’articolo 1176, la prestazione eseguita con “la diligenza del buon padre di famiglia” (o del buon professionista), se egli avesse detto che la prestazione deve essere eseguita con diligenza, sarebbe caduto in una sorta di tautologia, perché sarebbe venuto a dire che “la prestazione eseguita usando della diligenza del buon padre di famiglia deve essere...eseguita diligentemente”. Disc. Ho capito, ma per capire meglio vediamo che cosa dice l’articolo 1176.
Doc. L’articolo 1176 (sotto la rubrica “Diligenza nell’adempimento” recita): “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Disc. Sembrerebbe, dalla lettura del primo comma, che se Caio, metti perché in vena di risparmio, ha dato l’incarico di dare il bianco alla sua casa, non a un valente imbianchino, ma a un improvvisato imbianchino come Sempronio, e questi, com’era prevedibile ha...pasticciato, Caio possa accusare Sempronio di inadempienza. A me questo pare assurdo. Doc. E tale infatti sarebbe, se il Legislatore non desse la possibilità alle parti di fare tra loro l’accordo che la diligenza nell’esecuzione della prestazione sarà valutata con riferimento, non a quella del buon padre di famiglia, ma a quella che si può pretendere da una persona, che ha le cognizioni e le abilità della parte (Sempronio) che deve eseguire la prestazione. E venendo al tuo esempio, il fatto che Caio abbia dato l’incarico di imbiancare la sua casa a Sempronio, cioé a persona di cui conosceva le defaillances, induce a concludere che, seppure tacitamente, tra le parti esistesse tale accordo (derogativo al disposto dell’articolo 1176) Disc. Passiamo al secondo comma, che riguarda il caso che Caio si rivolga a Sempronio nella sua qualità di professionista (ché, se Caio si rivolgesse a Sempronio per richiederlo di un’attività professionale, sapendo che non é un professionista, si dovrebbe di nuovo tornare ai discorsi da noi fatti a proposito del primo comma). Doc. Orbene, se Caio si rivolge a un professionista, ha diritto di pretendere, non la prestazione che sarebbe in grado di dare ciascun “buon padre di famiglia”, ma quella che sarebbe in grado di dare un “buon professionista” (tenendo presente che i professionisti possono essere di diverso livello).Quindi, se Caio si fosse rivolto a un Caruso, avrà diritto che questi canti la Traviata in modo da farsi applaudire da un pubblico raffinato, se invece si fosse rivolto a un cantante di basso livello, qualche “stecca” la dovrebbe tollerare.
Disc. Però tutto questo nel secondo comma non lo trovo scritto: lo dici tu. Doc. Lo dico io perché é logico e vero; e ti spiego perché non lo dice il Legislatore, perché egli si limita a dire che la diligenza, nel caso che l’obbligazione sia inerente a un’attività professionale, “deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività professionale” Questo “perché” sta in questo: che il Legislatore, nel dettare il secondo comma dell’articolo 1176, aveva soprattutto presente un problema che nasce dalla “natura” di certe professioni (pensa alla professione del medico, dell’avvocato). L’esercizio di tali professioni pone, si può dire continuamente, al professionista dei problemi la cui soluzione é inevitabilmente opinabile (e quindi molto probabilmente “opinata”,in senso contrario a quello adottato dal professionista, da un cliente “scottato” dal danno che la soluzione, adottata dal professionista, gli ha causato), dando così esca a un continuo, stressante (per il professionista) contenzioso davanti al tribunale. Cosa per cui il professionista sarebbe portato ad astenersi dall’esercitar tali professioni, mentre la società ha, invece, interesse che tali professioni siano esercitate (ha bisogno di medici, di avvocati...). Ecco, questo probabilmente é il problema che il Legislatore aveva in mente dettando il secondo comma dell’articolo 1176. Disc. Problema che però l’articolo 1176 non risolve. Doc. Lo risolve, però, o almeno tenta di risolverlo, l’articolo 2236, il quale (sotto la rubrica “Responsabilità del prestatore d’opera”) recita: Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Disc. Non si comprende perché il professionista debba rispondere, dell’errata soluzione di un problema tecnico di speciale difficoltà, solo per colpa grave o dolo; logica vorrebbe che ne rispondesse anche se avesse mancato della diligenza che ha ciascun buon professionista, fermo restando però che egli dovrebbe andare assolto dalla responsabilità, per l’errore commesso, in considerazione del fatto che anche un buon professionista, tale errore, avrebbe potuto commettere. Doc. La tua osservazione é giusta; e infatti, il riferimento ai “problemi tecnici di speciale difficoltà”, che il legislatore adotta, per evitare al professionista uno stressante contenzioso, non é felice. Meglio avrebbe disposto il legislatore se avesse
detto che “Se la prestazione implica la necessità di affrontare problemi tecnici la cui soluzione si presta ad essere opinabile, il prestatore non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Questo contando che il cliente inferocito, non tenti la causa davanti al tribunale, sapendo che dovrà provare la colpa grave del professionista. Disc. Abbiamo visto che l’articolo 1218 fa dipendere l’inadempimento, dalla colpa nell’esecuzione della prestazione (anche se expressis verbis alla colpa non fa riferimento). Però le parti non potrebbe concordare tra di loro che l’inadempimento venga ritenuto a prescindere dall’accertamento di una colpa del debitore ‘ Doc. Certamente che lo potrebbero. Basterebbe che concordassero che, se il debitore non raggiunge un certo risultato, tanto basti per ritenerlo inadempiente, a prescindere che egli abbia fatto il massimo sforzo e si sia comportato con la massima diligenza per, tale risultato, conseguire: tu, Sempronio, dovrai risarcire i danni ecc., a me, Caio, solo che tu non mi faccia trovare il 15 settembre davanti al magazzino cento quintali di grano; nulla importando che tu non ti sia potuto procurare i cento quintali per questo o quello motivo, o che tu, procuratiti i cento quintali, te li sia visti distruggere per questo e quest’altro evento. Disc. In tal caso Sempronio dovrebbe essere disposto ad assumersi un rischio (di inadempimento), che secondo le regole generali non gli spetterebbe. Doc. Ed é per questo che Sempronio difficilmente accetterà di stipulare una obbligazione di “risultato” (così si chiamano le azioni del tipo ora descritto) e preferirà assumere solo una “obbligazione di mezzi” (o come preferiscono dire certi Studiosi “di comportamento”) - cioé un’obbligazione che si considererà inadempiuta solo quando si accerti la colpa del debitore. Colpa però che il legislatore presume, dal momento che pone a carico del debitore di provare di aver “eseguito esattamente la prestazione”. Disc. Ma questa inversione dell’onere probatorio in realtà non risulta dall’articolo 1218. Infatti tale articolo stabilisce l’inversione dell’onere probatorio solo per il caso che la prova verta sulla “impossibilità”in cui si é trovato il debitore di eseguire la prestazione secondo la diligenza del buon padre di famiglia o del buon professionista (“io, Sempronio, non mi sono comportato secondo la diligenza del buon padre di famiglia nel guidare l’auto perché colpito da grave malore” - “Io, Caruso, ho fatto
delle stecche cantando, perché ero influenzato “) e non anche per il caso che la prova verta sull’esecuzione secondo diligenza della prestazione. (“io, Sempronio, ho guidato con la diligenza del buon padre di famiglia: l’incidente si é verificato per colpa esclusiva dell’altro automobilista”). Doc. Così risulta effettivamente dalla lettera dell’articolo 1218, però non é così che tale articolo va interpretato; dato che sarebbe illogico stabilire l’inversione dell’onere probatorio, quando la prova verte sull’impossibilità della prestazione esatta, e non stabilire tale inversione, quando la prova verte sulla esattezza della prestazione. E tanto più illogico in quanto proprio in questa seconda ipotesi é maggiormente sentita la necessità di un’inversione dell’onere probatorio. Disc. Ma questa necessità da che cosa trae origine? Doc. Trae origine dalla difficoltà, che il creditore incontra, nell’accertare l’esistenza, o meno, di una colpa nel comportamento del debitore: “Tu, Sempronio, mi vieni a dire che hai guidato bene e che l’incidente si é verificato solo per colpa dell’altro utente della strada, ma io sul luogo dell’incidente non c’ero, come posso dire che é così, o no, come posso individuare le persone che possano testimoniare che é così o no? E tale difficoltà del creditore é ancora maggiore quando egli, per sindacare la diligenza o meno del debitore, dovrebbe avere quelle conoscenze tecniche, che il debitore ha: “come faccio io, Caio, a stabilire se il medico ha fatto bene o male a dare quel farmaco al mio parente infortunato, se io, non avendo mai studiato medicina, non so se e in quali circostanze quel farmaco doveva essere dato? ”.
18 : I rimedi dati contro l’inadempimento. Disc. Sempronio che contrattualmente si era obbligato ad A verso Caio, si rende inadempiente: il Legislatore dà degli strumenti a Caio per rimediare al danno, che l’inadempimento di Sempronio gli procura? Doc. Sì, e questi rimedi sono tre: 1) la esecuzione coattiva dell’obbligo (inadempiuto) - esecuzione che naturalmente può essere disposta solo dall’A.G., e che quindi presuppone una domanda a questa in tal senso da parte del creditore; 2) la risoluzione del contratto; 3) il risarcimento del danno. Adottando il rimedio sub 1, Caio accetta implicitamente il diritto di Sempronio a chiedere la prestazione a cui lui (idest, Caio) si é obbligato; adottando il rimedio sub 2, Caio si libera dell’obbligo a lui gravante, ma naturalmente rinuncia a chiedere a Sempronio l’adempimento del obbligo che su di lui (idest su Sempronio) grava. Quanto al risarcimento del danno esso di regola serve a eliminare i danni che residuano dopo l’attivazione dei due rimedi precedenti; ma in teoria nulla esclude che Caio, accetti (non presentando una domanda di adempimento) che la prestazione gravante su Sempronio resti ineseguita, accetti che ciò nonostante Sempronio continui a vantare un diritto su di lui (salva la exceptio inadimpleti di cui all’articolo 1460) e si limiti a pretendere il risarcimento dei danni che da tale situazione a lui derivano. Disc. Da che articolo risulta ciò? Doc. Risulta dall’articolo 1453, che (sotto la rubrica “Risolubilità del contratto per inadempimento”) recita: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere
l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”. Disc. Presupposto dell’attivazione dei rimedi sopra elencati é il semplice inadempimento? Doc. La risposta alla tua domanda, così come l’hai formulata, é, sì (questo per le ragioni dette nella precedente lezione). Se invece mi domandi, se, in una causa tendente all’adempimento o alla risoluzione o al risarcimento, si deve accertare l’esistenza di una colpa in ademplendo del debitore, io ti rispondo: certe volte, sì, certe volte, no. Disc. Quando, “sì” e quando, “no”. Doc. Di regola si dovrà accertare la colpa (o il dolo), quando il preteso inadempimento riguarda un’obbligazione di mezzi; mentre non si dovrà accertare la colpa (o il dolo), quando il preteso inadempimento riguardi un’obbligazione di risultato. Disc.Ma, presupposto della domanda di risarcimento, sarà pur sempre la colpa (o il dolo) del debitore. Doc. Non é detto: alcune volte,lo sarà, altre, no. Se, per esempio, Tizio, che ti deve dare il giorno quindici un milione, il giorno quindici si rende uccel di bosco e non ti dà un bel nulla, egli é obbligato a risarcirti della sua inadempienza, anche se questa é incolpevole (metti, perché dei malvagi rapinatori l’hanno lasciato senza un euro in tasca: come avrebbe potuto pagarti?). Tieni presente che pure la regola che la domanda di adempimento e di risoluzione vanno accolte, a prescindere dell’accertamento di una colpa del debitore, nel caso la obbligazione inadempiuta sia “di risultato”, ha le sue eccezioni. Disc. Dammene un esempio. Doc. Caio, che é un albergatore, ha commissionato a Sempronio la costruzione di un suo nuovo albergo. Sempronio lo costruisce, ma con un “vizio”: manca la ringhiera alle scale. Quello che é stata inadempiuta é senza dubbio un’obbligazione di risultato, direi anzi la tipica obbligazione di risultato. Però, ecco la eccezione che conferma la regola, il
giudice, sul semplice presupposto dell’inadempimento, non accoglierà tutte le domande proposte da Caio (per ottenere l’eliminazione del danno causatogli dall’inadempimento stesso). Accoglierà, sì, su tale semplice presupposto, la domanda tendente all’eliminazione del vizio (con l’apposizione delle ringhiere); ma, se Caio avrà domandato il risarcimento per la ritardata apertura al pubblico dell’albergo, allora, no: il giudice subordinerà, l’accoglimento di tale domanda, all’accertamento di una colpa di Sempronio (vedi art. 1668). Mutatis mutandis il discorso può ripetersi nel caso di vizi della cosa venduta (vedi l’articolo 1492): anche qui le domande tendenti all’eliminazione del vizio (o alla riduzione del prezzo), cioé le domande volte a far valere il c.d. obbligo di garanzia, non necessitano, per essere accolte, dell’accertamento della colpa (o del dolo); le altre domande, invece, ancorché nascenti pure esse dall’inadempimento, ne necessitano. Disc. Ma al creditore sarà sempre concesso di utilizzare tutti e tre “rimedi” (sia pure con l’onere di optare o per la domanda di adempimento o per quella di risoluzione)? Doc. No. Ritorniamo all’esempio di Caio, committente deluso dall’operato dell’appaltatore Sempronio: egli non potrà chiedere la risoluzione del contratto a causa dei vizi riscontrati (a meno – vedi ultimo comma dell’art. 1668 “le difformità o i vizi dell’opera siano tali da renderla inadatta alla sua destinazione”). E così, per trarre un altro esempio dalla garanzia per vizi (ma questa volta relativa, non all’appalto, ma alla vendita – art. 1492) Caio, che ha comprato un computer viziato, potrà chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione dei vizi, ma non l’esecuzione in forma specifica (cioé la consegna di un altro computer o la eliminazione dei vizi). Disc. Tanto premesso, possiamo passare ad esaminare i vari “rimedi” concessi dall’articolo 1453. Doc. In realtà ci potremo limitare all’esame del “rimedio” dato dalla risoluzione del contratto. Infatti al risarcimento del danno sarà bene riservare una lezione ad hoc; e sulla domanda di adempimento c’é poco da dire. Disc. Dì allora, per prima cosa, quali sono le conseguenze, che comporta la risoluzione del contratto: Caio e Sempronio hanno stipulato un contratto di appalto e Caio ne ha ottenuta la risoluzione: cosa comporta ciò, sia per Caio sia per Sempronio?
Doc. Caio sarà liberato dall’obbligo di pagare il prezzo dell’appalto (effetto liberatorio della risoluzione); anche Sempronio sarà liberato dalla sua obbligazione, ma potrà essere gravato sia da un obbligo restitutorio (se avesse ricevuto un quid avrà l’obbligo di restituirlo - e abbiamo già visto in una precedente lezione che a tale obbligo non si applicano le norme sulla restituzione dell’indebito) sia da un obbligo ripristinatorio (qualora Sempronio avesse cominciato ad alzare un piano dell’edificio costruendo, dovrebbe demolirlo e liberare dai residui il terreno). Disc. Ma addossare all’appaltatore l’obbligo restitutorio di cui sopra non contrasta con il quarto comma dell’articolo 936? Doc. Ma tu vorresti sostenere che il committente deve tollerare sul suo terreno quell’aborto di costruzione fatto da Sempronio? Non sarebbe ciò contrario alla ratio dell’articolo 1453, che mira a sollevare il creditore di tutte le conseguenze negative dell’inadempimento? Chiaro, che sì. E il fatto che l’obbligo ripristinatorio si pone in contraddizione all’art. 636, ci dimostra solo che é semplicistico dire, che i diritti e gli obblighi delle parti nascenti dalla risoluzione, vanno determinati nel presupposto che tra esse non ci fosse stato mai un contratto. Questo invece c’é stato e bisogna tenerne conto (altrimenti neanche l’obbligo risarcitorio del debitore avrebbe senso: perché mai addossare a Sempronio l’obbligo di risarcimento, se si deve partire dal presupposto che nessun contratto vi é stato tra Sempronio e Caio? Se non vi é stato nessun contratto, non vi é stato neanche nessun inadempimento e quindi non vi può essere nessun obbligo nascente dall’inadempimento). Disc. Però parecchio pesanti possono diventare le conseguenze di una risoluzione del contratto per il debitore. Doc. Proprio per questo il legislatore pone un limite generale alla risolubilità dei contratti. Limite espresso dall’articolo 1455, che (sotto la rubrica “Importanza dell’inadempimento”) recita: “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra”. Disc. Quello della “scarsa importanza” dell’inadempimento, non mi pare un criterio molto chiaro e sicuro per decidere sulla risoluzione di un contratto; e, penso, che l’applicazione di tale articolo darà luogo a una frequente litigiosità tra le parti (con conseguente perdita di tempo e di denari).
Doc. E’ proprio così. E, proprio perché é così, il Legislatore dà alle parti la possibilità di indicare concordemente, in via preventiva, quando un inadempimento non deve considerarsi di “scarsa importanza”. Più precisamente l’articolo 1456 (sotto la rubrica “Clausola risolutiva espressa”) recita: “I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”. Disc. Le parti possono anche concordare che un termine debba considerarsi “essenziale”, nel senso che, se non vi é adempimento della obbligazione entro tale termine, il contratto si risolve? Doc. Sì. E in tal caso, come risulta dall’articolo 1457, la risoluzione si verifica anche se la parte interessata non ha dichiarato di volersi valere della clausola, che stabiliva la essenzialità del termine.
Sezione seconda:Lo Stato ha interesse che i beni costituenti la ricchezza della Nazione siano gestiti dalle persone più corrette ( anche se meno capaci ) 19: La rescissione del contratto per lesione o perché concluso n stato di pericolo. Doc.- Il nostro codice prevede sia una “azione generale di rescissione per lesione” sia una azione di rescissione del “contratto concluso in stato di pericolo”. Parliamo per prima cosa della “azione generale di rescissione”. Essa é prevista dall'art. 1448, che recita : “Se vi é sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione é dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto. L’azione non é ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto. La lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda é proposta.(.....).” Risulta chiaramente, dall’articolo appena letto, che tre sono i presupposti di una domanda di rescissione. Primo: “una sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra”. Secondo: l’essere tale sproporzione dipesa “dallo stato di bisogno di una parte”.
Terzo : L’aver “approfittato” la controparte di tale stato di bisogno “per trarne vantaggio”. Disc- Cominciamo ad approfondire il presupposto sub uno: quando si realizza la sproporzione di cui parla il Legislatore? Doc-. Te lo spiego con un esempio. Un disgraziato fulmine picchia contro delle balle di fieno e il fuoco che così si sviluppa minaccia di distruggere la villa di Sempronio. Per bloccare l’incendio occorrerebbe un estintore, ma a Sempronio, per procurarselo andando al supermercato, occorrerebbe troppo tempo: Sempronio lo chiede al vicino Caio e si sente rispondere: “Te lo vendo se ti mi dai centomila euro”. Il prezzo richiesto da Caio é del tutto sproporzionato rispetto a quello che chiederebbe il supermercato (massimo, diecimila euro); ma Sempronio, messo, su un piatto della bilancia, i centomila euro richiesti da Caio e, nell’altro piatto, il milione che perderebbe se la villa andasse distrutta, accetta. E chi può dargli torto? Chi può negare che il contratto (estintore contro centomila euro) sia conveniente, sì, per Caio, ma anche per Sempronio? Disc. Effettivamente non vedo dove stia nel caso la sproporzione di cui parla il Legislatore. Doc.- No, la sproporzione c’é, ma non, come crede il legislatore, tra le due prestazioni (quella di Caio e quella di Sempronio), ma tra il prezzo richiesto da Caio e quello che si pratica nel mercato. Disc.- E questa sproporzione mi pare che effettivamente renda ingiusto il contratto e quindi meritevole di rescissione. Doc.- Tu sbagli a parlare di “ingiustizia” del contratto. Perché la giustizia non é che la logica applicata alla morale: tu puoi giudicare ingiusto il comportamento di Caio so lo quando, essendo egli tenuto a trattare senza preferenze Flavio e Sempronio, prima, vende l’estintore a Flavio, per dieci e, poi, a Sempronio per cento. Disc.- D’accordo il motivo per cui il Legislatore dispone la rescissione del contratto tra Caio e Sempronio non é la pretesa ingiustizia del contratto. Ma allora, qual’é la ratio dell’articolo 1448, qual’é il motivo che spinge il Legislatore a stabilire la rescindibilità del contratto tra Caio e Sempronio?
Doc. La volontà di impedire l'arricchimento di una persona disonesta ; che pertanto é sospetta di utilizzare i beni acquisiti col contratto, non per giovare, ma per danneggiare la società. Disc.- Passiamo al secondo presupposto dell'azione di rescissione: quando si può dire che, l'accettazione di Sempronio di fare una prestazione sproporzionata a quella della controparte, “ é “dipesa dal suo stato di bisogno” ? Doc.- Certo non quando Sempronio é un turista ricco sfondato a cui, pagare cento quel che costa dieci, non fa né caldo né freddo. Di solito, lo stato di bisogno di Sempronio, si verificherà quando questi si trovi impossibilitato a ricorrere alle prestazioni e ai beni offerti dal mercato (é notte, nevica e l'unico tassista nel raggio di dieci chilometri mi chiede un prezzo esorbitante ). Disc.- E veniamo al terzo presupposto: l’avere, il contraente contro il quale é domandata la rescissione, Caio, “approfittato per trarne vantaggio” dello stato di bisogno della controparte (Sempronio) Doc.- L’esistenza di tale presupposto implica che la parte “avvantaggiata”: 1) sapesse che la parte “svantaggiata” (Sempronio) accettava il prezzo esorbitante perché in stato di bisogno (e non perché, metti, turista ignaro dei prezzi del mercato, non sapeva valutare l’esosità del prezzo richiesto); 2) non fosse indotta a richiedere il prezzo esorbitante (a quello di mercato) per particolari circostanze che la coinvolgevano e le rendevano particolarmente “pesante” la prestazione (tassista “influenzato” o che, per effettuare il trasporto, deve rinunciare a presenziare, metti, al matrimonio della figlia). Disc.- A questo punto, sciolti i nodi interpretativi più difficili, possiamo procedere a passo più svelto. Chiaramente, quella di arginare le domande di rescissione pretestuose, é la ratio del secondo comma dell’articolo 1448 (che limita l’ammissibilità dell’azione di rescissione al caso in cui la “lesione” superi la metà del prezzo, che nel mercato aveva la prestazione: il tassista ha chiesto 120mila per un trasporto per cui nel mercato si chiede solo centomila? l’azione non é ammissibile), Ancora dovuta alla presumibile pretestuosità della domanda di rescissione, é la sua inammissibilità, stabilita dal terzo comma dell’articolo 1448, nel caso la “lesione” sia
venuta meno al momento della proposizione della domanda. Doc.- A questo punto possiamo passare a parlare dell'azione di rescissione di un “contratto concluso in stato di pericolo”, prevista dall'art. 1447, che recita: “Il contratto con cui una parte ha assunto obbligazioni a condizioni inique, per la necessità, nota alla controparte, di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, può essere rescisso sulla domanda della parte che si é obbligata. Il giudice nel pronunciare la rescissione può, secondo le circostanze, assegnare un equo compenso all’altra parte per l’opera prestata”. Disc- A me sembra che tra l’art. 1447 e l’art. 1448 passi quello stesso rapporto che passa tra una species e un genus; dove naturalmente la species sarebbe l’articolo 1447 (melius, la fattispecie contemplata dall’art. 1447) e il genus l’art. 1448 (melius, la fattispecie, in questo art. 1448, contemplata) e l’elemento specificante sarebbe la qualità del bene, per salvare il quale la parte svantaggiata ebbe a decidersi al contratto – bene costituito dalla “persona” sua o di altri. Ma il codice penale non punisce chi omette di prestare soccorso a una persona in pericolo ? Doc.- Certo che sì Più precisamente il secondo comma dell'art. 593 punisce “ chi trovando (….....) una persona ferita o altrimenti in pericolo omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità”.. Disc.- Quindi, chi trova una persona in pericolo, é obbligato ad attivarsi per soccorrerla a prescindere dalla stipula di un contratto. Cosa per cui potrebbe dubitarsi della validità di un contratto con cui una persona si obbliga a soccorrere una persona..... a cui già per legge é tenuta a dare soccorso. Doc.- E’ così. E forse questo spiega perché, nel secondo comma dell'articolo in esame, il legislatore non dia al soccorritore esoso, la possibilità – che invece dà alla parte profittatrice dello stato di bisogno (v. art. 1450 ) - di “evitare la rescissione”, “offrendo una modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo a equità”, ma si limiti a rimettere alla discrezione del giudice “l'assegnazione di un equo compenso” Disc. A questo punto sarà opportuno indicare sia pure brevemente i requisiti che debbono esistere a che Sempronio possa domandare, ai sensi dell’articolo 1447, la rescissione del contratto, da lui concluso con Caio.
Doc. Essi sono: 1) l’avere Sempronio assunto con il contratto un’obbligazione a condizioni inique; 2) l’avere Sempronio assunto tale obbligazione per la necessità di salvare sé o altri da un pericolo; 3) l’essere tale pericolo “attuale”; 4) riguardare tale pericolo “un danno grave alla persona”; 5) l’esser noto a Caio, la controparte, che Sempronio assumeva l’obbligazione sub 1, nelle condizioni risultanti da sub 2,3,4. A proposito di tutti i sopraelencati requisiti possono essere ripetute, mutatis mutandis, le osservazioni già fatte a proposito dei requisiti di esperibilità dell’azione di rescissione prevista dall’art. 1348. Merita solo di essere chiarito, riguardando un requisito non contemplato nell’articolo 1438, che il pericolo di un danno va considerato “attuale” quando Caio, rifiutando la stipula del contratto e quindi la prestazione a lui richiesta, fa sorgere o rende (apprezzabilmente) maggiore il pericolo del grave danno alla persona. Quindi il contratto di trasporto all’ospedale – ancorché stipulato da Sempronia in stato di gravidanza e a esose condizioni - non sarebbe rescindibile ai sensi dell’articolo 1347 (salva pur sempre l’applicabilità dell’articolo 1348 sussistendone le condizioni), se Sempronia all’ospedale doveva recarsi per una visita di controllo; mentre sarebbe rescindibile se all’ospedale Sempronia doveva recarsi per sgravarsi.
20- Annullamento del contratto quando il consenso é stato carpito con dolo. Doc. L'articolo 1427 dà alla parte, il cui “consenso fu “carpito con dolo”, la facoltà “ di chiedere l'annullamento del contratto”. L'articolo 1439, poi, specifica le condizioni a cui é subordinato l'accoglimento di tale richiesta così recitando: Art. 1439 :“Il dolo é causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato.- Quando i raggiri sono stati usati da un terzo, il contratto é annullabile se essi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio”. Disc.- A me il secondo comma, dell’articolo ora letto, sembra veramente superfluo: chi avrebbe potuto dubitare che, se Tizio si mette d’accordo con il gatto e la volpe a che con raggiri convincano Pinocchio a un contratto per lui rovinoso, Tizio sia ritenuto autore di tali raggiri non meno che il gatto e la volpe? Doc.- Ma il secondo comma dell’articolo in esame, non si riferisce al caso di una parte, che si sia messa d’accordo con un terzo, a che questi con dolo carpisca ecc.ecc. No, in questo secondo comma il legislatore fa invece l’ipotesi che la parte, senza aver concorso nei raggiri, sappia di essi, e, pur sapendo di essi, non ne avverta la
controparte. Disc. Quindi il comportamento doloso può concretizzarsi, non solo in un’azione, ma anche in una omissione? Doc. A dir il vero si discute se, accanto a un dolo comissivo, possa esistere anche un dolo omissivo. Contro la configurabilità di un dolo puramente omissivo depone il primo comma dell’articolo 1439, là dove parla di “raggiri” (“il dolo é causa di annullamento del contratto quando i raggiri ecc.ecc.” - così recita l’incipit dell’articolo in esame). Ma a me pare chiaro che il secondo comma deponga in maniera inequivocabile sul fatto che, l’annullabilità di un contratto per dolo, può seguire anche ad un semplice comportamento omissivo. Vi é anche da considerare che - mentre é comprensibile che il legislatore penale, configurando nell’articolo 640 del Codice penale il delitto di truffa, pretenda che l’induzione in errore, operata dal deceptante sul deceptato, si qualifichi per l’esistenza di raggiri (più precisamente di “artifici e raggiri”) - mal si comprenderebbe perché, questa particolare qualificazione dell’induzione in errore, il legislatore civile dovrebbe pretendere. Disc.- Spiegati meglio. Doc.- Voglio dire che è comprensibile pretendere che l’induzione in errore sia qualificata da quegli artifici e raggiri, che denotano una notevole capacità a delinquere, quando da essa (idest, dall’induzione in errore) si fanno derivare delle conseguenze gravissime (la reclusione fino a tre anni!). Mentre molto meno é comprensibile che l’induzione in errore sia qualificata dai raggiri, quando, le conseguenze che da essa si fanno derivare, si riducono solo all’annullamento di un contratto e a un obbligo risarcitorio. Disc.- Abbiamo visto parlando dell'errore spontaneo che esso, per “causare l' annullamento del contratto”, deve essere “essenziale e riconoscibile”. E' chiaro che non avrebbe senso qui domandarsi se, anche l'errore indotto dai “raggiri”, debba essere riconoscibile : esso deve essere qualche cosa di più : deve essere conosciuto ( e nella maggior parte dei casi sarà ancora di più : sarà conosciuto e indotto ). Ma, ecco la domanda che invece ti voglio porre : tale errore deve essere essenziale ?
Doc.- No. E qui sta la fondamentale differenza tra annullamento per errore spontaneo e annullamento per errore indotto ( con i raggiri ) : nel caso di questo secondo errore, il contratto é annullabile anche se non é essenziale, cioé anche se non cade su uno degli elementi elencati nell'articolo 1429 ( natura del contratto, oggetto del contratto, identità o qualità della persona dell'altro contraente eccetera ). Deve però essere “determinante”, nel senso che, se la parte non fosse caduta in errore, non avrebbe stipulato il contratto. Disc.- E se la parte lo avrebbe stipulato, ma solo a condizioni diverse ? Mettiamo, Caio ha comprato il terreno A al prezzo di cento perché gli é stato fatto credere che era edificabile, ma lo avrebbe comprato lo stesso anche se avesse saputo che non era edificabile, però solo al prezzo di cinquanta : in tale caso il contratto é annullabile o no? Doc. No : in questo caso - per cui noi giuristi parliamo, non di dolo determinante, ma di dolo incidente - non si procede all'annullamento, ma si riconosce, alla parte indotta in errore, solo il diritto a un risarcimento,. Disc.- Ma naturalmente il risarcimento, nel caso da me esemplificato, sarà dato dalla differenza tra il prezzo di cento che Caio ha pattuito ( pensando che il terreno fosse edificabile ) e il prezzo di 50 che Caio era disposto a dare ( per il caso che il terreno non fosse edificabile) . Stando così le cose, non era più spiccio, per il legislatore, dire che il contratto non era annullabile, ma il prezzo era ridotto alla somma che Caio sarebbe stato disposto a dare, se non fosse caduto in errore ? Doc. No, perché potrebbe essere che, il prezzo che Caio era disposto a dare, fosse troppo basso rispetto al valore del terreno. E il legislatore non vuole penalizzare il deceptante costringendolo ad accettare un prezzo iniquo. Il legislatore pertanto vuole che sia il giudice a stabilire ( indirettamente ) il giusto prezzo nel momento in cui quantifica il risarcimento. Disc. Un’ultima domanda : che cosa si deve intendere per dolus bonus?. Doc. Il dolus bonus é il comportamento di una parte diretto a invogliare la controparte a concludere il contratto, dicendo cose false. Proprio perché tale comportamento é usuale, specie nel commercio spicciolo, la popolazione ha sviluppato per così dire gli anticorpi, che normalmente lo rendono innocuo. Un
esempio di dolus bonus é dato dal commerciante di abiti, che dice alla cliente, che se ne sta provando uno “Cara signora, quest’abito le sta a pennello, la fa sembrare una principessa”. Disc. Ma se in un caso particolare quel dato comportamento, normalmente innocuo, risulta efficace, per la particolare rusticitas o ingenuità della controparte? Se il gatto e la volpe riescono a far credere a Pinocchio che, mettendo sotto terra le sue monete, l’indomani troverà un bel albero carico di monete? Doc. In tal caso il dolo renderebbe il contratto annullabile. Infatti per il nostro diritto non rileva che il deceptato sia caduto in errore per sua colpa anche grave.
21- Annullamento del contratto quando il consenso é stato estorto con violenza
Disc.- Il sig. Corleone, dopo aver posata la pistola sul tavolo, fa al ragionier Bianchi la proposta di un contratto - proposta di tal natura che...... questi non può rifiutare . Ecco la proposta: (A) io mi obbligo a omettere di far saltare in aria con la dinamite la tua villa e tu ti obblighi a firmare il contratto che segue: (B) io ragionier Bianchi vendo la mia villa per cento al sig. Corleone”. Perché il legislatore, con l'articolo 1427, ritiene annullabile il contratto sub B? Doc.- Tu non devi concentrare la tua attenzione sul contratto sub B, ma sul contratto sub A, che é chiaramente nullo e la cui nullità provoca di riflesso la invalidità del contratto sub B. Disc.- Ma perché il contratto sub A é nullo ? Doc,- Perché , lo abbiamo già visto, il legislatore riconosce validità giuridica ai
contratti in quanto ritiene che lo scambio di beni e/o prestazioni determini un aumento della ricchezza nazionale, ora questo aumento di ricchezza, dal contratto stipulato tra il sig Corleone e il rag. Bianchi, non consegue per nulla, perché il primo, obbligandosi a omettere di far saltare la villa con la dinamite , si obbliga ad omettere cosa che già per legge sarebbe ….obbligato ad omettere, cioé in cambio della villa il sig Corleone dà zero al ragionier Bianchi, cioé non aumenta per nulla il patrimonio di questo, e di riflesso non aumenta per nulla la ricchezza nazionale. Disc.- Ma il sig. Corleone potrebbe gestire il bene ( la villa ) con tanta audacia e determinazione acquistato, molto meglio del (timido e pauroso ) ragionier Bianchi, determinando così un aumento della ricchezza nazionale. G. “Potrebbe”, ma non é detto che così sia. Ma se anche così fosse, é ben presumibile che non gestirebbe il bene ( acquistato dal Bianchi ) nell'interesse della società ( probabilmente vi installerebbe una casa da gioco); con conseguente disordine e degrado anche dell'economia ( dato che al degrado morale della società non può non seguire quello dell'economia : il dollaro, diceva Emerson, vale tanto meno quanto più aumentano gli uomini d'affari disonesti). Disc.- Tu parli di nullità, il legislatore invece ( rispetto al contratto su B, l'unico che prende in considerazione ) parla di “annullabilità”. Doc.- Parla di annullabilità - nonostante che il contratto manchi di quella “causa”, la cui mancanza , per il combinato disposto degli artt. 1418 e 1325 , determina di norma la nullità - per uno scopo pratico, perché non é escluso che il contratto B ( vendita della villa per cento ), che il sig. Corleone ritiene essere per lui tanto un buon affare, si riveli invece dopo ( metti, a seguito di una catastrofica caduta dei valori immobiliari ) un cattivissimo affare per lui e un buonissimo affare per il ragionier Bianchi : e in vista del verificarsi di tale ipotesi, il legislatore vuole lasciare alla discrezione del ragioniere Bianchi la decisione se privare o no di validità giuridica il contratto. Disc.- Fatta questa premessa , diamo lettura dell'articolo 1434 - il quale recita : “La violenza é causa di annullamento del contratto anche se esercitata da un terzo”. Giustissimo, se Corleone sa della violenza, ma se non ne sa nulla? A me sembrerebbe che il principio della” tutela dell'affidamento” vorrebbe che il contratto fosse ritenuto valido; così come valido é ritenuto ( art.1439 ) il contratto stipulato in conseguenza
dei raggiri “usati da un terzo”, quando la parte, avvantaggiata da tali raggiri, nulla sapeva. Doc.- Forse il legislatore é stato indotto a tale soluzione, in considerazione del maggior allarme sociale, che determina un fatto di violenza in paragone a una “induzione in errore”. Passo alla lettura dei successivi articoli, 1435. e 1436. L'articolo 1435, recita: “La violenza deve essere di tale natura da far impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole. Si ha riguardo in questa materia, all'età al sesso e alla condizione delle persone”. Ed ecco quel che recita l'articolo 1436 : “ La violenza é causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni del coniuge del contraente o di un discendente o ascendente di lui. - Se il male minacciato riguarda altre persone, l'annullamento del contratto é rimesso alla prudente valutazione delle circostanze da parte del giudice”. Disc.- A me sembra che, l'unica cosa che avrebbe dovuto importare al legislatore, avrebbe dovuto essere questa : il ragionier Bianchi si é determinato a stipulare la vendita della sua villa in seguito alle minacce del sig. Corleone, oppure no ? Se sì, poco importa che un'altra persona al posto del (pavido ) ragioniere non si sarebbe lasciata intimidire. Del resto, forse che l'articolo 1439 ( sul dolo ) esclude l'annullamento di un contratto, quando la parte é caduta in errore solo per la sua straordinaria credulità ? Disc.-A richiedere per la violenza i requisiti, di cui agli articoli appena letti, il legislatore é mosso da due considerazioni La prima considerazione é questa: l’annullamento del contratto produce effetti, non solo per le parti che l'hanno stipulato , ma anche per i terzi che da loro hanno acquistati diritti ( art. 1445 ). Ora, se per la parte che ha usata violenza, si può anche fare il ragionamento: “peggio per lei se la sua controparte é stata tanto pavida da lasciarsi intimorire da una minaccia leggerissima: se non voleva correre il rischio dell’annullamento, doveva semplicemente astenersi da ogni minaccia”; tale ragionamento non si può ripetere per i terzi (che nessuna minaccia hanno proferita): essi non debbono essere danneggiati dalla particolare pavidità di Caio. La seconda considerazione, muove dalla necessità di evitare che, il richiamo alla violenza subita, dia un facile pretesto alla sua vittima per liberarsi da un contratto
rivelatosi per lei svantaggioso. Disc.- Sono considerazioni che il legislatore avrebbe potuto fare anche a proposito dell’errore e del dolo; ma che né per questo né per quello ha fatte. Doc.- Forse perché il legislatore, nella disciplina dei vizi del consenso, si é lasciato troppo condizionare dalla tradizione, a scapito della razionalità del sistema. Disc.- Tra i requisiti che l'articolo 1435 menziona, vi é l'ingiustizia del male minacciato: quand'é che il male minacciato può considerarsi ingiusto ? Doc. Quando é minacciata la lesione di un interesse, che il legislatore tutela: di un diritto insomma. Esempio di minaccia di un male ingiusto: Tizio minaccia Sempronio di bruciargli la sua villa, se non gliela vende. Esempio di minaccia invece di un male, sì, ma non ingiusto: Tizio minaccia di non tollerare più il passo di Sempronio nel suo fondo, se non gli vende la villa. Disc. Quindi la minaccia di far valere un diritto non potrà mai essere considerata minaccia di un male ingiusto. Doc. Non potrà esserlo nel caso in cui il diritto, di cui si minaccia l’esercizio per ottenere una vantaggio di natura economica, sia anch’esso di natura economica, come é il caso, nell’esempio prima fatto, di Tizio che minaccia di non tollerare più il passaggio di Sempronio sul suo fondo, se questi non gli vende la villa. Quello che, invece, potrà essere considerato come “diretto a conseguire vantaggi ingiusti”, sarà l’esercizio di un diritto di natura non economica per ottenere un vantaggio economico. Esempio, Tizio minaccia di richiedere il divorzio se la moglie non gli vende la sua villa. Con questi limiti va interpretato l’articolo 1418 che, sotto la rubrica “Minaccia di far valere un diritto”, recita: “La minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando é diretta a conseguire vantaggi ingiusti”.
Sezione terza : Lo Stato ha interesse che, eventuali perdite di beni costituenti la ricchezza nazionale, siano ripianate gravando sul patrimonio di chi le ha provocate o di chi , in relazione ad esse, si é arricchito 22 – I principi che regolano il risarcimento da fatto illecito ( Si suggerisce allo studioso di integrare il presente e il seguente capitolo sui risarcimento con quanto detto nel cap.1 Tit.I Libro VIII : “Domande e risposte in materia di responsabilità extracontrattuale” ) Premessa – Nel trattare la non facile materia dei principi che regolano il risarcimento da fatto illecito, ci é sembrato, più facile per noi, e più utile per il lettore, procedere con brevi “noterelle”, in cui, partendo da una caso concreto, passiamo a fare brevi osservazioni ( si spera utili a chi ci legge ). Prima noterella – Rossi alla guida della sua autovettura investe quella del ragionier Bianchi e la rende un rottame. Un bene componente la ricchezza nazione é andato perduto e occorre ricostituirlo spendendo, ahimé, dei soldi, metti, diecimila euro.
Prima domanda : questi soldi dovranno uscir fuori dal portafoglio dell'investitore Rossi o da quello dell'investito Bianchi ? Risposta, che tutti, nel caso, sapremmo dare: ad essere salassato dovrà essere il portafoglio di Rossi, il quale, presi diecimila euro, li dovrà passare a Bianchi - così che di conseguenza il patrimonio di Rossi subirà una contrazione ( più o meno dolorosa ) mentre quello di Bianchi ( non aumenterà certo, ma almeno) sarà riportato al livello ante-incidente . Seconda domanda : perché il legislatore trasferisce il danno subito da Bianchi su Rossi? Risposta : per due motivi. Primo motivo: perché su Bianchi grava il sospetto ( e molte volte la prova ) di aver causato l'incidente tenendo un comportamento ( metti, caratterizzato da imprudenza, guida a velocità eccessiva ) che lo qualifica, non solo come cattivo guidatore, ma anche come cattivo amministratore del suo patrimonio ( patrimonio che, non solo lui, ma anche lo Stato ha interesse sia ben gestito ). Ora lo Stato , dovendo necessariamente prodursi la diminuzione di un patrimonio ( quello di Bianchi o quello di Rossi ) , quale sarà il patrimonio che avrà interesse a veder diminuito ( a preferenza dell'altro) ? Ovviamente quello di Rossi su cui grava il sospetto di essere un cattivo amministratore, e non quello di Bianchi che ( così si spera fino a prova contraria! ) é un buon amministratore. Secondo motivo ( per cui Lo stato trasferisce il danno dall'investito all'investitore ) : perché così facendo é come se mandasse un messaggio a tutti coloro che sarebbero tentati di comportarsi negligentemente o imprudentemente alla guida della loro auto : “Attenti, essere negligenti o imprudenti, vi può costare caro, come é costato caro a Bianchi”. E tale messaggio, così si spera, avrà l'effetto di diminuire i danni conseguenti alla circolazione automobilistica. Seconda noterella – Nella prima noterella ci siamo messi nel caso in cui chi ha causato un danno é obbligato al suo risarcimento. Ma tutti i danni vanno risarciti ? Facciamo questo caso : Bianchi, un bel giorno ha un'idea : costruire in quel tal suo terreno, su cui ora nascono solo sterpaglie, un grattacielo. Buona l'idea per Bianchi, che vedrà elevarsi insieme al grattacielo la quantità di soldi che ha nel portafoglio, ma apportatrice di grave danno al vicino, Rossi : questi, che ogni mattina , alzatosi da letto, poteva bearsi della stupenda vista del golfo di Genova, una volta costruito il grattacielo, dovrà rassegnarsi a guardare solo dell'arido cemento. Domanda : Rossi
per il danno che riceve può ottenere un risarcimento ? No, perché si ha diritto al risarcimento, non per ogni danno ( subito ), ma solo per i danni consistenti nella lesione di un interesse che il legislatore tutela imponendo, a chi lo lede, un obbligo risarcitorio ( ci si perdoni la tautologia ). Quindi , perché esista un obbligo risarcitorio non basta che sia leso un interesse tutelato giuridicamente, occorre che tale interesse sia tutelato con l'imposizione di un obbligo risarcitorio. E' importante rilevare ciò perché ci sono interessi che sicuramente il legislatore ritiene meritevoli di tutela, ma che non tutela imponendo un obbligo risarcitorio a chi li lede. Esempio : la autovettura di Bianchi viene ridotta a un rottame da quel cattivo e spericolato conducente che é Rossi . Naturalmente ciò viene a creare non pochi disagi a Bianchi ( scrivere all'assicurazione, andare in ufficio nella ressa di un treno regionale anziché comodamente nella sua auto...) - e chiaramente tutto ciò rende rabbioso, verso Rossi, Bianchi ( che ben volentieri, se il codice penale non glielo impedisse, darebbe una legnata a Rossi ) : insomma con il suo comportamento colposo Bianchi é venuto a ledere, non solo un interesse patrimoniale di Bianchi, la perdita dell'auto ( creando così un danno che senza dubbio dovrà risarcire ), ma anche suoi interessi non patrimoniali e in particolare il suo interesse a condurre una vita serena e non rosa dalla rabbia e dai litigi. Questi interessi non patrimoniali sono ritenuti meritevoli di tutela dal legislatore ? Senza dubbio, sì , e tanto é vero che, se Bianchi avesse distrutto l'auto di Rossi, non colposamente ma dolosamente, il giudice lo avrebbe condannato a risarcirli. E tuttavia, nel caso che la loro lesione avvenga colposamente, risarciti non sono. Vedremo poi il perché . Ora ci basta aver fatto rilevare l'erroneità dell'assunto che vuol fare derivare, dal semplice fatto che una norma costituzionale ritenga meritevole di tutela un interesse ( metti, l'interesse alla libertà ), la conclusione che il Legislatore ( addirittura il Legislatore costituzionale ) voglia obbligare al risarcimento chi , tale interesse, lede. Terza noterella- Il laborioso Bianchi nel compiere una delle sue attività ha omesso un quid. Qualsiasi buon cittadino ( qualsiasi bonus pater familias, per usare un'espressione inflazionata nel parlare di noi giuristi ) sarebbe caduto nella stessa omissione, dato che in fondo c'erano solo tre probabilità su mille che da essa un qualche danno derivasse. Il diavolo ci mette la cosa, e dall'omissione un danno si verifica. E' giusto condannare Bianchi al risarcimento anche se ogni bonus pater familias si sarebbe, come lui, comportato? Io rispondo di sì. Ma, mi si può contestare, non é eccessivo obbligare a un risarcimento, che potrebbe essere molto
gravoso, chi ha commessa, sì, un'omissione, ma quando questa aveva solo tre probabilità su mille di causare un danno ? Risposta a tale obiezione, che parrebbe dettata dal buon senso ( e che invece é solo dettata da un superficiale sentimentalismo ) : no, non é eccessivo : tale può apparire solo quando si ponga mente al momento della applicazione delle pena e non a quello della sua minaccia : infatti la minaccia rivolta dal legislatore a Bianchi “Se tieni il comportamento A ci sono tre probabilità su mille che ti obblighi al risarcimento” , é perfettamente congrua col fatto che vi sono tre probabilità su mille che dal comportamento A derivi un danno: forse che la severità di una sanzione ( se come tale vogliamo considerare il risarcimento ) non dipende, sì, dal quantum di pena minacciato, ma anche dalle probabilità che tale quantum di pena sia affettivamente applicato ?! Questa osservazione, valida per il penale, ancor più valida é per il civile : Rossi ha causato un danno di centomila a Bianchi con un comportamento che aveva tre probabilità su mille di provocare tale danno : si tratta di stabilire, se, del peso di tale danno, va gravato il patrimonio di Rossi o quello di Bianchi. Si dice : é ingiusto gravare quello di Bianchi perché vi erano solo tre probabilità su cento che il danno si verificasse ; bene, si può rispondere, ma questo é un buono motivo per lasciare il danno sulla gobba di Bianchi ? Quando i piatti di una bilancia sono in perfetto equilibrio, basta aggiungere una piuma su un suo piatto per farla pendere dal lato di quel piatto ; e la piuma, in subiecta materia, é che, chi era nella posizione migliore per evitare il danno, volere o volare, era Rossi e non Bianchi. E' per questo che gli antichi giureconsulti insegnavano “In lege aquilia ( cioé in materia di risarcimento di un danno causato da fatto illecito) etiam levisissima culpa venit”. Inoltre va considerato che l'alternativa alla soluzione proposta è....l'assoluto arbitrio lasciato al giudice in materia di risarcimento. Infatti, accettando la soluzione da noi contrastata ( idest, ritenendo l'obbligo risarcitorio, solo quando un bonus pater familias si sarebbe astenuto ecc.ecc ) il giudice, per decidere se condannare o no ( al risarcimento ) Rossi, dovrebbe accertare due fatti : primo, che dal comportamento di Rossi derivavano tot probabilità che un danno conseguisse; secondo, che, alla constatazione che dal comportamento A avrebbero potuto conseguire tot probabilità di danno, ogni pater familias si sarebbe astenuto da esso. E sia nell'accertamento del primo che del secondo fatto non ha nessuna guida sicura ( chi può dire veramente se le probabilità di danno sarebbero state tot, o tot più 10 o tot
meno dieci? chi può dire veramente se un pater familias, questo fantomatico personaggio che noi giuristi tanto spesso introduciamo nei nostri discorsi, davanti a tot probabilità di danno si sarebbe astenuto dall'agire o no ? ) : tutto é rimesso a una valutazione arbitraria del giudice, tal che é perfettamente verosimile che due diversi giudici perverrebbero a due soluzioni diametralmente opposte della medesima causa e non si saprebbe dire chi dei due ha visto giusto e chi sbagliato. D'accordo, si dirà a questo punto, non facciamo dipendere la condanna al risarcimento di Rossi dall'accertamento della sua colpa, dato che tale accertamento inevitabilmente é arbitrario e opinabile, ma l'alternativa qual'é ? Rispondo: fare dipendere la condanna sic et simpliciter dall'accertamento del nesso di causalità tra il comportamento del Rossi e l'evento dannoso; dato che questo accertamento verte su fatti obiettivi e di solito facilmente accertabili . Questo, salvo che nei casi in cui il danno derivi da attività, pericolose ma permesse dal legislatore in considerazione della loro utilità . Ma di questa eccezione e del suo perché ci riserviamo di dire in seguito. A questo punto chi ci legge sarà curioso di sapere quel che dice il codice . Ecco quel che dice ( nell'art. 2043 ) : “Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Quindi, quel che ha scritto il legislatore nel codice, sembrerebbe rigettare la soluzione da noi proposta . Ma che importa quel che ha scritto un legislatore nella cui testa si riflette tutta la confusione presente in quella di coloro che dovrebbero guidargli la penna, i giuristi ?!
Quarta noterella- Rossi guidando la sua auto a eccessiva velocità, 90 Km/h, cozza contro quella di Bianchi, anche lui procedente a eccessiva velocità, 60 Km/h. Sempronio, che si trovava nell'auto di Bianchi subisce in seguito all'incidente danni, metti, pari a cento. L'incidente é addebitabile sia al comportamento imprudente di Rossi sia a quello di Bianchi: chi dei due tirerà fuori dal suo portafoglio i soldi necessari per risarcire Sempronio? Rossi, Bianchi o tutti e due? Se fosse vero, così com'é vero, che, in caso di distruzione di un bene costituente la ricchezza nazionale, il Legislatore ritiene giusto accollare il relativo danno a chi, cagionandolo, si é comportato colposamente, in quanto ravvisa in tale suo comportamento colposo un indice della sua incapacità ad amministrare con la dovuta diligenza un patrimonio (nell'interesse suo e della società tutta), ebbene, se questo fosse vero, ci si dovrebbe aspettare a rigor di logica che il legislatore accolli
tutto il risarcimento solo a quello, dei due concausanti l'incidente, che ha tenuta la condotta più colposa: a Rossi, quindi, che andando a 90 Km/h (mentre Bianchi andava a solo 60 Km/h) ha dimostrata maggiore imprudenza ( e quindi minore capacità ad amministrare ) di Bianchi. E infatti, così ci si dovrebbe aspettare, in prima battuta, il Legislatore dovrebbe giungere a questa conclusione: è preferibile che io, legislatore, accolli il danno, non a Sempronio, ma a Rossi e Bianchi; e, in seconda battuta, dovrebbe giungere a quest'altra conclusione: dovendo scegliere se accollare il risarcimento in parte al Rossi e in parte al Bianchi oppure se accollare al Rossi anche la parte di risarcimento spettante al Bianchi, io, legislatore scelgo la seconda soluzione e accollo tutto il risarcimento al Rossi , e infatti é meglio sottrarre il più possibile beni al patrimonio del Rossi che è presumibilmente un peggiore amministratore del Bianchi e lasciare integro il patrimonio del Bianchi, che é presumibilmente un migliore amministratore del Rossi. Invece il legislatore obbliga al risarcimento sia Rossi che Bianchi, sia pure in proporzione delle rispettive colpe. Questo con l'art. 2055 cod. civ., che recita : “Se il fatto dannoso é imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. - Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. - Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”. Perché questo? Perché, contro la soluzione di addebitare tutto il risarcimento (che potrebbe essere gravosissimo) a Rossi, depone l'esigenza di evitare il più possibile che la gestione di un patrimonio sia posta in crisi dalla necessità di sostenere una spesa (nel caso, la spesa che comporta il risarcimento) troppo forte. E infatti, la necessità di provvedere a una grossa spesa improvvisa, può costringere chi gestisce un patrimonio a operazioni antieconomiche (e, quindi, nocive alla società tutta: ad esempio, vendere, e a vil prezzo, quella macchina trebbiatrice che tra pochi mesi permetterebbe di portare a termine un ottimo raccolto di grano).
Quinta noterella – Rossi mentre guidava a velocità eccessiva investe il pedone Bianchi, mentre questi imprudentemente attraversava la strada. Bianchi subisce danni, pari, metti, a cento. Come nel caso studiato nella precedente “noterella”, anche qui vi é un concorso di colpa nella causazione del danno. La particolarità é che, uno dei concorrenti nella
causazione del danno, é quello stesso che l'ha subito: in altre parole, Bianchi si é autodanneggiato. Nel caso, il legislatore mette a carico anche di Bianchi una parte del risarcimento (cosa che in pratica ottiene riducendo l'obbligo risarcitorio di Rossi). Infatti il primo comma dell'art. 1227 cod. civ. recita : “Se il fatto colposo del creditore (nell'esempio, Bianchi) ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento é diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”. E' chiara la logica della disposizione legislativa: il cittadino che, comportandosi imprudentemente o negligentemente, danneggia la sua persona o i suoi beni, danneggia, sì, se stesso, ma anche la società tutta. Quindi, il legislatore carica su Bianchi parte del risarcimento per dire a tutti i cittadini “Attenti, non pensate di esporvi con leggerezza al rischio di subire i danni causati dalla colpa di un terzo, contando che, intanto, pagherà il terzo che vi ha danneggiato. Non sarà così: certo, parte del danno io la accollerò a chi vi ha danneggiato, ma parte la accollerò a voi”. A questo punto ci si domanderà: se il legislatore ritiene giusto sanzionare la colpa di chi danneggia le cose proprie in concorso con la colpa altrui, perché non sanziona la colpa di chi distrugge le cose proprie a prescindere del concorso di una colpa altrui (perché non sanziona la condotta di Caio che con la sua imprudenza ha portato la sua auto a sfracellarsi contro un muro) ? Se vi fosse una logica nelle leggi umane, l'unica risposta che si potrebbe dare a tale domanda non potrebbe essere che questa: il legislatore non sanziona la colpa di chi si autolede o lede le sue cose, per la difficoltà che incontrerebbe ad accertare tale colpa, mancando chi avesse (essendone danneggiato) interesse a denunciarla.
Sesta noterella- Un legislatore può rinunciare al risarcimento di un danno “ingiusto” ( in quanto lesivo di un interesse meritevole di tutela ), in considerazione dell'impossibilità di giungere a una quantificazione del risarcimento di tal danno, che non sia arbitraria– e questo perché preferisce, l'ingiustizia di non risarcire tale danno, all'ingiustizia di sentenze che venissero ad attribuire, a danni perfettamente identici, risarcimenti diversi ? E' quel che cercheremo di vedere in questa e nelle seguenti due “noterelle” . Prima cosa, vediamo qual'é il danno che effettivamente si risarcisce e cosa significa risarcirlo, partendo dall'esame dei seguenti due casi.
Rossi I, guidando spericolatamente ha fatto vil rottame della splendida fuoriserie di Bianchi I. Rossi II, sempre guidando spericolatamente ha mandato all'ospedale Bianchi II, da cui questi, entrato con due gambe, ne é uscito con una gamba sola, l'altra essendogli stata imputata. Tanto premesso, domandiamoci qual'é il danno che ha subito Rossi I. Si dirà, il suo danno é di aver persa la sua bella autovettura. No, la perdita dell'autovettura é solo la perdita di uno strumento, la vera perdita è quella delle cose utili e belle, che il Rossi realizzava usando tal strumento. Prima, avendo la macchina, poteva alla domenica andare al mare, fare dei bellissimi tuffi, di giorno, di notte andare a ballare, poteva nei giorni feriali andare al lavoro per guadagnarsi il suo bel stipendio e frequentare quel club in cui poteva fare conoscenze utili per aumentare ancor più tale stipendio e....potremmo continuare ma qui pensiamo di poterci firmare. E infatti a questo punto é facile dire qual'é il vero danno subito da Rossi I : é il non poter più andare al mare, non poter più andare in ufficio, non poter più andare al club (….). Passiamo ora al secondo caso da noi preso in esame e poniamo che Bianchi II avesse gli stessi gusti e gli stessi interessi di Bianchi I : anche lui alla domenica se ne andava al mare, anche lui nei giorni feriali se ne andava in ufficio e al club eccetera eccetera. Se ora domandiamo a chi ci segue, quali sono i veri danni subiti da Bianchi II , egli, in base a quanto detto prima, senz'altro dirà : i veri danni subiti da Bianchi II , non sono dati dalla perdita della gamba in se e per sé : la gamba era semplicemente uno strumento, i veri danni sono dati dalla perdita delle cose utili e belle che Bianchi II si procurava utilizzando tale strumento : fare dei bei tuffi e ballare, la domenica, recarsi al club nei giorni feriali ecc.ecc. Se tale risposta fosse giusta e lo é, noi dovremmo concludere che i danni subiti da Rossi I sono ( almeno in gran parte ) dello stesso tipo di quelli subiti da Rossi I. Giunti a tale conclusione, poniamoci le seguenti due domande. Prima domanda : cosa significa dire che Bianchi I e BianchiII hanno subito un danno? Dovendo andare funditus ( e non rimanere alla superficie del problema ), a tale domanda dobbiamo rispondere: significa dire che, in seguito all'incidente di cui sono stati vittime Bianchi I e Bianchi II, il loro stato di “bene essere” si é abbassato ( non potendo più fare i tuffi, andare al club...). Seconda domanda : e che cosa significa risarcire Bianchi I I e Bianchi II ? Significa ripristinare lo stato di “ben essere” che prima avevano.
Il che é facile nel caso di Bianchi I : nel suo caso non occorrerà neanche domandarsi quali cose “belle e utili” egli poteva procurarsi quando aveva la macchina, per poi industriarsi a procurargliene di altrettante. No, basterà comprargli un'altra macchina ( o dargli i soldi perché se la compri da sé ). Fatto questo si sarà ridato a Bianchi I lo strumento perché possa procurarsi da sé le cose che, prima dell'incidente, gli erano utili o lo facevano felice. Questo tipo di risarcimento che é di facile attuazione e non dà adito al pericolo che si elevi, sì, il benessere di Bianchi ( dalla bassura in cui era caduto in seguito all'incidente ), ma a un livello inferiore a quello che aveva al momento dell'incidente ( o, perché no? a un livello superiore ) si chiama risarcimento patrimoniale . Perché, “patrimoniale”? Perché molto semplicemente si ottiene ricostituendo il patrimonio di Bianchi I al livello quo ante : ricostituendo il patrimonio di Bianchi a tale livello si riporta sicuramente anche il suo livello di “ben essere” al livello quo ante. Ben più complicato é il risarcimento dei danni subiti da Bianchi II ( ancorché tali danni siano in definitiva dello stesso tipo di quelli subiti da Bianchi I). Ma questo lo vedremo nella prossima noterella. Settima noterella- Torniamo a parlare del povero Bianchi II, che, nell'incidente causato dalla imprudenza di Rossi II, ha perso una gamba. E vediamo, più analiticamente di quanto ci é stato possibile fare nella precedente “noterella”, i danni che ha subito. Con qualche piccola imprecisione, che il lettore ci perdonerà data la natura del presente lavoro , essi si possono così elencare: I- Perdita della serenità psicologica, dovuta alla frustrazione e alla rabbia, da lui provata per il torto subito ( “Che rabbia vedersi così ridotto dalla imprudenza di un cretino!”); II- Perdita della serenità psicologica dovuta all'angoscia per il futuro problematico che l'aspetta ( “Che altri dolori mi attendono ? riuscirò a superare le difficoltà che la mutilazione mi arreca?”); III- Dolori fisici ( subiti durante la degenza in ospedale...); IV- Rinuncia a varie cose belle della vita ( farsi una bella nuotata, ballare....); V- Rinuncia a varie cose utili della vita ( quella frequenza al club che gli procurava amicizie utili per avanzamenti in carriera....);
VI- Rinuncia a quel suo lavoro che gli procurava un bel stipendio mensile di euro duemila, grazie al quale poteva, procurarsi le belle cose A e B ( una crociera? un pranzo sontuoso?...) e allontanare le brutte cose C e D ( un mal di denti ? il gelo di un inverno rigido?...). Vediamo se e come sono risarcibili i danni sopra elencati. Danni sub VI- Essi sono senz'altro facilmente risarcibili , con la stessa tecnica vista nella precedente “noterella” : quanto guadagnava Bianchi II prima dell'incidente ? cento al mese ? Ebbene gli si dà ogni mese cento ( o, più sbrigativamente, gli si dà la somma, che rappresenta la capitalizzazione di cento misurata sulla sua presumibile vita lavorativa , in modo che, investendola, Bianchi II possa avere il reddito mensile di cento ) e con quei cento Bianchi II ritornerà ad avere la possibilità di procurarsi le benefiche cose A e B e di allontanare le malefiche cose C e D. Chiaramente i calcoli così fatti presenteranno un margine più o meno ampio di discrezionalità : le statistiche dicono che a Bianchi II sarebbero rimasti venti anni di vita lavorativa, ma é pur vero che la vita lavorativa di Bianchi II potrebbe essere minore ( metti a causa di un licenziamento o di un nuovo incidente, questa volta mortale ); sempre secondo le statistiche, lo stipendio di Bianchi II sarebbe aumentato dopo dieci anni di altri cento, ma come si può escludere che tale aumento di stipendio Bianchi II , grazie alla sua straordinaria efficienza, lo avrebbe raggiunto dopo soli cinque anni ? Peraltro questa possibilità di errori é limitata dai metodi di calcolo, particolarmente sofisticati, oggi usati dagli esperti in infortunistica. Danni sub V – Per i danni a Bianchi II dipendenti da quegli aumenti di stipendio che, le utili frequentazioni del club, gli avrebbero potuto procurare, si farà il calcolo di probabilità del loro effettivo realizzarsi e, come visto prima commentando i danni sub VI. mutatis mutandis, si darà a Bianchi II, a tacitazione di tali danni, una somma di denaro. Veniamo ora a dire dei restanti danni sub IV,III,II,I. Danni sub IV, III,II,I . Ahimé qui si palesano tutti i limiti che incontra il giurista nel risarcire un danno. Egli ha come strumento per fare ciò solo dei soldi. Ma questo strumento é valido solo quando una persona é stata privata ( dal comportamento colposo o doloso di un'altra ) di soldi ( o di cose che si possono tramutare in soldi o che si possono acquistare con i soldi ). Ma dimmi tu, come risarcisci Bianchi II del piacere che dà una bella nuotata o un tenero ballo sotto il chiaro di Luna? Dimmi tu,
come ripaghi i dolori fisici e psichici che Bianchi II ha subito in seguito con l'incidente ? Con i soldi?! Si dirà , ma si possono dare a Bianchi II tanti soldi che egli possa fare o procurarsi cose, che gli diano piaceri equivalenti a quelli che ha perduto o che lo ripaghino dei dolori subiti, non é vero che chiodo scaccia chiodo ? Sì, è vero (o almeno si può fingere che sia vero). Però non c'é chi non veda l'arbitrio in cui può cadere un giudice nel calcolare, in una siffatta maniera, le somme da dare a Bianchi II per risarcirlo dei danni di cui stiamo ora parlando. Come può, il giudice, sapere quanto ( in felicità, in piacere ) rappresentava per Bianchi il fare questo o quello ? Come egli può sapere quanto ( in felicità, in piacere ) possono per lui rappresentare quelle cose che, con i soldi datigli in risarcimento, egli si potrebbe procurare ? Dall'inevitabile arbitrarietà di un calcolo del risarcimento siffatto, c'é ben da aspettarsi l'ingiustizia di una sentenza che dia troppo o troppo poco e l'ingiustizia insita in due sentenze che risarciscono con somme differenti identici danni. .Verò é che, in materia di danni alla persona, almeno questa seconda forma di ingiustizia viene eliminata dalla tecnica risarcitoria adottata dai nostri giudici. In che consiste tale tecnica ? Detto in estrema sintesi consiste in questo. Si attribuisce all'integrità fisica e alla salute un dato valore, metti un milione. Poi si attribuisce ( più o meno arbitrariamente ) a questo o a quel organo del corpo umano una percentuale – che é la percentuale con cui la malattia o la perdita di quel organo diminuisce l'integrità o la salute di una persona. A questo punto il calcolo diventa semplice : tu, Bianchi II, hai, in seguito all'incidente, persa una gamba ? qual'é la percentuale attri
buita alla perdita di una gamba? il dieci per cento ? Allora ti tocca in risarcimento un milione diviso cento moltiplicato per dieci. Si tratta senz'altro di una tecnica che riduce il pericolo di una contraddittorietà delle sentenze ( dato che il valore da darsi, alla salute e ai vari tipi di lesione che la possono diminuire, é scritto in “tabelle” a cui tutti i giudici debbono uniformarsi) e che é anche molto.......democratica, ma si tratta anche di una tecnica risarcitoria molto rozza: dal momento che il risarcimento ha la funzione di riportare il danneggiato allo stato di “ben esser” che aveva prima dell'incidente, nel calcolarlo si dovrebbe tenere conto dei suoi gusti, dei suoi interessi, e, perché no? della sua ricchezza (sì, anche di questa : se io dò centomila, come risarcimento della gamba amputatigli, a Lazzaro che é abituato a dormire sotto
i ponti e a mangiare fagioli e patate, egli si sentirà al settimo cielo e perfino potrebbe spingersi a dire grazie a chi lo ha investito, se li dò a un miliardario, questi ci sputerà sopra ). Ma a questo punto il lettore si domanderà : ma che ha deciso il legislatore, ammette egli il risarcimento dei danni non patrimoniali ? L'ammette con dei limiti ( evidentemente preferendo l'ingiustizia di non risarcire alcuni tipi di danno, all'ingiustizia di un risarcimento calcolato in modo arbitrario e col risultato che identici danni potrebbero essere risarciti in modo diverso da diversi giudici). Ciò risulta chiaramente dall'art. 2059, che recita : “ Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”. Quindi la non risarcibilità dei danni non patrimoniali dovrebbe essere la regola a cui solo una norma di legge potrebbe apportare eccezioni. Ora l'unica norma di legge, che fa espressa eccezione alla regola ora detta, é l'articolo 185 Cod. Pen. , che nel suo capoverso recita:“ Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento (….)”. ( E come si spiega tale eccezione? Si spiega col fatto che un risarcimento basato su calcoli arbitrari tende a trasformarsi in una sanzione e ad essere basato su elementi – gravità della colpa, ricchezza del danneggiante (…) analoghi a quelli di cui il giudice penale deve tenere conto nell'applicazione di una sanzione penale : di conseguenza un risarcimento-sanzionatorio é pur sempre una nota stonata, ma una nota stonata che stride meno ed é tollerabile in un processo penale ). Va aggiunto però a quanto sopra detto, che la Suprema Corte ha aumentato il numero dei danni che, pur essendo non patrimoniali, sono risarcibili, accogliendo la tesi, autorevolmente sostenuta, che, pur nella mancanza di un esplicita norma in tal senso, debbono essere ritenuti risarcibili i danni non patrimoniali conseguenti alla lesione di un interesse tutelato dalla Costituzione.
Ottava noterella – Abbiamo visto in una precedente “noterella” come Rossi, che ha causato un danno a Bianchi, veda ridotto il suo obbligo risarcitorio in caso di concorso di colpa di Bianchi. Ricadono però nella previsione legislativa anche casi in cui Rossi, il danneggiante, vede, nel caso di concorso di colpa del Bianchi, il danneggiato, non solo ridotto, ma addirittura azzerato il suo obbligo risarcitorio. Questo risulta dal capoverso dell'art. 1227, che recita : “ Il risarcimento non é dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.
Il caso classico di applicazione di tale capoverso é il seguente : Bianchi vede che nel suo appartamento vi é un'infiltrazione di acqua partente dal piano superiore : evidentemente il vicino, Rossi, si é dimenticato di chiudere il rubinetto della sua vasca da bagno. L'infiltrazione potrebbe danneggiare preziosi dipinti appesi alle pareti : per evitare ciò bisognerebbe traslocare in una camera asciutta questi dipinti. Bianchi non lo fa: i dipinti sono danneggiati. Ora i casi sono due . Primo caso ( di dolo ): Bianchi non interviene, non fa nulla per salvare i dipinti, perché fa il ( perverso) ragionamento : “Che i dipinti vadano pure in malora, tanto ci penserà il Rossi a ricomprarmene dei migliori”. In tale caso, all'azzeramento di ogni obbligo risarcitorio del Bianchi, si arriverebbe già con l'applicazione del capoverso dell'articolo 2055 ( da noi già richiamato nella precedente “notterella” sei e ) che, come si ricorderà, stabilisce che, i concorrenti nella causazione di un danno, debbono risarcirlo in proporzione della loro colpa : nel caso, la colpa ( più precisamente, il dolo ) di Bianchi sarebbe tale da rendere insignificante il risarcimento di Rossi , cosa per cui é più pratico azzerarlo. Secondo caso ( veramente, di colpa ) : Bianchi rimane inerte, perché non si rende conto che l'umidità può danneggiare i dipinti. Come spiegare in questo caso l'azzeramento dell'obbligo risarcitorio del Rossi ? Non é cosa facile. La spiegazione più accolta é questa : si deve fare carico a Bianchi di tutto il danno ( escludendo del tutto un obbligo risarcitorio del Rossi ) perché egli ( idest, il Bianchi ) aveva l'obbligo di correttezza di impedire il danno. A noi questa sembra la classica spiegazione che....va spiegata. Posto che l'inadempimento di un obbligo può essere doloso o colposo, perché mai l'inadempimento colposo di un obbligo, che concorre con il comportamento colposo di un terzo, deve portare a soluzioni diverse, da quelle accolte per il caso di un qualsiasi comportamento colposo che concorra con altro comportamento colposo di un terzo ( soluzioni che, come abbiamo visto, comportano la ripartizione del risarcimento tra i due autori dei due comportamenti ) ? Non si capisce. Il capoverso dell'art. 1227, bisogna riconoscerlo, é un vero busillis! L'unica proposta passibilmente accettabile di una sua applicazione mi pare questa. Si applica il primo comma dell'articolo 1227 ( che riduce, ma non annulla, il diritto al risarcimento del danneggiato in colpa ) nei casi in cui il Bianchi (futuro danneggiato) si é potuto rendere conto del comportamento colposo del Rossi ( questi andava a velocità eccessiva ) quando, per il suo comportamento colposo ( anche lui andava a
velocità eccessiva ), non poteva porre in essere un comportamento che evitasse il danno. Si applica il secondo comma ( che azzera il risarcimento ) nei casi in cui il Bianchi, dopo essersi reso conto del possibile verificarsi del danno, avrebbe avuto tempo di adottare un comportamento idoneo a impedirlo, e non l'ha adottato.
Nona noterella - Bianchi, guidando in via Garibaldi a 55 km.h, non riesce ad evitare quell'investimento di un passante, che invece avrebbe potuto evitare se fosse andato alla velocità regolamentare di cinquanta km.h. : é obbligato a un risarcimento, metti, di centomila euro. In via Mazzini, nella stessa ora dello stesso giorno. Rossi guida alla velocità pazzesca di 100 km.h : ha fortuna, non investe nessuno, nessun risarcimento deve pagare. Non stride questa soluzione ? Non sembrerebbe giusto che a pagare i centomila euro fosse il Rossi e non il Bianchi ? Un altro giorno ma nella stessa via Garibaldi ( dato che ci é piaciuto prendere questa via come teatro dei nostri esempi ) il sig. Lazzaro mal guidando cagiona al sig. Verdi un danno di un milione; il cui risarcimento la vittima ben difficilmente riscuoterà ( Lazzaro, il nome dice tutto, é, ahimé! nullatenente ). In via Mazzini, nello stesso giorno e nella stessa ora, il sig. Epulone, anche lui mal guidando, cagiona il danno di cento al signor Viola, il quale é ben sicuro di vedersi risarcito ( Epulano é un miliardario ). Non stride questa soluzione ? Non sembrerebbe giusto che a Verdi fosse assegnato come debitore il sig Epulone e a Viola il sig. Lazzaro ? Certo che sì, certo che le soluzioni sopra viste stridono. Nella società di utopia ( di cui la nostra società non é che una caricatura ) lo Stato, durante l'anno, prenderebbe buona nota, da una parte, di tutti i comportamenti negligenti o imprudenti potenzialmente produttivi di un danno e, dall'altra parte, di tutti i danni verificatisi ; e poi condannerebbe, gli autori dei comportamenti più gravemente imprudenti o negligenti, a risarcire i danni, assegnando, ai danneggiati più gravemente, i colpevoli più ricchi e, ai danneggiati meno gravemente, i colpevoli meno ricchi.
Invece, scesi con i piedi in terra, cosa vediamo ? Vediamo che lo Stato individua, quelli, tra gli autori di comportamenti imprudenti o negligenti, da condannare al risarcimento, in base al criterio dell'esistenza di un nesso di causalità tra il loro comportamento e il danno verificatosi; e che assegna come debitore del risarcimento di un danno colui che tale danno ha provocato. E' questo, lo abbiamo visto negli esempi prima fatti, un criterio ben rozzo . Non meno rozzo di una individuazione mediante sorteggio delle persone da condannare al risarcimento ( e del resto, forse non é che, per pura sorte, Bianchi viene condannato al risarcimento e Rossi no ? forse non é che, per pura sorte, al sig Viola, che ha subito un danno gravissimo, viene assegnato come debitore un nullatenente ? ). Però questo criterio viene preferito (da tutti i legislatori, non solo dal nostro ) al sorteggio, perché presenta due vantaggi. Primo vantaggio. Facilita enormemente lo Stato nella individuazione di quei colpevoli (di un comportamento colposo) da assoggettare all'obbligo di risarcimento. Questo, perché ? Perché sarà il danneggiato stesso che - sapendo che, se non individua il responsabile del suo danno, non sarà risarcito - si darà da fare, per individuarlo e indicarlo all'autorità giudiziaria fornendo le necessarie prove. Secondo vantaggio: permette di dar soddisfazione al sentimento di vendetta del danneggiato. Mettiamoci nei panni di Bianchi, che si é visto mutilare di un braccio dal Rossi, che conduceva la sua auto a una velocità pazzesca : egli vuole vendetta . Un risarcimento a carico di Verdi, non può avere lo stesso gusto per lui che un risar
cimento a carico di Rossi. E c'é il rischio che, se vedesse condannato a risarcirlo Verdi, invece che Rossi , egli correrebbe a casa di questo con un bastone per fargli pagare, e, non con i soldi, ma con la pelle, la sofferenza che gli ha causato. Nella prossima “noterella” vedremo le critiche che, all'adozione del criterio del nesso di causalità, sono state mosse Decima noterella - Da quel che abbiamo detto nella precedente “noterella” risulta che il giudice può pervenire alla condanna, mettiamo di Rossi, al risarcimento dei danni patiti, mettiamo da Bianchi, in base a questo semplice ragionamento : “Io, giudice, condanno Rossi al risarcimento, perché ho accertato : I- che Rossi ha tenuto
il comportamento A; II- che l'ha tenuto con colpa o dolo; III- che vi é un nesso di causalità tra il comportamento di Rossi e l'evento dannoso che ha colpito Bianchi ( dove per nesso di causalità si intende quel che si intende nel parlare comune, in cui si afferma che, un dato comportamento ha causato un dato evento, quando, mancando tale comportamento, sarebbe mancato anche tale evento ). Non pochi Studiosi però ritengono viziato tale ragionamento e ne trovano la prova nel fatto che in certi casi può portare a condanne ( secondo loro ) inique. E il vizio che tali studiosi trovano nel ragionamento sopra riportato, non starebbe nel concetto di colpa o dolo ( di cui sub II ) , ma nel concetto di nesso di causalità (di cui sub III ): occorre pertanto sostituire – essi sostengono - il concetto di causalità naturale ( così essi si riferiscono al concetto di cui sub III) con altri concetti ( di nesso di causalità ). A questo punto vediamo due degli esempi, che tali Studiosi danno, per dimostrare la fondatezza della loro critica ( al concetto di causalità naturale ). Primo esempio : Rossi, andandosene in bicicletta, arrivato a un incrocio calcola che nessun altro veicolo sopravvenga e continua dritto : errore, sopraggiunge Bianchi ed egli lo investe: la velocità era tutt'altro che forte, le lesioni subite da Sempronio sono state tutt'altro che gravi, ma ciò non di meno si rende necessario il trasporto di Bianchi all'ospedale. Dove succede il fattaccio : il chirurgo sbaglia l'operazione e...manda al Creatore il povero Bianchi Secondo esempio : Sempre il solito Rossi investe il solito Bianchi, sempre causandogli lievissime lesioni. Ciò nonostante Bianchi va trasportato all'ospedale : purtroppo durante il tragitto l'autoambulanza viene investita da Tizio, e Bianchi viene ucciso. In entrambi i casi gli Studiosi di cui sopra pongono la domanda ( retorica) : non é iniquo condannare il Rossi a un risarcimento milionario per aver tenuto un comportamento, che non era assolutamente prevedibile potesse causare così gravi danni ? E, a tale domanda rispondendo positivamente, sostengono che il giudice, non deve limitarsi a constatare l'esistenza di un nesso di causalità naturale tra un dato comportamento e il danno, ma deve altresì accertare che, in base alle statistiche ( criterio proposto dai seguaci della “teoria della “causalità adeguata” ) o in base alle cognizioni scientifiche più avanzate ( criterio proposto dai seguaci della causalità scientifica e accolto dalla Corte Suprema di Cassazione ), nessuno potesse
prevedere la possibilità che, dal comportamento del Rossi, sortisse il danno poi effettivamente verificatosi. Che cosa si può contestare alle teorie sopra indicate ( della causalità adeguata e della causalità scientifica ) ? Primo, che tali teorie, non vengono a eliminare la necessità di servirsi del criterio della causalità naturale per stabilire l'esistenza di un obbligo risarcitorio : vengono semplicemente ad aggiungere a tale criterio un altro criterio - ma con ciò, a dir il vero, non veniamo a fare una contestazione, ma solo un chiarimento, che ci pare, però, utile per sgombrare il “tavolo della discussione” da elementi che potrebbero ingenerare confusione ( confusione già di per sè creata dal nome di “nesso di causalità” dato a quel quid pluris – perché non chiamarlo Pinco Pallino?! - che, per arrivare a una condanna, dovrebbe aggiungersi al nesso di causalità vero e proprio ) Seconda contestazione : le teorie contestate pretenderebbero basarsi su elementi “obiettivi”, cioé che prescindono dalle tecniche usate per l'accertamento della colpa, ma tale pretesa é del tutto infondata. Infatti, per stabilire se il comportamento del Rossi é stato, o no, colposo, come dovremmo procedere ? Evidentemente con una comparazione ( parametrazione ) tra le previsioni fatte dal Rossi ( “Non é prevedibile che all'incrocio sbuchi un altro veicolo” ) e le previsioni fatte da un altro essere umano, chiamiamolo Pinco Pallino ( “Sì, é prevedibile che un veicolo sbuchi”; “sì é prevedibile – oppure non é prevedibile - che una persona, portata all'ospedale, abbia la sfortuna di morire sotto i ferri di un chirurgo incapace” ). Ora il fatto che le previsioni di Pinco Pallino siano consacrate in un libro di statistica o di medicina ( o di ingegneria...) nulla cambia. Quindi é assurdo sostenere che l'accertamento del nesso di causalità, adeguata o scientifica, si basa su tecniche diverse da quelle adottate per l'accertamento della colpa, solo perché si basa su quello che risulta da un libro di medicina ( o di ingegneria...). La verità é che l'accertamento del nesso di causalità adeguata o del nesso di causalità scientifica non avviene in modo per nulla diverso dall'accertamento della colpa. E noi crediamo che le teorie del “nesso di causalità adeguata” e del “nesso di causalità scientifica”, studiate nella loro naturale sede – che é quella dell'elemento soggettivo ( dolo e colpa ) - si....sgonfierebbero subito, perché si rivelerebbero semplicemente un tentativo di introdurre surretiziamente la rilevanza dell'elemento soggettivo, in casi in cui il legislatore tale rilevanza vuole escludere.
.Terza contestazione : Non vi é nulla di iniquo se, essendo derivato da un comportamento denotato solo da una levissima culpa un danno gravissimo, l'autore di tale comportamento viene condannato a un ingentissimo risarcimento. Abbiamo visto che tali irrazionalità sono connaturate al sistema di risarcimento che il legislatore ha scelto ( e non poteva non scegliere ). Un danno ( ingentissimo ) si é verificato : il legislatore deve scegliere se accollarlo a Rossi, che lo ha causato sia pure con lievissima colpa, oppure a Bianchi, che di nessuna colpa si é macchiato : tertium non datur. Perché mai si dovrebbe ritenere più giusto far pesare il danno sull'innocente Bianchi anziché sul colpevole Rossi ? A questo punto, va notato che, negli esempi portati a dimostrazione della necessità di liberare Rossi da ogni responsabilità ( per l'iniquità ecc.ecc. ), c'é sempre “di mezzo” ( queste parole sono usate a ragion veduta ) un terzo su cui accollare il risarcimento ( il chirurgo maldestro, l'autista che investe l'autoambulanza ). Ed é chiaro il perché : se, per riferirci al secondo esempio, l'autoambulanza fosse stata distrutta, non da un'altra auto, ma, metti, da una bomba sganciata da un aereo nemico, per cui liberare Rossi ( il ciclista maldestro ) dall'obbligo risarcitorio, significherebbe lasciare l'infortunato Bianchi senza risarcimento, la pretesa iniquità di obbligare Rossi a risarcire apparirebbe ancora ? Noi pensiamo di no. Questa osservazione ci spinge a domandarci se l'equa soluzione dei casi, proposti dai fautori delle teorie della causalità adeguata e della causalità scientifica, non vada basata su una intelligente interpretazione, dell'ultima parte dell'articolo 1223 e del capoverso dell'articolo 1226. Anche di ciò parleremo nella prossima noterella.
