169 98 2MB
Italian Pages 285 Year 2005
PHILIP ROTH
IL COMPLOTTO CONTRO L’AMERICA
Titolo originale: The Plot Against America © 2004 Philip Roth. All rights reserved © 2005 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it ISBN 88-06-17317-0 Traduzione di Vincenzo Mantovani
Introduzione «Eravamo una famiglia felice nel 1940.» I Roth vivono a Newark, New Jersey. Sono ebrei, in un quartiere abitato quasi soltanto da ebrei. Il padre Herman fa l’assicuratore, la madre Bess la casalinga e i due figli maschi, Sandy e Philip, dodici e sette anni, sono ragazzi educati e affettuosi. Come tutti i vicini, anche la famiglia Roth ha vissuto con angoscia le notizie che negli ultimi anni sono arrivate dall’Europa: l’ascesa di Hitler, la persecuzione sempre più feroce contro gli ebrei. Ma in America, hanno sempre pensato, tutto questo non potrà mai succedere. Invece nel 1940, in questo romanzo, un candidato repubblicano notoriamente antisemita e simpatizzante della Germania nazista vince le primarie del partito, e batte nelle successive elezioni il presidente in carica, Franklin D. Roosevelt. Il nuovo presidente ha un nome famoso: Charles A. Lindbergh. È l’eroe dell’aviazione che nel 1927 ha compiuto la prima trasvolata dell’Atlantico in solitario, ma è anche un fervente isolazionista che scrive: «In posti come New York ci sono troppi ebrei» e che accusa gli ebrei di essere uno dei gruppi di potere che stanno cospirando per spingere l’America in una guerra che non la riguarda. Da quel momento per i Roth, per le altre famiglie ebraiche di Newark, per gli ebrei d’America e per tutti i cittadini che credono negli ideali della Costituzione, le cose non possono che peggiorare. Attraverso una svolta possibile della storia, Il complotto contro l’America racconta i pericoli terribili della deriva autoritaria e razzista di una società. Mettendo una famiglia comune, con sogni e aspirazioni comuni, di fronte al rischio di una grande catastrofe, ci fa sentire «il terrore dell’imprevisto: quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea.» Philip Roth ha vinto il Pulitzer Prize nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il più alto riconoscimento dell’American Academy of Art and Letters, la Gold Medal per la narrativa, assegnata in precedenza, tra gli altri, a John Dos Passos, William Faulkner e Saul Bellow. Ha vinto due volte: il National Book Award, il PEN/Faulkner Award e il National Book Critics Circle Award. Nel 2005 Philip Roth diventerà il terzo scrittore americano vivente la cui opera viene pubblicata in forma completa e definitiva dalla Library of America. L’ultimo degli otto volumi è previsto per il 2013. Nel catalogo Einaudi: Lamento di Portnoy, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale americana, Ho sposato un comunista, La macchia umana, L’animale morente, Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, Chiacchiere di bottega.
In sopracoperta: © Milton Glaser. Elaborazione grafica di Fabrizio Farina.
Il complotto contro l’America
CAPITOLO 1 Giugno 1940 - ottobre 1940. Votate per Lindbergh o votate per la guerra La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica. Quando ci fu la prima sorpresa - la candidatura alla presidenza di Charles A. Lindbergh, l’eroe dell’aria americano famoso in tutto il mondo, alla convention repubblicana di Philadelphia del giugno 1940 - mio padre era un assicuratore di trentanove anni, munito di licenza media, che guadagnava quasi cinquanta dollari la settimana, abbastanza per pagare in tempo le bollette più importanti, ma non abbastanza per permetterci altri lussi. Mia madre - che avrebbe voluto andare al teachers’ college ma non poté perché costava troppo, che vivendo con i suoi aveva lavorato come segretaria dalla fine delle superiori, e che ci aveva impedito di sentirci poveri nei momenti peggiori della Depressione amministrando i guadagni ricevuti da mio padre ogni venerdì con la stessa efficienza con cui dirigeva la casa - aveva trentasei anni. Mio fratello Sandy, che faceva la settima e mostrava un prodigioso talento per il disegno, aveva dodici anni e io, che ero avanti di un anno e facevo la terza elementare - e avevo cominciato a raccogliere francobolli, ispirato, come milioni di altri ragazzi, dal primo filatelico del paese, il presidente Franklin Delano Roosevelt -, avevo sette anni. Abitavamo al primo piano di una villetta bifamiliare in una strada alberata di case con la struttura di legno munite di verande in muratura, ogni veranda coperta da un tetto a due falde e fronteggiata da un giardinetto cintato da una piccola siepe. Il quartiere di Weequahic era stato costruito su terreni agricoli non coltivati alla periferia sudoccidentale di Newark subito dopo la prima guerra mondiale, a una mezza dozzina delle sue strade erano stati dati, imperialmente, i nomi dei comandanti navali vittoriosi nella guerra ispano-americana e il cinematografo locale era stato chiamato il Roosevelt, da Theodore Roosevelt, cugino quinto di FDR e ventiseiesimo presidente del paese. La nostra via, Summit Avenue, correva sulla cresta della collina dove era stato costruito il quartiere, il punto più elevato di una città portuale che di rado si innalza di trenta metri sopra il livello delle paludi salmastre scoperte dalla marea a nord e a est della città e delle acque profonde della baia a est dell’aeroporto che girano intorno ai serbatoi di petrolio della penisola di Bayonne e là si mescolano con quelle della baia di New York per scorrere davanti alla Statua della Libertà e sfociare nell’Atlantico. Guardando a ovest dalla finestra posteriore della nostra camera da letto, certe volte potevamo vedere l’interno del paese fino al cupo limite della vegetazione arborea dei Watchung, una bassa catena montuosa contornata da grandi tenute e opulenti sobborghi poco popolati, l’estremo limite del mondo conosciuto... a circa otto miglia dalla nostra casa. A un isolato di distanza verso sud
c’era la città operaia di Hillside, la cui popolazione era prevalentemente cristiana. Il confine con Hillside segnava l’inizio della Union County, un New Jersey completamente diverso. Eravamo una famiglia felice, nel 1940. I miei genitori erano persone socievoli e ospitali, con amici scelti tra i colleghi d’ufficio di mio padre e tra le donne che insieme a mia madre avevano contribuito a organizzare l’Associazione genitoriinsegnanti nella nuova scuola di Chancellor Avenue, dove andavamo mio fratello e io. Erano tutti ebrei. Gli uomini del quartiere o lavoravano in proprio - i padroni del candy store1, della drogheria, della gioielleria locale, del negozio di abbigliamento, del negozio di mobili, della stazione di servizio e della rosticceria, o i proprietari di piccole officine lungo il confine Newark-Irvington, o idraulici, elettricisti, imbianchini e fontanieri indipendenti - o erano piazzisti come mio padre, fuori tutti i giorni nelle vie della città e nelle case della gente a vendere le loro mercanzie, pagati a commissione. I medici e gli avvocati ebrei e i ricchi commercianti proprietari dei grandi magazzini del centro vivevano nelle case unifamiliari delle strade che si diramavano dalle pendici orientali della collina di Chancellor Avenue, più vicine all’erboso e alberato Weequahic Park, trecento acri di parco con un lago abbastanza grande per andarci in barca, un campo da golf e una pista per le corse al trotto che separavano il quartiere di Weequahic dagli stabilimenti industriali e dai capannoni degli spedizionieri lungo la statale 27 e il viadotto della Pennsylvania Railroad più a est, e l’aeroporto in rapida espansione più a est, e l’estremo orlo dell’America ancora più a est: i docks e i magazzini della baia di Newark, dove si scaricavano merci provenienti da tutto il mondo. All’estremità occidentale del quartiere, l’estremità senza parco dove vivevamo noi, abitava uno sporadico insegnante o farmacista, ma per il resto pochi erano i professionisti tra i nostri immediati vicini, e sicuramente nessuna delle floride famiglie di industriali o imprenditori. Gli uomini lavoravano cinquanta, sessanta, anche settanta ore o più la settimana; le donne lavoravano tutto il tempo, con scarsi aiuti da parte delle macchine che avrebbero dovuto alleviare le loro fatiche, facendo il bucato, stirando camicie, rammendando calzini, rivoltando colletti, attaccando bottoni, mettendo l’antitarme nella roba di lana, lucidando i mobili, spazzando e lavando pavimenti, lavando finestre, pulendo lavandini, vasche, gabinetti e fornelli, passando l’aspirapolvere sui tappeti, assistendo i malati, andando a fare la spesa, cucinando, dando da mangiare ai familiari, riordinando armadi e cassetti, controllando il lavoro di imbianchini e altri artigiani, organizzando le cose per i riti delle feste, pagando le bollette e tenendo l’amministrazione familiare mentre si occupavano, simultaneamente, della salute, del vestiario, della pulizia, dell’istruzione, della nutrizione, della condotta, dei compleanni, della disciplina e del morale dei loro figli. Qualche donna lavorava al fianco del marito nel negozio a gestione familiare nelle strade commerciali del quartiere, aiutata dopo la scuola e il 1
Negozio di caramelle e dolciumi in cui vengono venduti anche giornali, sigarette e biglietti della lotteria [N.d.T.]