Undicesima noterella- Ben può essere che un evento dannoso, una volta verificatosi, a sua volta provochi un altro evento dannoso ( che, rispetto all'azione causativa del primo evento, può giustamente qualificarsi come danno indiretto ). Esempio : Rossi versa della stricnina nel vino di proprietà di Bianchi rendendolo imbevibile – primo evento dannoso; Bianchi beve il vino avvelenato e muore – secondo evento dannoso (“danno indiretto”). Altro esempio : Rossi danneggia l'auto di Bianchi – primo evento dannoso; non potendo utilizzare l'auto per recarsi a un convegno d'affari, Bianchi perde un milione – secondo evento ( “danno indiretto” ) . Altro esempio ancora : Rossi uccide Bianchi, primo evento dannoso; la moglie di Bianchi e l'amante di Bianchi, non ricevendo più l'assegno alimentare, che prima il Bianchi loro passava, cadono in miseria – secondo evento (“ danno indiretto” ).
A questo punto leggiamo, facendo soprattutto attenzione alla sua ultima parte, l'articolo 1223 – il quale recita : “ Il risarcimento del danno (…..) deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. La ratio di tale articolo viene generalmente rinvenuta, o nella volontà del legislatore di evitare che, chi ha tenuto un comportamento colposo o doloso, venga costretto a risarcimenti troppo gravosi ( essendo il danno verificatosi troppo grande ) o nella difficile prevedibilità dei danni indiretti. Ma entrambe le interpretazioni mancano di un serio fondamento. Assurdo é infatti far derivare dalla gravosità di un risarcimento la sua esenzione : se si esenta il danneggiante dall'obbligo di risarcire il danno di un milione perché si ritiene troppo “severo” diminuire di un milione il suo patrimonio , si viene, si ripete assurdamente, a diminuire di un milione ( il milione che non viene risarcito ) il patrimonio del danneggiato. Assurdo anche attribuire all'articolo in esame la volontà di esentare l'autore del comportamento causativo dei danni, da quelli indiretti, perché questi sarebbero da lui difficilmente prevedibili : e infatti vi sono di danni indiretti effettivamente difficilmente prevedibili, ma anche vi sono danni indiretti facilmente prevedibili e addirittura danni indiretti previsti e voluti ( come nel caso di Rossi che versa della stricnina nel vino di Bianchi per determinarne la morte ) : assurdo pensare che il legislatore abbia voluto fare …..di ogni erba un fascio.
A noi sembra che bastino queste poche osservazioni per convincere che l'articolo 1223, senza una radicale opera di correzione da parte dell'interprete, non é applicabile ( e infatti, é la stessa Corte Suprema di Cassazione a dire che l'articolo 1223 interpretato alla lettera non é applicabile ). Allora in che senso dovrebbe essere corretto tale articolo ? Secondo noi nel senso che preveda il caso che, dopo che il comportamento colposo ( o doloso ) di Primus ha provocato un evento dannoso , vi sia l'intervento di Secundus, che col suo comportamento potrebbe eliminare o al contrario aggravare il danno già verificatosi : si pensi al caso proposto dai fautori della teoria della causalità
adeguata e dai noi riportato nella “noterella” decima : dopo che Rossi gli ha provocato lievi lesioni ( evento primo e “diretto” ) , Bianchi é portato all'ospedale dove deve essere operato dal chirurgo Verdi . Chiaramente il legislatore, in un tal caso, deve fare il massimo di pressione sul chirurgo Verdi , per spingerlo a fare l'operazione con la dovuta diligenza. Ora tale pressione sarebbe, non irrobustita, ma indebolita dalla previsione di un obbligo solidale di Rossi a risarcire il danno derivante dal fallimento dell'operazione : infatti un obbligo solidale di Rossi significherebbe riduzione del risarcimento, che il chirurgo dovrebbe dare in caso di fallimento dell'operazione. Questa non potrebbe essere stata considerata dal legislatore una buona ragione per esentare, l'autore del primo evento dannoso ( il Rossi ), dal risarcimento del secondo ( e indiretto ) evento dannoso ( la morte sotto i ferri di Bianchi ) ? Noi diremmo di sì. Insomma la ratio dell'articolo 1223 verrebbe ad essere, seguendo la interpretazione qui proposta, la stessa di quella che presiede al capoverso dell'articolo 1226 : si ricorda lo studioso il caso, che abbiamo fatto, di Bianchi, che, accortosi dell'infiltrazione d'acqua provocata da Rossi e che minaccia di distruggere dei suoi dipinti, potrebbe essere tentato di non intervenire (traslocando i dipinti in luogo asciutto), se avesse a credere che comunque il danno della distruzione dei dipinti sarebbe in tutto o in parte risarcito dal Rossi – ciò che opportunamente il legislatore invece gli esclude, appunto col capoverso dell'art. 1226 ?
23 Cenni sui vari tipi di responsabilità da fatto illecito. Disc. A questo punto, penso che noi si possa passare a una rapida rassegna degli articoli in cui il Legislatore contempla varie specie di comportamenti colposi. Cominciamo dall’articolo 2050, il quale (sotto la rubrica “Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”) recita: “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, é tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Ma a quali “attività pericolose” si riferisce il legislatore con l’articolo ora riportato?
Dico questo perché é ben raro che un’attività non presenti un certo pericolo: solo che io mi limiti a mettere la mia valigia nella reticella del treno, ecco che ho posto in essere un’attività pericolosa, dato che la valigia potrebbe cascare in testa ad un altro viaggiatore. Doc. Il Legislatore non lo dice; ma sembra chiaro che egli, dettando l’articolo in esame, aveva soprattutto in mente quelle attività portate dal progresso tecnico, che, pur provocando dei danni, sono tollerate nel presupposto che le utilità, che danno alla società, siano superiori a tali danni. Disc. Ma, la fondatezza di tale presupposto, si può verificare solo dopo che, per un certo periodo di tempo, tali attività sono esercitate: se, le somme ricavate dal loro esercizio (e rappresentative delle utilità, di cui il pubblico per il loro esercizio ha beneficiato), superano le somme dovute a titolo di risarcimento per tutti i danni, da tali attività arrecati, solo allora si potrà dire che l’esercizio di tali attività é vantaggiosa per la società. Ma il legislatore impone all’Autorità tale verifica? Doc. Direi di no: egli sembra affidarsi alla legge del mercato. E in effetti, se veramente, tutti i danni causati dall’attività (pericolosa), fossero risarciti, qualora l’ammontare di tali risarcimenti superasse i ricavi, chi esercita l’attività sarebbe costretto a dichiarare fallimento, a chiudere. Disc. Questo però se effettivamente egli fosse obbligato a risarcire tutti i danni. E’ così per l’articolo 2050? Doc. No, non é così. Infatti, dalla lettura di tale articolo, risulta che il Legislatore esenta dal risarcimento: 1) i danni contro il cui verificarsi la tecnica non offre “misure idonee”; 2) i danni che si verificano nonostante l’adozione delle misure offerte dalla tecnica, in quanto esse si limitano a ridurre la probabilità che si verifichi il danno, ma non lo escludono. Disc. Quindi risulta dall’articolo 2050, che il legislatore permette l’esercizio anche di attività la cui utilità per il pubblico é inferiore ai danni che esse gli arrecano. Perché questo? Doc. Il “perché” può essere il più vario: perché l’attività é utile alla difesa nazionale,
perché é utile alla salute pubblica, perché si spera che lo stesso esercizio dell’attività porti a scoprire le misure idonee ad evitare i danni che provoca. Disc. Quindi i danni non risarciti verranno a essere, in tal caso, una sorta di imposta; anomala, però, perché viene a gravare, non su tutta la popolazione, ma solo su quella sua parte, che ha subito tali danni. Doc. E’ così. Disc. L’articolo 2050, però, stabilisce un’inversione dell’onere probatorio a vantaggio del danneggiato: infatti nella sua ultima sua parte recita “(chi esercita un’attività pericolosa) é tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Doc. Per nulla. Infatti secondo i principi il danneggiato non ha che da provare che l’esercizio della attività causativa del danno era pericolosa (alias, che esercitandola era prevedibile che il danno si sarebbe verificato). Non deve provare che non sono state adottate misure destinate a ridurre le probabilità che questo si verificasse. Come che sia, bisogna riconoscere che l’onere, imposto a chi esercita un’attività pericolosa, di dar la prova di aver adottato le misure idonee a evitare il danno, é più che opportuno. Infatti, gravare di tale onere il danneggiato, significherebbe gravarlo, il più delle volte, di un onere, se non impossibile, almeno di difficilissimo adempimento per lui, in quanto solo chi ha delle cognizioni specialistiche può, il più delle volte, sapere che esistono misure per evitare i danni, che una certa attività provoca. Disc. Passiamo a parlare più particolarmente di quell’attività pericolosa, che é la conduzione di un autoveicolo. Doc. A questa e più genericamente alla conduzione di ogni veicolo “senza guida di rotaie (quindi anche di un carro a trazione animale), il Legislatore dedica un articolo ad hoc, l’articolo 2054. Disc. Dandole un disciplina diversa da quella prevista nell’articolo 2050? Doc. Sì, parzialmente diversa.
Disc. Dilla, allora. Doc. Sì, la dico subito, però premettendo che bisogna distinguere tra il caso che il danno derivi da uno scontro tra veicoli o no. Nel caso che non derivi da un scontro tra veicoli, va applicato il primo comma dell’art. 2054, che recita: “Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie é obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno” Quindi tu, ragionier Parodi, se hai investito con la tua auto un pedone, per esimerti da responsabilità, non basta che provi di aver adottato le misure imposte dalla legge, metti, di essere andato, nel centro abitato, a 50 Km.h., occorre che tu provi che, andando a tale velocità, non era possibile, a un automobilista perito e attento, bloccare l’auto prima del punto d’urto. Disc. Passiamo al caso che il danno derivi da uno scontro tra veicoli. Doc. Allora va applicato il secondo comma dell’articolo 2054, che recita: “Nel caso di scontro tra veicoli si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli” Se tu, rag. Parodi, ti sei scontrato con l’auto del ragionier Brambilla, e la tua auto ha avuto danneggiato un parafango, spesa per ripararlo, mille, e quella del ragionier Brambilla ha avuto danni al motore, spesa per ripararli tre mila, siccome si presume che la tua colpa sia stata uguale a quella del Brambilla, tu dovrai dare millecinquecento euro a Brambilla e questi dovrà dare cinquecento euro a te. Disc. E se il danno derivato dall’incidente non fosse alle cose ma alla persona, metti se nell’incidente il Brambilla si fosse rotto un braccio? Doc. Allora, si applica il primo comma e il Brambilla avrà diritto di aver risarcito integralmente dal Parodi il danno relativo alla rottura del braccio, se il Parodi non prova di aver fatto tutto il possibile per evitarlo. Disc. Metti che l’incidente si verifichi mentre é alla guida, non il proprietario, il ragionier Brambilla, ma il figlio. Il ragionier Brambilla risponde dei danni? Doc. Sì, a meno che non provi che il figlio si é messo alla guida contro la sua volontà (e non basterebbe l’espressione solo verbis della volontà che l’auto non sia usata,
occorrerebbe che il Brambilla avesse adottate le cautele necessarie per impedire l’uso dell’auto contro la sua volontà). Così mi pare debba essere interpretato il terzo comma dell’articolo in esame, che recita: “Il proprietario del veicolo,o, in sua vece, l’usufruttuario o l’acquirente con patto di riservato dominio, é responsabile in solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo é avvenuta contro la sua volontà”. Disc. Quindi il Legislatore presume una culpa in eligendo o in custodiendo del Brambilla, salva prova contraria. Severo il Legislatore. Doc. Ma vedremo che é ancor più severo negli articoli 2051 e 2052, che escludono la responsabilità del custode “salvo che provi il caso fortuito”. Disc. E, il fatto che l’incidente si sia verificato per un vizio di costruzione, esimerebbe da responsabilità il Brambilla? Doc. No. Il proprietario non é esentato da responsabilità, non solo nel caso di un difetto di manutenzione, e questo é naturale, ma neanche nel caso di un vizio di costruzione, e questo, bada, anche se tale vizio non era da lui conosciuto o conoscibile. E questa severa disposizione é estesa anche al conducente che proprietario non é, pretendendosi dal legislatore che, chiunque si mette alla guida di un veicolo, prima accuratamente controlli la sua buona funzionalità Tutto questo risulta dal quarto comma che recita: “In ogni caso le persone indicate dai commi precedenti sono responsabili dei danni derivanti da vizi di costruzione o da difetto di manutenzione del veicolo”. Peraltro va notato che la responsabilità per danni, dovuti a vizio di costruzione o di manutenzione, del proprietario di un veicolo, trova una perfetta corrispondenza nell’articolo 2053, che prevede una uguale responsabilità per il proprietario di un edificio. Disc. Leggiamolo allora questo articolo 2053. Doc. L’articolo 2053 (sotto la rubrica “Rovina di edificio”) recita: “Il proprietario di un edificio o di altra costruzione, é responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non é dovuta a difetto a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione”.
Disc. Però, mentre l’articolo 2054 esenta da responsabilità il proprietario del veicolo, se ha dato questo in usufrutto (recita infatti il terzo comma a cui rinvia il quarto: “Il proprietario del veicolo o, in sua vece, l’usufruttuario”), l’articolo 2053, almeno nella sua lettera, ritiene responsabile il proprietario dell’edificio anche se l’ha dato in usufrutto. Doc. Verissimo. E, tale esagerata severità dell’articolo 2053, fa sospettare in un lapsus del legislatore e sembra quindi imporre una interpretazione restrittiva, non solo nel caso di difetto di manutenzione, ma anche nel caso di “vizio di costruzione”. E infatti, la responsabilità del proprietario per vizi di costruzione, ha il suo logico presupposto nel fatto che egli, essendo nel possesso dell’edificio, abbia tempo per accorgersi dei vizi di costruzione, dato che tali vizi di solito si manifestano, non improvvisamente, ma molto prima che portino danni. Tale presupposto però viene a mancare nel proprietario, che abbia concesso ad altri l’usufrutto. Disc. Metti questo caso: l’edificio di proprietà del Brambilla é senza vizi e ben tenuto, però sopravviene una furiosa tempesta che svelle un comignolo e lo scaraventa sulla strada colpendo un passante: il Brambilla deve rispondere del danno subito dal passante? Doc. Sì, se la tempesta era prevedibile e il Brambilla poteva adottare le misure necessarie a che il comignolo, dalla tempesta, non fosse sradicato. Però ne risponderà, non per l’articolo 2053, ma per l’articolo 2051. Disc. Che dice tale articolo? Doc. Tale articolo ci dice (sotto la rubrica “Danno cagionato da cose in custodia”) che “Ciascuno é responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Disc. Che significa “caso fortuito”? Doc. Significa che il custode risponde dei danni cagionati dalla cosa custodita, a meno che questi danni (ancorché astrattamente prevedibili) fossero poco probabili – tanto poco probabili da non imporre a un buon padre di famiglia l’adozione di misure cautelative contro il loro verificarsi.
Disc. Sarebbe giusto dire che nell’articolo in esame il Legislatore adotta il principio Cuius commoda eius incommoda? Doc. No. Così sarebbe se il legislatore obbligasse il custode a rispondere di tutti i danni, che la res può produrre. Ma così non é: il legislatore accetta che una percentuale di rischio (del verificarsi di tali danni), anche se minima, ricada sulla società. Disc. Va inteso che sia custode solo chi debba custodire la res per un vincolo giuridico? Doc. No, più latamente, va ritenuto “custode” chiunque abbia la disponibilità della res e pertanto abbia la possibilità di adottare le misure cautelative a che non rechi danno. Questo lato significato del termine “custode” si argomenta anche dall’incipit dell’articolo 2052 – articolo che (sotto la rubrica “Danno cagionato da animali”) recita: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui l’ha in uso, é responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”. Disc. Mi pare chiaro che il Legislatore, nel ritenere la responsabilità del custode anche per il caso di fuga o smarrimento dell’animale, non fa che applicare il principio Causa causae est causa causati: certo non si può pretendere che tu, custode, impedisca all’animale che rechi danno, dopo che é fuggito o si é smarrito, però si poteva pretendere che tu ne impedissi la fuga o lo smarrimento, e per questo rispondi dei danni da lui provocati. Doc. Hai detto benissimo. Disc. La custodia di una res o di un animale, in certi casi, é utile alla società (penso alla custodia di una mucca che dà il latte, che poi troviamo al mercato), in altri casi, risponde solo a un capriccio del custode (penso a chi detiene leoncini o tigrotti): l’interprete deve tenere conto di ciò per valutare più o meno severamente la responsabilità del custode? Doc. Io direi di sì. E mi sento confortato in questa risposta positiva dal dettato degli articoli 2047 e 2048. Si può dire, sia pure un po’ semplificando, che tali articoli
riguardano chi ha in custodia, un “incapace” (articolo 2047), dei minori non emancipati, delle persone soggette a tutela e degli “allievi” e “apprendisti”(art. 2048); ebbene, in tutti questi casi il “custode” si può liberare della responsabilità dando la prova “di non aver potuto impedire l’evento”. Disc. Neanche questa mi pare una prova facile a darsi. Doc. Certamente non é una prova facile a darsi, ma non é neanche una prova impossibile, dato che la formula legislativa va interpretata restrittivamente. Infatti, il custode dell’incapace (art. 2047), per provare “di non aver potuto impedire il fatto”, non dovrà provare di aver tenuto sempre sott’occhio l’incapace, basterà che provi di non aver mai creato o lasciato permanere situazioni in cui la incapacità del custodito potesse dar luogo a danni. Lo stesso può ripetersi per il precettore (art. 2048 co.2): questi, per esonerarsi da responsabilità, non dovrà provare la sua continua presenza nel luogo in cui sono gli allievi, basterà che provi di aver adottate, per impedire il verificarsi di eventi dannosi, le misure disciplinari e organizzative rese opportune dalla maturità dimostrata dagli allievi (anche, anzi soprattutto, in base a comportamenti da loro precedentemente tenuti). I genitori e il tutore (art. 2048 co. 1), a loro volta, si libereranno dalla responsabilità provando di aver data una buona educazione (se non l’avessero data sarebbero responsabili per culpa in educando) e di aver vigilato sul minore, però nei limiti di cui si é ora detto a proposito della responsabilità del precettore (se non l’avessero fatto incorrerebbero nella c.d. culpa in vigilando). Disc. Ma vogliamo leggerli questi articoli 2047 e 2048? Doc. L’art. 2047 (sotto la rubrica “Danno cagionato dall’incapace”) recita: “In caso di danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il risarcimento é dovuto da chi é tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto. Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi é tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità”. L’articolo 2048 (sotto la rubrica “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte”) recita: “Il padre e la madre, o il tutore sono responsabili del danno cagionato dal fatto
illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante. I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”. Disc. Perché l’articolo 2048 non prevede, come fa invece l’articolo 2047 nel suo secondo comma, una responsabilità sussidiaria del minore o dell’allievo (…) per il caso che colui che deve rispondere del suo comportamento illecito, non abbia provveduto al risarcimento del danno. Doc. Perché l’articolo 2048 si riferisce al caso in cui il minore (l’allievo...), sia capace di intendere e di volere e quindi sia tenuto a rispondere (in solido, col genitore, col tutore, col percettore....) al risarcimento. Nel caso invece il minore (…) fosse incapace, allora si applicherebbe l’articolo 2046 (e il minore sarebbe tenuto al risarcimento – melius “a una equa indennità” - nel caso appunto previsto dal secondo comma dell’articolo 2047. Disc. Abbiamo finora contemplato il caso che l’incapace sia sotto la sorveglianza di una persona (o di una istituzione, penso alla struttura sanitaria in cui l’infermo di mente é ricoverato); ma se l’incapace non ha nessuno che sia obbligato a sorvegliarlo? Doc. La risposta te la dà l’articolo 2046, che (sotto la rubrica “Imputabilità del fatto dannoso”), recita: “Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità derivi da sua colpa”. Disc. Un chiarimento utile per meglio comprendere, non solo l’articolo 2046, ma anche l’articolo 2047: chi va considerato “incapace”? l’interdetto? l’inabilitato? Doc. Va considerato incapace, chi é....incapace. Quindi può essere che un interdetto non vada considerato incapace, mentre vada così considerato chi non é interdetto. Pensa per quest’ultimo caso alla persona che si é presa una sbornia (caso in cui cui però si applicherà l’ultima parte dell’articolo 2046).
Disc. Metti che Parodi dia incarico al suo commesso Bacciccia di andare ad aggiustare il rubinetto di Vattelapesca, e Bacciccia faccia un disastro: dei danni provocati da Bacciccia risponderà Parodi per culpa in vigilando? Doc. Non per culpa in vigilando, ma per culpa in eligendo; però, sì, Parodi ne risponderà (solidalmente) con Bacciccia per il disposto dell’articolo 2049, che (sotto la rubrica “Responsabilità dei padroni e dei committenti”) recita: “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. Disc. Bianchi viene aggredito da Rossi e per difendersi lo ferisce: Bianchi deve un risarcimento a Rossi? Doc. Naturalmente, no. Chi ha causato un danno in stato di legittima difesa o di “necessità”, non ha l’obbligo di risarcirlo. Però in caso di danno causato in stato di necessità, deve pagare “un’equa indennità”. Questo risulta dagli articoli 2044 e 2045, che di seguito ti riporto. L’art. 2044 (sotto la rubrica “Legittima difesa”) recita: “Non é responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sè o di altri”. L’articolo 2045 (sotto la rubrica “Stato di necessità”) recita: “Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi é stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non é stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato é dovuta un’indennità, la cui misura é rimessa all’equo apprezzamento del giudice”.
24 : . Arricchimento senza giusta causa. (Attenzione le note sono in calce al paragrafo) Doc.- Il caso di chi si é arricchito senza giusta causa é previsto e disciplinato, in via generale, dagli articoli 2041 e 2042; numerose norme poi contemplano e disciplinano casi particolari di arricchimento senza giusta causa. L’articolo 2041 - sotto la rubrica “Azione generale di arricchimento” - recita:
“Chi, senza una giusta causa, si é arricchito a danno di un’altra persona é tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Qualora l’arricchimento abbia per oggetto una cosa determinata,colui che l’ha ricevuta é tenuto a restituirla in natura, se sussiste al tempo della domanda”. A sua volta l’articolo 2042 così chiarisce: “ L’azione di arricchimento non é proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”. Disc.- Veniamo al dunque, quali sono i presupposti a che Caio possa agire contro Tizio con l’azione di arricchimento generale? Doc.- Sono i cinque seguenti: 1) che il patrimonio di Tizio abbia avuto un incremento (al campo che Tizio ha in riva al fiume – faccio l’esempio con riferimento all’articolo 944 - si é aggiunto un appezzamento di terreno) (1); 2) che Caio abbia subito un danno (il campo che Caio ha in riva al fiume ha perso quel appezzamento di terreno che si é andato ad aggiungere al fondo di Tizio),; 3) che tra l’incremento avuto dal patrimonio di Tizio e il danno subito da Caio (per la perdita dell’appezzamento di terreno di cui sub 2) vi sia una correlazione, nel senso che lo stesso fatto (nell’esempio, l’onda di piena del fiume) che ha determinato l’incremento ha anche determinato il decremento (2); 4) che non sussista una giusta causa per l’incremento patrimoniale di Tizio (l’esempio che si porta é quello di Caio, che ha donato un anello prezioso a Caia: certamente, in seguito alla donazione, Caia ha avuto un incremento patrimoniale e Caio un decremento p., ma tale incremento e decremento hanno la loro giusta causa nel contratto di donazione) (3). Disc. Tanto basta a che Caio possa chiedere a Tizio di essere indennizzato del danno subito? Doc.- Sì, tanto basta. Ma Caio dovrà tenere presente che potrà chiedere un indennizzo a Tizio solo nei limiti dell’arricchimento da questi avuto: se il danno é di sei e Tizio ha avuto un arricchimento solo di cinque, Caio potrà chiedere solo cinque. Ancora, Caio dovrà tenere presente che l’arricchimento riportato da Tizio dovrà essere valutato con riferimento al momento in cui verrà proposta la domanda di indennizzo: se l’incremento di valore del campo di Tizio in seguito all’aggiunta
dell’appezzamento di terreno avulso doveva, al momento dell’avulsione, essere valutato in cinquemila, ma, per il peggiorare del mercato immobiliare, al momento in cui l’azione é proposta va valutato in tremila, Caio può chiedere solo tremila. Infine, Caio dovrà tenere presente che a Tizio potrà chiedere un indennizzo solo nei limiti dell’arricchimento di questi esistente al momento della domanda: se il fiume, capriccioso, dopo aver incrementato il campo di Caio dell’appezzamento avulso al campo di Tizio, con una nuova ondata si riprende tale appezzamento per portarlo chissà dove, cosa per cui al momento della domanda il campo di Tizio da nulla risulta incrementato, Caio potrà chiedere a Tizio......nulla. Disc. Mi sembra di aver capito, ma fammi vedere se ho capito bene. Mettiamoci nel caso che Marieto, spendendo 150 (centocinquanta), abbia messo sù un bel night club: il night ha successo, e dei bei soldi entrano nel portafoglio del nostro Marieto, ma ecco il punto, dei bei soldi entrano anche nella saccoccia della Beppa, che ha una pizzeria a cinquanta metri dal night, pizzeria in cui entra a frotte la gente dopo aver ballato nel night di Marieto: da quel che ho capito, Marieto potrà dire alla Beppa, tu ora guadagni di più perché io prima ho tolto dal mio portafoglio centocinquanta per creare il night, quindi tu, che ti stai arricchendo a mie spese, devi rimborsarmi parte di quei centocinquanta da me spesi. Sbaglio? Doc. Sì, sbagli, perché secondo i principi (o, se preferisci in analogia a quanto dispone, per il caso di arricchimento, il secondo comma dell’articolo 2041 poco sopra riportato) chi ebbe a subire l’impoverimento può chiedere l’indennizzo solo di una diminuzione patrimoniale ancora esistente al momento in cui propone la domanda stessa. Ora é vero che, al momento in cui creava il suo night, Marieto ha avuta una diminuzione patrimoniale di 150, ma é anche vero che in seguito e come effetto di tale diminuzione patrimoniale (idest, della spesa di 150) ha avuto un incremento di trecento, per cui al momento della domanda di indennizzo il suo patrimonio risulta aver avuto, e, si ripete, come effetto della spesa prima fatta, un incremento, non un decremento patrimoniale. Disc-. Ma se non l’avesse avuto, tale incremento, mentre invece la Beppa, lei, sì, l’avesse avuto? Mi spiego con un altro esempio forse più chiaro: il produttore di un film inserisce in questo una scena in cui il protagonista chiede al bar un certo, preciso tipo di birra. Il film non fa cassetta, il produttore é in passivo; però la fabbrica di “quella birra” ha visto, in seguito al film, incrementare le sue vendite: non ti pare giusto che questa indennizzi (naturalmente nei limiti del suo arricchimento) il
produttore del film? Doc-. Se il produttore del film riesce a provare che effettivamente l’incremento delle vendite di birra é dovuto a questo (e non, metti, a un miglioramento della qualità della birra, o a un particolare exploit dei suoi piazzisti)......... Dic.-........ ma questa difficoltà di provare che l’arricchimento del convenuto é correlato solo al danno subito dall’attore, penso, sussista per tutte le cause basate sull’art.2041.... Doc.. ..se non in tutte, certamente in molte, lo debbo riconoscere; e questo é un po’ il tallone di Achille dell’azione di cui stiamo parlando; ma, riprendo il discorso, se effettivamente il produttore (del film) prova che l’arricchimento della fabbrica di birra é connesso al suo impoverimento (alias al suo “danno”, alias alle spese da lui fatte per girare il film, o meglio la scena in cui il protagonista chiede proprio “quella birra”), ebbene, sì, io riterrei che gli si dovrebbe riconoscere un diritto all’indennizzo. Disc. A questo punto fai qualche esempio meno romanzesco di danneggiato, che può valersi del disposto dell’art. 2041, per ottenere un indennizzo. Doc. Un primo esempio ce lo offre la normativa in materia di risoluzione dei contratti: Caio fa l’imprenditore edile e, in base a un contratto da lui stipulato con Tizio, ha costruita per questi una villetta. Tizio non paga, non ha un soldo in tasca: Caio chiede la risoluzione del contratto. E le spese che ha fatte per la costruzione della villetta? Le recupererà agendo ex art. 2041. Disc. A patto che il valore della villa risulti superiore all’ammontare delle spese. Il che potrebbe anche non darsi: metti che Tizio, illo tempore miliardario, avesse avuto lo sghiribizzo di fare costruire la villa in cima a una montagna: é ben difficile che si trovi qualcuno disposto ad acquistare una villa a cui é tanto difficile arrivare. Cosa per cui il valore di questa verrà ad essere inferiore alle spese fatte per costruirla. Doc. Sarebbe una delle tante situazioni in cui noi giuristi dobbiamo dire al cliente....”porti pazienza”. Ma lasciami portare un secondo esempio, costruito, non da me, ma da un autorevole Studioso della materia (dico ciò per rassicurarti sulla sua serietà). In questo esempio entra in ballo l’articolo 535 (apri il codice e dacci un’occhiata, ti servirà per comprendere meglio il discorso che passo a farti).
Poniamo, ecco l’esempio, che Tizio, credendosi in buona fede erede, venda la casa che apparteneva al de cuius: per l’articolo 535 egli, il prezzo, lo deve “restituire all’erede” ed é cosa senz’altro giusta. Ma le spese da lui sostenute al momento di fare la compravendita (spese per la agenzia immobiliare, spese per l’avvocato...)? ce le deve rimettere? No, si risponde autorevolmente, potrà chiedere il loro rimborso all’erede, se sarà in grado di provare che la casa si é venduta sovraprezzo grazie alla sua abilità nel trattare l’affare. Disc. Finora abbiamo costruito, noi, dei casi in cui l’impoverito ha diritto a un indennizzo e li abbiamo costruiti in vista di un’applicazione dell’articolo 2041 (che é la norma che, come abbiamo già visto, in via “sussidiaria” prevede un diritto di indennizzo per l’impoverito). Mi pare interessante, però, vedere anche dei casi in cui il legislatore con una norma ad hoc stabilisce (o nega), all'impoverito, il diritto all’indennizzo (per cui l’articolo 2041 non entra più in gioco). Prima però ti vorrei rivolgere ancora tre domande, soprattutto per chiarire il differente ambito di applicazione degli istituti della negotiorum gestio e dell’arricchimento senza giusta causa. Prima domanda: parlando delle negotiorum gestio tu hai detto che il grosso pericolo, che presenta la sua ammissibilità é quello delle c.d. “spese imposte”: Tizio, il dominus, viene costretto a rimborsare cento al gestore per la riparazione fatta da questi al tetto, mentre egli avrebbe ritenuto più urgente spendere quelle cento per riparare il muro di cinta, che minaccia di crollare: tale pericolo (delle “spese imposte”) non sussiste anche concedendo a Caio, l’impoverito, il diritto di chiedere a Tizio, l’arricchito, un indennizzo? Doc. No, non sussiste. E’ vero che Tizio, aprendo il portafoglio per pagare l’indennizzo, si priva di quei cento, che avrebbe potuto più utilmente spendere in altro modo. Quel che importa però é che il pagamento dell’indennizzo, essendo limitato all’arricchimento, non incide sul budget programmato prima: Tizio, prima di avere l’arricchimento, aveva programmato di spendere tot per A e tot per B e continua ad avere la possibilità di fare tali spese, anche se indennizza Caio. Disc. Ed ecco la seconda domanda: abbiamo visto, parlando della negotiorum gestio, che il legislatore fa obbligo al gerito di rimborsare le spese al gestore, anche se l’affare, prima, utiliter coeptum, poi, si rivela di nessuna utilità. Perché identica soluzione non é adottata anche in materia di azione ex art. 2041?
Doc. Perché allora effettivamente, il pericolo per una persona di essere coinvolta in spese inconsulte dall’iniziativa di un terzo, ci sarebbe, eccome! Pensa al caso di Marieto, che vuole fare il commerciante (senza averne la stoffa) e spende fior di quattrini per aprire un night, che poi non dà soldi: é forse giusto che la Beppa venga coinolta nell’iniziativa pazzoide di Marieto e debba sopportare parte delle spese da questi ideate, solo perché. ..se l’iniziativa avesse avuto successo anche lei si sarebbe arricchita?! Disc. Terza e ultima domanda. Per quale ragione il legislatore dovrebbe preoccuparsi che l’impoverito sia indennizzato dall’arricchito, se il danno del primo non é causato dalla colpa del secondo? Per rifarci all’esempio da te prima fatto, perché il legislatore dovrebbe preoccuparsi che Caio, il quale ha subito un danno dall’onda di piena del fiume, sia indennizzato da Tizio a cui, l’onda di piena, verso di lui tanto benefica quanto malefica era stata verso Caio, ha regalato (senza un suo pur minimo intervento, senza sua colpa) un appezzamento di terreno (sia pure lo stesso appezzamento di terreno rubato a Caio)? Doc. Io mi rendo conto delle tue perplessità: si comprende che il legislatore, come abbiamo visto, obblighi il gerito al rimborso delle spese che sono state necessarie per la gestione (spese che sono altrettanti danni per il gestore): infatti questo é un modo per pungolare una persona a intraprendere quella gestione che eviterà il deterioramento o la perdita di uno dei beni costituenti la ricchezza nazionale. Si comprende ancora che il legislatore, come vedremo trattando la materia del risarcimento del danno (art.2043 ess), obblighi Tizio, che ha causato per colpa un danno di cento a Caio, a risarcire questo, dandogli cento: infatti la società ha beneficio se il portafoglio delle persone, che, come Caio, fino a prova contrario sono da considerarsi diligenti amministratori dei beni loro affidati (dalla società), di tanto si ingrossa quanto dimagra quello delle persone, che, come Tizio, si sono dimostrate negligenti (e tali si dimostreranno presumibilmente ancora nell’amministrazione dei beni loro, dalla società, affidati). Ma perché, riprendo la tua domanda, il legislatore dovrebbe costringere Tizio (l’arricchito) a indennizzare Caio (l’impoverito), dato che quello non ha nessuna colpa dell’impoverimento di questo? Ebbene non c’é un’unica risposta a questa tua domanda, ma ce ne sono varie, così come sono vari i casi dell’arricchimento di una persona conseguente all’impoverimento di un’altra. E queste risposte sono certe volte facili, certe altre volte difficili, com’é difficile quella relativa al caso, a cui tu ti sei, poco prima, riferito.
Disc. Ebbene comincia a dare la risposta più difficile : perché, in caso di avulsione (art. 944), Tizio, l’arricchito, deve indennizzare Caio, l’impoverito. Doc. Io penso che questo “perché” vada visto nel fatto che il legislatore sente come un danno per la società la destrutturazione di un patrimonio – destrutturazione che può verificarsi a seguito di un improvviso danno, dal dominus, subito. Disc. Ma che cosa intendi per “destrutturazione” di un patrimonio? Doc. Pensa a Caio, che fa l’agricoltore: per rimediare allo shock di un danno subito, deve vendere il trattore; ma, vendendo il trattore, mangia per quell’anno, e poi, non potendo più coltivare la terra, l’anno venturo, per procurarsi pane e companatico, é costretto a vendere il suo fondo a Cornelio, che, al contrario di lui, non fa il contadino ma l’avvocato. Senonché questo fondo ha un’organizzazione (il pollaio, la conigliera, il capannone per gli attrezzi) che, utile per un agricoltore, non é utile per l’acquirenteavvocato, che pertanto la spazza via (ciò che comporta distruzione di beni - il pollaio, la conigliera ecc. - beni costituenti la ricchezza nazionale). Ecco cosa intendo per destrutturazione di un patrimonio. Stando così le cose si comprende perché il legislatore cerchi, quando può farlo, di evitarla. E, per venire al punto che qui ci interessa, il legislatore ritiene di poterlo fare, nei casi in cui può eliminare o alleviare l’impoverimento di una persona, prelevando in modo indolore i necessari soldi da un altro patrimonio; così com’è nel caso dell’esempio da te fatto: Tizio, che si é arricchito in seguito all’avulsione, é portato a non lamentarsi (troppo), se, la parte dei beni di cui si é arricchito, gli é tolta per eliminare l’impoverimento di Caio: perché? ma perché su tali beni non si era abituato a fare conto e quindi ne può fare a meno senza sofferenza. Disc. La tua risposta é stata un po’.... faticata, ma in fondo mi sembra convincente. Passiamo ora a risposte più facili. Doc. Una risposta molto più facile si può dare al “perché” il dominus, arricchitosi per i miglioramenti apportati al bene dal suo possessore (in buona o mala fede, poco importa), deve indennizzare questi dalle spese sostenute per farli. Disc. Spiegati meglio.
Doc. - Mentre Tizio era in Africa a cacciare elefanti, Caio si é impossessato del suo terreno e ha provveduto ad asfaltare la strada che conduce alla casa padronale: opera questa che anche Tizio é costretto a riconoscere come un miglioramento. In un tal caso Caio ha diritto un indennizzo da parte di Tizio per il disposto dell’articolo 1150 co 2, che recita: “(Il possessore, anche se di mala fede) ha diritto a indennità per i miglioramenti recati alla cosa, purché sussistano al tempo della restituzione”. Disc. Bene, ora però devi dire il perché di tale disposizione. Doc. Il perché é dato dalla volontà di incentivare il possessore alla migliore gestione del bene posseduto: “Tranquillo Caio, fai del tuo meglio per aumentare il valore e la produttività del bene, sapendo che, se il dominus si farà vivo, tu non avrai lavorato per niente: avrai pur sempre diritto a un indennizzo per i miglioramenti fatti”. E, la prova del nove che, la ratio dell’obbligo di indennizzo, é quella che ho detto, la trovi nel fatto che, invece, il locatario, se fa dei miglioramenti, non ha diritto a un indennizzo (v. art. 1592): il locatario non ha diritto a un indennizzo perché egli ha già il suo incentivo a compiere i miglioramenti, nel fatto che é sicuro che, per tanti anni quanti sono quelli corrispondenti alla durata della locazione, egli, tali miglioramenti, potrà goderseli. Disc. Torniamo a Caio-possessore. Quindi egli sa che qualunque opera costruisca sul fondo da lui posseduto, metti una strada, metti addirittura una casa, per mal che vada, sarà sempre indennizzato delle spese fatte. Doc. Questo non l’ho detto; e non l’ho detto perché non sempre un’opera costituisce, dal punto di vista del dominus (punto di vista che é l’unico che conta) un “miglioramento”; metti che Caio abbia costruita la casa di cui al tuo discorso, ma che Tizio, il proprietario, abbia in progetto di costruire un grattacielo nello stesso posto in cui la casa si trova: in questa ipotesi, la casa non potrebbe essere considerata da lui un miglioramento, ma un ostacolo da eliminare. Disc. E allora? Come si risolve nel caso la controversia tra Caio, che vorrebbe l’indennizzo per le spese fatte per costruire la casa, e Tizio, che, invece, lo nega? Doc. Si risolve come indicato nell’articolo 936: spetta a Tizio decidere se la casa per lui costituisce un miglioramento o no. Se la considera un miglioramento e pertanto
decide di ritenerla, potrà farlo o pagando “il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera” o pagando “l’aumento di valore recato al fondo” - e naturalmente sceglierà questa seconda alternativa quando l’aumento di valore del fondo (idest, il suo arricchimento) é inferiore al valore delle spese sostenute per la sua costruzione (idest, al impoverimento di Caio). Come vedi, nel punto, l’articolo 936 é praticamente in linea col disposto dell’articolo 2041. Disc. Mettiamoci ora in un caso, per cui mi pare più difficile trovare una spiegazione: Caio dà a Tizio cento credendosi debitore verso di lui di cento, mentre, invece, Tizio non può vantare nessun credito (di cento) né verso di lui né verso qualsiasi altra persona ; oppure anche, mettiamoci nel caso che Caio dia cento a Tizio credendosi debitore verso di lui di cento, mentre il reale debitore é Sempronio. E’ chiaro e intuitivo che in entrambi i casi va riconosciuto il diritto di Tizio a riavere indietro i soldi erroneamente dati; più difficile giustificare razionalmente tale soluzione. Doc. E’ chiaro fino a un certo punto che Tizio debba restituire l’indebito ricevuto. Infatti, sia nel primo caso (caso così detto di “indebito oggettivo”) sia nel secondo (caso così detto di “indebito soggettivo”) potrebbero intervenire delle complicazioni, che potrebbero rendere dubbia quella soluzione che tu vedi tanto “chiara”. Disc. Quali potrebbero essere queste complicazioni? Doc. Nel primo caso potrebbe accadere che, chi ha ricevuto il pagamento indebito, ritenendolo dovuto, abbia speso i soldi, così ricevuti, per spese, di cui altrimenti si sarebbe astenuto: Tizio ha venduto il cavallo C a Caio e realizza, con i soldi così ricevuti, un sogno da lungo tempo coltivato: un viaggio nella favolosa India. Però il contratto aveva un vizio che ne provoca l’annullamento. Pertanto ex post, il credito, che Tizio credeva di avere verso Caio, non c’é più: é giusto in un tal caso obbligare Tizio a risputare tutti i soldi ricevuti? La risposta a questo quesito (che il legislatore saggiamente rifiuta di dare) potrebbe ben essere dubbia. (4) Disc. E quali sono le complicazioni, come tu le definisci, che potrebbero rendere dubbio l’obbligo del creditore Tizio alla restituzione, in caso di indebito soggettivo. Doc. La più ovvia complicazione ci sarebbe nel caso in cui il creditore si fosse privato in buona fede (poco importa se per una superficialità e un’ imprudenza in cui un bonus pater familias non sarebbe caduto) “ del titolo e delle garanzie del
credito”(5). Altre complicazioni si avrebbero nel caso in cui la cosa (data da Caio in adempimento di una inesistente sua obbligazione) fosse perita o deteriorata (6) oppure nel caso fosse stata alienata. (7) Disc. Ma fingiamo che fortunatamente nessuna di tali complicazioni si sia verificata: dove la vedi tu la ratio del diritto (di chi ha pagato indebitamente) di ripetere quanto corrisposto? Doc. Io tale ratio la vedrei nell’interesse dello Stato a scegliere, nelle soluzioni che dà alle controversie, quella meno “dolorosa”; in quanto, tale soluzione meno “dolorosa”, é anche quella che determina la minore tendenza alla “ribellione”, in chi la subisce e quindi pone meno in pericolo l’ordine pubblico. Ora la soluzione meno dolorosa é quella di obbligare alla restituzione chi ha ricevuto il pagamento, in quanto, così facendo, egli non deve che rinunciare ad un arricchimento - e tale rinuncia é meno “dolorosa” del sopportare un impoverimento - quell’impoverimento che dovrebbe sopportare chi ha pagato l’indebito, se non avesse diritto alla restituzione del pagato.
Note (1) Val la pena di notare, per la precisione, che, quel che determina l’aumento di valore del campo di Tizio, é la volontà legislativa di attribuire a questi la proprietà dell’appezzamento di terreno, non, in sé e per sé, l’evento naturalistico dell’avulsione dell’appezzamento di terreno e il suo trasporto nel fondo di Tizio. (2) Questo é l’insegnamento della Giurisprudenza. Ma, in realtà, non é sempre così. Si pensi a questo caso: Caio, credendosi erede, vende un bene rientrante nell’asse ereditario, sostenendo spese per pagare l’agenzia immobiliare. Si fa vivo il vero erede e a lui, per il secondo comma dell’articolo 535, Caio deve restituire il prezzo ricavato dalla vendita. Nessuno può dubitare, però, che Caio abbia diritto ad essere indennizzato delle spese sostenute per questa, se grazie alla sua abilità nel trattare l’affare ha spuntato un prezzo superiore a quello che offriva il mercato (sovraprezzo che costituisce l’arricchimento senza giusta causa dell’erede). Tuttavia, come si può facilmente constatare, il fatto che ha determinato il danno per Caio (pagamento dell’agenzia) é diverso dal fatto che ha determinato l’arricchimento dell’erede (fatto che, si ripete, é da vedersi nella vendita a sovraprezzo del bene). 3)A ben guardare, quel che esclude un diritto di Caio all’indennizzo (per il suo impoverimento
conseguente al trasferimento del diritto di proprietà sul bene donato da lui a Tizio), é sic et simpliciter....la volontà legislativa di escludere l’indennizzo. Volontà legislativa che si argomenta dal semplice fatto, che, se il legislatore concedesse al donante un diritto di indennizzo, con ciò stesso renderebbe un non-senso la donazione. 4) E, per dare la risposta giusta, occorrerebbe operare delle distinzioni. Prima di tutto, bisognerebbe distinguere il caso di chi ha ricevuto il pagamento in buona fede, dal caso di chi lo ha ricevuto in mala fede. E’ chiaro che, chi ha ricevuto in mala fede, deve restituire tutto quanto ha ricevuto. Se, invece, era in buona fede, bisognerà distinguere ancora il caso in cui il vizio era dovuto a colpa di chi ha effettuato il pagamento, da quello in cui invece era dovuto a colpa della sua controparte. 5) La soluzione da darsi al caso la dà l’articolo 2036 disponendo, nel suo primo comma, che la ripetizione non é ammessa, e nel suo terzo comma, che “ quando la ripetizione non é ammessa colui che ha pagato, subentra nei diritti del creditore”. 6) La soluzione, in caso di perimento o deterioramento, é data dall’articolo 2037, nei suoi commi 2 e 3, che recitano: “Se la cosa é perita, anche per caso fortuito, chi l’ha ricevuta in mala fede é tenuto a corrisponderne il valore; se la cosa é soltanto deteriorata, colui che l’ha data può chiedere l’equivalente, oppure la restituzione e un’indennità per la diminuzione del valore – Chi ha ricevuto la cosa in buona fede non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del suo arricchimento”. 7)La soluzione del caso é data dall’articolo 2038, che recita: ” Chi avendo ricevuta la cosa in buona fede, l’ha alienata prima di conoscere l’obbligo di restituirla é tenuto a restituire il corrispettivo conseguito. Se questo é ancora dovuto, colui che ha pagato l’indebito subentra nel diritto dell’alienante. Nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente é obbligato, nei limiti del suo arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito. - Chi ha alienato la cosa ricevuta in mala fede, o dopo aver conosciuto l’obbligo di restituirla, é obbligato a restituirla in natura o a corrisponderne il valore. Colui che ha pagato l’indebito può però esigere il corrispettivo dell’alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo. Se l’alienazione é stata fatta a titolo gratuito, l’acquirente, qualora l’alienante sia stato inutilmente escusso, é obbligato, nei limiti dell’arricchimento, verso colui che ha pagato l’indebito”.
LIBRO QUARTO Diritto di famiglia
Sezione I: La fonte dei diritti e degli obblighi: il matrimonio.
Le condizioni per la sua celebrazione, la sua nullità
Lezione I: Premessa: Perché il Legislatore tutela l’istituto famigliare. Disc. - E’ interesse dello Stato tutelare l’istituto famigliare? Doc. Io ti rispondo a mia volta con una domanda: é interesse della Società che i suoi membri – non vivano ciascuno separatamente dall’altro, ciascuno nel suo appartamentino, con la sua televisione, il suo cucinotto ecc.ecc. - ma si aggreghino e coabitino insieme? Disc. Certamente, sì: perché questo determina un risparmio nell’uso delle risorse economiche a disposizione della Società: se Caio e Caia vivessero separati in due appartamenti distinti, ciascuno di loro avrebbe bisogno di una cucina, di un frigo, di una televisione ecc., se vivono insieme basterà a entrambi una sola cucina, un solo frigo ecc. Doc. Altra domanda: é interesse della Società che Caio e Caia, non solo coabitino, ma si aiutino vicendevolmente: ad esempio, se l’uno é malato, l’altro gli procuri il cibo, gli compri le medicine, gli chiami il dottore ecc.? Disc. Certo che é interesse della Società che ciò avvenga: perché se non avvenisse, toccherebbe alla Società, o meglio alla sua espressione, lo Stato, provvedere a Caia (o a Caio) quando cadono malati, quando insomma si trovano in stato di bisogno (pagando un infermiere, una badante, comprando il cibo di cui necessitano e che non si possono procurare....). Doc. Un’ultima domanda: é interesse della Società, dello Stato, che le culle non rimangano vuote, che nuove generazioni, nuove energie, vengano a sostituire le vecchie generazioni, le energie ormai usurate; vengano a sostituirle,voglio dire, nel lavoro produttivo, nell’ideazione, insomma nell’attività propulsiva del progresso umano? ed ancora, é interesse dello Stato che vi sia chi allevi ed educhi la prole? Disc. Certamente, sì. Doc. Ebbene, rispondendo sì alle tre domande che ti ho fatto, ti sei dato anche la
spiegazione del perché lo Stato abbia interesse ad invogliare l’uomo e la donna a instaurare, come dicono i canonisti, un consortium omnis vitae, cioé, come vedremo meglio in seguito, un rapporto personale che implichi la disponibilità di ciascuno di loro a soccorrere l’altro nello stato di bisogno e crei l’occasione per la nascita di nuovi cittadini. Disc. A questo punto mi devi spiegare cosa lo Stato può fare per invogliare Caio e Caia a costituire questo famoso consortium totius vitae: garantire loro un aiuto nel reperimento di un alloggio, dare loro delle agevolazioni fiscali? Doc. Certamente si, anche questa tutela, che definirei “esterna”, della coppia serve ad invogliare Caio e Caia a formare una famiglia; e dirò di più: trattasi di una tutela doverosa, perché, come abbiamo visto, il formarsi di una “famiglia” solleva lo Stato di numerose spese. Però la più importante, non é questa tutela esterna, ma quella “interna”. Disc. Che intendi per “tutela interna”. Doc. La tutela dell’interesse che Caia (o, viceversa, Caio) ha che il partner, una volta che la famiglia si é costituita, tenga certi comportamenti: “Caio dice a te, Caia, che una volta che starai con lui non ti farà mancare il pane e il companatico, non ti tradirà, ecc; e tu, Caia, titubi temendo che siano promesse scritte nel vento, promesse destinate a volatilizzarsi dopo qualche anno (o qualche giorno...) di convivenza? Ebbene, non temere, non titubare, ci sono qua, io, Stato italiano, pronto ad usare la forza di coazione di cui dispongo per costringere Caio a mantenere le sue promesse: gli impegni morali che ora lui prende, io li trasformerò in obblighi giuridici”. A questo tipo di garanzia io, grosso modo, intendo riferirmi quando parlo di tutela”interna”, che lo Stato può assicurare a chi vuole fondare una famiglia: lo vedremo meglio, quando approfondiremo gli obblighi giuridici che dal matrimonio, ai coniugi, derivano. Disc. Sì, certo, minacciare Caio (o Caia) di una sanzione giuridica, se non tengono questo o quel comportamento, può servire; ma non molto, se nella Società sono presenti forti spinte in senso contrario: tu, Legislatore, imponi “fai A” e tutto nella Società spinge perché Caio non faccia A. Doc. Comprendo quel che vuoi dire, la tutela della famiglia implica la tutela della
morale famigliare. E i buoni Legislatori bene lo sanno (chi non ha in mente l’Ara pacis con il “pio” Augusto che con tutta la famiglia va a rendere onore agli Dei?!). E anche il nostro Legislatore lo sa. E non mi riferisco solo al Legislatore del Codice Penale (al Legislatore del reato di “Violazione degli obblighi di assistenza”, art. 570 C.P., del reato di maltrattamenti, art. 572 C.P. ecc.), ma anche al Legislatore del nostro Codice Civile, il Codice che qui soprattutto ci interessa: noi vedremo, parlando degli impedimenti alla celebrazione del matrimonio, che alcuni di essi (in specie, gli impedimenti derivanti dalla consanguineità, da delitto) mirano ad evitare la formazione di famiglie, che diano “scandalo”, offendano e ledano cioé la “morale famigliare”. Disc. Tutto giusto, tutto bene quel che dici; ma a me pare che il “principale” in questa materia é che Caio e Caia si vogliano bene, stiano bene insieme. Doc. Certamente sì; ed é per questo che il consenso di Caio e Caia al formarsi della famiglia é per lo Stato fondamentale: per dirla con i canonisti, Matrimonium facit consensus partium. E non solo lo Stato vuole che gli interessati diano il loro consenso al formarsi della famiglia, ma vuole che lo diano in forma solenne: il matrimonio non é un contratto che si firma davanti al notaio, ma un atto che si “celebra” davanti a un pubblico ufficiale, il Sindaco, seguendo un dato rituale, quello che si trova descritto negli articoli 106, 107; questo, non solo per rendere i nubendi consapevoli dell’importanza degli obblighi che vanno ad assumere, ma anche proprio per circondare la “famiglia legale” di un alone di particolare rispetto. Disc. Hai citato gli articoli 106, 107: non é meglio leggerli? Doc. Certo. L’articolo 106 recita: “Luogo della celebrazione – Il matrimonio deve essere celebrato pubblicamente nella casa comunale davanti all’ufficiale di stato civile al quale fu fatta la richiesta di pubblicazione”. Ed ecco come suona l’art. 107: “Forma della celebrazione - Nel giorno indicato dalle parti l’ufficiale di dello stato civile, alla presenza di due testimoni, anche se parenti, dà lettura agli sposi degli articoli 143, 144, e 147; riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio. L’atto di matrimonio deve essere compilato immediatamente dopo la celebrazione”.
Disc. Tu prima avevi detto che la famiglia legale si costituisce in forza del consenso degli interessati; ma non questo risulta dall’articolo 107 che hai letto: infatti tale articolo richiede solo il consenso dei nubendi, di Caio e di Caia, mentre il matrimonio di Caio e di Caia produce effetti giuridici anche nei confronti di terzi (che sono quindi interessati al suo compimento): ad esempio risulta dall’art. 433 che il padre di Caio diventerà con il matrimonio obbligato agli alimenti verso Caia, diventata sua nuora; e, per fare un altro esempio, dall’articolo 582 risulta che il fratello di Caia (o di Caio) vedrà ridursi la sua quota di eredità, in caso di premorienza della sorella Caia, in seguito al concorso di Caio, diventato suo cognato. Tutto questo mi sembra che faccia a pugni col principio espresso dal capoverso dell’articolo 1372, che recita: “Il contratto non produce effetto rispetto a terzi (....)”. Doc. Tu non hai torto; e se anche un Professore universitario potrebbe obiettarti che, l’articolo da te citato, si riferisce ai contratti, mentre il matrimonio tale non é considerato, io capisco quel che vuoi dire: é ingiusto che Caio e Caia con un loro atto di volontà facciano nascere obblighi in capo a terzi. E ingiusto lo é davvero, ma é un’ingiustizia inevitabile; se non altro perché, il numero degli interessati a un matrimonio (in quanto “toccati” dai suoi effetti), può essere tale da rendere praticamente impossibile la richiesta del consenso di tutti loro. Disc. Si potrebbe però almeno chiedere il consenso del “capo della famiglia”. Doc. Un tempo era così: il consenso del padre degli sposi era ancora richiesto dal Codice Napoleone e anche dal Codice italiano del 65. E ancora per lungo tempo il costume sociale stigmatizzò chi si sposava contro il consenso dei genitori. Ora, chiaro, é tutto cambiato. Disc. E del resto non sarebbe giusto impedire a Caia e a Caio di sposarsi solo perché il padre e la madre si oppongono al loro matrimonio. Doc. Si potrebbe, in caso di opposizione, ammettere il matrimonio ma escluderne gli effetti per i terzi. Ma mi rendo conto che questi sono discorsi inutili e che il nostro Ordinamento contiene peggiori assurdità Disc. Tu hai presa finora in considerazione nei tuoi esempi una coppia eterosessuale: Caio, un uomo, Caia, una donna. Questo come se fosse inconcepibile che lo Stato
desse a una coppia omosessuale quella stessa tutela che dà alla coppia eterosessuale. A me pare, invece, che il rifiutare tale tutela sia assurdo e ingiusto: forse che quell’aiuto reciproco, di cui tu prima parlavi, non si può attuare tra persone dello stesso sesso? forse che oggigiorno le tecniche di procreazione assistita non permettono a due persone dello stesso sesso di avere dei figli? forse che tali persone non possono prendersi cura dei figli così nati? Doc. Senz’altro, sì; ma molti, probabilmente ancora la maggioranza dei membri della nostra Società, ritengono che favorire il sorgere di coppie omosessuali riconoscendo loro una tutela giuridica, incida negativamente sulla psiche umana e inevitabilmente porti a un incremento della omosessualità con un conseguente impoverimento esistenziale della popolazione: la donna non più vista e rispettata come la datrice di vita, ma apprezzata solo come oggetto di soddisfacimento sessuale; rapporti sessuali impoveriti perché privati dei significati e delle intense emozioni, che potrebbe offrire l’accoppiamento, quando gli amanti fossero consapevoli di collaborare con le misteriose forze della natura per dar vita ad un nuovo essere umano, o almeno, se non animati dal desiderio di avere un figlio, fossero consapevoli di stare compiendo degli atti destinati (ancorché da loro ora profanati) a qualche cosa di grande e sacro. Disc. Però altri, e sempre più numerosi la pensano per fortuna in modo differente e non temono la perdita del piacere che dà l’eros: forse che un uso intelligente delle droghe non potrà sostituirlo?! Ma non perdiamoci in questi discorsi: non siamo moralisti ma giuristi: a noi interessa di una questione solo la soluzione che ne dà il legislatore: il legislatore equipara nella sua tutela la coppia eterosessuale e la coppia omosessuale, in altre parole, dà modo anche alla coppia omosessuale di formare una “famiglia legale”? Doc. No, si discute dell’opportunità e della conformità alla Costituzione di una legislazione in tale senso. Disc. Ma il Legislatore costituzionale che dice, esclude l’ammissibilità di una legislazione che dia la dignità di famiglia legale alla coppia omosessuale? Doc. Sul punto, come ti dicevo, é aperta una discussione che verte soprattutto sull’interpretazione da darsi al primo comma dell’articolo 29. Disc. Leggiamolo dunque questo primo comma.
Doc. Esso recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Disc. Dalla tua lettura sembrerebbe che, secondo i nostri Padri Costituenti, la famiglia abbia dei diritti – diritti che non derivano dallo Stato. Il che mi sembra inficiato da un triplice errore: primo, l’errore di personificare la famiglia, che di per sè é solo un’astrazione concettuale; secondo, l’errore di attribuire alla famiglia dei diritti, mentre, se mai, dei diritti possono competere solo alle persone che la compongono; terzo, l’errore di ritenere che tali diritti non derivino dallo Stato, mentre ogni diritto non può che derivare dallo Stato, come unica Organizzazione della forza capace di imporre coattivamente le condotte, necessarie alla tutela dei vari interessi in conflitto nella società. Doc. Quel che dici é giustissimo: tali errori ci sono, ma sono comuni un po’ a tutte le Costituzioni, che amano usare nei loro articoli parole immaginose e roboanti che sembrano dir tutto e...non dicono nulla; permettendo così ai loro interpreti, se così vogliamo chiamarli, di dar loro quei contenuti che più loro aggrada. Comunque sembrerebbe di capire che i Padri Costituenti volessero, con la disposizione in oggetto, ammonire il Legislatore ordinario a non immutare o a immutare solo in via eccezionale e con grande prudenza i poteri e i diritti che la Legge – ben s’intende, la Legge vigente illo tempore - attribuiva ai vari membri della famiglia. Questo sotto l’influsso del consiglio, che un grande matrimonialista aveva dato: e cioè che l’attività del Legislatore dovesse arrestarsi rispettosa....sulla soglia del diritto di famiglia. Non é, però, questo il senso che alcuni interpreti della Costituzione, se così vogliamo chiamarli, attribuiscono al comma in oggetto. Essi infatti partano dal presupposto che non esista solo uno, ma più tipi di famiglie. Disc. In che senso? Doc. Sia nel senso che diversi possono essere i soggetti che tra di loro si aggregano impegnandosi a un aiuto reciproco: possono essere, un uomo e una donna; due uomini; due donne. Sia nel senso che diversa può essere l’entità dell’impegno che tali soggetti sono disposti ad assumere: l’aiuto che sono disposti a darsi, il tempo per cui sono disposti a impegnarsi a darlo
Disc. Quindi il massimo comune denominatore di tali aggregati, quello che dovrebbe permettere di riconoscere in ciascuno di essi una “famiglia”, sarebbe l’impegno dei loro componenti a un aiuto reciproco. Disc. Sì, a questo si riduce per tali interpreti il consortium omnis vitae di cui parlano i canonisti! Comunque, per giungere rapidamente alla conclusione del nostro discorso, diciamo che, partendo dal presupposto che esistono vari tipi di famiglie, tali interpreti attribuiscono alla Costituzione, la volontà di tutelare, non il tipo di famiglia esistente nell’ormai lontano 1948, ma ogni e qualsiasi tipo di famiglia, cioé la “famiglia in sè”. Altro articolo a cui si richiamano, i fautori dell’equiparazione della coppia eterosessuale alla coppia omosessuale, é l’articolo 2, che recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Disc. In base a quali ragionamenti si ritiene che tale articolo imponga la equiparazione giuridica della coppia eterosessuale alla coppia omosessuale? Doc. Francamente non lo so e non mi sforzo neanche di saperlo. Disc. Ti comprendo: parliamo di cose più serie: la tutela della famiglia di fatto. Doc. Questa é effettivamente una cosa più seria. E infatti nulla vieta al Legislatore di graduare la tutela di una coppia a seconda della serietà dell’impegno, che é disposta ad assumersi. “Tu, Caia, sei disposta a convivere con Caio natural vita durante (salvo situazioni che rendano veramente insopportabile la convivenza), sei disposta ad essergli fedele ecc.ecc.? Se é così, io, legislatore, ti riconosco il diritto: al mantenimento vita natural durante, a una quota A di successione, agli alimenti dal padre di Caio ecc. ecc. Tu, Caia, invece, non Ti senti di impegnarti troppo a lungo nel tempo? Se così ti riconosco solo il diritto al mantenimento per anni tot, alla quota B di successione, e...basta”. Chiaro che, quel che ho fatto, é un esempio di fantasia, valido solo per mostrarti la possibile logicità di una tutela della c.d. famiglia di fatto, che lasci inalterato l’alone di rispetto e di privilegio, che deve avere la coppia disposta a un consortium omnis vitae Disc. Ma di questa tutela di grado inferiore gode già la famiglia di fatto? Doc. Sì, però di questo parleremo se e in quanto affronteremo ex professo tale
argomento. II: Le condizioni per poter contrarre matrimonio. La nullità di questo. Doc. - L’esigenza di formarsi una famiglia é tanto radicata nell’uomo, che il negarla a una persona può bloccare l’armonioso evolversi della sua personalità. Per questo i canonisti ad essa si riferiscono come a un ius connubi. E tuttavia lo Stato ritiene che vi siano motivi tanto gravi da giustificare il rifiuto di tale diritto naturale dell’uomo. Disc. Quali sono questi motivi? Doc. Li possiamo raggruppare nelle seguenti categorie: I- motivi dettati dall’esigenza di garantire la serietà del consenso alle nozze; II- motivi dettati dalla tutela della morale famigliare; III- motivi (melius, motivo, dato che essi si riducono a solo uno) dettati (melius, dettato) dall’esigenza di evitare la turbatio sanguinis; IV- motivi dettati dalla tutela dell’ordine pubblico. Tutti questi motivi impediscono la celebrazione del matrimonio. E appunto per controllare, che non esista a questo nessun “impedimento” il Codice prevede negli articoli 93 e segg. tutta una serie di “formalità preliminari” (“preliminari” appunto alla celebrazione): acquisizione di documenti, pubblicizzazione dell’imminente celebrazione. Disc. Quindi lo Stato non interviene solo per dichiarare la nullità di un matrimonio, ma prende delle misure a che a un matrimonio nullo non si arrivi. Doc. Eh, sì: la rottura di un matrimonio, anche se questo é “nullo”, é pur sempre un evento traumatico che crea vari problemi, non solo agli “sposi”, ma anche alla società tutta (bisogna provvedere ai figli, dal matrimonio, nati, bisogna provvedere anche ai bisogni della “parte debole” coinvolta nel matrimonio: tutto questo lo vedremo meglio parlando del c.d. “matrimonio putativo” - artt. 128,129): ecco perché il legislatore prende tutte le misure necessarie, perché a un matrimonio nullo non si arrivi. Disc. A questo punto direi che é opportuno passare, sia pure rapidamente, in rassegna i vari “impedimenti”. Cominciamo da quelli che mirano a garantire la serietà del consenso.
Doc. E allora parliamo dell’impedimento legato all’età dei nubendi. Per il primo comma dell’art. 84 “i minori di età non possono contrarre matrimonio”. Possono contrarlo i sedicenni solo per gravi motivi e solo se viene accertata dall’Autorità giudiziaria la loro “maturità psico-fisica”. E’ evidente il perché del limite dell’età: si presume che il minore di diciotto anni non abbia la capacità (la habilitas direbbero i canonisti) necessaria: primo, per comprendere (in forza della cultura acquisita e dello sviluppo intellettuale raggiunto) la natura degli obblighi che, col matrimonio, va assumere; secondo, per valutare la serietà dei suoi sentimenti e il suo possesso delle forze psichiche e di carattere per sopportare le prove, che il matrimonio può apportare (i canonisti parlerebbero al proposito di possesso della necessaria discretio); terzo, per disciplinare e dominare quegli impulsi che potrebbero portare a decisioni infauste (la libertas dei canonisti, che non si limita solo alla libertas ab extrinseco, cioé alla capacità di resistere alle pressioni e ai condizionamenti esterni, ma comprende anche la libertas ab intrinseco, cioè la capacità di dominare i propri impulsi). Disc. Non é detto che chi ha raggiunto i diciott’anni abbia tutta quella habilitas di cui tu parli. Doc. E lo dimostra il numero dei matrimoni che va a rotoli; d’altra parte lo Stato non ha la possibilità di operare sul punto i necessari controlli. Disc. Non ha questa possibilità ex ante; ma la potrebbe avere ex post, qualora fosse chiamato a decidere sulla validità di un matrimonio. Doc. No, neanche ex post ce l’ha; o almeno Egli ritiene di non averla, data la complessittà e la sottigliezza delle questioni, che la valutazione della maturità psichica di una persona comporta: vedremo, studiando l’articolo 122, che lo Stato dichiara la nullità del matrimonio, solo se uno degli sposi ha dato il suo consenso privo di quella libertas ab extrinseco, a cui prima ho accennato (non rilevando la libertas ab intrinseco) e solo in quanto indotto da alcuni errori, per di più tassativamente indicati (e in cui non viene fatto rientrare neanche quello “errore di diritto”- che nella nostra materia potrebbe ravvisarsi nell’errore sulla natura degli obblighi, che dal matrimonio derivano - che per l’articolo 1429 giustifica l’annullamento di un contratto qualsiasi). Veniamo ora all’altro impedimento alla celebrazione del matrimonio: l’interdizione.
Esso é previsto dall’art. 85 che recita. “Non può contrarre matrimonio l’interdetto per infermità di mente”. Disc. Quindi l’interdetto legale può contrarre matrimonio. Doc. Sì. Caio condannato per un reato che comporta la pena accessoria dell’interdizione può contrarre matrimonio. E come può contrarlo l’interdetto legale può contrarlo anche l’inabilitato. Disc. Questo è senz’altro logico: se può contrarre matrimonio chi, come il sedicenne, non gode della piena capacità, ma ha solo lo “status” di emancipato (art. 390), non si può negare il diritto di sposarsi a chi, come l’inabilitato, ha, sì, un’incapacità ad amministrare, ma non maggiore di quella che ha l’emancipato (v. l’art. 424 c.1 secondo cui “le disposizioni sulla...curatela dei minori emancipati si applicano...alla curatela degli inabilitati”). Doc. Il tuo ragionamento é perfettamente conforme a logica. Non altrettanto in regola con la logica é invece il legislatore, che, pur ammettendo in via di principio che una persona incapace ad amministrare il suo patrimonio possa essere capace di dire un “sì” assennato davanti all’ufficiale di stato civile, poi, da tale constatazione non trae le dovute conseguenze nel caso dell’interdetto: eppure forse che le scienze psicologiche e psichiatriche non hanno dimostrato la possibile esistenza di alcune anomalie psichiche, che si possono manifestare solo in un settore della personalità? forse che i canonisti non distinguono tra una amentia totale e una amentia parziale, che può, ma anche non può, rendere hinabilis al consenso coniugale (per cui solo nel primo caso può parlarsi di insania in re uxoria)? Io ritengo insomma sbagliato negare lo ius connubi a ogni persona interdetta e che occorrerebbe distinguere caso per caso. Disc. A me sembra che le critiche che tu muovi al legislatore siano in gran parte rese infondate dall’istituto dell’amministrazione di sostegno: infatti, il risultato da te auspicato (cioé, la possibilità per l’interdetto di sposarsi), si può ottenere molto semplicemente chiedendo la revoca dell’interdizione e la sua sostituzione con la amministrazione controllata: ai sensi del comma quattro dell’art. 411 il giudice tutelare “nel provvedimento con il quale nomina l’amministratore di sostegno o successivamente può disporre che (soli) determinati effetti limitazioni o decadenze previsti da disposizioni di legge per l’interdetto...si estendano al beneficiario dell’amministrazione di sostegno”: quindi può disporre che l’ex-interdetto decida
liberamente se vuole sposarsi e con chi. Piuttosto, quid iuris nel caso il provvedimento di nomina dell’ amministratore di sostegno estenda al “beneficiario” la incapacità, propria dell’interdetto, a contrarre matrimonio? sorge da ciò per il beneficiario un impedimento alle nozze? Doc. A me pare che logica e buon senso impongano di rispondere di si. Ma veniamo ora a parlare degli impedimenti dettati dalla tutela della morale famigliare: sono due: quello previsto dall’articolo 87 e quello previsto dall’art.88. Disc. Comincio a leggere l’art. 87: “Non possono contrarre matrimonio tra loro:1) gli ascendenti e i discendenti in linea retta, legittimi o naturali; 2)i fratelli o le sorelle germani, consanguinei o uterini; 3) lo zio e la nipote, la zia e il nipote; 4)gli affini in linea retta; il divieto sussiste anche nel caso in cui l’affinità deriva da matrimonio dichiarato nullo o sciolto o per il quale é stata pronunziata la cessazione degli effetti civili; 5)gli affini in linea collaterale in secondo grado; 6)l’adottante, l’adottato e i suoi discendenti; 7) i figli adottivi della stessa persona; 8) l’adottato e i figli dell’adottante, 9) l’adottato e il coniuge dell’adottante, l’adottante e il coniuge dell’adottato. Il tribunale, su ricorso degli interessati, con decreto emesso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, può autorizzare il matrimonio nei casi indicati dai numeri 3 e 5,, anche se si tratti di affiliazione. L’autorizzazione può essere accordata anche nel caso indicato dal numero 4, quando l’affinità derivava da matrimonio dichiarato nullo (….)”. Domanda: ma perché tutti questi divieti, tutti questi limiti al diritto di sposarsi? Doc. Perchè l’incesto rompe un tabù: quello che rappresenta come cosa nefanda gli atti sessuali tra i membri della stessa famiglia. Tabù questo estremamente utile alla salvaguardia dell’unità e dell’armonia della famiglia stessa. Perché se si intrufolasse, metti, nella testa di Caio, che non c’é nessun male (che non é cosa “nefanda”) avere rapporti sessuali con la figlia adottiva – ti sto facendo un esempio tra i tanti che si possono fare – ebbene egli sarebbe tentato di avere tali rapporti – tanto più che, la propinquitas della persona concupita, li renderebbe estremamente facili. E ciò creerebbe un intuitivo turbamento nella vita famigliare: i rapporti tra Caio e la figlia adottiva perderebbero quella serietà che, il compito educativo del primo nei confronti della seconda, richiede; in Caia, la moglie di Caio, il semplice pensiero che il marito é attratto dalla figlia adottiva, le farebbe sentire questa come una rivale e distruggerebbe l’amore che invece dovrebbe portarle
e così via. Disc. Non é quindi per ragioni eugenetiche, cioé per impedire il nascere di una figliolanza tarata, che il Legislatore pone i divieti di cui stiamo discorrendo. Doc. No, perché se così fosse non si spiegherebbe l’esistenza di tali divieti anche nei confronti di persone a cui non vi é un legame di sangue (affini, figli adottivi). Disc. Penso di poter passare a leggere l’articolo 88, che recita: “Non possono contrarre matrimonio tra loro le persone delle quali l’una é stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra (…..)”. Mi pare evidente che l’impedimento alle nozze stabilito da questo articolo mira a disincentivare il coniugicidio. Doc. Questa é la interpretazione prevalente; che forse sarebbe valida per il diritto canonico, dove però l’impedimentum é formulato in maniera diversa che nell’articolo da te ora letto; precisamente é formulato così: “Qui intuitu matrimonii cum certa persona …....huius coniugi vel proprio coniugi mortem intulerit, invalide hoc matrimonio attentat” (Chi al fine di contrarre matrimonio con una data persona, il coniuge di questa o il proprio coniuge uccide, non ha diritto a contrarre tale matrimonio). La formulazione,invece, dell’articolo 88 non conforta per nulla tale interpretazione. Infatti, se essa fosse giusta, si dovrebbe pensare che l’impedimento sussiste solo se il gesto omicida fu compiuto con l’intenzione di contrarre matrimonio col coniuge della persona che si é o si é cercato di uccidere (e non quando il gesto omicida fu compiuto, metti, con l’intenzione di compiere una rapina). Il che dall’articolo 88 non risulta. Ancora, se fosse valida questa interpretazione (idest, l’impedimento é stabilito per disincentivare il coniugicidio ecc) ci si dovrebbe aspettare che anche l’omicidio del proprio coniuge (Caio non uccide il coniuge di Caia, ma la propria moglie) dovrebbe costituire un impedimento al matrimonio. Il che dall’art. 88 non risulta. Disc. E allora? Doc. E allora si deve concludere che la ratio dell’articolo 88, non é la disincentivazione del coniugicidio, ma la tutela dei boni mores; che sarebbero offesi se una persona dimostrasse pubblicamente affetto e amore verso chi ha attentato alla
vita del proprio coniuge. Dobbiamo ora parlare degli impedimenti posti a tutela dell’ordine pubblico – impedimenti previsti dall’articolo 86 e dall’articolo 108. Disc. Leggo l’articolo 86: “Non può contrarre matrimonio chi é vincolato da un matrimonio precedente”. Ben s’intende, vincolato da un matrimonio avente effetti civili per il nostro ordinamento. Doc. Sì, naturalmente: se Caio I si é sposato con Caia I solo religiosamente (metti, ha detto il suo “sì” davanti a un ministro del culto cattolico, ma non ha fatto trascrivere l’atto di matrimonio nei registri dello stato civile), egli senza dubbio non é impedito a contrarre un nuovo matrimonio (questa volta con effetti per l’Ordinamento italiano) con Caia II. Disc. Da che deriva il divieto della poligamia, che l’articolo 86 sancisce? Dalla sessuofobia, che per lungo tempo caratterizzò la Religione venuta a predominare in Occidente: il matrimonio deve essere solo un remedium concupiscientiae, quindi mal si concilia con la poligamia considerata come un modo per moltiplicare le possibilità di lussuria? Doc.Direi di no, dato che anche nell’antica Roma la poligamia era vietata. Probabilmente la monogamia si giustifica con ragioni, diciamo così politiche: il primo matrimonio crea una sorta di alleanza tra le famiglie dei due sposi: alleanza che un secondo matrimonio (una seconda alleanza con un’altra famiglia) potrebbe turbare e contraddire. Disc. Leggo ora l’articolo 108, che però é collocato, non più nella sezione intitolata a “Le condizioni necessarie per contrarre matrimonio” (idest, agli impedimenti), ma nella sezione quarta intitolata “Della celebrazione del matrimonio”: evidentemente il Legislatore non considera l’elemento, di cui andiamo a parlare, come un impedimento. Doc. Sì, non lo considera tale; ma tale invece é, e noi tale lo consideriamo. Leggi. Disc. “La dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione.
Se le parti aggiungono un termine o una condizione, l’ufficiale dello stato civile non può procedere alla celebrazione del matrimonio. (….)”. Doc. E’ evidente perché il legislatore non permette l’apposizione di una condizione sospensiva o di un termine ad quem (il matrimonio si scioglierà se entro tre anni risulterà sterile, il matrimonio durerà fino al 31 dicembre 2015): sarebbe questo infatti un modo per eludere il principio della dissolubilità del matrimonio solo per le cause tassativamente previste dalla Legge. Meno evidente, ma pur sempre chiaro, é perché il legislatore non permette l’apposizione di una condizione sospensiva o di un termine a quo (il matrimonio produrrà effetto solo se Caio prenderà la laurea, il matrimonio produrrà effetto solo dal 31 dicembre 2015): infatti questo sarebbe un modo per eludere il principio, stabilito dall’articolo 78, che le promesse di matrimonio non obbligano. Resta a dire sull’ultimo impedimento, quello diretto a evitare la c.d. turbatio sanguinis: esso é previsto dall’articolo 89, che ti prego di leggere almeno nella prima parte del suo primo comma. Disc. “Non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento, dall’annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio” Doc. Chiaramente questo impedimento é stabilito per il timore che, se il nuovo sposalizio si facesse senza rispettare il termine dei 300 giorni, non si sarebbe in grado di stabilire la paternità dei figli eventualmente partoriti da Caia: questa si sposa con Caio II dopo soli due mesi dallo scioglimento del suo precedente matrimonio con Caio I, e partorisce un figlio dopo sette mesi dalla celebrazione del nuovo matrimonio: questo figlio potrebbe essere sia di Caio I che di Caio II. Questo pericolo di un’incertezza sulla paternità dei nuovi nati, il nostro legislatore lo ritiene evitato qualora la donna si sposi dieci mesi dallo scioglimento del precedente matrimonio. Lezione III - L’annullamento del matrimonio: come il Legislatore cerca di evitarlo. Disc. Abbiamo visto così quali sono gli “impedimenti” alla celebrazione del matrimonio. Ma se il matrimonio, nonostante tutto viene celebrato, esso sarà sempre, necessariamente da considerarsi nullo?