sabato dai figli più grandi, che consegnavano la roba a casa dei clienti, mettevano la merce in magazzino e facevano le pulizie. Era il lavoro, per me, a identificare e distinguere i nostri vicini, assai più della religione. Nessuno nel quartiere aveva la barba o vestiva nella maniera antiquata del Vecchio Continente o portava lo zucchetto per la strada o nelle case che visitavo abitualmente con i miei amici d’infanzia. Gli adulti non erano più osservanti nei modi esterni e riconoscibili, se lo erano mai stati seriamente, e a parte i bottegai più vecchi come il sarto e il macellaio kosher - e i nonni malati o decrepiti che vivevano necessariamente con i loro figli adulti - quasi nessuno nel vicinato parlava con un accento. Nel 1940, nell’angolo sudoccidentale della più grande città del New Jersey, i genitori ebrei e i loro figli parlavano tra loro in un inglese americano somigliante più alla lingua che si parlava ad Altoona o Binghamton che ai famigerati dialetti parlati sull’altra sponda dell’Hudson dai nostri omologhi ebrei nei cinque distretti amministrativi di New York. Scritte in ebraico erano riprodotte sulla vetrina del macellaio e incise negli architravi delle piccole sinagoghe del quartiere, ma in nessun altro posto (a parte il cimitero) accadeva che l’occhio si fermasse sull’alfabeto del libro di preghiere piuttosto che sui caratteri familiari dell’idioma natio usato tutto il tempo praticamente da tutti per ogni motivo immaginabile, nobile o plebeo. All’edicola davanti al candy store dell’angolo, le persone che compravano il «Racing Form» erano dieci volte più di quelle che compravano il quotidiano yiddish, il «Forvertz.» Israele ancora non esisteva, sei milioni di ebrei europei non avevano ancora cessato di esistere, e l’interesse locale per la remota Palestina (sotto mandato britannico dal 1918, dopo la dissoluzione da parte degli Alleati vittoriosi delle ultime remote province del defunto impero ottomano) era per me un mistero. Quando uno sconosciuto con la barba che non andava mai in giro senza cappello faceva la sua comparsa, ogni due o tre mesi, dopo il tramonto, per chiedere in un inglese sgrammaticato un contributo alla fondazione di una patria nazionale ebraica in Palestina, io, che non ero un bambino ignorante, non capivo affatto che cosa ci facesse sul nostro pianerottolo. I miei genitori davano a me o a Sandy un paio di monete da mettere nella sua cassetta delle elemosine, dono munifico, ho sempre pensato, elargito generosamente per non ferire i sentimenti di un povero vecchio che, nonostante il passare degli anni, sembrava incapace di mettersi in testa che avevamo già una patria da tre generazioni. Ogni mattina, a scuola, giuravo fedeltà alla bandiera della nostra patria. Ne cantavo le meraviglie con i miei compagni durante i programmi collettivi. Ne osservavo con entusiasmo le feste nazionali, e senza ripensamenti sul mio feeling per i fuochi artificiali del Quattro Luglio o il tacchino del Ringraziamento o le due partite del Decoration Day. La nostra patria era l’America. Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò. Per quasi un decennio Lindbergh fu nel nostro quartiere un eroe non meno grande di quanto lo era in tutti gli altri posti. Il caso volle che la conclusione del suo volo solitario senza scalo di trentatre ore e mezzo da Long Island a Parigi sul minuscolo monoplano Spirit of St Louis coincidesse addirittura col giorno di primavera del 1927
in cui mia madre scoprì di essere incinta del mio fratello maggiore. Di conseguenza, il giovane aviatore il cui ardimento aveva elettrizzato l’America e il mondo e la cui impresa era il segno premonitore di un futuro caratterizzato da progressi aeronautici inimmaginabili venne a occupare una nicchia speciale nella galleria di aneddoti familiari che generano la prima compatta mitologia di un bambino. Il mistero della gravidanza e l’eroismo di Lindbergh si saldarono tra loro per conferire una distinzione che rasentava il divino alla mia stessa madre, per la quale l’incarnazione del suo primogenito era stata accompagnata nientemeno che da un’annunciazione universale. Sandy avrebbe poi ricordato questo momento con un disegno che illustrava la giustapposizione di quei due splendidi avvenimenti. Nel disegno – che venne completato all’età di otto anni e che aveva involontariamente un certo sentore di poster art sovietica - Sandy l’aveva immaginata lontanissima da casa, in mezzo a una folla gioiosa all’angolo tra Broad e Market. Snella ragazza di ventitre anni con i capelli neri e un sorriso pieno di sana allegria, mia madre è sorprendentemente sola e indossa il suo grembiule da cucina a fiorami all’intersezione delle due arterie più trafficate della città, con una mano aperta sul grembiule, dove il giro dei fianchi è ancora ingannevolmente infantile, mentre con l’altra lei sola tra la folla indica lo Spirit of St Louis che sorvola, ben visibile, il centro di Newark nel preciso momento in cui si rende conto, con una prodezza non meno trionfante per un mortale di quella di Lindbergh, di avere concepito Sanford Roth. Sandy aveva quattro anni e io, Philip, non ero ancora nato quando nel marzo 1932 il primogenito di Charles e Anne Morrow Lindbergh, un maschietto il cui arrivo venti mesi prima era stato accolto da un tripudio generale, fu rapito dalla nuova casa isolata dei suoi nella rurale Hopewell, nel New Jersey. Una decina di settimane dopo, il corpo in decomposizione del bebé venne scoperto per caso in un bosco a qualche miglio di distanza. Il bambino era stato assassinato o ucciso accidentalmente dopo essere stato tolto dalla culla e, al buio, sempre avvolto nelle coperte, fatto uscire da una finestra della sua stanza al primo piano e scendere fino a terra per una scala di fortuna mentre la bambinaia e la madre erano assorbite dalle loro normali attività serali in un’altra parte della casa. Quando il processo per il rapimento e l’infanticidio si concluse a Flemington, nel New Jersey, nel febbraio 1935 con la condanna di Bruno Hauptmann - un ex carcerato tedesco di trentacinque anni che viveva nel Bronx con la moglie tedesca -, l’ardimento del primo pilota transatlantico del mondo in solitario si era permeato di un pathos che lo trasformò in un titano martirizzato paragonabile a Lincoln. Dopo il processo, i Lindbergh lasciarono l’America, espatriando temporaneamente nella speranza di proteggere da ogni pericolo un nuovo Baby Lindbergh e di ritrovare un po’ della privacy che agognavano. La famiglia si stabilì in un paesino dell’Inghilterra e da là, come privato cittadino, Lindbergh cominciò a fare i viaggi nella Germania nazista che lo avrebbero trasformato in una canaglia per la maggior parte degli ebrei americani. Nel corso di cinque visite, durante le quali ebbe modo di conoscere direttamente la grandezza della macchina bellica tedesca, fu ostentatamente ricevuto dal maresciallo dell’aria Gòring, fu cerimoniosamente
decorato in nome del Fùhrer, ed espresse del tutto apertamente la sua alta considerazione per Hitler, definendo la Germania la «nazione più interessante» del mondo e il suo leader «un grand’uomo.» E tutto questo interesse e tutta questa ammirazione dopo le leggi razziali di Hitler del 1935 che avevano tolto agli ebrei tedeschi i loro diritti civili, sociali e di proprietà, annullato la loro cittadinanza e proibito loro il matrimonio con ariani. Quando cominciai ad andare a scuola, nel 1938, quello di Lindbergh era un nome che in casa nostra provocava lo stesso genere d’indignazione dei programmi radiofonici domenicali di padre Coughlin, il prete dell’area di Detroit che dirigeva un settimanale di estrema destra chiamato «Social Justice» e la cui virulenza antisemita eccitò, nei momenti difficili che il paese stava attraversando, le passioni di un pubblico piuttosto ragguardevole. Fu nel novembre 1938 - per gli ebrei d’Europa l’anno più nero e più nefasto in diciotto secoli - che il peggiore pogrom della storia moderna, la Kristallnacht, venne organizzato dai nazisti in tutta la Germania: sinagoghe date alle fiamme, le abitazioni e le ditte degli ebrei distrutte, e, nel corso di una notte che faceva presagire il mostruoso futuro, ebrei a migliaia strappati con la forza alle loro case e trasportati nei campi di concentramento. Quando gli suggerirono, come reazione a questa barbarie senza precedenti, perpetrata da uno stato sui suoi cittadini, di restituire la croce d’oro adorna di quattro svastiche conferitagli dal maresciallo dell’aria Goring a nome del Fùhrer, Lindbergh declinò l’invito col pretesto che per lui rinunciare pubblicamente alla Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila Tedesca avrebbe costituito «un’inutile offesa» alla leadership nazista. Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare - proprio come il presidente Roosevelt fu il primo celebre americano vivente che mi insegnarono ad amare - e così la sua nomination da parte dei repubblicani come avversario di Roosevelt nel 1940 rappresentò l’attacco più violento che fosse mai stato sferrato contro quella ricca dotazione di sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani in una scuola americana di una città americana in un’America in pace col mondo. L’unica minaccia paragonabile era venuta circa tredici mesi prima quando, grazie alle vendite notevolmente alte che era riuscito a fare nel periodo peggiore della Depressione come agente dell’ufficio di Newark della Metropolitan Life, mio padre si era visto offrire una promozione a vicedirettore responsabile degli agenti nell’ufficio della ditta sei miglia a ovest della nostra casa a Union, una cittadina la cui sola distinzione, ch’io sapessi, consisteva in un drive-in dove le proiezioni continuavano anche quando pioveva, e dove la ditta pretendeva che mio padre e la sua famiglia andassero a stabilirsi se lui accettava il posto. Come vicedirettore, mio padre avrebbe potuto guadagnare subito settantacinque dollari la settimana, e negli anni seguenti anche cento la settimana, una fortuna nel 1939 per la gente con le nostre aspettative. E poiché a Union c’erano delle case unifamiliari che a causa della Depressione si vendevano a qualche migliaio di dollari, mio padre avrebbe potuto realizzare un’ambizione che aveva nutrito mentre cresceva senza un soldo in tasca in
una casa popolare di Newark: diventare un proprietario di casa americano. «L’orgoglio della proprietà» era una delle frasi preferite di mio padre, e per un uomo con le sue origini incorporava un’idea reale come il pane, un’idea che c’entrava non con la competitività sociale o l’esibizionismo consumistico ma con la sua posizione di virile capofamiglia. L’unico lato negativo era che, poiché Union, come Hillside, era una città operaia di cristiani, molto probabilmente mio padre sarebbe stato l’unico ebreo in un ufficio di trentaquattro o trentacinque persone, mia madre l’unica donna ebrea nella nostra strada e Sandy e io gli unici ragazzi ebrei nella nostra scuola. Il primo sabato dopo che a mio padre venne offerta quella promozione - una promozione che, soprattutto, avrebbe esaudito il desiderio di un piccolo margine di sicurezza finanziaria di una famiglia della Depressione -, dopo pranzo andammo tutt’e quattro a visitare Union. Ma una volta là, e mentre andavamo su e giù in macchina per le strade residenziali scrutando le case a un piano - non proprio identiche ma ognuna, nondimeno, con la sua veranda schermata sul davanti e il prato ben rasato e una macchia di arbusti e il vialetto di ghiaia che portava al garage per una macchina, case modestissime ma pur sempre più spaziose del nostro appartamento con due camere da letto e che somigliavano moltissimo alle bianche casette dei film sull’America di provincia, il sale della terra -, una volta là, l’innocente esuberanza suscitata in noi dalla possibile ascesa della famiglia alla classe dei proprietari di case venne soppiantata, abbastanza prevedibilmente, dalle nostre ansie sui limiti della carità cristiana. Alla domanda di mio padre - «Che te ne pare, Bess?» - mia madre, donna solitamente piuttosto energica, rispose con un entusiasmo la cui falsità era intuibile anche da un bambino. E io, piccolo com’ero, potevo immaginarne la ragione: perché mia madre stava pensando: «La nostra sarà la casa «dove stanno gli ebrei». Si ripeterà la storia di Elizabeth.» Elizabeth, nel New Jersey, quando vi abitava mia madre, da bambina, in un appartamento sopra la drogheria di suo padre, era un porto industriale della grandezza di un quarto di Newark, dominato dalla classe operaia irlandese e dai suoi uomini politici e dalla chiusa vita parrocchiale che ruotava intorno alle tante chiese della città, e anche se io non l’avevo mai sentita lamentarsi di essere stata deliberatamente maltrattata a Elizabeth da bambina, fu solo dopo il matrimonio e il trasferimento nel nuovo quartiere ebraico di Newark che Bess Roth scoprì la fiducia in se stessa che la portò a diventare prima rappresentante di classe dell’Agi, poi vicepresidente dell’Agi incaricata di fondare un Kindergarten Mothers’ Club, e infine la presidente dell’Agi che, dopo avere partecipato, a Trenton, a un convegno sulla paralisi infantile, propose un ballo annuale per la March of Dimes da tenersi il 30 gennaio - compleanno del presidente Roosevelt - che fu accettato da quasi tutte le scuole di Newark. Nella primavera del 1939 era al suo secondo anno fortunato come dirigente di idee progressiste - offrendo già il suo appoggio a un giovane insegnante di studi sociali desideroso di portare l’«educazione visiva» nelle aule di Chancellor - e ora non poteva fare a meno d’immaginarsi orba di tutto ciò che aveva ottenuto per il fatto di essere diventata una delle mogli e madri di Summit Avenue. Se avessimo avuto la