Doc. No, non é sempre così. E tradizionalmente gli impedimenti si distinguono, in quelli che, in caso di celebrazione del matrimonio, si trasformano in cause di nullità (c.d. impedimenti dirimenti) e in quelli che, in cause di nullità, non si trasformano (c.d. impedimenti semplici). Esempio di “impedimento semplice” - l’unico esempio però che nel nostro Ordinamento si può portare, se non erro – é quello previsto dall’art. 89: se la donna si sposa prima del trascorrere dei 300 giorni, il matrimonio nonostante che sia stato celebrato eludendo un preciso della Legge, é valido. Il fatto é che l’annullamento di un matrimonio, come già ho avuto modo di rilevare, presenta varie conseguenze negative; cosa per cui il nostro Legislatore cerca in ogni modo di evitarlo. Disc. Quali sono i modi con cui il Legislatore evita l’annullamento del matrimonio? Doc. Direi che sono quattro. Primo: la riduzione degli impedimenti dirimenti: di questo abbiamo or ora detto. Secondo: non permettendo la dichiarazione di nullità se non quando é certa la causa che la determinerebbe. Esempi di ciò li danno gli articoli 117.co.3 e l’art. 124. Per il co.3 art. 117: “Il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza”: Caio, senza aspettare la dichiarazione di morte presunta (che, sola, lo legittimerebbe a un nuovo matrimonio – v. art.65) si sposa: che si fa, nel dubbio che il coniuge assente sia ancora vivo e quindi valido il primo matrimonio, si annulla il secondo? No, dice il Legislatore con il terzo comma citato. Per la seconda parte dell’art.124 se, nella causa in cui il coniuge di un precedente matrimonio impugna il secondo (per violazione dell’art. 86), “si oppone la nullità del primo matrimonio, tale questione deve essere preventivamente giudicata”: Caio si sposa con Sempronia, ancorché prima abbia già contratto matrimonio con Caia: questa chiede l’annullamento del secondo matrimonio ma Caio oppone la nullità del primo: che fa il giudice? va avanti nel processo e dichiara la nullità del secondo matrimonio anche se il primo potrebbe non essere valido? No, dice il Legislatore con l’articolo 124 citato. Terzo (modo per evitare l’annullamento del matrimonio): limitare il numero dei legittimati all’impugnazione del matrimonio. Disc. Questa limitazione vale per tutte le cause di nullità? Doc. No; almeno non in egual misura. In alcuni casi questa limitazione é massima: sono i casi previsti dagli articoli: 120 (matrimonio celebrato in stato di incapacità
naturale di intendere e di volere), 121 (matrimonio celebrato per errore o violenza), 123 (matrimonio simulato): in tali casi la legittimazione a proporre l’impugnazione é riservata solo ai diretti interessati: all’incapace di intendere (art. 120), al coniuge che ha subito violenza o é caduto in errore (art. 121), ai coniugi simulatori (art. 123). Disc. Questa limitazione della legittimazione, la capisco nei casi previsti dagli articoli 120, 121: se Caio, che ha celebrato il matrimonio ubriaco fradicio, passata la sbornia si accorge che Bacco in fondo lo consigliò bene; se Caia, che celebrò il matrimonio con Caio per paura di essere riempita di botte dai fratelli, passata la paura deve convenire che in fondo i fratelli maneschi furono saggi nella scelta del marito, ebbene...contenti loro, contento il mondo. Non capisco però la limitazione stabilita dall’articolo 123, la limitazione della legittimazione ai soli coniugi simulatori: a me sembrerebbe in tal caso più opportuno che fosse data almeno al pubblico ministero la possibilità di smascherare la simulazione. Doc. A me invece sembra saggia e prudente la decisione del Legislatore di inibire l’intervento del pubblico ministero: tale intervento potrebbe intervenire (intempestivo!) quando é già in corso o già realizzato un processo di resipiscenza dei coniugi: Caio e Caia si sono sposati con l’intesa che tra loro solo ci sarebbero stati gli obblighi e i diritti, che possono esserci tra due persone sessualmente indifferenti ma amiche, e poi, col tempo cambiano idea, sono disposti ad accettarsi come marito e moglie. Disc. Può essere che tu abbia ragione: vediamo ora i casi in cui la limitazione della legittimazione é minima. Doc. Sono i casi previsti dagli articoli 117 (matrimonio del minore, del bigamo, dell’incestuoso, dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altro”) e 118 (matrimonio dell’interdetto): sono, questi, casi in cui l’impugnazione viene concessa anche al pubblico ministero, al tutore (in caso di interdizione), all’altro coniuge, a parenti (che gli articoli 117 e 119 individuano un po’ diversamente a seconda delle diverse cause di nullità), e (salvo il caso di nullità dovuta a minore età) a “tutti coloro che abbiano alla impugnazione un interesse legittimo e attuale” (vedi melius l’art. 119). Disc. Tale estensione della legittimazione ben si comprende nel caso dell’interdetto e del minore: se, prima, si ritiene Caio incapace di comprendere l’errore che sta
facendo sposandosi e sposandosi con Caia, poi, si deve anche ritenere Caio incapace di comprendere di aver fatto un errore a sposare Caia (a ogni errante, ben si sa, l’errore sembra verità!): di conseguenza altri debbono essere messi in grado di provvedere per lui. Ma perché, tale estensione della legittimazione, in caso del matrimonio del bigamo, dell’incestuoso, dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altro”? Doc. Perché é interesse pubblico far cessare al più presto l’offesa ai boni mores o all’ordine pubblico, che il perdurare di tali matrimoni rappresenta. Disc. Andiamo avanti: passa a un altro dei modi usati dal Legislatore per evitare l’annullamento di un matrimonio. Doc. Terzo modo per evitare l’annullamento del matrimonio: é la sanatoria della nullità. Sanatoria - che ovviamente esclusa nei casi in cui il perdurare del matrimonio offenderebbe i boni mores o l’ordine pubblico (matrimonio, dell’incestuoso, del bigamo, dell’attentatore al “coniuge dell’altro”) - sia pure a condizioni diverse é ammessa in tutti gli altri casi. Disc. Che cosa giustifica per il Legislatore la sanatoria di un matrimonio nullo? Il semplice passare del tempo, com’é previsto dall’art.1442 per la sanatoria dei contratti annullabili? Doc. Così é solo in due casi eccezionali, di cui subito ti dirò. Nella maggior parte dei casi, però, a giustificare il venir meno dello ius impugnandi o é, come nel caso della simulazione, la semplice “convivenza come coniugi dopo la celebrazione”, nulla importando il tempo in cui é durata (vedi il co.2 art.123) oppure “la coabitazione” (non più “convivenza”) protrattasi, questa sì, per un certo periodo di tempo, precisamente per un anno, così come nel caso, di nullità dovuta a interdizione (vedi co.2 art. 119), di nullità dovuta a incapacità naturale (vedi il secondo comma art. 120), di nullità dovuta a violenza ed errore (vedi comma due art. 122). Disc. E i due casi eccezionali, di cui dicevi, in cui basta a estinguere lo ius impugnandi solo il decorso del tempo? Doc. Riguardano il caso della nullità per minore età (al minore, una volta diventato
maggiorenne, e quindi unico titolare dello ius impugnandi, é concesso solo un anno per esercitarlo – vedi co. 2 art.117) e il caso della nullità per simulazione (al coniuge simulatore é concesso solo un anno per impugnare e neanche quello, come abbiamo già detto, se inizia una convivenza more uxorio con l’altro coniuge simulatore – vedi co. 2 art. 123). Disc. Ma perché la coabitazione protratta oltre un anno giustifica per il legislatore il venir meno dello ius impugnandi? perché é da Lui presa a indice della volontà dei coniugi di assumere reciprocamente gli obblighi e i diritti che la Legge, ai coniugi, riserva? A me sembra che sia un po’ forzato dedurre una tale volontà semplicemente da una coabitazione, che potrebbe essere dovuta a semplice inerzia (nel cercare due alloggi separati) o anche all’accendersi di una attrazione sessuale (che però può convincere a condividere il letto, non tutta una vita). Doc. E infatti non é così: non é vero che il Legislatore nega lo ius impugnandi a Caio e a Caia, che hanno coabitato per un anno, perché pensa che, il protrarsi di una coabitazione per così lungo tempo, dimostri che essi hanno raggiunto il tacito accordo di convivere come marito e moglie. E’ vero invece che il Legislatore minaccia a Caio e Caia di privarli dello ius impugnandi se la loro coabitazione supererà l’anno: e infatti, quanto più si protrae la coabitazione di Caio e Caia, tanto più aumenta la possibilità di quelle complicazioni (si pensi solo al concepimento di un figlio), che ancor più aggroviglierebbero la già aggrovigliata matassa generata dalla nullità del loro matrimonio. Disc. Perché Caio I e Caia I, che hanno contratto un matrimonio viziato da errore o violenza, se non coabitano, possono anche aspettare più anni a chiedere l’annullamento; mentre Caio II e Caia II, che hanno contratto un matrimonio simulato, anche se non coabitano debbono debbono esercitare a pena di decadenza lo ius impugnandi entro un anno? e perché il Legislatore parla nell’articolo 123 (che riguarda la simulazione) di “convivenza” e nell’articolo 122 (come del resto negli articoli 120 e 119) parla di “coabitazione”? Doc. Evidentemente il Legislatore fa decadere Caio II e Caia II, i coniugi simulatori, dallo ius impugnandi dopo un anno, a prescindere dalla coabitazione, perché ritiene meno degno di tutela (rispetto a quello di Caio I e Caia I) il loro interesse all’annullamento del matrimonio e lo ritiene meno degno di tutela perché in fondo la nullità del matrimonio é dovuta a un inganno da loro ordito in danno della Legge.
Il Legislatore parla, poi, nell’art. 123 di convivenza e non di coabitazione perché Egli effettivamente nell’art. 123 deduce dalla convivenza il tacito accordo dei coniugi simulatori a considerarsi marito e moglie (cosa che, come abbiamo visto, non potrebbe dedurre da una semplice coabitazione). Lezione IV – Breve commento agli articoli che prevedono la nullità del matrimonio. Disc. Prima di passare a commentare, sia pure brevemente, gli articoli che prevedono le varie cause di “nullità”, dimmi, a proposito del matrimonio, si ha da parlare di nullità o di annullabilità? Doc. In certi casi si deve parlare di annullabilità (ad esempio in caso di matrimonio celebrato in stato di incapacità naturale di un coniuge, o per un errore di cui questi sia rimasto vittima), in altri casi di nullità (ad esempio nel caso del matrimonio del bigamo e in genere in tutti i casi di matrimonio celebrato con violazione degli “impedimenti” posti a tutela dei boni mores e dell’ordine pubblico), in altri ancora si deve addirittura parlare di inesistenza (ad esempio in caso di matrimonio celebrato davanti a un ufficiale di stato civile falso e di cui i coniugi conoscono la falsità – ché se non la conoscessero il matrimonio sarebbe perfettamente valido - v. melius l’art.113). Disc. Ma hanno rilievo pratico tali distinzioni tra annullabilità, nullità e inesistenza del matrimonio? Doc. E certo che sì: in caso di nullità e di inesistenza l’azione non si prescrive, in caso di annullabilità, invece, sì. In caso di matrimonio annullato o dichiarato nullo, si riconoscono dei diritti ai coniugi in buona fede e ai figli che ne sono il frutto (come vedremo meglio parlando degli articoli 128 e segg.), in caso di inesistenza, invece, no. Disc. Chiarito il punto, passiamo al commento dell’articolo 117, che recita. “Il matrimonio contratto con violazione degli articoli 86, 87 e 88 può essere impugnato dai coniugi, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarlo un interesse legittimo e attuale. Il matrimonio contratto in violazione dell’articolo 84 può essere impugnato dai coniugi, da ciascuno dei genitori e dal pubblico ministero. La relativa azione di
annullamento può essere proposta personalmente dal minore non oltre un anno dal raggiungimento della maggiore età. La domanda, proposta dal genitore o dal pubblico ministero, deve essere respinta ove, anche in pendenza del giudizio, il minore abbia raggiunto la maggiore età ovvero vi sia stato concepimento o procreazione e in ogni caso sia stata accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale. Il matrimonio contratto dal coniuge dell’assente non può essere impugnato finché dura l’assenza. Nei casi in cui si sarebbe potuta accordare l’autorizzazione ai sensi del quarto comma dell’articolo 87, il matrimonio non può essere impugnato dopo un anno dalla celebrazione. La disposizione del primo comma del presente articolo si applica anche nel caso di nullità del matrimonio previsto dall’articolo 68”. Doc. Come subito balza agli occhi, l’articolo distingue le ipotesi di matrimonio contratto per violazione degli articoli, 86 (matrimonio del bigamo), 87 (matrimonio incestuoso), 88 (matrimonio dell’attentatore alla vita del “coniuge dell’altra”), dall’ipotesi di cui all’art.84 (matrimonio del minore). E infatti, nelle prime tre ipotesi (tutte relative a violazione di “impedimenti” posti a tutela dei boni mores e dell’ordine pubblico) diversa che nella quarta é la natura dell’invalidità (che é quella della nullità nelle tre prime, e della annullabilità nella quarta) e, in particolare, la legittimazione a farla valere. Disc. E infatti vedo che, sì, tanto nelle prime tre ipotesi quanto nella quarta é concessa la legittimazione (a impugnare) ai coniugi e al pubblico ministero, ma poi, ecco la diversità, mentre nelle prime tre ipotesi, la legittimazione é concessa anche agli ascendenti e a “tutti coloro che abbiano per impugnare un interesse legittimo e attuale”, nella quarta ipotesi, la legittimazione viene riconosciuta solo ai “genitori” (e non si parla più di ascendenti e di persone che abbiano ad impugnare un interesse ecc. ecc.). Ecco, allora, la prima domanda che ti voglio porre: chi può dire di avere un “interesse legittimo e attuale” all’impugnazione? Doc. Io direi che può dirlo chi, dall’esistenza del matrimonio, vede affermato un suo obbligo o negato un suo diritto, quando dell’adempimento dell’obbligo già é stata avanzata pretesa e dell’esercizio del diritto sono già attuali i presupposti.
Disc. Abacadabra: fai chiarezza con un esempio. Doc. Il matrimonio di Caio e Caia é nullo perché incestuoso: Caio muore e Caia chiede di concorrere all’eredità in danno dei fratelli di Caio: a questi va riconosciuto lo ius impugnandi. Disc. Ma tale tua interpretazione é davvero molto restrittiva: in base ad essa, i figli del primo matrimonio, non potrebbero (almeno prima che divenga attuale un loro diritto alla successione o agli alimenti) impugnare il secondo matrimonio del bigamo: quindi dovrebbero assistere impotenti allo scandalo del padre, che si é creato una nuova famiglia. E lo stesso può ripetersi per la moglie, ben s’intende, la moglie del primo matrimonio Doc. Nulla impedisce ai figli di fare un esposto al pubblico ministero che, se lo riterrà fondato, potrà, lui, sì, proporre impugnazione. Quanto alla moglie, essa senz’altro ha diritto all’impugnazione; e, anche a prescindere dal dettato dell’articolo 124 (che espressamente gliela riconosce) l’avrebbe anche adottando l’interpretazione del comma primo da me proposta: infatti il secondo matrimonio nega e offende il suo diritto alla fedeltà di Caio nei suoi confronti. Disc. Leggo nel secondo comma che la “azione di annullamento può essere proposta personalmente dal minore non oltre un anno dal raggiungimento della maggiore età. La domanda, proposta dal genitore o dal pubblico ministero, deve essere respinta ove, anche in pendenza del giudizio, il minore abbia raggiunto la maggiore età ovvero vi sia stato concepimento o procreazione e in ogni caso sia stata accertata la volontà del minore di mantenere in vita il vincolo matrimoniale”. Ora, io comprendo che il Legislatore possa non ritenere più opportuno, rimettere ai genitori e al pubblico ministero la decisione sull’annullamento del matrimonio, quando “vi sia stato concepimento o procreazione”: tali eventi infatti creano problemi di così grande delicatezza, che necessariamente essi vanno rimessi solo alla decisione del coniuge – però,ecco il punto, il coniuge, non minorenne, ma che ha raggiunto la maturità necessaria per affrontare tali problemi delicati. Più in genere mi pare assurdo rimettere la decisione, sulla proponibilità e/o proseguibilità dell’azione di annullamento di un matrimonio, a chi si é ritenuto tanto immaturo da non poter decidere se contrarlo: infatti mi pare che occorra lo stesso grado di maturità sia per decidere se fare un atto sia per decidere se disfare un atto: per cui se Caio é ritenuto immaturo per la prima decisione, deve essere ritenuto immaturo anche per la seconda
decisione. Doc. L’assurdità da te denunciata effettivamente ci sarebbe, se la norma dovesse essere interpretata come tu credi. Senonché così, interpretata non deve essere. Cominciamo a porre alcuni punti fermi. Primo, da nulla risulta che il coniuge possa proporre personalmente l’azione di annullamento anche se minorenne: anzi la lettera della legge é tale da far pensare che l’azione dal coniuge “può essere proposta personalmente” solo quando egli ha raggiunto la maggiore età: infatti l’avverbio “personalmente” usato dal Legislatore sarebbe pleonastico, se, dall’incipit del secondo comma (e precisamente dal riferimento ai “coniugi” tout court, senza distinguere se maggiorenni o minorenni), si dovesse dedurre che il coniuge, maggiorenne o minorenne che fosse, potesse proporre personalmente l’azione. Secondo punto fermo: da nulla risulta che il coniuge, quando é ancora minorenne, possa rinunciare alla proponibilità dell’azione di annullamento: quello che unicamente risulta, dall’ultima parte della disposizione da te citata, é che il giudice (se il coniuge diventa maggiorenne, se egli dichiara di voler mantenere in vita il vincolo ecc.ecc.) “respinge” la domanda proposta dai genitori o dal pubblico ministero: non risulta da nulla, che tale sentenza di rigetto pregiudichi la proponibilità dell’azione del coniuge una volta raggiunta la maggiore età. E proprio questo va ritenuto, sia per evitare l’assurdità da te prima denunciata sia per evitare la contraddittorietà di ammettere, da una parte, il coniuge diventato maggiorenne a esercitare l’azione, dall’altra, di privarlo di tale azione...... al raggiungimento della maggiore età (in seguito al rigetto di una domanda da altri proposta!). Quindi, anche interpretando alla lettera la norma e ritenendo che il giudice (in caso di raggiungimento della maggiore età da parte del coniuge, in caso che questi abbia dichiarato ecc.ecc.) debba rigettare con sentenza la domanda del p.m. e dei genitori, non c’é necessità di ritenere, che tale sentenza bruci l’azione di annullamento (per cui effettivamente si dovrebbe credere che la dichiarazione del coniuge minorenne di mantenere in vita il vincolo produca, sia pure indirettamente, la sua rinuncia all’azione di annullamento). Tuttavia anche l’interpretare la norma come se la dichiarazione del minore di voler mantenere in vita il vincolo (o l’evento del concepimento ecc.), non implichi rinuncia all’azione, ma solo produca il rigetto e l’estinzione del processo, non é soddisfacente. Disc. Perché mai?
Doc. Per avere il “perché” devi partire dalla considerazione del disposto dell’articolo 126, che recita: “Quando é proposta domanda di nullità del matrimonio, il tribunale può, su istanza di uno dei coniugi, ordinare la loro separazione temporanea durante il giudizio; può ordinarla anche d’ufficio, se ambedue i coniugi o uno di essi sono minori o interdetti”. E’ chiaro che, la possibilità data al giudice di disporre anche d’ufficio la separazione, mira chiaramente ad impedire che, una inconsulta convivenza voluta dall’inesperienza e impulsività di un coniuge minorenne, porti a complicazioni nella già aggrovigliata matassa creata dalla nullità del matrimonio; ora non sarebbe assurdo togliere tale possibilità al giudice solo perché il minorenne..... dichiara di voler mantenere in vita il matrimonio? Disc. E allora? Doc. Allora, sia pure forzando la lettera della legge, si deve ritenere che il giudice, adito dal p.m. e dai genitori, non chiuda il processo (con una sentenza di rigetto) una volta che é intervenuta la dichiarazione del minorenne (o il concepimento ecc.), ma semplicemente lo sospenda, conservando nonostante tale sospensione il potere di ordinare la separazione dei coniugi. Disc. E’ un po’ forzata tale interpretazione. Doc. Sì, ma perché é molto pasticciato il testo legislativo! Disc. Un’ultima domanda sull’art.117: quando la norma, nell’attribuire la legitimatio ad impugnandum, parla di “coniugi”, si riferisce anche al coniuge in malafede, anche a Caio che ha impalmato Caia dopo aver assassinato il suo coniuge (art. 88), anche a Caia che consapevolmente ha contratto un secondo matrimonio (art.86), e così via? Doc. Sicuramente, sì.; anche il coniuge in malafede, il coniuge-assassino, il bigamo (…), ha un legittimo interesse a essere liberato da un matrimonio, che lo mette al centro della disapprovazione sociale, e tale interesse é meritevole di tutela, se non altro perché coincide con l’interesse pubblico (all’eliminazione di un matrimonio fonte di scandalo e di turbamento nella società). Disc. Passiamo ora all’articolo 119, che recita: “Il matrimonio di chi é stato interdetto per infermità di mente può essere impugnato dal tutore, dal pubblico ministero e da
tutti coloro che abbiano un interesse legittimo se, al tempo del matrimonio, vi era già sentenza di interdizione passata in giudicato, ovvero se la interdizione é stata pronunciata posteriormente ma l’infermità esisteva al tempo del matrimonio. Può essere impugnato, dopo revocata l’interdizione, anche dalla persona che era interdetta. L’azione non può essere proposta se, dopo aver revocata l’interdizione, vi é stata coabitazione per un anno”. Doc. Quindi, la nullità del matrimonio può essere dichiarata per infermità mentale, solo se vi sia stata una sentenza che abbia dichiarata, per tale infermità, l’interdizione; poco importa che tale sentenza sia stata pronunciata prima o dopo il matrimonio. Disc. Ma se pronunciata dopo il matrimonio, la sentenza deve pur sempre aver accertato che l’infermità esisteva al momento del matrimonio. Doc. E’ così, grazie della precisazione. Disc. - E se un coniuge, al momento del matrimonio, non era interdetto, ma beneficiava di una “amministrazione di sostegno” (artt.404 ss)? Doc. In tal caso riterrei che occorra vedere se il giudice tutelare – che per l’art.411 co.4 “può disporre che determinati effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizione di legge per l’interdetto si estendano al beneficiario” - abbia ritenuto, o no, di escludere in questi il potere di contrarre matrimonio: se sì, il matrimonio dovrà considerarsi nullo. Disc. La norma limita lo ius impugnandi al “tutore, al pubblico ministero, e a tutti coloro che abbiano un interesse legittimo”. Quanto all’espressione “tutti coloro che abbiano un interesse legittimo” essa é sostanzialmente eguale a quella già incontrata nel corpo dell’art.117 (manca il riferimento all’attualità dell’interesse, ma ciò va attribuito evidentemente a un lapsus del legislatore), cosa per cui, penso, valgano per essa le osservazioni già fatte commentando l’art.117. Non capisco, però, perché, né gli ascendenti né i genitori, a cui pur l’art. 117 conferiva espressamente lo ius impugnandi, nell’articolo 119 non siano neanche nominati. Doc. Non lo capisci perché parti da un presupposto erroneo, che cioè l’omissione del riferimento all’attualità dell’interesse sia semplicemente dovuta ad un lapsus: non é
così: tale omissione si deve invece ritenere voluta dal legislatore, proprio per controbilanciare l’esclusione dei genitori e degli ascendenti dalle persone a cui espressamente è riconosciuto lo ius postulandi: io, legislatore, non attribuisco espressamente a te, genitore, a te, ascendente, lo ius postulandi, ma in compenso vi tolgo, quell’impedimento all’esercizio di tale diritto, rappresentato da “l’attualità dell’interesse a impugnare”. Disc. Passiamo all’esame dell’articolo 120 che recita: “Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio. L’azione non può essere proposta se vi é stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali”. Doc. Permettimi di cominciare il mio commento un po’ da lontano; ma ciò é necessario per bene impostare le questioni che fa nascere l’interpretazione, non solo dell’articolo 120, ma anche degli articoli 122 e 123. Più precisamente dobbiamo partire dalla considerazione che lo Stato ha un chiaro interesse a che i matrimoni, celebrati dai suoi ufficiali di stato civile, siano, come si suol dire, “fortunati”: che le famiglie a cui dan vita siano famiglie felici e armoniose. Disc. Ciò é evidente: un vecchio detto suona: se le famiglie sono felici, le città sono felici, se le città sono felici, tutta la nazione é felice. Doc. E come é evidente questo, é anche evidente che lo Stato subordina la celebrazione del matrimonio al consenso dei nubendi perché ritiene che, questo consenso, sia un indice favorevole della buona riuscita del matrimonio stesso: se Caia e Caio – questo é in buona sostanza il ragionamento del legislatore - sono contenti di sposarsi, ciò significa che essi, valutati i pro e i contro, valutate le qualità dell’uno e dell’altro, giudicano che il loro matrimonio sarà felice, e quale migliore giudice di loro sul punto, dal momento che loro, meglio di tutti gli altri, conoscono le rispettive qualità e la rispettiva situazione e, al contrario di tutti gli altri, possono farsi guidare da una guida sicura: il loro cuore? Disc. Non é proprio così. Doc. Non é per nulla così, ma nel nostro mondo occidentale queste sono le idee che
sono venute a predominare e da cui il legislatore si lascia condizionare. Tale essendo il ragionamento, che ispira la nostra Legge, diventa logico che Essa ritenga invalido il matrimonio quando le facoltà dei nubendi – e mi riferisco non solo alle facoltà di raziocinio, ma anche a quelle del sentimento e della volontà – sono gravemente turbate e alterate. Caio e Caia diventano allora come un barometro guasto, che non dà più affidamento di segnare il tempo giusto: che abbiano detto “sì” all’ufficiale di stato civile, non é più indice di una riuscita del loro matrimonio: questo pertanto viene dal Legislatore ritenuto nullo – e, bada, tale viene ritenuto, anche se non é provato che Caio e Caia abbiano commesso un qualche errore sposandosi. Questo punto é interessante. Infatti vedremo, commentando l’articolo 122, che solo eccezionalmente il Legislatore dà rilievo agli errori in cui i nubendi siano caduti: se Caio si lamenta “Ho sbagliato: credevo di sposare un santa e ho sposata una donnaccia”, il Legislatore gli risponde “Peggio per te: l’hai sposata e te la tieni”, ma se Caio si lamenta “Povero me, ero ubriaco e ho sposato una donnaccia” o anche si limita a lamentarsi “Povero me, ero ubriaco”, il Legislatore gli annulla il matrimonio, e glielo annulla senza chiedergli nessuna prova, che, la sua incapacità di intendere, l’ha condotto a compiere un errore! Disc. Ma quanto deve essere grave la turbatio di cui sono vittime Caio e Caia (o il solo Caio o la sola Caia) per dare luogo all’annullamento? Doc. Il legislatore non lo dice; ma la logica vuole che tale turbatio, per portare all’annullamento, sia talmente grave da escludere che il “sì”, pronunciato da Caio, sia attribuibile alla sua personalità (da escludere la suitas dell’atto, direbbe un penalista): Caio, é vero, ha detto “sì”, ma quel “sì” non gli appartiene, perché l’ha pronunciato sotto l’influsso di Bacco: chi ha pronunciato quel “sì,” non é il vero Caio, impiegato perfetto, assennato nelle sue decisioni ecc.ecc., ma un altro Caio, un Caio impulsivo, senza freni, pasticcione, che porta lo stesso nome ma non corrisponde al “vero Caio”: giusto quindi che questi non resti vincolato da tale “si”. Disc. L’incapacità di Caio quindi non va misurata con un metro oggettivo, non va misurata con riferimento alla capacità del bonus pater familias. Doc. Chiaramente, no: il matrimonio stipulato da Caio, esperto e smaliziato matrimonialista, é annullabile anche se egli, nonostante i fumi del vino che gli ottenebravano la mente, era in grado di comprendere di più, della legge e della vita, del rustico e analfabeta Bertoldino (il cui matrimonio pur é reputato perfettamente
valido): quel che importa al fine di dichiarare l’annullamento é che Caio al momento della celebrazione “non era completamente in sè”. Disc. Dell’incapacità di intendere e di volere abbiamo parlato abbastanza, parliamo ora della violenza e dell’errore, passiamo all’art. 122, che recita: “Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo. Il matrimonio può altresì essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge. L’errore sulle qualità personali é essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l’errore riguardi: 1) l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tale da impedire lo svolgimento della vita coniugale; 2)l’esistenza di una sentenza di condanna per delitto non colposo alla reclusione non inferiore a cinque anni, salvo il caso di intervenuta riabilitazione prima della celebrazione del matrimonio. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la condanna sia divenuta irrevocabile; 3) la dichiarazione di delinquenza abituale o professionale; 4) la circostanza che l’altro coniuge sia stato condannato per delitti concernenti la prostituzione a pena non inferiore a due anni. L’azione di annullamento non può essere proposta prima che la condanna sia divenuta irrevocabile; 5) lo stato di gravidanza causato da persona diversa del soggetto caduto in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’articolo 233, se la gravidanza é stata portata a termineL’azione non può essere proposta se vi é stata coabitazione per un anno dopo che siano cessate la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore”. Doc. Se il Legislatore, come abbiamo visto nel commento al precedente articolo, ritiene la necessità del consenso dei coniugi in quanto indice di una buona riuscita del matrimonio (in base alla considerazione che nessuno meglio dei coniugi può conoscere e valutare le rispettive qualità per cui ecc.ecc.), logica vorrebbe che il matrimonio venisse annullato qualora venisse dimostrato che un coniuge é caduto in errore – ben s’intende, non un qualsiasi errore, ma in un errore costituente la
motivazione principale dell’atto: quell’errore che i canonisti dicono causam dans (in opposizione all’errore concomitante, che accompagna l’atto di volontà ma non interessa la motivazione principale dell’atto: “Credevo che Caia fosse una brava cuoca, e invece non sa cuocere neanche un uovo in padella; ma anche se avessi saputo ciò, l’avrei sposata lo stesso”). Disc. Soprattutto qualora si dimostrasse che un coniuge é caduto in errore sulle qualità dell’altro: in fondo, se i matrimoni vanno a rotoli, é proprio perché gli sposi si sono ingannati sulle rispettive personalità. Tuttavia tale conclusione, che a noi pare logica, dalla lettura dell’articolo 122 non sembra condivisa dal Legislatore, che esclude decisamente la rilevanza dell’errore sulle qualità, salvo che in alcuni eccezionalissimi casi: perché? Doc. Perché, ritenere la rilevanza dell’errore sulle qualità, anche se dettato dalla logica, é sconsigliato dalla difficoltà di accertare, di tale errore, l’esistenza: Caio sostiene di aver sposato Caia perché, e solo perché, la riteneva una buona casalinga: sì, ma, per cominciare, non é facile, e comunque prenderebbe una enorme quantità di tempo ai nostri già oberati tribunali, accertare se Caia é o no una buona casalinga; e soprattutto é tutt’altro che facile accertare, se l’errore, che lamenta Caio é stato veramente causam dans (perché ciò richiederebbe un’indagine nel foro interno di Caio, e come si fa?! solus Deus est scrutator cordium!). Disc. Però il Legislatore dà rilevanza all’errore “sull’identità della persona”; e tale errore si risolve in definitiva in un errore sulle qualità: Rossi Luigi non si identifica con Rossi Carlo perché ha qualità (fisiche, psichiche, morali...) diverse: se non fossero diverse, Rossi Luigi e Rossi Carlo sarebbero la stessa, identica persona; e in fondo, se Caia vuole sposare Rossi Luigi e non Rossi Carlo, é perché apprezza di più le qualità del primo e di meno le qualità del secondo. Doc. Questo é vero, ma é anche vero che l’errore sull’identità é, sì, un errore sulle qualità, ma, prima di tutto, é un errore sulle qualità che, facendo eccezione alla regola, di solito é accertabile con indagini che non investono il foro interno (dato che tale errore risulta di solito da scambi epistolari, fotografie et similia); in secondo luogo, é un errore che riguarda, non una sola qualità, ma un fascio, una molteplicità di qualità: Caia voleva sposare Rossi Luigi, perché alto di statura, ama la musica classica, gli piace far passeggiate, e si trova sposata con Rossi Carlo, che è bassotto di statura, ama il jazz, odia camminare ecc.: un uomo tutto diverso da quello che voleva
sposare! Disc. Ma tu, che citi così spesso i canonisti, perché non dici qual’è la soluzione da essi adottata? Doc. Il diritto canonico dà rilevanza, oltre che all’error in persona, anche all’error qualitatis, purché questo sia redundans in personam; e, se sono riuscito a ben comprendere i ragionamenti sottili dei nostri cugini canonisti, perché tale possa essere considerato, l’errore, non solo deve essere causam dans (esempio di error causam dans dato da S. Alfonso de Liguori: “voglio sposare una nobile, quale reputo esser Tizia” - trasposto ai nostri tempi: “Voglio sposare un cittadino italiano, e per questo sposo Caio”); ma, oltre a questo, deve rispondere ad altri requisiti, che, da quel che ho compreso, mirano soprattutto a facilitare l’accertamento della effettiva principalità dell’errore: ciò mi pare soprattutto risultare evidente nel primo dei requisiti pretesi da S. Alfonso de Liguori: che cioé, la qualità erroneamente ritenuta, sia stata apposta quale conditio sine qua non: é chiaro che, quando la richiesta di una certa qualità viene espressa (cioé, non é più “nel cor celata”), la sua prova non richiede più un’indagine nel foro interno del coniuge, quindi é di molto facilitata. Disc. Egualmente mi pare facilitato, l’accertamento dell’error qualitatis, quando si deduce che esso é frutto del dolo altrui: infatti Caia, per provare che ha contratto matrimonio perché a ciò indotta dolosamente da Caio, deve provare, non solo di essere caduta nell’errore A (metti, l’errore di credere Caio cittadino italiano), non solo che Caio ha tenuto un comportamento che l’ha indotta nell’errore A, ma che Caio ha tenuto quel comportamento proprio per indurla all’erronea supposizione della qualità A (animus decipiendi di Caio); ma, ecco il punto, se si dà effettivamente la prova (che naturalmente sarà una prova non relativa al foro interno di Caia) che Caio ad obtinendum consensum é stato costretto a indurre Caia in errore sull’esistenza della qualità A, si dà con ciò stesso la prova che l’esistenza di tale qualità per Caia era, per dirla nel gergo dei tuoi canonisti, causam dans. Doc. Quel che dici é sostanzialmente vero, e può spiegare perché il diritto canonico ritenga (col canone 1098) la nullità del matrimonio di chi “matrimonium init deceptus dolo, ad obtinendum consensum patrato, circa aliquam alterius partis qualitatem, quae suapte natura consortium vitae coniugalis graviter perturbare potest” (di chi “celebra il matrimonio, raggirato con dolo ordito per ottenere il consenso, circa una qualità dell’altra parte, che per sua natura può perturbare
gravemente la comunità di vita coniugale”). Col risultato di dare indirettamente rilevanza anche ad errori diversi da quello in persona (i canonisti citano come esempi di tali errori, diversi da quello in persona, anche se pur sempre capaci di “graviter perturbare” “consortium vitae coniugalis”, quelli vertenti su: lo stato di gravidanza ab alio, una malattia contagiosa, la tossicodipendenza, la commissione di certi delitti) Disc. Ma il nostro Ordinamento invece al dolo non ha ritenuto di dare rilevanza. Doc. Questo probabilmente per sgombrare le nostre aule di giustizia delle troppo sottili questioni, che affaticano quelle dei tribunali ecclesiastici. Peraltro, come vedremo parlando della separazione personale dei coniugi, molti di quegli errores in qualitate ritenuti irrilevanti per l’annullamento del matrimonio, riacquistano rilevanza per il nostro Ordinamento, se causati dal comportamento doloso dell’altro coniuge, come “causa di addebito” della separazione (art. 151 co.2). Disc. Come dire che, ciò che si é cacciato dalla porta, lo si fa rientrare dalla finestra. Doc. Non proprio, perché al coniuge (in buona fede), in caso di nullità, vengono riconosciuti diritti molto minori, di quelli riconosciuti al coniuge, a cui la separazione non va addebitata: lo vedremo meglio parlando del matrimonio putativo. Disc. Ma ritorniamo all’articolo 122: non é poi vero che il nostro legislatore chiuda assolutamente la porta a tutti gli errores in qualitate: egli infatti, nel secondo comma dell’articolo in esame, riconosce l’impugnabilità del matrimonio “per effetto” non solo “di errore sull’identità della persona” ma altresì “di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge”; e, nel successivo comma tre, elenca (sia pure in maniera chiaramente tassativa) ben cinque diversi tipi di errores in qualitate: li vogliamo conoscere meglio di quel che permette una frettolosa lettura dell’articolo? Doc. Certo, però prima dobbiamo premettere due osservazioni di carattere generale: Prima osservazione: la rilevanza dell’errore va esclusa se (vedi l’incipit del terzo comma) “tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge (idest, del coniuge in errore) si accerti che (egli) non avrebbe prestato il suo consenso, se le avesse esattamente conosciute”: come vedremo, un coniuge può chiedere l’annullamento, se ignorava che l’altro era stato condannato per delitti particolarmente gravi, ma, metti che Caio sia stato condannato per un delitto politico e Caia abbia le sue stesse idee politiche, Caia non potrebbe impugnare il matrimonio, perché si dovrebbe ritenere accertato
che Caia, anche se avesse conosciuto della condanna, avrebbe dato il suo consenso (questo, almeno se la condanna fosse stata già scontata; più discutibile diventerebbe il caso, se si trattasse di una condanna a molti anni ancora da scontare). Seconda osservazione: nulla rileva, che l’errore sia stato o no indotto da un comportamento colposo o doloso dell’altro coniuge: anche se Caio non ha fatto nulla per nascondere la sua malattia, ma questa comunque era ignorata da Caia, il matrimonio é annullabile. E così, nulla rileva il comportamento doloso o colposo del coniuge in difetto: anche se qualsiasi altra persona si sarebbe accorta del difetto di Caio, e lei, no, Caia può chiedere l’annullamento. Tanto premesso possiamo davvero cominciare l’esame dei vari errores in qualitate; e naturalmente cominciamo da quello indicato nel numero 1: l’errore sulla “esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale”. Disc. Quindi se Caia scopre che Caio é impotente (tanto per citare un’anomalia sessuale) o omosessuale (tanto per citare una deviazione sessuale) oppure schizofrenico o diabetico (tanto per citare delle vere e proprie malattie) può impugnare il matrimonio? Doc. Non é detto. Perché il matrimonio sia impugnabile infatti occorrono i seguenti tre presupposti: che l’handicap, diciamo così, dell’altro coniuge esistesse già al momento della celebrazione del matrimonio; che l’handicap fosse grave – tenendo però presente che, per essere considerato tale, non occorre che fosse tale da “impedire” la vita in comune, basta che fosse tale da renderla “intollerabile” (e senza dare a tale aggettivo una interpretazione meno elastica e benevola di quella che gli si dà nell’ambito dell’articolo 151 sulla separazione giudiziale – semmai il contrario: quel che può essere considerato doverosamente “tollerabile” nel caso di una convivenza che ha già dato luogo ad un’intimità forse protrattasi per anni, può essere ritenuto “intollerabile” nel caso tra i due coniugi non si sia ancora instaurata una consuetudo vitae). La “gravità” dell’handicap va poi esclusa quando esso é eliminabile con cure non pericolose per la salute e il cui esito positivo rientri nella normalità (ma se il coniuge handicappato si rifiuta a tali cure l’altro coniuge ha diritto alla separazione “con addebito”). Che, come già si é detto, si accerti che, non solo il coniuge (che vuole impugnare) abbia al momento della celebrazione ignorato l’handicap dell’altro, ma che “non avrebbe prestato il suo consenso al matrimonio se lo avesse esattamente conosciuto”.
Quindi il matrimonio tra Caia e Caio é perfettamente valido anche se questo é affetto da impotenza o é omosessuale, se Caia era a conoscenza di tale anomalia o deviazione sessuale: per il nostro Ordinamento il bonum prolis non rientra tra i bona del matrimonio. Tutto al contrario per il diritto canonico, l’impotenza, anche se conosciuta e accettata al momento della celebrazione, determina la nullità del matrimonio, poiché nei bona di questo vien fatto rientrare - oltre che il bonum fidei (il bene della fedeltà) e il bonum sacramenti (il bene dell’indissolubilità) - appunto anche il bonum prolis. Disc.Passiamo ora a parlare degli errores in procedendo contemplati nei numeri, 2,3,4. Li possiamo trattare insieme dato che unica mi sembra la loro ratio; che é evidentemente data dal pericolo a cui si trova esposto il coniuge costretto a convivere con persona, le cui inclinazioni deliquenziali ignorava al momento di sposarsi. Doc. D’accordo, possiamo fare un’unica trattazione di tali errores. Dove però non sono d’accordo con te, é nel ritenere che la ratio della nullità, indotta da essi, sia da ravvisarsi nel pericolo che corre il coniuge che ne é stato vittima: e infatti che pericolo corre Caia, se Caio é stato condannato, sì, a cinque anni, ma per un delitto politico?! La ratio della nullità piuttosto la ravviserei nel fatto che il marchio di infamia, che i precedenti penali imprimono nel coniuge “pregiudicato”, potrebbe essere fonte di imbarazzo e addirittura di difficoltà nella vita sociale per l’altro coniuge. Disc. Comunque sia, mi pare interessante che, per escludere la nullità, non basti la possibilità anche forte che il coniuge pregiudicato ottenga nel tempo la riabilitazione, ma occorre che questa già risulti ottenuta al momento della celebrazione: evidentemente il legislatore non ritiene giusto addossare, al coniuge in errore, il rischio di una mancata concessione della riabilitazione. E ciò conforta la tesi, da te avanzata a proposito dell’errore sull’esistenza, diciamo così, di un handicap, che il semplice fatto della sua eliminabilità non esclude la nullità, a meno che la sua eliminazione non dipenda da altro che dalla buona volontà del coniuge handicappato. Ovvio, poi, mi pare che il matrimonio non sia impugnabile fino a che la sentenza non sia passato in giudicato: fino a che non si é certi che Caio sia colpevole, é giusto che Caia sia vincolata dal matrimonio. Doc. Non direi che, fino a che la sentenza non é passata in giudicato, Caia sia vincolata dal matrimonio. Proprio il fatto che il Legislatore fa l’ipotesi di una
sentenza di condanna non ancora passata in giudicato, fa pensare che la nullità (e quindi la cessazione del vincolo) si abbia come conseguenza della semplice pendenza del processo al momento della celebrazione del matrimonio, se esso si conclude con una sentenza passata in giudicato. E ciò significa che il matrimonio ha da considerarsi invalido fin dal momento della celebrazione del matrimonio, anche se, da tale momento fino al passaggio in giudicato della sentenza, si crea una situazione di incertezza sulla sua validità (situazione che abbiamo del resto già incontrata nel caso in cui il coniuge-bigamo, convenuto per la nullità del secondo matrimonio, opponga la invalidità del primo e quindi occorra, per accertare la validità del secondo matrimonio, aspettare che passi in giudicato la sentenza che decide sulla invalidità del primo). Disc. A questo punto ci rimane da dire sull’error in qualitate previsto dal numero 5 che recita “(l’errore sulle qualità é essenziale purché riguardi) lo stato di gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore in errore, purché vi sia stato disconoscimento ai sensi dell’articolo 233, se la gravidanza é stata portata a termine”. Primo dubbio: il coniuge impugnante deve ignorare lo stato di gravidanza oppure che tale stato deriva ab alio. Doc. Deve ignorare lo stato di gravidanza o, se ne é a conoscenza, deve ignorare che é dovuto ab alio. Disc. Secondo dubbio: si deve intendere che Caio può impugnare il matrimonio, sia che la gravidanza non sia stata portata a termine sia che sia stata portata a termine (in questo secondo caso però occorrendo il disconoscimento) oppure si deve intendere che Caio può impugnare solo se la gravidanza é stata portata a termine e lui ha effettuato il disconoscimento? Doc. A me pare più logica la seconda interpretazione. Infatti, la ratio della disposizione de qua, non sembra essere quella di liberare Caio da Caia, perché questa si é rivelata una “donnaccia” (se infatti tale fosse la ratio, a Caio dovrebbe essere concesso l’annullamento anche qualora Caia non risultasse vergine o, peggio, risultasse madre di numerosa prole naturale), bensì la ratio sembra quella di evitare a Caio di trovarsi in famiglia un figlio, che non é il suo (problema che evidentemente non sussiste se la gravidanza non viene portata a termine). Disc. Dobbiamo ora passare a trattare dell’altro vizio della volontà, che può
invalidare il matrimonio: la violenza. L’articolo 122 contempla questo vizio nel suo primo comma recitando: “Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo”. Nulla quaestio a proposito del “consenso estorto con violenza”. Con tale espressione il legislatore si riferisce chiaramente ai casi di violenza fisica - casi tanto facili a immaginarsi in teoria, quanto difficili a verificarsi in pratica; (e tuttavia un esempio di vis phisica si può trarre da un fatto storico: Margherita di Valois, interrogata dal celebrante se vuole sposarsi tituba - perché, innamorata del principe di Condè, non vuole andare sposa a Enrico IV -, il fratello se ne accorge e le dà sulla nuca un energico colpo che le fa abbassare la testa, ciò che viene interpretato dal compiacente celebrante come un segno di assenso). E’ chiaro che é ben difficile che un celebrante non si accorga di una violenza fisica e che accorgendosene non si rifiuti di celebrare il matrimonio. Passiamo pertanto a parlare del consenso “determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo”. La determinazione degli esatti confini in cui va contenuto questo secondo tipo di violenza fa nascere non pochi problemi: perché? Perché, dire che Caio ha dato il suo consenso per timore di un male, significa alla fin fine dire che Caio ha dato il suo consenso per evitare un male. Senonchè é normale che, chi si sposa, lo faccia per evitare una situazione esistenziale sentita come dolorosa (cioé sentita e quindi temuta come “male”) e per mettersi in una situazione esistenziale felice o almeno di minore sofferenza (desiderata come un “bene”); e così lo scapolone Mario si sposa per evitare il male della solitudine (per timore della solitudine), Maria, che fa la lavascale, sposa Arturo che ha la cadillac, per evitare di continuare a vivere nei bassifondi (situazione che sente e quindi teme come un “male”), e così via. Stando così le cose si pone per il Legislatore il problema di delimitare in qualche modo i casi in cui il consenso, indotto dal timore di un male, é causa di nullità; ed Egli risolve tale problema pretendendo i seguenti requisiti del timore (a che valga come causa di nullità): 1) deve trattarsi di timore di “eccezionale gravità”. Qui si pone il problema: il Legislatore intende riferirsi, a casi in cui é di eccezionale gravità il male, che il coniuge intende evitare (prestando il suo consenso al matrimonio) o a casi in cui il coniuge, grave o no che sia il male per lui da evitare, é posseduto da un grave timore. Oltre che la lettera della legge, anche la logica farebbe propendere per questa seconda soluzione, dato che, dovendosi accertare la libertà del volere di chi ha dato il consenso, é logico che si faccia riferimento al suo stato psichico: poco importa che
Caio, come un Don Abbondio, tremi per uno stormir di foglie, quel che conta é che abbia detto “sì” mentre voleva dire “no”. Però l’esigenza pratica di evitare ai giudici il difficile accertamento degli stati soggettivi di una persona, porterebbe invece a far dipendere la dichiarazione di nullità solo dall’accertamento e dalla valutazione della gravità del male che ha indotto il timore. E farebbe pensare che proprio questa sia la soluzione adottata dal Legislatore, il fatto che egli pretenda, come secondo requisito del timore a che si possa dichiarare la nullità, che esso derivi “da cause esterne allo sposo”, cioé, per dirla con i canonisti, nasca non ab intrinseco ma ab extrinsexo. Disc. Che significa che il timore deve nascere ab extrinseco? Doc. Non significa certo, come lascerebbe intendere la lettera della legge, che deve derivare da “cause esterne”. E questo per la semplicissima ragione che non c’é timore che non derivi dall’esterno: anche Caio che si sposa per paura dell’inferno o per paura di essere in caso contrario perseguitato dal fantasma di suo padre, oppure – per portare un altro esempio di timore ab intrinseco, - Sempronio che si sposa per timore riverenziale (perché non sopporta i rimbrotti dello zio prete), ebbene anche loro traggono il loro timore da una fonte esterna (forse che non sono esterni, l’inferno, il fantasma, lo zio prete?). Disc.,- E allora? Doc. E allora deve intendersi come timore nato ab intrinseco quello che trae, almeno principalmente, la sua forza dalla particolare sensibilità e immaginazione dello sposo. Disc. Ma il timore deve nascere da una minaccia altrui? Doc. No, diversamente di quel che avviene nella materia contrattuale, nella nostra materia il timore può anche non essere indotto da un comportamento umano (intenzionato a produrlo): ad esempio, Caia, che si sposa in tempo di guerra con un ufficiale della forza occupante al fine di sfuggire la fame, può chiedere l’annullamento del matrimonio. Ti dico subito, però, per evitare equivoci, che quello che ti ho fatto ora, da non pochi studiosi, viene portato come esempio di matrimonio simulato. Erroneamente però secondo me, sul punto ritorneremo. Disc. Passiamo ora a parlare della simulazione, che é prevista come causa di nullità dall’art.122,che recita: “Il matrimonio può essere impugnato da ciascuno dei coniugi
quando gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti” Doc. Se é vero, come abbiamo visto, che il Legislatore subordina al consenso dei coniugi la validità del matrimonio, in quanto vede nel fatto, che i coniugi siano disponibili ad accettare gli obblighi che ne derivano, un indice auspicioso ch’essi sapranno sopportarne il peso e che il matrimonio durerà, se questo é vero, logica vuole che il legislatore non ritenga più valido il matrimonio quando i coniugi “verbis vel signis in celebrando matrimonio adhibitis, per usare le parole dei canonisti, consentono all’assunzione di tali obblighi, ma in realtà tali obblighi non intendono assumere. Disc. Ma Caio e Caia possono non volere assumere tali obblighi in due diversi sensi: nel senso che essi, conoscendone l’esistenza, li rifiutano, o semplicemente nel senso che pensano che dal matrimonio derivino obblighi diversi da quelli che il legislatore vi ricollega (Alì é musulmano e crede che dicendo il suo “sì” all’ufficiale di stato civile conserverà il diritto di prendersi una seconda moglie). Doc. Giusto, e logica vorrebbe, non solo che nella prima, ma anche nella seconda ipotesi da te fatta, il matrimonio fosse considerato nullo; tanto più che, adottando i principi che regolano la materia contrattuale, tale sarebbe considerato (nessun dubbio che i civilisti considererebbero nullo, perché viziato da un errore “essenziale” - vedi l’art.1429 - il contratto di compravendita stipulato da chi con esso intendesse assumersi solo gli obblighi del locatore o conduttore dell’immobile). Tuttavia, dalla stessa lettera della norma (che vuole che le parti “abbiano convenuto di non adempiere”), risulta certo che, per il legislatore, si ha nullità solo nella prima ipotesi da te fatta: insomma, per il Legislatore, a che si abbia simulazione, occorre che in actu matrimonii sia presente una precisa intentio delle parti di non assumere gli obblighi derivanti per legge. E in ciò il nostro Ordinamento non fa altro che seguire quello canonico che, per ritenere la invalidità, pretende che gli obblighi matrimoniali siano esclusi con “positivo voluntatis actu”; più precisamente, il secondo paragrafo del canone 1101 suona: “At si alterutra vel utraque pars positivo voluntatis actu excludat matrimonium ipsum vel matrimonii essentiale elementum vel essentialem aliquam proprietatem, invalide contrahit”(“Ma se una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente”). Disc. Perché mai il Legislatore accetta l’illogicità che tu hai giustamente denunciata?
Disc. Probabilmente perché ritiene che - mentre nulla esclude che la persona (il nostro buon Alì dell’esempio), che dicendo il suo “si” non intende assumere un dato obbligo per la semplice ragione che lo ignora,, poi, una volta conosciutane l’esistenza, sia capace e disposta ad accollarsene il peso (“Sì, io, Alì, credevo che la legge italiana non mi impedisse un secondo matrimonio, ma dal momento che essa così vuole, mi adeguerò e mi contenterò di una sola moglie”) - il fatto che, con un “positivo voluntatis actu”, i coniugi abbiano escluso l’assunzione di un dato obbligo, non può che far ritenere che essi ritengono le loro spalle troppo deboli per sopportarne il peso. Doc. Ma per la legge italiana, perché ci sia nullità, occorre che i coniugi rifiutino “matrimonium ipsum” o basta che ne rifiutino solo alcuni obblighi da esso derivanti? Doc. Logica vuole che, a ritenere la nullità, basti il rifiuto anche di un solo obbligo da considerarsi “essenziale” per il nostro diritto; e logica anche vuole che siano ritenuti “essenziali” tutti gli obblighi enunciati negli articoli, di cui l’ufficiale di stato civile é tenuto a dar lettura al momento della celebrazione del matrimonio. Mi rendo conto che può essere ritenuta una soluzione troppo severa quella di ritenere “essenziale” ogni obbligo previsto dagli artt. 143, 144, 147; ma, una volta accettato il principio che per la nullità non occorre la c.d. “simulazione totale”, ma basta quella “parziale”, mancherebbe a noi, interpreti del codice italiano, ogni guida, se non adottassimo, per individuare la “essenzialità” di un obbligo, il criterio che ci offrono gli articoli or ora citati. Così non é per i canonisti, i quali, per individuare lo “essentiale aliquid elementum” o la” essentialem aliquam proprietatem”, la cui esclusione rende invalido il matrimonio, possono giovarsi della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale nata sui bona matrimonii: bonum prolis (procreazione di una figliolanza), bonum fidei (fedeltà al coniuge), bonum sacramenti (indissolubilità del matrimonio), bonum coniugum (volontà di fare il bene, fisico, psichico e spirituale, dell’altro coniuge). Chi volesse discostarsi dalla nostra, forse troppo severa, interpretazione della Legge, dovrebbe a nostro parere ritenere almeno l’essenzialità degli obblighi che corrispondono al bonum fidei (l’obbligo di fedeltà, inteso nei limiti di cui diremo in altra sede), al bonum sacramenti (l’indissolubilità naturalmente intesa come...dissolubilità nei soli casi tassativi previsti dalla legge), al bonum coniugum. Disc. Ma, a che vi sia nullità, occorre la simulazione di entrambi i coniugi o basta
quella di uno solo: voglio dire, se il solo Caio o la sola Caia dicono “sì” con la riserva mentale di volere “no”, basta questo per rendere nullo il matrimonio? Doc. La lettera dell’articolo in esame, farebbe concludere che per il nostro diritto occorra, per potersi parlare di simulazione, la concorde volontà di simulare di entrambi i coniugi (dato che questi, per l’articolo 123, debbono aver “convenuto” ecc.ecc.). Tutto al contrario di quel che, come abbiamo visto, dispone il diritto canonico, che, nel già citato canone 1101, si riferisce a “alterutra vel utraque pars” (una o entrambe le parti). A me però sembra, che una tale interpretazione della legge porti a una evidente contraddittorietà nel sistema: infatti, se per l’articolo 122 basta l’errore di una parte, cioé la mancanza del consenso in una parte, per determinare la nullità, perché mai non si ritiene nell’articolo 123 che basti la riserva mentale di una parte, cioé la mancanza del consenso in una parte sola, per determinare la simulazione e quindi la nullità? Per questo saremmo tentati di ritenere l’incostituzionalità (per evidente irrazionalità) della soluzione adottata dal Legislatore (ben s’intende la soluzione adottata nell’art. 123 e non nell’articolo 122). Disc. Dulcis in fundo: qualche esempio di simulazione. Doc. Io ti potrei portare il caso di Caio e Caia che ioci causa si presentano all’ufficiale di stato civile, per celebrare quello che per loro é un finto matrimonio – ma questo é un caso di scuola. Più interessante, in quanto con numerosi riscontri nella realtà, é l’esempio di Dolores, che, per acquisire la cittadinanza italiana, si sposa, sì, con Beppe, un nostro connazionale, ma ben decisa a mettersi sotto i piedi gli obblighi, che l’ufficiale di stato civile con tanta solennità le legge. Disc. Questo esempio mi sembra eguale a quello, che tu ha fatto a proposito di una volontà coartata da violenza. Doc. No, nell’esempio che commentando l’articolo 122 ho fatto, il coniuge si decideva a contrarre matrimonio per il timore di morir di fame, invece la Dolores del secondo esempio, si decide al matrimonio semplicemente per acquisire un vantaggio. Disc. Quindi, per stabilire se c’é simulazione o no, bisogna por mente al motivo per cui i coniugi si sono decisi alla celebrazione del matrimonio.
Doc. Per nulla: il motivo non conta nulla, o meglio, può contare solo ai fini della prova: quel che conta é l’esistenza o meno della intentio di rifiutare gli obblighi che la legge impone. Disc. Un’ultima domanda, che però non riguarda solo l’articolo 123, ma tutti gli articoli sulle nullità prima commentati. E’ una domanda che nasce dalla constatazione del fatto che, come risulta dalla tua stessa esposizione, esistono, sì, molte somiglianze ma anche molte diversità tra il diritto della Chiesa Cattolica e il diritto dello Stato italiano: quindi é ben possibile che quel matrimonio,che il diritto canonico ritiene nullo, tale non sia per il diritto italiano; e ben può accadere che Caio e Caia, sposati con un matrimonio concordatario, si trovino nella strana e ingiusta situazione di non essere più sposati davanti a Dio e di essere invece considerati marito e moglie dallo Stato italiano. Strana e ingiusta situazione perché, se Caia ha consentito ad assumersi gli obblighi di fedeltà ecc. voluti dal Codice italiano, lo ha fatto solo nel presupposto che Caio fosse a lei unito dal vincolo sacro del matrimonio religioso: cadendo questo presupposto, non esistendo più tale vincolo, Caia ben può ritenere ingiusto essere vincolata da un obbligo di fedeltà, da un obbligo di mantenimento ecc. verso Caio,che per lei é diventato un perfetto estraneo. Dopo questa (necessariamente lunga) premessa vengo alla domanda: la legge italiana non adotta nessun rimedio per evitare tale ingiustizia? Doc. Sì, naturalmente, un rimedio l’adotta, ma non certo quello di dichiarare la nullità del matrimonio civile nel presupposto della nullità di quello religioso (anche se questo ha motivato il consenso di Caia ecc. ecc.): non devi cioé pensare che Caia possa adire il giudice italiano, prima, per dimostrare la nullità del matrimonio religioso e, poi, per l’effetto, come noi pratici diciamo, per ottenere la nullità del matrimonio civile. No, Caia deve forzatamente battere un’altra strada: deve ottenere, prima, una sentenza dal giudice ecclesiastico che dichiari la nullità del matrimonio religioso e, poi, chiedere a un giudice italiano di rendere questa sentenza efficace per l’Ordinamento italiano. Ma questo lo vedremo meglio in altra sede. Disc. Ora, avendo già avuta occasione di parlare degli articoli 124 e 126, passiamo alla lettura degli articoli 125 e 127. Art. 125: “L’azione di nullità non può essere proposta dal pubblico ministero dopo la morte di uno dei coniugi”. Art. 127: “L’azione per impugnare il matrimonio non si trasmette agli eredi se non quando il giudizio é già pendente alla morte dell’attore”.
Un breve commento. Doc. Sarò breve come tu vuoi. Il disposto dell’articolo 125 si spiega col venir meno dell’interesse dello Stato alla dichiarazione di nullità, una volta che il matrimonio, con la morte di uno dei coniugi, comunque si é sciolto. Diverso naturalmente é il discorso per i colegittimati all’impugnazione: essi ben potrebbero avere interesse a domandare l’annullamento nonostante lo scioglimento del matrimonio (metti per contestare eventuali diritti di successione vantati dal coniuge superstite): quindi il legislatore conserva loro il potere di impugnazione. Il disposto dell’articolo 127, si spiega, poi, con il rispetto dovuto al de cuius dagli eredi (ma non dagli altri colegittimati che conservano il potere di impugnazione!). Disc. Dobbiamo ora parlare del così detto “matrimonio putativo”, che é previsto dall’art. 128, che recita: “Se il matrimonio é dichiarato nullo, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede, oppure quando il loro consenso é stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi. Il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli. Se le condizioni indicate nel primo comma si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Il matrimonio dichiarato nullo, contratto in malafede da entrambi i coniugi, ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso, salvo che la nullità dipenda da incesto. Nei casi di cui al quarto comma, rispetto ai figli si applica l’articolo 251.”. Doc. Quindi, in deroga al principio che il contratto e in genere l’atto nullo nullum producit effectum, il matrimonio, nei riguardi del coniuge o dei coniugi in buona fede, produce i suoi effetti fino alla “sentenza, che pronunzia la nullità” (melius, fino al passaggio in giudicato di tale sentenza). Attenzione, però, ciò vale solo per gli effetti “favorevoli” e non per quelli “sfavorevoli”; e ciò significa che, se la sentenza é del 2012 e il coniuge (putativo) si é risposato, come che sia, prima, cioé metti nel 2010, il nuovo matrimonio sarà perfettamente valido, né più né meno che fosse stato contratto da persona mai sposatasi. Di nuovo attenzione: il fatto che il matrimonio continui a produrre i suoi effetti come un matrimonio valido, non significa che esso.. .sia un
matrimonio valido: pertanto il problema della validità delle donazioni, fatte da un coniuge all’altro nel presupposto della validità del matrimonio, va risolto considerando che la donazione é stata fatta su un presupposto erroneo, cosa per cui, a mio modesto parere, dovrebbe ritenersi annullabile – se non si ritenesse applicabile tale soluzione, si dovrebbe almeno ritenere l’obbligo del coniuge donatario alla restituzione dei doni avuti, in base a un’interpretazione analogica dell’articolo 80 (che disciplina il problema analogo, che si presenta in caso di rottura di “promessa di matrimonio”). E ancora attenzione: la regola che il matrimonio nullo continua a produrre i suoi effetti (“fino alla pronunzia della sentenza” che tale lo dichiara) per il coniuge in buona fede, solo se a lui favorevoli, va applicata cum grano salis; esempio: esiste una norma (l’art.177) per cui, se i coniugi hanno adottato il regime di comunione, i beni da ciascuno di loro acquistati cadono in comunione, per cui di essi in buona sostanza diventano entrambi comproprietari al 50 per cento, anche se l’acquisto é stato fatto con i soldi di uno solo di loro; ebbene, il disposto dell’articolo 128, che beneficia il coniuge in buona fede solo degli effetti favorevoli del matrimonio, non può portare a ritenere che gli acquisti di Caio, coniuge in malafede, continuino a cadere in comunione, mentre gli acquisti di Caia, coniuge in buona fede, vengono a cadere solo nel suo patrimonio personale. Cioé, l’articolo 128 non può essere interpretato come se comportasse una deroga all’articolo 191, che prevede che la comunione si sciolga tra i coniugi (senza distinguere, se in buona fede o mala fede!) solo “per l’annullamento” del matrimonio. Del resto se Caia vuole porre fine al regime di comunione (già in pendenza della causa di annullamento e quindi prima della sentenza che questo dichiara), il codice gliene offre il facile mezzo: chieda la separazione (come gliene dà facoltà l’articolo 126 da noi già incontrato): per l’articolo 191 la separazione produce automaticamente lo scioglimento della comunione. Disc. Resta il fatto che Caia, appunto perché restano in piedi per lei gli effetti favorevoli e quindi il suo (eventuale) diritto al mantenimento, non dovrà restituire le somme ricevute appunto a titolo di mantenimento; mentre Caio, dovrà restituire le somme che a tale titolo eventualmente avesse ricevuto. Doc. Sì, se Caia é in buona fede e Caio é in mala fede. Disc. Ma quando potrà dirsi che Caia é in buona fede? Doc. Quando ignorava l’esistenza della causa di nullità (ad esempio, ignorava che
Caio era già sposato, o che aveva una disfunzione sessuale e così via) - questo, bada, facendo riferimento al momento della celebrazione del matrimonio: anche nella nostra materia mala fides superveniens non nocet: se Caia al momento della celebrazione, anno di grazia 2010, ignorava lo stato di coniugato di Caio e, poi, nel 2012, le si sono aperti, come si suol dire, gli occhi, ebbene lei e i suoi figli continueranno a beneficiare degli effetti favorevoli del matrimonio anche dopo il 2012: i figli saranno figli legittimi (ancorché concepiti quando ormai lei sapeva!), lei potrà trattenere quanto ricevuto a titolo di mantenimento ecc.: sì, hoc iure utimur. Disc. Ma che dire del minore, dell’interdetto che si sposano pur sapendo di essere “impediti” a sposarsi? Doc. Io direi che, pur non potendosi considerare in buona fede, dovrebbero essere equiparati nella tutela al coniuge in buona fede. Al contrario, chi si é sposato, sì, in stato di incapacità naturale, ma da lui “preordinata” (nel senso di cui all’art.92 C.P.) al fine di poi poter impugnare il matrimonio, io lo riterrei in mala fede, anche se in buona fede in actu matrimonii (e anche se il suo matrimonio dovrà pur sempre considerarsi annullabile). Disc. Abbiamo visto che gli effetti del matrimonio putativo rispetto ai coniugi. Quali i suoi effetti rispetto ai figli? Doc. I figli, non solo quando uno dei coniugi era in buona fede e l’altro in malafede, ma anche quando entrambi i coniugi erano in mala fede, si considerano nati nell’ambito di un matrimonio valido. Se i loro genitori erano in malafede? Disc. Più che giusto: loro che cosa ne possono Doc. Questo sarebbe un ragionamento semplicistico. E infatti, adottandolo, si dovrebbe concludere che, se Mario e Mariolina, senza prendersi neanche il disturbo di simulare un matrimonio davanti all’ufficiale dello stato civile, hanno fatto all’amore e hanno dato vita a Marietto, questi dovrebbe essere considerato nato nell’ambito di un (in realtà inesistente) matrimonio (tra Mario e Mariolina). E, invece, così non é: se Mario e Mariolina non lo riconoscono come figlio o lui non ottiene una sentenza che, come figlio (di Mario e Mariolina), lo dichiari,, egli come figlio (di Mario e Mariolina) non sarà, dalla Legge, considerato – eppure, anche per
lui potrebbe dirsi “Che ne può il povero Marietto ecc.ecc.”. Disc. Passiamo alla lettura dell’articolo 129, che recita: “Quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi, il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze. Per i provvedimenti che il giudice adotta riguardo ai figli si applica l’art. 155”. Giusto che Caio, anche dopo la sentenza dichiarativa della nullità, provveda ai bisogni dei figli; ma perché mai Caio deve farsi carico di provvedere ai bisogni di Caia, dal momento che ora a lei lo legano solo i (cattivi) ricordi della disavventura coniugale?! Certo Caia, in seguito all’annullamento del matrimonio, potrebbe trovarsi in difficoltà (ad esempio, se per sposarsi si fosse licenziata dall’impiego), ma perché dovrebbe essere proprio Caio ad aiutarla?! Cade una tegola in testa (alias, la nullità del matrimonio) a Caio e a Caia mentre garruli e felici se ne vanno per la strada: forse che si ritiene giusto obbligare Caio a risarcire Caia solo perchè se l’é trovata a fianco nella disgrazia?! Diverso, lo riconosco, il caso in cui Caio, ancorchè in buona fede, sia in colpa nella celebrazione del matrimonio nullo: se Caio si é sposato impotente, non sapendo di questa anomalia sessuale che pur da numerosi sintomi era rivelata, se Caio si é sposato dopo essersi per sua colpa ubriacato, se Caio pur essendo minorenne si é sposato, se insomma Caio, pur in buona fede é in colpa, giusto che risarcisca il danno. Ma se in colpa non lo é, perché deve risarcire? Doc. Effettivamente un obbligo del coniuge incolpevole a dare all’altro delle somme, con funzione riparatoria del danno da questo subito, non si giustifica (mentre si giustificherebbe quello, sì, che fosse accollato al coniuge colpevole ancorché in buona fede, oltre che un obbligo di risarcimento del danno, sacrosanto, ma,ahimè, difficilmente dimostrabile, un obbligo di indennizzo – così come vedremo meglio in commento all’articolo che segue). Purtroppo hoc iure utimur. Ma un giudice di buon senso, potrà renderne meno iniqua l’applicazione tenendo presente che: egli “può”, ma non “deve” disporre il pagamento delle somme rateali; che egli può, ma non deve, prolungare il periodo di pagamento fino a tre anni; che la “adeguatezza” dei redditi di Caia (o di Caio, dato che nulla vieta che in stato di bisogno venga a trovarsi anche l’uomo), non va valutata in relazione al tenore di vita da lei (da lui) tenuto in costanza di matrimonio (se Caio era un principe e faceva vivere Caia da principessa, non per questo é tenuto a farla vivere da principessa, dopo che una sentenza ha dichiarato che
lui e lei sono dei perfetti estranei); che l’obbligo alimentare non é dovuto (e se imposto, cessa) nel caso Caia “sia passata a nuove nozze”. Disc. Parliamo dei figli, il capoverso dell’articolo 129, disponendo l’applicabilità dell’articolo 151 (e, quindi indirettamente, dell’art. 337 ter), comporta: che entrambi i genitori (in buona fede) esercitino la responsabilità genitoriale; che il giudice possa scegliere a quale dei genitori affidare i figli, ecc. Ma questa disposizione si applica anche nel caso uno solo dei coniugi sia in buona fede? Doc. Chiaramente, no; lo esclude la collocazione (di certo non casuale) della norma nel solo ambito dell’articolo 129: pertanto, nel caso che Caia sia in buona fede e Caio no, a entrambi incomberà di provvedere alle spese di mantenimento dei figli (secondo le regole dettate dall’articolo 148, che a suo tempo esamineremo); ma solo al coniuge in buona fede, nell’esempio, a Caia, spetterà l’affidamento del figli e la responsabilità genitoriale. Disc. Passiamo ora alla lettura dell’articolo 129 bis, che recita: “Il coniuge a cui sia imputabile la nullità del matrimonio é tenuto a corrispondere all’altro coniuge in buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto. L’indennità deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per tre anni. E’ tenuto altresì a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, sempre che non vi siano altri obbligati. Il terzo al quale sia imputabile la nullità del matrimonio é tenuto a corrispondere al coniuge in buona fede, se il matrimonio é annullato, l’indennità prevista nel comma precedente. In ogni caso il terzo che abbia concorso con uno dei coniugi nel determinare la nullità del matrimonio é solidalmente responsabile con lo stesso per il pagamento dell’indennità”. Doc. Certamente, chi, con il suo comportamento colposo o doloso, ha dato causa al matrimonio nullo (Caio, che con l’inganno ha occultato a Caia il suo stato di coniugato, Caio, che con minacce ha indotto Caia a sposarlo, e, perché no? il padre di Caia che, conoscendo la sua incapacità di intendere, al matrimonio non si é opposto....le ipotesi che si possono fare sono moltissime) é obbligato al risarcimento dei danni (eventualmente ridotto per il concorso di colpa del coniuge danneggiato). Tutto questo in semplice applicazione dei principi che riguardano ogni fatto illecito.
Disc. Quindi il coniuge in buona o mala fede che sia (dato che, come abbiamo visto, in commento al precedente articolo, anche al coniuge in buona fede, potrebbe essere imputata una colpa nella celebrazione di quel matrimonio che, invece...non si aveva da fare) e il terzo, abbia o non concorso con il coniuge, é obbligato al risarcimento. Doc. Esatto. Però, siccome il danno, pur intuitivamente sempre esistente in caso di un annullamento di matrimonio, può essere difficilmente provabile, il Legislatore accolla al coniuge, “al quale sia imputabile la nullità”, in buona o mala fede che sia, due altri obblighi. Primo, quello di prestare gli alimenti al coniuge in buona fede, se non vi siano altri obbligati: quindi se Caia ha il padre, o essendosi risposata, il (nuovo) coniuge che può provvedere, Caio da tale obbligo é esentato. Secondo, quello di pagare, “anche in mancanza di prova del danno sofferto”, “una congrua indennità”. Disc. Quindi tu interpreti l’articolo come se destinatario degli obblighi, non sia solo il coniuge in mala fede, ma anche il coniuge in buona fede. Ciò mi pare contrastare con la rubrica dell’articolo che parla di “responsabilità del coniuge in mala fede”. Doc. Così é, ma la logica impone proprio la interpretazione che ti ho detta. Disc. E quanto al terzo? Anche lui viene gravato sia di un obbligo degli alimenti sia di un obbligo di indennizzo? Doc. No, viene gravato solo di un obbligo di indennizzo (obbligo solidale con quello del coniuge colpevole). Il perché di tale limitazione non te lo so spiegare.
Sezione seconda: dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio.
Lezione V: Gli obblighi, alla fedeltà, all’assistenza,alla collaborazione, e alla coabitazione. Doc. Alla enunciazione dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio, il Legislatore dedica gli articoli 143 – 148, che noi ora passeremo a esaminare. Non prima però di aver fatto - per scusarci, se non sempre giungeremo a risultati sul piano logico soddisfacenti – questa premessa: Noi viviamo in un’epoca di crisi profonda; un’epoca in cui le istituzioni, anche quelle che sono i muri portanti del diritto, si stanno disgregando (“L’uomo e le rovine”é il titolo di un libro di Julius Evola, uno dei più grandi Pensatori del nostro tempo): il giurista si trova nella stessa situazione di chi visitasse una città distrutta da un bombardamento: il più delle volte deve limitarsi a dire “Ecco, lì, dove ora ci sono quelle macerie, c’era quel bel edificio” e basta: certo non ci si può aspettare che ridia bellezza e razionalità a un universo
(giuridico) sconvolto. Disc. Bene, ora che ti sei sfogato, che ti sei tolto il fastidioso sassolino dalla scarpa, scendiamo a un discorso più raso terra: é importante conoscere quali sono gli obblighi che derivano dal matrimonio? Doc. Sì, perché, anche se solo uno di essi (l’obbligo di contribuzione) é coercibile (chiaro che non si può costringere manu militari Caio a essere fedele, ad assistere, a collaborare e coabitare con Caia), dall’inadempimento di tutti può derivare un obbligo risarcitorio e soprattutto perché, la conoscenza di tutti questi obblighi, é presupposto per una giusta applicazione degli articoli 123 (sulla simulazione) e 151 (sulla separazione). Infatti per l’articolo 123 il matrimonio é impugnabile quando “gli sposi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso nascenti”; e noi abbiamo visto in un precedente paragrafo, che tale articolo va interpretato nel senso che, basti il rifiuto di sottomettersi ad un solo obbligo (naturalmente un obbligo che sia “essenziale” come quelli al cui esame ci accingiamo), per determinare la invalidità del matrimonio. Disc. E perché, per la applicazione dell’articolo 151, é importante la conoscenza dei doveri che nascono dal matrimonio. Doc. A dir il vero é importante, non per l’applicazione di tutto l’articolo 151, ma solo del suo capoverso, che recita: “Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”. Disc. Chiarito ciò, passiamo al commento degli articoli, che, tali doveri, individuano, cominciando dall’articolo 143, che recita nei suoi primi due commi (del terzo, che si riferisce all’obbligo di contribuzione, daremo lettura nel prossimo paragrafo): “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione”. Doc. Il primo comma in buona sostanza riproduce il dettato del capoverso
dell’articolo 29 della Costituzione, che così é formulato: “Il matrimonio é ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Disc. Tuttavia una certa diversità tra le due disposizioni, quella del legislatore ordinario e quella del legislatore costituzionale, c’é. E con ciò, non mi riferisco all’omissione nell’articolo 143 del riferimento ai “limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” - dato che tale riferimento, opportuno nella norma costituzionale sarebbe stato un non-senso in quella del legislatore ordinario –, ma alla diversa formulazione della prima parte dell’articolo 29: in questa si parla di “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, mentre nell’articolo 143 si viene a dire che marito e moglie “acquisiscono gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri”. Doc. In effetti. il rispetto della “eguaglianza giuridica e morale dei coniugi”, non implica necessariamente l’attribuzione ad essi degli stessi diritti; anzi, l’attribuire a due persone disuguali gli stessi diritti, può significare trattarle in un modo ingiustamente diseguale: chi non ricorda la favola di Esopo: la volpe astuta diede da mangiare alla cicogna in un recipiente piatto, come quello che si era riservata a sé stessa, ma la cicogna dal becco lungo....non si sentì per nulla trattata con giustizia. Disc. Mi accorgo che non conviene invitarti a commentare ulteriormente il primo comma: chissà quali sproloqui continueresti a dire – ben so quale pellaccia di reazionario tu sia, e che tu consideri addirittura nefasta l’eliminazione, attuata nel 75, dell’organizzazione gerarchica della famiglia (il marito, capo della famiglia, con il dovere di provvedere ai bisogni della moglie, che però gli deve obbedienza): guai se dicessi certe cose: perderemmo anche quei pochi lettori che ora ci seguono! Limitati a commentare il secondo comma. Doc. Va bene, mi limiterò a commentare il secondo comma; il quale fa un elenco degli obblighi che derivano dal matrimonio e lo fa, é importante notarlo, in ordine di decrescente importanza: primo, l’obbligo per il legislatore più importante,quello di fedeltà, ultimo, l’obbligo meno importante, quello di coabitazione. Disc. Cominciamo quindi a parlare dell’obbligo più importante: “l’obbligo reciproco di fedeltà”. Ti dirò che a me, il pensiero legislativo, sul punto, mi pare monco, incompleto. Infatti si può dire che un persona manca di fedeltà verso un’altra, quando la prima si rende
inadempiente a un obbligo, a un impegno che verso la seconda ha assunto (il barone Menabò ha assunto l’impegno di militare sotto le bandiere del re Manfredi, ma visto il rischio, i sacrifici che ciò comporta...diserta). Se così é, dice le cose a metà un legislatore che si limita a imporre a un coniuge di essere fedele, cioé di mantenere fede agli obblighi assunti (evidentemente con il matrimonio ed evidentemente diversi da quelli indicati congiuntamente all’obbligo di fedeltà nel comma che stiamo commentando), senza dire quali obblighi mai essi siano. Doc. Tu hai perfettamente ragione: e quando nella mia premessa ti dicevo che il nostro diritto di famiglia é ormai ridotto a un rudere, mi riferivo a situazioni come questa. Ma di fronte a queste situazioni il giurista non può certo limitarsi a dire “Qui il legislatore ha detto cose incomprensibili, senza senso, passiamo ad altro: saltiamo l’obbligo di fedeltà e parliamo solo degli obblighi di assistenza, collaborazione, eccetera”. No, il giurista non può fare questo, ma deve cercare di sostituire il tassello mancante, usando dei (pochi) elementi che l’Ordinamento giuridico gli offre; nel caso, utilizzando il disposto dell’articolo 1 della c.d. Legge sul divorzio (Legge 1 dicembre 1970 n. 898) - articolo che recita: “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio (….) quando (…) accerta che la comunione spirituale e materiale dei coniugi non può essere mantenuta (...)”. Disc. Ma che cosa c’entra la “comunione spirituale e materiale dei coniugi” con l’obbligo di fedeltà? Doc. C’entra invece, perché il legislatore parlando di “comunione spirituale dei coniugi” come elemento necessario del matrimonio (se questa “comunione spirituale” c’é, c’é il matrimonio, se non c’è, non c’é il matrimonio), parte evidentemente dal presupposto di una comunanza di “valori” esistente tra i coniugi, di una loro comune concezione della vita, di una loro comune weltanschauung. Orbene, la cosa più logica é di attribuire, alle parole “monche” del legislatore, il significato che fedeltà si ha, quando un coniuge “tiene un comportamento conforme ai valori che aveva in comune con l’altro coniuge al momento dello sposalizio”; e che infedeltà vi é, quando, con il suo comportamento, egli tradisce tali valori. Disc. Ma questi valori potrebbero essere diversi da coppia a coppia: Bianchi Alfredo e Manuela Rosalia sono cattolici praticanti: per loro é grave peccato anche una
scappatella sessuale con un terzo, per loro é grave peccato l’aborto; mentre Rossi Saverio e Rossi Luisa sono “liberi pensatori”: per loro “viva l’aborto, viva il libero amore”. Doc. Questo significherà che l’adulterio di Bianchi Alfredo rappresenterà una “infedeltà” e motiverà quindi la domanda di separazione per “addebito” di Rosalia, mentre l’adulterio di Rossi Saverio non motiverà la domanda di separazione della di lui moglie Luisa. Disc. Ma tu parti dal presupposto che tutte le coppie abbiano dei “valori” condivisi; ma Mario e Mariolina potrebbero dire il loro “sì” con le tasche piene di soldi e le teste completamente vuote di “valori”. Doc. Tu mi vuoi dire che possono esistere delle coppie di sposi il cui matrimonio non é animato da valori comuni. Lo riconosco, é vero; ma in tal caso ci troviamo di fronte a un guscio senza anima, a una caricatura di quello che deve essere il matrimonio questo, bada bene, anche per il nostro legislatore, che sì, riconosce a tale matrimonio, se vogliamo chiamarlo così, validità, ma fa ciò soprattutto per evitare un disordine maggiore e a tutela degli eventuali figli. Disc. Resta il fatto che, in questo “matrimonio senza valori comuni”, non si potrebbe neanche ipotizzare un obbligo di fedeltà e, soprattutto, neanche si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione. Doc. Una domanda di separazione per violazione dell’obbligo di fedeltà no, di certo; ma si potrebbe ipotizzare una domanda per violazione di uno degli altri obblighi che derivano dal matrimonio; e, soprattutto, si potrebbe ipotizzare una domanda di separazione motivata proprio dal fatto di una mancanza di valori comuni tra i coniugi. Domanda fondata ovviamente sul primo comma dell’articolo 151 e cioé sulla “intollerabilità” del protrarsi della convivenza: cosa c’é di più intollerabile per un essere umano, di più avvilente e deformante per la sua personalità, che convivere (scambiarsi intimità...) con chi, a lui, da nessun valore, da niente di importante dunque, é legato? Disc. Basterebbe questo a motivare una domanda di separazione? Doc. A mio parere, sì; e ritengo che tale soluzione trovi conforto nell’articolo 2 della
Costituzione che recita “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Da questo articolo risulta infatti che una formazione sociale, qual’é la famiglia, viene presa in considerazione dal legislatore costituzionale in quanto fattore di sviluppo della personalità di chi vi fa parte; cosa per cui non può non diventare logico e doveroso per il legislatore ordinario, permettere a una persona di uscire da una “formazione sociale” (nel caso la famiglia), quando questa opprime, soffoca la personalità di chi vi é inserito, invece di aiutarlo a svilupparla. Disc. Può anche capitare che Mario e Mariolina si presentino davanti all’ufficiale di stato civile con ideali comuni, ma che, poi, le loro concezioni della vita si divarichino: Caio era un cattolico praticante, ma, col passare del tempo, diventa un libero pensatore: che succede allora? Doc. Succede che, se Caio terrà un comportamento che costituisca tradimento dei valori condivisi con Caia al momento del matrimonio, Caia potrà chiedere la separazione per addebito di Caio. Disc. E se anche Caia avesse mutato idee, avesse abbandonato i valori a cui aderiva al momento del matrimonio, però adottando valori diversi da quelli di Caio: erano tutti e due cattolici, ma, poi, uno, é diventato buddista, l’altra, musulmana? Doc. In tal caso vale quel che ho detto prima per le coppie che si sposano senza avere valori comuni: entrambi gli sposi potranno chiedere la separazione per “intollerabilità” della convivenza. Disc. Parliamo ora del secondo obbligo, che dal matrimonio deriva: l’obbligo “all’assistenza morale e materiale”. Doc. Dopo il riferimento che abbiamo fatto all’art.1 della c.d. Legge sul divorzio,e alla necessità per tale articolo che vi sia una “comunanza spirituale”, una comunanza di “valori” dunque, tra i coniugi, é facile individuare la ratio dell’imposizione dell’obbligo di assistenza: se tra Caio e Caia sussiste un’effettiva comunanza di valori, diventa per loro spontaneo e logico l’impegno ad aiutarsi vicendevolmente nelle difficoltà; se, viceversa, Caio e Caio non si sentono di assumere davanti all’ufficiale di stato civile l’impegno ad un vicendevole aiuto, significa che tra loro una vera “comunanza spirituale” non sussiste, che quello, che vorrebbero costituire,
non é un vero matrimonio; e così, non più riferendoci all’atto matrimoniale (al matrimonium in fieri), ma alla vita matrimoniale (al matrimonium in facto), se Caio trascura l’obbligo di assistenza che ha assunto verso Caia, ciò fa presumere che é venuta meno quella comunanza di valori che lo univa a Caia, e ciò basterebbe per riconoscere a questa, a Caia, il diritto a chiedere la separazione (ai sensi del primo comma dell’articolo 151), il fatto, poi, che Caio abbia tradito l’impegno preso in actu matrimonii giustifica che a Caia sia riconosciuto, non solo il diritto di chiedere la separazione, ma di chiederla (ai sensi del secondo comma art. 151) “per addebito”. Disc. Il tuo discorso é chiarissimo. Non occorre poi che tu mi porti degli esempi di assistenza materiale e morale, perché essi sono intuitivi e me li so fare da solo. Esempio di assistenza materiale: Caio é malato, e Caia gli compra e gli somministra le medicine. Esempio di assistenza morale: Caia ha perso l’impiego e Caio cerca di risollevarle il morale procurandole delle “distrazioni” o semplicemente con parole incoraggianti. Doc. Senz’altro pertinenti gli esempi che hai portato, mi pare però che trascurino un aspetto dell’obbligo di assistenza, che, invece, é importante: assistenza non significa solo “aiutare l’altro coniuge nelle difficoltà”, ma, e a maggior ragione, significa anche “non mettere (consapevolmente) l’altro coniuge in difficoltà”: tu, Caia, se tuo marito ha commessa una gaffe, non devi ricordarla davanti a terzi, così ulteriormente umiliandolo; tu, Caio, non devi esibire davanti a Caia, e peggio se in pubblico, una particolare affettuosità per la signora Marilina - e nulla rileva che tu con questa “non vada a letto”: anche così il tuo comportamento fa soffrire, umilia, mette in difficoltà, la donna che tu avevi promesso invece di aiutare nelle difficoltà (per cui questa potrà, lamentando il tuo “adulterio in bianco”, reclamare la separazione per tuo addebito). Disc. Ovvio che Caio e Caia devono astenersi dal danneggiarsi sia in poco che in tanto; ma fino a che limite debbono darsi un aiuto reciproco? l’azienda di Caio sta per fallire, Caia deve attingere alle risorse del suo patrimonio per aiutarlo? Caia ha una malattia infettiva, Caio deve curarla a costo di cadere anche lui malato? Doc. La risposta (negativa) alla prima domanda la dà il fatto stesso che il legislatore, come vedremo meglio inseguito, non solo ritiene giusto che i coniugi tengano separati e non confondano i loro patrimoni, ma é disposto a dare tutela (se del caso manu militari) alle pretese economiche che un coniuge vanti verso l’altro (ad esempio, e questo lo vedremo parlando del regime della comunione dei beni, Caia, se
il marito si dibatte in difficoltà economiche, lungi dal dover aiutarlo, può chiedere che egli sia escluso dall’amministrazione della comunione o può chiedere la separazione giudiziale dei beni - vedi meglio gli articoli, 183, 193). Con tutto ciò, certamente Caia ha il dovere di aiutare economicamente il marito bisognoso; ma ciò solo fino al punto di assicurare a lui lo stesso tenore di vita di cui essa stessa gode: se essa pasteggia a ostriche deve permettere anche al marito di pasteggiare a ostriche. Ma tutto questo lo vedremo meglio parlando del dovere di contribuzione. Quanto alla seconda domanda, la risposta la dà il primo comma dell’articolo 151 (da noi già visitato accennando al diritto, riconosciuto ai coniugi, di separarsi in caso di sopravvenienza di “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”): l’obbligo di assistenza si ferma quando costringerebbe a comportamenti che rendono “intollerabile” la vita, nel senso che, non solo non fortificano la personalità di chi li compie (il che ben può avvenire: ci sono, per fortuna, anche nella nostra società, individui che sanno affrontare con tale spirito le “prove” della vita, da uscirne fortificati e migliorati), ma la degradano (Maria dopo aver adempiuto, al capezzale del marito, alle nauseabonde incombenze della infermiera ne....esce “distrutta”). Disc. E’ chiaro: un legislatore, come il nostro, che vede (con favore) la partecipazione delle persone alle “formazioni sociali” e in primis a quella fondamentale formazione sociale che è la famiglia, in quanto occasione di sviluppo della personalità (articolo due della Costituzione); un legislatore che spalanca la porta di uscita al coniuge che trova intollerabile il continuare nella convivenza (articolo 151 del Codice), non può imporre a questi quegli adempimenti che gli...rendano intollerabile la convivenza – tenendo anche presente, e ciò é logico, che la capacità di tolleranza varia da persona a persona. Disc. Passiamo a parlare ora del terzo obbligo menzionato nell’articolo 143: l’obbligo “alla collaborazione nell’interesse della famiglia”. Doc. Obbligo di collaborare, per due coniugi, significa obbligo di prendere insieme le loro decisioni. Mentre Caio e Caia, da single, potevano prendere tutte le loro decisioni autonomamente, una volta sposati, essi debbono prendere alcune delle loro decisioni, quelle “nell’interesse della famiglia”, concordemente. Disc. Quali sono queste decisioni prese “nell’interesse della famiglia”?