fortuna di comprare e trasferirci in una casa di una qualsiasi delle vie di Union che stavamo vedendo nel loro miglior aspetto primaverile, non soltanto il suo status sarebbe tornato a essere quello che era quando era soltanto la figlia di un droghiere ebreo immigrato nell’Elizabeth cattolica irlandese, ma, peggio ancora, Sandy e io saremmo stati costretti a rivivere la sua giovinezza solitaria di estranea nel quartiere. Nonostante il malumore di mia madre, mio padre fece tutto il possibile per tenerci su di morale, mostrandoci com’era pulita e ben tenuta ogni cosa, ricordando a Sandy e a me che abitando in una di quelle case noi due non avremmo più dovuto condividere una piccola camera da letto e un solo armadio, e spiegando i vantaggi che sarebbero derivati dal pagare un mutuo piuttosto che un affitto, una lezione di economia elementare che finì bruscamente quando gli toccò di fermare la macchina a un semaforo rosso di fianco a quello che sembrava un bar all’aperto che dominava un angolo dell’incrocio. C’erano dei tavoli verdi da picnic all’ombra di alberi ricchi di fogliame, e in quell’assolato pomeriggio del weekend c’erano dei camerieri in giacca bianca gallonata che si spostavano rapidamente qua e là, tenendo in equilibrio vassoi carichi di bottiglie, caraffe e piatti, e uomini di ogni età raccolti intorno a ogni tavolo, che fumavano sigarette, pipe e sigari e che bevevano avidamente da alti calici e tazze di terracotta. C’era anche la musica: una fisarmonica suonata da un ometto robusto in calzoni corti e calzettoni che portava un cappello adorno di una lunga penna. - Figli di puttana! - disse mio padre. - Bastardi fascisti! - e poi il semaforo cambiò colore e noi proseguimmo in silenzio per andare a vedere il palazzo di uffici dove mio padre stava per avere la fortuna di guadagnare più di cinquanta dollari la settimana. Fu mio fratello che, quando andammo a letto quella sera, mi spiegò per quale motivo mio padre aveva perso il controllo e imprecato ad alta voce davanti ai figli: l’accogliente locale circondato da un pezzo di terra e traboccante di allegria proprio al centro della città era una «birreria», la birreria aveva qualcosa a che fare col Bund Tedesco-Americano, il Bund Tedesco-Americano aveva qualcosa a che fare con Hitler, e Hitler, come sapevo benissimo, aveva tutto a che fare con la persecuzione degli ebrei. L’antisemitismo come bevanda alcolica. Ecco quello che immaginai ripensando a tutte le persone che quel giorno bevevano tanto allegramente nella loro birreria: come tutti i nazisti in ogni luogo, occupati a buttar giù pinte su pinte di antisemitismo come per imbeversi del rimedio universale. Mio padre dovette prendersi un mattino di vacanza per andare alla sede centrale di New York - nel grattacielo la cui torre più alta era coronata dal faro che la società chiamava fieramente «La luce che non si spegne mai» - a informare il direttore delle agenzie che non poteva accettare la promozione che tanto desiderava. - È colpa mia, - annunciò mia madre appena lui si mise a raccontare, a tavola, com’erano andate le cose lassù al diciottesimo piano di Madison Avenue 1. - Non è colpa di nessuno, - disse mio padre. - Prima di andarci avevo già spiegato cosa gli avrei detto, e ci sono andato e gliel’ho detto, ecco tutto. Non si va a Union, ragazzi. Si resta qua. - Lui cos’ha fatto? - chiese mia madre. - Mi ha ascoltato fino in fondo.
- E poi? - chiese lei. - Si è alzato e mi ha stretto la mano. - Non ha detto niente? - Ha detto: «Buona fortuna, Roth.» - Era arrabbiato con te. - Hatcher è un gentiluomo d’antico stampo. Un cristiano grande e grosso. Sembra un divo del cinema. Sessant’anni, e sano come un pesce. Sono queste le persone che mandano avanti la baracca, Bess: non perdono tempo ad arrabbiarsi con uno come me. - E ora? - chiese lei, sottintendendo che qualunque cosa fosse accaduta come esito del suo incontro con Hatcher non sarebbe stata buona e anzi poteva essere terribile. E a me parve di capire il perché. Applicati e riuscirai: questo era l’assioma che ci avevano inculcato i nostri genitori. A tavola, mio padre non faceva che ripetere ai suoi figli: «Se qualcuno vi chiede: "Sei capace di fare questo lavoro? Ce la fai?", ditegli sempre: "Certo". Quando scopriranno che non siete capaci avrete già imparato, e il lavoro sarà vostro. E chissà, potrebbe essere l’occasione di una vita.» Eppure a New York lui non aveva fatto nulla di simile. - Cos’ha detto il Boss? - gli chiese lei. Il Boss era come tutt’e quattro chiamavamo il direttore dell’ufficio di Newark di mio padre, Sam Peterfreund. A quei tempi tempi di quote non pubblicizzate per tenere al minimo l’ammissione degli ebrei all’università e alle scuole professionali, e di un’indiscussa discriminazione che negava agli ebrei importanti promozioni nelle grosse aziende, e di rigide restrizioni contro l’accettazione degli ebrei in migliaia di organizzazioni sociali e istituzioni comunali -, Peterfreund era stato uno dei primi tra i pochissimi ebrei che avevano ottenuto un posto di dirigente alla Metropolitan Life. - È lui che ti ha proposto, - disse mia madre. - Come credi che debba sentirsi? - Sai cosa mi ha detto quando sono tornato? Sai cosa mi ha detto dell’ufficio di Union? Che è pieno di ubriaconi. Che è famoso per le sue spugne. Non voleva influenzare la mia decisione. Non voleva essermi di ostacolo, se era quello che volevo. Famoso per gli agenti che lavorano due ore la mattina e passano il resto della giornata in taverna o peggio. E io sarei dovuto andare là, io, l’ebreo nuovo, il grande capufficio giudeo per il quale tutti i cristiani muoiono dalla voglia di lavorare, e sarei dovuto andare là a tirarli su dal pavimento del bar. Sarei dovuto andare là a ricordargli i doveri che hanno verso le loro mogli e i loro figli. Oh, chissà come mi avrebbero amato, ragazzi, per questo favore. Potete immaginare cos’avrebbero detto di me alle mie spalle. No, sto meglio dove sono. Stiamo tutti meglio. - Ma la società può licenziarti perché hai rifiutato la proposta? - Amore, ho fatto quello che ho fatto. E non parliamone più. Ma mia madre non credeva che il Boss avesse detto quelle cose; credeva che mio padre avesse inventato tutto quanto per farla smettere di darsi la colpa di avere rifiutato di trasferire i suoi figli in una città cristiana che era un rifugio per il Bund Tedesco-Americano, e così facendo di avergli fatto perdere l’occasione della sua vita.
I Lindbergh tornarono in America e ripresero la loro vita familiare nell’aprile 1939. Solo qualche mese dopo, in settembre, annessa l’Austria e occupata la Cecoslovacchia, Hitler invase e conquistò la Polonia, e Francia e Gran Bretagna reagirono dichiarando guerra alla Germania. Allora Lindbergh era tornato in servizio attivo come colonnello nell’aeronautica militare, e cominciò a viaggiare in tutto il paese per il governo americano, battendosi per lo sviluppo dell’aviazione e per espandere e modernizzare la flotta aerea delle forze armate. Quando Hitler occupò rapidamente la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda e il Belgio, e sconfisse quasi completamente la Francia, e la seconda grande guerra europea del secolo era a buon punto, il colonnello dell’aeronautica diventò l’idolo degli isolazionisti – e il nemico di FDR - aggiungendo alla propria missione l’obiettivo di impedire all’America di farsi trascinare nella guerra o di offrire il minimo aiuto agli inglesi o ai francesi. Tra lui e Roosevelt c’era già una forte animosità, ma ora che Lindbergh dichiarava apertamente in grandi assemblee pubbliche e alla radio e sulle riviste popolari che il presidente ingannava il paese con promesse di pace mentre in segreto si agitava e progettava di farci entrare nella lotta armata, qualcuno nel Partito repubblicano cominciò a parlare entusiasticamente di Lindbergh come dell’uomo col tocco magico capace di impedire al «guerrafondaio della Casa Bianca» di assicurarsi il terzo mandato. Più Roosevelt premeva sul Congresso per abrogare l’embargo sulle armi e ridurre le restrizioni sulla neutralità del paese in modo da impedire la sconfitta degli inglesi, più esplicito Lindbergh diventava, finché, davanti a una sala di DesMoines piena di sostenitori plaudenti, tenne finalmente il famoso discorso radiofonico che nominava, tra i «gruppi più importanti che hanno spinto questo paese verso la guerra», un gruppo che rappresentava meno del tre per cento della popolazione e al quale l’oratore accennò chiamandolo alternativamente «il popolo ebraico» e «la razza ebraica.» «Nessuna persona onesta e lungimirante - disse Lindbergh – può considerare la politica favorevole alla guerra che gli ebrei fanno qui oggi senza vedere i pericoli che essa comporta sia per noi che per loro.» E poi, con notevole candore, soggiungeva: Qualche ebreo lungimirante se ne rende conto e si dichiara contrario all’intervento. Ma la maggioranza ancora no... Non possiamo biasimarli se cercano di fare quelli che credono i loro interessi, ma dobbiamo pensare anche ai nostri. Non possiamo permettere che le naturali passioni e i pregiudizi di altri popoli portino il nostro paese alla distruzione. Il giorno dopo, proprio le accuse che avevano strappato urla di approvazione al pubblico di Lindbergh nell’Iowa furono vigorosamente denunciate dai giornalisti progressisti, dall’ufficio stampa di Roosevelt, da enti e organizzazioni ebraiche, e persino dall’interno del Partito repubblicano, ad opera del procuratore distrettuale di New York, Dewey, e del legale delle imprese di pubblica utilità di Wall Street Willkie, ambedue potenziali candidati alla presidenza. Così forti furono le critiche dei membri del gabinetto democratico come il ministro degli Interni Harold Ickes che per non prestare servizio sotto FDR come comandante in capo Lindbergh presentò le
dimissioni da ufficiale della riserva col grado di colonnello. Ma l’America First Committee, la più vasta organizzazione che guidava la battaglia contro l’intervento, continuò a sostenerlo, e il più popolare propagandista della lotta per la neutralità rimase lui. Per molti seguaci di America First era indiscutibile (anche davanti alla realtà dei fatti), come sosteneva Lindbergh, che «il danno maggiore che fanno a questo paese sta nelle grandi proprietà che hanno e nell’influenza che gli ebrei esercitano nel cinema, nella stampa, nella radio e nel governo.» Quando scriveva fieramente del «retaggio del nostro sangue europeo», quando metteva in guardia contro il suo «indebolimento prodotto da razze forestiere» e «l’infiltrazione di un sangue inferiore» (tutte frasi contenute nelle note del suo diario di quegli anni), Lindbergh registrava convinzioni personali condivise da una grossa fetta della base di America First, come pure da una platea di fanatici ancora più vasta di quanto un ebreo come mio padre, col suo odio accanito per l’antisemitismo - o come mia madre, con la sua radicata sfiducia nei gentili -, avrebbe mai potuto immaginare che esistesse in America.