Doc. Io ritengo che siano: in primo luogo, le decisioni che riguardano la individuazione dei bisogni, dei membri della famiglia, da soddisfare (si compra un nuovo vestitino a Mariuccia? ci si accontenta di mangiare pane e salame oppure si compra anche del pollo? si va ad abitare in un quartiere residenziale o popolare?...) e di conseguenza la parte di reddito e di “lavoro casalingo” (nel senso lato in cui, come vedremo, tale espressione va usata) da destinare, alla soddisfazione di tali bisogni; in secondo luogo, le decisioni che riguardano il modo migliore di adempiere all’obbligo di educazione e istruzione dei figli, che ai coniugi impone l’articolo 147 (mandiamo Mariuccia in una scuola cattolica o statale?...). Però, altri potrebbe interpretare estensivamente l’espressione usata dal legislatore e ritenere che un coniuge deve essere disposto a concordare con l’altro coniuge, tutte le decisioni, che comunque incidono sulla vita familiare. Dato che, senza dubbio, ci sono decisioni, diverse da quelle da me or ora indicate, che possono incidere sulla vita familiare. Disc. Ad esempio? Doc. La decisione di iscriversi a un partito o di aderire a un movimento religioso, oggetto di una stampa negativa e comunque mal visti dall’opinione pubblica: Caio si é iscritto al partito bianco e la gente segna a dito Caia come “quella che ha sposato quel delinquente che milita nel partito bianco” (col sottinteso che se Caia ha sposato un delinquente, un po’ delinquente deve essere anche lei). Ora, io ritengo che, queste decisioni, siano di carattere personale, anzi strettamente personale, e che il coniuge le possa prendere anche senza il consenso e contro la volontà dell’altro – e questo perché ritengo, che, i doveri verso la famiglia, non giungano fino al punto di impedire a un suo membro di esprimere la sua personalità aderendo al partito, alla religione che vuole, esprimendo le opinioni che vuole -, però debbo riconoscere che la soluzione da me adottata é discutibile. Disc. Ma, oltre a queste decisioni strettamente personali, ce ne sono altre, che un coniuge può prendere senza il consenso e addirittura contro la volontà dell’altro? Doc. Bisogna distinguere, tra decisioni che il coniuge può prendere anche contro la volontà dell’altro, e decisioni che può prendere di propria iniziativa, cioé senza chiedere il preventivo consenso dell’altro.
Disc. Comincia a fare qualche esempio delle prime. Doc. Come esempio di decisioni, diverse da quelle strettamente personali, che il coniuge può prendere, anche contro il consenso dell’altro, si possono portare tutte le decisioni che attengono all’amministrazione del patrimonio personale del coniuge (Caio, che prima di sposarsi aveva quella certa villetta in riva al mare, continua a gestirla come più gli pare e piace) e le decisioni sui beni di carattere personale (se fare riparare il computer, quale vestito comprarsi...). Disc. E ora dì delle decisioni, che il coniuge può prendere di sua iniziativa, senza cioé previamente concordarle, ma da cui si deve astenere, se l’altro coniuge, ad esse, si oppone. Doc- Sono quelle che, nella terminologia del Codice, sono destinate ad “attuare l’indirizzo concordato”. Disc. Spiegati meglio. Doc. L’articolo 144 nel suo primo comma dispone, che “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”. Disc. Parlando di “indirizzo familiare”, il Codice si riferisce evidentemente a quella scelta dei bisogni della famiglia (melius, dei vari membri della famiglia) di cui tu prima parlavi? Doc. E’ così; proseguo nel discorso: nel secondo comma dell’articolo 144, il Codice però sente bisogno di chiarire che “a ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”. Disc. Quindi, se Caio e Caia hanno deciso di comprarsi la villetta al mare, Caio può partire in quarta e, senza nulla dire a Caia, comprare quella villetta che a lui piace (e che magari a Caia dispiace) e per il prezzo, che egli (che di mercato edilizio potrebbe saperne quanto me, cioé nulla) reputa adeguato? Mi sembra assurdo! Doc. E infatti é tanto assurdo che...così non é: Caio potrà prendere una decisione, diciamo così, “di secondo grado” - per intenderci, conveniamo di chiamare, “di primo
grado”, una decisione del tipo “si compra una villa al mare” e, “di secondo grado”, una decisione del tipo “si compra quella tal villa al mare e per quel tal prezzo” quando questa “decisione di secondo grado” é già talmente determinata nei suoi elementi (é, nell’esempio da te fatto, determinata sul prezzo, sul tipo di villetta, sul notaio a cui affidarsi, eccetera) che l’integrarla (nei suoi elementi mancanti) é cosa di ordinaria amministrazione: Caio e Caia, per fare un caso che, più di quello da te portato, si presta a un esempio, hanno deciso di spendere sui trecento euro per l’acquisto di un frigo: Caia può andare in un super mercato e decidere, senza consultarsi con Caio, se comprare quel frigo a quattro piani o quello a un piano, quel frigo bianco o quel frigo verde e così via. In ogni caso, siano importanti o no le decisioni attuative da prendere, il coniuge non può prenderle, nel caso di opposizione dell’altro: Caio vuole il frigo bianco, Caia dice “no, voglio il frigo verde”: Caio non ha il potere di comprare di sua sola iniziativa il frigo bianco. Disc. Quindi, secondo te, il capoverso dell’articolo 144 va interpretato restrittivamente. Doc. Certo: é proprio l’esempio da te portato poco prima, che dimostra che non può essere interpretato letteralmente. Doc. Tu hai detto che “obbligo di collaborazione” per un coniuge significa “obbligo ad essere disponibile a concordare le decisioni”: non hai detto “obbligo di collaborazione” significa “obbligo del coniuge di concordare”. Doc. Non l’ho detto a ragion veduta. Infatti nulla vieta a Caio e a Caia di accordarsi nel senso che, le decisioni nell’interesse della famiglia – tutte o quelle relative ad un certo settore (metti all’amministrazione di quella tal azienda) - siano prese dal solo Caio (o viceversa, dalla sola Caia); e poi di vivere.. .in perfetta armonia e felicità. Però, attenzione, tale accordo non vincolerà mai Caia a lasciare prendere tali decisioni all’altro coniuge: questi deve sempre essere “disposto”, se così Caia, cambiando idea, volesse, di concordare con Caia tali decisioni (prima lasciate alla sua discrezionalità). Parlando dell’articolo 218 vedremo come questa delega “di fatto” (senza vincolo giuridico per chi la dà, cioé) é prevista dallo stesso legislatore. Disc. Non abbiamo finora parlato della ratio che sottende all’obbligo di collaborazione? Secondo te, qual’é?
Doc. Secondo me, l’obbligo di collaborazione, al contrario di quelli che abbiamo prima esaminati, non va visto come una conseguenza della concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni: Caia Caio potrebbero benissimo condividere, sposandosi, l’ideale di una “matrimonio all’antica”, in cui le decisioni familiari spettano al solo marito; quindi, se, poi, a tale ideale di fatto ispirassero la loro vita matrimoniale (lui, felice nella sua posizione di pater familias, lei, felice nella sua parte di “schiava e regina”) nessuno in via di logica potrebbe dir loro “No, così non va: il vostro modo di gestire il matrimonio contraddice...i valori comuni da voi accettati). Disc. Allora? Doc.Allora, io riterrei che, se il legislatore non ammette una gestione del rapporto matrimoniale in cui le decisioni (nell’interesse della famiglia) siano riservate a uno solo dei coniugi, non é perché questo viene a contraddire i valori comuni accettati dagli sposi al momento di sposarsi, ma perché viene a contraddire quello che il legislatore ritiene un “valore”: la parità di diritti tra i coniugi. Disc.. Facciamo un passo indietro, torniamo a parlare dell’articolo 144: ho capito che, quando il legislatore parla di “interesse della famiglia”, fa semplicemente una ipostasi: non esiste la famiglia in sé, esistono Caio, Caia, Marianna che la compongono; cosa per cui “l’interesse della famiglia” é l’interesse di Caio, di Caia e di Marianna. Non ho capito, però, che vuol dire il legislatore, quando parla di un “preminente” interesse della famiglia, rispetto a quello dei coniugi. Doc. Vuol dire che, l’interesse egoistico di Caio e di Caia, deve passare in secondo ordine, davanti all’interesse della figlia Marianna; il che va senz’altro condiviso. Disc. Un ultima domanda: che succede, se Caia dice “Mandiamo Marianna in vacanza al mare” e Caio dice “No, mandiamola in montagna” e non trovano un accordo: succede che nessuna decisione si prende e Marianna.. ...passa le sue vacanze in città? Doc. No, la soluzione dell’impasse é data dall’articolo 145, che recita: “In caso di disaccordo ciascuno dei coniugi può chiedere, senza formalità, l’intervento del giudice il quale, sentite le opinioni espresse dai coniugi e, per quanto
opportuno, dei figli conviventi che abbiano compiuto il sedicesimo anno, tenta di raggiungere una soluzione concordata. Ove questa non sia possibile e il disaccordo concerna la fissazione della residenza o altri affari essenziali, il giudice, qualora ne sia richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, adotta, con provvedimento non impugnabile, la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita della famiglia”. Disc. Quindi il giudice si sostituisce ai coniugi nel prendere la decisione. Doc. Per nulla, hai seguito male la mia lettura: il giudice, in prima battuta, tenta di fare opera di mediazione e di far raggiungere ai coniugi “una soluzione concordata”. Se non ci riesce, egli dismette le vesti di “mediatore” e assume quelle di “arbitro”, cioé prende la decisione in sostituzione dei coniugi; ma questo a due condizioni: prima, che ne sia richiesto “espressamente e congiuntamente dai coniugi”; seconda, che “il disaccordo concerna la fissazione della residenza o di altri affari essenziali”. Peraltro, studiando i vari regimi patrimoniali, vedremo che il Legislatore prevede interventi del giudice molto meno soft nella vita familiare: ad esempio, con l’articolo 183, prevede che il giudice possa escludere un coniuge dall’amministrazione dei beni in comunione. Disc. E’ ora di parlare di quello che, tra gli obblighi previsti dall’articolo 143, é, dal Legislatore, considerato il meno importante: l’obbligo “alla coabitazione”. Doc. Al contrario dell’obbligo alla collaborazione or ora visto, l’obbligo alla coabitazione trova la sua spiegazione nella concezione del matrimonio come condivisione di valori comuni. Più precisamente, la riserva mentale dei coniugi, al momento della celebrazione del matrimonio, di non coabitare, é vista dal Legislatore come indice di una mancanza in loro di “valori condivisi” (con la conseguenza che il loro matrimonio potrà essere considerato nullo – ai sensi dell’articolo 123 sulla simulazione); e il venir meno in loro, una volta sposatisi, della disponibilità a coabitare, é da Lui vista come un venir meno in loro di quei “valori” prima “condivisi” (con la conseguenza che, se il coniuge, che si é allontanato materialmente dal domicilio coniugale, é anche quello che si é allontanato idealmente dai valori prima comuni, l’altro coniuge potrà chiedere la separazione per suo addebito). Disc. E, in effetti, due persone, che condividono gli stessi valori, non trovano difficoltà alla vita in comune; mentre, questa vita in comune, può veramente essere
insopportabile, quando ad essa sono costrette persone di “sensibilità” diverse. Tuttavia a suggerire a Caio e a Caia la vita sotto due diversi tetti potrebbero essere serie ragioni: metti, Caio fa l’avvocato a Genova e Caia fa il giudice a Torino: non si può pretendere che Caio o Cia si facciano diverse ore di treno ogni giorno per andare a dormire sotto lo stesso tetto. Doc. E in effetti in tale caso e in casi simili, la mancanza di una coabitazione perderebbe il suo significato di indice di un difetto di valori comuni e l’obbligo di cui parliamo non si dovrebbe ritenere inadempiuto. Disc. Tra le serie ragioni, che possono giustificare il rifiuto della coabitazione, va annoverata anche la intollerabilità della convivenza? Doc. Certamente, sì. Disc. Questo senza che rilevi a quale dei coniugi tale intollerabilità é addebitabile? Doc. Si, per escludere la violazione dell’obbligo di coabitazione, basta la intollerabilità della convivenza: a Caia, che abbandona il domicilio domestico, in seguito a una convivenza resa insopportabile e insostenibile in seguito ai suoi ripetuti adulteri, non può essere addebitata la separazione (ai sensi del capoverso dell’articolo 151) per violazione all’obbligo di coabitazione. Ma naturalmente potrebbe esserle addebita per violazione dell’obbligo di fedeltà. In altre parole, al giudice, per decidere sul diritto alla separazione, basterà la constatazione della intollerabilità della convivenza, ma per “addebitare” la separazione dovrà indagare sulle cause, che hanno determinato questa intollerabilità della convivenza (senza arrestarsi superficialmente alla constatazione del rifiuto alla coabitazione). Disc. Che, l’intollerabilità della convivenza sia sufficiente a giustificare il rifiuto della coabitazione (a prescindere da chi ha determinato tale intollerabilità), si evince da qualche disposizione di legge? Doc. Sì, si evince dall’articolo 146, che ritiene “giusta causa” dell’allontanamento dal domicilio domestico, la proposizione di una domanda di separazione, a prescindere che essa sia fondata o no, quindi in considerazione unicamente della insostenibilità della convivenza che la proposizione di tale domanda inevitabilmente determina. Più precisamente i primi due commi di tale articolo recitano:
“Il diritto all’assistenza materiale e morale previsto dall’articolo 143 é sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi. La proposizione della domanda di separazione o di annullamento, o discioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare”. Lezione VI: L’obbligo di contribuzione. Doc.Dopo aver enunciato, nel terzo comma dell’articolo 143, l’obbligo dei coniugi di contribuire “ai bisogni della famiglia”, il legislatore enuncia separatamente, nel primo comma dell’articolo 316bis, e con una formula, sia pur leggermente, diversa, il loro obbligo di provvedere a “mantenere, istruire, educare e assistere moralmente la prole”; così come se il primo obbligo si dovesse determinare con criteri diversi che il secondo. Disc. Scusa se ti interrompo, io penso che, anche su questo punto, il nostro discorso acquisterà chiarezza, se cominceremo a leggere le norme in questione. Ecco come recita il terzo comma dell’articolo 143: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze, e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”. Ed ecco com’é formulato l’incipit del primo comma dell’articolo 316bis: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”. Effettivamente una differenza di formulazione tra le due norme c’é: la prima (art.143), stabilisce l’obbligo di contribuzione dei coniugi “in relazione alle loro sostanze (…...)”, la seconda (art.316bis), lo stabilisce “in proporzione alle rispettive sostanze (…....)”. Ciò significa che il legislatore non impone che, l’obbligo di contribuzione ai bisogni, diciamo così, generici della famiglia (esclusi quindi quelli relativi ai figli), sia adempiuto dai coniugi in proporzione delle loro sostanze (…...)? Doc. Se così fosse, con che altro criterio l’interprete dovrebbe determinare il contributo di ciascun coniuge? Evidentemente, se così fosse, il legislatore avrebbe lasciato l’interprete nella massima incertezza e oscurità su un punto fondamentale e su cui, solo lui, il legislatore, può fare luce. Sarebbe un modo assurdo di legiferare, che l’interprete non può attribuire di certo al legislatore; per cui deve concludere che, la diversità di formulazione tra i due articoli, é solo dovuta ad un lapsus e che anche
l’obbligo di contribuire ai bisogni “generici” della famiglia va determinato col criterio della proporzionalità. Disc. Ma quali sono questi bisogni “generici” della famiglia, a cui i coniugi sono obbligati a provvedere? Doc. Qui la risposta é veramente facile: sono quelli che i coniugi, nel “concordare l’indirizzo della vita familiare” (art. 144, già da noi commentato), ritengono opportuno soddisfare: Caio e Caia non sono disposti a cavare dalle loro tasche più di mille euro al mese e di conseguenza si accontentano di vivere a pasta e fagioli? contenti loro, contento il mondo! (Però, il discorso cambia in relazione ai bisogni dei figli: anche questi bisogni debbono, sì, essere soddisfatti con un criterio proporzionale, ma, non solo nel senso che, alla somma necessaria, i coniugi debbono contribuire in proporzione alle rispettive sostanze, bensì anche nel senso che l’ammontare di tale somma deve essere proporzionato alla loro ricchezza: se Caio e Caia, pur essendo miliardari, si contentano di pasta e fagioli, loro mangino pure pasta e fagioli, ma i figli li trattino da miliardari: li facciano frequentare una scuola di miliardari, gli diano un’educazione da miliardari e anche, perché no? nei limiti che la formazione del loro carattere lo consente, gli diano il vitto e i divertimenti dei miliardari). Disc. Così dicendo, tu sei venuto ad anticipare un discorso che avrebbe avuta la sua sede appropriata nel commento all’articolo 316bis: andiamo per ordine, qui limitiamoci a vedere come va ripartita la spesa, diciamo così, per provvedere ai bisogni, che i coniugi hanno concordato di soddisfare. E per cominciare ti faccio questo caso: la spesa é di duemila euro, ma Caio é povero in canna e non guadagna niente, é disoccupato: i duemila euro escono solo dal portafoglio di Caia? Doc. Bisogna vedere, se Caio é disoccupato perché gli piace fare....il disoccupato o perché non trova lavoro. Infatti la norma non commisura l’obbligo contributivo al reddito professionale, ma, la cosa é ben diversa, “alla capacità di lavoro”. Di conseguenza, Caio deve contribuire in proporzione al reddito che ricaverebbe se...decidesse di lavorare; e, se non lo fa, deve considerarsi inadempiente. Disc. Ma facciamo il caso di Caia che, pur potendo trovare un lavoro come insegnante, preferisce stare in casa a fare i lavori domestici.
Doc. In tal caso - premesso che partiamo qui dal presupposto che, tra i bisogni della famiglia da soddisfare con i duemila euro, i coniugi abbiano inclusi anche quelli della pulizia della casa, della preparazione dei pasti e simili - bisogna mettersi a fare....qualche calcolo: bisogna stabilire la somma, che guadagnerebbe Caia se si impiegasse: metti che tale somma sia di duemila euro, e che a tanto ammonti anche il reddito di Caio, cosa per cui i coniugi avendo un reddito eguale e quindi dovendo contribuire in modo eguale, il contributo di Caia dovrebbe essere di mille euro. A questo punto bisogna vedere quanti soldi fa risparmiare Caia svolgendo lei, senza chiamare una collaboratrice domestica, i lavori di casa: mettiamo che faccia risparmiare proprio mille euro: in tal caso si dovrebbe concludere che Caia soddisfa al suo obbligo contributivo svolgendo il lavoro casalingo. Disc. Quindi la formula legislativa, non troppo felice, va interpretata come se suonasse “Entrambi i coniugi sono tenuti a contribuire, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale, tenuto conto del lavoro casalingo eventualmente svolto da un coniuge”. Mettiamo ora che, non sia Caia, ma Caio, a preferire di stare in casa: egli non cucina e non pulisce per terra, però tiene in ordine l’orto facendo risparmiare i mille euro, che occorrerebbero per pagare un giardiniere: come si stabilisce se egli soddisfa o no al suo obbligo contributivo? Doc. Con gli stessi criteri con cui lo si é stabilito or ora per Caia: dalla somma che dovrebbe dare Caio, si detraggono i soldi, che fa risparmiare. Infatti, all’espressione legislativa “lavoro casalingo”, va data un’interpretazione estensiva. Disc. Si tiene conto del reddito che un coniuge ricava dal suo patrimonio? Doc. Di più, si tiene conto del suo patrimonio, delle sue “sostanze” per usare la terminologia legislativa, che esse diano, o no, un reddito. Disc. Spiegati meglio. Doc. Per spiegarmi meglio dovrei scendere a fare più ipotesi, e ciò ti renderebbe troppo gravoso l’ascoltarmi. Mi limiterò quindi a farne, di ipotesi, solo due, ma che dovrebbero essere sufficienti a indirizzarti nell’applicazione pratica dell’articolo 143. Prima ipotesi: la spesa occorrente (per soddisfare i bisogni della famiglia) é di
duemila; Caia, l’altro coniuge, guadagna tremila euro; Caio ha una capacità lavorativa che gli procura o che gli potrebbe procurare mille euro: ebbene, se Caio ha un patrimonio che gli procura o gli potrebbe procurare altri duemila euro, la sua capacità a contribuire alle spese si deve considerare pari a quella di Caia, per cui metà della spesa, cioé mille euro, tocca elargirla a Caia e, metà, a Caio. Disc. Ma se il patrimonio di Caio non dà e non é in grado di dare nessun reddito?. Doc. Questa é la seconda ipotesi che ti volevo fare: in tal caso, a mio parere, occorre valutare la somma che si realizzerebbe dalla vendita dei beni di Caio e il reddito che tale somma verrebbe a dare. Metti che il reddito, che tale somma verrebbe a dare, sia da calcolare in mille euro (mensili): questi mille euro dovrebbero aggiungersi al reddito lavorativo (potenziale o reale) di Caio, al fine di paragonare la sua capacità contributiva con quella dell’altro coniuge. Disc. Ma vendere i beni di Caio potrebbe essere antieconomico: potrebbero essere beni che venduti tra cinque e dieci anni renderebbero il doppio. Doc. Non ho detto che occorra effettivamente vendere i beni di Caio: questa é una di quelle decisioni di straordinaria amministrazione, che i due coniugi, Caio e Caia, debbono prendere insieme. Però, se i beni non si vendono, bisognerà calcolare che Caia acquista verso Caio un credito di mille euro (al mese). Disc. Mi gira la testa a seguire tutti questi calcoli, che sono, non da giuristi, ma da ragionieri. Doc. E infatti noi giuristi ci guardiamo bene dal farli e ci accontentiamo di stabilire la capacità contributiva di un coniuge...ad occhio. Forse questo spiega anche la (pur sempre infelice) formula legislativa, il suo riferirsi a un contributo stabilito tout court “in relazione” e non ““in proporzione” dei beni (…..) dei coniugi: il legislatore probabilmente si é reso conto che, fare un calcolo rigorosamente proporzionale di quanto é obbligato a dare ciascun coniuge, sarebbe stato.... superiore alle capacità matematiche di noi, magistrati e avvocati. Disc. Che succede, - se uno dei coniugi, metti Caio, contribuisce al menage familiare, non meno, ma più del dovuto: avrebbe dovuto dare mille e, invece, o in soldi o in
“lavoro casalingo”, dà duemila o anche più - e poi i coniugi si separano o il matrimonio si scioglie? Doc. A mio parere, se si accertasse – cosa che, ti anticipo subito, é ben difficile, per cui, quello che ti sto facendo, consideralo pure un “caso di scuola” - che Caio ha effettivamente dato un quid pluris, bisognerebbe prima di tutto stabilire, se l’ha dato per errore (io, Caio, fermo alla vecchia normativa, dò duemila perché erroneamente ritengo di dover sostenere da solo, com’era una volta per il marito, tutte le spese della famiglia) oppure consapevolmente (idest, consapevolmente di dare più del dovuto): nel primo caso, si dovrebbero applicare le norme sul pagamento di indebito (artt.2033 e ss) e quindi riconoscere a Caio il diritto a vedersi rimborsato quanto da lui indebitamente pagato; nel secondo caso, si dovrebbe considerare il pagamento del quid pluris come una donazione (bada, non come l’adempimento di un’obbligazione naturale, dato che per il nostro codice, vedi l’articolo 2034, un pagamento può dirsi fatto in adempimento di un’obbligazione naturale quando é fatto in adempimento di un “dovere morale o sociale” e nessun “dovere morale o sociale” impone a un coniuge di contribuire più del dovuto alle spese della famiglia). Disc. Mettiamo che si stabilisca che Caio ha dato quei mille e più euro a titolo di donazione. Doc. In tal caso occorrerebbe ancora stabilire, se Caio voleva, con la sua donazione, beneficare il coniuge o i figli o, cosa più probabile, il coniuge e i figli (Caio, provetto muratore, nelle ferie estive ristruttura la casa di campagna perché tutta la famiglia vi possa passare l’estate beatamente al fresco). Disc. Mettiamoci nella prima ipotesi. Doc. Nell’ipotesi che Caio abbia dato il quid pluris solo per beneficare il coniuge, egli, qualora si separi da questo (non importa se per colpa sua o di questo) o il matrimonio si sciolga per causa non fisiologica (idest, si sciolga per “divorzio”, annullamento ecc e non per morte del coniuge), avrà diritto alla restituzione del donatum (per le stesse ragioni per cui il legislatore riconosce il diritto “alla restituzione dei doni” nel caso di rottura di fidanzamento, art.80). Disc. Nella seconda ipotesi evidentemente tu invece negheresti il diritto al rimborso. E nella terza?
Doc. Anche in tale terza ipotesi, come nella seconda, io negherei il diritto al rimborso: questa soluzione, non in perfetta regola con la logica, essendo imposta dalla difficoltà pratica di accertare quanto del donatum era, nelle intenzioni di Caio, per i figli, e quanto per il coniuge. Disc. Una bella matassa da sbrogliare insomma. Doc. Eh sì. Ma la difficoltà maggiore, come ti ho anticipato all’inizio, sarebbe quella di stabilire se quel quid, di cui Caio pretende il rimborso, era veramente un quid pluris. Infatti, stabilire ciò, presupporrebbe la ricostruzione del reciproco dare e avere tra Caio e Caia, cosa, specie a notevole distanza di tempo, pressoché impossibile. Non é infatti che tutte le famiglie siano così ordinate, che i coniugi, in un dato giorno del mese, si riuniscono e, presa carta e penna, redigono un preventivo di spesa: “Abbiamo da soddisfare questa e quella esigenza familiare, per ciò occorrono duemila euro, mille toccano a te e mille a me: quindi apriamo entrambi i nostri portafogli e versiamo in cassa duemila euro”. Tutt’altro che raramente, invece, le spese sono affrontate dai coniugi man mano che si presentano e, non con i soldi prelevati da una “cassa comune”, ma con quelli che il coniuge, che prende l’iniziativa della spesa, tira fuori dal proprio portafoglio. Per cui vale il principio che, tutte le volte in cui, il riconoscimento a un coniuge di un diritto al rimborso, presupporrebbe la ricostruzione del dare e l’avere dei coniugi, tale riconoscimento va negato. Quindi, solo in casi ben rari, Caio potrà chiedere la restituzione del quid datum (per un esempio di tali casi, che, se pur rari, non possono essere negati, pensa a Caio, che chiede la restituzione del prezioso anello dato, evidentemente in dono, alla moglie in occasione del suo compleanno). Disc. Tu hai fatto prima riferimento al coniuge, che adempie al suo dovere contributivo “tirando fuori i soldi dal suo portafoglio”; ma a me pare che nulla vieti al coniuge, su cui ricade la spesa dell’acquisto della bicicletta al figlio, di acquistarla, sì, ma, non pagando il negoziante “pronto cassa”, ma semplicemente assumendo nei suoi confronti l’obbligo di pagarla. Doc. In tal caso, io, tornando a fare il ragioniere e non l’avvocato, escluderei che, se l’acquisto é fatto in maggio, si debba calcolare come contributo alle spese del mese di maggio la somma, che Caio non ha pagata, ma solo si é obbligato a pagare, metti, a
Settembre; e riterrei preferibile ritenere che, in tal caso, Caia semplicemente acquisisca un credito verso Caio per l’ammontare del debito verso il negoziante, cosa per cui a settembre Caio, per pareggiare i conti, aggiungerà, al contributo da lui dovuto per le spese di settembre, il pagamento dovuto per la bicicletta al negoziante; ad esempio, se, la spesa preventivata per settembre e che i coniugi debbono sostenere in parti eguali, é di duemila e la somma, che Caio a maggio, cioé al momento dell’acquisto della bicicletta, non ha dato al negoziante e che a settembre si deve dare, é di duecento, Caia dovrà dare ottocento e Caio 1200 (1000 contributo mensile + 200 arretrato relativo alla bicicletta = 1200). Disc. Si deve far rientrare, nel dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, anche l’obbligo di un coniuge di dare la sua fideiussione alle obbligazioni, che l’altro coniuge contrae, beninteso contrae nell’interesse della famiglia? Doc. Certo é ben ammissibile, anzi é fisiologico, che Caio e Caia si obblighino solidalmente verso il terzo, che vende loro un bene necessario per la famiglia (o esegue una prestazione, per la famiglia, necessaria). Ma – e qui torna a parlare il ragioniere che evidentemente sonnecchiava in me - se si conviene che il dare e l’avere, metti per il mese di maggio, é per Caio e Caia in perfetto pareggio qualora Caio sostenga la spesa A e Caia sostenga la spesa B, si cade in contraddizione logica qualora si sostenga poi che tale pareggio ancora sussista e non sia sballato nel caso si aggiunga a Caio il peso, che tale é, di dare la fideiussione all’obbligazione che Caia deve assumere per la spesa B. Insomma, tutto possono fare i coniugi, purché rispettino la logica e le regole contabili (oppure se si vogliono tanto bene, da essere sicuri di...poter fare a meno di una contabilità ordinata). Disc. Ma rispetto al terzo (che vende la cosa, che rende il servizio necessario alla famiglia) Caia, il coniuge che conclude con lui il contratto, risponde da sola personalmente o solidalmente con Caio? Ad esempio, Caia ha acquistato dal mobiliere Parodi un armadio per mille euro: questi mille euro il mobiliere li può chiedere solo a Caia o anche a Caio (ovviamente partendo dal presupposto che questi sia condebitore solidale con Caia)? Doc. La risposta a questa domanda rimanda alla soluzione di due diversi problemi: primo problema: tutelare o no l’affidamento del terzo che ha contrattato, sì, con Caia, ma fidando di potersi soddisfare all’occorrenza anche sul patrimonio di suo marito,
Caio? A questo primo problema noi cercheremo di dare una soluzione in altre sede e precisamente trattando del regime della separazione dei beni. Passiamo al secondo problema, che é questo: la salvaguardia del principio della “parità dei diritti” dei coniugi (primo comma art. 143), pretende che Caio sia chiamato a rispondere solidalmente delle obbligazioni contratte dalla sola Caia? Sì, si sostiene, perché altrimenti Caia, il cui patrimonio é esangue, mentre quello di Caio é panciutello, avrebbe meno chances di Caio di poter compiere quegli “atti attuativi dell’indirizzo familiare concordato”, previsti dal capoverso dell’articolo 144 (perché quei negozianti che si fiderebbero a far credito a Caio, non si fiderebbero a farlo a lei). No, dico io, perché, mentre il riconoscimento della “parità dei diritti tra i coniugi” mira a tutelare la personalità del coniuge-debole (dalle sopraffazioni del coniuge-forte), l’attribuzione a un coniuge del potere di compiere autonomamente (cioé senza il previo consenso dell’altro) gli “atti attuativi dell’indirizzo della vita familiare”- non mira a tutelare tale personalità (tanto é vero che. in ogni momento, l’altro coniuge, come abbiamo visto in un precedente paragrafo, può bloccare l’esercizio di tale potere: Caio può dire “No, non voglio che si acquisti la tal cosa” e Caia non la può acquistare) - ma semplicemente a rendere più efficiente e rapida la gestione del menage familiare: quindi, se anche si verificasse una limitazione (in facto e non in iure) di tale potere per un coniuge, questi non potrebbe dire che la sua personalità é stata sacrificata. Disc. Dobbiamo ora parlare dell’obbligo, che ciascun coniuge ha, di contribuire all’adempimento dell’obbligazione, posta ai genitori, verso i figli, dall’articolo 147; il quale precisamente recita: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto é previsto dall’articolo 315 bis”. Doc. Riterrei opportuno che tu leggessi subito anche l’articolo 148. Disc. Leggo l’articolo 148: “I coniugi devono adempiere l’obbligazione di cui all’articolo 147 secondo quanto é previsto dall’articolo 316bis”. Leggo quindi anche il primo comma di questo art.316bis, il quale recita: “I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano
adempiere i loro doveri nei confronti dei figli”. Doc. Parliamo della prima parte del comma ora letto: non é certo tra le più felici: leggendola si ha l’impressione che i coniugi adempiano ai loro doveri genitoriali solo aprendo il portafoglio: il legislatore avrebbe fatto bene a nominare, accanto alla “capacità di lavoro professionale o casalingo”, la capacità educativa. Non può essere dubbio però che, al loro dovere di “mantenere, educare, istruire” i figli, i coniugi debbano provvedere non solo “in proporzione alle loro sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”, ma anche in relazione alla loro capacità educativa (“in relazione” e non “in proporzione”, perché questa seconda espressione sarebbe stonata se riferita alla “capacità educativa”, mentre stonata non sarebbe stata, anzi, se usata per la “capacità di lavoro professionale o casalingo” - il che non é stato: il legislatore ha un po’ pasticciato.) Peraltro, a commento di questo comma, possiamo richiamare quanto già osservato più sopra commentando il terzo comma dell’articolo 143: abbiamo già detto che, le leggerissime diversità di formulazione tra questo terzo comma e il primo dell’articolo148, non vanno per nulla sopravalutate. Va solo ricordato che, mentre, la somma destinata dai coniugi ai bisogni, diciamo così, “generici”della famiglia, é rimessa alla loro discrezione, la somma invece destinata ai bisogni dei figli deve essere proporzionata alle loro sostanze e alle loro capacità di lavoro: Caia e Caio, anche se miliardari, possono contentarsi di vivere come poveracci, ma debbono permettere di vivere ai figli come miliardari. Merita qualche parola in più la seconda parte del comma in esame. Essa infatti fa obbligo agli ascendenti prossimi di fornire ai genitori i mezzi per provvedere ai bisogni dei loro figli. Disc. Ma tale obbligo già non deriverebbe agli ascendenti dall’articolo 433? Doc. Se non dall’articolo 433, isolatamente considerato, un obbligo degli ascendenti di provvedere ai nipoti, sopperendo la deficiente capacità economica dei loro genitori, effettivamente deriverebbe già dal combinato disposto di tale articolo 143 e del secondo comma dell’articolo 441 – secondo comma, che così suona: “se le persone chiamate in grado anteriore (come sono per l’articolo 433 i genitori rispetto agli ascendenti) non sono in condizioni di sopportare l’onere in tutto o in parte, l’obbligazione stessa é posta in tutto o in parte a carico delle persone chiamate in grado posteriore (come appunto lo sono nel caso gli ascendenti)”.
Disc. Cosa per cui? Doc. Cosa per cui, la ragion d’essere della seconda parte del comma in commento, la sua “novità, se così ci piace esprimerci, va trovata – non nell’imposizione agli ascendenti dell’obbligo di sopperire alla mancanza di mezzi dei genitori – ma nel fatto che essi non debbono fornire direttamente tali mezzi ai nipoti (agli alimentandi, cioé) ma ai loro genitori.
Sezione terza: Disposizioni generali sui regimi patrimoniali – Il regime della separazione dei beni
Lezione VII: Disposizioni generali Disc. Possono i coniugi mettersi d’accordo per regolare i loro rapporti patrimoniali, stabilendo, ad esempio, che dopo sposati quei certi immobili saranno amministrati da loro congiuntamente, che l’uno dovrà dare all’altro mensilmente tot, e così via? Doc. Lo possono, purché il loro accordo rispetti certi diritti, che il legislatore ritiene
fondamentali e quindi inderogabili. Disc. Il legislatore indica quali sono questi diritti inderogabili? Doc. Sì, lo fa con l’articolo 160, che recita: “Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”. In buona sostanza Caio e Caia non possono derogare a quei diritti, che hanno come loro presupposto necessario il matrimonio e che, pertanto, per loro non esisterebbero se non fossero sposati. Disc. Quindi vanno annoverati tra i diritti/obblighi inderogabili, tutti quelli che abbiamo studiati nei precedenti paragrafi: obbligo di fedeltà, di assistenza, di coabitazione e, per quel che riguarda più direttamente gli aspetti patrimoniali dei rapporti tra i coniugi, l’obbligo di collaborazione e l’obbligo di contribuzione in proporzione alle sostanze e alla capacità lavorativa. Doc. E’ così; però la inderogabilità di tali diritti/obblighi va rettamente intesa; cioé tenendo presente, che é la stessa Legge, che prevede la loro derogabilità in caso di separazione (e bada bene, non solo nel caso di separazione giudiziale, ma anche in quello di separazione consensuale!); in caso, cioé di patologia del rapporto coniugale. Questo é evidente per l’obbligo di coabitazione, fedeltà, assistenza, collaborazione, ma anche risulta per l’obbligo di contribuzione (ad esempio, dal quarto comma dell’articolo 337ter, che recita “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito....”). Disc. Ma se i coniugi non possono (nella fisiologia del rapporto matrimoniale) derogare, né all’obbligo di collaborazione, né all’obbligo di contribuire all’appagamento dei bisogni della famiglia e dei figli, a che cosa mai possono derogare? Tolti questi due obblighi, non resta loro ….pane da mordere con i loro accordi. Doc. Al contrario, ne resta molto: i coniugi, una volta adempiuto il loro obbligo di contribuzione, hanno diritto di disporre liberamente del residuo reddito, che loro é dato dai loro beni e dal loro lavoro e, a prescindere da ciò, essi conservano sempre il diritto di amministrare tutti i loro beni: é su questi diritti che può incidere, per derogarli, un accordo tra i coniugi; e ti pare poco?
Disc. Quindi, se ho capito bene, i coniugi possono liberamente limitare i diritti, che ogni coniuge ha, alla libera disponibilità dei propri redditi e del proprio patrimonio. Doc. A dir il vero, anche la derogabilità a tali diritti incontra dei limiti; i più importanti dei quali, sono i due seguenti. Primo: l’accordo dei coniugi non può interdire a uno di loro (o a entrambi) di investire liberamente il proprio redditto (ex bonis o ex labore) per la propria attività economica e professionale – dato che ciò finirebbe per vulnerare il suo spirito d’iniziativa economica e la sua creatività professionale (“Se, io, Caio, sono costretto a concordare con Caia, i codici che posso comprare, i mobili con cui debbo arredare lo studio, ebbene, a far l’avvocato, ci rinuncio!”) e quindi sarebbe lesivo dei diritti della personalità – tutto ciò si argomenta dal capoverso dell’articolo 210, che stabilisce l’invalidità di una convenzione (modificativa del regime della comunione legale), che facesse rientrare nella “comunione”(con conseguente privazione del coniuge del potere di amministrarli autonomamente) “i beni che servono all’esercizio di una professione”. Mutatis mutandis, lo stesso discorso può ripetersi per in accordo che limitasse in un coniuge la libera disponibilità dei suoi beni “personali” - anche qui argomento ex capoverso art. 210. Secondo (limite alla derogabilità): l’accordo dei coniugi non può delimitare in maniera diseguale i poteri di disposizione dei due coniugi – ciò infatti verrebbe a contrastare col principio (espresso dal comma 1 dell’art.143) della “parità dei diritti e dei doveri tra coniugi.” Un’importante applicazione di questa seconda regola si ha nell’articolo 166bis, che consacra il “divieto di costituzione di dote” recitando: “E’ nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”. Disc. Ma quando si ha costituzione di dote? Doc. La dote é un antico istituto del nostro diritto; esso prevedeva, il conferimento nel patrimonio familiare di beni da parte della moglie, o di chi per lei, con abdicazione totale di questa alla loro amministrazione, che era riservata solo al marito. Disc. Ma il divieto di costituzione di dote, implica che la moglie non può dare al marito la procura a vendere e/o amministrare un suo bene.?
Doc. Nessun dubbio che la moglie possa conferire, la procura a vendere un suo bene, al marito, né più né meno di come la potrebbe conferire a un qualsiasi terzo: una diversa soluzione porterebbe al risultato (nefasto) di sfavorire, e non di favorire, la moglie, in quanto la gestione di un patrimonio rende spesso inevitabile l’assegnazione a un terzo del mandato a compiere un negozio, e sarebbe contrario ad ogni buon senso, che la moglie, dovendo ricorrere a un terzo, dovesse preferire, al marito, un estraneo. Toglie, poi, ogni dubbio, che la moglie possa dare mandato al marito di amministrare, non solamente un suo bene, ma tutti si suoi beni, il disposto del secondo comma dell’articolo 217, che prevede espressamente l’ipotesi che “ad uno dei coniugi (quindi, anche al marito) sia stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro”. Disc. Ma allora in che si differenzia l’ipotesi, da te ora riportata, da una costituzione di dote? Doc. Si differenzia per il fatto che la procura é limitata nel tempo; con più precisione, si può dire che, il conferimento al marito del potere di amministrare uno o più beni, non ricade nel divieto della costituzione di dote, se la procura é revocabile o anche irrevocabile ma solo per un tempo limitato. Disc. Torniamo al fatto che i coniugi godono di un (sia pure limitato) potere di deroga, in relazione ai (loro) diritti di gestire liberamente il loro (personale) patrimonio e il reddito, che loro residua una volta adempiuto l’obbligo di contribuzione (alle spese familiari); ora é chiaro che, il modo in cui tale potere di deroga viene esercitato e il suo stesso non essere esercitato, potrebbe dar luogo a una (forse troppo vasta) diversità di regimi patrimoniali: i coniugi Rossi potrebbero creare un regime patrimoniale, che pretende il consenso di entrambi coniugi per la disposizione di tutti i beni (prima in esclusiva disponibilità di ciascuno di loro), i coniugi Bianchi, invece, potrebbero creare un regime, in cui il consenso dei coniugi é necessario solo per la disposizione di alcuni di tali beni oppure solo per alcuni atti di disposizione di tali beni e così via: il legislatore non teme che ne nasca il caos?. Doc. No, egli si limita a disciplinare (negli artt. 167 e segg.) quattro diversi tipi di regimi patrimoniali: quello del fondo patrimoniale, quello della comunione legale, quello della comunione convenzionale, quello della separazione dei beni; e a stabilire
nell’articolo 159, che “Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’artic. 162, é costituito dalla comunione dei beni, regolata nella sezione III del presente capo” (idest, dalla comunione legale a cui poco fa ho fatto cenno). Ma, se il Legislatore non ritiene di porre limiti alla creatività giuridica delle varie coppie di sposi, egli ritiene però opportuno di vietare loro una tecnica di formulazione del parto di tale creatività; e nell’articolo 160 dispone, che: “Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali con i quali intendono regolare questi loro rapporti”. Quindi, due coniugi di cittadinanza italiana, non potrebbero limitarsi a scrivere nella loro convenzione matrimoniale “Vogliamo che i nostri rapporti patrimoniali siano disciplinati dalla legge belga”, ma con santa pazienza dovrebbero trasformare le norme della legge belga in clausole contrattuali e riportarle nella loro convenzione; questo perché la legge belga non é una legge a cui essi “sono sottoposti”. Al contrario, il cittadino Chevalier, di cittadinanza francese e la cittadina Cepeda di nazionalità spagnola, potrebbero limitarsi ad esprimere la loro volontà per relationem: “Noi vogliamo che i nostri rapporti patrimoniali siano disciplinati dalla legge francese”; questo perché la legge francese (sia pure in alternativa a quella spagnola) é la legge a cui sono sottoposti (vedi l’art. 30 della L. 31 maggio 1995 n. 218 sul diritto internazionale privato). Disc. Fa differenza che una legge straniera sia applicabile semplicemente in quanto “legge a cui i coniugi sono sottoposti” (penso al caso dei coniugi Chevalier-Cepeda) o, invece, in quanto riportata in una convenzione matrimoniale (penso al caso dei due italiani, che vogliono che i loro rapporti patrimoniali sia regolati dalla legge francese, e pertanto la trasfondono nella loro convenzione)? Doc. Certo, nel primo caso la legge verrà applicata dal giudice italiano tenendo conto della sua evoluzione (se il legislatore estero, nel tempo, avrà, metti, abrogato l’articolo X, non applicherà l’articolo X); nel secondo caso, invece, egli applicherà la legge come cristallizzata, diciamo così, nella convenzione, prescindendo cioé dalle modifiche nel frattempo in essa intervenute. Disc. Quale la ragione per la quale il nostro legislatore non permette ai coniugi quel rinvio per relationem, che chiaramente sarebbe per loro il metodo più pratico e semplice di recepire la normativa straniera?
Doc. Io credo che la ragione, almeno principale, di ciò vada ravvisata nel timore, che un semplice rinvio per relationem esponga i coniugi a scelte non meditate (i coniugi optano entusiasti per il diritto argentino, senza sapere che l’articolo tal dei tali del codice argentino dispone questo e quest’altro): costringere i coniugi a riportare, trasformate in clausole contrattuali, le norme di una legge, che non essendo quella a cui sono sottoposti é presumibilmente da loro poco conosciuta, é un modo per costringerli a farne una più approfondita conoscenza. Meno valide mi sembrano altre due ragioni, che pur autorevolmente si indicano: quella di facilitare il giudice nell’applicazione della legge (regolatrice dei rapporti patrimoniali), evitandogliene una ricerca che potrebbe essere laboriosa (ma il giudice italiano non deve già sobbarcarsi a tale ricerca, tutte le volte in cui i rapporti patrimoniali delle parti sono, ai sensi delle norme di diritto internazionale privato, regolati da una legge straniera?!); quella di facilitare i terzi nella conoscenza della normativa straniera, che regola i loro rapporti con gli sposi, con cui hanno rapporti di affari (ma l’handicap del terzo non sarebbe eliminato sufficientemente dal terzo comma dell’art.30 della già citata Legge n. 218/995, il quale recita “Il regime dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una legge straniera é opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano ignorato per loro colpa”?! ). Disc. Ma, come il contenuto, anche la forma delle “convenzioni matrimoniali” é libera? Disc. Tutt’altro, il primo comma dell’articolo 162, pretende che “le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico sotto pena di nullità”. Quindi, ahimé, per stipulare una convenzione matrimoniale occorre rivolgersi al notaio. La relativa spesa il legislatore la evita solo a quegli sposi, che attuano, la loro scelta per il regime di separazione, al momento della celebrazione del matrimonio; infatti il legislatore permette che tale scelta “possa anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio” (attenzione! “nell’atto”, cioé nel documento in cui vien fatta risultare la celebrazione, non “all’atto” della celebrazione). Evidentemente il Legislatore ha voluto che la scelta di un regime così popolare, come quello della separazione dei beni, non venisse scartato dagli sposi, solo per una loro difficoltà a sostenere le spese notarili. Disc. Ma le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate solo al momento della
celebrazione del matrimonio? Doc. No, e te lo dice il terzo comma sempre dell’articolo 162, che recita: “Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme le disposizioni dell’art. 194”. Quindi, se Caio e Caia, che si sono astenuti dal far risultare nell’atto di celebrazione la loro opzione per il regime di separazione, dopo, anche dopo qualche anno, ci ripensano, sono sempre in tempo a rimediare: potranno andare da un notaio (sobbarcandosi questa volta la relativa spesa) e far disciplinare i loro rapporti dal regime della separazione. Disc.Il legislatore prevede una forma di pubblicità per le convenzioni? Doc. Certo che sì; infatti é ben giusto (e opportuno per evitare la vischiosità delle transazioni commerciali) che si dia all’imprenditore Parodi, che deve stipulare un contratto con i coniugi Rossi, la possibilità di sapere per quale dei regimi patrimoniali essi abbiano optato: infatti, la validità o no del contratto, dipenderà dalle norme che disciplinano tale regime (se i coniugi Rossi vivono in regime di separazione dei beni, basterà per la validità del contratto che apponga la sua sottoscrizione solo il sig Rossi, che nei registri immobiliari ne risulta unico proprietario, se essi invece fossero in regime di comunione dei beni, occorrerebbe la sottoscrizione anche della signora Rossi). Disc. E in che modo il Legislatore riesce a dare la possibilità al Parodi di conoscere il regime adottato dai coniugi Rossi? Doc. Facendo onere ai coniugi Rossi di far risultare, le convenzioni (matrimoniali) da loro stipulate, a margine del loro atto di matrimonio. Di conseguenza, se il Parodi, visionato tale atto, non vi vedrà annotata nessuna convenzione, dovrà concludere che i coniugi Rossi hanno adottato il regime della comunione dei beni (la cui adozione, come ricorderai, é, per l’articolo 159, per così dire automatica, avviene, o almeno può avvenire, senza necessità della stipula di una convenzione ad hoc); se invece vi vedrà annotata una convenzione.. .se ne andrà a leggere il contenuto dal notaio rogante. Disc. Ma il contenuto della convenzione (il tipo di regime patrimoniale adottato dai coniugi Rossi: se trattasi del regime di separazione dei beni, del regime del fondo patrimoniale ecc.) non risulta dall’atto di matrimonio?
Doc. No (salvo che il regime prescelto sia quello della separazione dei beni). Tutto questo ti risulta dal quarto comma dell’articolo 162, che recita: “La convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultino annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al secondo comma” (idest, la scelta del regime della separazione dei beni). Disc. Quindi, il nostro Parodi, per sapere quale sia il regime adottato dai coniugi Rossi, dopo essere stato all’ufficio di stato civile, dovrà recarsi all’ufficio notarile beninteso, salvo il caso che dall’atto di matrimonio risulti che i coniugi Rossi non abbiano stipulata nessuna convenzione (nel qual caso dovrà concludere che il regime adottato, sia quello della comunione) o che i coniugi Rossi abbiano optato, al momento della celebrazione (del matrimonio), per il regime di separazione (senza farlo seguire da convenzioni contrarie). Ma, sapere il tipo di regime adottato dai coniugi Rossi, al nostro signor Parodi certamente basterà, qualora il contratto, che egli intende stipulare, riguarda un bene mobile (non iscritto nei registri); ma gli basterà lo stesso, qualora il contratto riguardi un bene immobile o un bene mobile iscritto nei pubblici registri (un automobile, un aereomobile...)? Doc. No, se il Parodi, consultato l’atto di matrimonio, vi vedrà indicato, putacaso, che i coniugi, prima, al momento della celebrazione del loro matrimonio, hanno optato per il regime della separazione dei beni, e, poi, hanno stipulata una convenzione; indi, recatosi all’ufficio notarile, leggerà, nella convenzione, che i coniugi hanno optato per il regime di comunione, ebbene ciò non gli basterà, o almeno gli potrebbe non bastare, per soddisfare la sua curiosità di cauto uomo d’affari: gli resterà, o almeno gli potrebbe restare, l’interrogativo se l’appartamento, che intende comprare, rientri, o no, nella comunione dei beni (dato che non tutti gli immobili di proprietà di uno dei coniugi, come vedremo, cadono in comunione). Disc. E il legislatore gli dà la possibilità di dar risposta a tale interrogativo? Doc. Sì, perché Egli impone non solo di trascrivere, se hanno per oggetto dei beni immobili o i beni mobili di cui all’articolo 2683 (aereomobili, autoveicoli...), “la costituzione del fondo patrimoniale, le convenzioni che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi, gli atti e i provvedimenti di scioglimento delle comunione (….)”, ma altresì di trascrivere gli atti relativi a beni (della tipologia sopra
indicata e) che “successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi”. Tutto questo te lo dico in sintesi, se ti fosse necessaria una maggiore precisione dovresti consultare gli artt. 2646 e 2685. Disc. Comunque, sintetiche o no, le tue parole mi fanno capire che il nostro bravo Parodi, se non sempre molto spesso, se vorrà essere sicuro di comprare bene un immobile, dovrà rassegnarsi a fare tre viaggetti: uno all’ufficio di stato civile, l’altro all’ufficio di un notaio, l’altro ancora all’ufficio dei registri immobiliari. Ma, tanto per complicarci la vita, poniamo il caso che il Parodi debba stipulare il contratto con un coniuge, i cui rapporti patrimoniali sono regolati da una legge straniera, metti con la signora Cepeda di un esempio precedente, anche in tal caso un sistema di pubblicità gli darà modo di informarsi sul regime patrimoniale della controparte e, diciamo così, sullo status (se rientra nel patrimonio familiare, o no, ecc.) dell’immobile che volesse acquistare? Doc. Sul punto io ti confesso non sono molto esperto; ma direi di no, perché, la norma di diritto internazionale privato che prevede il caso, (il terzo comma dell’art. 30 L. 31 maggio 1995 n. 218), si limita a stabilire, che “Il regime dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una legge straniera é opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuta conoscenza o lo abbiano ignorato senza colpa. Relativamente ai diritti reali su beni immobili, l’opponibilità é limitata ai casi in cui sono state rispettate le forme di pubblicità prescritte dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano”. A questo punto io direi di chiudere sulle “disposizioni generali”, saltando le norme di cui agli articoli 163, 164,165,166. Disc. Che cosa riguardano? Doc. L’articolo 163, la modifica delle convenzioni matrimoniali; l’articolo 164, la simulazione delle convenzioni matrimoniali; l’articolo 165 e l’articolo 166, la capacità, rispettivamente del minore e dell’inabilitato, a stipulare le convenzioni matrimoniali. Disc. Ma sì, mi pare che riguardino punti del tutto secondari della disciplina: chiudiamo; non prima però che tu abbia risposto a questa ultima domanda, che mi pare invece importante. Abbiamo visto che i coniugi possono derogare al regime della comunione legale solo
stipulando una “convenzione” in tal senso (art. 159); abbiamo visto che i coniugi debbono stipulare tale “convenzione” solo “per atto pubblico” (primo comma dell’articolo 162), ma tu non mi ha detto ancora...che cosa si debba intendere per “convenzione”: ogni accordo tra coniugi, che ha l’effetto di attribuire (o di togliere) qualche potere o diritto sul patrimonio familiare o personale (dell’uno o dell’altro di loro), va considerato una “convenzione” da stipulare con atto pubblico? ad esempio, il contratto, con cui la signora Rossi intende conferire al marito il mandato a vendere un immobile rientrante nella comunione, va considerato una convenzione, va fatto per atto pubblico? Doc. No, la signora Rossi potrà dare il suo mandato con una semplice scrittura privata. Infatti si può parlare di “convenzione”, a proposito di un accordo tra coniugi, solo quando le disposizioni di questo, siano destinate a valere (tendenzialmente) fino allo scioglimento del matrimonio e abbiano natura “programmatica”, cioè siano destinate a disciplinare una molteplicità di situazioni (ipotizzabili nel futuro). Lezione VIII: Il regime della separazione dei beni. Doc. Il legislatore non dà una definizione del regime della separazione dei beni, così come non la dà del regime del fondo patrimoniale e di quello della comunione legale, ma - siccome, nel primo articolo della sezione dedicata alle “disposizioni generali”, l’articolo 159, egli aveva enunciato la norma che “il regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione.....é costituito dalla comunione dei beni (rectius, dei beni acquistati durante il matrimonio) - nel primo articolo dedicato al regime della separazione, l’articolo 215, sente il bisogno di ribadire che “I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”. Disc. Quindi, il regime, che andiamo ora a studiare, si caratterizza per il fatto, che i coniugi restano “titolari esclusivi” dei loro beni, quelli che avevano al momento di sposarsi e quelli acquistati successivamente; é così? Doc. E’ così; ma sarebbe bene sottolineare, che i coniugi restano titolari esclusivi di tutti i loro beni; dal momento che, pure chi opta per il regime di comunione legale o per la costituzione di un fondo patrimoniale, conserva la titolarità esclusiva di alcuni beni: ad esempio Caio, che, al momento in cui opta per il regime della comunione, é proprietario di tre appartamenti, conserva la titolarità esclusiva di tali appartamenti e, mutatis mutandis la cosa si potrebbe ripetere per il caso che avesse costituito un
fondo patrimoniale (i beni non “versati” nel fondo resterebbero di sua esclusiva proprietà – vedi meglio l’articolo 168). Ed é bene dire subito che le norme che andremo ad esaminare, anche se inserite in una “sezione” dedicata al regime della separazione, non si applicano solo ai beni di chi ha optato per questo regime, ma si applicano a tutti i beni di cui un coniuge, qualunque sia il regime per cui ha optato, conserva la titolarità esclusiva. Chiarito questo, passiamo a parlare del secondo articolo della sezione dedicata alla separazione dei beni, e cioé dell’articolo 217. Nel primo comma di tale articolo, il legislatore, che non ha persa l’abitudine di dire...cose ovvie, proclama che “Ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui é titolare esclusivo”. Disc. Io non trovo tanto “ovvio” il dettato legislativo. Infatti, quando noi si parlava dell’obbligo di contribuzione (terzo comma dell’articolo 143), mi prudeva una domanda, che ora, proprio il primo comma da te dileggiato, mi dà l’occasione di farti: Caio, una volta che ha adempiuto correttamente il suo obbligo di contribuzione, dei soldi che gli restano nel portafoglio, può fare quel che gli pare e piace? Cerco di essere ancora più preciso: Caio, ha un reddito mensile di tremila euro, e ne dà come “contributo” mille: dei residui duemila euro, può disporre come gli aggrada? Doc. Fino ad un certo punto. Certamente egli é libero di impiegare anche tutti i duemila euro nell’acquisizione di beni e/o servizi utili per la sua professione e attività economica e per lavori diretti a conservare e rendere più redditizi i beni in sua proprietà. Ma incontra invece precisi limiti per quel che riguarda le spese voluttuarie (pranzi, spettacoli...) e per quelli che il legislatore definisce (nella lettera c, comma 1 art. 179) “beni di uso strettamente personale” (vestiti, computer, auto.......) Disc. Da che cosa sono dati questi limiti? Doc. Dall’obbligo per il coniuge di non superare, nel suo tenore di vita, quello di tutti gli altri membri della famiglia: se questi si nutrono a pasta e fagioli, egli non può pasteggiare a ostriche e champagne; se questi, per andare al lavoro, arrancano in bicicletta, egli non può scarrozzarsi in una fuoriserie: anche se noi viviamo in una società capitalistica, dentro le quattro mura della famiglia, ci dobbiamo rassegnare a vivere, qualunque siano le nostre idee politiche, in una...società comunista. Disc. Sempre mentre noi si parlava dell’obbligo di contribuzione, io avevo una altra domanda sulla punta della lingua, che ora ti voglio fare. Questa domanda nasceva da
quella che mi pareva una vera ingiustizia: Caio, pensavo, sentendo quel che tu dicevi, nei mesi che sono per lui quelli delle vacche grasse, guadagna tremila, dà il suo bravo contributo di mille e...il resto se lo spende; poi, quando vengono le vacche magre, mostra a Caia il portafoglio vuoto e non le dà niente - e ha ben diritto di non darle niente perché non ha niente; però, ecco quel che pensavo, se nel periodo di alta congiuntura avesse risparmiato, qualche cosa anche nel periodo delle vacche magre potrebbe dare – e il tutto mi sembrava ingiusto. Per cui ti avrei voluto domandare e ora ti domando: Caia può controllare l’uso che, del suo reddito, fa l’altro coniuge e costringerlo alla virtù del risparmio? Doc. Certamente essa non può legare le mani e la borsa di Caio, per quel che riguarda le spesse che egli intende fare per la sua attività professionale e lato sensu economica: questo divieto nasce da quella esigenza di tutela della personalità, di cui abbiamo già avuta occasione di parlare. Invece, per quel che riguarda le spese per beni personali e per quelle voluttuarie, l’obbligo per Caio di risparmio, nasce dallo stesso obbligo che ha Caio di uniformare il suo tenore di vita a quello degli altri familiari. Facciamo un esempio: Caio ha il reddito mensile di tremila: mille li dà come contributo alle “spese di famiglia”, mille li spende per comprarsi gli “attrezzi del mestiere” o per le necessarie riparazioni alle sue case, cinquecento li spende per mantenere un tenore di vita conforme a quello dei familiari: i residui cinquecento, non potendoli usare per spese voluttuarie, per forza li deve risparmiare! Disc. Ma Caia può controllare che veramente mille siano spesi così, cinquecento colà e così via? Doc. Tu mi domandi se c’é un obbligo di “trasparenza” economica tra due coniugi? ebbene, io sarei propenso a rispondere di sì (anche se mi rendo che la materia é delicata): il nostro legislatore vuole che tra due coniugi vi sia una completa “comunione spirituale e materiale” di vita? se sì, com’é sì, tra due coniugi non debbono esserci segreti: l’uno deve poter conoscere la contabilità dell’altro. Disc. Chiariti i limiti in cui ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei suoi beni, passiamo all’esame dei restanti commi dell’articolo 217. Vengo a leggerli. Secondo comma: “Se ad uno dei coniugi é stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli é tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato”.
Terzo comma: “Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati.” Quarto comma: “Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti”. Mi sembra che il Legislatore, prendendo in esame le varie ipotesi in cui un coniuge può trovarsi nella detenzione dei beni dell’altro, ne salti una. E infatti si potrebbero fare (non tre ma) quattro ipotesi: prima, il coniuge é nella detenzione per “procura” (rectius, mandato) dell’altro e con obbligo di rendiconto; seconda, il coniuge é nella detenzione, sempre per mandato dell’altro, ma senza obbligo di rendiconto; terza, il coniuge é nella detenzione senza mandato, ma senza opposizione dell’altro; quarta, il coniuge é nella detenzione, non solo senza mandato, ma addirittura con l’opposizione dell’altro coniuge. Questo mentre invece il legislatore fa solo tre ipotesi: e più precisamente salta la terza da me prima fatta (che invece, mi pare, ha pieno diritto di cittadinanza). Doc. Tu hai ragione, senza dubbio il legislatore compie un salto logico. Ma anche Tu salti una quinta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni dell’altro in base, sì, a un contratto, ma non a un contratto di mandato: pensa a un contratto di locazione, di usufrutto, di enfiteusi (…); e, non contento, salti anche una sesta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni, non per amministrarli, ma solo per goderli. Disc. Giusto: ciò andava chiarito ed é stato chiarito. Ora però tu comincia a commentare la prima ipotesi, quella prevista dal comma due. Doc. Così come i coniugi possono stipulare tra di loro un contratto di compravendita, di locazione, di trasporto ecc., così essi possono anche tra di loro stipulare un contratto di mandato. A ciò, lo abbiamo già visto, non osta il divieto, stabilito dall’art. 166bis di “ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”: infatti tale divieto, interpretato con tale severità da escludere anche la possibilità di Caia di dare a Caio un mandato, finirebbe per iugulare la stessa possibilità di Caia di muoversi nel mondo degli affari: quel che importa, per non ricadere nel divieto dell’articolo 166bis, é che il mandato non sia irrevocabile (a meno che la clausola di irrevocabilità - utile per dar la sicurezza, alla controparte del contratto oggetto del
mandato, che nel corso delle trattative non vengano meno i poteri del coniugemandatario - sia soggetta ad un termine molto breve). Disc. Quale forma deve assumere il mandato? può darsi anche per scrittura privata, anche oralmente, può essere anche “tacito”? Doc. Se il mandato é (ipotesi di scuola) a puramente e semplicemente amministrare, senza il potere di compiere negozi giuridici, può essere dato in qualsiasi forma. Ma se il mandato, com’é nella norma, conferisce anche il potere di compiere, tanti o pochi nulla importa, atti giuridici, é, quindi, “con rappresentanza”, logicamente dovrà comprendere una procura, per cui dovrà applicarsi l’articolo 1392, secondo cui “La procura non ha effetto se non é conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere”. Per cui Caia - se volesse conferire al coniuge, oltre al potere di puramente amministrare, anche quello di vendere un immobile o, per fare un altro esempio ancora, quello di darlo in locazione per una durata superiore ai nove anni - dovrebbe dare al relativo mandato la forma scritta (vedi anche l’articolo 1350). Invece, il potere di riscuotere i canoni locatizi, di percepire i frutti di un fondo e di venderli, di assumere prestatori d’opera, Caia lo potrebbe benissimo dare a Caio anche oralmente e addirittura tacitamente. Certo é ben difficile ipotizzare una mandato verbale o tacito per il caso previsto dal comma secondo (data l’ipotesi, che vi si fa, dell’inserimento nel contratto di una clausola che impone il rendiconto); ma, con riferimento al caso contemplato nel comma terzo, invece, un contratto verbale e tacito si può benissimo ipotizzare. Disc. Ma il mandato, può avere carattere generale, può addirittura riguardare tutti i beni di Caia? Doc. Che possa avere carattere generale risulta dalla lettera stessa della norma (che si riferisce all’amministrazione “di beni” al plurale e non al singolare). E, ammesso ciò, non mi pare che ci siano ragioni per escludere che possa riguardare tutti i ben dell’altro coniuge. Disc. Chiarito questo, passiamo all’esame del terzo comma. Doc. – Il terzo comma é relativo all’ipotesi di un coniuge che amministra con procura (rectius, con mandato), ma senza “obbligo di rendere conto dei frutti” (e più in genere, un’interpretazione estensiva rientrando nella logica, senza rendere conto della
sua amministrazione). Nell’ipotesi, il legislatore esenta il coniuge amministratore, non solo dall’obbligo di rendiconto, ma tout court, da quello di far avere al suo mandante, l’altro coniuge, i frutti della sua amministrazione (di cui evidentemente é libero di disporre); e siccome, nel più sta il meno, é da ritenere che lo esenti anche dalla responsabilità per mancata percezione dei frutti dovuta a sua negligenza e in genere (anche qui imponendosi in via logica un’interpretazione estensiva) da ogni responsabilità per mala gestio. Da questa, che é una deroga alla disciplina codicistica del mandato (artt.1710 e ss), ci riserviamo in seguito di trarre interessanti deduzioni. Disc. Ma perché l’esenzione operi, deve risultare expressis verbis? Doc. No, e ciò risulta dalla stessa lettera della norma, che si limita a parlare di coniuge “senza l’obbligo di rendere conto”. Questa considerazione ci permette di escludere, sia l’obbligo di rimettere i frutti al coniuge proprietario sia la responsabilità per mala gestio, anche nella terza ipotesi che tu avevi fatto (e che il legislatore ha saltato): l’ipotesi di Caio, che é nella detenzione dei beni di Caia senza suo mandato, ma anche senza sua opposizione. Disc. Ma Caio, che si trova nella detenzione, poco rileva se con mandato o meno, dei beni di Caia, in che senso, dei frutti percepiti, può disporre liberamente? nel senso che può consumarli a proprio esclusivo beneficio o nel senso che può, sì, disporne solo a beneficio della famiglia, ma a lui solo é rimessa la scelta dei bisogni familiari da soddisfare con tali frutti? Doc. Io escluderei senz’altro la prima alternativa: Caio deve usare i frutti nell’interesse della famiglia. E sarei anche propenso a ritenere che Caio, non possa liberamente, cioé senza il consenso di Caia, determinare la priorità dei bisogni familiari da soddisfare (perché ciò contrasterebbe con l’obbligo imposto ai coniugi dall’articolo 144 di “concordare” “l’indirizzo della vita familiare”), ma che abbia solo la libertà nella scelta delle vie da seguire per monetizzare tali frutti (se si tratta di frutti naturali: venderli a 100 o a 110?). Logico corollario di ciò, sarebbe che Caio non potrebbe imputare alla sua quota contributiva (per sovvenire ai bisogni della famiglia) le somme ricavate dalla sua amministrazione. Esempio: se Caio per contributo dovesse mille e, la somma ricavata dall’amministrazione, ammontasse a settecento, Caio non potrebbe limitarsi a dare trecento. Disc. Passiamo ora all’esame del quarto comma.
Doc. Esso fa due ipotesi: la prima é che il coniuge-detentore (contro la volontà del coniuge-proprietario) rechi danni ai beni detenuti; la seconda, é - o almeno sembra essere (qui il pensiero legislativo é veramente poco chiaro!) - quella che il coniuge detentore, con la sua stessa detenzione, impedisca all’altro di cogliere i frutti dei suoi beni, col risultato di cagionargli così un danno. Per tali ipotesi la norma prevede una responsabilità, evidentemente un obbligo risarcitorio, per il coniuge possessore e danneggiante. Disc. A me pare ovvio che il coniuge, che rechi danni alle cose da lui detenute, sia obbligato a risarcirli. Doc. Appunto per questo, per dare una ragione d’essere alla norma, si impongono due diverse interpretazioni. Prima: essa, non tanto stabilisce che il coniuge deve risarcire i danni, ma che deve risarcirli anche se manca la prova di un suo comportamento colposo o doloso. Seconda (interpretazione): il coniuge deve risarcire i danni in caso di sua colpa o dolo. A me sembra che la prima interpretazione porti a soluzioni troppo severe, e preferirei adottare la seconda; la quale effettivamente porta a far dire alla norma una ovvietà, ma un’ovvietà che non sarebbe più tale, se il legislatore partisse dal presupposto che il coniuge, amministratore in base a mandato e comunque col beneplacito dell’altro coniuge, non sia obbligato a risarcire i danni anche se da lui causati per colpa (eccezion fatta che si tratti di colpa grave) – insomma se il legislatore adottasse, per il coniuge amministratore, quella stessa soluzione accolta nell’articolo 1713, per il mandatario esentato dall’obbligo di rendiconto. Conclusione: siccome ritengo che al Legislatore non si debbano attribuire assurdità – absurda sun vitanda, insegnava Farinaccio – ritengo anche che il terzo e quarto comma vadano interpretati nel senso, che, il terzo, escluda la responsabilità del coniuge per i danni arrecati per colpa (che non sia grave); e, il secondo, invece, riaffermi il principio che il coniuge, come come tutti gli altri mortali, debba risarcire i danni colposamente causati. Disc. Possiamo lasciare a questo punto il commento dell’articolo 217 e passare a quello dell’articolo 218, che recita: “Il coniuge che gode i beni dell’altro coniuge é soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario”. L’espressione “coniuge che gode i beni”, fa pensare al coniuge che é nella detenzione di un bene, non produttivo (pensa a un appartamento), dell’altro o, anche, é nella detenzione di un bene produttivo dell’altro, ma senza cercare di cogliere le utilità che
questo può dare (é nel campo, ma non per coltivarlo o coglierne i frutti): é così? l’articolo in esame si riferisce solo a questi casi o si riferisce anche o addirittura solo ai casi in cui il coniuge-detentore, non solo gode, ma anche sfrutta i beni che detiene? Doc. Senz’altro l’articolo in esame si applica al coniuge, che detiene un bene per farlo fruttare: sarebbe assurdo che il legislatore avesse fatto riferimento alla normativa che disciplina i diritti/obblighi dell’usufruttuario – di chi cioé é nel possesso di una cosa per “trarre ogni utilità che questa può dare” (art.981) – per dirci i diritti/obblighi di chi semplicemente e puramente gode di un bene. Pertanto, l’articolo 218 viene a integrare l’articolo 217, stabilendo che il coniugeamministratore, con o senza mandato, con o contro il beneplacito dell’altro, ha gli stessi obblighi dell’usufruttuario (quindi deve rispettare la “destinazione economica del bene” ecc.). Peraltro, io riterrei applicabile tale articolo anche al caso del coniuge, che puramente “gode” di un bene dell’altro (Caio che abita nell’appartamento di Caia). Ovviamente in tal caso le norme sull’usufrutto si applicheranno solo per la parte che si adatta a tale situazione. Disc. Passiamo ora all’esame dell’articolo 219, che recita: “Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene. I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi” Doc. La disposizione, che il coniuge possa provare “con ogni mezzo”, quindi, non solo documentalmente, ma anche con testimonianze e presunzioni, la propria proprietà esclusiva su un bene (poco importa che questo bene si trovi nella casa familiare, anche se normalmente sarà così, o in altro luogo), trova la sua giustificazione nei particolari rapporti di reciproca fiducia, che normalmente si instaurano tra coniugi e che normalmente impediscono loro di procurarsi le prove da far valere contro l’altro. Ma, il fatto che la prova della esclusiva proprietà possa essere data con ogni mezzo, non significa che il giudice possa riconoscere, l’esistenza del diritto reclamato, anche in base a una prova insufficiente, una prova cioè che non gli dà la sicurezza (sia pure quella sicurezza di cui ci si deve accontentare nelle aule di giustizia), che il diritto appartenga veramente a chi lo reclama. Pertanto, quando, la esclusività della proprietà o tout court chi sia proprietario, non liquet, il giudice applicherà il secondo
comma e attribuirà il bene conteso al cinquanta per cento a tutti e due i coniugi. Disc. E, con ciò, farà un’eccezione alla regola, che vuole che, al rivendicante soccombente, la proprietà sia negata.. .al cento per cento. Tu hai detto che bastano le presunzioni per provare la proprietà esclusiva (o la comproprietà) di un bene; vuoi dare un esempio di tali presunzioni? Doc. Pensa alla presunzione, che nasce dalla particolare relazione della cosa controversa con la professione di chi la rivendica: chi può dubitare che i libri di diritto appartengano al coniuge-avvocato e non alla coniuge-casalinga? Disc. E la detenzione della res controversa, che abbia il rivendicante? Doc. Io escluderei che da sé sola costituisca sufficiente prova, che la proprietà della res spetti al rivendicante; a meno, anche qui, che tale proprietà risulti dalla particolare relazione esistente tra il rivendicante e la res: chi può dubitare che quella macchina fotografica appartenga al coniuge dilettante-fotografo? Disc. Ma questa facilitazione concessa ai coniugi, nella prova della proprietà (esclusiva o in comunione), vale anche contro i terzi? Doc. La risposta é, no: Caia che si oppone (in forza dell’articolo 619 codice di procedura civile – la così detta opposizione di terzo) al pignoramento, che il negoziante Parodi ha fatto in odio al marito Caio, su una res esistente nella abitazione familiare – tanto per riferirci alla situazione che più frequentemente si verifica nelle nostre aule di giustizia – non é agevolata nella prova che la proprietà della res spetta a lei, e non al marito Caio (oppure, nella prova che la res, non é in proprietà esclusiva del marito, ma in comunione tra lei e il marito). Quindi, attente gentili lettrici, a non sposarvi con un uomo scialacquatore: i beni, che aveste portato nella casa comune, si troverebbero esposti alle aggressioni dei suoi creditori! Però val la pena di dire che, se Caia non é agevolata nella prova dalla sua qualità di moglie, non ne é neanche handicappata; questo, almeno dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarata la illegittimità dell’articolo 622 del Codice di procedura civile, che invece poneva forti limiti, alla opposizione della moglie convivente, contro i pignoramenti dei beni, fatti in odio del marito, “nella casa di lui”. E con ciò abbiamo terminato l’esame di tutti gli articoli della sezione quinta dedicata
al regime della separazione dei beni. Disc. Ma ora, che abbiamo passato in esame tutti gli articoli della sezione, vuoi sciogliere la riserva prima fatta? avevi detto, commentando il terzo comma dell’art.217, che, dall’esenzione del coniuge-amministratore dall’obbligo di rimettere i frutti al coniuge-proprietario, si può ricavare un’interessante deduzione: quale? Doc. Questa: che, per la disciplina dei rapporti tra coniugi, non può attingersi senza discernimento alla eventuale normativa, che disciplini similari rapporti tra estranei; dato che questa disciplina non tiene conto di un elemento fondamentale, che caratterizza invece il rapporto tra coniugi e cioé la affectio coniugalis. E’ questo elemento, che rende improprio e stonato, un obbligo del coniuge- amministratore al conferimento dei frutti percepiti o un suo obbligo al risarcimento, per i danni senza colpa causati nell’amministrazione.; é ancora questo elemento che, come abbiamo visto in una precedente lezione, rende improprio e stonato l’obbligo, del coniuge proprietario, di pagare all’altro coniuge, che ha sopraelevato la sua casa, il maggior valore da questa acquistato (anche se ciò, dall’articolo 936 sulle accessioni, sembrerebbe imposto!). Ed é infine questo elemento, che porta a dare soluzioni anomale a certe questioni, che nascono nei rapporti tra coniugi e terzi. E con ciò in particolare mi voglio riferire alla questione, che nasce quando uno dei coniugi stipula un contratto con un terzo: la signora Rossi va nel negozio del mobiliere Parodi e vi compra un mobile: dell’obbligo da lei contratto di pagare il prezzo risponde anche il signor Rossi? Ecco il problema su cui riterrei opportuno spendere ancora qualche parola, se sei d’accordo. Disc. Certo che lo sono, l’argomento é interessante. Doc. Allora diciamo subito che, alla domanda propostaci, sia la Giurisprudenza che la Dottrina, di massima, danno una risposta affermativa – questo, beninteso, quando la signora Rossi abbia assunto con tutta evidenza l’obbligo per soddisfare esigenze familiari. La Giurisprudenza prevalente giustifica tale risposta con una doverosa tutela dello affidamento: Parodi ha diritto di chiamare a rispondere del pagamento del prezzo anche il marito della signora Rossi, perché, la qualità di moglie della Rossi, non poteva non indurlo a credere, che questa agisse col consenso e, quindi, con la procura del marito.
La Dottrina prevalente si richiama invece agli articoli 186, 190, che disciplinano il regime della comunione dei beni. Articoli da cui, in sintesi, risulta che, se uno dei coniugi, la signora Rossi dell’esempio, fa un acquisto, più in genere, stipula un contratto (di vendita, di prestazione d’opera, d’appalto...) “nell’interesse della famiglia”, degli obblighi, da tale contratto nascenti, rispondono, in prima battuta (art. 186), i beni in comunione, e, in seconda battuta (cioé se i beni della comunione non sono a ciò sufficienti), i beni personali, dell’altro coniuge, del signor Rossi nell’esempio fatto, sia pure solo “nella misura di metà del credito” (il prezzo era di tre mila? il terzo creditore, il Parodi del nostro esempio, potrà soddisfarsi sui beni del signor Rossi solo per 1500). Disc. A me veramente pare che le giustificazioni portate dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina non giustifichino un bel niente. Infatti, la tutela, dell’affidamento di Parodi nel fatto che la signora Parodi agisse anche in nome del marito, si giustificherebbe solo se questi con un suo comportamento (metti accompagnando e assistendo alle trattative della moglie col mobiliere) vi avesse dato causa: in tal caso, forse sì, si potrebbe parlare, se non di una solidarietà del marito nell’obbligazione assunta dalla moglie, di un suo obbligo risarcitorio. Per quel che riguarda poi la “giustificazione” portata dalla Dottrina, mi basta notare che, se il signor Rossi ha rifiutato il regime della comunione dei beni e ha optato per quello della separazione dei beni, é stato appunto per sottrarsi alle norme che disciplinano il primo: e allora perché gliele vogliamo applicare contro?! Doc. La critica, che tu muovi alla Giurisprudenza é certamente pertinente. Quella, invece, che muovi alla Dottrina mi pare che non colga nel segno. Tanto per cominciare, non tiene presente che, le disposizioni di legge che ti ho richiamato, sono, sì, inserite nella sezione dedicata al regime della comunione legale, ma si applicano a favore dei terzi, a prescindere che essi credano o no, il coniuge (con cui hanno stipulato un contratto), in regime di comunione; di più, si applicano anche se il terzo, perfetto analfabeta nel mondo del diritto, nulla sa di regimi in comunione e di regimi in separazione dei beni. Questo non fa pensare che il legislatore ritenga meritevole di tutela l’interesse del terzo, del nostro bravo negoziante Parodi, non per il fatto che la signora Rossi é in regime di comunione col il signor Rossi, ma semplicemente perché ha un rapporto di coniugio col signor Rossi? Questo, non fa, cioé, pensare che gli articoli 186 e 190, ancorché inseriti nella sezione dedicata al regime della comunione, si applicano, a prescindere che la signora Rossi sia in tale
regime o no? Io direi di si. Disc. Va bene, questa tua osservazione può anche essere giusta, ma non basta a superare, la fondamentale obiezione all’applicabilità degli articoli 186 e 190, data dal fatto che il Rossi, il marito della coniuge che ha fatto l’acquisto, se ha detto “sì” al regime di separazione dei beni e ha detto “no” al regime di comunione, é perché ha voluto rifiutare di sottomettersi con ciò alle norme che disciplinano questo secondo regime. Doc. No, ha voluto rifiutare di sottomettersi a quelle, delle norme sulla comunione, che dispongono la comproprietà, (melius, la caduta in comunione) degli acquisti, ma non ha voluto rifiutare gli articoli 186, 190 – e ciò per la semplice ragione che non li poteva rifiutare, in quanto, questo é il punto, tali articoli, anche se inseriti nella normativa che riguarda il regime della comunione dei beni, esprimono un principio generale, come tale applicabile, nei rapporti tra i coniugi e i terzi, qualsiasi il regime da loro adottato. Tanto é vero che, torno a fartelo notare, tali norme si applicano tanto se il terzo sia a conoscenza del regime, che regola i rapporti patrimoniali del coniuge (che con lui contratta), tanto che non lo sia. Disc. Qui fermiamoci, perché uno di noi due ha la testa troppo dura per...dare ragione all’altro. Sezione quarta: La comunione legale.