La convention repubblicana del 1940 Quella sera - giovedì 27 giugno - mio fratello e io andammo a dormire mentre la radio era accesa nel soggiorno, e nostro padre, nostra madre e nostro cugino Alvin, che era più grande di noi, ascoltavano tutti insieme la trasmissione in diretta da Philadelphia. Dopo sei votazioni, i repubblicani non avevano ancora scelto un candidato. Il nome di Lindbergh doveva ancora essere pronunciato da un solo delegato, e a causa di un conclave di tecnici in una fabbrica del Midwest dov’era stato chiamato a consulto sul progetto di un nuovo aereo da caccia, Lindbergh non era presente e nessuno si aspettava di vederlo. Quando Sandy e io andammo a letto, la convention era ancora divisa tra Dewey, Willkie e due potenti senatori repubblicani, Vandenberg del Michigan e Taft dell’Ohio, e non sembrava che patti segreti fossero in procinto di essere stipulati da alti papaveri del partito come l’ex presidente Hoover, che era stato sloggiato dalla Casa Bianca dalla schiacciante vittoria di FDR nel 1932, o dal governatore Alf Landon, che FDR aveva sconfitto ancor più ignominiosamente quattro anni dopo nel trionfo elettorale più cospicuo della storia. Era la prima sera umida e afosa dell’estate, e per questo le finestre erano aperte in tutte le stanze, e Sandy e io non potemmo che continuare a seguire dai nostri letti la cronaca diffusa dalla nostra radio nel soggiorno e la radio accesa nell’appartamento sottostante e - poiché una casa era separata dall’altra da un vialetto così stretto da passarci appena con la macchinale radio dei vicini a destra e a sinistra della nostra casa e di là dalla strada. Questo accadeva molto prima che i condizionatori fuori dalle finestre avessero la meglio sui rumori delle notti tropicali di un quartiere e il programma rimbalzava sopra tutto l’isolato da Keer a Chancellor: un isolato in cui
non abitava un solo repubblicano, in nessuna della trentina di case bifamiliari o negli appartamenti della nuova palazzina all’angolo di Chancellor Avenue. Nelle vie come la nostra, per tutto il tempo che FDR fu in cima alla lista, gli ebrei votarono senza esitare per i democratici. Ma eravamo due bambini e ci addormentammo nonostante tutto, e probabilmente non ci saremmo svegliati fino alla mattina dopo se alle 3,18 antimeridiane Lindbergh - con i repubblicani a un punto morto dopo la ventesima votazione - non avesse fatto il suo ingresso imprevisto nella sala della convention. L’eroe bello, alto e asciutto, un uomo agile dall’aria atletica che non aveva ancora quarant’anni, arrivò in tenuta di volo, essendo atterrato col proprio apparecchio all’aeroporto di Philadelphia solo qualche minuto prima, e alla sua vista un’ondata di emozione liberatrice fece scattare in piedi gli stanchi delegati che urlarono «Lindy! Lindy! Lindy!» per trenta gloriosi minuti senza venire interrotti dal presidente dell’assemblea. Dietro la riuscita messinscena di questo spontaneo dramma pseudoreligioso c’erano le macchinazioni del senatore Gerald P. Nye del North Dakota, un isolazionista di destra che propose rapidamente all’assemblea il nome di Charles A. Lindbergh di Little Falls, nel Minnesota, al che due dei più reazionari membri del Congresso - il deputato Thorkelson del Montana e il deputato Mundt del South Dakota - appoggiarono la candidatura, e alle quattro precise del mattino di venerdì 28 giugno il Partito repubblicano, per acclamazione, scelse come proprio candidato il fanatico che dai microfoni di una radio nazionale aveva accusato gli ebrei di essere «altri popoli» che usavano la loro enorme «influenza... per portare il nostro paese alla distruzione», invece di riconoscere apertamente che eravamo una piccola minoranza di cittadini ampiamente superati nel numero dai nostri connazionali cristiani, tendenzialmente impossibilitati a conseguire pubblici poteri dall’ostacolo del pregiudizio religioso e sicuramente non meno fedeli ai principi della democrazia americana di un ammiratore di Hitler. «No!» fu la parola che ci svegliò, un «No!» urlato a pieni polmoni da tutti gli uomini dell’isolato. Non è possibile. No. Non alla presidenza degli Stati Uniti. In pochi secondi, mio fratello e io tornammo a incollarci alla radio col resto della famiglia, e nessuno si curò di rispedirci a letto. Col caldo che c’era, mia madre aveva dignitosamente indossato una vestaglia sopra la leggera camicia da notte - dormiva anche lei, ed era stata svegliata dal rumore - e ora sedeva sul sofà accanto a mio padre, con le dita sulla bocca come se stesse sforzandosi di non vomitare. Intanto mio cugino Alvin, non più capace di stare seduto, si era messo a passeggiare in quella stanza di cinque metri per quattro con un impeto nell’andatura più adatto a un vendicatore che battesse la città per disfarsi della sua nemesi. La rabbia, quella notte, fu la vera fucina rombante, la fornace che ti prende e ti torce come acciaio. E non si placò: non mentre Lindbergh era silenziosamente alla tribuna di Philadelphia a sentirsi applaudire ancora una volta come il salvatore del paese, non quando pronunciò il discorso con cui accettava la nomination del suo partito e con esso il mandato di tenere l’America fuori dalla guerra europea. Aspettavamo tutti, terrorizzati, di sentirlo ripetere alla convention il suo malevolo vilipendio degli ebrei, ma il fatto che non lo facesse non cambiò nulla nel cattivo
umore che spinse tutte le famiglie dell’isolato, nessuna esclusa, a uscire in strada quasi alle cinque del mattino. Famiglie intere che avevo conosciuto solo vestite, vestite di tutto punto con gli indumenti di tutti i giorni, indossavano pigiami e camicie da notte sotto le vestaglie e giravano in tondo in ciabatte, all’alba, come sospinte fuori di casa da un terremoto. Ma quella che più sorprendeva un bambino era la rabbia, la rabbia di uomini che conoscevo come spensierati fornitori di consigli non richiesti o rispettosi e taciturni lavoratori che per tutta la giornata si guadagnavano il pane sgorgando lavandini o pulendo caldaie o vendendo mele al minuto e poi la sera leggevano il giornale e ascoltavano la radio e si addormentavano nella poltrona del soggiorno, gente semplice che era ebrea per caso e che ora dava in escandescenze in mezzo alla strada e inveiva senza preoccuparsi delle convenienze, risospinta bruscamente nella lotta insostenibile a cui aveva creduto di sfuggire grazie alla provvidenziale migrazione della generazione precedente. Avrei immaginato che l’omessa citazione degli ebrei nel discorso di accettazione di Lindbergh fosse un segno promettente, un’indicazione del fatto che era stato castigato dal clamore che lo aveva costretto a rinunciare al grado da ufficiale, o che avesse cambiato idea dopo il discorso di DesMoines, o che ci avesse già dimenticati, o che dentro di sé sapesse benissimo che eravamo irrevocabilmente legati all’America: che, anche se l’Irlanda significava ancora qualcosa per gli irlandesi e la Polonia per i polacchi e l’Italia per gli italiani, noi non avevamo più alcuna devozione, sentimentale o altro, verso quei paesi del Vecchio Continente dove non eravamo mai stati i benvenuti, e non avevamo la minima intenzione di tornarci. Se avessi potuto pensar bene al significato del momento ed esporlo con parole mie, questo è probabilmente ciò che avrei pensato. Ma gli uomini fuori in strada la pensavano diversamente. L’omessa citazione degli ebrei nel discorso di Lindbergh era per loro un trucco e nulla più, l’inizio di una campagna di raggiri destinata a tapparci la bocca e a coglierci alla sprovvista. «Hitler in America! - urlavano i vicini. - Il fascismo in America! I nazisti in America!» Dopo aver passato tutta la notte in bianco, non c’era niente che questi nostri vecchi, confusi e spaventati, non pensassero e non dicessero ad alta voce, a portata d’orecchio, prima che cominciassero a tornare alle loro case (dove tutte le radio continuavano a fare un chiasso assordante), gli uomini per farsi la barba e vestirsi e bere in fretta una tazza di caffè prima di andare al lavoro e le donne per vestire i bambini e preparargli la colazione. Roosevelt alzò il morale di tutti con la forte risposta che diede quando seppe che il suo avversario sarebbe stato Lindbergh e non un senatore della statura di Taft o un ex procuratore aggressivo come Dewey o un grande avvocato bello e mellifluo come Willkie. Allorché lo svegliarono alle quattro del mattino per dargli la notizia, qualcuno disse che dal suo letto alla Casa Bianca aveva fatto questa previsione: «Quando sarà finita, il giovanotto si pentirà non soltanto di essere entrato in politica, ma anche di aver imparato a volare.» Dopodiché ricadde immediatamente in un sonno profondo: o almeno così finiva la storiella che il giorno dopo tanto ci consolò. Fuori in strada, quando l’unica cosa alla quale si poteva pensare era la minaccia