Lezione IX: L’oggetto della comunione legale. Doc. Dobbiamo ora trattare della comunione legale, regime che trova la sua disciplina nella sezione terza, artt. 177 e segg. E, per cominciare, parliamo dei beni che cadono in questo tipo di regime. Disc. Cioé dei beni che i coniugi hanno in comunione. Doc. No, e questo é un equivoco da chiarire subito: i beni in comunione legale (ai sensi degli artt. 177 e segg), sono cosa ben diversa dei beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt.1100 e segg). Certo, i coniugi ben possono avere beni in comunione (ai sensi degli artt. 1100 e segg.) e, addirittura, come possono avere beni
personali accanto a dei beni in comunione legale (ti ricordi quel che noi si era detto in una precedente lezione?), così, accanto a dei beni in comunione legale, possono avere beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt. 1100 e segg.), però i primi vanno tenuti ben distinti dai secondi, dato che, come vedremo, i poteri di amministrazione e di disposizione, e i poteri di esecuzione, che gli artt. 177 e segg. riconoscono rispettivamente ai coniugi e ai terzi creditori, sono diversi da quelli che loro riconoscono gli artt. 1100 e segg.. Insomma, il concetto di bene oggetto di una comunione ordinaria, é ben diverso da quello di bene oggetto di una comunione legale. Disc. Ma, se così é, e se, come é inevitabile, nel prosieguo della trattazione ci dovremo porre la questione, se questo o quel bene sia “oggetto della comunione legale”, non sarebbe logico cominciare a dire quali poteri hanno i coniugi e i terzi creditori rispetto a un “bene oggetto di comunione legale”? Altrimenti rischiamo di trovarci nella stessa situazione di quel studente, che doveva dire se un dato fiore era o no una gardenia, quando ancora nessuno gli aveva spiegato che tipo di fiore é la gardenia Doc. Seguire quest’ordine nella trattazione forse sarebbe logico; ma tale ordine noi non seguiremo perché, tutto sommato, valutati i pro e i contro, riteniamo più utile alla comprensione dell’argomento seguire l’ordine adottato dal Legislatore; il quale, appunto, prima, parla dei beni oggetto della comunione e, poi, dei poteri e diritti che su di essi hanno i coniugi e i terzi creditori. Del resto, ti sarà facile seguire i discorsi che farò, solo che tu temporaneamente tenga presente questa equazione: bene in comunione legale = a bene di cui un coniuge non ha quella libera disponibilità, che ha invece sui beni rientranti nel suo patrimonio personale. Disc. Se così, cominciamo a dar lettura dell’articolo con cui si inizia la sezione, l’art. 177, che recita: “Costituiscono oggetto della comunione legale: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni....... Doc. No, fermati alla lettera a) e al primo comma, dato che le altre lettere del primo comma e il secondo comma costituiscono solo delle deroghe o dei chiarimenti alla regola espressa nella disposizione contenuta nella lettera a). Disposizione che peraltro da sola già ci dice il limite e la ratio del regime che dobbiamo esaminare
Cominciamo a dire del “limite”: la comunione legale non ha per oggetto tutti i beni dei coniugi, ma solo i beni da loro acquistati dopo la costituzione della comunione stessa: se Caio e Caia, al momento della costituzione della comunione, avevano in proprietà (o in usufrutto.. .insomma, per usare un termine non tecnico ma spero chiarificatore, “possedevano”) l’uno, il bene A, e, l’altra, il bene B, ebbene il bene A e il bene B continuano, anche dopo, a essere di loro esclusiva proprietà, non cadono in comunione; in questa verrebbe a cadere, invece, l’appartamento, metti, che Caio o Caia separatamente, oppure, Caio e Caia congiuntamente, acquistassero dopo la costituzione della comunione. Disc. Ma non é illogico questo limite, questo limitare la comunione solo agli acquisti? Infatti, se veramente il matrimonio fosse una “comunione spirituale e materiale” tra i coniugi, come abbiamo visto lo vuole il Legislatore,sarebbe logico che i coniugi mettessero tutti i loro beni in comune. Doc. Quel che tu ritieni logico, il Legislatore non l’ha ritenuto opportuno, per timore che le persone, trovando troppo pesante rinunciare alla proprietà di tutti i loro beni, rinunciassero tout court a quel regime di comunione legale, a cui altrimenti si sarebbero di buon grado sottomessi. Disc. Bene, hai detto del “limite”, ora dì della ratio dell’istituto. Doc. Come risulta dai lavori preparatori, la ratio, lo scopo dell’istituto (più in particolare, lo scopo di far cadere in comunione gli acquisti) é quello di tutelare il coniuge “debole”, che nella nostra società era, e sia pure in misura minore ancora é, la donna – la donna a cui la Società al momento del matrimonio, imponeva, e ancora sia pur in minor misura impone, di rinunciare a un impiego o alla professione, la donna che nella casa, nel negozio, nell’azienda del marito svolgeva, e ancora spesso svolge, un’attività silenziosa, ma preziosa, per permettere al marito quei guadagni di cui però rischia di non avere nessuna parte. No, questo non é giusto, ha ritenuto il Legislatore, e, con la normativa di cui ora ci dobbiamo occupare, ha voluto porre rimedio a tale ingiustizia, stabilendo che gli acquisti fatti durante il matrimonio (melius, durante la vigenza del regime di comunione), e quindi (presumibilmente) frutto della paritaria collaborazione dei due coniugi, spettino al cinquanta per cento a ciascuno di essi. Disc. Ed effettivamente non sarebbe per nulla giusto che non avesse la metà dei
guadagni il coniuge che non ha svolto, sì, direttamente l’attività fonte di lucro, ma indirettamente l’ha resa al 50% possibile (la moglie che prepara al marito il pasto buono e caldo che gli darà le forze di vincere le sue battaglie nell’arengo economico). Questo, però, se il successo dell’attività lucrativa, fosse effettivamente dovuto al cinquanta per cento alla collaborazione del coniuge “debole”; il che non può certo sempre dirsi: Berlusca é un “genio degli affari” e ha accumulato una ricchezza: perché metà di questa dovrebbe spettare alla moglie che, mentre lui sgobbava e rischiava, passava il tempo a giocare a canasta?! Doc. Quel che dici può essere giusto; ma in subiecta materia vale più che mai il brocardo adducere inconvenientem non est argumentum: l’applicazione di ogni legge può in certi casi rivelarsi ingiusta, ma ciò non autorizza il giudice a non applicarla. Disc. Però, potrebbe essere la stessa legge ad autorizzare il giudice a una intelligente deroga nei casi in cui ciò corrisponde a giustizia. Doc. Come si può pensare di gravare i nostri Tribunali – che già rischiano di cadere sotto il peso di un carico giudiziario opprimente – dell’ulteriore incombente di accertare se Caia ha dato, o no, una collaborazione valida e quanto valida al marito? Ciò non si può neanche pensare! D’altra parte, il fatto stesso che i coniugi accettino che i loro rapporti patrimoniali siano regolati da un regime che contempla la caduta in comunione degli acquisti (e di conseguenza, come vedremo meglio in seguito, la divisione a metà degli acquisti all’estinguersi di tale regime), non é già una prova che essi ritengono che, l’efficacia della loro collaborazione nella produzione di tali acquisti, sia paritaria? e chi, di loro, miglior giudice? Disc. Se tale é la ratio dell’istituto, se, cioé, il legislatore intende far cadere in comunione i beni, che presumibilmente sono frutto della collaborazione dei coniugi, penso che si debba concludere che cadono in comunione tutti gli acquisti avvenuti dopo la costituzione della comunione stessa (rimanendo così esclusi dalla comunione solo quei beni che i coniugi, al momento di tale costituzione, già possedevano). Doc. In realtà non é così: il legislatore esclude dalla comunione (dalla comunione tout court o dalla così detta comunione immediata – concetto che poi ti chiarirò)anche beni che, a rigore, dovrebbero presumersi frutto della collaborazione dei coniugi.
Disc.Che cos’é che giustifica per il Legislatore questa deroga alla regola da lui enunciata nell’articolo 177? Doc. La necessità di non mortificare l’iniziativa economica dei coniugi e di non comprimere la loro personalità. Pertanto, se volessimo racchiudere in una formula, un criterio per stabilire quando un bene va fatto rientrare nella comunione legale, potremmo dire che: “Un bene va fatto rientrare nella comunione legale, quando: A) rappresenta una nuova ricchezza e una nuova ricchezza prodottasi dopo la costituzione della comunione; B) é frutto di una attività lavorativa, sia pure inteso quest’ultimo termine in senso lato; C) la sua destinazione alla comunione non viene a mortificare l’iniziativa economica del coniuge (alla cui attività va direttamente dovuta la sua acquisizione); D) la sua destinazione alla comunione non viene a comprimere la personalità del coniuge (che lo detiene)”. Disc. Ti confesso che la formula da te proposta mi risulta un po’ vaga, ma spero che assumerà concretezza nel commento delle varie disposizioni di legge. Cominciamo quindi dalla lettera a) art. 177, che ho già letta: che puoi aggiungere a suo commento? Doc. Prima di tutto devo segnalare un lapsus in cui il Legislatore é caduto: là dove é scritto “acquisti compiuti........ durante il matrimonio”, deve leggersi “acquisti compiuti....durante la vigenza del regime di comunione legale”. E infatti, se Caio e Caia: il primo gennaio 2005 si sposano, adottando il regime di separazione dei beni; nel 2006 acquistano un appartamento; e nel 2007 optano per il regime di comunione legale, non é che l’appartamento acquistato nel 2006 cade in comunione: ciò é pacifico, come é pacifico che il Legislatore sia caduto in un lapsus. Disc. E la esclusione (dalla comunione) dei “beni personali” come si spiega? Doc. Secondo alcuni, con una precisazione alla....lapalisse, che il Legislatore non si é potuto trattenere dal fare: insomma il legislatore avrebbe sentito il bisogno di chiarire che “sono esclusi dalla comunione, i beni che già Egli nell’articolo 179.....esclude dalla comunione”. Però, l’interpretazione, che porta ad attribuire al Legislatore un’assurdità, va accettata
solo come extrema ratio, cioé quando non sia possibile altra interpretazione; che nel caso é invece ben possibile: e infatti si può interpretare l’esclusione voluta dal Legislatore come riferita a quelle “addizioni” (nel senso dell’articolo 1593) o “accessioni” (nel senso degli artt. 934 e segg), che un coniuge potrebbe fare sui suoi “beni personali”: pensa a Caio che nella casa, che già possedeva al momento della costituzione della comunione, innalza un altro piano o costruisce una veranda o più semplicemente installa un idromassaggio. Disc. Come si giustificherebbe questa deroga? Doc. Si giustificherebbe con la difficoltà che si avrebbe, quando la comunione fosse sciolta e si dovesse procedere alla divisione dei beni, ad operare la divisione rispetto alla “addizione” o “accessione” (certo il piano innalzato da Caio non lo si può attribuire altro che a Caio, ma come determinarne il valore? questa é cosa per nulla facile e che comunque rappresenta una complicazione, che il Legislatore vorrebbe, secondo l’interpretazione proposta, evitare). Detto questo, é opportuno, per ragioni di più sistematica esposizione della materia, per ora saltare la restante parte dell’articolo 177, e dare lettura della lettera a) dell’articolo 179 (articolo che porta la significativa rubrica di “Beni personali”). Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di altro diritto reale di godimento”. Doc. La categoria di beni personali prevista dalla disposizione ora letta é certamente la più ovvia: data la ratio dell’istituto della comunione, é ovvio che da questa vengano esclusi i beni, che già risultavano acquisiti nel patrimonio di un coniuge “prima del matrimonio” (rectius, prima della costituzione della comunione stessa): infatti, certamente tali beni non sono dovuti alla collaborazione dell’altro coniuge. Se mai, risulta incomprensibile perché il legislatore limiti tale esclusione ai solo diritti reali e per di più ai soli diritti reali di godimento. Perché mai Caio dovrebbe trovare ostica la cosa di essere privato della proprietà personale su quell’appartamento di via Roma che ha il valore di solo 100, tanto ostica da fargli rifiutare il regime della comunione legale (non si dimentichi che é proprio il timore, che un coniuge rinunci tout court all’adesione al regime della comunione, a spingere il Legislatore a limitare i beni da far cadere in questa!), e senza batter ciglio dovrebbe invece aderire al regime della comunione, anche se l’aderirvi comporta la caduta in
comunione di quel suo credito (metti del credito che vanta verso il Banco di Roma, per un conto corrente accesovi) che ha il valore di ben duecento? Tutto ciò é incomprensibile, tanto incomprensibile da imporre una interpretazione restrittiva della norma. Disc. Chiarito questo, passiamo alla lettura della lettera b) sempre dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio, per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non é specificato che essi sono attribuiti alla comunione”. Doc. Chiaro perché il Legislatore non fa rientrare nella comunione tali beni: se lo zio Beppe ha lasciato in eredità a Caio il bel appartamento di via Veneto, certo questo é “nuova ricchezza” che si aggiunge al patrimonio di Caio, ma é anche certo che tale “nuova ricchezza” non può essere attribuita alla attività (lavorativa!) di Caio - attività lavorativa resa possibile dalla collaborazione di Caia. Disc. Ma Caia avrebbe potuto contribuire, a convincere lo zio Beppe a lasciare l’appartamento, rendendosi a lui simpatica. Doc. Certamente, sì; ma ciò non rileverebbe per il Legislatore, che prende in considerazione la collaborazione dell’altro coniuge (per intenderci, del “coniuge debole”), solo in quanto questa collaborazione si esprime in una attività lavorativa: insomma in mente Legislatoris c’é, a spingerlo a ritenere giusta la comunione degli acquisti, non l’immagine di Caia, che, con delle coccole, ridà nuove energie al marito, ma l’immagine di Caia, che piega la schiena per lavare il pavimento e farlo trovare pulito al marito. Disc. Comunque, se lo zio Beppe avesse lasciato il suo appartamento sia a Caio che a Caia, l’appartamento sarebbe caduto nella comunione legale. Doc. Per nulla: esso sarebbe caduto solo nella comunione ordinaria di Caio e Caia: perché entrasse nella comunione legale, sarebbe occorso che lo zio Beppe “specificasse”, nella scheda testamentaria, la sua precisa intenzione che il bene cadesse in comunione legale. A questo punto, salta per il momento le lettere c) e d) e passa a leggere, prima, la lettera e) e poi la lettera f). Il motivo di ciò te lo chiarirò dopo.
Disc. Leggo la lettera e): “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali: e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa”. Doc. Se Caio riceve 100 da Sempronio, a titolo di risarcimento del danno da questi causatogli, metti, incendiandogli la casa, é chiaro che tale somma non aumenta per nulla il patrimonio di Caio, non costituisce per lui “nuova ricchezza”, ma solo una reintegrazione della “vecchia ricchezza”. Questo ragionamento che fila bene per il risarcimento alle cose, diventa invece zoppicante quando é riferito al risarcimento alla persona per la perdita della sua capacità lavorativa. Disc. Perchè? Doc. Perché quei 100 che Caio riceve, metti, nel 2005, a titolo di risarcimento della sua capacità lavorativa, in realtà rappresentano la capitalizzazione di quel reddito lavorativo di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2006, di quel redditto ancora di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2007 e così via. Ora “i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge”, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 177, anche se non cadono subito in comunione, vi cadono quando questa si scioglie, cioé per usare una terminologia tecnica, non cadono in “comunione immediata”, ma pur sempre cadono in “comunione de residuo”. Disc. Quindi ci si sarebbe dovuti aspettare che il Legislatore facesse cadere tale risarcimento, non nel patrimonio personale di un coniuge, ma nella “comunione de residuo”: perché non lo fa? Doc. Probabilmente per evitare la complicazione dei calcoli a cui ciò darebbe luogo: rifacciamoci all’esempio prima fatto: Caio, avuto nel 2005 un risarcimento di 100, mette questi 100 in banca e, dopo due anni, nel 2008, la comunione si scioglie (metti, perché Caio si é separato da Caia): certamente non sarebbe giusto che egli versasse tutti i 100: infatti, come egli non deve versare i guadagni che farà in futuro (dopo lo scioglimento della comunione: cioé, nel 2008, nel 2009..), così non é giusto che versi quella parte dei “100”, che rappresentano i suoi guadagni futuri: ma quale parte del risarcimento, da lui ottenuto nel 2005, rappresenta effettivamente i guadagni post2007? Questo può essere difficile determinarlo, ed é probabilmente proprio la considerazione di tale difficoltà, che ha portato il Legislatore a non far rientrare nella “comunione de residuo”, le somme avute a titolo di risarcimento della perdita della
capacità lavorativa. Sed de hoc satis: passa a leggere la lettera f). Disc. Lettera f) dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge. f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”. Doc. Chiaro che, se Caio vende il bene personale A, che vale 100, e con il ricavato acquista il bene B, che vale ancora 100, egli non fa altro che sostituire nel suo patrimonio il bene B al bene A; e l’acquisto del primo, quindi, non rappresenta una “ricchezza nuova”, che si aggiunge alla “vecchia”, e che, pertanto, vada fatta cadere in comunione. Disc. Ma se Caio riesce a “scambiare” il bene personale A, che, al momento della costituzione del regime della comunione, valeva 100, con il bene B, che vale 200 (questo o perché il bene personale A col passare degli anni ha raddoppiato il suo valore o perchè l’abilità di Caio é riuscita a convincere la controparte a...scambiare il suo bene con un altro che ne vale la metà)? in tal caso, la “nuova ricchezza” (la nuova ricchezza rappresentata dal plus-valore di B rispetto ad A, quindi nell’esempio = a 200 – 100), che indiscutibilmente l’acquisto di B arreca al patrimonio di Caio, va fatta cadere in comunione? Doc. La risposta che viene dalla lettera della norma é, no; e tale risposta é ben giustificata: in primo luogo, dalla difficoltà di provare il disvalore tra A e B; in secondo luogo, dalla considerazione che, pur se vi fosse l’acquisizione di un plusvalore, questa acquisizione non potrebbe dirsi dovuta ad un’attività lavorativa di Caio, che la collaborazione di Caia avrebbe resa possibile. (Diversa sarebbe la soluzione nell’ipotesi – ma non é l’ipotesi che il Legislatore fa nella norma che abbiamo in esame – che Caio, di professione facesse l’agente immobiliare e la sua attività lavorativa proprio consistesse nell’acquistare immobili, tenerli un po’, e, poi, rivenderli a maggior prezzo). Disc. Caio ha acquistato il bene B con il prezzo della vendita di A, però, al momento dell’acquisto, ha omesso di dichiarare, che i soldi, per questo acquisto, gli venivano dalla vendita di A: in tal caso il bene B cade in comunione (e questo senza dar la possibilità a Caio, ripresosi dal lapsus o dalla distrazione, di fare, metti il giorno
dopo, quella semplicissima dichiarazione che impedirebbe la, da lui non voluta, caduta di B nella comunione): perché mai?! Doc. Perché vi é un’esigenza di certezza dei terzi, che il Legislatore non può esimersi dal soddisfare; e immediatamente, perché, già subito dopo l’acquisto di B, possono esservi creditori della comunione, che hanno necessità di sapere, se B rientra in questa, per decidere se possono soddisfarsi, o no, su B; già vi possono esserci potenziali acquirenti da Caio, che hanno necessità di sapere se B é, o no, un suo bene personale, per decidere se possono acquistarlo con il suo solo consenso (o se invece occorre loro ottenere anche il consenso di Caia). E questa esigenza di certezza il legislatore ritiene giusto di soddisfarla costruendo la presunzione (che peraltro é tutt’altro che infondata), che Caio abbia omesso di dichiarare, che il bene é stato da lui acquistato con il prezzo del trasferimento ecc.ecc., per la semplice ragione che voleva, al momento del suo acquisto (irrilevanti essendo suoi successivi revirements volitivi), che tale bene cadesse in comunione. Disc. Un’ultima domanda: se Caio vende un suo bene personale A, però non impiega la somma così ricavata per l’acquisto di un altro bene B, ma, metti, la deposita in banca, questa somma cade in comunione? Doc. No, essa resta sua personale; ciò si argomenta facilmente dal fatto, che, se, in un domani, Caio impiega tale somma nell’acquisto di un bene B, questo é considerato un suo bene personale. E, bada bene, poco importa che, tra il momento in cui Caio vende A e realizza quindi la somma e il momento in cui la impiega per l’acquisto di B, passino anche molti anni. La norma da noi ora commentata non pone limiti di tempo al nuovo acquisto, ma semplicemente recita “sono beni personali....i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento eccetera”. Certamente, più passa il tempo più potrà essere difficile per Caio la prova che il bene B é stato acquistato proprio con la somma realizzata con la vendita del bene A - ma questa é un’altra questione, che ci riserviamo di affrontare parlando dell’ultimo comma dell’articolo 179 in esame. Con questa osservazione abbiamo esaurito l’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, per la considerazione che esso non rappresenta “nuova ricchezza acquisita con la (presumibile) collaborazione dell’altro coniuge”. Dobbiamo ora passare all’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, nonostante sia lecita la presunzione che esso sia stato acquisito grazie alla collaborazione dell’altro coniuge. Cominciamo dalla lettura della lettera c) dell’articolo 179.
Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: e) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori”. Doc. Questa eccezione alla regola, che gli acquisti rientrano nell’oggetto della comunione, é giustificata da un’esigenza di tutela della personalità dei coniugi: l’equilibrio psicologico di Caio ne soffrirebbe, se egli non potesse contare, che, di certi beni, che gli sono particolarmente cari (la “sua” collezione di francobolli, il “suo” computer, la “sua” auto”....), egli solo può disporre; e come lo può ora, lo potrà anche domani, qualora la comunione si sciogliesse (ecco, perché i “beni strettamente personali”, non sono - come vedremo é invece per altri beni, quelli cadenti nella c.d. “comunione de residuo” - esclusi, sì, dalla comunione legale, ma per poi, al suo cessare, cadere nella comunione ordinaria con l’altro coniuge: il Legislatore parte dalla considerazione, che, la tutela della personalità di un individuo, richiede che gli si dia la sicurezza, che di certi beni egli, ed egli solo, potrà disporre, per sempre, anche dopo lo scioglimento della comunione). Disc. Ma in base a che criterio si individuano i “beni strettamente personali”? Doc. Questo é il punctum dolens: non é facile trovare tale criterio. Certo, non si potrebbero definire tali beni come quelli su cui il coniuge esercita un potere esclusivo di disposizione, per la semplice ragione che questo potere di fatto potrebbe essere il risultato di una prepotenza, che il Diritto non potrebbe convalidare: Rossi, padrepadrone, dice “L’auto comprata é mia e guai a chi la tocca”: gli altri familiari chinano la testa e marciano a piedi e Rossi viene ad avere l’uso esclusivo dell’auto. Sarebbe questa una buona ragione per riconoscergliene la proprietà e la proprietà esclusiva? Chiaro che no. Non resta allora che adottare, non essendocene altri migliori, il seguente criterio: un bene va considerato “strettamente personale” di un coniuge quando concorrono i due seguenti fattori: a)l’uso di fatto in maniera esclusiva di quel bene da parte del coniuge; b) la conformità al costume sociale di questo uso esclusivo. Di conseguenza, per rifarci all’esempio prima introdotto, non potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale del padre-padrone Rossi, perchè l’uso esclusivo che Rossi ne fa, costringendo tutti gli altri membri della famiglia ad andare a piedi, contrasta con il costume sociale (o, se più piace, con la morale familiare); mentre potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale di Bianchi, perché egli, ne usa, sì, esclusivamente,
ma in quanto la moglie ha un’altra auto con cui a suo piacimento può scarrozzarsi. Disc. Può essere considerato di uso “strettamente personale” anche un bene immobile? Doc. Sì, e questa risposta positiva si argomenta facilmente dal secondo comma dello stesso articolo 179, che stiamo ora esaminando. Naturalmente non é facile che ciò avvenga; e tuttavia può avvenire, specie nelle famiglie molto danarose: Paperon dei Paperoni si riserva l’uso esclusivo di un appartamentino a Parigi e la di lui consorte si riserva l’esclusiva disponibilità di un appartamentino a Londra. Disc. Rileva quale dei due coniugi ha acquistato il bene in “uso personale”? Per rifarci agli esempi prima fatti: l’auto del Bianchi, l’appartamentino di Paperon dei Paperoni si potranno considerare loro beni personali, anche se acquistati dalle loro consorti? Doc. Io ritengo, che, la considerazione che i beni personali continuano a essere considerati tali anche dopo lo scioglimento della comunione (Bianchi, separatosi dalla moglie, scioltasi la comunione, può portarsi via l’auto), imponga di aggiungere, ai due elementi da me già indicati come necessari per poter affermare la “personalità” di un bene, anche quello dell’acquisto del bene da parte del coniuge che ne fa esclusivo uso. Questo, che abbiamo ora esaminato, é l’unico caso di deroga, alla regola della caduta in comunione degli acquisti, motivata dalla tutela della personalità dei coniugi. Ben più numerosi sono i casi, di deroga a tale regola, motivati dalla tutela della iniziativa economica dei coniugi. Per cercare di spiegare come in mente legislatoris si giustifichino tali secondi casi di deroga, cominciamo con l’osservare come, la caduta in comunione degli acquisti, rappresenti sempre, in sé e per sé, un grave vulnus al potere di iniziativa economica dei coniugi; dato che la gestione dei beni in comunione rende, come vedremo, necessario per un coniuge il consenso dell’altro, e, indubbiamente, la subordinazione al consenso altrui, é la perfetta antitesi della situazione, che occorre perchè la iniziativa di una persona si sviluppi e si senta incoraggiata. Quindi, il legislatore cerca, appena che ciò diventa compatibile con gli scopi al cui raggiungimento l’istituto della comunione é funzionale, di limitare il danno conseguente a questo vulnus (danno non solo per i coniugi, ma per la società tutta, che ha bisogno che l’iniziativa dei suoi membri si esplichi al massimo!); e lo fa creando degli “spazi”,
delle “sfere” in cui l’iniziativa dei coniugi si può esplicare liberamente. Disc. Vediamo dunque le disposizioni che aprono tali “spazi”. Doc. La prima te la dà la lettera b) dell’articolo 177. Disc. Lettera b) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione”. Letta al contrario questa disposizione, se non sbaglio, significa: tu, coniuge, puoi, fino al momento dello scioglimento della comunione, percepire e gestire liberamente i frutti dei beni, che sono in tua proprietà (o in quanto erano già in tua proprietà al momento della costituzione della comunione o in quanto sono diventati di tua proprietà durante la comunione, ad esempio perché ereditati): solo al momento dello scioglimento della comunione dovrai versare in questa i frutti che, da te percepiti, non sono stati consumati”. Doc. Bravissimo:dieci e lode. Disc. Ma che senso ha versare dei beni nella comunione al momento in cui questa si scioglie? Doc. Effettivamente non ha nessun senso: si tratta di una fictio legislativa, che in realtà ha lo scopo di far cadere tali beni nella comunione ordinaria, che si viene a costituire sui beni, prima rientranti nella comunione legale, al momento del suo scioglimento. Lo vedremo meglio quando studieremo gli artt. 191 e segg. Quel che importa qui dire é, che i beni che restano, sì, nella disponibilità di un coniuge durante la comunione, ma che, per quanto ne residua al momento dello scioglimento di questa, in questa vanno versati, si dicono, con terminologia non saprei dire quanto felice e necessaria, costituire la “comunione de residuo” (mentre al contrario tutti gli altri acquisti cadono in “comunione immediata”). Quanto ora detto, vale sia per i beni contemplati dalla lettera b), che é ora oggetto del nostro esame, sia dalla lettera c), che prenderemo ad esaminare tra poco. Disc. Ma torniamo ad occuparci esclusivamente del disposto della lettera b): d’accordo, il Legislatore concede a Caio di poter disporre, senza il consenso di Caia, dei frutti dei suoi beni personali, per tutelare la sua libertà di iniziativa: ma perché il
Legislatore non sente eguale bisogno di tutelare la iniziativa di Caio, rispetto al bene B, che, da lui acquistato, é caduto in comunione? Doc. Perché, subordinare l’attività di gestione di Caio al consenso di Caia, non può portare, nel caso del bene comune B, gravi inconvenienti (dato che in tal caso anche Caia ha interesse che questa gestione ci sia e che sia una buona gestione: forse che, allo scioglimento della comunione, il bene B non le spetterà al 50 per cento?), mentre li potrebbe portare nel caso del bene personale A, dato che Caia, alla sua buona gestione, non é in fondo interessata (“Non si fanno le riparazioni al tetto di A, la casa minaccia di crollare? e a me, Caia, che importa? la casa A non é mica mia, é di Caio: pertanto i diecimila euro, che si sono ricavati come frutto della sua locazione, investiamoli nella riparazione di B, bene in comunione, e non di A”). Disc. Ho capito, il Legislatore dà a Caio la possibilità di disporre liberamente dei frutti, ben s’intende sia dei frutti naturali che civili, che dà il suo bene personale A, perché egli li possa impiegare al meglio in atti conservativi di A. Ma Caio potrebbe impiegare tali frutti, non solo per atti conservativi, ma anche migliorativi di A: metti, per sopraelevarlo di un piano, per ristrutturarlo, per dotarlo di un idromassaggio? Doc. Se ti ricordi, a questa domanda abbiamo già risposto positivamente commentando la lettera a) (in quel che dispone nella sua ultima parte), per cui non mi resta che rinviarti a tale commento. Qui voglio però sottolineare che, con il disposto di tale lettera a), il Legislatore, non solo deroga alla regola, contenuta nella prima parte della stessa lettera a), che gli “acquisti” cadono in “comunione immediata”, ma anche deroga alla regola, contenuta nella lettera c), che stiamo ora esaminando, secondo cui il “residuo” della gestione dei frutti (residuo che, negli esempi da te fatti, sarebbe dato dalle addizioni e migliorie da Caio eseguite) cade in comunione (“comunione de residuo”). Disc. Ma potrebbe Caio impiegare i frutti (i soldi ricavati dall’affitto del bene A o, ciò che é lo stesso, i soldi ricavati dalla vendita dei frutti naturali – le mele, le pere, l’uva...- che A ha prodotto), non per la conservazione o miglioramento di A, ma per altri scopi: metti per farsi un viaggio a Honolulu? Doc. Certamente, così facendo, tradirebbe le ragioni per cui il Legislatore gli ha dato la piena disponibilità dei frutti, dato che tali “ragioni” vorrebbero, che egli o
impiegasse tali frutti per la gestione dei beni, che sono in sua personale proprietà, o li versasse nella comunione. E’ problematico però (ed é un problema che si ripresenta anche a proposito dei beni “provento della attività separata” dei coniugi, beni di cui tra breve parleremo) se l’altro coniuge, Caia, abbia la possibilità di impedire gli abusi di Caio. Su tale possibilità – che é soprattutto possibilità di controllare la gestione di Caio – abbiamo già speso qualche riflessione parlando dell’obbligo di contribuzione (di cui all’art. 143), e, a quanto abbiamo detto in tale sede, rinviamo. Disc. E se Caio utilizzasse tali frutti (metti, nel tempo da lui accumulati) per acquistare un bene B? Doc. In tal caso un eventuale “tradimento” (delle “ragioni” legislative che sottendono alla lettera b) non avrebbe modo di realizzarsi: che questa fosse o non fosse l’intenzione di Caio, il bene B cadrebbe automaticamente in comunione. Disc.. Il Legislatore esclude dalla “comunione de residuo” i frutti percipiendi; e ciò significa che i grappoli d’uva, le mele, le pesche che pendono ancora dagli alberi (o gli “affitti” che debbono ancor essere incassati...) al momento dello scioglimento della comunione (metti, in seguito a una separazione o a un “divorzio”), rimangono in proprietà del coniuge che, del bene che li ha prodotti, é proprietario, di Caio, nei nostri esempi: perché il legislatore dispone in tal senso? forse perché ritiene ingiusto che l’altro coniuge, Caia, si avvantaggi di frutti alla cui raccolta non collaborerà? Doc. Non credo che sia per questo (dato che Caia, se anche non collaborerà nella raccolta delle mele, ha pur sempre collaborato nell’accudire al melo che le ha prodotte); penso piuttosto che il legislatore, escluda la caduta in comunione dei frutti percipiendi, per evitare la complicazione del calcolare quanta parte fare cadere in comunione di questi frutti (ché, chiaramente, farli cadere totalmente in comunione non sarebbe giusto, dato che pur sempre é vero che la loro raccolta peserà per spese e per fatica solo su Caio). Detto questo, passiamo all’esame del disposto della lettera c) sempre dell’articolo 177. Disc. La lettera c) recita: ““Costituiscono oggetto della comunione: c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”. Quindi letta al contrario, questa disposizione é come se dicesse al protagonista dei
nostri esempi, a Caio: “Tranquillo, Caio, i proventi del tuo lavoro - ch’esso consista nello dar di vanga o nel sudar sui libri o in qualsiasi altra attività – non li dovrai versare nella cassa che hai in comune con la tua coniuge Caia, ma ne potrai disporre liberamente: solo quel che ne residuerà al momento dello scioglimento della comunione, dovrai in questa versare”. Ho detto bene? Doc. Hai detto benissimo. E tanto sei bravo, che quasi non val la pena di ricordarTi che, con tale disposizione, il Legislatore mira a tutelare l’iniziativa economica in uno “spazio”, in cui é bene questa si esplichi con la massima libertà: lo spazio che ciascun coniuge riserva al suo lavoro: Caio I, che fa il dentista, Caio II, che fa l’agente immobiliare, perderebbero ogni incentivo alla loro attività, se, per disporre dei soldi guadagnati con questa (comprando, metti, il primo, un trapano e, il secondo, quel tal immobile) dovessero ottenere il consenso del coniuge. Disc. Ma vale anche per il disposto della lettera c), quel che abbiamo concluso in sede di interpretazione del disposto della lettera b)? voglio dire - come un bene B, acquistato da un coniuge con i frutti che danno i suoi beni personali, cade in comunione - anche un bene B, acquistato dal coniuge con i proventi della sua attività, cade in comunione? Doc. Bisogna distinguere: vedere se il bene, metti quello appartamento (o quel titolo azionario...) costituisce un investimento definitivo (l’avvocato, messi l’uno sull’altro duecentomila euro, li investe in un appartamento) oppure rappresenta solo la tappa, diciamo così, di un’operazione economica che deve proseguire (l’agente immobiliare che compra l’appartamento per rivenderlo): nel primo caso, il bene cade in comunione, nel secondo, no; ed é evidente perché, “no”: perché, il “congelare”, diciamo così, quell’appartamento facendolo cadere nella comunione, stopperebbe l’operazione economica intrapresa (nell’esempio,dall’agente immobiliare). Disc. E se Caio, i soldi guadagnati, non li utilizzasse per acquistare un bene, ma li depositasse in banca? Doc. Anche qui occorrerebbe vedere, se i soldi sono solo parcheggiati temporaneamente nel conto in banca per riservarsene l’utilizzo futuro per la propria attività, oppure no: solo nel secondo caso cadrebbero in comunione. Disc. Sarà ben difficile entrare nel cervello di Caio per vedere quali erano le sue
intenzioni nel fare il deposito in banca. Doc. Tanto difficile, che in pratica si può escludere che, i soldi depositati in banca da Caio, cadano in comunione. Disc. Che dire, se Caio investisse i soldi (“provento della sua attività separata”) nell’acquisto dei beni necessari per formare, strutturare un’azienda, ad esempio, per comprare, i macchinari, il capannone, i materiali necessari per far funzionare una fabbrica di vestiti? Doc. Questo sarebbe senz’altro uno dei casi in cui l’acquisto dei beni non può considerarsi la parte finale, bensì solo la tappa di un’operazione economica, che, nelle intenzioni del coniuge acquirente, deve proseguire e svilupparsi (é chiaro che Caio compra i macchinari ecc., non per lasciarli inutilizzati, ma per servirsene per l’esercizio di un’attività imprenditoriale): quindi, sarebbe da escludere che tali beni cadano in “comunione immediata”, e sarebbe da ritenere che Caio ne possa disporre liberamente (beninteso, con l’obbligo di versare nella comunione, quel che ne resta al momento dello scioglimento di questa: cioé tali beni andrebbero considerati, in comunione, sì, ma solo in “comunione de residuo). Questa conclusione, a cui già si giunge in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177, trova conferma chiara ed esplicita nell’articolo 178, che ti prego di leggere. Disc. Art. 178: “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Doc. Come vedi, il legislatore si riferisce a casi omologhi a quello da te ipotizzato: il caso di un coniuge che, per esercitare un’impresa (metti l’impresa di fabbricazione di vestiti) acquista “dopo il matrimonio” i beni a ciò necessari (“i beni destinati all’esercizio di tale impresa”, di cui parla la norma); il caso di un coniuge che, esercitando un’impresa, da lui già iniziata prima del matrimonio, dopo il matrimonio la “incrementa” (aumentando i beni destinati al suo esercizio, ad esempio comprando nuovi e più moderni macchinari, o semplicemente aumentandone, con la sua buona gestione, il c.d. “avviamento”); ebbene quale sorte riserva il Legislatore ai beni così acquistati? Quella di cadere, non in “comunione immediata”, ma solo in “comunione
de residuo”. Recita infatti l’articolo: i beni destinati all’esercizio dell’impresa ecc.....e egli incrementi dell’impresa ecc....si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Come vedi, la soluzione adottata dal Legislatore, si sovrappone alla conclusione a cui noi eravamo giunti, in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177. Ciò significa in pratica che Caio, il quale ha acquistato dei beni per intraprendere un’attività imprenditoriale, potrà disporne (vendendoli, dandoli in locazione ad altri ….) con assoluta sua discrezione, senza dover chiedere il consenso di Caia; solo al momento dello scioglimento della comunione, perderà tale piena disponibilità dei beni e dovrà, in questa, conferirli (melius, dovrà conferire, nella comunione, l’azienda che, come tu sai, costituisce un quid pluris rispetto alla somma dei beni che la costituiscono). Disc. E se alcuni di tali beni fossero andati distrutti o fossero stati venduti? Doc. Ovvio, in tal caso dovrà conferire i beni o il prezzo residuo. Disc. Ma, se ho ben capito, ciò in pratica verrebbe a significare la divisone di tali beni, con Caia; il che vale a dire, la disintegrazione della azienda da lui, forse con passione e genialità, costruita: un disastro per il nostro Caio. Doc. Eh, sì, la soluzione adottata dal Legislatore é severa per il coniuge-imprenditore; e val la pena di anticipare che non é altrettanto severa verso il coniuge-professionista: questi, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 179, allo scioglimento della comunione, non perde la piena disponibilità dei beni (armadi, computers...) da lui acquistati per lo svolgimento della sua professione (in quanto di tali beni l’articolo 179 gli riconosce la “proprietà personale”). Disc. Penso che il povero Caio dovrà versare in “comunione de residuo” (cioé, in pratica, dividere con Caia) anche i guadagni da lui conseguiti con l’esercizio dell’attività imprenditoriale. Doc. Certamente; ma questo, non per l’articolo 178, ma per la lettera c) dell’articolo 177. Disc. Tutto ciò sarebbe ancora accettabile, nel caso che, come nell’esempio da me inizialmente fatto, i “beni destinati all’impresa” fossero acquistati col “provento dell’attività separata” di Caio; ma in realtà l’articolo 178 fa di ogni erba un fascio e
non distingue questo caso da quello, che meriterebbe una soluzione ben diversa, di Caio che acquista i beni con soldi di sua personale proprietà (metti, soldi che aveva in banca prima di sposarsi). Doc. In effetti ciò é inammissibile, perché illogico: che logica c’é che Caio, se acquista, con i soldi che aveva prima del matrimonio, l’immobile A, ne divenga esclusivo proprietario (idest, l’immobile non cada in comunione) e, se acquista, sempre con soldi che aveva prima del matrimonio, macchinari per la sua azienda, questi cadano invece in comunione, sia pure de residuo?! Pertanto, io ritengo che sul punto l’articolo 178 vada assoggettato ad un’interpretazione restrittiva, nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda o degli “incrementi” acquistati con soldi, che sicuramente il coniuge aveva prima del matrimonio (in tale conclusione confortato da un argomento tratto dall’ultimo comma dell’articolo 177, al cui prossimo commento debbo rinviare). Disc. Che dire nel caso di Caio e Caia, che cogestiscono insieme un’impresa? Doc. Questo lo vedremo commentando la lettera d) e l’ultimo comma dell’articolo 177. Cominciamo con la lettura della lettera d). Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.” Doc. Mettiamo che Caio e Caia “dopo il matrimonio” (melius, dopo la costituzione del regime di comunione legale), decidano di gestire insieme un’impresa edile; ebbene, se i beni utili all’esercizio di tale impresa sono stati acquistati (non importa se da Caio o da Caia o da Caio e Caia insieme) “dopo il matrimonio”, tali beni cadono in comunione. Si badi, non in “comunione de residuo”, com’é nella previsione dell’articolo 178 or ora commentato, ma in “comunione immediata”. Del resto ciò é logico: il procrastinare, la caduta di certi beni in comunione, al momento dello scioglimento di questa, serve per permettere a un coniuge di disporre liberamente di tali beni senza dover sottomettersi al consenso dell’altro; quindi diventerebbe un vero non-senso nel caso di Caio e Caia, che, accettando di cogestire l’impresa, con ciò dimostrano di accettare di buon grado di sottomettere le loro iniziative al reciproco consenso.
Disc. E se Caio, solo soletto, dopo il matrimonio, inizia, acquistando i beni a ciò utili, un’attività imprenditoriale e, dopo qualche tempo, prende a cogestirla con Caia? Doc. La soluzione non cambia: dal momento in cui Caio accetta la cogestione di Caia, i beni (che prima erano in “comunione de residuo) vengono a cadere in “comunione immediata”; ed anche qui la cosa é logica, perché dal momento in cui Caio accetta la cogestione, dimostra con ciò stesso di accettare di sottomettere al consenso di Caia le decisioni relative all’impresa e, in primis, quelle che attengono alla disposizione dei beni dell’azienda: quindi un non-senso e una vera contraddizione in termini sarebbe concedergli di prendere tali decisioni senza...sottometterle al consenso di Caia (ché questo sarebbe il significato, lo abbiamo visto, del far rientrare i beni de quibus nella “comunione de residuo” e non nella “comunione immediata”). Disc. E nel caso che Caio e Caia, “dopo il matrimonio”, inizino a cogestire un’impresa, però, dopo un po’ di tempo, uno, metti Caia, smetta di interessarsi a tale impresa (perché Caia, metti, vuol fare solo la casalinga), i beni dell’azienda continuano sempre ad essere soggetti al regime della comunione legale, con la conseguenza che Caio, anche se solo soletto ora ha la responsabilità dell’impresa, deve, per disporre di tali beni, dipendere dal consenso di Caia?. Doc. Sì, é un po’ assurdo, ma é così; a meno che di comune accordo Caio e Caia decidano il contrario. Ciò si argomenta dal capoverso dell’articolo 191, che recita: “Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’art. 177 lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162”. Disc. Penso che, come i coniugi divengono (in pratica) comproprietari al 50 per cento dei beni dell’azienda, anche al 50 per cento si dividano gli utili che dà l’impresa. Doc. Sul punto il legislatore non é chiaro, ma fa pensare che tale sia la soluzione da lui voluta, il fatto che (con una certa confusione) nel secondo comma venga a parlare (come vedremo) di “comunione degli utili”, come conseguenza della cogestione di una “azienda”; ora é vero che il secondo comma si riferisce, a una azienda costituita prima del matrimonio, ma chiaramente la soluzione adottata per la azienda costituita “prima”, non può non valere anche per la azienda costituita “dopo” il matrimonio.
Disc. Però la divisione degli utili al 50 per cento, giusta, se Caio e Caia contribuiscono al 50 per cento alla gestione, mi pare che diventi ben ingiusta nel caso in cui l’apporto a questa sia diseguale: se Caia é “produttiva” al 90 per cento e Caio solo al 10 per cento, perché mai questo deve prendersi....la metà della torta e non accontentarsi di solo un suo decimo? Doc. De iure condendo potresti avere ragione; de iure condito....hoc iure utimur. Tieni però presente che, almeno a mio parere, nulla impedisce ai due coniugi di stipulare un contratto di società, che preveda una diversa e più equa divisione degli utili. Disc. Ma, se gli utili cadono in comunione, ciò anche significa che, del provento del loro lavoro nell’impresa cogestita, i coniugi non potranno disporre autonomamente: ad esempio, Caio non potrà utilizzare, senza il consenso di Caia, tali utili per comprarsi un vestito o...le sigarette. Doc. Io non sono sicuro che si sia forzati ad accettare tale...drammatica situazione. Prima di tutto, anche la disposizione del secondo comma può essere assoggettata ad un’interpretazione restrittiva, che porti a concedere a ciascun coniuge la piena disponibilità della parte di utili che gli spetta, né più né meno di come avrebbe la piena disponibilità del provento di una attività lavorativa, che svolgesse presso un terzo qualsiasi. In secondo luogo, concesso e non ammesso che gli utili cadano in comunione, a me sembra che non vi sia nessuna norma che neghi ai coniugi di dividere i soldi, in questa, caduti e, quindi, anche i soldi che rappresentano l’utile che dà l’impresa da loro gestita in comune. Disc. Ma quando si può parlare di effettiva cogestione di un’azienda? Si può dire che Caia, la quale aiuta il marito nell’azienda facendo la dattilografa, cogestisce con lui l’impresa? Doc. Certamente, no: vi é cogestione quando entrambi i coniugi si riconoscono reciprocamente il potere di prendere le decisioni relative alla gestione dell’impresa: le decisioni, se vendere a 100 o a 50, se assumere, o no, del personale, se licenziare, o no, Pinco Pallino e così via. Disc. Passiamo ora all’esame del secondo comma, che recita: “Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli interessi”.
Doc. La fattispecie, che il Legislatore disciplina in questa norma, é quella di Caia, che cogestisce un’impresa col marito Caio, nel caso l’azienda, cioé il complesso dei beni necessari per l’esercizio di tale impresa, sia stato acquistato da Caio “anteriormente al matrimonio”. In un tal caso, é escluso che i soldi necessari a tale acquisto siano stati guadagnati da Caio grazie alla collaborazione di Caia (appunto perché essi sono stati guadagnati “anteriormente al matrimonio”, forse addirittura in un tempo in cui Caio e Caia neanche si conoscevano!), pertanto non vi é ragione di fare cadere l’azienda (acquistata da Caio) in comunione; e in effetti il legislatore non ve la fa cadere. La soluzione adottata dal Legislatore, come si vede, é ovvia, ma importante, perché ci permette di argomentare un’interpretazione restrittiva della disposizione della lettera d) da noi prima esaminata. Disc. In che senso? Doc. Nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda, ancorché sia stata acquistata “dopo il matrimonio”, quando il suo acquisto é stato sicuramente fatto con soldi, che Caio aveva già prima del matrimonio. Lo stesso mutatis mutandis va ripetuto per gli “incrementi” dell’azienda intervenuti “dopo il matrimonio”: nonostante la lettera della norma (ci riferiamo con ciò alla norma del secondo comma), se Caio “dopo il matrimonio” acquista dei macchinari per l’azienda con soldi suoi personali (ma non costituenti “provento della sua attività separata”, perché in tal caso si dovrebbero invece applicare le conclusioni a cui siamo giunti in commento alla disposizione di cui alla lettera c), ebbene tali macchinari non cadono in comunione né immediata né de residuo. Disc. Però gli utili dell’impresa cadono in comunione. Doc. Sì, ma nel limitato senso che abbiamo visto commentando la lettera d). A questo punto però dobbiamo tornare all’articolo 179 e precisamente alla sua lettera d). Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 179, che recita: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.
Doc. L’eccezione, fatta dal disposto della lettera d), al principio, secondo cui gli “acquisti” cadono nella comunione, si giustifica evidentemente con la tutela dell’iniziativa economica dei coniugi: Caio, resterebbe senz’altro mortificato nella sua volontà di iniziativa, forse perderebbe addirittura il “gusto” della sua professione, se dovesse dipendere dal consenso dell’altro coniuge per disporre dei suoi “ferri del mestiere” (intesi questi in senso tanto lato da ricomprendervi, non solo i codici dell’avvocato, ma anche i mobili con cui é arredato il suo studio). Disc. Questo é certo, ma a me sembra che sia importante per Caio, non solo avere la possibilità di disporre liberamente dei “ferri del mestiere” già in suo possesso, ma anche di avere la possibilità di liberamente comprarne dei nuovi (di comprare un nuovo codice, se é un avvocato, di comprare un nuovo trapano, se é un dentista...).. Doc. E questa possibilità il nostro Legislatore in effetti gliela concede; non però con l’articolo 179 lett.d), ma con l’articolo 177 lett.c): la lettera c) dell’articolo 177 dà infatti al coniuge la possibilità di disporre liberamente del “provento della (propria) attività separata”, quindi anche di comprare “i beni che servono all’esercizio della sua professione” di cui parla la lettera d), che stiamo commentando. Il novum, che la lettera d) dell’articolo 179 aggiunge alla lettera c) dell’articolo 177, é che - mentre in genere i beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge, cadono in “comunione immediata” (salvo alcune eccezioni che qui non rilevano) - nella specie che si tratti di “beni che servono all’esercizio della professione”, essi non cadono né in “comunione immediata” e neanche in “comunione de residuo”, ma nel patrimonio personale del coniuge: divengono piena ed esclusiva proprietà di Caio. Disc. Ma Caio i suoi “ferri del mestiere” potrebbe esserseli comprati anche con i soldi suoi personali (i soldi che già aveva prima del matrimonio, i soldi che ha ereditato dopo il matrimonio...). Doc. Questo é certo, ma pure é certo che, anche prescindendo dal disposto della lettera d), in tal caso tali beni sarebbero entrati nel patrimonio personale del coniuge: infatti, abbiamo visto, che, i beni acquistati da questo con i soldi del suo patrimonio personale, entrano nel suo patrimonio personale (e non cadono in comunione); quindi é giocoforza concludere, che, il disposto della lettera d), trova la sua ragion d’essere proprio in relazione ai beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge.
Disc. Ma i beni de quibus non potrebbero essere stati acquistati dall’altro coniuge, da Caia? Doc. Certo che sì; ma, a meno che rappresentino un donativo di Caia a Caio, in tal caso i beni non entrerebbero nel patrimonio personale di questi. Disc. Quindi tu operi una interpretazione restrittiva della lettera della legge. Doc. E’ necessario farlo, dato che non vi é nessuna ragione di far entrare nel patrimonio di Caio dei beni che, poco importa se del coniuge o di un terzo qualsiasi, comunque non gli appartengono; e questo per la sola ragione che ne usa per l’esercizio della sua professione. Disc. Tu hai detto che i beni de quibus entrano direttamente nel patrimonio del coniuge che li usa; e hai giustificato ciò con la necessità di tutelare la sua libertà di iniziativa; ma, ai fini di tale tutela, non sarebbe bastato dare al coniuge la libertà di disporre di tali beni fino allo scioglimento della comunione; non sarebbe bastato, cioé, escludere, sì, tali beni, dalla “comunione immediata”, ma includerli nella “comunione de residuo? Doc. No, perché in tal caso il coniuge-professionista correrebbe il rischio di essere privato di tali beni al momento in cui, sciolta la comunione legale, si procedesse alla divisione dei beni che vi fossero caduti; e questo con suo grave, possibile danno: pensa al povero dentista, che si vedesse togliere dal vorace coniuge (da cui, metti, si é separato e con cui é in lite furibonda) il trapano o le sedie dello studio, insomma si vedesse disaggregare lo “studio” messo insieme con tanto sacrificio in tanti anni! Disc. Tale rischio però lo corre il coniuge-imprenditore che ha costituito la sua azienda “dopo il matrimonio”: infatti questa, nel caso previsto dalla lettera d) dell’articolo 177 (impresa cogestita da Caio e da Caia), cade in “comunione immediata” e, nel caso previsto dall’articolo 178 (esercizio solitario dell’impresa), cade in “comunione de residuo - e l’ultima parte del disposto della lettera d)art.179, esclude appunto dai “beni personali”, e quindi espone a quel rischio della divisione di cui tu parli, “i beni destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.
Doc. E’ così: e questa soluzione - abbastanza ovvia nel primo caso (se Caio e Caia, cogestiscono l’azienda, dunque sono entrambi imprenditori, con che ragione dare a Caia anziché a Caio, o viceversa, i beni dell’azienda e quindi la possibilità di continuare l’esercizio dell’impresa?) - probabilmente si giustifica nel secondo caso (caso di Caio che da solo esercita l’impresa) con il molto maggior valore che possono avere (rispetto ai “ferri del mestiere” che usa chi non é imprenditore) i beni che costituiscono l’azienda; per cui può diventare ingiusto costringere il coniuge nonimprenditore a rinunciare alla metà di tali beni, solo per salvaguardare la libertà di iniziativa economica dell’altro. Con ciò chiudiamo sul primo comma, e passiamo all’esame del secondo. Disc. Il secondo comma recita. “L’acquisto di beni immobili o di beni mobili elencati nell’art. 2683, effettuato dopo il matrimonio, é escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”. Doc.Abbiamo visto che, non tutti i beni che un coniuge acquista, cadono nel suo patrimonio personale: alcuni, sì, altri invece cadono nella comunione. E sappiamo anche che non è per nulla irrilevante stabilire, se il bene acquistato da Caio é entrato nel suo patrimonio personale o nella comunione: infatti, a seconda del caso, muta il suo regime giuridico: ad esempio, nel primo caso, un terzo potrà acquistarlo in forza del solo consenso espressogli da Caio, mentre, nel secondo, gli occorrerà il consenso di Caio e di Caia. Naturale quindi che il Legislatore senta l’esigenza di rendere certa la posizione giuridica dei beni, dai coniugi, acquistati. Disc. E infatti abbiamo visto, parlando della lettera f), che il legislatore ritiene, sì, “beni personali” quelli acquistati “col prezzo del trasferimento” di beni personali, ma “purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”. Doc. Sì, questo é vero, ma (a prescindere che la dichiarazione di cui parli é relativa solo a una delle categorie di beni elencate nell’articolo 179, mentre il problema di cui io parlo é relativo a tutte queste categorie), é anche vero che una dichiarazione unilaterale del coniuge acquirente, non può dirsi una sicura prova della reale posizione del bene. Disc. E allora a che serve? Doc. Serve a impedire futuri revirements suggeriti al coniuge dall’interesse di
falsificare i fatti: io, Caio, al momento dell’acquisto, dico che il bene A é stato acquistato col prezzo ecc. quindi é bene mio personale; e anche se, dopo qualche anno, i miei creditori mi mettono in una situazione in cui mi converrebbe far risultare il bene A in comunione, ahimé! la dichiarazione fatta al momento dell’acquisto, mi impedisce di cambiare.. .le carte in tavola. Il legislatore, quindi, ripeto, non si può accontentare della semplice dichiarazione dell’acquirente; e, per ritenere che un bene sia “personale”, vuole una (vera) prova di ciò. Ma il legislatore, nel mentre pretende tale prova, la facilita dove può – cioè nel caso di acquisti soggetti a trascrizione (perché relativi a beni immobili o ai beni mobili di cui all’art. 2683: automobili, aeromobili....). Disc. E come la facilita? Doc. - Imponendo un onere che, se assolto, sarà da lui considerato come prova della esclusione del bene (acquistato) dalla comunione. Disc. Quale onere? Doc. L’onere: primo, di far risultare “dall’atto” l’esclusione (melius, il fatto o il motivo dell’acquisto che giustifica l’esclusione) del bene dalla comunione; secondo, di far partecipare all’atto l’altro coniuge. Disc.E se l’altro coniuge non vuole partecipare? Doc. In tal caso al coniuge-acquirente non resterà che sobbarcarsi la prova del quid (l’essere stato il bene acquistato per l’esercizio della professione, con il prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale....), che giustifica la estraneità del bene dalla comunione. Disc. E se Caia si presenta, sì, davanti al notaio, ma per contestare il “motivo di acquisto” addotto da Caio (questi dice di aver acquistato l’auto perché gli serve nella professione, Caia dice, no, non é vero, l’ha comprata per andare dalla sua amante)? Doc. Nessun dubbio che l’onere in tal caso sarebbe assolto, ma nessun dubbio che la norma va interpretata restrittivamente, in modo da escludere in tal caso l’efficacia liberatoria (dalla prova) dell’adempimento dell’onere. Infatti, nel pensiero del legislatore, la partecipazione dell’altro coniuge all’atto, prova l’estraneità del bene
dalla comunione, in base al ragionamento “Se Caia, presente a quel che dice Caio, non lo contraddice, ciò significa che Caio dice il vero”; ma é chiaro che tale ragionamento più non regge, se Caia non tace, ma contesta. Disc. Non capisco perché tale marchingegno (l’onere della partecipazione del coniuge che se assolto ecc) é adottato solo per gli acquisti che riguardano le categorie di beni sub c),d) ed f). Doc. Perché esso non sarebbe adottabile nè per la categoria sub a) (dato che riguarda acquisti fatti in un tempo in cui Caio non era ancora sposato con Caia e quindi non poteva farla....intervenire all’atto di acquisto), nè per la categoria sub e) (che riguarda acquisti, meglio acquisizioni di beni, che di solito non si realizzano con la stipula di un contratto); e, per quel che riguarda la categoria sub b), perché esso (idest, tale marchingegno probatorio) sarebbe inutile (dato che già il silenzio del donante o del de cuius sulla destinazione del bene alla comunione é sufficiente prova dell’esclusione del bene da questa). E con questa osservazione possiamo considerare esaurito l’argomento: oggetto della comunione legale; la prossima lezione riguarderà la amministrazione della comunione. Disc. Prima di chiudere, però, concedimi un’ultima domanda: tu sei sempre partito dal presupposto che i beni acquistati da Caio e da Caia costituiscano “nuova ricchezza”, che si aggiungerebbe al patrimonio del coniuge acquirente. Doc. E’ vero; e puoi aggiungere che ho pure detto che, siccome tale nuova ricchezza é anche dovuta alla collaborazione di Caia, questo rende giusto che essa ricada, non nel patrimonio personale di Caio, ma nella comunione. Disc. Sì, però non é affatto vero che ogni acquisto ridonda in nuova ricchezza: potrebbe darsi anche il caso di un acquisto dannoso: metti che Caio abbia comprato una vecchia casa diroccata, che in ogni momento minaccia di crollare recando ingenti danni ai vicini: come si potrebbe dire che il suo acquisto porta “nuova ricchezza” alla comunione”? Apporterà danni e spese e non “nuova ricchezza”! Doc. Capisco il problema che poni; ed é un problema non facile da risolvere. La soluzione migliore che io vedrei é quella di interpretare gli articoli sulla amministrazione della comunione in modo da riconoscere a Caia il potere di opporsi
all’acquisto. Lezione X: L’amministrazione della comunione. Disc. A chi compete il potere di prendere le decisioni necessarie per l’amministrazione dei beni caduti in comunione (la decisione di vendere o di dare in locazione un bene, la decisione di compiere su un bene i necessari atti conservativi o migliorativi...)? a chi compete il potere di decidere, o no, di compiere quegli atti che, pur non non essendo di amministrazione del patrimonio in comunione, su questo vengono a incidere (la decisione di assumere una collaboratrice domestica, la decisione di comprare un autoveicolo, la decisione di iscrivere il figlio ad una scuola....tutte decisioni che comportano spese, che dovranno essere, mi par logico, con i beni della comunione, sostenute)? Doc. Il Legislatore rimette la risposta a questa tua domanda all’articolo 180, che, sotto la rubrica “Amministrazione dei beni della comunione”, recita: ”L’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”. Disc. Ma tale articolo si riferisce solo agli atti di “amministrazione dei beni della comunione”, quindi non risponde affatto alla mia seconda domanda! Doc. Questa é una lacuna, a cui é facile rimediare con una interpretazione estensiva: non ti pare? Disc. Sia pure, ma il vero guaio é che l’articolo 180 non risponde, non solo alla seconda, ma anche alla prima domanda. Infatti, dopo avermi detto, che, gli atti di ordinaria amministrazione, può disgiuntamente compierli ciascun coniuge, dopo avermi detto, che, invece, gli “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione” “spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi”, non mi dice quando un atto va considerato “eccedente l’ordinaria amministrazione”. Doc. Sì, effettivamente non lo dice; però risultano pur sempre chiari o abbastanza
chiari due elementi (a mio parere sufficienti per tentare una razionale sistemazione della materia): primo, l’esistenza di due categorie di atti – quella degli atti, che possono essere compiuti anche dal singolo coniuge e, quella, degli atti che debbono essere compiuti con il consenso di entrambi i coniugi -; secondo, le conseguenze (negative), che derivano, dal compimento di un atto della seconda categoria, da parte di un solo coniuge – conseguenze, che vengono dal legislatore indicate in due articoli, l’articolo 184 (per quel che riguarda la validità dell’atto), l’articolo 189 (per quel che riguarda la responsabilità dei beni della comunione per le obbligazioni nate dall’atto invalidamente compiuto). Disc. Direi che é allora opportuno fare la diretta conoscenza dei due articoli da te citati. Comincio a dar lettura dell’articolo 184, che recita: “Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art. 2683. L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dello scioglimento stesso. Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro é obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’opera della ricostruzione della comunione”. Doc. L’articolo in esame ricollega due diverse specie di conseguenze agli atti compiuti dal singolo coniuge, diciamo così, abusivamente: in alcuni casi, che sono quelli del primo comma, ricollega l’invalidità dell’atto, in altri, ricollega semplicemente un obbligo risarcitorio (naturalmente a carico del coniuge che ha commesso l’abuso o la irritualità, come più ci piace chiamarla). Disc. Cominciamo a parlare degli atti a cui, perché compiuti dal singolo coniuge, é ricollegata l’invalidità. Doc. E’ facile comprendere perché, al compimento degli atti di cui al primo comma, é
ricollegata una sanzione, che colpisce, non solo il coniuge (com’é per l’obbligo al risarcimento), ma anche il terzo contraente; infatti: primo, questi o conosceva che il bene oggetto dell’atto rientrava nella comunione o comunque avrebbe potuto conoscerlo usando l’ordinaria diligenza (dato che, come abbiamo visto in una precedente lezione, l’Ordinamento dà i mezzi ad hoc: consultazione dei registri di stato civile, consultazione dei registri immobiliari, lettura dell’atto nell’archivio del notaio rogante); secondo, all’uso di tale ordinaria diligenza, egli non poteva non essere sollecitato dall’importanza socio-economica dell’atto che stava per compiere (dato che la compravendita, la costituzione di un diritto reale, più in genere il compimento di uno degli atti menzionati negli artt. 2643,2684,2685 nei riguardi di un immobile o di un autoveicolo, aereomobile o altro bene indicato nell’art.2683, sono certamente atti di notevole rilevanza socio-economica). Disc. Sì, effettivamente il terzo, alla diligente consultazione dei registri di cui tu dici, avrebbe dovuto essere sollecitato, se ti metti nell’ipotesi che l’atto fosse una compravendita o uno degli altri atti previsti dall’articolo 2643; ma, metti, che esso fosse solo un banalissimo contratto d’opera: il coniuge con il contratto si limitasse a dar incarico al terzo di dare il bianco alla facciata dell’immobile: esagerato mi parrebbe nel caso costringere il terzo alla consultazione dei vari registri immobiliari e di stato civile. Doc. Tanto esagerato che nessuno si sognerebbe e si sogna di ritenere l’invalidità di tale contratto d’opera (se pur concluso da un solo coniuge). Infatti, anche se la lettera dell’articolo in commento trae in inganno, é chiaro che l’invalidità viene comminata, non agli atti che semplicemente “riguardano beni immobili ecc”, ma agli atti che riguardano beni immobili e rientrano nell’elenco dell’articolo 2643. Disc. Tu, quindi, escluderesti dagli atti che possono essere colpiti dall’invalidità i contratti di locazione con durata inferiore ai nove anni (e di conseguenza non rientranti nella previsione del n. 8 dell’articolo 2643); eppure, dal secondo comma dell’articolo 180, risulta che, come il compimento degli “atti eccedenti l’ordinaria amministrazione”, anche quello dei “contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento” “spetta congiuntamente ad entrambi i coniugi”. Doc. Ma io non nego, che, per il compimento di un contratto di locazione, occorra il consenso di entrambi i coniugi, nego che dall’inosservanza di ciò derivi, come pretenderebbe la lettera del primo comma, la invalidità; e, a tale interpretazione
restrittiva della norma, mi convince l’assurdità di pretendere, da chi fa una locazione, che potrebbe essere limitata anche a qualche mese (pensa alla locazione di un box per auto), quelle laboriose ricerche di cui si é detto. Comunque sia, che tu voglia aderire o no alla mia interpretazione restrittiva della lettera della norma, dovresti tenere presente che, anche in forza della lettera di questa, sarebbero esclusi dalla sanzione dell’invalidità le locazioni relative a beni mobili. Disc. Ma la invalidità che commina la legge é la nullità o l’annullabilità? Doc. L’annullabilità; ed é ovvio, dato che Caia potrebbe trovare conveniente il contratto concluso da Caio e, allora, perché impedirle di giovarsene (lei e tutta la famiglia)? perché gettarlo nel nulla? Disc. E io penso che il brevissimo termine (un anno solo contro i cinque dell’art.1442!), concesso dal secondo comma per chiedere l’annullamento del contratto, si spieghi col fatto che il Legislatore ritiene che questo, ancorchè stipulato da un solo coniuge, risponda di solito all’interesse della famiglia: tu che dici? Doc. Dico che questa effettivamente potrebbe essere una spiegazione. Disc. Io ora mi metto nei panni di Fulano, il terzo che ha stipulato il contratto annullabile: il termine concesso a Caia per far valere l’annullabilità, é vero, scade dopo solo un anno, ma anche un anno può essere duro da vivere nell’incertezza per Fulano: non può egli fare una bella intimazione a Caia: “Deciditi: o chiedi l’annullamento del contratto o lo ratifichi”. Doc. La può certo fare, ma, l’unico risultato che otterrà facendola, sarà di acquisire la prova della conoscenza del contratto da parte di Caia al momento della notifica della intimazione (e quindi di far decorrere da quel momento il termine annuale); ma anche questo, perché no? potrebbe essere un vantaggio non trascurabile per il tuo Fulano. Disc. Quid iuris se Caia, pur sapendo che Caio stava per stipulare solo soletto il contratto con Fulano, non é intervenuta per impedirlo? Doc. Certamente ciò non escluderebbe la invalidità del contratto. Disc.utibile,invece, può essere un obbligo risarcitorio di Caia; ma io lo escluderei: se io vedo una persona che compra male, metti compra per oro quella che è ferraglia, mica ho il dovere
giuridico (quello morale, sì!) di avvisarla dell’errore in cui sta per cadere! Disc. Oltre alla categoria di atti, di cui al primo comma, tu dicevi che ve n’è un’altra, di atti il cui compimento, però, non viene sanzionato con la loro invalidità, ma semplicemente da un obbligo di risarcimento (posto a carico del coniuge che, senza il consenso dell’altro, li ha compiuti). Doc. Sì, perché il dovere di solidarietà che, tra Caio e Caia, deve esistere, impone a Caio di chiedere il consenso a Caia (e viceversa, naturalmente) anche per atti diversi da quelli a cui il primo comma si riferisce. Disc. Naturalmente, dato che anche l’erronea decisione di un atto relativo a un bene, diverso da quelli che tale comma menziona, potrebbe essere fonte di grave danno per il patrimonio familiare: io penso alla vendita di un quadro d’autore, dei gioielli di famiglia e così via. Doc. Certamente il dovere di solidarietà impone a un coniuge di ottenere il consenso dell’altro, quando l’atto può incidere (negativamente) in modo apprezzabile sul patrimonio familiare. E i casi da te portati ne sono dei buoni esempi, a cui puoi aggiungere quelli, dell’appalto dato a un terzo per un lavoro di considerevole mole, dello “sfratto” di una lucrosa locazione et similia; però, bada, in subiecta materia, per stabilire, se esiste un obbligo del coniuge di avere il consenso dell’altro per compiere un atto, non va solo guardato all’importanza economica di questo, ma va tenuto presente anche il turbamento (nocivo), che il compimento dell’atto può causare nel ménage familiare. Tipico caso, che il legislatore ha tenuto ben presente, é quello di Caio, che, disdice la locazione dell’appartamento in cui vive la famiglia, al fine di trasferire altrove la sua residenza – cosa che potrebbe anche essere conveniente economicamente (perché il nuovo appartamento é più spazioso e la sua locazione costa di meno), ma che intuitivamente può recare grave turbamento agli altri componenti la famiglia (che, metti, dal trasferimento potrebbero vedere interrotte consuetudini amicali a cui tengono molto). Altro esempio: Caio licenzia la collaboratrice domestica per assumermene un’altra, che ha, sì, meno pretese economiche ed é più brava, però con cui Caia può trovare difficoltà a creare quella “confidenza” e armonia, che aveva con la prima. Altro esempio ancora, Caio vende, per sbarazzarsene, un quadro di nessun pregio economico, ma a cui Caia é legata da cari ricordi. E gli esempi, tu comprendi, si potrebbero moltiplicare.
Disc. Dalla violazione dell’obbligo di solidarietà (conseguente al compimento dell’atto senza il consenso dell’altro coniuge) deriva a Caio un obbligo risarcitorio, anche fuori dei casi contemplati dal terzo comma dell’articolo 184? Doc. Sì, dato che in tale terzo comma il legislatore minus dixit quam voluit: come dimostra il fatto che la sua formulazione letterale – che si riferisce, poni menti al suo incipit, solo agli “atti che riguardano beni mobili” - impedirebbe di farvi rientrare atti, che, invece, indubbiamente vi rientrano (in quanto non si possono far rientrare nella previsione del primo comma); ad esempio, lo sfratto di una locazione immobiliare, l’appalto per la riparazione di un bene immobiliare. Disc. Ma, dal fatto che, uno degli atti a cui va riferito il terzo comma, sia compiuto senza il consenso dell’altro coniuge, deriva solo un obbligo risarcitorio? l’atto abusivamente compiuto resta valido ed efficace? Doc. Resta valido ed efficace, se tale é da considerarsi per le norme comuni, e in particolare per l’articolo 1153. Ad esempio, se, per ricollegarci ad un caso prima fatto, Caio ha venduto, sì, il prezioso quadro a Fulano, ma questi non ne é entrato ancora in possesso, Caia può legittimamente opporsi che a lui venga consegnato (con la conseguenza che Fulano non ne diventerà proprietario, dato che, per l’art.1153, l’acquirente del bene acquista la proprietà solo col possesso). Sempre per un’applicazione dell’articolo 1153 (che pretende la “buona fede” dell’acquirente perché l’acquisto sia valido) riterrei, poi, invalida la vendita del quadro, se Fulano fosse stato a conoscenza ch’esso rientrava nella “comunione” e avesse avuto ragione di dubitare del consenso di Caia. Disc. Tu, all’inizio della lezione, accennando alle conseguenze negative, che derivano dal compimento, da parte di un solo coniuge, di un atto per cui, invece, era “necessario il consenso (anche) dell’altro”, hai fatto riferimento, oltre che all’articolo 184, anche all’articolo 189. Procedo quindi alla lettura anche di questo secondo articolo, che recita: “I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro. I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito é sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al
valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti oi creditori della comunione.” Disc. A noi, per il discorso che andiamo ora conducendo, rileva solo il primo comma: il secondo comma ci interessa solo indirettamente, in quanto ci permette di dire, che, per gli obblighi contratti da Caio, sì, per la famiglia, ma “abusivamente”, i beni della comunione rispondono né più né meno che per gli obblighi contratti da Caio, per le sue necessità particolari: Caio ha acquistato i biglietti per fare con tutta la famiglia una bella ma costosissima crociera e il costo di tale suo “colpo di testa” (ché tale é da considerarsi l’idea della crociera, quando la famiglia stenta a sbarcare ogni mese il lunario) é di cinquemila euro. Bene, per tale debito di Caio, i beni della comunione rispondono né più né meno che se Caio avesse acquistati i biglietti per....... andare in crociera con i suoi amici. Disc. E cioè? Doc. E cioé, prima cosa, rispondono solo se la impresa di viaggi non si é potuta soddisfare sui beni personali di Caio, seconda cosa, rispondono solo per metà del loro valore (come vedremo meglio nella prossima lezione): quindi, se il valore di tali beni é solo di seimila euro, rispondono solo nei limiti di tremila euro. Il disposto dell’articolo 189 é importante perché permette di argomentare che - non solo dal compimento di un atto abusivo (perchè compiuto senza il consenso dell’altro coniuge, in spregio all’obbligo di solidarietà che, tra i coniugi, deve sussistere) deriva un obbligo risarcitorio per Caio - ma altresì che le obbligazioni relative all’atto (abusivo) vanno considerate unicamente obbligazioni “particolari” di questo, e non già obbligazioni della comunione (con la conseguenza che per farvi fronte Caio non potrà attingere ai beni della comunione). Disc. Ma Caia, - come può, per il primo comma dell’articolo 184, “convalidare” la compravendita immobiliare compiuta da Caio senza il suo consenso - non può “convalidare” l’acquisto dei biglietti per la crociera fatto (abusivamente) da Caio? Doc. Certo, che lo può. E in tal caso l’obbligo andrà considerato, non più particolare di Caio, ma di tutta la famiglia (e naturalmente ne risponderanno tutti i beni della comunione). Disc. Dagli atti compiuti dai coniugi, singolarmente o congiuntamente qui non rileva,
e, comunque dall’amministrazione dei beni comuni, possono nascere delle cause giudiziarie. Io penso: al caso che Caio e Caia decidano di agire contro Fulano che, dopo aver loro venduto un bene, rifiuta di consegnarglielo; al caso che decidano di intentare un’azione di regolamento di confini contro il vicino di un fondo “in loro comunione”; al caso che, non più all’attacco ma costretti a giocare in difesa, siano convenuti da chi chiede loro un risarcimento per danni pretesamente causatigli da una cosa “in loro comunione”. Ecco, in tutti questi casi, chi é legittimato a rappresentarla, la “comunione”? Doc. La risposta ci viene data, se pur non chiaramente, dall’articolo 184: nelle “azioni” relative ad “atti”, per il cui compimento é necessario il consenso di entrambi i coniugi, la “comunione” deve essere rappresentata da entrambi i coniugi, nelle “azioni” relative ad “atti”, che ciascun coniuge singolarmente può compiere, la “comunione” può essere rappresentata da un solo coniuge. Disc. Ma in quest’ultimo caso, non può essere che, quando la causa nasce da Fulano che conviene in giudizio Caio e Caia (e non viceversa), egli scelga come suo contraddittore il coniuge meno adatto a sostenere i contraddittorio, perché meno a lume dei fatti di causa (Fulano chiede la condanna di Caio e Caia, quali coniugi “in comunione dei beni”, al pagamento del prezzo di un armadio loro venduto, convenendo in giudizio Caio ancorché l’acquisto e le relative trattative siano state fatte da Caia)? Doc. Questo pericolo effettivamente esiste; ma ne é sufficiente rimedio il potere dato a Caio di chiamare in causa, in forza dell’art. 106 C.P.C., Caia. Disc. L’articolo 184 se dà qualche, sia pur lacunosa e fumosa, indicazione sulla legittimazione, nel caso la causa riguardi un “atto” compiuto dai coniugi (in altre parole, nel caso che nella causa si controverta sulla validità o risolubilità di un “atto” compiuto dai coniugi o sui diritti che si pretende ne siano conseguiti), mi pare che non dia nessuna indicazione per il caso che nella causa si controverta sic et simpliciter su un bene: ad esempio, per il caso che Fulano rivendichi la proprietà di un immobile in possesso dei coniugi; o, viceversa, questi rivendichino un bene in possesso di Fulano. Doc. Questo é vero; ma dall’articolo 184 ci é in definitiva facile dedurre che, in tale caso, il criterio per decidere sulla legittimazione, lo dobbiamo trarre dall’atto, che si
dovrebbe compiere per alienare il diritto controverso: la comunione dovrà essere rappresentata da entrambi i coniugi, se per tale atto fosse necessario il consenso di entrambi, potrà essere rappresentata da uno solo, nel caso invece tale atto, da uno solo, potesse essere compiuto. Disc. Mettiamo il caso che Caio abbia stipulato un contratto di compravendita immobiliare, ma voglia agire per il suo annullamento (putacaso, sostenendo che la sua volontà nello stipularlo fu viziata da violenza). Doc. In tal caso - mentre, la decisione di chiedere o no l’annullamento, Caio la potrà prendere da solo - una volta decisosi per la causa, dovrà convenire in giudizio anche la moglie Caia (come litisconsorte necessaria); infatti, é giusto dare a questa la possibilità di far valere le ragioni per la validità del contratto (in contraddittorio soprattutto con Caio, che potrebbe addirittura colludere col venditore al fine di recuperare, con l’annullamento del contratto, quel prezzo che“scioccamente” aveva pagato solo per ottenere...... il risultato sgradito della caduta del bene in comunione). A maggior ragione, Caia dovrà essere chiamata nella causa (sempre come litisconsorte necessaria), se fosse Fulano a chiedere l’annullamento. Disc.Noi abbiamo fatta finora l’ipotesi, che un coniuge compia un atto senza il consenso (necessario) dell’altro; ma che succede se Caio chiede il consenso di Caia e questa lo rifiuta? Doc. Se questo rifiuto é ingiustificato, in quanto l’atto effettivamente corrisponde all’interesse della famiglia, Caio potrà ottenere dall’Autorità giudiziaria l’autorizzazione a compiere lo stesso l’atto (senza il consenso di Caia). Questo risulta dall’articolo 181, che recita “Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso é richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione nel caso in cui la stipulazione é necessaria nell’interesse della famiglia o dell’azienda che a norma della lettera d) dell’art. 177 fa parte della comunione”. Disc. Ma l’articolo 181 non si riferisce soltanto agli atti relativi all’amministrazione dei beni della comunione, dato che parla di rifiuto per “un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso é richiesto”: e, io mi domando, vi sono altri casi, oltre quelli che si verificano nel contesto dell’amministrazione dei beni della comunione, in cui Caio e costretto a chiedere a Caia il consenso a compiere
un atto? Doc. Certamente che vi sono. Uno di questi casi lo abbiamo incontrato nella precedente lezione, commentando l’ultimo comma dell’articolo 179: Caio vuole acquistare il bene B in “surrogazione” del bene A già di sua proprietà; al fine di escludere il bene B dalla comunione, chiede a Caia di presenziare all’atto, dando così il suo tacito assenso alla dichiarazione, che il bene B é acquistato con i soldi della vendita del bene A; Caia rifiuta: Caio può ricorrere al giudice e ottenere da lui in camera di consiglio un decreto che sostituisca l’assenso rifiutato da Caia. Disc. Mi pare un po’ stiracchiato far rientrare nell’articolo 181 questo caso. Doc. A me pare invece una soluzione ragionevole. Se però vuoi un caso...... indubitabilmente rientrante nell’articolo 181, puoi trovarlo leggendo la coda di questo stesso articolo: é il caso di Caio, che cogestisce con Caia un’impresa: Caio vorrebbe comprare un autocarro ritenendolo necessario per lo sviluppo dell’azienda; Caia dice, “no”: Caio può ricorrere al giudice e ottenere da lui in camera di consiglio un decreto, che sostituisca l’assenso mancante di Caia. Disc. Quindi, l’articolo 181 concede al coniuge il potere di bypassare il rifiuto dell’altro coniuge, mentre nessuna norma sulle società (artt. 2247 ss) concede a un socio analogo potere, per superare il rifiuto di un altro socio co-amministratore. E’ forte! Ma passiamo ad altro problema: Caia non rifiuta il suo consenso: semplicemente non lo può dare perché impedita a darlo, metti, perché é lontana miglia e miglia dal luogo in cui il contratto va redatto oppure perché.. .sta lottando in un ospedale tra la vita e la morte: che deve fare Caio? Doc. In primo luogo deve cercare di ottenere una procura da Caia, ma bada, non una procura qualsiasi, bensì una procura per atto pubblico o per scrittura privata con firma autenticata: il nostro Legislatore é diffidente: teme che Caio, fiducioso che Caia, la coniuge, mai lo denuncerà, faccia...carte false. Disc. Sarebbe valida anche una procura generale? Doc. Io, commentando, in una precedente lezione, l’articolo 217, ho già risposto positivamente a tale domanda; in ciò confortato anche dal disposto proprio del secondo comma (dell’articolo 182), che subito passeremo ad esaminare. Ma altri, più
autorevolmente di me, la pensa in maniera diversa, temendo che, una volta ammessa la possibilità di una procura generale, venga ad aprirsi un facile varco ai coniugi prepotenti, che vogliono eludere il principio della parità dei coniugi nell’amministrazione del patrimonio comune. Disc. Il coniuge impedito potrebbe dare la procura anche ad un terzo? Doc. Certamente, sì. Disc. Potrebbe dare al terzo anche una procura generale? Doc. Qui anch’io sono per la negativa. Infatti la procura generale data ad un terzo verrebbe, per così dire, a distorcere, a falsare l’applicazione delle norme sull’amministrazione della comunione: queste norme, infatti, sono state pensate e costruite dal legislatore nel presupposto di una particolare fiducia tra i due amministratori dei beni della comunione; fiducia, che si ha ragione di presumere tra due coniugi, ma non tra un coniuge e un terzo (tanto più quando, verso questo terzo, un coniuge ha probabili ragioni di gelosia e di astio, proprio per la fiducia particolare di cui l’altro coniuge l’ha gratificato). Disc. Ma mettiamo che Caia, non solo sia impedita a presenziare all’atto, ma anche a rilasciare una procura: allora? Doc. Allora Caio può rivolgersi al giudice e ottenere da questo un’autorizzazione a compiere l’atto anche senza il consenso di Caia. Tutto questo risulta dall’articolo 182, che recita: “In caso di lontananza o di altro impedimento di uno dei coniugi l’altro, in mancanza di procura del primo risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, può compiere, previa autorizzazione e con le cautele eventualmente da questo stabilite, gli atti necessari per i quali é richiesto, a norma dell’art. 180, il consenso di entrambi i coniugi. Nel caso di gestione comune di azienda, uno dei coniugi può essere delegato dall’altro al compimento di tutti gli atti necessari all’attività dell’impresa” Disc. Quindi mi pare che presupposti, per la concessione dell’autorizzazione del giudice, siano: a) l’impedimento di un coniuge a dare il suo consenso de praesenti e a rilasciare
procura per atto pubblico o scrittura privata autenticata; b) la necessità dell’atto (per cui manca il consenso). Una domanda rispetto a questo secondo requisito: in che senso l’atto deve essere “necessario”? Doc. Nel senso che, aspettare, per compierlo, il venir meno dell’impedimento dell’altro coniuge, potrebbe portare un qualche danno alla famiglia. Per avere un esempio di “atto necessario”, pensa al caso in cui una casa (naturalmente in comunione) stia per crollare e occorra quindi fare dei lavori per puntellarla. Per un esempio di atto invece non necessario, puoi pensare all’acquisto o alla vendita di un bene (facendo salvi, beninteso, casi particolarissimi). Disc. Mi pare che tu adotti un metro piuttosto severo per misurare la necessità di un atto. Doc. Tieni presente che una certa severità in ciò é doverosa, per evitare il pericolo, che un coniuge approfitti dell’impedimento dell’altro per compiere atti che questo non approverebbe. Disc. Ma - nel caso in cui il coniuge sia impedito a manifestare il suo consenso, perché interdetto (poco importa se giudizialmente, perché incapace di intendere e di volere, o legalmente, come pena accessoria di una condanna penale), perché dichiarato “fallito”, perché inabilitato, perché sottoposto ad una “amministrazione di sostegno”- Caio può chiedere l’autorizzazione a compiere l’atto necessario senza il suo consenso? Doc. Certamente, no: in tutti i casi di impedimento legale - di impedimento cioé dovuto al fatto, che é il legislatore stesso che priva il coniuge del potere di manifestare un valido consenso - di un’applicazione dell’articolo 181 certamente non si può parlare. E ciò ti risulterà ovvio, solo se tu pensi, che in tutti questi casi, il legislatore adotta tutto un sistema di garanzie - (nomina di un tutore, di un curatore....onere per questo di richiedere a determinati organi giudiziari un’autorizzazione per il compimento di certi negozi....) - volto a tutelare il coniuge impedito; sistema di garanzie, che non si può certo dare a Caio la facoltà di di bypassare, di volta in volta, chiedendo l’autorizzazione al giudice Pinco Pallino. Vedremo, sì, commentando l’articolo 183, che tale facoltà il legislatore a Caio la concede, ma solo con un provvedimento di carattere generale.
Disc. E allora, il povero Caio, deve rassegnarsi all’antipatica situazione di dover coamministrare i beni della comunione con un estraneo (il tutore, il curatore...) e, peggio ancora, di dover aspettare, per compiere un atto di “straordinaria amministrazione”, che questi svolga la non breve pratica di richiesta dell’autorizzazione a questo o quel giudice? Doc. No, il legislatore predispone dei rimedi per evitare questa situazione, che tu giustamente definisci “antipatica”; questo con gli articoli, 183 (che prevede l’esclusione del coniuge “minore o che non può amministrare”), 191 (che dispone lo scioglimento della comunione per i casi di “dichiarazione di assenza o di morte presunta”, di “separazione giudiziale dei beni”, di fallimento di uno dei coniugi”) e, infine, con l’articolo 193 (che prevede la “separazione giudiziale dei beni” “in caso di interdizione o di inabilitazione”). Disc. Abbiamo detto sul primo comma dell’articolo 182, ora dobbiamo parlare del suo secondo comma. Una cosa che mi riesce strana, é che il legislatore – dopo aver previsto nel primo comma la possibilità per un coniuge di chiedere l’autorizzazione a compiere lui solo, “gli atti per i quali é richiesto, a norma dell’art. 180, il consenso di entrambi i coniugi” - nel secondo comma, con tutta evidenza dedicato ai (ben diversi) “atti necessari all’attività dell’impresa” cogestita dai coniugi, non fa il minimo cenno a questa possibilità: si tratta di una semplice dimenticanza? Doc. Sì, si tratta solo di una dimenticanza: il Legislatore tutto preso dall’idea di attribuire all’imprenditore la possibilità di avere dall’altro coniuge una procura generale ad amministrare l’azienda, si é dimenticato di attribuirgli il potere di ottenere l’autorizzazione a compiere un atto giuridico anche senza il consenso di questo. A colmare la lacuna così determinatasi, può sopperire l’interprete con una interpretazione sistematica della Legge. Disc. Ma naturalmente la lacuna legislativa va colmata nel senso che l’imprenditore possa, sì, ottenere l’autorizzazione de qua, ma solo alle condizioni indicate nel primo comma (impedimento dell’altro coniuge ecc.). Doc. Naturalmente.
Disc. Il coniuge-imprenditore può ottenere il rilascio di una procura generale da parte dell’altro coniuge solo in caso di impedimento di questo? Doc.Da alcuni lo si sostiene, ma a me pare assurdo. Disc. Penso che a questo punto si possa passare a parlare di un istituto a cui tu hai già accennato, l’istituto della “esclusione (di un coniuge) dall’amministrazione”. Leggo l’articolo che ne dà la disciplina: “Se uno dei coniugi é minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione. Il coniuge privato dell’amministrazione può chiedere al giudice di esservi reintegrato, se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione. La esclusione opera di diritto riguardo al coniuge interdetto.” Disc. Che cosa significa che un coniuge, metti Caio, é escluso dall’amministrazione (dei beni della comunione)? Doc. Non é facile dare una risposta a questa domanda. Certamente significa che Caio non può compiere neanche gli atti di ordinaria amministrazione – ma questa, evidentemente, non può non essere, anche nel pensiero del legislatore, che una conseguenza del tutto secondaria della esclusione, dato che gli atti di ordinaria amministrazione hanno ben poca importanza nel ménage familiare. Potrebbe - e, secondo me, può, ma la cosa é discutibile – significare che, se (abusando) il coniuge escluso compie, senza il consenso dell’altro, uno degli atti previsti dal primo comma dell’articolo 184, non si applica più il secondo comma dello stesso articolo. Disc. Cosa per cui l’atto non si considererebbe più annullabile. Doc. No, si considererebbe sempre annullabile, ma il termine per far valere l’invalidità, non sarebbe quello stabilito dal secondo comma dell’articolo 184, ma (per analogia) quello stesso in cui il mandante può ratificare l’atto compiuto dal mandatario nonostante la revoca del mandato – però sono il primo a dire che anche questa conseguenza, che si potrebbe trarre dall’esclusione dall’amministrazione, é in fondo assai poco rilevante.
Disc. Un modo per dare un significato più “robusto” all’articolo in oggetto potrebbe essere quello di interpretarlo nel senso che, con l’esclusione, l’altro coniuge, Caia nel nostro esempio, può compiere da sola anche gli atti per cui normalmente occorrerebbe il consenso di entrambi i coniugi. Doc. Ciò sarebbe eccessivo: a un qualche controllo, sull’amministrazione svolta da Caia, non si può rinunciare, specie quando l’altro coniuge é un minus habens (un minore, un interdetto, un inabilitato...). L’interpretazione migliore per me é quella che attribuisce a Caia, non già il potere di compiere sola soletta anche gli atti di “straordinaria amministrazione”, ma il potere di compiere tali atti in base alla semplice autorizzazione del giudice di cui all’articolo 182; quindi bypassando - nel caso il coniuge sia interdetto, inabilitato insomma un incapace - la necessità del consenso di chi ha la di lui tutela (o amministrazione di sostegno o curatela...) e pertanto sottraendosi ai tempi di attesa inerenti alle richieste di autorizzazione, che il tutore (curatore...) deve rivolgere alla Autorità Giudiziaria. Tale interpretazione del resto riesce confortata dal disposto dell’ultimo comma dell’articolo 183, se messo a confronto con il disposto dell’articolo 193. Disc. Spiegati meglio. Doc. Cercherò di farlo, ma per farlo dovrò anticiparti alcune nozioni. Dunque, devi sapere che - mentre l’articolo 183 stabilisce l’automaticità dell’esclusione dall’amministrazione dell’interdetto - l’articolo 193, prevede, sì, la separazione giudiziale dei beni” per il caso di interdizione di un coniuge, ma la fa dipendere dalla richiesta del coniuge, di Caia nel nostro esempio: evidentemente il legislatore vuole lasciare Caia libera di conservare quei vantaggi, che le assicura lo stato di non-separazione giudiziale, ancorché il coniuge sia stato escluso, in quanto interdetto, dall’amministrazione. Ora questi vantaggi sarebbero ben poca cosa, se non consistessero nella possibilità data a Caia di compiere gli atti di straordinaria amministrazione prescindendo dal consenso del tutore e in base della semplice autorizzazione del giudice di cui all’articolo 182. Disc. Chiarito cosa comporta la esclusione di un coniuge dall’amministrazione, dobbiamo vedere quali sono i presupposti di tale esclusione. Doc. Uno di tali possibili presupposti risulta da quanto finora detto: é la incapacità ad
amministrare. Che però non deve necessariamente consistere, come nei casi finora esaminati, in una incapacità legale (casi del minore, dell’interdetto...), ma può consistere anche in una incapacità naturale: pensa al coniuge paralizzato e inchiodato su una sedia a rotelle. L’altro possibile presupposto di un’esclusione del coniuge, é la sua cattiva amministrazione. Ma, attenzione! quella che rileva, ai fini dell’istituto che stiamo commentando - non é la cattiva amministrazione che il coniuge fa dei suoi beni personali (questa rileva, sì, ma ai fini di altro istituto che poi studieremo, quello della “separazione giudiziale dei beni”) - ma la cattiva amministrazione che il coniuge abbia fatto dei beni del comunione. E al proposito é da tener presente che un coniuge dà prova di cattiva amministrazione, non solo quando compie atti economicamente strampalati (vende azioni chiaramente destinate a salire), ma anche quando si astiene da atti di amministrazione necessari o costringe il coniuge ad astenersene opponendo un immotivato e continuo “niet” alla sue richieste di consenso. Lezione XI: Le obbligazioni Disc. Che significa dire che l’obbligo di pagare a Fulano tot (metti 300 euro) é un obbligo della “comunione”? Doc. Significa due cose. Per prima cosa, significa, che, Fulano, se non pagato spontaneamente, potrà soddisfare il suo credito, per l’intero (quindi, nell’esempio, per tutti i 300 euro), sui beni della comunione, e, qualora questi non fossero sufficienti, per la metà (quindi, per soli 150 euro) sui beni personali di ciascuno dei coniugi, Caio e Caia. Per seconda cosa, significa, che il coniuge, metti, Caio, che avesse pagato il credito di Fulano prelevando dal patrimonio suo personale la relativa somma, potrà chiedere, il rimborso di quanto pagato (melius, della metà di quanto pagato), all’altro coniuge, a Caia – ma bada, questo, non subito, ma al momento dello scioglimento della comunione. Disc. Ah, sì? Caio, se é stato tanto stupido da cavare i soldi dal suo portafoglio per pagare un debito della comunione, dovrà aspettare, fino al momento dello scioglimento di questa, per realizzare il suo credito? Doc. Chiaro che, se c’é armonia nella famiglia, le cose non andranno così: con l’accordo di Caia, Caio preleverà dalla cassa comune 300 euro, oppure Caia, in via bonaria, subito gli darà 150 euro, e così subito si chiuderà la pendenza. Però, se tutto
ciò non avvenisse, vale quanto prima ti ho detto, così come vedremo con più precisione commentando l’articolo 192 e in particolare i suoi commi 3 e seguenti. Disc. Va bene, l’articolo 191 dice sul credito di Caio, ma da quali articoli risulta quanto tu hai detto sul credito del terzo, di Fulano? Doc. Dagli articoli 186 e 190. Disc. Comincio allora a leggere l’articolo 186, che - sotto la rubrica “Obblighi gravanti sui beni della comunione” - recita: “I beni della comunione rispondono: a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto; b) di tutti i carichi dell’amministrazione; c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l’istruzione e l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia; d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi”. Cominciamo dalla lettera a): che significa che i beni della comunione rispondono dei “pesi” su di essi gravanti al momento dell’acquisto? Doc. Significa che, il fatto dell’acquisto, non incide sull’esistenza degli eventuali diritti, che “pesino” sul bene (acquistato). Disc. Questo mi pare ovvio, e addirittura assurdo sarebbe il contrario: assurdo, voglio dire, sarebbe che, se Fulano vende il suo immobile a un Tizio qualsiasi, conservino inalterati i loro diritti, A (creditore ipotecario), B (usufruttuario), C (conduttore in forza di una locazione), mentre se Fulano vende a Caio (sposato e in regime di comunione), A, B, C, i loro diritti, vengano a perdere: l’esistenza dei diritti gravanti sul bene, non può dipendere dal tipo di acquirente a cui Fulano sceglie di vendere. Doc. Effettivamente, se la norma si limitasse a dire quanto tu le attribuisci, direbbe cosa ovvia; ma in realtà essa dice qualcosa di più, di meno ovvio: dice che, se Caio, uno dei coniugi, fa cadere un suo bene personale in comunione, si conservano anche quei “pesi”, da cui, invece, il bene sarebbe liberato, se venduto a un terzo: se l’immobile era gravato da una locazione, senza “data certa” o non trascritta nonostante fosse ultranovennale, ebbene tale locazione, che non sarebbe opponibile o sarebbe opponibile solo entro il novennio (art.1599) all’acquirente, se questi fosse un
terzo, sarà invece opponibile alla “comunione”(in buona sostanza, a Caio e a Caia). Disc. Con ciò mi hai detto cosa intende la norma con il termine “pesi”, dimmi ora che cosa intende col termine “oneri”. Doc. Intende quegli obblighi che - come quello di pagare i contributi dovuti per le spese condominiali (v. art.63 disp. att. Cod.Civ.) - si trasmettono dal dante causa all’avente causa. Disc. Passiamo alla lettera b): che cosa si deve intendere per “carichi dell’amministrazione”. Doc. Si deve intendere gli obblighi assunti e comunque nati nel contesto dell’amministrazione dei beni (della comunione): Caio e Caia hanno fatto riparare il tetto o hanno fatto mettere un nuovo impianto di riscaldamento? Ebbene la ditta, che ha fatto i lavori, potrà soddisfare il suo credito sui beni della comunione. Disc.,- Lettera c). E’ ovvio che cosa si debba intendere per spese sostenute “per l’istruzione e l’educazione dei figli”; é un po’ meno ovvio, che cosa si debba intendere per spese “per il mantenimento della famiglia”: ad esempio, va fatta rientrare in queste, la spesa di Caio per l’acquisto di un abito nuovo o per mangiare al ristorante? in altre parole, i soldi per l’abito e per la cenetta al ristorante, Caio li deve cavare dal suo portafoglio o li può attingere dalla “cassa comune”? Doc. Io riterrei che, se l’acquisto dell’abito o la cenetta rientrano nel livello di vita di tutti gli altri familiari, la relativa spesa venga a gravare i beni della comunione. Disc. E veniamo al punto più difficile: che cosa si deve intendere per “obbligazione contratta dai coniugi ….nell’interesse della famiglia”? Doc. Premesso che lo “interesse della famiglia” é una astrazione concettuale: non esiste un “interesse della famiglia”, esiste solo l’interesse di questo o quel membro della famiglia; io molto semplicemente mi atterrei alla lettera della norma: a che i beni della comunione rispondono di un obbligazione, basta che essa sia stata contratta dal coniuge allo scopo di provvedere ai bisogni propri o degli altri membri della famiglia.
Disc. Quindi, secondo te, non rileva il fatto che l’obbligazione non corrisponda all’interesse della famiglia? Doc. No, non rileva: la lettera della norma é chiara: non occorre che l’obbligazione sia nell’interesse, basta che sia stata “contratta...nell’interesse della famiglia”. Del resto, quando il legislatore pretende (per far da ciò conseguire certe conseguenze giuridiche) che l’obbligazione (assunta da un coniuge) “soddisfi una necessità della famiglia”, lo dice, così come fa nel secondo comma dell’articolo 192. Disc. Allora, se Caio dà fuori di testa e fa, sia pure per la famiglia, una spesa pazza, metti, compra l’automobile fuori serie, così prosciugando l’esigua cassa comune? Doc. In questo e consimili casi, come correttivi delle conseguenze nefaste che effettivamente potrebbero derivare da un’interpretazione letterale della norma, si applicheranno gli articoli 189 e 183: l’ articolo 189, se, per la “spesa pazza” fatta unilateralmente da Caio, occorreva il consenso di Caia, e, l’articolo 183, se invece la spesa, rientrando nella “ordinaria amministrazione”, poteva essere decisa solo da Caio; più precisamente: per l’articolo 189, l’obbligazione contratta da Caio verrà considerata unicamente come una sua obbligazione “particolare”, nè più né meno che se egli avesse comprata l’auto, non per la famiglia, ma per soddisfare un suo personalissimo sfizio (e i beni della comunione risponderanno del debito da lui contratto solo fino alla metà); per l’articolo 183, Caio, avendo “male amministrato” potrà essere escluso dall’amministrazione dei beni della comunione. Disc. Ma questi sono solo dei pannicelli caldi, dei mezzi-rimedi: l’esclusione dall’amministrazione avviene quando ormai la spesa é stata fatta: previene danni futuri, ma non rimedia ai danni già fatti.; quanto, poi, all’applicazione del primo comma dell’articolo 189, essa limita solo il danno sofferto dalla famiglia: infatti, essa non toglie che una parte, forse una gran parte, del patrimonio familiare sia stata bruciata per una spesa inconsulta. Doc. Tu hai ragione, ma....hoc iure utimur. Tieni peraltro presente che, per il secondo comma dell’articolo 192, Caio, in caso di atto di straordinaria amministrazione, é tenuto a rimborsare, il valore dei beni” della comunione, bruciati dal suo exploit (salva dimostrazione, che, nonostante tutto, esso sia risultato di vantaggio per la famiglia – come meglio ci riserviamo di vedere in seguito); e tieni ancora presente che, con uno sforzo di esegesi, si può argomentare da ciò, che, pure in caso di atto di
ordinaria amministrazione, Caio abbia l’obbligo di rimborsare il valore dei beni da lui bruciati, per far fronte a spese non conformi alle “necessità della famiglia” (e infatti mal si comprenderebbe, perché, l’obbligo di rimborso, debba esserci per le spese di straordinaria amministrazione e non per quelle di ordinaria amministrazione). Disc. Ma a me, per dirtela tutta, non solo pare ingiusto, che i beni della comunione rispondano di quelle spese, che, pur fatte per la famiglia, non sono nell’interesse della famiglia, ma, più radicalmente, pare ingiusto e illogico, che su tali bene ricadano ogni e qualsiasi spesa fatta dai coniugi. Doc. Spiegati meglio, perché ritieni ingiusto ciò. Disc. Non certo perché non approvo che i terzi creditori per tali spese possano soddisfarsi sui beni della comunione (cosa che certamente può essere opportuna perché finisce per agevolare il credito alla famiglia), ma perché ritengo ingiusto che un coniuge ossa attingere nei beni della comunione per ogni sua spesa: Caio si compra un vestito e i relativi soldi li può prendere, non dal suo portafogli, ma dalla cassa comune; ora io trovo ingiusto ciò: infatti, almeno idealmente, i beni della comunione appartengono al 50% a Caio e al 50% a Caia, quindi attingere ad essi per sostenere una spesa significa far ricadere questa in parti eguali su Caia e Caio questo mentre, per l’articolo 143, Caio e Caia debbono contribuire ai bisogni della famiglia “in relazione alle proprie sostanze, alla propria capacità di lavoro ecc”, quindi, non necessariamente al 50%. Doc. Quel che ritieni una ingiustizia é semplicemente una deroga all’articolo 143, che nessuno può impedire al legislatore di fare. Disc. Io mi metto ora a parte creditoris: dalla parte di Fulano, che ha venduto un dato bene a Caio, credendo che fosse acquistato nell’interesse della famiglia, mentre Caio ha fatto invece l’acquisto nel suo solo interesse: viene tutelata la sua buona fede? Doc. E’ un articolo, non sul regime della comunione, ma sul diverso regime del “fondo patrimoniale”, che ci permette di tutelarla. E con ciò mi riferisco all’art. 170, che recita: “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Argomentando a contrario da tale norma, si ricava che, pur nel caso i debiti siano stati
contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, qualora il creditore di ciò non sapesse, egli può soddisfarsi sui beni del fondo. Questa conclusione, per analogia, io la riterrei applicabile, mutatis mutandis, per tutelare il creditore, anche nel caso di debito contratto da un coniuge in regime di comunione. Però operandovi una restrizione, nel senso di escludere la tutela del credito quando esso é stato assunto in circostanze che, valutate con la prudenza del bonus pater familias, portavano ad escludere che il debito fosse contratto per i bisogni familiari. Disc. La norma, che stiamo esaminando, parla di “obbligazione contratta dai coniugi: che dire se l’obbligazione, deriva da fatto illecito? Metti, il figlio di Caio e Caia, guidando l’auto “della famiglia”, arrota una persona: di questa obbligazione, che deriva dall’uso di un bene della famiglia, certamente risponde, ai sensi del terzo comma dell’art.2054, quello dei coniugi che nei registri pubblici risulta proprietario dell’auto, ma ne rispondono anche i beni della comunione? Doc. Certamente, si: la norma di cui alla lettera c) va senz’altro assoggettata ad un’interpretazione estensiva. Disc. Passiamo al disposto della lettera d): sembrerebbe che, se “congiuntamente” Caio e Caia decidono di assumere un’obbligazione, di questa i beni della comunione vengano a rispondere, poco importa che sia contratta per l’interesse della famiglia o no: Caia pazzamente innamorata di Caio, preleva dalla cassa comune un milione per comprare a questi una villa alle Bermude: il prelievo é fatto d’accordo con Caio, la donazione a Caio é naturalmente fatta col suo accordo: nessuno potrebbe dubitare, per il disposto della lettera d), che la donazione non sia valida. Doc. Effettivamente la lettera della norma condurrebbe a tale conclusione, ma é chiaramente una conclusione aberrante e contraria allo spirito, che informa il regime della comunione: il legislatore non permette a due coniugi di fare, quel che più loro piace, con i beni della comunione; e chi nega, come alcuni autorevolmente fanno argomentando dal secondo comma dell’articolo 191, che i coniugi possano escludere dalla comunione uno o più di tali beni, non può non concordare con ciò. I beni della comunione, anche se non viene detto espressamente nella normativa sulla comunione, come invece é detto in quella sul fondo patrimoniale, hanno una destinazione: la soddisfazione dei bisogni della famiglia. Il Legislatore semplicemente presume, con la norma che stiamo commentando, che, quando
un’obbligazione é assunta congiuntamente dai coniugi, essa sia assunta per l’interesse della famiglia. Disc. Passiamo ora all’esame dell’articolo 190, che – sotto la rubrica “Responsabilità sussidiaria dei beni personali – recita. “I creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti”. Doc. Fulano dopo aver fatto una causa – in cui ha convenuto, secondo i casi, Caia o Caio o tutti e due (come abbiamo detto in commento all’articolo 180) - ha ottenuto una sentenza, che riconosce che i coniugi Caia e Caio hanno verso di lui un debito, metti, di 300, e soprattutto riconosce che, di tale debito, hanno da rispondere i beni della comunione. Per eseguire la sentenza, Fulano dovrebbe in prima battuta aggredire i beni della comunione; però tali beni latitano completamente: nel caso, l’articolo 190 dà a Fulano la possibilità di agire “in via sussidiaria” contro il patrimonio di uno dei coniugi, quello di Caio o quello di Caia a sua completa scelta. Disc. Ma Fulano, prima di rivolgersi ai patrimoni personali dei coniugi, deve provare che sui beni della comunione non può soddisfarsi? deve provarlo facendo un tentativo di escussione su tali beni? Doc. Varie sono le teorie sul punto, ma la più soddisfacente é quella che esclude l’obbligo del creditore di fare il tentativo di pignorare (eventuali) beni della comunione. Disc. Ma Fulano non dovrà neanche in qualche altro modo provare l’inesistenza di beni della comunione utilmente pignorabili? Doc. No, sarebbe ingiusto gravare Fulano di tale prova non facile per lui (dato che per lui non é facile individuare quali siano i beni caduti in comunione), mentre é molto più facile per il coniuge (aggredito) indicare i beni in comunione che potrebbero essere utilmente escussi. Disc. Tu sei partito dall’ipotesi che non ci fossero beni in comunione, però potrebbe benissimo essere che questi, non mancassero, ma fossero solo insufficienti. Doc. Nel caso, Fulano dovrà e potrà escutere contemporaneamente i beni in
comunione e i beni personali di un coniuge. Disc. Abbiamo fatta l’ipotesi che Fulano abbia un credito di 300, ora completiamo il quadro, facendo l’ipotesi che il valore dei beni personali del coniuge aggredito sia di 200: Fulano potrà soddisfarsi fino a cento (cioé fino alla metà del valore dei beni personali del coniuge) oppure fino a 150 (cioé fino alla metà del suo credito)? Doc. La norma sul punto é chiarissima: Fulano potrà soddisfarsi fino a metà del suo credito, cioè, nell’esempio, fino a 150. Disc., Questo anche se l’obbligazione (posta in esecuzione) é stata da Caio e Caia assunta congiuntamente? Doc. Sì, certo; a meno che naturalmente l’obbligazione non sia stata assunta, non solo congiuntamente, ma anche solidalmente (caso in cui ovviamente Fulano potrà soddisfare il suo credito non al 50% ma al 100%). Disc. I creditori della comunione possono, lo abbiamo ora visto, soddisfarsi sui beni personali dei coniugi; ma accade anche il contrario? voglio dire, i creditori particolari dei coniugi, possono soddisfarsi sui beni in comunione? Doc. Sì, e ciò risulta dall’articolo 189. Disc. Diamo allora lettura di questo articolo che – sotto la rubrica “Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi” - recita: “I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro. I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito é sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione” Doc. Protagonista, diciamo così, del secondo comma dell’articolo 189 é il “creditore particolare” di un coniuge. Possiamo pensare, per avere qualche esempio di chi possa
essere tale, a Fulano I, che ha venduto della mobilia a Caio, prima o dopo, poco importa, del matrimonio di questo, e ancora avanza un credito. Protagonista invece del primo comma - ma in definitiva equiparato in tutto e per tutto al “creditore particolare” di cui al secondo comma - é chi é diventato creditore in seguito ad un atto di straordinaria amministrazione compiuto da Caio senza il consenso dell’altro coniuge. Pensa al caso di Caio, che commissiona a Fulano II un grosso appalto, per la ristrutturazione di un appartamento in comunione, senza il consenso di Caia. Disc. Sì, ci penso, ma più ci penso e meno mi spiego la cosa: voglio dire, i casi sono due: o il contratto stipulato da Caio é valido (metti, perché convalidato da Caia) e allora Fulano II mi pare che debba essere in tutto e per tutto equiparato a un creditore della comunione; oppure non é valido, e allora..... che credito mai Fulano II può vantare? Doc. Può vantare un credito, metti, per ingiusto arricchimento (che nell’esempio potrebbe essere dato dalle opere di ristrutturazione da lui comunque eseguite). Il legislatore ritiene giusto permettere che anche questo credito sia soddisfatto sui beni della comunione (dato che in fondo nasce da opere, da cui anche la comunione trae beneficio), però, volendo cautelare questa contro il pericolo di essere gravata da obbligazioni abusivamente assunte dal singolo coniuge, pone alla sua soddisfazione quegli stessi limiti e quella stessa condizione che pone ai crediti “particolari” di Caio Disc. Quali limiti, quale condizione? Doc. La condizione é che non sia possibile soddisfare tali crediti sui beni personali di Caio: tu, Fulano I, tu, Fulano II, puoi aggredire i beni della comunione, solo se sei nell’impossibilità di soddisfarti sui beni personali del coniuge. E sul punto noi non abbiamo che da richiamare mutatis mutandis le osservazioni fatte, in commento all’articolo 190, sull’analoga “condizione” che grava su Fulano nel caso voglia aggredire i beni particolari del coniuge (“saltando” quelli della comunione). I limiti sono dati: I- dalla postergazione di tali crediti (salvo che godano di un diritto di prelazione: crediti ipotecari, pignoratizi...) rispetto ai crediti relativi a obblighi (non del coniuge,ma) della comunione; II- dalla possibilità di soddisfarsi solo “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”. Disc. Cominciamo a parlare del primo limite. Esso vale sia per Fulano I (vero
creditore “particolare”) che per Fulano II (creditore solo equiparato al primo), vero? Non c’é ragione infatti di distinguere tra l’uno e l’altro tipo di credito: evidentemente l’inserimento della regola della postergazione solo nel secondo comma (relativo ai “creditori particolari” come Fulano I) é dovuto solo a un “lapsus” del legislatore. Doc. Io non sarei tanto sicuro di ciò e sarei propenso, invece, ad attribuire il fatto alla considerazione, che non é possibile immaginare che nascano, dalla situazione ipotizzata nel primo comma (atto di straordinaria amministrazione invalido perché mancante del consenso di entrambi i coniugi), dei crediti con diritto di prelazione (dato che la loro nascita richiede l’esistenza di un valido contratto). E, a conti fatti, io penso che, crediti con diritto di prelazione, si possano immaginare solo in relazione a contratti stipulati prima della costituzione del regime della comunione, dato che, una volta che questo é costituito, certamente i coniugi, come non possono vendere i beni della comunione, neanche possono costituire metti una ipoteca su di essi (o darli in pegno...). Disc. Parliamo del secondo limite: che cosa significa che il credito può essere soddisfatto “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”? significa che ciascun bene in comunione può essere pignorato solo fino a metà? Doc. Non capisco la tua domanda. Disc. Mi spiego con un esempio: mettiamo, che il patrimonio in comunione sia costituito, dal bene A di valore 100, dal bene B di valore 200, dal bene C di valore 300 (quindi abbia un valore complessivo di 600), e il credito sia di 300; orbene, fatto l’esempio, ripropongo, spero più chiaramente, la domanda: Fulano può pignorare,di un bene, metti del bene A, solo la quota, pari alla metà, spettante a Caio (e, quindi, può vendere solo la metà del bene, la metà di A) o può pignorare (e vendere) l’intero bene (l’intero A)? Doc. Certamente può pignorare e vendere l’intero bene, ciò nell’interesse anche del debitore. Dato che, é notorio, la vendita della quota pari alla metà di un bene, non permette di realizzare la metà del prezzo, che si realizzerebbe vendendo l’intero bene. Disc. Ancora una domanda per chiarirmi definitivamente le idee: Fulano, una volta pignorati e venduti i beni A e B, può trattenere, a soddisfacimento del suo credito, tutto il ricavato (cioé trecento), oppure può trattenerne solo la metà (cioé 150)?
Doc. Certamente può trattenere tutto il ricavato. Insomma i creditori particolari (e quelli ad essi equiparati) possono soddisfarsi fino a metà del valore dei beni (bada, fino a metà del valore dei beni in comunione e non, come nell’ipotesi dell’articolo 190, fino a metà del credito), però fino al limite di tale metà possono pignorare interamente i beni della comunione. Disc. Fulano, creditore del solo Caio, può pignorare i beni caduti in comunione in seguito ad un acquisto di Caia? Mi spiego meglio: metti che, i beni A e B, siano caduti in comunione in seguito ad un acquisto di Caia, e, il bene C, in seguito ad un acquisto di Caio; in una tale situazione, Fulano, pur essendo creditore del solo Caio, pur essendo il bene C di valore tale da poter soddisfare da solo il suo credito, può pignorare i beni A e B (ripeto, caduti in comunione per un acquisto fatto da Caia)? Doc. Io ritengo di sì: mi rendo conto che sia cosa “non gradita” per Caia, il fatto che Fulano pignori beni su cui lei ha diritto di coltivare l’aspettativa, che ritornino, allo scioglimento della comunione, nel suo patrimonio personale, d’altra parte, non si può addossare al creditore, a Fulano, il gravoso onere di individuare, nel complesso dei beni della comunione, quelli dovuti ad un acquisto del suo debitore (cioé, nell’esempio, di Caio), e quelli dovuti ad un acquisto del coniuge del suo debitore (cioé, di Caia) Disc. Un’ultima domanda: é vero o no che il legislatore, con il secondo comma, compie una notevole strappo ai principi del diritto? Doc. In che senso? Disc. Nel senso che, in base ai principi, i creditori di una persona - se questa trasferisce (con una vendita, con una donazione...) ad altri il suo diritto su un bene, metti sull’appartamento A - poi non possono soddisfare il loro credito aggredendo tale bene, a meno naturalmente che ottengano la revoca della atto di alienazione ai sensi degli articoli 2001 e ss.; invece, nell’articolo 189, vediamo che il Fulano I, del nostro precedente esempio, può pignorare i beni che, prima, di proprietà di Caio, dopo, sono caduti in comunione (“caduta in comunione” che sostanzialmente può essere equiparata a un trasferimento di proprietà sui beni). Doc. Questa deroga ai principi, da parte dell’articolo 189, effettivamente c’é, ma é giustificata dalla necessità di dare, ai creditori del coniuge, una tutela più efficace
dell’azione revocatoria, dato che non é sempre facile provare i presupposti necessari per l’esito vittorioso di tale azione, mentre é molto probabile che un coniuge si lascerebbe tentare a trasferire in comunione i suoi beni, per salvarli dall’assalto dei suoi creditori, se trasferendoli avesse a temere solo, di tale azione, gli strali (spuntati). Lezione XII: Lo scioglimento della comunione. Disc. Leggo l’art. 191, che – sotto la rubrica “Scioglimento della comunione” - recita: “La comunione si scioglie per la dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l’annullamento, per lo scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per il mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi. Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’art. 177, lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162”. Dunque, verificatosi uno dei fatti, elencati nell’articolo 191 che ho finito di leggere, “la comunione si scioglie”; ma che significa, ciò? Quando si tratta della “comunione ordinaria” (artt. 1100 e segg.) l’espressione “scioglimento della comunione” ha il facile e intuitivo senso di “inizio di una procedura che si concluderà con la divisione in più parti del bene comune o del prezzo ricavato dalla sua vendita e con la attribuzione di tali parti a ciascuno dei comproprietari del bene diviso”: ha lo stesso significato, l’espressione “la comunione si scioglie”, posta proprio nell’incipit dell’art. 191? insomma, che significato ha tale espressione? Doc. Il suo significato lo dovrebbe dire il Legislatore, ma purtroppo non lo dice. Una cosa é certa: “sciogliere la comunione”, nella nostra materia, non significa necessariamente “iniziare una procedura per la divisione dei beni in comunione”; anzi il legislatore non pone nessun termine per l’inizio di tale procedura (che pur disciplina negli artt. 194 e segg); per cui, ad esempio, Caio e Caia, ancorché “separati” o “divorziati” (quindi, ancorché la loro comunione dei beni si sia sciolta), potrebbero benissimo decidere di procrastinare la procedura di divisione (dei beni già in comunione), anche per anni, anche per tutta la vita. Altra certezza: dal momento in cui si perfeziona uno dei fatti, che l’articolo 191 indica come determinanti lo “scioglimento della comunione” (“separazione”, “divorzio”.....), gli “acquisti” fatti dai coniugi, non cadono più in comunione: se Caia, dopo che si é perfezionata la sua “separazione”, compra un appartamento, questo
entra direttamente nel suo patrimonio personale. Altra certezza ancora: per determinare i beni in “comunione de residuo”, deve farsi riferimento al momento in cui si perfeziona uno dei fatti determinanti lo “scioglimento”: pertanto se (in base a ragionamenti che a suo tempo vedremo) la “separazione personale” (artt. 150 e segg.) di Caio e Caia si dovrà considerare avvenuta il 15 ottobre, é al 15 ottobre che dovrà farsi riferimento per stabilire se quei certi frutti erano ancora percipiendi (e quindi restano in proprietà del coniuge) o già percetti (e quindi debbono fare...storia comune con tutti gli altri beni già in comunione). Ma queste da me sopra elencate sono le poche “certezze” che in subiecta materia si possono avere: poi, esistono solo ….dubbi e problemi. Disc. Ebbene dimmi almeno i principali problemi che in subiecta materia nascono. Doc. Essi sono tre: te li elenco, poi cercherò di esporti la loro migliore soluzione. Primo problema: i coniugi, sui beni già in comunione, dopo lo scioglimento di questa, quali poteri (di disposizione giuridica, di fatto, di godimento) hanno? Secondo problema: in particolare, un coniuge può vendere la quota che gli spetta sui beni in comunione? Terzo problema: i titolari di crediti, sorti nella costanza della “comunione”, una volta che questa si é sciolta, vanno soddisfatti nella misura e con gli stessi limiti di prima (dello scioglimento)? Disc. Bene, posti i problemi, vediamo quale soluzione va ad essi data. Comincia dal problema dei limiti, all’amministrazione e al godimento dei beni già in comunione, che in coniugi incontrano dopo lo scioglimento di questa. Doc. Quattro sono le soluzioni (almeno le soluzioni di una certa attendibilità) che si possono dare a tale problema (per quel che riguarda i beni immobili: sui beni mobili dirò in un secondo tempo). Prima soluzione: i limiti ai poteri dei coniugi vanno stabiliti con riferimento alle stesse norme, che disciplinano la “comunione legale dei beni” (norme che pertanto vengono a godere di una sorta di ultrattività). Seconda soluzione: i limiti ai poteri dei coniugi vanno stabiliti con riferimento alle norme, che disciplinano la “comunione ordinaria” (artt.1100 segg). Terza soluzione: bisogna prima di tutto distinguere (in base ai criteri adottati nell’interpretazione dell’articolo 180) tra straordinaria e ordinaria amministrazione: per i limiti che incontrano i coniugi nella straordinaria amministrazione, va fatto
riferimento alle norme sulla comunione legale (in particolare all’articolo 184); per i limiti, invece, posti ai coniugi nell’ordinaria amministrazione e nel godimento dei beni, va fatto riferimento alle norme sulla “comunione ordinaria”. Quarta soluzione: i coniugi provvedono congiuntamente agli atti di amministrazione straordinaria; invece, l’amministrazione ordinaria e il godimento dei beni, spetta al coniuge intestatario (nei registri immobiliari) dei beni (idest, al coniuge che ebbe ad acquistarli). Disc. A me la quarta soluzione sembrerebbe la più ovvia: é ovvio che agli atti di ordinaria amministrazione (decidere, se far riparare o no il tetto, se far dare o no il bianco alle facciate, se compiere o no questa o quell’opera migliorativa...) sia legittimato il coniuge che, avendo acquistato il bene, ne é intestatario e, quindi, ha la legittima aspettativa di vederselo assegnare in sede di divisione: forse che non é lui quello che ha più interesse a compiere i necessari atti conservativi e migliorativi? Chiaro, poi, che il godimento di un bene (la possibilità di andare ad abitare in quell’appartamento, la possibilità di farsi una passeggiata in quel campo...) debba essere riservato al coniuge, che ha il potere di amministrarlo (se non altro perché, se l’amministrazione spettasse a Caio e il godimento a Caia, il godimento di questa intralcerebbe l’amministrazione di quello: se Caio deve, metti, dare il bianco alle stanze, come fa se nell’appartamento abita Caia?). Doc. Non posso negare che le ragioni da te addotte sono molto buone; però, hanno un punto debole: vi sono delle situazioni in cui, lungi dall’essere certo o anche probabile, é addirittura molto improbabile che il bene, di cui é intestatario un coniuge, sia attribuito in sede di divisione proprio a quel coniuge. Pensa al caso in cui gli immobili caduti nella comunione sono quattro e tutti quattro comprati dal solo Caio: in tal caso, al momento della divisione, due di tali appartamenti spetteranno di certo a Caia: questa, quindi, ha interesse, non meno di Caio, alla buona amministrazione di tutti gli immobili e ha non meno diritto di Caio di goderne (perché non può sapere quale di tali immobili toccherà a lei e quale a Caio). Disc. Va bene, capisco: allora si potrebbe optare per la prima soluzione (cioé si applicano le norme sulla comunione legale). Doc. Questa soluzione presenta l’inconveniente di attribuire l’amministrazione ordinaria e il godimento di tutti i beni a entrambi i coniugi: ciò non crea inconvenienti quando i coniugi vivono in armonia, ma rischia di creare situazioni imbarazzanti e
addirittura continui conflitti, quando tra i coniugi é sceso il gelo o, peggio, sono nati l’astio e la sete di vendetta. Mutatis mutandis il discorso può essere ripetuto, per il caso, l’amministrazione e il godimento, spettassero (come può accadere in caso di scioglimento della comunione per decesso di un coniuge) a un estraneo (agli eredi del coniuge, metti). Disc. Capisco anche questo: si potrebbe allora optare per la seconda soluzione (cioé, si applicano le norme sulla comunione ordinaria).. Doc. Questa soluzione però presenta l’inconveniente che viene a privare il coniuge di due possibilità, che, invece, in casi di straordinaria amministrazione possono rivelarsi utili: la possibilità di convalidare eventuali contratti, stipulati dall’altro coniuge senza il suo consenso, ma ciò nonostante ritenuti vantaggiosi (se invece si applicasse l’articolo 1108 i contratti stipulati da un solo coniuge dovrebbero considerarsi, non annullabiili e quindi convalidabili, ma tout court inefficaci), la possibilità di superare eventuali impasse dovute all’ostruzionismo dell’altro coniuge utilizzando la procedura di cui all’articolo 181. Disc. Non resta allora che accogliere la terza soluzione. Doc. Che effettivamente mi pare la preferibile, a condizione che si interpretino il quarto comma dell’articolo 1105 e l’articolo 1106 in maniera ….creativa (un’interpretazione “creativa” non può scandalizzare, quando l’interprete é costretto a colmare ….un vuoto assoluto lasciato dal legislatore!). Disc. E cioè, in che senso? Doc. Nel senso che il Giudice possa regolamentare l’amministrazione (ordinaria) e il godimento (non dei singoli beni, ma) del complesso dei beni già in comunione legale, se del caso ripartendo tra i coniugi tale amministrazione e tale godimento (erano in comunione solo due beni, A e B? di A é intestario Caio e, di B, Caia? il godimento e l’amministrazione di A spetti a Caio e, di B, a Caia; vi erano invece in comunione quattro beni tutti intestati a Caio? allora l’amministrazione e il godimento dei beni A e B spetti a Caio e, quello di C e D, spetti a Caia). Disc. Con ciò abbiamo detto sui limiti all’amministrazione e al godimento dei beni immobili; e per quel che riguarda i beni mobili?
Doc. Per questi l’unica soluzione é quella di far riferimento alle norme sulla comunione ordinaria e...di provvedere quanto prima alla loro divisione. Tenendo presente che é certamente ammissibile una divisione parziale dei beni della comunione: si dividono i beni mobili e non quelli immobili. Disc. Parliamo ora del secondo dei tre più gravi problemi, che possono porsi dopo lo scioglimento di una comunione: un coniuge può alienare la sua quota? Doc. Io lo escluderei. L’amministrazione delle cose (già in comunione) richiede una certa confidenza tra le parti, che debbono di comune accordo provvedervi, e, anche, un loro comune ricordo degli atti pregressi di amministrazione (comune ricordo che rivela la sua importanza soprattutto quando si tratti di stabilire, se Caio prelevò delle somme dalla cassa comune, se fu Caio o Caia a comprare quel certo mobile e cose simili – confidenza e comune ricordo che, presumibili tra i coniugi, probabilmente mancherebbero tra un coniuge e un estraneo). Disc. E ora cerchiamo di risolvere il terzo dei problemi (all’inizio da te segnalati): quello dei limiti con cui i creditori possono soddisfarsi sui beni già in comunione, una volta che questa é stata sciolta; in particolare: essi continuano sempre a godere su tali beni di un diritto di prelazione rispetto ai creditori particolari dei coniugi? Doc. E perché non dovrebbero? Il mobiliere Fulano, ha fatto credito a Caia, perché sapeva, sì, che il patrimonio personale di questa era gravato dai forti debiti verso Tizio e Sempronio, ma anche che nella comunione dei beni (di Caia e Caio) c’era l’appartamento A, che lo avrebbe ampiamente garantito dato il diritto di prelazione ch’egli aveva rispetto a Tizio e Sempronio: perché mai tale affidamento di Fulano dovrebbe essere frustrato dalla decisione di Caia di separarsi da Caio? Ammettere questo sarebbe come ammettere che un debitore, con un suo atto discrezionale, possa rendere più deteriore la posizione del suo creditore. Assurdo! Disc. Tanto assurdo non lo trovo, dal momento che un debitore, vendendo i suoi beni, può effettivamente rendere più deteriore la situazione dei suoi creditori. Doc. Sì, ma costoro, contro i suoi atti di disposizione “maliziosi”, hanno il rimedio dell’azione revocatoria: forse che Fulano, il creditore della comunione, potrebbe chiedere la revoca....della separazione? Eppure questa potrebbe nascere da una
volontà frodatoria di Caia e Caio. Disc. Però, quando Caia e Caio decidessero di dividere i beni (già) in comunione, anche se l’appartamento A fosse assegnato a Caia, Fulano non potrà soddisfarsi su di questo con prelazione sui creditori particolari, Tizio e Sempronio. Doc. Questo é vero, però egli in tal caso non mancherà di difese contro una possibile volontà frodatoria dei coniugi: avrà l’azione revocatoria e potrà partecipare al giudizio divisorio (art. 1113). Disc. Va bene, Fulano, anche dopo lo scioglimento della comunione, continuerà ad avere il diritto di prelazione sui beni (già) in comunione; ma conserverà anche il diritto di soddisfarsi fino a metà del suo credito sui beni personali di Caio e Caia? Doc. Direi proprio di sì. Disc. Facciamo il caso contrario: i creditori particolari di Caio e di Caia conserveranno, anche dopo lo scioglimento della comunione, la possibilità di soddisfarsi, in via sussidiaria, sui beni (già) in comunione? Doc. Anche a questa domanda risponderei positivamente: sì, beninteso nei limiti posti dall’articolo 189. Disc. Abbiamo visto quali sono le conseguenze giuridiche di uno scioglimento della comunione; vediamo ora i fatti che, tale scioglimento, possono determinare. L’articolo 191 fa di tali fatti un elenco: prima domanda: é da considerarsi tassativo? Doc. Così si sostiene. Disc. Ora alcune domande utili per chiarire l’esatta portata dei fatti, in tale elenco, indicati. Per cominciare: ogni “mutamento convenzionale del regime patrimoniale” determina lo scioglimento della comunione? Doc. No, di certo: se Caio e Caia costituiscono un “fondo patrimoniale” (artt. 167 segg.) oppure escludono dalla “comunione” l’azienda gestita in comune (co.2 art. 192), certamente operano un mutamento del regime patrimoniale e lo operano, bada
bene, in forza di una convenzione stipulata per atto pubblico (come vuole l’articolo 162); però sarebbe assurdo pensare che ciò determini lo scioglimento della “comunione”, dal momento che – come risulta dalla complessiva disciplina che il Legislatore fa del regime patrimoniale della famiglia, e, in particolare da ciò che, per l’azienda, si può argomentare dal 2° co. art. 191 – già ab initio due coniugi potrebbero benissimo costituire contestualmente: una comunione, un fondo patrimoniale e un’azienda (cogestita ma non in regime di comunione). In realtà la lettera dell’articolo 191 va interpretata restrittivamente e precisamente nel senso che, il mutamento del regime patrimoniale, determina lo scioglimento della comunione, solo quando con questa é incompatibile, com’é il caso – e per quel che so, il solo caso – che i coniugi decidano di adottare il regime della separazione dei beni. Disc. Che cosa si intende per “separazione giudiziale dei beni”? Doc. Per una risposta a tale domanda ti rinvio al commento dell’articolo 193, che farò appena esaurito quello dell’articolo 191. Disc. Cambiamo allora argomento. Alcuni dei fatti elencati nell’articolo 191 fanno sorgere il dubbio sul momento preciso in cui si verifica lo scioglimento della comunione; ad esempio, questo si ha: al momento in cui é presentata la domanda di annullamento del matrimonio o al momento in cui passa in giudicato la sentenza che, l’annullamento, dichiara; al momento in cui é stata presentata l’istanza di fallimento o in quello in cui il fallimento é dichiarato; al momento in cui é presentato un ricorso per separazione o al momento in cui passa in giudicato la sentenza che la pronuncia? Doc. Ogni caso da te fatto meriterebbe di essere esaminato partitamente; ciò che la natura del presente lavoro, però, mi impedisce di fare. Mi limiterò, pertanto, a darti il criterio di carattere generale che, a mio parere, si deve tenere presente per trovare la (giusta) soluzione dei casi da te prospettati. Disc. Qual’é questo criterio generale di cui parli? Doc. E’ questo: nel determinare il momento in cui si verificano gli effetti dello scioglimento, non si deve partire dall’idea che gli effetti, che incidono sui rapporti tra coniugi, si producano nello stesso momento di quelli, che, invece, incidono nei rapporti tra coniugi e terzi (terzi-creditori, terzi-acquirenti dei beni in comunione....):
non é detto: una sfasatura può essere resa ben possibile dal fatto che diverse sono le esigenze da tenere presenti nel primo e nel secondo caso. Nel primo caso (rapporti tra coniugi), vi é l’esigenza di delimitare al più presto i poteri e le competenze di persone che, prima legate dall’affetto, ora probabilmente si trovano in guerra l’una contro l’altra. Nel secondo caso, vi é l’esigenza della tutela dell’affidamento dei terzi, che consiglia di procrastinare, gli effetti dello scioglimento, al momento in cui il fatto, che lo genera, ha avuto pubblicità e certezza adeguate. Disc. Facciamo un esempio: questo criterio, applicato alla separazione, che cosa comporterebbe? Doc. Comporterebbe quella soluzione che il Legislatore, troncando finalmente un’annosa diatriba ha effettivamente dato, con il secondo comma dell’art. 191 (soluzione che, a mio parere, é estensibile, con qualche adattamento, più o meno forte, anche agli altri casi di “scioglimento”). Il secondo comma dell’art.191 recita: “ Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati é comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione”. E’ reso evidente, dall’ultima parte del comma sopra riportato, che lo scioglimento della comunione, mentre produce i suoi effetti per i coniugi al momento dell’autorizzazione a vivere separati o al momento della sottoscrizione del verbale di separazione consensuale, per i terzi li produce solo dal momento in cui la annotazione (dello scioglimento) avviene. Disc. A questo punto, esaurito l’esame del primo comma dell’articolo 191, dobbiamo passare all’esame del suo terzo comma, che, ricordo, recita: “Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’articolo 177 lo scioglimento della comunione può essere deciso per accordo dei coniugi osservata la forma prevista dall’art. 162”. Doc. Per la comprensione della disposizione da te letta, va, prima di tutto, ricordato, che “gestione in comunione di un’azienda” significa che, alla gestione dell’azienda, si applicano le norme sulla comunione legale dei beni (in particolare gli artt. 186 e
segg.) e non le norme sulla società in nome collettivo (in particolare non le si applica l’art. 2305). Disc. E ciò in pratica cosa significa? Doc. Significa, che i creditori della comunione potrebbero aggredire i beni dell’azienda. Disc. Però, solo in via sussidiaria, come prevede l’articolo 190. Doc. No, in via diretta, perché, non dimenticarlo, i beni della azienda cogestita sono considerati facenti parte della comunione dei beni. Inoltre tali beni, sia pure in via sussidiaria e nei limiti dell’articolo 189, potrebbero essere aggrediti anche dai creditori particolari dei coniugi. Tutto questo può scoraggiare l’elargizione di credito all’impresa cogestita dai coniugi. Ecco perchè questi potrebbero avere interesse a escludere l’azienda dalla comunione (e quindi dall’applicazione degli artt. 186 e segg.), accettando così che la loro cogestione sia disciplinata dalle norme sulla società in nome collettivo e in particolare dall’articolo 2305, secondo cui “Il creditore particolare del socio finché dura la società non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore”. Quindi, una volta effettuata l’esclusione dell’azienda dalla comunione, i suoi beni potrebbero essere aggrediti solo dai creditori della società. Disc. Non dai creditori della comunione? Doc. No, perché essi, ai fini dell’articolo 2305, sarebbero considerati “creditori particolari dei soci”. Disc. Dobbiamo ora parlare della “separazione giudiziale dei beni”, che é disciplinata dall’art. 193; che passo subito a leggere: “La separazione giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso di interdizione o di inabilitazione di uno dei coniugi o di cattiva amministrazione della comunione. Può altresì essere pronunziata quando il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro o della comunione o della famiglia, oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e
capacità di lavoro. La separazione può essere chiesta da uno dei coniugi o dal suo legale rappresentante. La sentenza che pronunzia la separazione retroagisce al giorno in cui é stata proposta la domanda ed ha l’effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione V del presente capo, salvi i diritti dei terzi. La sentenza é annotata a margine dell’atto di matrimonio e sull’originale delle convenzioni matrimoniali”. Viene naturale, rispetto a questo istituto della “separazione dei beni”, la domanda che ora ti pongo (preceduta da una breve premessa a suo chiarimento): premesso che la “separazione giudiziale dei beni” ipso facto determina, per l’art. 191, lo scioglimento della comunione, e che pertanto é da ritenersi che, se il Legislatore non dà direttamente e semplicemente a Caia il diritto di provocare (in caso di interdizione e inabilitazione, in caso di mala gestio di Caio, ecc.) lo scioglimento della comunione, é perchè la “separazione personale” dà qualcosa di più rispetto al semplice scioglimento della comunione, tanto premesso vengo alla domanda vera e propria, che é questa: in che consiste questo “qualcosa di più”, che dà la separazione rispetto allo “scioglimento”? Doc. Consiste nell’instaurazione tra i coniugi del regime della separazione dei beni. Disc. Ma anche per il semplice effetto dello scioglimento della comunione, si instaurerebbe tra Caia e Caio tale regime: scioltasi la comunione, infatti, i beni che Caia e Caio acquistano, cadono nel loro patrimonio ed essi possono disporne come meglio loro aggrada. Doc. Però, metti che Caia e Caio avessero acquistato durante il matrimonio, lei, i beni A, B,C, e, lui, i beni D e F: non é, lo abbiamo visto, che con lo scioglimento della comunione, i beni A,B,C tornano nella libera disponibilità di Caia e i beni D e F, nella libera disponibilità di Caio. Ora invece, con la separazione giudiziale accade proprio questo: che i beni in comunione ritornano nei patrimoni di chi li aveva acquistati. Disc. Quindi ottenere la “separazione giudiziale dei beni” rappresenta un bel vantaggio per Caia (in genere, per il coniuge che ha la sfortuna di essersi sposato con chi é pasticcione o dissipatore)! Doc. Non sempre é così. Metti che Caio sia, sì, un intralcio per l’amministrazione dei beni in comunione, ma sia anche un indefesso lavoratore, che mette in banca mese
dopo mese dei bei bigliettoni, che, al momento in “comunione de residuo” (lett.c art. 177), domani, quando questa si scioglierà, verranno a cadere nel patrimonio comune: se Caia chiede la separazione ora, anno di grazia 2012, a cadere nel patrimonio comune saranno solo i soldi messi in banca da Caio fino al 2012, se invece ha pazienza e aspetta metti fino al 2022, nel patrimonio comune cadranno anche i futuri soldi, che Caio avrà messo in banca dal 2012 al 2022: é evidente che a Caia in un tal caso converrebbe chiedere, non la separazione giudiziale dei beni, ma l’esclusione (ai sensi dell’art. 183) di Caio dall’amministrazione. Disc. Quindi la “separazione giudiziale dei beni” ha dei “pro” e dei “contro”. Doc. Sì, ed é per questo che il legislatore la subordina alla richiesta della persona più idonea a ben soppesare questi “pro” e questi “contro”: il coniuge (e il suo legale rappresentante). Disc. Tutto questo per quel che riguarda gli effetti della “separazione giudiziale dei beni”, ma che c’è da dire riguardo ai presupposti della sua applicazione? Doc. Ai fini di operare una semplificazione, possiamo dividere tali presupposti in quattro categorie. Prima: presupposti attinenti alla incapacità legale dell’altro coniuge (casi dell’interdizione e dell’inabilitazione). Essi giustificano la separazione in quanto costringono Caia (in genere, il coniuge “capace”) a co-amministrare con un estraneo: il tutore o il curatore del coniuge incapace. Seconda (categoria): mala gestio di Caio (in genere, dell’altro coniuge) dei beni della comunione. Intuitivo perchè tale fatto giustifichi la separazione. Terza (categoria): disordine (sia pure incolpevole) o mala gestio di Caio (in genere dell’altro coniuge), che pone in pericolo, la famiglia, gli interessi di Caia, il patrimonio comune (non si dimentichi, a quest’ultimo proposito, che i creditori di Caio possono, per l’art. 189, soddisfarsi sui beni comuni fino alla metà, cosa per cui, se tali beni fossero stati in prevalenza acquistati da Caia e i debiti di Caio superassero la metà del loro valore, Caia ben potrebbe dire, che Caio, con i suoi debiti, le vien mangiando i beni da lei acquistati). Perché tale situazione giustifichi la separazione é anche qui intuitivo Quarta (categoria): Caio non dà il contributo da lui dovuto per le spese della famiglia. In tal caso - se i beni della comunione dessero frutti e in prevalenza per gli acquisti fatti da Caia - si avrebbe che Caio, non solo non pagherebbe il dovuto a Caia, ma si
arricchirebbe con i frutti dei suoi beni: ciò sarebbe ingiusto e inammissibile e a ciò potrebbe porre rimedio la “separazione”. Lezione XIII: La divisione. Disc. Parliamo ora della divisione. Come si opera? Doc. Si opera in base alle norme che disciplinano la divisione ereditaria integrate dagli articoli 194-197 e dall’articolo 192. Disc. Cominciamo allora ad esaminare l’articolo 194, che recita: “La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti eguali l’attivo e il passivo. Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all’affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l’usufrutto su una parte dei beni spettanti all’altro coniuge.” Doc. La divisione dell’attivo in parti eguali, prevista dal primo comma, é il corollario dell’ideologia, che ispira il regime della comunione: partendo dal presupposto, che i beni, che compongono questa, sono il frutto del lavoro paritario dei due coniugi, é logico, che essi siano divisi paritariamente tra di loro. Quanto alla divisione in parti eguali del passivo, essa si giustifica col fatto che questo é frutto delle decisioni comuni dei coniugi Disc. Questo mi pare possa valere per le obbligazioni nate dagli atti di amministrazione straordinaria, non per quelle originate da atti di amministrazione ordinaria. Doc. No, anche per quelle, dato che, se é vero che gli atti di ordinaria amministrazione ordinaria sono validi, anche se compiuti da un solo coniuge, é anche vero, che, almeno nella fisiologia della vita coniugale, devono essere conformi a quello “indirizzo della vita familiare”, che, per l’art. 144, i coniugi debbono concordemente decidere. Disc. Però, alla divisione paritaria dei beni della comunione disposta dal primo comma, apporta un’eccezione il secondo: se, infatti, dei beni si fanno due porzioni perfettamente eguali: la porzione A e la porzione B; ma, poi, la porzione A la si grava
di un usufrutto, il risultato é che...le porzioni non sono più eguali. Doc. E’ così, e, per evitare l’ingiustizia in ciò implicita, la norma va interpretata restrittivamente; e cioé nel senso che il giudice, può, sì, gravare la porzione, metti di Caio, di un usufrutto a favore di Caia (a cui sono affidati i figli), ma solo se e in quanto, il presumibile ricavato di tale usufrutto, non supera il contributo dovuto, ai sensi dell’articolo 148, da Caio, per il mantenimento dei figli. E, infatti, non c’é ragione valida, che giustifichi, un’interpretazione delle norme sulla comunione, che le porti a derogare ai principi espressi dagli articoli 143 e segg. Disc. Passo a dar lettura dell’articolo 195: “Nella divisione i coniugi o i loro eredi hanno diritto di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione. In mancanza di prova contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione” Doc. La prima parte dell’articolo ci dice, che debbono essere estrapolati, dal compendio dei beni soggetti a divisione, i beni di cui alle lettere a) e b) dell’articolo 179. Il che é perfettamente logico. Meno logico, anzi del tutto illogico, che non vengano estrapolati da tale compendio anche gli altri beni, che lo stesso articolo, nelle lettere seguenti c), d), e), f), definisce come “personali”. Ma questa é una illogicità dovuta semplicemente a una disattenzione del Legislatore, che, nel formulare la norma dell’articolo 195, ha pedissequamente ricopiato la norma prima vigente in argomento, senza considerare che questa non contemplava, tra i beni da escludere dalla divisione, i “beni di uso strettamente personale” “i beni che servono all’esercizio della professione” eccetera, per la semplice ragione che illo tempore tali beni non erano considerati “personali”. Tocca quindi all’interprete rimediare alla disattenzione del Legislatore con un’interpretazione estensiva della norma. Disc. E veniamo all’ultima parte dell’articolo in commento: essa mi sembra in perfetta sintonia con il secondo comma dell’articolo 219, che abbiamo già incontrato parlando del regime di separazione dei beni. Doc. E’ vero, e puoi aggiungere che, come in regime di comunione si applica una norma eguale a quella del secondo comma (dell’art.219), non c’é ragione che non si applichi una regola eguale a quella del primo comma (sempre dell’art. 219): di conseguenza, si deve ritenere che, pure i coniugi in comunione (e non in regime di
separazione) dei beni, possano vincere la presunzione, di appartenenza dei beni mobili alla comunione, “con ogni mezzo di prova” (prove testimoniali, presunzioni...). Disc. Passo alla lettura dell’articolo 196: “Se non si trovano i beni mobili che il coniuge o i suoi eredi hanno diritto di prelevare a norma dell’articolo precedente essi possono ripeterne il valore, provandone l’ammontare anche per notorietà, salvo che la mancanza di quei beni sia dovuta a consumazione per uso o perimento o per altra causa non imputabile all’altro coniuge”. Doc. E’ naturale che i coniugi, durante il periodo della loro convivenza, tengano nei luoghi condivisi (abitazione principale, casa di campagna....) anche dei beni di loro personale proprietà. Ora l’articolo 196 va interpretato nel senso che, se un coniuge prova la presenza (nel periodo della convivenza) di un suo bene A in uno di tali “luoghi condivisi”, e questo più “non si trova”, può, provandone il valore, “ripeterne l’ammontare”, a meno che l’altra parte (idest, l’altro coniuge o i suoi eredi) provi che “la mancanza del bene é dovuta a sua consumazione per uso “ecc. Disc. Articolo 197: “Il prelevamento autorizzato dagli articoli precedenti non può farsi a pregiudizio di terzi, qualora la proprietà individuale dei beni non risulti da atto avente data certa.. E’ fatto salvo al coniuge o ai suoi eredi il diritto di regresso sui beni della comunione spettanti all’altro coniuge nonché sugli altri beni di lui”. Doc. Abbiamo visto che, per i precedenti articoli, un coniuge può prelevare quei beni di cui con “ogni mezzo” prova la personale proprietà. E’ chiaro però che, la diminuzione del compendio dei beni da dividere, può giocare a sfavore di terzi, in particolare dei creditori della comunione e dei creditori dell’altro coniuge; ed é altresì chiaro, che é ben ipotizzabile una combine tra i due coniugi (o tra un coniuge e gli eredi dell’altro) per...lasciare a bocca asciutta tali terzi e in particolare tali creditori. Proprio tenendo conto di ciò, il legislatore, nella prima parte dell’articolo in commento, stabilisce che, quella che può ritenersi prova valida per giustificare, nei confronti dell’altro coniuge o dei suoi coeredi, il prelievo di un bene, tale non può più ritenersi nei confronti dei “terzi”: nei confronti di costoro, la prova “della proprietà individuale”, va data con “atto avente data certa”.
Disc. Basta che un atto abbia data certa perché esso venga a costituire la prova pretesa dal Legislatore? Doc. No, di certo: il riconoscimento di Caio (il marito) che un dato bene é di proprietà di Caia (la moglie), anche se “con data certa”, ben difficilmente potrà costituire una prova valida nei confronti dei terzi. La “data certa” semplicemente prova con certezza che l’atto é stato redatto in un dato anno e in un dato giorno: per aversi la prova pretesa dal legislatore, occorre, in più, che il contenuto dell’atto provi la proprietà personale del bene e che, il tempo in cui é stato redatto, escluda l’ipotesi di una sua redazione a fini deceptatorii. Disc. Però, in base al disposto della prima parte dell’articolo, potrà aversi la strana situazione che, uno stesso bene A, vada considerato di proprietà personale di Caio, nei confronti di Caia, e di proprietà comune, nei confronti dei terzi. Doc. Di questa situazione si fa carico il legislatore nella seconda parte dell’articolo, riconoscendo a favore del coniuge “espropriato” dal terzo, un diritto di regresso nei confronti dell’altro coniuge o dei suoi eredi (diritto da realizzarsi sui beni della comunione o dell’altro coniuge). Disc. Ci resta ancora ad commentare un articolo: l’art. 192, che recita: “Ciascuno dei coniugi é tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186. E’ tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’art. 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia. Ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune. I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente. Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito. In caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili”. Disc. Il primo comma fa l’ipotesi di un prelievo fatto da un coniuge “dal patrimonio
comune”: ma é possibile che Caio prelevi lecitamente delle somme (o addirittura dei beni) dalla comunione? Doc. Senza il consenso di Caia, lo escluderei; col consenso di questa, invece, senz’altro lo riterrei possibile: del resto, evidentemente, il primo comma si riferisce proprio all’ipotesi di un prelievo “lecito” (se fosse illecito, l’obbligo del rimborso sarebbe ovvio e ovvio sarebbe che avvenisse immediatamente e non, come dispone il quarto comma, “al momento dello scioglimento della comunione”). L’ipotesi che si può fare – esclusa quella di una “donazione”, che sarebbe senz’altro da ritenersi inammissibile e invalida (salvo le piccole donazioni che il costume consente) - é quella di un “mutuo” dato a Caio con i beni del patrimonio familiare. Ma per questo non si deve pensare al contratto di mutuo disciplinato negli artt. 1813 e segg. Disc. Perché? forse ritieni che non sia valido un tale tipo di contratto.? Doc. Al contrario, lo ritengo perfettamente valido (nonostante l’anomalia di Caia che compie sola soletta un atto di straordinaria amministrazione e avendo come controparte...l’altro coniuge). E non solo valido, ma in molti casi rispondente all’interesse familiare: Caio ha bisogno di un milione per superare la crisi della azienda, il cui fallimento porterebbe rovina, non solo a lui, ma a tutta la famiglia: perché costringerlo a chiedere i soldi a chi lo strozzerebbe con interessi esosi, quando il milione si trova inutilizzato nel patrimonio comune.? Ed é, proprio per non frapporre ostacoli alla stipulazione di un tale contratto, che non ritengo di ricomprenderlo nella previsione del primo comma: infatti, se così fosse, se tale previsione si riferisse a un vero contratto di mutuo, si dovrebbe anche ritenere che, all’obbligo di restituzione della somma che ne deriva, si applichi il quarto comma, cioé che tale restituzione sia prorogata al momento dello scioglimento della comunione. Ora, Caia, potrebbe ben accettare di dare il milione a Caio, ma solo a patto che tale somma ritornasse nella cassa comune in un dato, sicuro termine (“Se i soldi me li restituisci entro dicembre, va bene, ti do i soldi, se no, no”). Impedire quindi l’apposizione di un termine al contratto di mutuo, finirebbe quindi per impedire un contratto molte volte utile alla famiglia. Disc. Allora a che altro caso si riferirebbe il primo comma parlando di “prelievo dal patrimonio comune”?
Doc. Al caso di un mutuo dato a Caio con i beni comuni in “via bonaria”, meglio non saprei esprimermi. Insomma, a Caia, che vede richiedersi un “prestito” da Caio, bisogna dare due possibilità: quella di dire “sì” in via bonaria (e in tal caso i soldi li rivedrà....al momento dello scioglimento della comunione) e quella di dire “Sì, ma tu ti impegni a restituire i soldi entro la data tot” (e in tal caso non si applicherà il quarto comma e Caio dovrà restituire effettivamente i soldi nel termine pattuito.). Disc. Passiamo all’esame del secondo comma. Doc. I beni del patrimonio familiare possono, diciamo così, subire un salasso - per l’esecuzione di un credito, che non é nei riguardi della comunione, ma del singolo coniuge, mettiamo di Caio - in due diversi casi: perché la obbligazione relativa é stata assunta da Caio nell’interesse suo particolare (é il caso di Caio che abbia comprato dei beni per la sua azienda da Sempronio, che pone poi in esecuzione il suo credito) e perché la obbligazione relativa é stata assunta da Caio nell’interesse della famiglia. In tutti e due i casi, Caio, in via di principio, dovrà rimborsare alla “comunione” “il valore dei beni” espropriati dal suo creditore; però tale principio é soggetto nel secondo caso a una possibile deroga: se, l’assunzione dell’obbligazione, si é rivelata, nonostante tutto, “utile” per la famiglia, Caio, nei limiti di tale utilità, non dovrà effettuare il rimborso. Disc. Ma, comunque, per il rimborso quanto tempo avrebbe Caio? Doc. Avrebbe tempo fino allo scioglimento della comunione. Te lo dice il quarto comma. Disc. Parliamo del terzo comma. Doc. Rappresenta un po’ il caso simmetrico del primo comma. Parlando di questo abbiamo visto l’ipotesi di un coniuge, che chiede soldi alla “famiglia”; nel terzo comma si fa, al contrario, l’ipotesi di un coniuge che aiuta con i suoi soldi la famiglia. E ad esso, quindi, si possono applicare, mutatis mutandis, le osservazioni fatte a proposito del primo comma: a Caio, che “presta “soldi alla “famiglia”, si devono dare due possibilità: di dare tali soldi in “via bonaria” (e in tal caso i soldi gli verranno restituiti solo al momento dello scioglimento della comunione) o di darli prefiggendo un preciso termine per la loro restituzione (e in tal caso i soldi gli dovranno essere restituiti in tale termine)..
Disc. Metti che Caio gratifichi la sua famiglia, non con i suoi soldi, ma con la sua opera: egli, provetto muratore, nelle sue vacanze ha addirittura sopraelevato di un piano la casetta di campagna: può farsi rimborsare la fatica e le ore perse? Doc. Io riterrei di no; perché, la valutazione e traduzione in moneta del suo lavoro, graverebbe troppo le (già di solito complicate) operazioni divisionali; specie quando anche l’altro coniuge abbia a sua volta fatto del lavoro per la famiglia (Caia, che, mentre il marito sul tetto metteva le tegole, sgobbava a lavare i pavimenti) e bisognerebbe soppesare e comparare lavori tra di loro eterogenei. Disc. Eccoci arrivati al quinto e al sesto comma, ma per essi il commento lo faccio io. Procrastinare il pagamento dei rimborsi e delle restituzioni é utile per permettere reciproche compensazioni. Il diritto di prelievo in natura, poi, corrisponde a un elementare principio dell’economia (evitando vendite di beni sottocosto per poi ricomprarne altri della stessa specie...a prezzo di mercato). Doc. Dieci e lode.
Sezione quinta: Comunione convenzionale dei beni – Fondo patrimoniale
Lezione XIV: La comunione convenzionale dei beni. Doc.Ci poniamo adesso nel caso che i coniugi abbiano adottato il regime della comunione convenzionale dei beni – regime disciplinato nella sezione quarta (artt. 210 segg.) Disc. Quindi debbo pensare che i due coniugi, Caio e Caia – così, come nel caso avessero optato per il regime di separazione dei beni, avrebbero dovuto dichiarare tale loro scelta espressamente (v. co. 2 art. 162) - così, anche nell’ipotesi da te fatta abbiano dichiarato expressis verbis la loro adesione al regime di comunione convenzionale. Doc. No, affatto: il regime, che noi ora dobbiamo esaminare, non nasce ex verbis, ma ex facto: i coniugi, col semplice fatto che, al momento dell’instaurazione del regime
della comunione legale o anche successivamente, vi hanno operata una deroga, si ritrovano in pieno regime di comunione convenzionale. Disc. Quindi tutto senza formalità. Doc.No, le formalità vi sono, perché le deroghe al regime di comunione legale vanno pur sempre formulate, ai sensi dell’art. 162, per atto pubblico e, nel formularle, i coniugi debbono astenersi, ai sensi dell’art. 161, da un riferimento generico a una legge o agli usi (come abbiamo meglio spiegato in una precedente lezione). Tutto questo risulta dal primo comma dell’articolo 210, che recita: “I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, modificare il regime della comunione legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell’articolo 1612”. Disc. Puoi dare qualche esempio di convenzione diretta a modificare la comunione legale? Doc. I coniugi, al momento di costituire la comunione legale (degli acquisti) o anche, nulla cambia, dopo averla già costituita, decidono di far entrare nella comunione, non solo gli acquisti, ma, in tutto o in parte, i beni già in loro personale proprietà: Caio e Caia, al momento di costituire la comunione legale, hanno la proprietà, l’uno, degli immobili A e B e, l’altro, dell’immobile C, ebbene decidono che sia A che B e C cadano nella comunione. Disc. Ma Caio e Caia potrebbero decidere di conferire in comunione solo parte dei loro beni? Doc. Certamente. Ad esempio Caio potrebbe decidere di conferire solo A e non B. Similmente Caio e Caia potrebbero convenire di modificare la normativa sulla comunione, nel senso che entri in questa solo una parte degli acquisti di Caio – ben s’intende una parte ben individuata e delimitata, ad esempio: gli acquisiti di immobili siti in territorio argentino. Disc. Se i coniugi, possono escludere dalla comunione beni in fieri, a maggior ragione penso che possano escludere beni già in facto caduti nella comunione. Doc. A maggior ragione, proprio no, perché anzi, lo abbiamo visto commentando il
capoverso dell’art.191, la esclusione di un bene già in comunione presenta particolarità, che la rendono discussa e discutibile. Disc. Fai te allora un altro esempio di valida deroga alla comunione legale. Doc. Caio e Caia convengono, in deroga alla lettera f) dell’articolo 179, che entrino in comunione i beni acquistati in seguito al trasferimento di “beni personali”. Però, debbo avvisarti, che non manca chi autorevolmente esclude la validità di tale deroga, per quel che riguarda i beni di cui alle lettere c), d), e); e questo per timore che venga così eluso il divieto, di cui subito parleremo, di far cadere in comunione tali beni (Caio e Caia vendono, metti un bene rientrante nella categoria c) e con i soldi ricavati acquistano un bene che.......fanno poi cadere in comunione). Disc. Ma la convenzione con cui Caio e Caia stabiliscono, in deroga alla lettera b dell’articolo 179, che i beni, lasciati morendo in successione dallo zio Beppe, entreranno in comunione, questa convenzione sarà senz’altro ritenuta pacificamente valida. Doc. E invece, no: non manca chi tutto al contrario sostiene, e direi con valide ragioni, che depongano per la sua invalidità, l’articolo 771 (che fa divieto di donazione delle cose future) e l’articolo 458 (che fa divieto dei patti successori). Disc. Tu hai detto che, le convenzioni in deroga a una comunione legale, debbono essere stipulate per atto pubblico; ma i coniugi non possono prendere tra di loro accordi, che incidono, sì, sui poteri, diritti, obblighi loro derivanti dal regime di comunione, ma che non é per loro necessario rivestire della forma dell’atto pubblico: accordi insomma non rientranti nella categoria delle convenzioni di cui all’articolo 162? Disc.Io ritengo di sì. E per averne un esempio, pensa al caso di Caia, che dà mandato irrevocabile a Caio di vendere un suo bene immobile (mandato perfettamente valido,se limitato nel tempo, abbiamo visto studiando l’articolo 217): forse che tale mandato non incide sul potere altrimenti spettante, per l’articolo 180, a Caia di impedire la vendita negando il proprio consenso? Pensa, ancora, al caso, che Caio e Caia diano in locazione a uno di loro un immobile caduto in comunione: con ciò Caia non viene privata del potere di godere e di amministrare la res locata? Chiaro che sì.
Disc. Ma i coniugi possono stipulare un contratto di locazione con uno di loro? Doc. Chiaro che sì; se non vuoi cadere nell’assurdo di costringere un coniuge, che, metti, ha bisogno di prendere in locazione un immobile, a pagare i soldi del canone locatizio a un terzo – quei soldi che sarebbero i benvenuti nella cassa familiare – pur essendoci tra i beni in comunione un appartamento fortunatamente sfitto. Disc. Veniamo al dunque: con che criterio si può distinguere quando un accordo tra coniugi va considerato come una deroga al regime convenzionale, per cui va fatto per atto pubblico, e quando, no? Doc. Il criterio é questo: se l’accordo ha carattere programmatico (ad esempio, suona: “I beni che Caio acquisterà in Argentina ecc”) va considerato come una convenzione in deroga, negli altri casi, no. Disc. Ma il Legislatore ha fatto divieto di alcune convenzioni? Doc. Sì, lo ha fatto nel secondo e terzo comma sempre dell’articolo 210. Disc. Cominciamo dall’esame del secondo comma, che recita: “I beni indicati alle lettere c), d), e) dell’articolo 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale”. Doc. Perché il legislatore vieti di rendere comuni i beni, di cui alla lettera c (beni strettamente personali) e alla lettera d (beni che servono all’esercizio della professione), é intuitivo: egli teme che, la caduta in comunione di tali beni, venga a soffocare e deprimere la personalità dei coniugi. Proprio tenendo presente la ratio di tale divieto, noi riteniamo che dovrebbe considerarsi invalida, non solo la convenzione, che intendesse rendere comuni tali beni, ma anche la convenzione, che facesse totalmente cadere in comunione il provento dell’attività professionale (lato sensu intesa) di un coniuge, senza permettere a questi di trattenerne una parte per destinarla all’esercizio della professione stessa: se al pittore si nega la possibilità di spendere di sua libera iniziativa, cioé senza necessità di richiedere il consenso del coniuge, per l’acquisto dei colori e del pennello, si soffoca la sua creatività e gli si toglie la passione e il gusto del suo lavoro, non meno che lo si costringesse a chiedere il consenso del coniuge per disporre dei suoi colori e del suo pennello.
Disc. Mentre é comprensibile il divieto relativo alle lettere c) e d), mi pare assurdo il divieto di cui alla lettera e): ma come, tu, Legislatore, ritieni valida la convenzione, che fa cadere in comunione l’appartamento di Caio, e, poi, ritieni invalida quella che si limita a stabilire, che cada in comunione il risarcimento dovuto per i danni causati da un terzo all’appartamento di Caio? Questo a me pare assurdo! Doc. Tanto é assurdo, che va escluso che la norma così vada interpretata: certamente Caio e Caia potranno stabilire, che cada in comunione il risarcimento dei danni alle cose; non potranno invece stabilire che cada in comunione il risarcimento dei danni alla persona. Disc. A questo punto possiamo passare all’esame del terzo comma dell’articolo 210, che recita: “Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale”. Doc. Quindi, se Caio e Caia convengono di conferire in comunione i beni A e B, già in loro proprietà al momento della costituzione della comunione legale, essi, limitatamente a tali beni A e B, possono derogare alle norme relative all’amministrazione e all’uguaglianza delle quote – ad esempio stabilendo, che, al momento dello scioglimento della comunione (metti per una separazione o un “divorzio”), tali beni non cadano in comproprietà al 50 %, ma ritornino totalmente nel patrimonio da cui erano venuti, oppure che la loro amministrazione spetti al coniuge, che prima ne era il proprietario esclusivo (il bene A era di proprietà esclusiva di Caia? ebbene toccherà a Caia amministrarlo). Non sarebbe invece valida la convenzione, che stabilisse che, i beni caduti in comunione in seguito al loro acquisto fatto da Caia (quindi in applicazione dell’articolo 167), tornino, allo scioglimento della comunione, nel patrimonio di Caia o siano da Caia amministrati. Disc. Non resta ora che parlare dell’art. 211, che recita: “I beni della comunione rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio limitatamente al valore dei beni di proprietà del coniuge stesso prima del matrimonio che, in base a convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, sono entrati a far parte della comunione dei beni”. Doc. Poniamo che Caio abbia due appartamenti, A e B, del valore complessivo di
200, e un debito verso Fulano, metti, di trecento; e che sia sposato con Caia, che nulla possiede, ma che...... in compenso ha un debito di 100 verso Sempronio. Dopo sposati (o anche al momento di sposarsi, questo poco importa), Caio e Caia decidono, non solo di far regolare i loro rapporti dal regime della comunione legale (degli acquisti), ma di conferire nella comunione tutti i loro beni; cioé, Caio, i due appartamenti, e, Caia....nulla. Guardiamo al risultato che si avrebbe per il creditore di Caio, se non esistesse l’articolo 211: disastroso, il suo credito prima era garantito da un patrimonio dal valore di 200, ora egli, che, non si dimentichi, non é creditore della comunione, può, sì, soddisfarsi sui beni di questa, ma, (vedi l’art. 189) “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”, cioé, nella fattispecie esemplificata, fino a 100. Disc. Ho capito, il disposto dell’articolo 211 ha lo scopo di rimediare a tale ingiustizia e soprattutto di bloccare le possibili manovre furbette di Caio, che, non rassegnato a far pignorare tutti i suoi beni dal suo creditore Fulano, potrebbe pensare di salvarne la metà versandoli nella comunione: grazie all’articolo 211 ciò non potrebbe essere più da lui fatto: anche se versati nella comunione gli immobili A e B potrebbero sempre essere aggrediti dal creditore Fulano. Doc. Attenzione, ciò non é esatto: se ad esempio Caio e Caia decidessero, una volta costituita la comunione (convenzionale) anche sui beni A e B, di venderli, Fulano (salvo sempre la possibilità di agire in revocatoria, se di tale azione esistono i presupposti) non potrebbe più agire esecutivamente su tali beni. Infatti l’articolo, non recita “I beni di proprietà del coniuge prima del matrimonio rispondono ecc.ecc.”, bensì “I beni della comunione rispondono rispondono....limitatamente al valore dei beni di proprietà” eccetera. Disc. Allora? Doc. Allora il creditore Fulano potrà rivalersi (“limitatamente al valore dei beni di proprietà” eccetera) sui beni della comunione....se ve ne sono. Disc.Non capisco questo limite, posto alla realizzazione dei crediti esistenti prima della costituzione della comunione convenzionale: perché a Fulano é permesso di realizzare il suo credito solo nei limiti del valore di A e B? Doc. Questo limite si spiega con la volontà del nostro Legislatore di impedire che la
costituzione della comunione (convenzionale) ridondi in un arricchimento per Fulano (e in un danno per i creditori dell’altro coniuge!): come la costituzione della comunione non deve essere fonte di danno per Fulano, neanche deve essere fonte per lui di lucro. Disc. Quindi? Doc. Quindi, il limite posto dal legislatore, ha il significato di chiarire, che Fulano non può soddisfarsi sui beni dell’altro coniuge; come invece, se fosse veramente un creditore della comunione, gli darebbe la possibilità l’articolo 190. Disc. Ma, se Fulano non va considerato creditore della comunione, ciò significa che, se, metti, il suo debitore Caio fa fortuna, si arricchisce e arricchendosi impingua il patrimonio in comune con altri beni,- cosa per cui, prima, erano in comunione solo gli immobili A e B, ora, sono in comunione gli immobili A, B, C, D - il creditore Fulano potrà, sì, soddisfarsi sui beni in comunione, ma sempre fino al valore dei beni A e B, cioé fino al valore di duecento, mentre il suo credito é di trecento: ciò mi pare ingiusto. Doc. E ingiusto infatti lo é. Disc. Un’ultima domanda, ma che mi pare di un certo valore sistematico, sul regime della comunione convenzionale: Caio e Caia potrebbero nel costituirlo escludere che cadano in comunione tutti i futuri acquisti dei coniugi? Doc. Io ritengo che, sì, due coniugi possano stipulare una convenzione matrimoniale con cui, nel mentre conferiscono in comunione i beni da loro già acquisiti, escludono che possano cadere in comunione i futuri acquisti. Infatti, nulla impedisce di immaginare un regime, in cui il patrimonio comune é dato solo dai beni già esistenti al momento della sua costituzione: metti Caio, che é proprietario di A, si sposa con Caia, che è proprietaria di B, e entrambi conferiscono in comunione i loro beni A e B: essi non escludono la comunione degli acquisti, ma di fatto nuovi acquisti non ne fanno: il risultato é un regime, perfettamente funzionante senza inconvenienti, in cui il patrimonio comune é dato solo da beni “vecchi”. Disc. Ma il legislatore, negli articoli 210 e 211, sembra partire sempre dal presupposto, che il regime della comunione convenzionale si innesti in una
comunione legale degli acquisti. Doc. Può anche essere; ma a me, che il regime, costituito da Caia e Caio, conferendo i beni al momento in loro proprietà ma escludendo gli acquisti, possa fregiarsi del titolo di comunione convenzionale, o no, poco interessa, a me interessa solo sapere se questo regime ha diritto di cittadinanza nel nostro Ordinamento, e la risposta per me é, sì. Disc. Ma tale regime sarebbe disciplinato dalle norme della comunione legale e convenzionale? Doc. La risposta é ancora, sì. Lezione XV:Il fondo patrimoniale. Doc.Cominciamo, com’é naturale, dall’esame del primo degli articoli della sezione seconda dedicata alla disciplina del “Fondo ptrimoniale”, l’articolo 167. Disc.Ne dò lettura: “Ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia. La costituzione del fondo patrimoniale per atto tra vivi, effettuata dal terzo, si perfeziona con l’accettazione dei coniugi. L’accettazione può essere fatta con atto pubblico posteriore. La costituzione può essere fatta anche durante il matrimonio. I titoli di credito devono essere vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo.”. Doc. La disposizione del primo comma - da cui risulta che il fondo patrimoniale é dato da un bene o da un insieme di beni destinati “a far fronte ai bisogni della famiglia”- va integrata dalla disposizione dell’articolo 170, da cui si argomenta che tali beni sono esecutibili solo per debiti contratti al fine di soddisfare “i bisogni della famiglia”. Dalla coordinazione delle due disposizione risulta dunque che il “fondo patrimoniale” é inquadrabile nei c.d. “patrimoni separati o di destinazione”.