rivolta alla nostra sicurezza da questo affronto clamorosamente ingiusto, la gente si era stranamente dimenticata di FDR e del baluardo contro l’oppressione che FDR era sempre stato. La pura e semplice sorpresa rappresentata dalla nomination di Lindbergh aveva risvegliato un’atavica sensazione di paura, la paura di essere indifesi, che c’entrava più con Kisinev e i pogrom del 1903 che col New Jersey di trentasette anni dopo; e la conseguenza era stata che tutti sembravano aver dimenticato la nomina da parte di Roosevelt di Felix Frankfurter alla Corte suprema e la scelta di Henry Morgenthau come ministro del Tesoro; si erano anche dimenticati del finanziere Bernard Baruch, l’ascoltato consigliere del presidente, e della moglie di Roosevelt e di Ickes e del ministro dell’Agricoltura Wallace, tutt’e tre noti, come il presidente, per essere buoni amici degli ebrei. C’era Roosevelt, c’era la costituzione degli Stati Uniti, c’era il Bill of Rights, e c’erano i giornali, la libera stampa americana. Persino il «Newark Evening News», repubblicano, pubblicò un editoriale in cui si ricordava ai lettori il discorso di DesMoines e si metteva apertamente in dubbio la saggezza della scelta di Lindbergh, mentre «PM», il nuovo tabloid newyorkese di sinistra che costava un nichelino e che mio padre aveva cominciato a portare a casa dopo il lavoro insieme al «Newark News» - e il cui slogan diceva: «"PM" è contro la gente che vuole dare ordini ad altra gente» -, andava all’attacco dei repubblicani non soltanto in un lungo editoriale, ma anche negli articoli e nelle rubriche praticamente di ciascuna delle sue trentadue pagine, comprese le colonne contro Lindbergh nella sezione sportiva di Tom Meany e Joe Cummiskey. In prima pagina il giornale pubblicava una grande foto della medaglia nazista di Lindbergh e, nel suo supplemento illustrato quotidiano, dove affermava di pubblicare le immagini soppresse dagli altri giornali - polemiche fotografie di linciaggi e forzati in catene, di crumiri armati di bastoni, delle inumane condizioni nei penitenziari americani -, c’erano pagine e pagine sul viaggio del 1938 del candidato repubblicano nella Germania nazista, culminanti in una foto a piena pagina di Lindbergh con la medaglia appesa al collo che stringeva la mano di Hermann Gòring, il capo nazista secondo solo a Hitler. La domenica sera aspettammo la fine dei programmi leggeri per ascoltare, alle nove, Walter Winchell. E quando lui arrivò e disse ciò che avevamo sperato che dicesse, proprio col disprezzo con cui volevamo che lo dicesse, un applauso giunse fino a noi dall’altra parte del vialetto, come se il famoso giornalista non fosse chiuso in uno studio radiofonico oltre il grande spartiacque che era il fiume Hudson, ma fosse lì tra noi a battersi con tutte le sue forze, con la cravatta allentata, il colletto sbottonato, il feltro grigio sulle ventitre, strapazzando Lindbergh da un microfono posato sull’incerata che copriva il tavolo da cucina del vicino. Era l’ultima sera di giugno del 1940. Dopo una giornata calda, faceva abbastanza fresco per stare comodamente in casa senza sudare, ma quando Winchell chiuse la trasmissione alle nove e un quarto i nostri genitori decisero di uscire per godersi insieme a noi qualche minuto della bella serata. Volevamo solo arrivare fino all’angolo e tornare indietro - dopodiché mio fratello e io saremmo andati a letto - e invece non tornammo fin quasi a mezzanotte, e allora era impossibile dormire per due
ragazzi come noi, contagiati com’eravamo dall’eccitazione dei nostri genitori. Poiché l’impavida bellicosità di Winchell aveva fatto uscire di casa anche tutti i nostri vicini, quella che per noi era cominciata come un’allegra passeggiatina serale finì come una festa improvvisata a cui prese parte tutto l’isolato. Gli uomini tirarono fuori le sedie a sdraio dai garage e le piazzarono all’inizio dei vialetti, le donne portarono da casa caraffe di limonata, i bambini più piccoli si misero a correre sfrenatamente da una veranda all’altra e i più grandi si raccolsero a ridere e chiacchierare per conto loro, e tutto perché l’ebreo più noto d’America dopo Einstein aveva dichiarato guerra a Lindbergh. Era Winchell, dopotutto, che nella sua celebre rubrica aveva introdotto i tre puntini che separavano - e in qualche modo magicamente convalidavano - ogni notizia scottante, tanto più se fondata su tenui elementi concreti, ed era da Winchell che era più o meno partita l’idea di sparare in faccia alle masse credulone pallettoni di maldicenze e insinuazioni: rovinando reputazioni, compromettendo celebrità, portando alla fama, creando e spezzando carriere nel mondo dello spettacolo. Solo la sua rubrica veniva pubblicata da centinaia di giornali in tutto il paese, e il suo quarto d’ora radiofonico della domenica sera era il notiziario più popolare del paese, quello in cui la mitragliante esposizione di Winchell e il pugnace cinismo di Winchell conferivano a ogni scoop l’aria sensazionale di una rivelazione. Lo ammiravamo come intrepido outsider e astuto insider, amico di J. Edgar Hoover, il direttore dell’Fbi, vicino di casa del gangster Frank Costello, confidente dell’entourage di Roosevelt e persino qualche volta invitato alla Casa Bianca per divertire il presidente davanti a un cocktail: il duro addentro alle segrete cose e il cinico viveur, che era temuto dai suoi nemici e che era dalla nostra parte. Walter Winschel (alias Weinschel) era originario di Manhattan e da ballerino di vaudeville di New York si era trasformato in un columnist di Broadway che faceva un mucchio di soldi incarnando le passioni dei più scadenti dei nuovi quotidiani per lettori semianalfabeti, anche se dopo l’avvento di Hitler, e molto prima che chiunque altro nella stampa fosse abbastanza previdente o abbastanza infuriato per sfidarli, fascisti e antisemiti erano diventati il suo nemico numero uno. Aveva già etichettato come «ratzi»2 il Bund Tedesco-Americano e accusato alla radio e sulla stampa il suo leader, Fritz Kuhn, di essere un agente segreto straniero, e ora - dopo la battuta di FDR, l’editoriale del «Newark News» e l’esauriente denuncia di «PM» - Walter Winchell doveva solo svelare la «filosofia filonazista» di Lindbergh ai suoi trenta milioni di ascoltatori della domenica sera e definire la candidatura di Lindbergh alla presidenza la più grande minaccia che fosse mai stata rivolta alla democrazia americana perché tutte le famiglie ebraiche del piccolo rione di Summit Avenue tornassero ancora una volta a sembrare americani che si godevano la vitalità e l’euforia di una cittadinanza sicura, libera e protetta invece di correre fuori in pigiama e camicia da notte come matti scappati da un manicomio.
2
Gioco di parole tra "nazi» e rat (individuo spregevole, carogna) [N. d. T.]
Mio fratello era noto in tutto il quartiere per essere capace di disegnare «qualunque cosa» - una bicicletta, un albero, un cane, una sedia, un personaggio dei fumetti come Li’l Abner - anche se il suo interesse più recente era per le facce vere. I bambini si radunavano sempre intorno a lui per guardarlo ovunque andasse a piazzarsi dopo la scuola col suo grosso album a spirale e la sua matita automatica per mettersi a schizzare le persone più vicine. Inevitabilmente gli spettatori cominciavano a urlare: «Disegna quello, disegna quella, disegna me», e Sandy raccoglieva l’esortazione, se non altro per farli smettere di gridargli nelle orecchie. Nel frattempo la sua mano continuava a darci dentro, e lui alzava gli occhi, li abbassava, tornava ad alzarli, tornava ad abbassarli... E guarda, ecco il tale su un foglio di carta, come se fosse vivo. Dov’è il trucco?, gli chiedevano tutti, come fai? Come se il ricalco - come se la magia bella e buona - potesse aver avuto una parte nell’impresa. La risposta di Sandy a tutti questi seccatori era una spallucciata o un sorriso: il trucco consisteva nell’essere il ragazzo tranquillo, serio e semplice che era. Attrarre l’attenzione ovunque andasse sfornando i ritratti chiesti dalla gente non aveva in apparenza alcun effetto sull’elemento impersonale nel nocciolo della sua forza, l’innata modestia che era il suo nerbo e che in seguito egli eluse a suo rischio e pericolo. A casa, non copiava più le illustrazioni di «Collier’s» o le foto di «Look», ma studiava un manuale sull’arte della figura. Lo aveva vinto in una gara scolastica per un manifesto per la festa degli alberi che coincideva con un progetto di piantinazione su scala cittadina varato dal dipartimento parchi e pubblica proprietà. C’era stata persino una cerimonia nel corso della quale Sandy aveva stretto la mano di un certo signor Bannwart, sovrintendente dell’ufficio piante ombrifere. Il disegno del suo manifesto vincente era basato su un francobollo rosso da due cent della mia collezione che commemorava il sessantesimo anniversario della festa degli alberi. Quel francobollo mi sembrava particolarmente bello perché ben visibile entro ciascuno dei suoi stretti margini bianchi verticali c’era un albero sottile i cui rami si arcuavano in alto fino a incontrarsi a formare una pergola: e finché il francobollo non diventò mio e io non ebbi la possibilità di esaminarne le caratteristiche con la lente d’ingrandimento, il significato di «pergola»3 era stato assorbito nel nome familiare della festa. La piccola lente d’ingrandimento - insieme a un album per duemilacinquecento francobolli, una pinzetta, un odontometro, linguelle gommate e un piatto di gomma nera detto filigranoscopio - era stata un regalo dei miei genitori per il mio settimo compleanno. Per altri dieci cent mi avevano comprato anche un libretto di una novantina di pagine intitolato II manuale del collezionista di francobolli dove, sotto l’intestazione «Come iniziare una collezione di francobolli», avevo letto, affascinato, questa frase: «Gli archivi delle aziende e la vecchia corrispondenza privata spesso contengono francobolli di cessate emissioni che sono di grande valore; perciò, se hai degli amici che abitano in case vecchie e che in soffitta hanno accumulato materiale di questo genere, cerca di procurarti le loro vecchie buste e fascette affrancate.» Noi 3
Arbor. "Festa degli alberi» è Arbor Day [N.d.T.]
la soffitta non l’avevamo, nessuno dei nostri amici che abitavano in un appartamento ce l’aveva, ma sotto i tetti delle case unifamiliari di Union le soffitte c’erano: dal sedile posteriore della macchina, quando avevamo fatto il giro della città quel terribile sabato dell’anno prima, si vedevano benissimo le finestrelle delle soffitte alle due estremità degli edifici, e così nel pomeriggio, quando tornammo a casa, non riuscii a pensare ad altro che alle vecchie buste affrancate e ai timbri a secco sulle fascette dei giornali franco di porto nascoste in quelle soffitte e a come ormai non avrei più avuto la possibilità di «procurarmele» perché ero ebreo). L’interesse del francobollo commemorativo della festa degli alberi era molto accresciuto dal fatto che rappresentava un’attività umana, al contrario dei ritratti di persone famose o delle immagini di importanti località: al centro del francobollo, un ragazzo e una bambina di dieci o undici anni stanno piantando un alberello, e il ragazzo scava con una vanga mentre la bambina, reggendo il tronco dell’alberello con una mano, lo tiene fermo sopra la buca. Nel poster di Sandy il ragazzo e la bambina hanno cambiato posizione e si trovano ai lati dell’albero, il ragazzo non è mancino ma usa la mano destra, ha i calzoni lunghi e non i calzoncini, e uno dei suoi piedi è sopra la lama e la spinge nel terreno. Nel poster di Sandy c’è anche un altro bambino, un ragazzo pressappoco della mia età, ed è lui, adesso, a portare i calzoni corti. Si trova in una posizione arretrata e laterale rispetto all’alberello e tiene a portata di mano un annaffiatoio: come me quando posai per Sandy, con i calzettoni e i miei calzoncini scolastici più eleganti. Aggiungere questo bambino fu un’idea di mia madre, per differenziare ulteriormente l’opera di Sandy da quella del francobollo per la festa degli alberi – e difenderlo dall’accusa di avere «copiato» - ma anche per dare al poster un contenuto sociale che rimandava a un tema tutt’altro che comune nel 1940, né nella cartellonistica né in alcun’altra forma d’arte, e che per ragioni di «gusto» avrebbe potuto addirittura dimostrarsi inaccettabile per i giudici. Il terzo bambino che piantava l’albero era un negro, e quello che incoraggiò mia madre a suggerire di metterci anche lui - a parte il desiderio di instillare nei suoi figli la civica virtù della tolleranza - era un altro dei miei francobolli, un pezzo da dieci cent di nuovissima emissione nella «serie degli educatori», cinque francobolli che avevo comprato alla posta per un totale di ventuno cent e pagato nel mese di marzo con la mia paglietta settimanale di un nichelino. Sopra il ritratto centrale, ogni francobollo presentava l’immagine di un lume che l’ufficio poste e telegrafi identificava come il «Lume del Sapere», ma al quale io pensavo come alla lampada di Aladino per via del ragazzo delle Mille e una notte con la lampada magica e l’anello e i due geni che gli danno tutto ciò che chiede. Quelli che io avrei chiesto a un genio erano i più agognati di tutti i francobolli americani: primo, il celebre posta aerea da ventiquattro cent del 1918, un francobollo che a quanto si diceva valeva 3400 dollari, dove l’aereo raffigurato al centro, il Flyingjenny4 dell’esercito, è invertito; e poi i tre famosi francobolli dell’emissione per l’Esposizione 4
Nomignolo attribuito ai primi biplani [N. d. T]
Panamericana del 1901 che erano stati, anche quelli, stampati per sbaglio con i centri invertiti e che valevano più di mille dollari l’uno. Sul francobollo verde da un cent nella serie degli educatori, appena sopra l’immagine del Lume del Sapere, c’era Horace Mann; sul due cent rosso, Mark Hopkins; sul tre cent viola, Charles W. Eliot; sul quattro cent blu, Frances E. Willard; sul dieci cent marrone c’era Booker T. Washington, il primo negro che fosse mai apparso su un francobollo americano. Ricordo che dopo aver messo il Booker T. Washington nel mio album e mostrato a mia madre che esso completava la serie di cinque, le avevo chiesto: «Credi che ci sarà mai un ebreo su un francobollo?» e lei aveva risposto: «Probabilmente... Un giorno, sì. Lo spero, in ogni modo.» In realtà, dovevano passare altri ventisei anni, e ci volle Einstein per arrivarci. Sandy risparmiò la sua paghetta settimanale di venticinque cent – e tutti gli spiccioli che guadagnava spalando la neve, rastrellando le foglie e lavando la macchina - finché non ebbe abbastanza soldi per andare in bicicletta fino alla cartoleria di Clinton Avenue che vendeva materiale per artisti a comprare, nell’arco di qualche mese, una matita carboncino, poi i blocchetti di cartavetrata per fare la punta alla matita, poi la carta per il carboncino, poi l’aggeggino tubolare di metallo in cui soffiava per applicare la nebbiolina del fissativo che impediva al carboncino di spandersi sulla carta facendo degli sbaffi. Aveva delle grosse mollette, una tavoletta di masonite, gialle matite Ticonderoga, gomme, album per schizzi, carta da disegno: tutta roba che teneva in uno scatolone in fondo all’armadio della nostra camera da letto e che mia madre, quando faceva le pulizie, non doveva toccare. La sua energica meticolosità (ereditata da nostra madre) e la sua strabiliante perseveranza (ereditata da nostro padre) non facevano che aumentare il mio rispetto per un fratello maggiore che tutti giudicavano destinato a grandi cose, mentre la maggior parte dei ragazzi della sua età non sembravano destinati nemmeno a stare a tavola con un altro essere umano. Io ero allora un bambino modello, obbediente sia a casa che a scuola - dotato di una cocciutaggine ancora in gran parte latente e di un’aggressività destinata a esplodere solo in un secondo tempo -, ancora troppo piccolo per conoscere il potenziale di una rabbia tutta per sé. E con nessuno ero meno intransigente che con lui. Per il suo dodicesimo compleanno Sandy aveva ricevuto una grande cartella nera di cartone che si piegava lungo una cucitura e in alto si chiudeva con due nastri che mio fratello annodava per tenere fermi i fogli. La cartella misurava circa sessanta centimetri per quarantacinque, ed era troppo grande per entrare nei cassetti del comò della nostra camera da letto o per essere appoggiata verticalmente alla parete dell’armadio strapieno che condividevamo. Sandy era autorizzato a tenerla - insieme agli album da disegno a spirale - stesa sul pavimento sotto il letto, e in questa cartella metteva i disegni che gli sembravano i migliori, a partire dal suo capolavoro del 1936, l’ambizioso ritratto di nostra madre che indicava, sopra la sua testa, lo Spirit of St Louis diretto a Parigi. Chiusi nella cartella Sandy aveva diversi grandi ritratti dell’eroico aviatore, a matita e carboncino. Facevano parte di una serie di americani illustri che stava mettendo insieme, e che si concentrava soprattutto sui personaggi
più apprezzati dai nostri genitori, come il presidente Roosevelt e sua moglie, il sindaco di New York Fiorello La Guardia, il presidente del sindacato dei minatori John L. Lewis e la romanziera Pearl Buck, che nel 1938 aveva vinto il premio Nobel e di cui aveva fatto il ritratto copiandolo dalla copertina di uno dei suoi bestseller. Molti disegni della cartella erano di membri della famiglia, e di questi una buona metà erano dell’unica nonna che ci restava, la nostra nonna paterna, che, le domeniche in cui lo zio Monty la portava a farci visita, si prestava ogni tanto da modella per mio fratello. Stregato dalla parola «venerabile», Sandy disegnava ogni ruga che riusciva a trovarle sulla faccia e ogni nodo delle sue dita deformate dall’artrite mentre - disciplinatamente come aveva lavato pavimenti in ginocchio per tutta la vita e fatto da mangiare sopra una cucina a carbone per una famiglia di nove persone - mia nonna, robusta e piccolina, sedeva in cucina a «posare.» Eravamo soli in casa, qualche giorno dopo la trasmissione di Winchell, quando Sandy tirò fuori la cartella da sotto il letto e la portò in sala da pranzo. Una volta là, l’aprì sul tavolo (riservato al Boss e ai festeggiamenti delle speciali ricorrenze familiari), tolse con cura i ritratti di Lindbergh dalla carta da ricalco che proteggeva ogni disegno e li allineò sul piano del tavolo. Nel primo, Lindbergh portava il suo berretto di pelle da aviatore con le bandelle penzolanti sopra le orecchie; nel secondo, il berretto era parzialmente nascosto dagli occhialoni che Lindbergh si era alzato sulla fronte; nel terzo era a capo scoperto, e a qualificarlo come aviatore c’era soltanto lo sguardo inflessibile rivolto al lontano orizzonte. Misurare il valore di quest’uomo, come lo aveva reso Sandy, non era difficile. Un eroe virile. Un coraggioso avventuriero. Una persona spontanea di grandissima forza e rettitudine unite a una straordinaria banalità. Tutt’altro che un «cattivo» che facesse paura o una minaccia per l’umanità. - Diventerà presidente, - mi disse Sandy. - Alvin dice che Lindbergh vincerà. Tanto mi confusero e mi spaventarono le sue parole che finsi che fosse tutto uno scherzo e scoppiai a ridere. - Alvin vuole andare in Canada ad arruolarsi nell’esercito canadese, - disse lui. Vuole combattere per gli inglesi contro Hitler. - Ma nessuno può battere Roosevelt, - dissi io. - Lindbergh lo batterà. L’America diventerà fascista. E restammo là fermi, tutt’e due, affascinati e intimiditi dai tre ritratti. Mai prima di allora avere sette anni mi era sembrata un’insufficienza così grave. - Non dire a nessuno che ho questi, - disse lui. - Ma la mamma e il papà li hanno già visti, - dissi io. - Li hanno visti tutti. Tutti li hanno visti. - Gli ho detto che li ho stracciati. Non c’era nessuno più sincero di mio fratello. Non era un ragazzo tranquillo perché fosse reticente o disonesto, ma perché non si prendeva mai il disturbo di comportarsi male e così non aveva niente da nascondere. Ma ora qualcosa di esterno aveva cambiato il significato di questi disegni, trasformandoli in ciò che non erano, e così lui aveva detto ai nostri genitori che li aveva distrutti, trasformandosi in ciò che non era.