Disc. Puoi dirmi più chiaramente quando si ha un “patrimonio di destinazione” o “separato”? Doc. Si ha un patrimonio separato o di destinazione quando una persona, che può anche essere un privato qualsiasi, il signor Fulano, con un suo atto unilaterale di volontà fa deroga al disposto dell’articolo 2740 - che come tu sai assoggetta tutti i beni del debitore al soddisfacimento di tutti i suoi debiti - e più precisamente ne fa deroga nel senso, che uno o più di tali beni vengono esclusi e protetti dalla aggressione dei creditori – né più né meno che fossero stati alienati a terzi – salvo che si tratti di creditori che siano tali in relazione a debiti nati per il soddisfacimento di determinati bisogni o la realizzazione di determinati scopi. Disc. Un comodo mezzo per sfuggire ai propri creditori! il signor Rossi é oberato di debiti, teme che i suoi creditori gli mangino tutto il suo patrimonio e che fa? destina i suoi beni alla soddisfazione dei bisogni della sua famiglia (famiglia di cui lui é.. .il principalissimo e unico componente): da quel momento egli può darsi a ogni più spericolata attività nel mondo degli affari, sicuro che comunque egli avrà sempre da procurarsi il pane e il companatico e gli altri piaceri, che la vita può dare. Doc. Effettivamente i “patrimoni di destinazione” possono essere un facile mezzo per sfuggire alle proprie responsabilità debitorie. E a ciò non fa eccezione il “fondo patrimoniale”, tanto é vero che, la maggior parte delle cause che lo riguardano, nascono da azioni revocatorie, intentate da creditori contro chi aveva pensato bene di utilizzare la costituzione di un “fondo” per sfuggire ai suoi debiti. Tuttavia il legislatore é consapevole degli abusi, che possono farsi dell’istituto che stiamo esaminando, e prende le sue brave contromisure: il fondo non può essere costituito per soddisfare i bisogni di una famiglia qualsiasi, ma di una famiglia nata da un legittimo matrimonio. Disc. Quindi Marietto e Mariolina, che convivono more uxorio, non possono costituire un “fondo”? Doc. No, perché, se si ammettesse ciò, si creerebbe il pericolo che due persone si mettano a convivere (o fingano di convivere), al fine di potersi creare un “fondo patrimoniale”, e di mettersi così.... al riparo dei loro creditori; mentre é ben più difficile che due persone, a tale scopo, decidano di passare sotto le forche caudine del matrimonio, sottomettendosi ai relativi, gravosi obblighi.
Disc. Ma l’essere i beni destinati a soddisfare i bisogni solo di una famiglia nata da un legittimo matrimonio, non é l’unico limite che il Legislatore pone alla costituzione di un “fondo”: altro limite riguarda la natura dei beni, che lo possono costituire: essi possono essere dati solo da “beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titoli di credito” (titoli di credito che debbono essere – come risulta dall’ultimo comma “vincolati rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo”): quale il perché di questo secondo limite? Doc. Tale limite nasce dal fatto che, come vedremo subito, la disponibilità dei beni appartenenti al “fondo”, é limitata; cosa per cui si rende necessario rendere nota al pubblico tale loro appartenenza e conseguente limitazione (oltre che nei modi di cui all’ultimo comma, per quel che riguarda i titoli) con adeguate trascrizioni nei registri immobiliari– trascrizioni che sono ovviamente possibili solo per i beni, mobili e immobili, indicati nella norma. Disc. Passiamo all’esame dell’articolo 168, che recita: “La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione. I frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia. L’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale é regolata dalle norme relative all’amministrazione della comunione legale”. Doc. Dunque, dal primo comma, risulta, che, chi costituisce il fondo – sia esso un “terzo”, un singolo coniuge o siano entrambi i coniugi – potrebbe riservare a se stesso la proprietà dei beni, che lo costituiscono, o addirittura attribuirla a un altro terzo. In un tal caso, evidentemente, tali “beni”, non sarebbero dati da dei diritti di proprietà, ma da dei diritti di usufrutto. Ciò che, peraltro, non verrebbe a nuocere alla funzionalità dell’istituto: infatti, per il secondo comma, solo i “frutti” di tali beni possono essere “impiegati per i bisogni della famiglia” (non il ricavato della loro vendita – e anche quando questa eccezionalmente avviene, é da ritenere, che il suo ricavato non possa essere speso per la soddisfazione dei “bisogni”, ma solo messo a frutto). Naturalmente però il termine “frutto” va inteso in senso lato e quindi riferito, non solo ai frutti naturali, ma anche a quelli civili e allo stesso semplice godimento dei beni (caso dell’appartamento destinato ad abitazione della famiglia).
Disc. Che cosa significa, che l’amministrazione dei “beni” “é regolata dalle norme relative all’amministrazione della comunione legale”? Doc. Significa, che, anche all’amministrazione del fondo, si applicheranno gli artt. 180 e seguenti: gli atti di straordinaria amministrazione dovranno essere compiuti congiuntamente dai coniugi, un coniuge potrà chiedere l’esclusione dell’altro dall’amministrazione e così via. Disc. Ma, chi costituisce il fondo, può riservare a uno solo dei coniugi la sua amministrazione? Doc. A questa tua domanda, si dà prevalentemente una risposta negativa, in considerazione, che ciò verrebbe a ledere quel principio di parità dei coniugi, affermato dal primo comma dell’articolo 143 e ribadito, proprio per quel che attiene all’amministrazione, dal terzo comma dell’articolo 210. Disc.Passiamo all’articolo 169, che recita: “Se non é stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente”. Doc. Quindi, il fondo patrimoniale e la comunione dei beni, pur accomunati dalle norme che regolano la loro amministrazione, presentano un’interessante diversità, per quel che riguarda la disponibilità dei beni, quando essa consiste nella alienazione della proprietà o nella costituzione di un diritto reale, e vi sono dei figli: in tale ipotesi, nel caso del fondo, occorre l’autorizzazione del giudice, nel caso della comunione, invece, basta il consenso di entrambi i coniugi – anche se, bada, anche nel regime della comunione i beni sono destinati, oltre che ai bisogni della famiglia in genere, a quelli della “istruzione ed educazione dei figli” (vedi lettera c. art. 186). E’ una diversità che, dotata di una certa logica quando a costituire il fondo é un terzo o anche il singolo coniuge, ne manca mi pare totalmente quando sono entrambi i coniugi. Una incongruenza, forse più importante, della norma, é che essa pone limiti alla disponibilità dei beni da parte di chi, peraltro, ha, come i coniugi hanno, piena libertà nell’assumere obbligazioni a carico di tali beni e, quindi, potrebbe, tanto gravarli di
debiti, da comportarne la dissoluzione: é assurdo, voglio dire, che Caio e Caia non possano alienare il fondo A che vale 100, e possano però contrarre un’obbligazione per duecento che, posta in esecuzione dal creditore, determinerà la vendita del bene A. Tale incongruenza, non esisteva nella normativa relativa al “patrimonio familiare”, l’istituto, con funzioni analoghe a quelle del fondo, esistente nel nostro codice prima della riforma del 975: infatti la disciplina del “patrimonio” non permetteva l’esecuzione sui beni (come invece, vedremo subito, fa l’articolo 170), ma solo sui frutti. Disc. Pertanto passo subito alla lettura di questo articolo, che recita: “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Doc. Già si é detto sulla (anomala) possibilità dei creditori di esecutare, non solo i frutti, ma anche i beni. Interessante che la normativa sul fondo non faccia quella distinzione tra creditori particolari e no, che fanno gli articoli 189 e 190 sulla comunione: i creditori particolari di un coniuge non potranno mai aggredire i beni del fondo, anche quando i beni di questo siano stati dati dal coniuge-debitore. Al contrario i creditori del fondo potranno sempre aggredire i patrimoni personali dei coniugi. Disc. Su chi peserà l’onere di provare che il creditore sapeva che il debito era stato “contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia”? Doc. Naturalmente a chi si oppone all’esecuzione, dato che non si può imporre al creditore esecutante la prova di un fatto negativo. Disc. Passiamo ora all’articolo 171, che recita: “La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Se vi sono figli minori il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tal caso il giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo. Considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può altresì attribuire ai figli in godimento o in proprietà, una
quota dei beni del fondo. Se vi sono figli, si applicano le disposizioni sullo scioglimento della comunione legale”. Doc. Balza subito agli occhi come le cause di estinzione del fondo siano molto meno numerose delle cause di scioglimento della comunione; in particolare, il legislatore non ha ritenuto di annoverare tra le cause di estinzione, la “separazione” e il “divorzio” (nonostante che, in entrambi i casi, il presumibile attrito tra i coniugi, possa rendere per loro difficile una cogestione del fondo): la cosa, accettabile in definitiva quando ci sono dei figli (ai cui bisogni é giusto comunque provvedere con i frutti del fondo), diventa discutibile quando il fondo é funzionale solo alla soddisfazione delle esigenze dei coniugi. Vero é che si ammette, direi pacificamente, che il fondo possa essere estinto per concorde volontà di chi lo ha costituito, per cui, se fosse stato costituito dai coniugi, nulla a loro impedirebbe di estinguerlo. Anche la disposizione che consente al giudice di attribuire ai figli “in godimento o in proprietà una quota dei beni del fondo” (ma, sembra di capire, solo ad estinzione avvenuta del fondo), accettabile quando il fondo é stato costituito da un terzo, diventa discutibile quando é stato costituito da uno o entrambi i coniugi. Sezione sesta: Rapporti tra genitori e figli
Lezione XVI: Premessa Doc. Ti sei mai domandato perché ogni specie di animali protegge i nati della propria e non di altra specie animale: cioé le scimmie adulte proteggono le scimmie neonate, i cerbiatti adulti proteggono i cerbiatti neonati e non, ad esempio, i leoni o le pantere neonate? Disc. Ma é ovvio: perché se i cerbiatti, le scimmie allevassero un leone, una pantera questi, una volta diventati adulti, li divorerebbero, mentre il piccolo cerbiatto, la piccola scimmia una volta fatti adulti perpetueranno la specie dei cerbiatti e delle scimmie generando degli esseri aventi le caratteristiche fisiche e psicologiche delle scimmie e dei cerbiatti. Doc. Notare questo è importante, perché anche la specie umana come le altre specie animali ha in sé l’istinto di perpetuarsi attraverso altri esseri che hanno le proprie
caratteristiche (idest, le caratteristiche umane); di più, ogni etnia, cioé ogni gruppo formato da uomini aventi caratteristiche fisiche e psicologiche comuni, tende a perpetuarsi nel tempo attraverso uomini che abbiano le caratteristiche degli altri membri dell’etnia. Ora tale istinto, tale esigenza comporta che qualcuno si prenda cura dei membri dell’etnia quando, ancora troppo piccoli, sono da soli incapaci di procurarsi il cibo, le vesti, necessari per sopravvivere, l’istruzione necessaria per guadagnarsi il pane da adulti e, a sua volta, ciò comporta, che il Legislatore dica chi deve essere questo “qualcuno” (a cui va fatto carico dell’obbligo di allevare, proteggere, istruire i nuovi nati). Secondo te, chi dovrebbe essere? Disc. Secondo me questo “qualcuno” dovrebbe essere la Comunità stessa, lo Stato: forse non é Lui che ha interesse che le culle non rimangano vuote, che nuove generazioni, forti, sane, capaci, vengano a sostituire le anziane ormai incapaci di provvedere alla difesa e al progresso della Comunità? Doc. Senza dubbio é così, e anche la nostra Costituzione dimostra così di pensarla scrivendo nell’ultimo comma dell’articolo 31 la solenne affermazione: “(La Repubblica) protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Però il fatto che uno Stato si preoccupi di proteggere l’infanzia e la gioventù, non significa che egli ritenga opportuno provvedere direttamente con suoi funzionari e impiegati ai bisogni dell’infanzia e della gioventù. Certo si potrebbe anche immaginare questo: e cioé che, appena nato, il piccolo cittadino venga affidato alle cure di funzionari e impiegati dello Stato che, prima lo svezzano, poi lo educano e istruiscono facendo di lui un membro utile alla Comunità. Ma si può anche pensare a un sistema alternativo: il bimbo appena nato viene affidato a un privato o a dei privati a che provvedano ai suoi bisogni. Tu per quale dei due sistemi opteresti? Disc. A pensarci bene io opterei per il secondo; e precisamente affiderei il compito di accudire al neonato a colui o a coloro che hanno voluto dargli la vita. Questo per almeno tre motivi: Primo, perché, essendo l’atto generativo..... piacevole, le persone sarebbero portate a (irresponsabilmente) reiterarlo con gran frequenza (con il rischio di gravare la Comunità di un peso per lei insostenibile) se non fossero gravate del compito (duro e costoso) di allevare poi il futuro nato.
Secondo (motivo): perché é da presumersi che chi ha voluto il neonato voglia anche provvedere ad allevarlo con quell’affetto e calore umano che invece ben difficilmente potrebbero pensarsi in chi svolge un compito solo per mercede. Terzo (motivo): perché un’educazione data da un funzionario dello Stato rischierebbe di produrre cittadini, che, educati in un unico modo, sarebbero nel loro agire animati da un “pensiero unico” (quello dello Stato!), mentre invece la Società per progredire ha bisogno di quella varietà di idee che porta a conflitti stimolanti il progresso. Doc. La tua sembrerebbe una soluzione ragionevole, ma troverebbe, nella sua attuazione, un primo ostacolo nei casi in cui le persone che hanno voluta la procreazione, non si riducono ai due genitori biologici; così come può avvenire nei casi (per ora abbastanza rari, ma che tendono rapidamente ad aumentare) di “surrogazione di maternità” e di “fecondazione eterologa”. Pensa a questo caso di fecondazione eterologa: il neonato Beppino, é stato partorito da Filomena moglie del signor Beppe, che però é stata fecondata, non dal seme di questi, ma dal seme di certo Salvatore. Pensa a questo caso di surrogazione di maternità: il neonato Beppino é stato partorito da Filomena I, con l’ovulo fecondato da Salvatore e dato da Filomena II, su commissione di Filomena III e del suo coniuge signor Beppe. E’ chiaro che nel primo esempio le persone che hanno voluta la procreazione sono tre (i coniugi, Filomena e Beppe + Salvatore) e nel secondo esempio sono addirittura cinque (i coniugi Filomena e Beppe + la donna che ha accettato di surrogarsi nel parto + la donna che ha donato l’ovulo + l’uomo che l’ha fecondato). In tali casi, chi gravare, tra le persone che hanno voluta la procreazione, del compito di accudire al procreato? Disc. Effettivamente debbo riconoscere che – mentre nei casi di procreazione voluta da una donna, che ha accettato di ingravidarsi e di dare il suo ovulo, e da un uomo che ha accettato di dare il suo seme, il criterio da me proposto (provvedano al neonato le persone che l’hanno voluto, cioé i genitori biologici) si dimostra congruo – nei casi da te ora proposti si rivela del tutto incongruo: Salvatore, Filomena I, Filomena II agiscono per mercede, nessun affetto portano verso il neonato, sarebbe di certo una cattiva scelta affidare a loro il compito di allevarlo. Ma se é così, come risolvere il problema? che dice la Costituzione? Doc. La Costituzione fu scritta nel ‘48 quando i problemi, di cui stiamo parlando, non sussistevano perché le tecniche di ingegneria genetica non avevano ancora avuto lo
sviluppo attuale. Quindi é naturale che al Legislatore costituente sembrasse di aver risolta ogni questione, stabilendo, in primo luogo, che, non lo Stato, ma i “genitori”, con tutta evidenza e semplicità identificati nell’uomo che aveva dato il seme e nella donna che aveva dato l’ovulo, dovevano provvedere ai “figli” (comma I art.30 “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere,istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”), e, in secondo luogo, che l’intervento dello Stato fosse solo sussidiario (comma II sempre dell’art. 30 “Nei casi di incapacità dei genitori la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”). Disc. Però il problema, che la Costituzione non poteva avvertire, ora c’é ed é bene avvertito: quindi una soluzione bisogna dargliela. Doc. Certamente, sì. Ed io riterrei che la soluzione dovrebbe essere diversa caso per caso. Disc. Dà almeno la soluzione che riterresti più giusta nei casi sopra esemplificati. Doc. Nel caso esemplificato per primo (fecondazione eterologa di donna coniugata), io riterrei che l’obbligo di allevare il neonato dovrebbe ricadere sul signor Beppe, il marito; a cui pertanto dovrebbe essere attribuita la qualifica di “genitore” (“genitore giuridico” mentre “genitore biologico” sarebbe il donatore del seme, Salvatore). Con ciò verrebbe adottata la stessa soluzione che, come vedremo poi meglio, si avrebbe se Filomena (la moglie di Beppe), per procreare il figlio, fosse andata a letto con Salvatore. Nessun dubbio, infatti, che in tal caso il neonato sarebbe considerato figlio di Beppe, a meno che questi ne domandasse e ne ottenesse il disconoscimento. Disc. E in tal caso si porrebbe il problema se il marito, che ha consentito alla fecondazione eterologa, possa o no disconoscere il neonato. Doc. Problema che andrebbe risolto nello stesso modo in cui si risolve l’analogo problema che si presenterebbe se il marito, dopo aver consentito all’adulterio della moglie finalizzato alla procreazione di un figlio, volesse poi questo disconoscere. Disc. Veniamo al caso della maternità surrogata: Filomena I, moglie di Beppe, partorisce un figlio con l’ovulo donato da Filomena II. Doc. A me sembra che, così come si é ritenuto, nel caso precedente, figlio di Beppe e Filomena I il neonato procreato con il seme di Salvatore, cioè con un gameto estraneo
ai coniugi, così si dovrebbe ritenere figlio di Filomena e Beppe il neonato procreato con l’ovulo di Filomena II, ancorché sia procreato utilizzando un gameto estraneo alla coppia. Sempre salva l’azione di disconoscimento se e in quanto ammissibile. Disc. Veniamo a un caso più difficile: i coniugi sono sempre Filomena I e Beppe, la variante é che l’ovulo viene impiantato nell’utero di Filomena II ed é lei che partorisce il neonato. Doc. Certamente in questo caso Beppe non si potrebbe considerare in nessun modo genitore (giuridico) del neonato; per le stesse ragioni che Filomena I (la moglie) non potrebbe considerarsi genitrice del neonato procreato da Beppe versando il suo seme nel ventre di Filomena II. Disc. Ciò é abbastanza ovvio; ma il vero problema é: si deve considerare genitrice Filomena II, che ha partorito, oppure la donna (poco importa a questo punto che questa sia la moglie di Beppe o no) che ha dato l’ovulo? Doc. Io ritengo che il diritto/dovere di provvedere all’allevamento del neonato vada attribuito in questo caso alla donna che ha dato l’ovulo (in altri termini sia da considerarsi lei la “genitrice”, naturalmente “naturale” non legittima del neonato); questo in quanto é da ritenersi che sia più portata ad accudire con affetto al neonato la donna che vede rispecchiate in lui le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, che la donna unicamente a lui legata dall’esperienza, sia pure importantissima, del parto. Ma qui ti debbo avvertire che, mentre dandoti le due precedenti soluzioni io non ho fatto altro che aderire all’opinione maggioritaria degli Studiosi, dandoti questa terza soluzione me ne discosto, dato che la maggior parte degli studiosi ritiene che debba considerarsi genitrice la donna che ha partorito. Disc. Fino a qui non abbiamo fatto altro che risolvere il problema dell’individuazione dei privati a cui va attribuito il diritto/ dovere di accudire al neonato: essi sono i “genitori biologici” salvo alcuni casi, da considerarsi eccezionali, che si verificano in ipotesi di maternità surrogata e fecondazione artificiale (casi in cui il “genitore giuridico”, cioé la persona a cui é attribuito il diritto/ dovere di allevare il nuovo nato, può essere diversa dal “genitore biologico”). Però un secondo problema si presenta al Legislatore (e, di riflesso, a noi): i “genitori”di Beppino (alias, coloro che debbono accudire all’allevamento di Beppino) sono obbligati ad offrire a lui quanto basta per tenerlo in buona salute e per procurargli un’istruzione che gli permetta da adulto di
procacciarsi pane e companatico oppure debbono dargli un tenore di vita superiore, se beninteso, le loro ricchezze (superiori alla media) permettono di dare loro un tale tenore di vita (superiore alla media)? In altre parole il signor Agnelli può dire di aver adempiuto al suo dovere di genitore semplicemente dando al figlio lo stesso tenore di vita che ha il figlio del suo autista o deve dargli il tenore di vita che permettono le sostanze della famiglia Agnelli? Tu che soluzione daresti a questo problema? Disc. Io partirei dalla considerazione che, per la nostra Costituzione (art. 3) “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione....di condizioni personali e sociali”. Doc. Quindi? Disc.Quindi riterrei che il signor Agnelli ha solo l’obbligo di far frequentare a suo figlio le stesse scuole che frequenta il figlio del suo autista. Il legislatore entrerebbe in contraddizione con la Costituzione se procurasse - sia pure indirettamente cioé facendone obbligo al suo genitore - al figlio di Agnelli un tenore di vita in più, e soprattutto una chance in più di emergere nella società, di quelli di cui gode il figlio dell’autista di Agnelli. Doc. E non posso negare che questa soluzione ha senza dubbio della logica. Però cozza contro un fatto. Disc. Quale? Doc. Il fatto che - come ogni etnia sente l’esigenza di perpetuare se stessa facendo in modo che i nuovi nati, diventati adulti, siano in grado di difenderla e di generare altri esseri con le caratteristiche fisiche e psicologiche dei membri dell’etnia - così ogni gruppo familiare (almeno di un certo livello) sente l’esigenza di far sì che i suoi nuovi nati si assicurino nella società quella preminenza, che permetterà loro la migliore difesa del gruppo familiare stesso (e quindi la conservazione nel tempo delle caratteristiche soprattutto psicologiche, che si manifestano in quel particolare stile di vita, in quella particolare weltanschauung, che é propria dei membri del gruppo familiare stesso). Ed é proprio la soddisfazione di tale esigenza che impone al signor Agnelli l’obbligo di allevare i propri figli col tenore di vita della famiglia Agnelli, soprattutto di dar loro quell’istruzione che permetterà loro di collocarsi ai vertici della società (come avvocati, come medici, come ingegneri...) e pertanto nella situazione
migliore per difendere la “famiglia”. Disc. Insomma, l’obbligo imposto ai genitori di allevare i figli in proporzione alle loro sostanze, corrisponde unicamente a un interesse della famiglia, e non della società. Doc. Certamente: l’interesse della Società non é che i figli stupidoni e scansafatiche di Paperon dei Paperoni abbiano più chances nella vita che i figli intelligenti e laboriosi di Bacciccia: l’interesse della società é solo che i più dotati dei neonati abbiano più chances di arrivare ai vertici della società che i meno dotati. Disc. Ma come la Società (l’etnia) ha l’interesse, come ora hai detto, di concentrare e, per così dire, investire le sue potenzialità economiche soprattutto in quei suoi giovani membri che, più dotati, danno anche più garanzia di saperla, una volta diventati adulti, meglio tutelare (idest, di saper meglio conservare nel tempo le migliori caratteristiche sia fisiche sia soprattutto psicologiche dei suoi membri), anche la famiglia ha l’esigenza di concentrare le sue potenzialità economiche per valorizzare al massimo quei suoi membri che danno più garanzie, una volta diventati adulti, di tutelare e continuare nel tempo le caratteristiche sia fisiche sia soprattutto psicologiche dei suoi membri: il loro stile di vita, la loro weltanschauung. Cosa per cui, se Paperon dei Paperoni ha avuto due figli, l’uno da Maria Cristina, da lui scelta come legittima consorte in ragione delle sue preclare virtù e facendo conto che queste vengano poi trasmesse ai figli, l’altro dalla Rosina, da lui scelta unicamente per le sue belle forme, l’interesse della famiglia chiaramente é che il trattamento migliore (le scuole migliori, le migliori chances di entrare nella buona società....) sia dato al figlio, presumibilmente più dotato, di Cristina, la moglie legittima, e che al figlio, presumibilmente meno dotato, della Rosina siano riservate solo le briciole. Doc. Quindi, se ho ben capito, tu riterresti che - dal momento che il legislatore dimostra di voler tutelare l’interesse della famiglia (imponendo ai genitori di fare un trattamento ai figli in proporzione delle sostanze famigliari) – Egli anche imponga ad Ariberto di dare ad Arturo, da lui concepito con una donna scelta come moglie perché in possesso di quelle doti di carattere capaci di assicurargli una figliolanza ispirata alle sue stesse idealità, un trattamento diverso e migliore di quello dato a Marietto da lui concepito con una donna scelta solo per il piacere. No, non é così: la nostra legge parifica, praticamente al cento per cento, il trattamento che Ariberto deve ad Arturo a quello che deve dare a Marietto.
Disc. E perché questo? Doc. Perché - così si dice e si sostiene - “che cosa ne può il povero Marietto se non é stato concepito nel grembo della legittima consorte di Ariberto? Disc. Non mi pare questo un modo di ragionare molto profondo; perché allora si potrebbe dire: “Che cosa ne può Marietto se é stato procreato dall’autista di Paperon dei Paperoni e non da Paperon dei Paperoni?” e seguendo tale logica si dovrebbe riservare a Marietto lo stesso trattamento riservato al figlio di Paperon dei Paperoni. Doc. E infatti non vi é molta logica nei “ragionamenti” di chi ritiene giusto parificare il trattamento dei figli nati nel matrimonio a quelli nati fuori del matrimonio. Vi é sola la subdola volontà di realizzare il “grande ideale”: quello di una umanità ridotta a un grande formicaio. Ideale con cui in effetti poco si concilierebbe la privilegiata tutela dei figli nati nel matrimonio. dato che tale privilegiata tutela in fondo mira alla salvaguardia della parte migliore dell’umanità. Lezione XVII: L’individuazione dei genitori biologici di un nuovo nato. Doc. Quando viene alla luce un bambino, chiamiamolo Mariolino, lo Stato (preferibilmente) affida il compito di accudirlo e allevarlo ai suoi genitori biologici, chiamiamoli Marietto e Mariuccia. E abbiamo visto il perché: perché lo Stato pensa che la comunanza di sangue, che questi hanno con il nuovo nato, li spingerà a dare il meglio di sé, perché egli nasca sano e intelligente e, pertanto, diventi un utile membro della Comunità. Disc. Sì, ma come fa lo Stato a individuare i genitori biologici di Mariolino? La cosa non mi sembra molto facile. Doc. Non é per nulla facile; ma é molto facilitata nell’ipotesi in cui Mariolino sia nato o concepito nel matrimonio, rispetto all’ipotesi in cui egli sia nato fuori del matrimonio. Disc. Comincia allora a dirmi della prima ipotesi. Doc. Va bene, e comincerò a dirti come in questa prima ipotesi il Legislatore giunge all’individuazione di quel genitore, la cui individuazione é intuitivamente la più
difficile, il padre. Ebbene a tanto il Legislatore giunge costruendo due presunzioni, che sono, poi, le presunzioni fondamentali in subiecta materia, la presunzione di paternità e la presunzione di concepimento durante il matrimonio. La presunzione di paternità é enunciata dall’articolo 231, che recita: “Il marito é padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”. La presunzione di concepimento durante il matrimonio é enunciata dall’articolo 232, che recita: “Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio.- La presunzione non opera decorsi trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data della comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente”. Disc. Una prima domanda: perché il legislatore prende trecento giorni come limite massimo per ritenere avvenuto il concepimento durante il matrimonio (facendoli decorrere dall’annullamento del matrimonio, dalla pronuncia di separazione ecc.)? Doc. Perché é massima di esperienza che é molto improbabile che un bambino nasca trecento giorni dopo il concepimento (o prima di 180 giorni da questo). Disc. Improbabile, ma non impossibile. Doc. Certamente, sì: non impossibile. E proprio per questo il Legislatore dà la possibilità (non a tutti, ma solo) al figlio e ai genitori (e agli eredi di questi) di provare (usando, di solito, prove ematologiche e genetiche) che che il figlio “è stato concepito durante il matrimonio”. Ciò risulta dall’articolo 234, che recita: “Ciascuno dei coniugi e i loro eredi possono provare che il figlio, nato dopo i trecento giorni dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio é stato concepito durante il matrimonio. - Possono analogamente provare il concepimento durante la convivenza quando il figlio sia nato dopo trecento giorni dalla pronuncia di separazione giudiziale, o dalla omologazione di separazione consensuale, ovvero dalla data di comparizione dei coniugi avanti al giudice quando gli stessi sono stati autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di separazione o dei giudizi previsti nel comma precedente. - In ogni caso il figlio può provare di essere stato concepito durante il matrimonio”.
Disc. Ma Mariolino potrà provare di essere stato concepito da Marieto (per un ritorno di fiamma della sua passione amorosa verso la moglie) in un occasionale incontro avvenuto dieci anni dopo la separazione? Doc. Lo potrà, sì, ma solo ai fini di essere dichiarato figlio (di Marieto) nato fuori del matrimonio; e nei limiti in cui tale dichiarazione é ammessa (limiti che vedremo parlando della azione di dichiarazione della paternità e della maternità). E, mutatis mutandis, lo stesso può ripetersi per i genitori: Marieto potrà certamente riconoscere come suo il figlio da lui concepito con la moglie dopo la separazione, ma incontrando gli stessi limiti che un qualsiasi terzo incontrerebbe qualora volesse riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio (in primis, la necessità dell’’assenso del figlio o del consenso della moglie, vedi melius l’articolo 250). Disc. Abbiamo visto quando Mariolino può considerarsi concepito durante il matrimonio, ora vediamo quando può considerarsi nato durante il matrimonio. Doc. Se tu ti limiti a leggere gli articoli 231 e 232, devi concludere che Mariolino va considerato nato durante il matrimonio, se é nato nel periodo intercorrente dalla data della celebrazione del matrimonio a quella del suo scioglimento (annullamento...). Però questa sarebbe una conclusione assurda perché renderebbe assurda la presunzione di cui all’articolo 231 (che vuole il marito padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio): ma come, Marietto (il marito della madre) deve presumersi padre di Mariolino anche se questi é nato dieci anni dopo che Marietto e Mariuccia si sono separati e hanno formate due nuove famiglie (sia pure di solo fatto)?! Assurdo! E’ più logico pensare (in caso che sia intervenuta una pronuncia di separazione ecc.) che Marietto sia considerato nato nel matrimonio solo se é nato nel periodo intercorrente tra la data della celebrazione del matrimonio e la data in cui é stata pronunciata la separazione (….). Noi non dobbiamo mai dimenticare che le presunzioni costruite dal Legislatore per individuare il padre del neonato, sono, sì, presunzioni “fragili”, specie in tempi di lassismo nei costumi sessuali, però debbono pur sempre avere una base razionale. Ora la massima di esperienza che dà base di razionalità alla presunzione che il figlio nato “durante il matrimonio”sia figlio del marito della madre, é (salvo quanto osserveremo per il caso del figlio concepito prima della celebrazione del matrimonio, ma nato dopo di questa) che la maggior parte delle donne osservi l’obbligo di fedeltà assunto con il matrimonio. Quindi tale presunzione cessa di essere valida una volta
che viene meno tale obbligo di fedeltà, il che si verifica al momento della pronuncia di separazione – come del resto riconosce implicitamente il Legislatore nel secondo comma dell’articolo 232 già riportato. Disc. Ma allora non dovresti neanche ritenere valida tale presunzione (che il figlio sia stato concepito dal marito della madre) nel caso che Mariolino nasca prima che siano passati 180 giorni dalla celebrazione del matrimonio, dato che allora evidentemente (in base alla massima d’esperienza che abbiamo già avuto occasione di indicare) sarebbe stato concepito prima della celebrazione del matrimonio, quando pertanto la madre, Mariuccia, non era ancora legata da un vincolo di fedeltà verso Marietto. Doc. Verissimo. E infatti in tal caso, la presunzione che Mariolino sia stato concepito da Marietto, non si basa sulla massima d’esperienza che vuole le donne osservanti dell’obbligo di fedeltà (obbligo che, nel caso, come tu giustamente osservi, non esisterebbe), ma sulla massima d’esperienza, basta sulla mentalità ancor oggi vigente, che ben difficilmente un uomo accetterebbe di sposare una donna, resa gravida da un terzo proprio pochi mesi prima che egli la sposi. Disc. Per tirare una prima conclusione, mi pare che si possa dire che il Legislatore per ritenere Mariolino figlio di Marietto e Mariuccia pretende la prova dei seguenti elementi: 1) che Mariolino é stato partorito da Mariuccia; 2) che Mariuccia era legalmente coniugata con Marietto; 3) che Mariolino é nato dopo la celebrazione del matrimonio; 4) che Mairolino non é nato dopo che erano passati trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (o dall’annullamento del matrimonio...o dalla pronuncia di separazione, eccetera). Mi pare anche di poter dire che la pietra angolare di tutto questo edificio probatorio é la prova che Mariuccia sia la donna che ha partorito Mariolino. Doc. Sostanzialmente quel che tu dici é vero (salvo quanto diremo sull’efficacia probatoria dell’atto di nascita e del possesso di stato, la cui esistenza viene a semplificare le prove che tu hai elencato). Sopratutto é vero che pietra angolare dell’edificio probatorio, come tu l’hai chiamato, é la prova che Mariuccia sia effettivamente la madre di Mariolino. Disc. E’ questa una prova difficile? Doc. Per nulla. Nei paesi e nelle piccole città, dove tutti si conoscono, quando una
donna diventa gravida tutti lo notano e quando questa donna si sgrava e contestualmente viene alla vita un bambino, tutti facilmente giungono alla conclusione che il bambino é figlio di tale donna. Insomma il fatto che Mariuccia abbia partorito, più che provato, diventa notorio: un fatto che difficilmente Mariolina può nascondere. Per questo gli antichi romani dicevano che Mater semper certa est. Nelle metropoli moderne, poi, in cui c’é l’uso di partorire in cliniche e ospedali, l’accertamento della maternità é ancora più facile. Infatti la struttura sanitaria pretende, al momento in cui la donna entra per partorire, le sue generalità e, al momento in cui partorisce, l’assistente di sala, compila un verbale di avvenuto parto, che viene poi, a cura di solito della stessa struttura sanitaria, fatto pervenire all’ufficiale dello stato civile. Disc. Ma la puerpera deve dichiarare il padre del figlio da lei partorito? Doc. La puerpera normalmente dichiarerà (vero o falso che sia) che il neonato é figlio di suo marito. Però potrebbe indicare come padre anche un terzo o dire che non vuole indicare il padre o dire addirittura che essa stessa non vuole risultare come madre. Disc. Ma, non indicando il marito come padre del figlio da lei partorito, Mariuccia non viene a privare Mariolino dello status, che gli spetterebbe, di figlio “nato nel matrimonio”? non viene a commettere il delitto di alterazione di stato (art. 567 C.P.)? Doc. No, se effettivamente il neonato non é stato concepito dal marito. Non si può mica costringere la puerpera a dichiarare quello che non é! Disc. Ma se l’ufficiale di stato civile, in conseguenza di quanto detto dalla partoriente, da Mariuccia, indica Mariolino come figlio, non del marito, ma di Pinco Pallino o “di ignoti”, che valore potrà darsi alla presunzione di paternità di cui all’articolo 231? Doc. Chiaramente non le si potrà dare nessun valore. Per cui si può dire che, fino a quando l’atto di nascita non é formato, basta la dichiarazione della madre per escludere la paternità del marito e con ciò stesso per dare spazio al riconoscimento, che potrebbe fare Pinco Pallino, di Mariolino come proprio figlio.. Questo però, ripeto, fino a che l’atto di nascita non é formato: una volta che sarà formato la dichiarazione di Mariuccia non basterà più a escludere la paternità del marito (vedi u.c. art. 243bis).
Disc. Ma l’atto di nascita é una prova attendibile? Doc. Senz’altro, sì. Quindi esso é un documento di grande rilevanza. E aggiungo che, come rilevante é tale documento, rilevante é anche di per sé la sua redazione: infatti, come abbiamo visto, prima di questa, hanno valore certe dichiarazioni che, dopo di questa, non potrebbero, con eguale valore, farsi. Se Casanova, che ha avuto una relazione extraconiugale con Mariuccia, dichiara all’ufficiale di stato civile prima che l’atto di nascita sia formato che Mariolino é suo figlio e che come tale lo vuole riconoscere, l’ufficiale di stato civile deve accettare tale dichiarazione, con il risultato che Mariolino acquisirà lo status di figlio di Casanova; ma se Casanova aspetta troppo e si trova di fronte a un atto di nascita che indica come padre il marito di Mariolina, non può più fare nulla, deve rinunciare al riconoscimento: infatti l’articolo 253 - articolo che rivisiteremo parlando del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio - dichiara inammissibile “un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”. Disc. Ma l’atto di nascita può venire a mancare (penso a un bombardamento, a un terremoto, che distrugge l’ufficio di stato civile) e allora? Doc. La legge é previdente: per il tal caso stabilisce che la prova della filiazione sia data dal c.d. “possesso di stato”, la cui nozione ti é data dall’art. 237; tutto questo risulta dall’art. 236, che recita: “La filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile. - Basta, in mancanza di questo titolo, il possesso continuo dello stato di figlio”. Disc. Ma l’atto di nascita ammette la prova contraria? Doc. Sì, ma a condizione che esso (idest, l’atto di nascita) non sia conforme al “possesso continuo di stato”: Marieto, non solo é indicato nell’atto di nascita come padre di Mariolino, ma ha allevato già da più mesi questo trattandolo come un figlio: in tale situazione non sarebbe ammissibile, in via di principio, una prova in contrasto con l’atto di nascita; questo per il disposto dell’art. 238, che (sotto la rubrica “Irreclamabilità di uno stato di figlio contrario a quello attribuito dall’atto di nascita”) recita: ”Salvo quanto disposto dagli articoli 128, 234, 239, 240 e 244, nessuno può reclamare uno stato contrario a quello che gli attribuiscono l’atto di nascita di figlio e il possesso di stato conforme all’atto stesso”. Tutto questo in via di principio, perché
poi, in realtà, a tale principio il legislatore apporta tali e tante eccezioni da far ritenere che la prova contro l’atto di nascita sia sempre ammessa, salvo casi eccezionali. Disc. A che si riferiscono gli articoli che vengono indicati, dalla norma sopra citata, come eccezioni al principio della irreclamabilità contro un atto di nascita conforme al possesso di stato? Doc. L’art. 239 si riferisce all’azione di reclamo, l’articolo 244 all’azione di disconoscimento, l’articolo 240 a quella di contestazione, l’articolo 128 all’azione di contestazione, dello stato di figlio nato nel matrimonio, che abbiano i figli incestuosi dopo la dichiarazione di nullità del matrimonio stesso, infine l’art.234 all’azione per far dichiarare concepito, dal marito della madre, il figlio nato dopo i 340 giorni (dello scioglimento del matrimonio....). Disc. Qualche parola su tali azioni, al meno sulle principali. Comincia dall’azione di reclamo. Doc. Il principio in materia di azione di reclamo (ed é un principio in perfetta sintonia con il disposto dell’articolo 253, che noi già conosciamo) é che a una persona può essere attribuito uno status, diverso da quello risultante dall’atto di nascita, solo quando questo precedente status é stato rimosso. Disc. Perché questo? Doc. Evidentemente per evitare che a una persona vengano attribuiti due status diversi, ad esempio due padri diversi. Disc. Quindi, chi vuole reclamare uno status “diverso”, deve, prima di instaurare l’azione di reclamo, promuovere un’azione per rimuovere il precedente status. Doc. Di regola dovrebbe essere così; e che tale sia la regola risulta dall’ultimo comma dell’articolo 239, che recita: “L’zione può essere esercitata per reclamare un diverso stato di figlio quando il precedente é stato comunque rimosso”. E ciò comporta, ad esempio, che Mariolino, nato e/o concepito nel matrimonio di Marietto con Mariuccia e quindi indicato nell’atto di nascita come figlio di Marietto, non può chiedere di essere dichiarato figlio (nato fuori del matrimonio) di Casanova, se prima non ha ottenuto, esperendo l’azione di disconoscimento che poi vedremo,
che venga esclusa la paternità di Marietto. Però, ripeto, quella espressa dal quarto comma dell’articolo 236 é solo una regola che trova le sue eccezioni nei commi precedenti. Disc. Leggiamoli allora questi tre commi che fanno eccezione al quarto. Doc. Primo comma: “Qualora si tratti di supposizione di parto o di sostituzione di neonato, il figlio può reclamare uno stato diverso” Secondo comma: “L’azione di reclamo dello stato di figlio può essere esercitata anche da chi é nato nel matrimonio ma fu iscritto come figlio di ignoti, salvo che sia intervenuta sentenza di adozione”. Terzo comma: “L’azione può inoltre essere esercitata per reclamare uno stato di figlio conforme alla presunzione di paternità da chi é stato riconosciuto in contrasto con tale presunzione e da chi fu iscritto in conformità con altra presunzione di paternità” Disc. Facile é comprendere perché, nel caso del secondo comma (iscrizione di Mariolino come figlio di ignoti), il legislatore non pretenda che prima dell’azione di reclamo sia rimosso lo status di figlio di ignoti: infatti in tale caso il pericolo che venga attribuita una doppia paternità e/ o una doppia maternità non esiste. Però: nel caso, previsto dal primo comma, di sostituzione di neonato (una infermiera distratta ha consegnato Mariolino,figlio di Marietto e di Mariuccia, non a questa, ma a Elena, e ha consegnato Beppino, figlio di Giuseppe e di Elena, non a questa ma a Mariuccia); nel caso (previsto sempre dal primo comma) di supposizione di parto (Mariolino é stato indicato nell’atto di nascita come partorito da Mariuccia coniugata con Marieto, mentre Mariuccia in realtà non ha avuto nessun parto - metti, ha abortito e, per non deludere il marito, ha comprato, da un’altra puerpera, Mariolino); nei casi (previsti dal terzo comma), di chi é stato “riconosciuto” come figlio nato fuori dal matrimonio, ancorché, in base alle presunzioni di cui agli articoli 231 e 232, avesse diritto allo stato di figlio nato nel matrimonio (Mariuccia, la madre, prima che l’atto di nascita fosse formato, ha indicato Mariolino come figlio di ignoti, per far dispetto al marito) e di chi é stato iscritto, sì, come nato nel matrimonio. ma come figlio di genitori sbagliati (Mariolino doveva essere indicato come figlio di Mariuccia, coniugata con Marieto, e invece é stato indicato come figlio di Elena, coniugata con Giuseppe), ebbene, in tutti questi casi, perché non costringere Mariolino a rimuovere con autonoma azione il falso status, prima di reclamare lo status che realmente gli spetterebbe?
Doc. Io direi, per economicità di giudizio: infatti la prova che porterebbe alla rimozione del precedente status, porta anche quasi inevitabilmente all’attribuzione dello status reclamato. Disc. Dulcis in fundo: chi é legittimato ad esercitare l’azione di reclamo? Doc. La lettera dell’articolo 239 sembrerebbe limitare la legittimazione al figlio; ma a me questa sembra una limitazione assurda: torniamo al caso di Mariuccia che, per far dispetto al coniuge, a Marieto, indica Mariolino come figlio di ignoti, perché negare a Marieto la possibilità di reclamare per Mariolino lo status di figlio suo e a sé lo status di padre di Mariolino. Disc. Mi pare giusto; così come mi sembrerebbe giusto che il reclamo fosse ammesso anche in altri casi non previsti dall’articolo 239, ad esempio nel caso di Mariolino, che sia stato riconosciuto (in violazione dell’art. 253) da Casanova ancorché godesse già dello status di figlio nato nel matrimonio, e di Mariolino, che é stato riconosciuto (sempre in spregio all’art. 253) da Casanova II, ancorché già fosse stato riconosciuto da Casanova I. Doc. Tu mi trovi concorde quando dici che l’esercizio dell’azione di reclamo dovrebbe essere permesso oltre i casi previsti dall’articolo 239, ma gli esempi da te portati non mi convincono. Infatti nel primo esempio da te portato non occorre che Mariolino reclami lo stato di figlio nato nel matrimonio (che ha già!), basterà per regolarizzare la sua posizione che contesti la validità del riconoscimento operato da Casanova II (con violazione dell’articolo 253). Disc. Esercitando quale azione? Doc. L’azione prevista dall’art. 240, altra non ne vedo possibili. Disc. E quanto al secondo esempio da me portato, perché ne neghi la validità? Doc. Perché anche qui basterà o che Mariolino impugni uno dei due riconoscimenti per difetto di veridicità (se, di tale difetto di veridicità, ha la prova) oppure sic et simpliciter contesti lo status attribuitogli dal secondo riconoscimento (in quanto fatto in spregio all’art. 253).
Disc. Parliamo ora delle azioni di disconoscimento e di contestazione di cui rispettivamente all’art. 244 e all’art. 240. Doc. Tali azioni mirano a rimuovere lo status di figlio che una persona ha nei riguardi della donna indicata (dall’atto di nascita o dal possesso di stato) come sua madre e / o nei riguardi del di lei marito. Esempi, Mariolino agisce affermando che vi é stata una sostituzione di neonato, per cui l’indicazione (nell’atto di nascita) come suoi genitori di Elena e Giuseppe va rimossa. Mariolino agisce affermando che Marieto, il marito di sua madre, non poteva essere suo padre perché, nel periodo compreso fra il trecentesimo e il centottantesimo giorno prima della nascita, era affetto da impotenza e chiede la rimozione del suo status di figlio di Marieto. Marieto – e con questo mi fermo negli esempi che potrebbero essere moltissimi – afferma che Mariolino non é figlio suo ma di Casanova, con cui la moglie ha commesso adulterio e, naturalmente, chiede la rimozione dell’indicazione di Mariolino come suo figlio. Disc. Ma se, sia l’azione di disconoscimento che quella di contestazione hanno lo stesso scopo (quello di rimuovere lo status di figlio di una persona), in che cosa si distinguono? Doc. Si distinguono in quanto l’azione di disconoscimento, al contrario di quella di contestazione, implica l’accertamento di un fatto che la coscienza popolare ritiene lesivo della onorabilità del figlio e/o dei genitori e su cui pertanto questi (idest, il figlio e i genitori) potrebbero desiderare di stendere un pietoso velo di silenzio (cosa per cui il legislatore, che rispetta e ritiene meritevole di tutela tale desiderio, ammette, sì, l’azione, intesa a rimuovere lo status di figlio, che sia basata sull’accertamento di tale fatto ma solo se essa é esercitata “dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo”vedi primo comma art. 243bis. Questo fatto (che i membri della famiglia potrebbero preferire tenere celato per motivi, che il Legislatore ritiene meritevoli di rispetto) é, lo dico ma é intuitivo, l’essere stato il figlio concepito, non dal marito, ma da un terzo, poco importa se durante il matrimonio, quindi con violazione dell’obbligo di fedeltà o prima del matrimonio (ma in un tempo tanto prossimo alla celebrazione del matrimonio da far presumere che già fosse in atto una liaison tra i futuri coniugi). Quando la rimozione dello status non implica tale accertamento, si é fuori dall’azione di disconoscimento, si rientra in quell’azione di contestazione che l’articolo 248 concede, sia “a chi dall’atto di nascita del figlio risulta suo genitore” sia “a chiunque
vi abbia interesse “(quindi, ad esempio, agli altri figli di Marieto, che, se Mariolino fosse loro fratello, con lui dovrebbero dividere l’eredità, al padre di Marieto che, se Mariolino fosse suo nipote, dovrebbe dargli gli alimenti). Disc. L’azione di disconoscimento può essere promossa in ogni tempo? Doc. No, solo per il figlio l’azione é imprescrittibile (vedi art 244, quinto comma), mentre é soggetta a termini brevissimi di decadenza per i genitori (vedi sempre l’articolo 244 nei commi 1, 2, 3, 4). Questo perché il legislatore non vuole lasciare pendere, come una spada di Damocle, la possibilità di un esperimento di tale azione sui rapporti tra i genitori: o voi Marieto e Mariuccia esercitate l’azione, scendendo in campo l’un contro l’altro armati, oppure mettetici una pietra sopra: l’incertezza non farebbe altro che avvelenare la vita vostra e della vostra famiglia. Disc. A tali brevi termini di decadenza é soggetta anche l’azione di contestazione? Doc. No, l’azione di contestazione é imprescrittibile. Probabilmente ciò é dovuto al fatto che l’incertezza sul suo esercizio - anche se dannosa, in quanto ridonda in incertezza, non su un solo, ma su numerosissimi rapporti l’uno all’altro collegati (ripeto gli esempi già fatti, se Mariolino non é figlio di Marieto, i figli di questo avranno una maggiore eredità, non gli dovranno gli alimenti ecc.ecc.) - non ha quegli effetti dilaceranti nell’ambito della famiglia, che invece potrebbe avere l’incertezza sull’esercizio dell’azione di disconoscimento. Disc. Parliamo ora dell’azione di contestazione. Penso che l’azione di contestazione dello status di figlio possa avere ad oggetto, per escluderli, tutti gli elementi, che io prima ebbi a indicare: 1) l’essere stato Mariolino partorito da Mariuccia; 2) l’essere Mariuccia coniugata legalmente con Marieto; 3) l’essere Mariolino nato dopo la celebrazione del matrimonio; 4) l’essere Mariolino nato entro i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (o dal suo annullamento o dalla pronuncia di separazione....). Doc. E invece no, l’ azione di contestazione é sicuramente é esclusa nel caso abbia ad oggetto la nullità del matrimonio; come si argomenta a contrario dal fatto che il legislatore sente il bisogno di richiamare, nell’articolo 238, oltre all’articolo 240 (che é quello che prevede appunto l’azione di contestazione), anche l’articolo 128, che ha per oggetto la contestazione dello status di figlio, proprio basandosi sulla nullità del
matrimonio incestuoso: ora, se oggetto dell’azione di contestazione prevista dall’articolo 240, potesse essere la nullità del matrimonio, tale richiamo fatto, dall’articolo 238, all’articolo 128 sarebbe ultroneo. Del resto, la validità della presunzione di concepimento di Mariolino a opera di Marieto, legato da un matrimonio, sia pure nullo, a Mariuccia, la partoriente, non verrebbe inficiata dalla nullità del matrimonio: quel che importa infatti, per dare fondatezza a tale presunzione, é che Mariuccia ritenesse tale matrimonio valido o comunque volesse comportarsi di fronte alla gente come se lo ritenesse valido, quindi osservando l’obbligo di fedeltà. Disc. Chi é legittimato all’azione di contestazione? Doc. In primo luogo, il figlio, in tutti i casi in cui, come abbiamo visto, é legittimato all’azione di reclamo (dato che egli ben potrebbe voler agire in contestazione prima di esperire l’azione di reclamo) Disc. Ma solo il figlio riterresti legittimato all’azione di contestazione? Doc. No, non solo lui. Disc. Indicami allora chi ritieni, oltre al figlio, legittimato all’azione. Doc. I casi della vita sono tanti, che diventa azzardato racchiudere in una formuletta l’indicazione di tutti quelli, che sono legittimati a tale azione. Comunque, secondo me, tali dovrebbero considerarsi, per richiamare esempi già fatti, Marieto, il marito di Mariuccia, la quale, partorito Mariolino, per fare dispetto all’odiato consorte, lo ha denunciato come figlio di ignoti; e Mariolino, che é stato riconosciuto come figlio (nato fuori dal matrimonio) da Casanova, nonostante che già godesse dello status di figlio nato nel matrimonio. Debbo però aggiungere, che riterrei molto ragionevole un’opinione contraria alla mia, dato che questa opinione avrebbe il conforto della lettera dell’articolo 240. Disc. Come recita l’articolo 240? Doc. L’articolo 240 recita così: “”Lo stato di figlio può essere contestato nei casi di cui al primo e secondo comma dell’articolo 239”. Ora, se il legislatore avesse voluto attribuire all’articolo 240 solo la funzione di
ammettere l’azione di contestazione nei casi di cui all’articolo 239, dovremmo pensare che avrebbe fatta cosa assurda, perché nessuno avrebbe potuto mai dubitare che in tali casi l’aizone fosse esercitabile. Quindi, siccome, come diceva il buon Farinaccio, absurda sun vitanda, sembrerebbe doversi concludere che il legislatore ha attribuito all’art. 240 proprio la funzione di limitare l’azione di contestazione solo ai casi previsti dall’articolo 239. Disc. Parliamo allora dei casi, previsti nell’art. 239, in cui sicuramente l’azione di contestazione é ammissibile. Anche qui le cose però non mi sembrano chiare. L’articolo 240 infatti sembra ammettere l’azione solo nei casi di cui al primo e secondo comma dell’articolo 239. Ora é giusto ammettere Mariolino a contestare di essere figlio di ignoti (comma 2 art. 239), é giusto ammetterlo a contestare di essere figlio di Mariuccia (caso di supposizione di parto) o dei coniugi Elena-Giuseppe (caso di sostituzione di neonato); ma perché non ammetterlo a contestare anche di essere figlio di Casanova, che contro il vero l’ha riconosciuto (primo caso previsto nel terzo comma) e non ammetterlo a contestare di essere figlio nato nel matrimonio di Elena-Giuseppe (secondo caso previsto nel terzo comma art. 239)? Doc. Effettivamente l’esclusione dell’azione di contestazione nei casi di cui al terzo comma suscita perplessità. Per il primo caso, tale esclusione si potrebbe forse giustificare col fatto che al figlio, che vuole contestare la veridicità del riconoscimento, l’articolo 263, come vedremo, offre un’azione ad hoc, la impugnazione per difetto di veridicità (vero é però che non sempre il figlio può provare la falsità del riconoscimento). Ma per quel che riguarda il secondo caso previsto nel terzo comma, l’esclusione dell’azione di contestazione non vedo come si possa giustificare. Certamente al figlio, a Mariolino, si deve dare un’azione per rimuovere lo status (falso) di figlio dei coniugi Elena-Giuseppe, al fine di permettergli poi di reclamare lo status di figlio dei veri genitori Marieto e Mariuccia, e l’unica azione che potrebbe a tal scopo servirgli é appunto l’azione di contestazione. Disc. Non l’azione di disconoscimento? Doc. No, perché, come abbiamo visto, essa é destinata a quei casi in cui la rimozione dello status implica l’accertamento di un fatto lesivo dell’onore dei genitori e in specie della madre. Ora, nel caso, la rimozione dello status non implica nessun accertamento di tal fatta: il caso di “chi fu iscritto in conformità di altra presunzione di paternità” é analogo a quello della “sostituzione di neonato”; l’unica diversità é
che, in questo, la vera madre perde, mi si perdoni la parola, il possesso del figlio, mentre, in quello, lo conserva, e se il figlio viene attribuito, nei registri dello stato civile ad un’altra donna, é, molto probabilmente, solo per un errore della burocrazia. Disc. Lasciamo che il busillis sia risolto da qualcuno più bravo di noi e voltiamo pagina. Abbiamo visto con che criteri il Legislatore individua i genitori nel caso di nascita dentro il matrimonio. Vediamo ora con che criteri li individua nel caso di nascita fuori del matrimonio. Doc. Il criterio più semplice, direi ovvio, con cui il legislatore opera tale individuazione, si basa sul fatto in sé e per sé che una data persona, chiamiamola Casanova, ha riconosciuto il figlio; e non si può certo dire che tale criterio manchi di fondamento: e infatti come si può pensare che una persona si gravi di tutti gli obblighi connessi al riconoscimento (l’obbligo di provvedere all’alimentazione, all’istruzione ecc.ecc.) di un’altra persona, se questa non fosse veramente suo figlio? Disc. Questa tua deduzione é logica per la maggior parte dei casi, ma non per tutti. Infatti ci possono essere dei casi in cui il riconoscimento può essere spiegato con motivi di interessi (Casanova povero in canna riconosce Mariolino dotato di un patrimonio miliardario, perché fa conto di giovarsi delle sue ricchezze) o con la semplice esigenza sentimentale di godere dell’affetto e della compagnia di una persona (Casanova non può adottare Mariolino e quindi lo riconosce come figlio: é tanto semplice eludere la legge sull’adozione, perché non farlo?). Doc. Effettivamente é così, ci possono essere dei casi in cui una persona riconosce come figlio un’altra pur sapendo che questa suo figlio non é. E a prescindere da tali casi ve ne sono altri in cui una persona é indotta al riconoscimento da un semplice errore (Casanova ha riconosciuto come suo figlio Mariolino, ma dopo il riconoscimento viene a sapere di essere impotente: evidentemente egli ha compiuto un riconoscimento dovuto ad errore). In altri casi ancora, il riconoscimento non si può dire che sia dovuto ad errore, ma se ne può ben dubitare, dato che é dovuto a violenza (art. 265) o é fatto da una persona interdetta perché incapace di intendere e di volere (art. 266). Disc. Ma in caso di riconoscimento dovuto a violenza o fatto da un interdetto, esso potrà ben essere impugnato.
Doc. Certamente, sì: nel caso di violenza potrà essere impugnato (ma in termini strettissimi, un anno) dal violentato e nel caso di riconoscimento fatto dall’interdetto, potrà essere impugnato dal suo rappresentante (vedi melius però l’art. 266). Disc. Non da colui che é stato riconosciuto? Doc. No. Ma colui che é stato riconosciuto “e chiunque vi abbia interesse” (pensa ai figli e alla moglie di chi ha effettuato il riconoscimento), può invece impugnare il riconoscimento “per difetto di veridicità” (art. 263). Ma, bada, solo per difetto di veridicità. Quindi l’impugnazione non potrebbe, ad esempio, essere motivata: col fatto che il riconoscimento non aveva la forma voluta dall’articolo 254, col fatto che é stato effettuato da chi non aveva raggiunta una certa età (art.250 u.c.), col fatto che era mancato l’assenso del “riconosciuto” “che aveva compiuto i quattordici anni” (assenso necessario, per l’art. 250 co.2), col fatto che era mancato il consenso dell’altro “genitore che avesse già effettuato il riconoscimento” (co. 3 sempre dell’art. 250) e neanche col fatto, direi, sebbene debba ammettere che qui la cosa é veramente discutibile, che il riconoscimento contrasti con lo stato di figlio in cui il riconosciuto già si trovava (v. art. 253). Disc. Tu prima hai detto che il figlio, nato fuori dal matrimonio, può rifiutare il suo assenso al riconoscimento, dire “Sì, Casanova é veramente mio padre, ma io come padre non lo voglio (é un tipaccio, un morto di fame: che me ne faccio di un padre simile?!)”. Mi viene quindi spontanea la domanda: anche il figlio nato nel matrimonio ha il potere di rifiutare la paternità del marito di sua madre (ancorché esso sia veramente suo padre)? Doc. No, il figlio nato del matrimonio, al contrario del figlio nato fuori del matrimonio, non ha il potere di rifiutare la paternità del marito di sua madre; così come questa non ha il potere di rifiutare al marito la paternità del figlio da lei partorito, beninteso se questi é veramente figlio di suo marito. Disc. Ma se Mariolino (nato fuori del matrimonio) può rifiutare come padre Casanova (che pur é il suo vero padre), io penso che anche Casanova potrà rifiutare lo status di figlio a Mariolino (anche se Mariolino é effettivamente suo figlio). Doc. Non é così: infatti per il co. 1 dell’art. 269 “la paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento é ammesso”, volenti
o nolenti il padre e la madre. Lezione XVIII. Diritti e obblighi reciproci dei genitori e dei figli Doc. Il Legislatore dedica un intero titolo, il nono, all’indicazione dei diritti e doveri reciproci tra genitori e figli. Tale titolo incomincia con l’articolo 315, che recita: “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”. Disc. Ma se avere lo stesso “stato giuridico” significa avere gli stessi diritti e doveri, quel che dice l’articolo 315 non é assolutamente vero: abbiamo visto nella precedente lezione, ad esempio, che il figlio nato fuori del matrimonio può rifiutare di accettare il padre biologico come padre giuridico: “Tu, Giuseppe, mi vorresti riconoscere, ma io, Marietto, non ho nessuna voglia di essere figlio di un ubriacone come te, e non ti accetto quale padre, così come me ne dà facoltà il secondo comma dell’articolo 250”. Mentre invece il figlio nato nel matrimonio non ha il potere di rifiutare il genitore biologico come padre. Doc. Ma il legislatore vuol riferirsi al trattamento giuridico dei figli una volta che il rapporto di filiazione é stato riconosciuto. E questo trattamento é effettivamente al novantanove per cento uguale, per i figli, nati o no, nel matrimonio e per i figli adottivi (v. art.27 legge 184/83 nei casi della c.d. “adozione legittimante” – discorso un po’ più articolato dovrebbe essere fatto nei casi, statisticamente però non rilevanti, della c.d “adozione in casi particolari”). Disc. Quindi il “titolo” che abbiamo iniziato a esaminare non si riferisce ai figli non riconoscibili o non riconosciuti. Doc. E’ così: i figli non riconosciuti (o perché non riconoscibili o perché il genitore non li ha voluti riconoscere e il figlio non ha ritenuto di agire giudizialmente per farsi riconoscere) sono considerati (vedi art.11 co.2 L. 4 maggio 1983 n. 184) in “stato di adottabilità”: e una volta che siano adottati si ricade nel discorso fatto poco prima per i figli adottivi. Disc. Chiarito l’equivoco, passiamo a leggerci proprio l’articolo 315bis che, dalla rubrica che porta, “Diritti e doveri del figlio”, sembrerebbe proprio contenere l’indicazione di quali sono i vicendevoli diritti e doveri tra figlio e genitore.
Art. 315bis: “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”. Quindi gli obblighi, di cui il Legislatore grava i genitori, sono: 1)l’obbligo di mantenere i figli; 2) l’obbligo di educarlo; 3) obbligo di istruirlo; 4) obbligo di assisterlo moralmente; 5) obbligo di farlo crescere in famiglia, 6) obbligo di permettergli “rapporti significativi con i parenti”; 7) obbligo di ascoltare il figlio in tutte le questioni che lo riguardano. Un elenco un po’ troppo lungo. Doc. E’ così. Mentre a me sembra che tutti gli obblighi indicati in tale elenco potrebbero sintetizzarsi nei seguenti tre: I) Obbligo di far sì che il figlio cresca fisicamente e mentalmente sano; II- Obbligo di porlo in grado, una volta divenuto adulto, di procurarsi una vita dignitosa; III- Obbligo di dargli quelle nozioni etiche che ne facciano un essere apportatore di bene agli altri e a sé stesso. Disc. Passiamo allora a un sia pur breve approfondimento di tali obblighi cominciando naturalmente dal primo. L’obbligo di far sì che il figlio cresca sano fisicamente e mentalmente, comprende certamente il dovere di procurargli il cibo, le vesti, un tetto sopra la testa e insomma le cose necessarie per la sua salute fisica, ma, direi, anche le cose necessarie per la sua salute mentale, e tra queste io ci metterei sopratutto quel “crescere in famiglia” e quel “mantenere rapporti significativi con i parenti” di cui fa parola l’articolo che ora abbiamo letto. Doc. Certamente é così, così come certamente contribuisce alla salute mentale, allo svilupparsi di una personalità armoniosa e sana nel figlio, la fruizione e il godimento di quelle cose (un libro, un film....un gelato) che, pur non essendo strettamente necessarie alla vita, arricchiscono e per così dire alimentano la parte emozionale
dell’uomo; per cui il genitore ha il dovere di procurare al figlio anche queste; naturalmente nei limiti delle possibilità economiche della famiglia. Disc. Tutti questi obblighi che siamo venuti enumerando potremmo conglobarli in un più generico obbligo di mantenimento. Ma la preservazione della salute fisica e mentale del figlio richiede, oltre a questo, degli altri obblighi? Doc. Certamente, richiede l’adempimento di almeno altri tre obblighi: l’obbligo di assistenza materiale (il provvedere a quanto necessario per evitare al figlio malattie e per guarirlo nel caso ne diventi vittima); l’obbligo di assistenza morale (cioé l’aiuto a che superi le crisi psicologiche e morali che potrebbero “abbatterlo”); l’obbligo di custodirlo, a che non si rechi danno (giocando, metti, in luoghi che nascondono pericoli, frequentando compagnie che potrebbero nuocergli...) o a che non rechi danno ad altri (metti, guidando l’auto quando non ha ancora acquisita la necessaria abilità a ciò). Disc. Passiamo al secondo obbligo: quello di metterlo in grado, quando adulto, di procurarsi una vita dignitosa. Doc. Il che significa: in primo luogo, metterlo in grado di conseguire le nozioni e le abilità necessarie per l’esercizio di un mestiere (mestiere ovviamente scelto tenendo conto delle sue “capacità, inclinazioni naturali, e aspirazioni”); in secondo luogo, introdurlo in quelle relazioni sociali che gli potrebbero essere utili da adulto (permettendogli una buona collocazione nel mondo del lavoro......); in terzo luogo, custodire e amministrare il suo patrimonio, a che se lo ritrovi integro quando, da adulto, ne avrà necessità. Disc. Parliamo ora del terzo obbligo. Doc. E’ l’obbligo di dare al figlio quelle nozioni e, soprattutto, quegli imprintings che ne facciano un essere apportatore di bene a se stesso e alla società. Disc. Nelle parole usate dal legislatore, é l’obbligo di educarlo. Doc. E’ così. E certamente in questo obbligo di educazione rientra l’obbligo di ascoltare il figlio prima di decidere una questione che lo riguarda; dato che é ben difficile educare una persona quando si ignora quel che passa nella sua testa e
commuove il suo cuore; e dato, inoltre, che gli insegnamenti morali vengono da noi più facilmente recepiti, se provengono da chi dimostra rispetto verso la nostra personalità pazientemente ascoltandoci. Disc. Però l’adempimento degli obblighi che tu hai menzionato molte volte richiede l’esercizio di poteri. Giuseppe nell’adempimento dei suoi compiti di educatore può ben ordinare a Marietto di fare questo e di astenersi da quest’altro, ma se, Marietto, non gli ubbidisce, il povero Giuseppe deve rassegnarsi al fallimento del suo compito educativo, se non ha i poteri necessari per costringere all’ubbidienza il ribelle. La Legge concede al genitore tali poteri? per cominciare gli concede un potere di coazione fisica? Doc. Sì, il genitore, che non riesce a superare la resistenza del figlio con mezzi più blandi (negandogli la paghetta, mandandolo a letto senza cena...), può, per superarla, compiere degli atti di coazione fisica. Addirittura degli atti che, se posti in essere da un terzo, costituirebbero dei reati e anche dei gravi reati; mentre, se da lui compiuti al fine di adempiere i suoi doveri verso il figlio (salvaguardarne l’incolumità, educarlo, istruirlo ecc., reato, non costituiscono - questo in forza dell’art.51Cod. Pen. che “esclude la punibilità” di chi compie un fatto previsto come reato “in adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica”. Disc. Vuoi fare degli esempi? Doc. Sì, certo. Pensa al genitore che, per impedire alla figlia di uscire alla sera per prostituirsi, la chiude a chiave nella sua stanza (comportamento che, se compiuto da un terzo, costituirebbe il reato di sequestro, previsto dall’art.605 Cod. Pen.) oppure le sottrae con la forza le chiavi della motoretta (comportamento che oggettivamente costituirebbe la “violenza privata” prevista dall’articolo 610 Cod. Pen.) oppure le dà un bel ceffone (reato di percosse, art. 581 Cod. Pen.). Disc. Ma il genitore può lecitamente “mettere le mani addosso” al figlio? Doc. Così si argomenta facilmente dall’articolo 571 codice penale; che, punendo chi “abusa dei mezzi di correzione” se e solo se da ciò “deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”, permette di argomentare che l’uso dei mezzi di correzione é lecito (lecito anche se consiste in una violenza fisica) fino al punto in cui non fa sorgere tale pericolo.
Disc. Ma il genitore, che può superare la resistenza del figlio ancora bambino con la violenza fisica (perché ha più forza muscolare del figlio, perché sa che la sua violenza non può degenerare in una colluttazione, che potrebbe far sorgere il pericolo di lesioni reciproche), non lo può più nei riguardi del figlio ormai adolescente (perché, anche se può pensare di superare in forza il figlio, non può non temere che dalla sua violenza nasca una colluttazione con lesioni per lui o per il figlio). E allora? può il genitore chiedere soccorso dell’autorità?. Doc. Nel codice é previsto un unico caso in cui il genitore, per superare il rifiuto del figlio a tenere un dato comportamento, può giovarsi della forza di coazione dello Stato; e questo é il caso in cui il figlio abbia abbandonato “la casa o il domicilio assegnatogli”e rifiuti di tornarvi. In tal caso il genitore, stabilisce l’art. 318, può rivolgersi al giudice tutelare e ottenere che questi ordini al figlio di ritornare e a tanto lo costringa coattivamente in caso di persistente rifiuto. Più precisamente l’articolo 318 recita: “Il figlio non può abbandonare la casa dei genitori o del genitore che esercita su di lui la potestà né la dimora assegnatagli. Qualora se ne allontani senza permesso, i genitori possono richiamarlo ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare”. Disc. Ma se la disubbidienza é persistente e reiterata? dovrà il genitore tenersi in famiglia una persona che con il suo comportamento ne distrugge l’armonia? La vita può diventare un inferno per due persone che odiandosi sono costrette a dividere lo stesso tetto! Doc. Mentre é vero che il genitore non può contare sull’aiuto automatico dello Stato per costringere il figlio all’esecuzione di un suo specifico ordine (dato che lo Stato non può correre il rischio di mettere la sua forza a servizio degli ordini di un privato – ordini che potrebbero anche essere cervellotici o capricciosi), é anche vero che egli può ottenere dallo Stato (ai sensi dell’art. 25 R.D.L. 02.07.1934 n. 1404)l’allontanamento del figlio quando questi “dà manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere” (il che é il caso, non solo del figlio che persistentemente si ribella e ha tensioni col genitore, ma anche del figlio che: si droga, si prostituisce, é dedito al furto, porta cattive compagnie in casa.....). Disc. Ma prescindiamo dei casi limite di condotta “irregolare” del figlio, ritorniamo al caso del genitore che ordina al figlio un dato comportamento A e il figlio gli
disubbidisce: Giuseppe ordina a Marietto “Non ti permetto di affiggere alle pareti quei quadri osceni” e Marietto, alza le spalle, e li affigge. Per il resto Marietto é un bravo ragazzo, e di certo non tiene una condotta irregolare: quindi non lo si può allontanare da casa: ma ciò significa che Giuseppe deve tollerare le oscenità dei quadri? Doc. Io non ho detto che lo Stato rifiuta sempre di usare la sua forza per costringere il figlio all’obbedienza degli ordini che il genitore gli dà; semplicemente lo Stato si riserva di intervenire, se del caso con la forza, solo quando ha potuto verificare che l’ordine (del genitore) sia veramente opportuno (non é forse giusto che lo Stato controlli, prima di usare la forza, che questa non venga a opprimere chi ha ragione e a far trionfare chi ha torto?) e solo quando la disobbedienza crea un vero stato di tensione, pregiudizievole al padre e al figlio (forse che non finirebbe lui, lo Stato, a educare i figli, se potesse sindacare e correggere ogni ordine dato a questi? e allora che ne sarebbe del “diritto” ad educare i loro figlioli che l’articolo 30 della Costituzione riconosce ai genitori?! ). Disc. Ma veniamo al punto: come può, il genitore, ottenere questo intervento dello Stato?. Doc. Lo può chiedendo l’applicazione dell’articolo 333; il quale (sotto la rubrica, “Condotta del genitore pregiudizievole al figlio”) recita: “Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non é tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Disc. Ma questo articolo sembrerebbe in realtà mirato ad apprestare un mezzo di difesa del figlio contro i comportamenti (a lui pregiudizievoli) del genitore. Doc. A una prima lettura, sì. Però, se approfondisci, ti accorgi che il legislatore non subordina l’intervento del giudice a un comportamento colpevole del padre; che, quindi, quel che rileva per il legislatore é solo che si sia determinata una situazione pregiudizievole per il figlio. Così come senza dubbio si verifica – e veniamo al punto – quando si crea uno stato di tensione tra il genitore e il figlio.
Disc. Capisco; ma l’intervento del giudice in che si concretizzerà (se si esclude l’allontanamento del figlio)? Doc. Si potrà concretizzare, in prima battuta, in un ordine al figlio di ubbidire al padre (“Tu, Marietto, devi togliere quei quadri”), in seconda battuta, nell’esecuzione coattiva dell’ordine del genitore (ben inteso, quando é possibile, come nel caso dell’esempio: viene un carabiniere e...toglie i quadri). Naturalmente l’intervento del giudice potrebbe risolversi anche in un ordine al genitore di tollerare l’affissione dei quadri. Debbo aggiungere però, che ben raramente nella pratica si giungerà all’estremo di un ordine del giudice in un senso o nell’altro. Di solito il giudice disporrà l’intervento dei servizi sociali col compito di...far trionfare il buon senso tra genitore e figlio. Disc. Voltiamo pagina. Prendiamo in particolare esame ora il dovere, da te prima menzionato, del genitore di conservare il patrimonio del figlio (minore). Anche l’adempimento di questo dovere presuppone l’esercizio di un potere: quello di amministrare tale patrimonio. La legge concede al genitore tale potere? Doc. Sì, glielo concede con il primo comma dell’articolo 320 che recita: “I genitori congiuntamente o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni”. Disc. Parleremo poi del potere dei genitori di amministrare i beni dei figli. Ora da te vorrei sapere se il Legislatore pone limiti al potere dei genitori di agire in rappresentanza dei figli.
Doc. Sì, li pone; e tali limiti sono ricavabili sia da delle norme giuridiche (limiti esterni) sia dalla stessa funzione che tali poteri sono destinati a compiere (limiti interni). Disc. Dai qualche esempio di limite esterno. Doc. Un primo esempio di limite esterno può essere preso dalla legge 22.05.1978 n.194: tale legge nel suo articolo 12, riconosce solo alla figlia il diritto di chiedere una pratica abortiva: occorre, sì, il consenso del genitore, ma, in caso di rifiuto di tale
consenso, il giudice può lo stesso autorizzare l’aborto (questo a prescindere dei casi in cui la legge ammette la minorenne ad abortire all’insaputa dei genitori). Un secondo esempio, é dato dalla L. 18.06.1986 n. 281: questa legge nel suo articolo 1 attribuisce agli studenti della scuola secondaria superiore il diritto di scegliere se avvalersi o no dell’insegnamento della religione cattolica ed altresì delle scelte “in ordine ad insegnamenti opzionali e ad ogni altra attività culturale e formativa” (riservando invece ai genitori le stesse scelte nell’ambito della scuola dell’obbligo e del pre-obbligo). Disc. Quindi chiaramente il genitore non ha il potere di chiedere una pratica abortiva sulla figlia, di chiedere la partecipazione all’insegnamento religioso del figlio.... Doc. Così come non ha il potere di pronunciare il fatidico “sì” al matrimonio al posto del figlio minore, e, se il figlio, pur essendo ancora minore, ha raggiunto i quattordici anni, di agire per la dichiarazione di paternità o maternità naturale (vedi co. 2 art. 273). In genere si può dire che la potestà genitoriale si ferma quando si tratta di decisioni che mettono in gioco i sentimenti e le idee del minore. Disc. Però, proprio dall’art. 273, risulta, che il genitore ha anche il potere di prendere decisioni che incidono su un diritto personalissimo.. Doc. Tu ti riferisci al fatto che il genitore può agire giudizialmente per la dichiarazione di paternità o maternità naturale quando il figlio ha meno di quattordici. E avresti potuto aggiungere a questo non pochi altri casi; ad esempio quello del genitore che può dare il suo consenso all’adozione quando il figlio é minore di quattordici anni (ben inteso, mi riferisco qui a quella particolare adozione prevista dagli artt.44 ss della L. 4 maggio 1983 n.184). Il fatto é che, come regola, il legislatore vuole che, quando é possibile, il genitore eviti di prendere decisioni, che incidono su diritti personalissimi; ma non sempre ciò é possibile. Prendi il caso dell’acquisizione dello status di figlio: acquisire tale status può significare la sicurezza di quel pane quotidiano, di quell’ambiente confortevole di cui il figlio ha bisogno ora, ora che é bambino e deve crescere, crescere bene, e non quando sarà maggiorenne. Prendi il caso dell’insegnamento religioso nella scuola dell’obbligo: se esso serve, serve ora che il bambino si sta formando il carattere e non già quando, maggiorenne, sarà ormai cristallizzato in certe idee. Disc. Ho compreso e penso che a tali principi anche si ispiri la disciplina del potere
del genitore di amministrare il patrimonio del minore. Doc. A dir il vero qui siamo fuori del campo dei diritti personalissimi di cui prima parlavamo. E inoltre nell’amministrazione di un patrimonio non sono molti gli atti che possono aspettare la maggiore età, che potrebbe essere lontanissima del figlio. Proprio perché, da una parte, il legislatore si rende conto di ciò, dall’altra, si rende anche conto che il compimento (inopportuno) di tali atti potrebbe pregiudicare il figlio, dà al genitore, sì, il potere di compiere tali atti. Ma per quelli di essi che eccedono l’ordinaria amministrazione, (il potere di: alienare, di ipotecare, di sciogliere comunioni,,,vedi sul punto il terzo comma dell’art.320) solo dietro autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Ma sul punto torneremo. Disc. E con ciò possiamo chiudere il nostro discorso sui limiti esterni alla responsabilità genitoriale. Dobbiamo ora parlare dei limiti interni. Doc. Questi limiti, sono connessi alla stessa funzione, che ha la responsabilità genitoriale, di permettere l’adempimento dei doveri inerenti alla qualità di genitore; pertanto quanto più gradualmente si restringono nel tempo questi doveri (col crescere del figlio) tanto più questi limiti aumentano. Disc. Ma davvero i doveri del genitore si restringono col passare del tempo? Doc. Questo non può dirsi per tutti, ma per molti di tali doveri, sì. E di questi é esempio tipico, il dovere di educazione. Più aumentano gli anni del figlio più questi é in grado di prendere decisioni sensate su molte materie: per cui, può dimostrare senso educativo il padre, che vieta al bambino di dieci anni di prendere il gelato perché gli fa male, ma si esporrebbe al ridicolo il padre che ordinasse la stessa cosa al figlio ormai diventato adolescente. Disc. D’accordo, vi é una gradualità nei poteri concessi al genitore – gradualità inversamente proporzionale agli anni che il figlio ha: più aumentano gli anni del figlio, più diminuiscono i poteri del genitore. Il problema sta nel fissare il momento preciso in cui un potere (del genitore) viene a cessare. E, penso, sia un problema di impossibile soluzione. Doc. Impossibile, forse no. Certo difficile. Anche se, per individuare il momento in cui certi poteri si caducano, ci può aiutare l’analogia con situazioni disciplinate dalla
legge. Così, dal fatto che la figlia a sedici anni: possa decidere di abortire senza il consenso del genitore, possa, senza tale consenso, acquistare anticoncezionali (vedi melius l’art.2 della legge 22.05.1978 n.194), si può facilmente argomentare che i figli raggiunti i sedici anni possono gestire la loro sessualità come meglio credono: un genitore non potrebbe impedire alla figlia sedicenne di uscire alla sera con un uomo perché ciò …..ne potrebbe mettere in pericolo la verginità. Disc. Di certo, no! Doc. Dal fatto, poi, che, chi frequenta le scuole secondarie superiori, possa liberamente scegliere se frequentare l’ora di religione o no, facilmente si argomenta, non solo che a sedici anni (l’età presso a poco corrispondente a quella in cui si frequentano le scuole superiori) il figlio può decidere se aderire o no a una religione, ma anche che può fare scelte ideologiche: decidere di iscriversi a questo o a quel partito. Disc. Ma, quando manca ogni possibile riferimento al diritto positivo, allora effettivamente la scelta diventa difficile. Doc. Difficile, ma, ripeto, non impossibile. Certo, l’interprete dovrà tenere presente che, il venir meno di un potere genitoriale prima che il figlio giunga alla maggiore età, ha carattere eccezionale; quindi ciò va ritenuto solo in casi evidenti. Ancora, l’interprete dovrà tenere presente che sempre il genitore ha il potere di impedire al figlio comportamenti ritenuti dal legislatore illeciti. Così nessun dubbio che il genitore possa proibire al figlio anche ultrasedicenne di rubare o di compiere atti terroristici. Disc. Metti che il figlio, voglia compiere, non un atto illecito, ma un atto giuidcato dal legislatore riprovevole, così come, il prostituirsi, il drogarsi. Doc. Io penso che il genitore possa senz’altro proibire, e anche con la forza impedire, il compimento di un atto che il legislatore, per il fatto stesso che punisce anche chi induce altri a compierlo o comunque lo favorisce, dimostra di ritenere dannoso a chi lo compie. La presunzione che a una certa età il minore abbia raggiunta una certa maturità (quella presunzione che giustifica il venir meno del potere genitoriale), non può non cadere quando il minore compie un atto, che denota con tutta evidenza la sua
immaturità. Disc. Quindi il genitore che strappasse di mano al figlio la siringa con cui sta per drogarsi non sarebbe punibile per l’articolo 51 Cod. Pen. Doc. Non sarebbe punibile, non solo per l’articolo 51 Codice penale, ma anche per l’articolo 52 stesso Codice penale (difesa legittima), dato che per questo articolo non é punibile anche chi impedisce a una persona un atto auto-lesivo. Disc. Ma il genitore é controllato nell’esercizio dei suoi poteri. Doc. Non controllato, ma controllatissimo: mille occhi stanno su di lui: gli occhi dei vicini, dei parenti, dei medici della USL (che visitandolo possono rilevare se una alcool-dipendenza o tossicodipendenza lo rendono inidoneo all’esercizio di tali poteri) e in genere di ogni esercente un servizio di pubblica necessità e di ogni pubblico ufficiale. E ognuna di tali persone può fare un esposto al Tribunale dei minorenni (e anzi gli esercenti un servizio di pubblica necessità e i pubblici ufficiali hanno il dovere di fare tale esposto). Disc. E il Tribunale dei minorenni, ricevuto tale esposto, che fa? Doc. Fa indagini e, se del caso, prende dei provvedimenti. Disc. Quali provvedimenti? Doc. Essi possono essere di diversa severità e incisività. I provvedimenti meno incisivi si limitano solo a una interferenza, diciamo così, nell’esercizio della potestà genitoriale (ma non ne determinano la decadenza): il genitore vorrebbe negare al figlio, che vuole andare a lavorare all’estero, il permesso, e il Tribunale gli ingiunge di darlo; il genitore non vorrebbe vaccinare il figlio e il Tribunale gli ingiunge di vaccinarlo; il genitore ha preso a convivere con una donna che si comporta da matrigna col figlio e il Tribunale dispone l’allontanamento dal domicilio domestico, diventato per lui invivibile, del figlio. Possono anche giungere a privare il genitore di un potere inerente alla sua potestà (ma di un potere minore) – il che accade quando il genitore amministra male i beni del figlio; in tal caso,infatti, il Tribunale può,sì, “limitarsi a stabilire le condizioni a cui egli deve attenersi nell’amministrazione”,ma anche può privarlo tout court del potere di amministrare.