- E se li trovano? - dissi. - Come possono trovarli? - chiese lui. - Non lo so. - Giusto, - disse lui. - Tu non sai niente. Tieni la bocca chiusa e nessuno lo scoprirà. Obbedii per molte ragioni, una delle quali era che il terzo dei più vecchi francobolli americani che possedevo - che non potevo certo stracciare e buttar via era un posta aerea da dieci cent emesso nel 1927 per commemorare il volo transatlantico di Lindbergh. Era un francobollo blu, lungo il doppio della sua altezza, il cui disegno centrale, un’immagine dello Spirit of St Louis che sorvolava l’oceano verso est, aveva fornito a Sandy il modello per l’aereo nel disegno che celebrava il proprio concepimento. Adiacente al bordo bianco a sinistra del francobollo c’è la linea costiera del Nord’america, con le parole «New York» che sporgono nell’Atlantico, e adiacente al bordo sinistro la linea costiera di Irlanda, Gran Bretagna e Francia, con la parola «Parigi» in fondo a un arco tratteggiato che segna la rotta tra le due città. In cima al francobollo, proprio sotto le lettere bianche che dicono UNITED STATES POSTAGE ci sono le parole LINDBERGH AIRmail, a caratteri un po’ più piccoli, ma sicuramente abbastanza grandi per poter essere letti da un bambino di sette anni dotato di una vista perfetta. Il francobollo era già valutato venti cent dallo Standard Postage Stamp Catalogne di Scott, e la cosa di cui mi resi subito conto fu che il suo valore non avrebbe fatto altro che aumentare (e così rapidamente da diventare il mio bene più prezioso) se Alvin aveva ragione e fosse accaduto il peggio. Sul marciapiede nei lunghi mesi di vacanza facevamo un gioco nuovo che si chiamava «Dichiaro guerra», con un pezzo di gesso e una palla di gomma da due soldi. Col gesso tracciavi un cerchio del diametro di un paio di metri, lo dividevi in tanti spicchi quanti erano i giocatori e in ogni spicchio scrivevi il nome di uno dei vari paesi stranieri di cui si era parlato durante l’anno. Successivamente, ogni giocatore sceglieva il «suo» paese e si piazzava ai margini del cerchio, a cavallo della riga, con un piede dentro e uno fuori, in modo da poter correre dentro in fretta e furia quando fosse venuto il momento. Intanto il giocatore designato, tenendo la palla in mano sopra la testa, annunciava lentamente, con una cadenza minacciosa: «Io... dichiaro... guerra... a...» C’era una pausa piena di suspense, e poi il ragazzo che dichiarava guerra sbatteva la palla per terra, gridando al tempo stesso «Germania!» o «Giappone!» o «Olanda!» o «Italia!» o «Belgio!» o «Inghilterra!» o «Cina!» qualche volta gridando persino «America!» - e tutti scappavano via tranne quello contro il quale era stato sferrato l’attacco a sorpresa. Il suo compito era afferrare la palla al rimbalzo più in fretta che poteva e gridare «Stop!» Tutti allora, alleati contro di lui, dovevano fermarsi, e il paese passava al contrattacco, cercando di eliminare un paese aggressore alla volta colpendolo con la palla più forte che poteva, partendo da quelli che erano più vicini a lui e avanzando di qualche passo a ogni centro. Non facevamo che giocare a questo gioco. Finché non si metteva a piovere, e i nomi dei paesi si cancellavano temporaneamente, la gente, camminando per la strada,
doveva o pestarli o scavalcarli. Allora nel nostro quartiere non c’erano altri graffiti degni di questo nome: solo questi, gli avanzi dei geroglifici dei nostri semplici giochi di strada. Giochi abbastanza innocui, che però bastavano a far uscire dai gangheri certe madri costrette, attraverso le finestre aperte, a sentirci gridare per ore e ore. «Ragazzi, non potete fare qualcos’altro? Non potete trovare un altro gioco da fare?» Ma no che non potevamo: anche noi non pensavamo ad altro che a dichiarare guerra a qualcuno. Il 18 luglio 1940 la convention democratica di Chicago nominò alla prima votazione, a schiacciante maggioranza, FDR per un terzo mandato. Ascoltammo alla radio il suo discorso di accettazione, pronunciato con l’aristocratica sicurezza che, ormai per quasi otto anni, aveva spinto milioni di famiglie comuni come la nostra a non perdere la fiducia in mezzo alle difficoltà. Nell’intrinseca dignità di quel modo di esprimersi c’era qualcosa che, pur essendoci estraneo, non soltanto calmava le nostre ansie, ma attribuiva alla nostra famiglia una storica importanza, mescolando autorevolmente, quando FDR si rivolgeva a noi nel soggiorno chiamandoci «concittadini», le nostre vite con la sua e con quella di tutta la nazione. Che gli americani potessero scegliere Lindbergh - che gli americani potessero scegliere chiunque – piuttosto che il presidente giunto alla fine del secondo mandato di cui bastava ascoltare la voce per comprendere con quale sicurezza dominava il tumulto delle passioni umane... be’, questo era impensabile, e più che mai per un piccolo americano come me che non aveva mai sentito una voce presidenziale diversa dalla sua. Cinque o sei settimane dopo, il sabato prima del Labor Day, Lindbergh meravigliò il paese omettendo di partecipare alla sfilata della festa dei lavoratori di Detroit, dove avrebbe dovuto lanciare la sua campagna con un corteo di automobili attraverso il cuore operaio dell’America isolazionista (e la roccaforte antisemita di padre Coughlin e Henry Ford), e invece arrivando senza preavviso all’aeroporto di Long Island da cui tredici anni prima era iniziato il suo spettacolare volo transatlantico. Lo Spirit of St Louis era stato trasportato con un camion di nascosto, sotto un telone, e ricoverato per la notte in un remoto hangar, anche se quando Lindbergh fece rullare l’aereo sul campo la mattina dopo, ogni agenzia giornalistica d’America e ogni stazione radio e ogni giornale di New York avevano sul posto un reporter per assistere al decollo, questa volta verso ovest, attraverso l’America fino in California, piuttosto che verso est attraverso l’Atlantico fino in Europa. Naturalmente, nel 1940 il servizio aereo commerciale trasportava merci, passeggeri e posta transcontinentale da più di dieci anni, e questo in gran parte grazie all’incentivo dell’impresa solitaria di Lindbergh e dei suoi sforzi incessanti come consulente da un milione di dollari l’anno delle linee aeree organizzate di fresco. Ma quel giorno a lanciare la campagna non era il ricco sostenitore dell’aviazione commerciale, né il Lindbergh decorato a Berlino dai nazisti, né quello che, in un programma radiofonico a diffusione nazionale, aveva accusato ebrei troppo influenti di voler trascinare il paese nella guerra, e non era neppure lo stoico padre del bebé rapito e ucciso da Bruno Hauptmann nel 1932. Era piuttosto lo sconosciuto pilota postale che aveva osato fare ciò che non era mai stato
fatto da alcun aviatore prima di lui, l’adorata Aquila Solitaria, ancora intatto e sbarazzino, nonostante gli anni di una fama fenomenale. Nel weekend festivo che chiuse l’estate del 1940, Lindbergh fu ben lontano dal migliorare il tempo record di un volo nonstop da costa a costa che lui stesso aveva stabilito dieci anni prima con un aereo più progredito del vecchio Spirit of St? Nondimeno, quando arrivò all’aeroporto di Los An; la folla formata in gran parte da lavoratori dell’industria aerea - decine di migliaia, impiegati dai nuovi grossi imprenditori di Los Angeles e dintorni - lo accolse con un entusiasmo mai visto prima. I democratici definirono il volo una trovata pubblicitaria ideata dallo staff di Lindbergh, quando in realtà la decisione di volare in California era stata presa solo qualche ora prima da Lindbergh in persona e non dai professionisti che gli erano stati assegnati dal Partito repubblicano per guidare il novizio tra gli scogli della sua prima campagna elettorale e che, come tutti gli altri, lo avevano atteso a Detroit. Il suo discorso, pronunciato con la voce acuta, monotona e tutt’altro che rooseveltiana di un americano del Midwest, era disadorno e andò subito al sodo. La sua tenuta di volo - stivali, calzoni con lo sbuffo e un blusotto leggero sopra la camicia e la cravatta - era una copia di quella in cui aveva attraversato l’Atlantico; e lui parlò senza togliersi né il caschetto di pelle né gli occhialoni, che si era alzato sulla fronte proprio come li aveva rappresentati Sandy nel disegno a carboncino nascosto sotto il letto. «Il mio intento nel candidarmi alla presidenza - disse a quella folla esagitata quando ebbe cessato di urlare il suo nome - è difendere la democrazia americana impedendo all’America di partecipare a un’altra guerra mondiale. La vostra scelta è semplice. Non è tra Charles A. Lindbergh e Franklin Delano Roosevelt. È tra Lindbergh e la guerra.» Tutto qui: quarantatre parole, compresa l’A di Augustus. Dopo una doccia, uno spuntino e un’ora di sonno all’aeroporto di Los Angeles, il candidato risalì sullo Spirit of St Louis e volò a San Francisco. Al calar della notte era a Sacramento. E ovunque atterrasse quel giorno in California, era come se il paese non avesse conosciuto il crollo in borsa e le angosce della Depressione (o i trionfi di FDR, se è per questo), come se anche la guerra in cui voleva impedirci di entrare non avesse neanche attraversato la mente di nessuno. Lindy scendeva dal cielo sul suo famoso aereo, e tutto era come nel 1927. Lindy era tornato, Lindy lo schietto, che non aveva alcun bisogno di darsi delle arie o sembrare superiore, che semplicemente era superiore: Lindy l’intrepido, giovane e insieme pensoso e maturo, il burbero individualista, il leggendario eroe americano che riesce a fare l’impossibile contando solo sulle proprie forze. Nel mese e mezzo che seguì, riuscì a passare un’intera giornata in ognuno dei quarantotto stati, finché, nell’ottobre inoltrato, tornò alla pista di Long Island da cui era partito nel weekend del Labor Day. Durante le ore diurne saltava da una città, un paese o una frazioncina all’altra, atterrando sulle autostrade se non c’erano piste nelle vicinanze, e posandosi e decollando da un tratto di pascolo quando andava a parlare con gli agricoltori e le
loro famiglie nelle più remote contee rurali d’America. I suoi commenti sul campo venivano diffusi dalle stazioni radio locali e regionali, e diverse volte la settimana, dalla capitale dello stato in cui passava la notte, diffondeva un messaggio alla nazione. Era sempre succinto e suonava così: Per impedire una guerra in Europa è ormai troppo tardi. Ma non è troppo tardi per impedire all’America di partecipare a quella guerra. FDR sta ingannando la nazione. L’America sarà trascinata nella guerra da un presidente che falsamente promette la pace. La scelta è semplice. Votate per Lindbergh o votate per la guerra. Da giovane pilota ai primi tempi dell’aviazione, quando il volo era una novità, Lindbergh, con un compagno più vecchio ed esperto di lui, aveva divertito le folle di tutto il Midwest lanciandosi col paracadute o camminando senza paracadute sull’ala dell’aereo, e i democratici furono lesti a criticare i suoi comizi con lo Spirit of St Louis paragonandoli a queste acrobazie. Durante le conferenze stampa Roosevelt non si prendeva più la briga di rispondere con una frase canzonatoria quando i giornalisti lo interrogavano sull’eterodossa campagna di Lindbergh, ma semplicemente passava a parlare della paura di Churchill di un’imminente invasione della Gran Bretagna o ad annunciare che avrebbe chiesto al Congresso di finanziare la prima chiamata alle armi americana in tempo di pace o a ricordare a Hitler che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna interferenza nell’aiuto transatlantico che la nostra marina mercantile dava allo sforzo bellico degli inglesi. Fin dal primo momento fu chiaro che la campagna del presidente sarebbe consistita nel rimanere alla Casa Bianca, dove, in contrasto con quelle che il ministro Ickes chiamava le «carnevalate» di Lindbergh, si proponeva di affrontare i rischi della situazione internazionale con tutta l’autorità di cui disponeva, lavorando, se necessario, ventiquattr’ore al giorno. Per due volte, in questa tournée di stato in stato, Lindbergh si perse nel maltempo, e ogni volta passarono parecchie ore prima che il contatto radio fosse ristabilito e lui potesse far sapere al paese che andava tutto bene. Ma poi in ottobre, proprio il giorno in cui gli americani appresero, sbigottiti, che nell’ultima delle devastanti incursioni aeree notturne su Londra i tedeschi avevano bombardato la cattedrale di St Paul, un altro flash d’agenzia all’ora di cena riferì che lo Spirit of St Louis era stato visto esplodere in aria sopra gli Allegheny e precipitare in fiamme. Questa volta passarono sei lunghe ore prima che un altro flash correggesse il primo con la notizia che era stata un’avaria al motore e non un’esplosione a mezz’aria a costringere Lindbergh a fare un atterraggio di fortuna sull’infido terreno dei monti della Pennsylvania occidentale. Prima che venisse diffusa la smentita, tuttavia, il nostro telefono squillò in continuazione: amici e parenti che chiamavano per fare congetture con i nostri genitori sulla versione iniziale del fiammeggiante e forse fatale incidente. Davanti a Sandy e a me i nostri genitori nulla dissero che potesse far pensare a un sollievo provato alla prospettiva della morte di Lindbergh, anche se nessuno dei due dichiarò di sperare che così non fosse; e non furono tra i giubilanti allorché, verso le undici di quella sera, arrivò la notizia che l’Aquila Solitaria, lungi dall’essere precipitata in fiamme, era uscita sana e salva dall’aereo intatto e aspettava solo un pezzo di ricambio per decollare e riprendere la campagna.