Tali provvedimenti sono previsti dagli articoli 333 e 334 del Codice civile. L’articolo 333 recita (sotto la rubrica, “Condotta del genitore pregiudizievole al figlio”): “Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non é tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento”. L’art. 334 (sotto la rubrica “Rimozione dall’amministrazione”) recita: “Quando il patrimonio del minore é male amministrato, il tribunale può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale. L’amministrazione é affidata a un curatore, se é disposta la rimozione di entrambi i genitori”. Disc. Tu hai detto che il Tribunale può anche privare il genitore della responsabilità genitoriale: quando può avvenire ciò? Doc. Quando il genitore trascura i suoi doveri verso il figlio (é il caso del genitore che non manda a scuola il figlio o lo fa vivere in ambienti malsani o non lo nutre e veste a sufficienza), oppure li viola (é il caso della madre che, per provvedere al futuro della figlia, le insegna...a prostituirsi) oppure ancora, abusa dei suoi poteri (é il caso del genitore che maltratta o peggio il figlio). Disc. Ma se il genitore non veste non nutre abbastanza il figlio perché povero? Doc. Lo Stato viene in aiuto in vari modi ai genitori in difficoltà economiche; prevede anche la possibilità di “affidare” provvisoriamente il figlio a una famiglia disposta a prendersene cura (é il così detto “affidamento familiare” previsto negli artt. 4, 5 della legge 4 maggio 1983 n. 184 – da non confondersi con l’affidamento preadottivo, che riceve la sua disciplina nell’articolo 22 e ss. della stessa legge). E solo se il genitore rifiuterà l’aiuto dello Stato si potrà parlare di una violazione dei suoi doveri verso il figlio. In buona sostanza perché si possa giungere alla decadenza dalla responsabilità genitoriale occorre un comportamento colpevole del genitore (a differenza di quanto, come vedremo, accade per quella dichiarazione di “stato di
abbandono del figlio” che prelude all’adozione, e che prescinde dalla colpa del genitore) Disc. Come esempio di violazione dei doveri genitoriali tu hai portato quello del genitore che educa il figlio a un comportamento “deviante”, a un comportamento riprovevole (perché dannoso al figlio o alla società): ma il giudizio sulla riprovevolezza di una condotta può essere opinabile (fumare marjiuana é male o no? è opinabile) e fare prevalere l’opinione del tribunale su quella del genitore sa molto di quello stato “totalitario”, che certo non era nei programmi dei nostri Padri Costituenti. Doc. Può essere, ma sul punto i nostri Tribunali la pensano diversamente da te. E siccome la tendenza é quella di una sempre maggiore ingerenza dello Stato nella famiglia sul punto bisogna che tu ti dia pace e.....legga attentamente quanto dice l’articolo 330. Art 330: ” Decadenza della responsabilità genitoriale sui figli – Il giudice può pronunziare la decadenza della responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tale caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”. Disc. Ma, nonostante la decadenza dalla responsabilità, il genitore può avere rapporti col figlio, soprattutto conserva tutti i suoi doveri verso di lui (in primis, quello di provvedere alle spese per il suo mantenimento, la sua istruzione....)? Doc. Certamente, sì: solo nel caso che il Tribunale decreti, prima, lo stato di abbandono del figlio, e, poi, la sua adozione, vengono totalmente troncati tutti i rapporti tra genitore e figlio (art 27 co.3 della già citata legge 184/1983 sull’adozione: “Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali”). Disc. Ma quando si ha lo “stato di abbandono” del figlio? Doc. Come risulta dall’articolo 8 della legge sull’adozione, lo “stato di abbandono” si ha quando il minore “é privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a
causa di forza maggiore di carattere transitorio”. Disc.Quindi anche se alle necessità (materiali e morali) del minore provvedono, non i genitori, ma i parenti, lo stato di abbandono non viene ritenuto. Doc. Purché si tratti di parenti effettivamente “tenuti” all’obbligo degli alimenti. Evidentemente il legislatore teme che l’assistenza data al minore da parte di chi non vi é obbligato, quindi solo per bontà, non dia, come tutti i “buoni sentimenti”, garanzia di durare nel tempo, mentre ritiene che dia più garanzia di stabilità l’assistenza data da parte di chi vi é obbligato. Disc. Tu hai prima detto che, mentre la decadenza dalla responsabilità genitoriale (ai sensi dell’art. 330) si può dichiarare solo se la mancanza, di assistenza e cure al figlio é dovuta a colpa del genitore, l’abbandono, di cui stiamo parlando, può essere dichiarato anche a prescindere da ogni sua colpa. Però a me pare che questa tua affermazione sia contraddetta dal fatto che tale abbandono non va dichiarato se dovuto a “forza maggiore”. Doc. No, non mi pare che il disposto dell’articolo 8 contraddica quanto da me detto: infatti per tale articolo la forza maggiore (per definizione non dovuta a colpa del genitore) non transitoria, giustifica pur sempre la dichiarazione dello stato di abbandono. Ma indubbiamente il pensiero legislativo sul punto é assai contorto e a me sembra che debba interpretarsi così: l’abbandono anche se transitorio ha rilevanza (per poi dichiarare lo stato di adottabilità), a meno che non sia dovuto a forza maggiore. Disc. Un esempio di forza maggiore? Doc. L’esempio classico sarebbe quello di una degenza ospedaliera del genitore. Però, forzando un po’ le cose, si fa rientrare nella forza maggiore anche lo stato di detenzione. Disc. Così come effettua, sull’operato dei genitori, “controlli successivi”, l’Autorità Giudiziaria ne effettua anche di preventivi? Doc. Sì, ma limitatamente agli atti di amministrazione del patrimonio del figlio minore: come si é già accennato, quelli di tali atti, che “eccedono la ordinaria
amministrazione”, possono essere compiuti (dal genitore) solo previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. Disc. Ma quali sono gli atti che si può ritenere eccedano l’ordinaria amministrazione? Doc. Quelli che, per così dire, pongono un’ipoteca sulla futura amministrazione che il figlio assumerà giunto alla maggiore età. In buona sostanza l’idea guida in subiecta materia é questa: tutti gli atti, che il figlio, una volta divenuto maggiorenne, potrebbe ancora compiere e compiere presumibilmente in maniera diversa da come potrebbe decidere di compierli il genitore, vanno procrastinati fino al suo raggiungimento della maggiore età; gli altri invece possono essere, dal genitore, compiuti. E così, ad esempio, il genitore, nell’anno di grazia 2012, potrà,sì, disporre, nell’interesse del figlio, che diventerà maggiorenne solo nel 2018, che il fondo Corneliano sia dato in locazione fino al 2018 a Mevio, dato che ciò non impedirà al figlio, diventato maggiorenne di dare in locazione il fondo a Fulano nel 2018 (o pochi anni dopo il 2018). Però il genitore non potrà alienare il fondo Corneliano, perché il figlio, diventato maggiorenne, potrebbe preferire di tenere, e non di vendere, il fondo, e tale decisione gli verrebbe impedita dalla alienazione del fondo che il padre facesse.. Tutto questo, però,naturalmente, a meno che causi danno o inconvenienti procrastinare l’atto: c’é un’occasione d’oro per vendere il fondo Corneliano (che nulla rende e causa solo spese), occasione che non si ripresenterà nel 2018: é evidente l’opportunità di coglierla e vendere. Ma, ecco il punto, il legislatore vuole che la valutazione della evidente utilità di tale vendita sia fatta dall’Autorità giudiziaria. Questa l’idea guida in subiecta materia. Però tradurre tale idea guida in un chiaro criterio non é facile, e subito ce ne accorgiamo leggendo il terzo comma dell’articolo 320, che recita: “I genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui o locazioni ultranovennali o compiere altri atti eccedenti la ordinaria amministrazione né promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo l’autorizzazione del giudice tutelare)”. Disc. Parrebbe, leggendo tale articolo, che il genitore, anche per vendere la vecchia bicicletta del figlio, abbia bisogno dell’autorizzazione del giudice tutelare: infatti l’articolo non distingue tra alienazione di beni mobili e immobili.
Doc. E non può distinguere (per escludere, naturalmente, dalla necessità dell’autorizzazione i beni mobili), dato che, la vendita di un quadro di Picasso, può assumere più importanza. nella gestione del patrimonio del figlio, che la vendita di un appartamento. E’ quella difficoltà di formulare un criterio che sia una guida sicura, nel distinguere gli atti eccedenti o no l’ordinaria amministrazione, di cui ti dicevo prima. Disc. Non rompiamoci allora neanche noi la testa per trovare tale criterio, e poniamoci nel caso che il genitore venda il fondo Corneliano, senza autorizzazione del giudice tutelare: che succede, la vendita si deve considerare nulla? Doc. Non nulla, ma annullabile; dato che, nonostante il difetto di autorizzazione, essa potrebbe essere conveniente, e, se così fosse, perché rinunciarvi?! Più precisamente l’art. 322 recita: “Gli atti compiuti senza osservare le norme dei precedenti articoli del presente titolo possono essere annullati su istanza dei genitori esercenti la responsabilità o del figlio o dei suoi eredi o aventi causa”. Disc. Noi abbiamo fino ad ora fatti i nostri discorsi come se ci fosse un unico genitore o almeno un unico genitore investito della responsabilità genitoriale. Però i genitori possono essere due e tutti e due investiti della responsabilità genitoriale. Che dispone per il caso il legislatore? Doc. Dispone, nel secondo comma dell’articolo 316, che “la responsabilità genitoriale é esercitata di comune accordo da entrambi i genitori”. Disc. Che significa ciò, che un genitore, per comprare anche un vestito da quattro soldi al figlio, avrà bisogno del consenso dell’altro? Doc. No, il legislatore non vuole precludere iniziative unilaterali dei genitori; vuole semplicemente che nessun atto possa essere preso unilateralmente da un genitore nel disaccordo o nel presumibile disaccordo con l’altro coniuge: tu, genitore, puoi prendere tutte le iniziative che vuoi (ai fini dell’educazione, istruzione ecc del figlio), poco o molto importanti che siano, se ragionevolmente puoi presumere che l’altro genitore sia d’accordo; mentre non puoi prendere nessuna iniziativa, per piccola che sia, se vi é, o devi presumere che vi sia, il disaccordo dell’altro genitore.
Disc. E se la prendo? Doc. Ti esponi alle correzioni e alle sanzioni di cui agli articoli 330, 333 di cui abbiamo parlato; e se sei unito da matrimonio con l’altro genitore, questi (nei casi gravi) potra chiedere la separazione, con “addebito” a tuo carico. Disc. Ma in caso di dissenso dell’altro genitore, che si fa, non si fa nulla? Doc. No, i due genitori possono rivolgersi al giudice, così come abbiamo visto avvenire (per l’art. 145) nel caso di disaccordo nella gestione del menage coniugale (disaccordo nella fissazione della residenza e simili, ti ricordi?); e il giudice fa opera di mediazione. Disc. E se la mediazione non riesce...se ne lava le mani, proprio come abbiamo visto avvenire nel caso dei coniugi che si rivolgono al giudice (ai sensi dell’art. 145)? Doc. No, il legislatore non vuole correre il rischio che una decisione nell’interesse del minore non sia presa (forse con suo grave danno), e pertanto dispone che, nel persistere del disaccordo, il giudice attribuisca il potere di decidere a uno dei due genitori. Disc. Al padre o alla madre indifferentemente? Doc. Si. Disc. E se un genitore non può ottenere il consenso dell’altro semplicemente perché questi é impedito a darlo (é nel Tibet, nell’interno dell’Africa, o si trova in ospedale in stato comatoso..)? Doc. Per il caso provvede l’articolo 317, che recita nel suo primo comma: “Impedimento di uno dei genitori - Nel caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della potestà, questa é esercitata in modo esclusivo dall’altro”. Disc. Quanto finora detto vale anche per quel che riguarda l’amministrazione del patrimonio del figlio minore?
Doc. Sì, però in tale caso il legislatore deve preoccuparsi anche di tutelare l’affidamento dei terzi e in genere l’interesse dei terzi alla chiarezza e sicurezza nei rapporti commerciali. Pertanto stabilisce (nel comma 1 ult. parte dell’articolo 320) che “gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun coniuge”. Disc. Ciò senza dubbio rappresenta una forte tutela dell’affidamento del terzo: il commerciante Parodi non dovrà più domandarsi, per sapere se vende bene o male quel tale vestito alla signora Beppa, se il Bacciccia, l’altro genitore, é d’accordo, o no: basterà che tenga conto se l’atto é, o no, di ordinaria amministrazione? se sì, potrà tranquillamente il vestito alla Beppa anche se non gli risulterà il consenso del Bacciccia.. Ma la chiarezza nei rapporti commerciali di cui parlavi? Doc. E’ assicurata dal fatto che, quando non é sufficiente il solo “sì” di uno dei genitori, ma occorre il doppio “sì” di entrambi i genitori (il che accade praticamente in materia di locazione e negli atti per cui occorre l’autorizzazione dell’A.G.), questo doppio “sì” deve risultare espressamente e formalmente. Come risulta chiaramente dalle parole usate dal legislatore nel primo comma dell’articolo 320, che recita. “I genitori congiuntamente (e non più semplicemente di comune accordo) rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni”. Disc. Quindi, può dirsi che i poteri del genitore sono diversi a seconda che li si riguardi nella prospettiva dei rapporti esterni o di quelli interni (idest, dei rapporti con l’altro genitore). Nell’esempio prima fatto, la Beppa, comprando il vestito, in rapporto al commerciante Parodi, avrà fatto un atto perfettamente valido, però si sarà lo stesso comportata scorrettamente in rapporto al Bacciccia, l’altro genitore, e si sarà esposta alle relative sanzioni, se le risultava il disaccordo di questo. Doc. Esatto. Disc. L’applicabilità dell’articolo 316 anche in materia di amministrazione del patrimonio del figlio minore, mi pare anche permetta al nostro Bacciccia di superare eventuali opposizioni della Beppa a compiere un atto per cui occorre l’autorizzazione del giudice (una alienazione, una divisione, un’accettazione di eredità....): egli non avrà che da rivolgersi al giudice di cui all’articolo 316, ottenere da questi il potere di
decidere sul compimento o no dell’atto, e, ottenuto il conferimento di tale potere, rivolgersi al giudice di cui all’art. 320 per ottenere la relativa autorizzazione. Doc. Anche questo é esatto. Complimenti. Disc. L’adempimento dei doveri connessi allo status di genitore, spesso comporta un costo (in fatica e in soldi): chi lo sopporta? Doc. A tale domanda, per quel che riguarda i coniugi legalmente sposati, una prima risposta già te l’ha data l’art. 147, che abbiamo già avuto occasione di incontrare. Infatti, come ti ricorderai, dall’articolo 147 risulta che l’obbligo di provvedere ai figli grava su “entrambi i coniugi”. Questa prima risposta (al quesito che ci siamo posti) va integrata – sia per i genitori legalmente sposati sia per quelli che tali non sono – con quanto risulta dall’art. 324 e dall’art. 315bis. Disc. Che cosa risulta da tali articoli? Doc. Dall’articolo 324 (meglio dai suoi due primi due commi) risulta, da una parte, che “i genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto dei beni del figlio fino alla maggiore età e all’emancipazione”, dall’altra, che “i frutti percepiti (idest, i ricavi dall’usufrutto) sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli”.. Disc. Quindi se i genitori hanno ricavato dall’usufrutto 100, non é che tutti questi 100 debbono spenderli unicamente per il figlio: parte li possono spendere anche per provvedere ai bisogni propri e degli eventuali altri figli: é così? Doc. E’ così, ma fino a che il genitore non passa a nuove nozze, in tal caso egli (per l’art. 328) non potrebbe più utilizzare quei 100 né per la nuova famiglia, e questo si comprende abbastanza, né per la “vecchia”, (idest, per se stesso e i fratelli del figlio titolare dei beni) e questo si comprende assai meno. Passiamo all’articolo 316bis: da esso, e più precisamente dal suo ultimo comma, risulta che il figlio “deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”, quindi anche al proprio mantenimento (espressione comprensiva chiaramente anche della propria istruzione ed educazione).
Disc. Quest’obbligo di contribuzione del figlio é previsto dal legislatore anche per il figlio diventato maggiorenne? Doc. Direi che é previsto soprattutto per il figlio maggiorenne: il legislatore - mentre, come già abbiamo avuta occasione di vedere, fa obbligo ai genitori di mantenere il figlio, anche quando ha raggiunto una maggiore età ma non ha ancora ultimata la sua preparazione per esercitare un lavoro o una professione (adeguati al suo status sociale) – non ammette che il figlio viva nel dolce non far niente, a spese dei genitori, o che, sì, lavori, ma egoisticamente trattenga per sé tutto il frutto del suo lavoro, lasciando il peso del suo mantenimento sulle spalle dei genitori. Disc. Che il figlio non si faccia mantenere dai genitori, quando ha la capacità di mantenersi da solo, é senz’altro giusto; ma l’articolo 316bis, va oltre, impone al figlio di contribuire al mantenimento della famiglia (genitori, fratelli, cognati....). Doc. Ma questo é giusto, o, almeno, é in linea con i principi che ispirano il nostro di diritto di famiglia: non abbiamo già visto che, in base a tali principi, nell’ambito della famiglia vige un....regime comunista?! Disc. Mettiamoci ora nell’ipotesi che il figlio sia minorenne: nel suo contributo alle spese del menage familiare vanno calcolati “i frutti” dell’usufrutto dei suoi beni (che i genitori trattengono). Doc. Certamente,sì. Disc. Il figlio non ha altri obblighi verso i genitori oltre a quello di contribuire alle spese come or ora detto? Doc. No, egli ha anche l’obbligo di “rispettare” i genitori. Questo il termine usato dal legislatore nell’ultimo comma dell’art. 315bis. Disc. Ma tutti noi abbiamo l’obbligo di rispettare un’altra persona, qualsiasi altra persona, quindi dire che il figlio deve rispettare il genitore é cosa totalmente banale e superflua, che il legislatore poteva evitarsi. Doc. E’ così; e in effetti il Codice Rocco, nella sua originaria scrittura, faceva obbligo
al figlio di “onorare”, e non semplicemente di rispettare, il genitore: e questo era conforme al Pensiero Tradizionale. Mentre, infatti, il legislatore laico, nella sua smania di demitizzare, tende a inaridire e a impoverire i rapporti umani; il Pensiero Tradizionale tende a dignificarli: il figlio deve onorare il padre perché il padre é un rappresentante di Dio (nel suo aspetto paterno), lo sposo deve onorare la sposa perché questa é la rappresentante di Dio nel suo aspetto femminile e così via. Di conseguenza, tali rapporti assumano un alcunché di sacro e di sublime, che,ahimè, nel mondo moderno tende a perdersi. Disc. Ma che stupidaggini: il padre, la sposa, rappresentanti di Dio! Quando guardo a mio padre e alla mia sposa vedo solo delle povere creature in carne ed ossa come sono io. Doc. Non é vero: se la donna da te amata fosse solo un composto di carne, muscoli, sangue ecc., se il sole fosse solo un composto di materia incandescente, tu non saresti affascinato dalla prima e non guarderesti ammirato il secondo. In realtà ogni essere, ogni cosa nasconde in sé un quid profondo, che parla e si fa sentire solo che si abbia per ciò l’orecchio e la sensibilità abbastanza fine. Disc. Sensibilità che l’uomo moderno ha perduto mentre l’aveva l’uomo tradizionale: riproponi sempre le tue vecchie idee, che invece faresti bene a tenere per te, se non vuoi essere considerato mezzo matto. Cerchiamo piuttosto di rispondere a una domanda, che, mi accorgo, abbiamo sempre pretermessa, forse perché la sua risposta é scontata, ma che comunque, dal punto logico, é fondamentale: chi é investito della responsabilità genitoriale? tutti e due i genitori, uno solo dei genitori, un terzo qualsiasi? Doc. Tutti e due i genitori, se essi sono legalmente coniugati; come abbiamo già visto leggendo il primo comma dell’art. 316. Disc. E se non sono legalmente coniugati? Doc. A questa domanda ti risponde, non più il primo, ma il quarto comma dell’articolo 316, che recita: “Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, é fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi”.
Lezione XIX: L’adozione. Doc. Parlando della filiazione abbiamo visto come, dei (pesanti!) doveri connessi allo status di genitore giuridico, venga gravato il genitore biologico (“Tu, Beppe, dato che, in un dato momento della sua vita, hai avuta l’idea più o meno felice di mettere al mondo Marietto, devi mantenerlo, istruirlo, ecc)); ora, parlando dell’adozione, vedremo invece dei casi in cui, di tali doveri, viene gravata una persona (il commendator Parodi) solo perché, in un dato momento della sua vita, ha spontaneamente voluto caricarsene il peso. Disc.Ma dico subito che ciò a me non pare né giusto né sensato: il peso dei doveri genitoriali é giusto caricarlo sulle spalle di Beppe, il genitore biologico, perché a lui tale peso sarà reso sopportabile dall’istinto paterno e da quell’affinità di carattere col figlio (con Marietto) che si deve supporre tra chi ha lo stesso sangue; però non é altrettanto giusto caricarlo sulle spalle del commendator Parodi, solo perché, in un dato momento della sua vita, per motivi i più diversi e non si sa quanto meditati, ha deciso di “adottare Marietto”. Tu mi dirai che pure chi si sposa viene gravato di doveri pesantissimi (quelli connessi allo status di coniuge) solo perché in un dato momento della sua vita gli é girato di dire il fatidico “sì”; però in tal caso é lecito pensare che l’attrazione sessuale, l’amore verso l’altro coniuge, renderanno il peso di tali doveri sopportabile. E poi, esiste il
“divorzio”: se il marito si accorge di non poter sopportare più il carattere della consorte può troncare il legame con lei; invece il Parodi, mica può revocare l’adozione, se si accorge di non poter sopportare più il carattere di Marietto (il figlio adottato, e adottato probabilmente quando ancora il suo carattere era in formazione e quindi non si poteva ben dire quale sarebbe stato)! Doc. Le cose che dici sono sostanzialmente giuste; e vedremo che in una certa misura il legislatore ne tiene conto. Disc. Come? Doc. Col fatto stesso di subordinare l’adozione a una procedura giudiziaria sfociante in una vera e propria sentenza, col fatto di imporre, almeno nell’adozione dei minorenni, all’autorità giudiziaria di disporre, prima di pronunciare tale sentenza, “indagini” sui motivi che hanno portato alla richiesta di adozione – indagini che senza dubbio mirano in modo preminente alla tutela del minorenne, ma che indirettamente tutelano il richiedente – infine, alleggerendo il peso dei doveri (genitoriali) di cui il richiedente l’adozione va a caricarsi - questo almeno per alcuni tipi di adozione. Disc. Quindi, vi sono diversi tipi di adozione. Doc. Più precisamente ce ne sono tre: 1- l’adozione dei maggiorenni (disciplinata nell’art. 291 e ss. del Codice); 2- l’adozione legittimante dei minorenni (disciplinata dalla Legge 4 maggio 1983 n.184, nel titolo II, artt. 6 e ss.); 3- l’adozione nonlegittimante dei minorenni (disciplinata sempre dalla Legge 184/1983 nell’art. 44 ss.). Disc. Comincia a dire dell’adozione dei maggiorenni. Doc. Mentre l’adozione dei minorenni, come vedremo, non sempre, anzi raramente, necessita del consenso dell’adottando (ma, chiarisco subito, ciò, non perché il legislatore non voglia tenere conto della volontà dell’adottando, ma semplicemente perché questi non sempre, anzi raramente ha raggiunta l’età che gli permetterebbe di esprimerla seriamente e meditatamente) l’adozione del maggiorenne sempre il consenso dell’adottando richiede. Ed é naturale che sia così, dato che per Caio diventare figlio adottivo di Sempronio (ciò che implica, tra l’altro l’assunzione del cognome di Sempronio – vedi melius, l’articolo 299) può presentare degli intuitivi
inconvenienti (pensa solo al caso in cui Caio é uno stimato professionista e Sempronio un malfamato malavitoso). Ma l’adozione del maggiorenne, non solo richiede il consenso dell’adottando, ma (cosa che invece non avviene mai nell’adozione legittimante del minorenne!) richiede anche il consenso dei suoi genitori e del suo coniuge, quindi dei più significativi esponenti della sua “famiglia di origine” (v. art. 297 co.1) Famiglia verso cui questi continua a conservare tutti i precedenti legami giuridici e d’affetto; infatti il primo comma dell’articolo 300 recita: “L’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, salve le eccezioni stabilite dalla legge”. Disc. L’adozione richiede il consenso dei figli? Doc. Richiede il consenso del coniuge, ma non quello dei figli (naturali, per i figli legittimi il problema non si pone perché l’art. 291 non legittima all’adozione chi ha figli legittimi o legittimati). Disc.Ma perché mai subordinare l’adozione al consenso del coniuge? Doc. Evidentemente, perché il legislatore riconosce degno di tutela l’interesse del coniuge a non vedere ridimensionati, in seguito al concorso dell’adottato, i diritti successori propri e dei propri eventuali, futuri figli legittimi. Disc. Ma tale tutela aveva senso un tempo; non ora che é ammesso il riconoscimento, e poi la legittimazione, di un figlio (anche adulterino! |) senza il consenso del coniuge. L’adottato viene ad acquisire qualche diritto o dovere verso la famiglia dell’adottante? Doc. No, così come l’adottante non acquisisce nessun diritto o dovere verso la famiglia dell’adottato, più precisamente il secondo comma dell’articolo 300 recita: “L’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato né tra l’adottato e i parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge”. Disc. Quali i diritti dell’adottato, quali i doveri dell’adottante?
Doc. In teoria l’adozione grava l’adottante di tutti i doveri di cui fa parola l’articolo 315bis (però solo in teoria, perché, se é ancora immaginabile un dovere dell’adottante verso l’adottato maggiorenne per l’istruzione e la alimentazione, é ben difficile pensare a un suo dovere verso di lui per l’educazione). In pratica l’adottato acquisisce, se si trova in stato di bisogno, verso l’adottante un diritto agli alimenti (vedi l’art.436 secondo cui “L’adottante deve gli alimenti al figlio adottivo con precedenza sui genitori legittimi o naturali di lui”) e gli stessi diritti successori che avrebbe un figlio (cosa per cui effettivamente l’adozione viene a comprimere i diritti del coniuge e dei figli dell’adottante). Disc. Bene, questi, i diritti dell’adottato; quali quelli dell’adottante (verso l’adottato)? Doc. Praticamente solo il diritto agli alimenti se si venisse a trovare in stato di bisogno.(v. l’art. 433); in particolare il primo comma dell’articolo 304, con estrema chiarezza stabilisce che “l’adozione non attribuisce all’adottante alcun diritto di successione”. Disc. Può essere revocata l’adozione? Doc. Solo in casi eccezionalissimi: i casi di reati gravissimi commessi dall’adottante verso l’adottato o dall’adottato verso l’adottante (vedi meglio gli artt. 306 e 307). Disc. Tu avevi prima detto che il legislatore adotta delle cautele per impedire delle adozioni, per così dire, avventate; tali cautele sono previste anche per il tipo d’adozione in discorso. Doc. Certamente: anche l’adozione di un maggiorenne, non é che si possa fare con una scrittura privata o pubblica: viene dichiarata dall’autorità giudiziaria, più precisamente dal tribunale, con sentenza dopo aver accertato che “l’adozione conviene all’adottato” (e, quindi, anche l’adottante: così come non ci può essere matrimonio felice che convenga a Caia se non conviene anche a Caio, così non vi può essere un felice rapporto tra adottante e adottato se l’adozione conviene a questo e non a quello). Disc. Parliamo ora dell’adozione legittimante. Doc. L’adozione legittimante può avvenire solo nei confronti dei minorenni per cui
sia stato dichiarato lo “stato di adottabilità” (art.7 L. 184/1983) in quanto trovantisi in “stato di abbandono” (art. 8 legge 184/ 1983 da noi già preso in considerazione). Disc. Penso che, chi desidera adottare, sceglierà tra i minorenni quello, che più si avvicina al figlio che vorrebbe avere, e farà domanda al Tribunale per adottarlo. Doc. Nulla di tutto questo: la filosofia della legge é che si deve impedire che il minorenne venga scelto (col rischio così che alla fine risultino scartati proprio i minorenni più bisognosi di assistenza). La coppia di coniugi che desidera adottare, deve limitarsi a inoltrarne domanda al tribunale: sarà questi che la sceglierà per un “affidamento preadottivo”; cioé per un periodo di convivenza volto ad accertare se coniugi e minorenne sono “compatibili” tra di loro. Naturalmente il tribunale non opererà la sua scelta alla cieca: da una parte, disporrà indagini volte ad accertare “in particolare la capacità di educare il minore, la situazione personale ed economica, la salute, l’ambiente familiare dei richiedenti, i motivi per i quali questi desiderano adottare (co.4 art.22), dall’altra, sentirà il minore.(v. melius, il co.6 art. 22 citato). Disc. Ma la legge non riconosce il potere, alla coppia, di rifiutare il minorenne affidando, e a questi, di rifiutare la coppia affidataria? Doc. Certo, la coppia – che, bada, ha diritto di essere informata “su fatti rilevanti, relativi al minore (non ai suoi genitori) emersi dalle indagini” (cioé se egli ha degli handicap, ha un carattere violento ecc.) – potrà sempre rifiutare l’affidamento di quel minore e questi potrà sempre rifiutare quella coppia se ha già compiuto i quattordici anni (se non li ha ancora compiuti, verrà sentito, ma la sua volontà non sarà per il tribunale vincolante). Disc. Mettiamoci nel caso che l’affidamento preadottivo si faccia e si concluda positivamente (la coppia dice “Si, voglio adottare quel minorenne”, il minorenne, che ha già compiuto i quattordici anni, dice “Sì, accetto di essere adottato da quella coppia”), allora che succede? Doc. Succede, ovvio, che il tribunale con sentenza dichiarerà l’adozione. Disc. E quali saranno gli effetti giuridici di tale sentenza? Doc. Te lo dice l’articolo 27 (legge citata), il quale recita:
“Per effetto dell’adozione l’adottato acquista lo stato di figlio degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome. (….) Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia di origine, salvi i divieti matrimoniali “. Come vedi l’adozione legittimante del minorenne presenta caratteristiche notevolmente diverse da quelle dell’adozione, prima vista, del maggiorenne. Una cosa di mezzo tra questi due tipi di adozione é l’adozione non legittimante di un minorenne. Disc. Da quale legge é prevista? Doc. E’ prevista sempre dalla legge 184/83 negli articoli 44 e ss. Disc. Tu hai detto che questo tipo di adozione ha vari punti di contatto con l’adozione dei maggiorenni. Puoi indicarne alcuni? Doc. Il primo punto di somiglianza é che, come nella adozione dei maggiorenni, la domanda di adozione é fatta ad personam: non, “Io voglio adottare un minorenne”, ma “Io voglio adottare quel determinato minorenne”; ad esempio, “Voglio adottare il figlio di mio fratello” “Voglio adottare il figlio che mio marito ha avuto fuori del matrimonio” “Voglio adottare il minorenne che già mio marito ha adottato” - tanto per trarre esempi dalle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo 44. Disc. Articolo che faresti bene a leggere, mi pare. Doc. Hai ragione, ecco quel che dice il primo comma dell’articolo 44: “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7 (condizioni che, come ricorderai, sono date dalla dichiarazione di adottabilità conseguente allo stato di abbandono): a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate nell’articolo 3 comma 1, della legge 5 febbraio febbraio 1992 n. 104 (idest, sia handicappato) e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi é la constata impossibilità di affidamento preadottivo”.
Disc. Indica un altro punto di somiglianza, tra il tipo di adozione che stiamo esaminando e la adozione di maggiorenni. Doc. Un altro punto di somiglianza, é che per l’adozione occorre – oltre che il consenso dell’adottando, se ha compiuto i quattordici anni – anche l’assenso dei suoi genitori e del suo coniuge. Disc. Che in questo tipo di adozione occorra il consenso dei genitori e del coniuge mi pare cosa piuttosto logica, dato che – al contrario di quanto avviene in caso di adozione legittimante – qui l’adottando, non é (almeno necessariamente) in stato di abbandono: può avere i genitori, può avere il coniuge che si curano di lui, e che pertanto danno affidamento di ben valutare, nel suo interesse, la convenienza dell’adozione. Mi meraviglia piuttosto che non sia preteso l’assenso del coniuge dell’adottante (come abbiamo visto avvenire nell’articolo 297). Doc. Invece anche questo é piuttosto logico dal momento che, a differenza di quel che avviene nell’adozione del maggiorenne, l’adozione de qua non attribuisce all’adottato nessun diritto alla successione dell’adottante (quindi dall’adozione, il coniuge dell’adottante, nessuna ragione ha di temere un ridimensionamento dei diritti ereditari propri o dei suoi figli). Gli unici diritti che acquisisce l’adottando verso l’adottante – oltre a quello degli alimenti, se mai si trovasse da maggiorenne in stato di bisogno – sono quelli del diritto al mantenimento, all’istruzione, all’educazione (“conformemente a quanto prescritto dall’art. 147 del codice civile” dice il secondo comma dell’art. 48, e io aggiungerei “conformemente anche a quanto dice l’art. 315bis”, dato che questo articolo si applica a tutti i figli, poco importa se tali a seguito di un’adozione legittimante o no). Disc. Abbiamo viste le somiglianze tra l’adozione de qua e l’adozione del maggiorenne.... Doc...... Le principali; ché altre si potrebbero segnalare: la possibilità che l’adottante sia single, la revocabilità dell’adozione sia pure in casi eccezionalissimi …. Disc. ….Non approfondiamo ulteriormente un istituto che in fondo ha scarso rilievo nella pratica; indica piuttosto, i punti di contatto tra l’adozione di cui stiamo parlando e l’adozione legittimante.
Doc. Li possiamo ridurre a due, ma di un certo rilievo: il fatto che l’adozione sia in favore di un minorenne e il fatto che (pertanto) essa possa realizzarsi in certi casi anche senza il consenso dell’adottando. Disc. Anche in questo tipo di adozione il legislatore, penso, adotterà cautele per evitare che essa risulti contraria all’interesse dell’adottato (e indirettamente dell’adottando). Doc. Chiaro che sì: il tribunale, per l’articolo 57, può dichiarare l’adozione solo dopo aver verificato con opportune indagini che essa “realizza il preminente interesse del minore”.
Sezione settima: Separazione e divorzio
Lezione XX: Cause giustificative e iter di una separazione e di un divorzio. Disc. Anche un grande amore può finire: che succede se il matrimonio entra in crisi? Doc. Ci si separa e/o ci si divorzia; naturalmente se della separazione e del divorzio sussistono i presupposti legali. Disc. Cominciamo col dire i presupposti di un divorzio. Doc. Essi sono dati dall’intervenire di fatti, che escludono quella “comunione
spirituale e materiale” tra i coniugi, che sola, per il legislatore, giustifica il matrimonio e i pesanti obblighi che ne derivano. Così come risulta dall’articolo 1 della Legge che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio (la Legge 01.12-1979 n. 898), che recita: “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio (….) quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione (….) accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3”. Disc. Ma direi che, proprio dall’articolo da te citato, risulta che il venir meno della “comunione spirituale e materiale tra i coniugi”, non é condizione sufficiente per il “divorzio”: occorre che il venir meno di tale “comunione” tra i coniugi sia dovuto a determinate “cause”. Doc. Io riterrei preferibile dire che il legislatore vuole che il venir meno di tale “comunione” sia dimostrato da determinati fatti; alcuni dei quali, lo fanno presumere in modo assoluto (senza cioé che il giudice debba accertare se effettivamente la “comunione” tra i coniugi é venuta meno), altri, invece, lo fanno presumere in modo relativo (cioé, tali fatti sono sufficienti a che il giudice ritenga il venir meno della “comunione” a condizione che non vengano contraddetti e per così dire controbilanciati da altri fatti di segno contrario). Disc. Indica alcuni fatti la cui esistenza fa presumere in modo assoluto il venir meno della “comunione” tra i coniugi. Doc. In primis, tra tali fatti - (come risulta all’articolo 3 n.2 lett.b Legge 1 dicembre 1970, n.898, che lo studioso vedrà riportato in una nota in calce al paragrafo) - vanno indicati i seguenti: I- l’essere intervenuto (alternativamente): A1) il passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la separazione; B1) il decreto di omologa della separazione consensuale (davanti al giudice); C1) il “nullaosta” o la “autorizzazione” alla annotazione della “convenzione di separazione”; D) la “conferma” della “separazione innanzi all’ufficiale di stato civile”; II – l’essersi lo stato di separazione protratto ininterrottamente per un certo tempo. Disc. E tale tempo verrà computato, penso, da uno dei fatti da te prima indicati sub I.
Doc. Per nulla, infatti il tempo necessario alla maturazione del diritto al divorzio é: A2) di dodici mesi a partire dalla avvenuta comparizione delle parti innanzi al presidente, nel caso di “separazione personale”(più chiaramente, in caso di “separazione personale contenziosa”); B2- di sei mesi sempre a partire dalla comparizione delle parti innanzi al presidente, nel caso di “separazione consensuale” (più chiaramente, in caso di “separazione consensuale davanti al giudice”); C2ancora di sei mesi a partire dalla “ data” della “convenzione di separazione assistita”; D2- ancora di sei mesi dalla data dell’accordo di separazione “concluso innanzi all’ufficiale di stato civile”. Disc. Vai avanti: indica alcuni altri fatti che fanno presumere in modo assoluto il venir meno della “comunione” fra i coniugi. Doc. Tra tali fatti posso indicare: - il fatto che “l’altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all’estero l’annullamento e lo scioglimento del matrimonio o abbia contratto all’estero nuovo matrimonio” (lett. e n.2 sempre dell’art.3); - il fatto che “il matrimonio non sia stato consumato” (lett. f n.2 sempre articolo 3); - il fatto che sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione del sesso dell’altro coniuge (lett. g n.2 art.3); - il fatto che l’altro coniuge sia stato condannato a pene particolarmente gravi o che a suo carico siano stati accertati (anche con sentenze civili) reati particolarmente gravi (vedi melius, le lettere a), b), c) del numero 1 art.3 e le lettere c) e d) n.2 sempre art.3). Disc. Avranno solo rilievo, penso, reati commessi dopo il matrimonio. Doc. No, hanno rilievo anche reati commessi prima del matrimonio; quel che importa é che la sentenza sia pronunciata dopo la sua celebrazione. Disc. Quelli da te prima indicati sono casi in cui vi é una presunzione assoluta del venir meno della “comunione” tra coniugi; in che casi invece si ha una presunzione relativa, cioé una presunzione destinata a cadere di fronte a fatti ad essa contrari? Doc. Nei casi di reati non particolarmente gravi (lesioni, violazione di obblighi di assistenza, maltrattamenti...) o anche di reati gravi di cui però il coniuge é stato prosciolto per infermità di mente, in tali casi infatti il giudice può dichiarare lo
scioglimento del matrimonio solo se “accerta la inidoneità del convenuto a mantenere o a ricostituire la convivenza familiare” (v. melius, la lettera d) del n.1 art.3 e la lettera a) del n.2 sempre dell’art.3). Disc. Abbiamo visto quali sono i presupposti voluti dalla Legge perché Caio possa ottenere la dichiarazione che (finalmente! ) é “divorziato” da Caia, ma la strada che egli deve percorrere per giungere a tale traguardo, a tale dichiarazione, é lunga o corta? Doc. Certamente non é corta, se Caia, al divorzio, si oppone; diventa invece corta e facile se Caia e Caio sono concordi nel volerlo e richiederlo. Infatti la Legge, a due coniugi che sono intenzionati a risolvere i problemi, che nascono dalla loro crisi matrimoniale, amichevolmente, offre tre procedure, facili da percorrere, per giungere al “divorzio”: I- la procedura per “ricorso congiunto”; II- la procedura di “negoziazione assistita”; III – la procedura davanti al sindaco. Disc. Comincia a dire sulla procedura per ricorso congiunto. Doc. E’ prevista dal comma 16 dell’art 4 Legge 1 dicembre 1970 n.898 (che é la legge che disciplina “i casi di scioglimento del matrimonio”). Tale comma così recita: “ La domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici (la sottolineatura é naturalmente mia) é proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide con sentenza. Qualora il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi, si applica la procedura di cui al comma 8”. Ciò significa che - se i coniugi (o per loro i loro avvocati) avranno l’avvertenza di indicare compiutamente le condizioni relative ai rapporti economici e quelle relative ai figli (indicando a chi, questi, saranno “affidati”, dove andranno ad abitare, come si provvederà al loro mantenimento, educazione, istruzione....) e, soprattutto, avranno l’avvertenza di stabilire quest’ultime condizioni pensando realmente all’interesse dei figli - essi potranno giovarsi delle semplificazioni connesse a una procedura in “camera di consiglio” (no, alla necessità di notificare il ricorso; no, alla battuta di arresto per permettere il deposito di una memoria; no, al macchinoso tentativo di conciliazione; no, alla necessità di sentire i figli; no, soprattutto, al passaggio alla fase
istruttoria). Disc. Passiamo ora alla procedura “per negoziazione assistita”. Doc. Questa procedura, da chiamarsi più precisamente “ per convenzione assistita da uno o più avvocati”, é prevista dall’art.6 D.L. 12 settembre 2014, n.132, e, va segnalato subito, é utilizzabile - non solo, come recita la rubrica dell’art.6 (articolo che lo studioso può vedere riportato nella nota posta in calce al presente paragrafo), “ per le soluzioni consensuali di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (in parole più semplici, per ottenere un “divorzio”) - ma anche “per le soluzioni consensuali – stiamo sempre riportando le parole della rubrica all’articolo 6 – di separazioni personali o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio” (in parole più semplici, per ottenere una separazione o una modifica delle condizioni di separazione o di divorzio). Quel che caratterizza tale procedura é che il divorzio (o la separazione o la modifica delle condizioni di divorzio o di separazione) avviene (avvengono) fuori delle aule giudiziarie. Disc. I coniugi, quindi, fanno tutto da sé? Caio e Caia un bel giorno si incontrano e soli soletti mettono nero sul bianco: “I sottoscritti Caio e Caia di comune accordo dichiarano di volere divorziare (o separarsi....)”, e...il divorzio (la separazione) é fatto (sono fatti). Doc. No, Caio e Caia non possono fare tutto da sé, ma debbono richiedere l’assistenza di un avvocato (o di più avvocati) - un avvocato (o più avvocati) per parte, secondo l’interpretazione preferibile; un avvocato (o più avvocati) per tutelare entrambe le parti secondo altra interpretazione. E tale avvocato non può limitarsi a suggerire al cliente (o ai clienti, nel caso tuteli entrambi i coniugi) il contenuto della convenzione (di divorzio, separazione, o di modifica di precedenti condizioni di divorzio o separazione), ma deve (v. comma 3 art.6): 1) tentare di conciliare i coniugi e informarli della possibilità di esperire la mediazione familiare; 2) far presente “l’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori”; 3) controllare che l’accordo non contenga clausole contrarie a “ norme imperative e all’ordine pubblico” (contraria all’ordine pubblico sarebbe, ad esempio, una clausola, inserita nell’accordo di separazione, che prevedesse la cessazione dell’obbligo di dare l’assegno di mantenimento, in caso di opposizione al divorzio, da parte del coniuge mantenuto) - rifiutando la sua
sottoscrizione all’accordo, nel caso i coniugi volessero, nonostante tutto, inserire tali clausole. Disc. Quindi, l’avvocato deve sottoscrivere la “convenzione”. Doc. Certo che sì, tale convenzione infatti, non solo raccoglie le dichiarazioni di volontà dei coniugi ma anche la sua dichiarazione, di aver adempiuti gli incombenti di cui sopra e che le firme, apposte dai coniugi, sono autografe (vedi sempre il comma tre). Disc. Con la sottoscrizione dei coniugi e dell’avvocato (o degli avvocati) tutto é finito? il divorzio (la separazione....) si é perfezionata? Doc. No di certo, lo Stato non può fidarsi al cento per cento della correttezza e della competenza degli avvocati, che hanno assistito i coniugi nella convenzione, e quindi vuole che questa sia sottoposta al controllo del procuratore della Repubblica controllo di diversa intensità a seconda che i coniugi abbiano o no figli (ben s’intenda, figli comuni, non figli di un coniuge con un terzo) bisognosi o no di una loro assistenza e tutela (figli minori, o con handicap, o anche sani e maggiorenni ma con diritto al mantenimento perché comunque non in grado di procurarsi un reddito....). In caso di coniugi senza figli o con figli “autosufficienti”, il procuratore può e deve limitarsi a un controllo del tutto formale (vi é la sottoscrizione dei coniugi? le loro firme sono state autenticate?. ...) e in caso di esito positivo di tale controllo deve rilasciare un “nulla osta”. Disc. Il procuratore può rifiutare il nulla osta quando ritenga l’inserimento nella “convenzione” di clausole contrarie all’ordine pubblico o a norme imperative? Doc. Io lo negherei. Neanche il presidente, in sede di separazione consensuale, può rifiutare l’omologa per la pretesa nullità di qualche clausola dell’accordo coniugale, (ma deve rimettere la relativa decisione al Collegio, contro le cui decisioni é prevista la possibilità del reclamo). Tanto meno quindi potrà far questo un magistrato contro le cui decisioni, se erronee, non si saprebbe come trovare rimedio (se non optando per una procedura alternativa - ma é chiaro che tale opzione comporterebbe inconvenienti di cui non sarebbe giusto gravare la parte). Disc. Andiamo oltre: che accade in caso di coniugi con figli non autosufficienti?
Doc. In tale caso il controllo del procuratore deve essere più penetrante in quanto deve verificare che l’accordo dei genitori sia conforme all’interesse dei loro figli. Se tale lo ritiene, rilascia una “autorizzazione” (autorizzazione a che? la legge non lo dice chiaramente, ma vien logico pensare, autorizzazione alla trasmissione della copia autentica dell’accordo all’ufficiale dello stato civile – vedi ultima parte comma tre art.6). Se invece tale non lo ritiene, lo trasmette al presidente del tribunale. Disc. E che deve fare il presidente? Doc. Su quel che deve fare il presidente la Legge non fa luce: si limita a dire che egli deve fissare “la comparizione delle parti e provvedere senza ritardo” (vedi comma 2 art. 6). E a me la migliore interpretazione (del silenzio legislativo) sembra essere questa: il legislatore vuole che, se il presidente, discostandosi dall’opinione del procuratore, ritiene la convenzione conforme all’interesse dei figli, la autorizzi, che se, invece, non la ritiene tale, rimetta la decisione al Collegio (contro il cui decreto le parti avranno diritto di reclamo alla Corte di Appello). Disc. Ottenuto il “nullaosta” o la “autorizzazione” di cui sopra, il divorzio potrà considerarsi perfezionato e produttivo di effetti? Doc. Bisogna, secondo me, distinguere tra efficacia della convenzione per i coniugi e per i terzi. L’efficacia per i coniugi si verificherà al momento dell’emissione del nullaosta e della autorizzazione; quella per i terzi si verificherà solo al momento dell’annotazione della convenzione nell’atto di matrimonio. E proprio in considerazione dell’importanza di questa annotazione, il legislatore fa all’avvocato preciso obbligo di trasmettere all’ufficiale di stato civile copia autentica della “convenzione” intervenuta tra i coniugi (obbligo il cui inadempimento é colpito da una sanzione amministrativa). Naturalmente da tale copia autentica dovrà risultare il “nulla osta” o la autorizzazione” rilasciata dall’autorità giudiziaria (e se questa e quello risulteranno, non potrà anche non risultare quella “certificazione della autografia delle firme e della conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico” pretesa dall’articolo 5, dato che é impensabile che il procuratore o il giudice autorizzino o diano il nulla osta a una convenzione da cui non risulti tale certificazione - cosa per cui del tutto superfluo é il richiamo contenuto nella ultimissima riga del comma terzo art.6).
Disc. Passiamo ora alla terza delle procedure che possono condurre in via breve al divorzio (o alla separazione). Doc. Questa terza procedura é sempre prevista dal D.L. 132/2014, ma non dal suo articolo 6, bensì dal suo articolo 12 (che lo studioso vedrà riportato nella terza nota apposta in calce al presente paragrafo). In questa procedura é il sindaco, nella sua qualità di ufficiale di stato civile, che riceve la dichiarazione fatta dalle parti (e fatta personalmente, non tramite un terzo, in particolare non tramite un avvocato! ) “ che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate”. Ed é ancora davanti al sindaco che viene compilato e sottoscritto (“immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni” di cui ora si é detto! ) “ l’atto contenente l’accordo” (per il divorzio o la separazione o per la modificazione delle condizioni del divorzio e della separazione). Disc. Ma l’ufficiale di stato civile limiterà il suo compito a dar pubblica fede delle dichiarazioni delle parti o potrà assisterle con chiarimenti e suggerimenti nella compilazione dell’accordo? Doc. Certamente tale assistenza non può dirsi rientri nei compiti dell’ufficiale di stato civile; e del resto il presupposto di questa procedura é che le parti si presentino davanti all’ufficiale di stato civile avendo già “concordate” tra di loro le condizioni del divorzio o della separazione. Mi pare però che nulla vieti all’ufficiale di stato civile di assistere le parti con qualche chiarimento. Certo escluderei che l’ufficiale di stato civile possa rifiutare di accettare questa o quella clausola dell’accordo coniugale, anche qualora la ritenesse contraria all’ordine pubblico e a norme imperative. Come abbian visto, ciò non può fare il procuratore della Repubblica, quindi tanto meno lo può fare chi, come l’ufficiale di stato civile, non dà un particolare affidamento di non cadere in errori di interpretazione della legge - errori contro cui poi non si saprebbe come rimediare. Disc. Le parti possono farsi assistere da un avvocato? Doc. Possono, ma non debbono. E proprio la possibilità della mancanza di una efficace assistenza tecnica e la presumibilmente scarsa attitudine giuridica dell’ufficiale dello stato civile, convincono il legislatore a escludere la procedura de qua nel caso che i coniugi abbiano figli minori o comunque latu sensu non
“autosufficienti” (vedi comma 2 art. 12) e a dichiarare inammissibile l’inserimento nell’accordo coniugale di “patti di trasferimento patrimoniale”. Disc. Quindi l’ufficiale di stato civile non compie neanche quel tentativo di conciliazione dei coniugi (che invece é doveroso sia nella separazione consensuale sia nella separazione per “convenzione assistita da un avvocato”), così che diventa ben possibile che i coniugi si separino o divorzino solo a causa di un passeggero stato di tensione tra di loro verificatosi. Doc. E’ così, e proprio perché é così, la convenzione (di divorzio o separazione - non, però, di modifica delle condizioni di un precedente divorzio o separazione) non si perfeziona in sede di prima comparizione davanti all’ufficiale stato civile: infatti questi, dopo aver ricevuta la dichiarazione di volersi separare o divorziare, dopo aver compilato l’atto contenente l’accordo, invita i coniugi “ a comparire di fronte a sè non prima di trenta giorni (dalla ricezione della dichiarazione) per la conferma dell’accordo”. E “la mancata comparizione (dei coniugi) equivale a mancata conferma dell’accordo”. Disc. Voltiamo pagina. Caia non ne può più di vivere sotto lo stesso tetto con Caio, ma questi non le vuole dire addio: che deve fare per ….non vederselo più tra i piedi? Doc. Certo non può fare fagotto e lasciare Caio...in asso. Disc. Perché? Doc. Perché così facendo si espone a sanzioni penali e civili. Infatti l’articolo 570 Cod. Pen. contempla anche la reclusione per chi “abbandona il domicilio domestico”. Disc. E le sanzioni civili? Doc. Queste sono previste dall’art. 146, che (sotto la rubrica “Allontanamento dalla residenza familiare”) recita: “Il diritto all’assistenza morale e materiale previsto dall’articolo 143 é sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi. - La proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio costituisce giusta causa di allontanamento dalla residenza familiare”.
Disc. Quindi Caia non avrà diritto neanche l’assegno alimentare. Doc. Sì, finché non ritorna sotto il tetto coniugale non avrà neanche diritto all’assegno alimentare. A meno che, fondata o no, proponga domanda di separazione. Disc. Sì, ma qual’é il presupposto di una fondata domanda di separazione? Doc. E’ lo stesso di una fondata domanda di divorzio: il venir meno della “comunione materiale e spirituale tra i coniugi”. Disc. Non la “intollerabilità della convivenza”? Doc. A dir il vero l’articolo 151 (che ha per rubrica “Separazione personale”) richiama proprio la intollerabilità della convivenza come sufficiente condizione per ottenere la separazione. Infatti esso recita: “La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. - Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”. Disc. A dir il vero, a me l’articolo, che hai riportato, appare un po’ ridondante, specie quando indica come motivo giustificante la separazione, accanto alla intollerabilità della convivenza, l’esistenza di “fatti tali” “da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” (qualora, é logico intendere, non si ponga termine alla convivenza). Sarebbe bastato il riferimento alla “intollerabilità della convivenza”; e infatti un genitore non può non sentire intollerabile una convivenza che arreca danno ai suoi figli. Doc. Tu hai ragione; ma non é questo il punto. Il punto é che il legislatore pone la intollerabilità della convivenza come condizione, non solo sufficiente, ma necessaria della separazione; il che é assurdo, dal momento che, come abbiamo visto, é condizione sufficiente per il divorzio il semplice venir meno della “comunione spirituale e materiale dei coniugi” (venir meno che di per sé non rende certo intollerabile una convivenza). Ora, se il venir meno della “comunione” basta a giustificare il divorzio, tanto più deve bastare a giustificare la separazione (che é un
minus rispetto al divorzio). Disc. E per quel che riguarda l’addebitabilità della separazione? Doc. Siccome risulta chiaramente, dal secondo comma dell’articolo sopra riportato, che la separazione é addebitabile a un coniuge, quando questo ha “tenuto un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”, rinviamo sul punto a quanto detto in precedente paragrafo su tali doveri. Disc. Poniamo che la prosecuzione della convivenza venga a recare “ grave pregiudizio all’educazione della prole”: può un terzo (metti uno dei nonni, uno degli zii, e, perché no? il pubblico ministero) chiedere la separazione dei coniugi.? Doc. No, lo vieta il terzo comma dell’articolo 150, recitando “ Il diritto di chiedere la separazione giudiziale o l’omologazione di quella consensuale spetta esclusivamente ai coniugi”. Chiaramente questo significa che quei provvedimenti a tutela dei figli, che sono previsti per il caso di separazione (in primis, l’affidamento dei figli a questo anziché a quel coniuge) non sono adottabili, fino a che almeno uno dei coniugi non si decide a chiedere la separazione. Solo dopo che la crisi coniugale si é palesata con una separazione (con efficacia legale), si applicano, come vedremo meglio in seguito, gli articoli 337ter e seguenti e lo Stato interviene (e pesantemente) nella gestione dei rapporti genitori/figli - infatti l’art. 337bis recita: “ In caso (e solo in caso!) di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio si applicano le disposizioni del presente capo”, cioé, come dicevo, gli articoli 337ter e seguenti. Disc. Poniamoci ora, non più nel caso che Caia vuole e Caio, no; ma nel caso che sia Caia che Caio vogliano vivere separatamente: debbono, per farlo, domandarne autorizzazione alla Autorità giudiziaria? Doc. No, se due coniugi sono d’accordo nel vivere sotto tetti diversi, lo possono fare liberamente (e senza tema di essere colpiti da quelle sanzioni di cui prima parlavo a proposito, però, di allontanamento unilateralmente deciso dalla residenza coniugale). Però debbono sapere che essi per lo Stato sono soggetti allo stesso regime che regola due coniugi regolarmente conviventi; e ciò significa (tra l’altro): che non maturerà per loro il tempo necessario per chiedere il divorzio (dato che tale tempo decorre,
come abbiamo prima visto, “dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente”, dalla data della convenzione assistita ….vedi meglio quanto prima detto a proposito del divorzio); che gli accordi tra di loro presi (circa l’affidamento dei figli, la corresponsione di un assegno alimentare ….) avranno “durezza” ancor minore degli accordi presi in sede di separazione: questi infatti hanno almeno vigore rebus sic stantibus (cioé, fino a che non intervengono fatti nuovi, vincolano); quelli, invece, potranno essere cambiati, o risolti totalmente, solo che uno dei coniugi re melius perpensa, ci ripensi e li ritenga contrari all’interesse familiare (o semplicemente....al suo interesse). Disc. Ho capito l’antifona: ai coniugi converrà chinare la testa e adottare una delle procedure, che portano a una separazione avente effetti legali. Due di tali procedure le abbiamo indirettamente viste parlando del divorzio, e sono quella di fare una “convenzione di separazione assistita da un avvocato” e quella di fare la separazione davanti al sindaco; la terza procedura, se ho ben capito, é data dalla separazione consensuale davanti al giudice: due parole su questa. Doc. La “separazione consensuale davanti al giudice” é prevista dall’art.158 C.C. e dall’art. 711 C.P.C. Il primo comma dell’articolo 158 recita: “La separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza la omologazione del giudice”. Questa disposizione, in parte superata (in quanto sappiamo che ora vi sono delle separazioni consensuali, che hanno effetto a prescindere dalla loro omologa), continua a essere in parte ancora attuale. Infatti é ancora vero che, la procedura di separazione consensuale davanti al giudice, prevede un’udienza in cui le parti, fallito il tentativo di conciliazione, predispongono un accordo di separazione (con la fattiva assistenza del presidente, il quale però non può né imporre né impedire l’inserimento nell’accordo di questa o quella clausola) ed é ancora vero che tale accordo può essere rifiutato dal giudice (ciò che impedirebbe l’efficacia legale della separazione) questo però solo quando ritiene l’accordo non conforme all’interesse dei figli. Così come detto nel secondo comma dell’articolo 158, che recita: “Quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli é in contrasto con l’interesse di questi il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione”. Disc. E l’articolo 711 che cosa dice?
Doc. L’articolo 711 recita (sotto la rubrica “ Separazione consensuale”): “Nel caso di separazione consensuale previsto nell’art. 158 c.c., il presidente, su ricorso di entrambi i coniugi, deve sentirli nel giorno da lui stabilito e curare di conciliarli nel modo indicato dall’articolo 708. - Se il ricorso é presentato da uno solo dei coniugi, si applica l’art. 706 ultimo comma.- Se la conciliazione non riesce, si dà atto nel verbale del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi e la prole. - La separazione consensuale acquista efficacia con l’omologazione del tribunale, il quale provvede in camera di consiglio su relazione del presidente.- Le condizioni della separazione consensuale sono modificabili a norma dell’articolo precedente.” Disc. Andiamo avanti. Quando due persone hanno divorziato, se vogliono tornare a vivere insieme come legittimi coniugi, debbono tornare davanti all’ufficiale di stato civile per celebrare un altro matrimonio; anche Caio e Caia che si sono “separati” (consensualmente o no, poco qui importa), se hanno un “ripensamento”, dovranno tornare davanti all’autorità (il giudice, l’ufficiale di stato civile o chicchessia) per ripristinare tra di loro tutti i diritti e gli obblighi (compreso l’eventuale regime patrimoniale) che avevano prima della separazione? Doc. No, per eliminare gli effetti della “separazione”, basta la chiara (anche se non espressa) volontà in tal senso dei coniugi. Come si argomenta facilmente dal primo comma dell’articolo 157, che recita: “I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione”. Disc. Quindi non basterebbe, per far cessare gli effetti della separazione, un semplice incontro sotto le lenzuola di Caio e di Caia. Doc. Certamente, no: occorrerebbe il ripristino tra di loro di una vera e propria convivenza. Solo in un tal caso tornerebbero a nuova vita gli obblighi tra di loro contratti con il matrimonio (l’obbligo di fedeltà, di collaborazione, di coabitazione...tutti gli obblighi insomma che abbiamo già visto parlando dell’articolo 143). Disc. Torna a rivivere anche il precedente regime patrimoniale?
Doc. Sì, però compatibilmente con la tutela della buona fede dei terzi contraenti. Ciò significa, sì, che, se Caio e Caia avevano prima adottato il regime della comunione, l’immobile acquistato da Caio cadrà in comunione; ma pure significa che la vendita fatta da Caio di questo immobile in spregio all’articolo 184, e cioé senza il consenso di Caia, sarà perfettamente valida (a meno che risultasse annotata a margine dell’atto di matrimonio la dichiarazione con cui Caio e Caia manifestavano la loro volontà di riconciliarsi – vedi melius, art. 60 d.p.r. n.396 del 2000). Disc. A parte questo, però, con la riconciliazione i coniugi riprendono e continuano la loro precedente vita matrimoniale. Doc. Non precisamente. Infatti la riconciliazione produce una sorta di amnistia di tutte le violazioni degli obblighi matrimoniali prima avvenute. Insomma, due coniugi che si riconciliano devono sapere che con ciò “voltano pagina”, cominciano a scrivere un nuovo capitolo della loro vita. Disc. Da che cosa risulta questa specie di amnistia di cui tu parli? Doc. Dal secondo comma dell’articolo 157, che recita: “La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.” Disc. Ma la “amnistia” riguarda anche i fatti che giustificano la domanda di divorzio (tentato omicidio, maltrattamenti...)? Doc. Sì, ma tali fatti, se non potranno essere posti a base di una domanda di separazione, potranno pur sempre giustificare una domanda di divorzio; nei limiti naturalmente che abbiamo prima visto - ciò significa che la riconciliazione potrà pur sempre essere considerata una dimostrazione della “idoneità” del coniuge “colpevole” a “ricostituire la convivenza”, nei casi, naturalmente, in cui ciò ha rilevanza per l’articolo 3 della legge sul divorzio. Disc. I casi quindi delle lesioni e dei maltrattamenti, ma non del tentato omicidio. Ma non é un po’ assurdo che un fatto, come il tentato omicidio, possa giustificare il divorzio ma non quel quid minus che é la separazione?
Doc. Direi di sì, ma si tratta di un’assurdità non evitabile data la chiara lettera della legge. Note 1) Art. 3 l. 1 dicembre 1970 n. 898: “Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi (…..) nei casi in cui (….) é stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero é stata omologata la separazione consensuale ovvero é intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa é iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970.- In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta”. 2)Art.6 – Convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento di matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. 1) La convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei casi di cui all’art.3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970,n. 898, e successive modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. 2)In mancanza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’art.3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992,n.104, ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita é trasmesso al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente il quale, quando non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti ai sensi del comma 3. In presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della repubblica presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’accordo risponde all’interesse dei figli, lo autorizza. Quando ritiene che l’accordo non corrisponde all’interesse dei figli, il procuratore della Repubblica, lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo. All’accordo autorizzato si applica il comma 3. 3) L’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di
modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nell’accordo si dà atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare e che gli avvocati hanno informato le parti dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ciascuno dei genitori. L’avvocato della parte é obbligato a trasmettere, entro il termine di dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell’accordo munito delle certificazioni di cui all’articolo 5. (omissis) 3) Art.12 -Separazione consensuale, richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile. 1) I coniugi possono concludere, innanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile a norma dell’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000,n.396, del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui é iscritto o trascritto l’atto di matrimonio, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, un accordo di separazione personale ovvero, nei casi di cui all’articolo 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1° dicembre 1970,n.898, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. 2) Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3,comma 3, della legge 5 febbraio 1992,n. 104, ovvero economicamente non autosufficienti. 3)L’ufficiale dello stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate. Allo stesso modo si procede per la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. L’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. L’atto contenente l’accordo é compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni di cui al presente comma. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Nei soli casi di separazione personale, ovvero di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio secondo condizioni concordate, l’ufficiale dello stato civile, quando riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita a comparire di fronte a sé non prima di trenta giorni dalla ricezione per la conferma dell’accordo anche ai fini degli adempimenti di cui al comma 5. La mancata comparizione equivale a mancata conferma dell’accordo. (Omissis).
Lezione XXI: Diritti e doveri dei coniugi dopo la separazione, in mancanza di figli. Doc. Praticamente la separazione fa piazza pulita di tutti gli obblighi derivanti dal matrimonio (obbligo di coabitazione, fedeltà, collaborazione...); a cui sostituisce l’obbligo di mantenimento o degli alimenti e, se vi sono dei figli, l’obbligo di
permettere loro rapporti con l’altro coniuge e i nonni - così come meglio vedremo in seguito. E che la separazione estingua totalmente tutti gli obblighi derivanti dal matrimonio é logico, data la diversa funzione che essa assume attualmente rispetto a quella che aveva al momento in cui fu emanato il Codice. Quando fu emanato il Codice essa era il risultato di un compromesso: da un parte, volendosi mantenere fermo il principio dell’indissolubilità del matrimonio e, dall’altra, non potendo esporre uno o entrambi i coniugi allo stress di una convivenza diventata intollerabile (con rischio di conseguenti scenate, litigi, percosse e peggio: tutte cose che avrebbero finito per vulnerare quella stessa immagine dell’istituto matrimoniale, che si voleva tutelare) si mirava con la separazione a liberare i coniugi almeno da quello considerato tra gli obblighi il più pesante (e il più foriero di liti!), l’obbligo della coabitazione. Gli altri obblighi, nei limiti in cui non implicavano una frequentazione tra i coniugi, permanevano e non potevano non permanere, dato che Caio e Caia, anche se non coabitavano più, erano pur sempre persone che, di fronte alla società, erano marito e moglie e tali destinati a restare fino a che la morte (finalmente!) non li dividesse. Ora, caduto il mito dell’indissolubilità del matrimonio, certamente nulla impedisce a Caia e a Caio, se così loro piace, di restare, nonostante il cessare della coabitazione, marito e moglie vita natural durante, ma l’esito naturale e a brevissimo termine della separazione é il “divorzio”; ciò é risaputo e notorio e, dalla Società, Caio e Caia non sono più visti come marito e moglie, ma come due “separati” in attesa di divorzio. Disc. E allora lo stallo della separazione a che serve? Perché il Legislatore non permette a Caio e a Caia di accedere subito al “divorzio”? Doc. Perché il Legislatore vuole mettere alla prova i sentimenti di Caio e Caia: verificare che la loro decisione di separare le loro vite non sia dovuta a una temporanea incomprensione destinata a rientrare con una (dal Legislatore, auspicata) riconciliazione. Disc. Ma il Legislatore dichiara espressamente la caducazione di tutti gli obblighi matrimoniali (verso l’altro coniuge)? Doc. No, il legislatore sul punto tace; ma basta a dedurre la sua volontà, nel senso che ti ho detto, il fatto che si limiti - in quella parte del Codice, che dovrebbe essere la naturale sede della disciplina di tutti i reciproci diritti e obblighi dei coniugi dopo la
separazione (capo V, titolo VI, libro primo) - a indicare e disciplinare il diritto al mantenimento (nell’articolo 156) e il diritto al cognome (nell’art.156bis). Disc. Parliamo allora dell’obbligo di mantenimento e degli alimenti: come si giustificano? Doc. In realtà che Caio (a separazione avvenuta) debba provvedere al mantenimento di Caia (o viceversa) vita natural durante, non si può giustificare che con l’intenzione del legislatore di porre un freno alle separazioni. La logica infatti vorrebbe che il legislatore, in caso di separazione (e ancor più di divorzio) adottasse il criterio, da lui già adottato nell’art. 129, per il caso di matrimonio putativo: il giudice “dispone a carico di uno (dei coniugi) e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro in proporzione delle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze” - e basta, tutto dovrebbe finire lì. Disc. E invece, non é così; e non é così perché, come tu dicevi, il Legislatore vuole porre un freno alle separazioni; ma come si giustifica questa sua volontà? Doc. Si giustifica col fatto che – mentre nel caso di matrimonio nullo, é la sua persistenza a costituire un danno sociale – nel caso del matrimonio valido é la sua rottura a costituirlo. Disc. Perché la rottura del matrimonio e, quindi, della unità familiare costituisce un danno sociale? Doc. Prima di tutto, perché danneggia i membri della famiglia; e questo per almeno due motivi. Primo: perché diminuisce i beni di cui i componenti la famiglia possono permettersi di fruire. Mentre, Caio e Caia, quando coabitavano, potevano permettersi di fruire dei beni A,B,C, essi, dopo la separazione, potranno permettersi di fruire solo dei beni A e B. Disc. Non capisco. Doc. Eppure é facile da capire: mentre Caio e Caia, prima, potevano guardare la televisione, perché una televisione, mettendo i soldi tutti e due erano riusciti a
comprarla, e bastava una televisione per tutti e due perché tutti e due insieme se la guardavano la sera in salotto; dopo, una volta separatisi, ciascuno di loro deve comprarsi una televisione dato che da solo deve guardarsela e....non é detto che abbia i soldi per farlo; e lo stesso puoi ripetere, mutatis mutandis, per beni come la luce, il gas ecc. Disc. Capisco, passa a indicare il secondo motivo per cui la rottura della unità familiare danneggia i componenti della famiglia. Doc. Questo secondo motivo va ravvisato nella necessità in cui, non sempre ma frequentemente, si trovano i coniugi, Caio e Caia, di reimpostare la propria vita: Caia, sposandosi, aveva lasciato l’insegnamento per fare la casalinga, ora, separatasi, dovrà smettere di fare la casalinga e cercare di reinserirsi nel mercato del lavoro; e non sarà facile per lei riacquisire le abilità e le cognizioni a ciò necessarie. Disc. Passa al terzo motivo. Doc. Lo dico per ultimo, ma non é certo il meno importante: la rottura dell’unità familiare produce disorientamento e stress negli (eventuali) figli. Disc. Quelli da te ora indicati sono danni che colpiscono direttamente i membri della famiglia e solo indirettamente la Società: vi sono danni che colpiscono questa direttamente? Doc. Certo, ci sono; basti pensare che la Società ha il dovere di procurare un tetto, la luce, il gas ecc. a tutti i suoi membri e, la frantumazione della famiglia di Caio, la costringe a procurare due appartamenti, invece di uno, a raddoppiare quella produzione della luce e del gas, che prima forniva alla famiglia (unita) di Caio, e così via. Disc. D’accordo, occorre porre un freno a Caio, che, fatto il debito paragone tra la pelle vellutata della sua segretaria e quella ormai raggrinzita della moglie, sarebbe tentato di mollare questa e andare ad abbracciare quella; occorre in buona sostanza dirgli “Attento, separarsi costa! ché, oltre a dare dei soldi alla segretaria dei tuoi sogni, dovrai passare un assegno mensile a tua moglie!”. A questo punto però il problema: quale l’ammontare dell’assegno? Che dice sul punto il legislatore?
Doc. Quel che dice risulta dall’articolo 156, che - sotto la rubrica “Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi” - recita: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto é necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione é determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato. Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti di cui agli artt. 433 e seguenti”. Disc. Dunque risulta chiaro che un coniuge ha diritto al mantenimento solo quando: 1- la separazione non é a lui addebitabile; 2- quando, per mantenersi, “non abbia adeguati redditi propri”- se li avesse nulla potrebbe chiedere. Questo, ripeto, é chiaro; o meglio lo sarebbe se il legislatore ci avesse detto quale sia il tenore di vita a cui il coniuge separato ha diritto: infatti le cose cambiano, cambia la soluzione da darsi alla questione, se Caio debba passare un assegno a Caia, a seconda del tenore di vita a cui si ritiene Caia abbia diritto: Caia ha un reddito di mille euro: se si ritiene che essa abbia diritto a pasteggiare solo con acciughe sotto olio, il suo reddito di mille euro deve ritenersi perfettamente “adeguato” al suo mantenimento (e quindi Caio non dovrà passarle nessun assegno); se si ritiene che abbia diritto a pasteggiare ad ostriche e champagne, no (e Caio dovrà rassegnarsi ad aprire il suo portafoglio). Dunque, ripeto, il problema, che ci pone la lacunosa disposizione legislativa, é: “A quale tenore di vita Caia ha diritto? ha diritto al tenore di vita, che aveva prima di sposarsi (per cui Caio, che é un principe, e ha sposato Caia, che era una lavandaia, deve solo preoccuparsi di assicurare a questa il tenore di vita di una lavandaia)? Direi di no, perché, se il tenore di vita di Caia era da nubile inferiore al tenore, di cui é venuta a godere col matrimonio, abbandonare questo per ritornare a quello verrebbe a costituire per lei una sorta di trauma (quindi, di sofferenza), di cui non sembra giusto gravarla; mentre se, al contrario, il suo tenore di vita era da nubile superiore, permetterle di goderlo nuovamente, sarebbe per lei un premio, che parrebbe ingiustificato (premiarla, perché? di che?). Doc. Quel che dici é giustissimo, continua. Disc. Escluso che Caio debba assicurare a Caia il tenore di vita che questa aveva da nubile, non resta che pensare ch’egli debba assicurare a Caia il tenore di vita che essa
aveva durante il matrimonio. Doc. No, qui ti sbagli. E sbagli perché non tieni conto, che, come prima accennato, per assicurare tale tenore di vita dopo la separazione, occorre una esborso di denaro maggiore di quello occorrente durante il matrimonio – maggiore esborso che per Caio probabilmente sarebbe molto difficile sopportare, tenuto conto che con la separazione é aumentato per lui il costo della vita (probabilmente gli occorre pagare una collaboratrice domestica ecc.ecc.). Quindi assicurare a Caia lo stesso tenore di vita, di cui godeva durante la convivenza, comporterebbe il rischio di abbassare, e di molto, sotto di quello, il tenore di vita di Caio. Disc. E allora? Doc. E allora si deve partire dal principio che tutti membri della famiglia, anche a separazione avvenuta, debbono avere lo stesso tenore di vita, così come abbiamo visto deve avvenire in costanza di matrimonio. Il che comporterà quasi inevitabilmente una diminuzione del tenore di vita di Caia rispetto a quello che aveva prima della separazione. Disc. Stabilito che Caio e Caia debbono avere lo stesso tenore di vita, mi pare vengano a porsi vari problemi. Primo: abbiamo visto, studiando l’articolo 144, che, in costanza di matrimonio, il tenore di vita della famiglia, é frutto della decisione concorde dei due coniugi (per cui potrebbe ben accadere che due coniugi ricchissimi decidano di vivere da poveracci o che due poveracci decidano di vivere da miliardari, metti, dilapidando il loro patrimonio). Questo durante la convivenza, ma quando i coniugi sono uno di qua e l’altro di là e non si parlano neanche, per cui non é neanche da pensarsi che prendano una decisione in comune, come si stabilisce il livello del tenore di vita (di cui la famiglia deve godere)? lo si stabilisce avendo come punto di riferimento il livello del tenore di vita goduto dai coniugi durante la coabitazione? oppure lo si stabilisce al livello massimo che la potenzialità economica dei coniugi permetterebbe di raggiungere? Doc. Adottare questa seconda alternativa darebbe luogo a un’infinità di problemi (uno tra i tanti: nel calcolare la potenzialità economica di un coniuge si deve tenere conto, o no, dei beni immobili da lui posseduti?); per cui io riterrei senz’altro di adottare la prima alternativa e fissare il tenore di vita durante la separazione tenendo
come punto di riferimento il tenore di vita goduto durante la coabitazione (diminuendolo eventualmente, come prima si é detto, in considerazione del maggior costo della vita post-separazione). Disc. Altro problema: poniamo che la spesa necessaria per procurare a Caia il tenore di vita a cui ha diritto, sia di millecinquecento euro: prima (idest, durante la coabitazione), avendo Caia il reddito di millecinquecento e Caio il reddito di quattromilacinquecento, Caia avrebbe contribuito (ai sensi del terzo comma dell’art.143) a tale spesa solo per un terzo, cioé con cinquecento euro; ora che é separata deve invece, a tale spesa, contribuire con millecinquecento euro (dal momento che il reddito che percepisce – e che si ricordi, é di millecinquecento euro le permette di sostenere tale spesa)? Doc. Sì, infatti in sede di separazione non si applica più il terzo comma dell’articolo 143, ma si applica il primo comma dell’articolo 156, che (poni attenzione alla sua ultima parte!) subordina il diritto al mantenimento al fatto che il coniuge non abbia “adeguati redditi propri”. Nel caso da te rappresentato Caia avrebbe i redditi adeguati per pagarsi il tenore di vita a cui ha diritto, quindi nulla può chiedere a Caio. Disc. Altro problema ancora: il tenore di vita adottato durante la convivenza permetteva la fruizione dei beni A, B, C.; ora Caia, potrebbe procurarsi da sola tutti questi beni ma sottoponendosi ad un’attività o usurante (metti un’attività che la costringe a cumulare il lavoro di casalinga con quello di badante) o umiliante (metti un’attività di badante mentre lei é una professoressa in lettere); domanda: Caia deve sobbarcarsi a tale attività (usurante o umiliante) o ha diritto che sia Caio a procurarle, come prima, i beni A, B, C. Doc. Certamente il legislatore nell’ultima parte dell’articolo 156 si riferisce, non solo ai redditi effettivamente percepiti dal coniuge, ma anche a quelli che potrebbe percepire svolgendo un’attività lavorativa. Nessun dubbio quindi che non possa vantare nessun diritto al mantenimento Caia, la quale non percepisce nessun reddito perché non vuol far niente, così come era abituata a non far niente quando conviveva. Diverso però il caso da te fatto. Al riguardo si deve riflettere, guardando più a fondo nella ratio della legge, che quello che questa si propone, non é tanto che tutti i membri della famiglia godano dello stesso tenore di vita, ma che tutti loro godano dello stesso benessere; e con ciò intendo riferirmi, non solo a un uguale benessere materiale, ma anche ad un uguale benessere psichico. Ora di certo non si potrebbe
dire che Caio e Caia godano dello stesso benessere psichico, se tutti e due possono avere, sì, la disponibilità degli stessi beni di consumo, ma Caio facendo un lavoro che lo gratifica e Caia facendo un lavoro che la usura o la umilia. Disc. Quindi Caio dovrà nel caso provvedere al mantenimento di Caia (in tutto o in parte). Poniamoci ora in questo altro caso: Caio già prima della separazione aveva un figlio naturale, Marietto: ora, per provvedere ai bisogni di Marietto, Caio ogni mese deve togliersi dal portafoglio duemila euro; domanda: Caio potrà dire a Caia “Riduci il tuo tenore di vita, perché io più di mille al mese non ti posso dare perché duemila già li devo dare a Marietto”? Doc. Certo che lo potrà dire: i duemila euro non li usa mica per andare al ristorante o al ballo, cioé per adottare un tenore di vita migliore di quello di Caia: i duemila euro li usa per adempiere ad un obbligo giuridico costituzionalmente garantito: mantenere il figlio naturale. Disc. E direi allora che poco importa se Caio tale obbligo (tale figlio naturale) lo aveva prima della separazione o dopo: in altre parole, Caio potrà giustificare una riduzione dell’assegno anche per mantenere un figlio naturale da lui concepito dopo la separazione. Che dire, per