La mattina di ottobre in cui Lindbergh atterrò all’aeroporto di Newark, tra le persone in attesa di dargli il benvenuto nel New Jersey c’era il rabbino Lionel Bengelsdorf di B’nai Moshe, il primo dei templi conservatori della città, organizzato da ebrei polacchi. B’nai Moshe era a qualche isolato dal cuore del vecchio ghetto dei carrettieri, da sempre il quartiere più povero della città anche se non più la dimora degli osservanti di B’nai Moshe ma di una comunità di negri impoveriti appena immigrati dal Sud. Per anni B’nai Moshe aveva perso terreno nella gara per accaparrarsi i benestanti; nel 1940 queste famiglie o avevano lasciato il conservatorismo e si erano affiliate alle congregazioni riformate di B’nai Jeshurun e Oheb Shalom - ciascuna delle quali piantata solennemente tra le vecchie magioni di High Street - o erano entrate a far parte dell’altro antico tempio conservatore, B’nai Abraham, situato parecchie miglia a ovest dell’ex chiesa battista dov’era stato originariamente ospitato e ora adiacente alle case dei medici e degli avvocati ebrei che abitavano in Clinton Hill. Il nuovo B’nai Abraham era il più sfarzoso dei templi cittadini, un edificio circolare austeramente costruito in quello che chiamavano «lo stile greco» e abbastanza vasto per contenere, durante le feste maggiori, un migliaio di fedeli. Joachim Prinz, un immigrato espulso da Berlino dalla Gestapo di Hitler, aveva rimpiazzato l’anno prima come rabbino del tempio Julius Silberfeld che era andato in pensione, e si stava già affermando come un uomo energico e particolarmente sensibile ai problemi sociali che offriva alla sua prospera comunità una visione della storia ebraica fortemente segnata dalla propria recente esperienza sulla scena insanguinata della criminalità nazista. I sermoni del rabbino Bengelsdorf venivano diffusi settimanalmente dalla stazione Wnjr agli hoipolloi che lui chiamava la sua «congregazione radiofonica», e lui era l’autore di parecchi libri di poesie ispirate dalla Bibbia che venivano regalati abitualmente ai ragazzi per il bar mitzvah e alle coppie di sposi novelli. Era nato in South Carolina nel 1879, figlio di un immigrato commerciante in mercerie, e ogni volta che si rivolgeva a un pubblico ebraico, dal pulpito o per radio, il suo aulico accento meridionale, insieme alle sue sonore cadenze - e alle cadenze del proprio nome polisillabico -, facevano un’impressione di dignitosa profondità. Sul tema, per esempio, della sua amicizia col rabbino Silberfeld di B’nai Abraham e del rabbino Foster di B’nai Jeshurun, disse un giorno al suo uditorio radiofonico: «Era scritto: come Socrate Platone e Aristotele erano legati tra loro nel mondo antico, così noi siamo legati nel mondo religioso», l’omelia sul disinteresse, che recitò per spiegare agli ascoltatori per quale motivo un rabbino del suo calibro fosse contento di restare alla testa di una congregazione in declino, la introdusse dicendo: «Forse vi interesserà la mia risposta a domande che mi sono state poste letteralmente da migliaia di persone. Perché rinunci ai vantaggi commerciali di un ministero peripatetico? Perché decidi di restare a Newark, al tempio B’nai Moshe, come tuo unico pulpito, quando ogni giorno hai almeno sei occasioni di lasciarlo per altre congregazioni?» Aveva studiato nelle grandi istituzioni del sapere sia in Europa sia nelle università americane e si diceva che parlasse dieci lingue; che fosse versato nella filosofia classica, nella teologia, nella storia dell’arte e nella storia antica e moderna; che non transigesse mai
sulle questioni di principio; che non consultasse mai un appunto davanti al leggio o sul podio di una conferenza; che non fosse mai senza un pacchetto di schede relative agli argomenti che più lo interessavano in quel momento, a cui ogni giorno aggiungeva nuove riflessioni e nuove impressioni. Era anche un eccellente cavallerizzo, noto per l’abitudine di fermare il cavallo per annotarsi un’idea, usando la sella come scrittoio di fortuna. Ogni mattina di buon’ora faceva un po’ di equitazione nei galoppatoi di Weequahic Park, accompagnato - fino a quando lei mori di cancro nel 1936 - dalla moglie, l’ereditiera del più ricco fabbricante di gioielli di Newark. La casa di famiglia di lei in Elizabeth Avenue, dove la coppia aveva abitato, proprio di là dal parco, dal giorno del loro matrimonio nel 1907, conteneva un tesoro di cimeli ebraici che era, si diceva, tra le collezioni private più pregevoli della terra. Nel 1940 Lionel Bengelsdorf vantava uno straordinario stato di servizio, il più lungo che un rabbino d’America avesse mai fatto registrare in un tempio. I giornali parlavano di lui come del capo religioso della comunità ebraica del New Jersey e, ricordando le sue numerose apparizioni in pubblico, accennavano invariabilmente alle sue «doti oratorie» e alle dieci lingue che parlava. Nel 1915, alle celebrazioni per il duecentocinquantesimo anniversario della fondazione di Newark, si era seduto al fianco del sindaco Raymond e aveva recitato l’invocazione, così come annualmente recitava le invocazioni alle parate del Memorial Day e del Quattro Luglio. IL RABBINO ESALTA LA DICHIARAZIONE D’INDIPENDENZA: ecco il titolo che compariva sullo «Star-Ledger» regolarmente il cinque luglio di ogni anno. Nelle prediche e nelle conversazioni, quando diceva che «lo sviluppo degli ideali americani» era la prima priorità degli ebrei e «l’americanizzazione degli americani» il modo migliore per difendere la nostra democrazia contro «bolscevismo, radicalismo e anarchia», citava spesso l’ultimo messaggio di Theodore Roosevelt alla nazione, quello in cui il defunto presidente aveva detto: «La lealtà non tollera divisioni. Chiunque dica di essere prima americano, e poi anche un’altra cosa, non è americano per niente. Qui c’è posto solo per una bandiera, la bandiera americana.» Il rabbino Bengelsdorf aveva parlato dell’americanizzazione degli americani in ogni chiesa e scuola pubblica di Newark, davanti a quasi tutti i gruppi civici, storici, culturali e di mutuo soccorso dello stato, e gli articoli dei giornali di Newark sui suoi discorsi rimandavano a dozzine di città in ogni angolo del paese dove lo avevano chiamato per farlo parlare a congressi e convention sia su quel tema che su altri argomenti, dalla criminalità e dal movimento per la riforma carceraria - «Il movimento per la riforma carceraria è saturo dei più nobili principi etici e ideali religiosi» - alle cause della guerra mondiale - «La guerra è il risultato delle ambizioni materiali dei popoli europei e del loro tentativo di raggiungere gli obiettivi della grandezza militare, del potere e della ricchezza» - all’importanza degli asili nido - «Gli asili nido sono vivai di fiori umani dove ogni bambino viene aiutato a crescere in un’atmosfera di gioia e di letizia» - ai mali dell’era industriale - «Noi crediamo che il valore del lavoratore non debba essere calcolato in base al valore materiale della sua produzione» - al movimento per il suffragio universale, la cui proposta di estendere il diritto di voto
alle donne incontrava la sua fiera opposizione, facendogli dire che «se gli uomini non sono capaci di occuparsi degli affari dello stato, perché non aiutarli a diventarlo? Non si è mai curato nessun male raddoppiandolo.» Lo zio Monty, che odiava tutti i rabbini ma aveva per Bengelsdorf un disprezzo particolarmente velenoso risalente alla sua infanzia di scolaro bisognoso e meritevole nella scuola religiosa di B’nai Moshe, amava dire di lui: «Quel pomposo figlio di puttana sa tutto... Peccato che non sappia altro.» La presenza del rabbino Bengelsdorf all’aeroporto - dove, stando alla didascalia sotto la foto in prima pagina del «Newark News», era stato il primo della fila a stringergli la mano quando Lindbergh era uscito dalla carlinga dello Spirit of Si Louis - fu un motivo di costernazione per tantissimi ebrei della città, tra i quali i miei genitori, non meno delle parole che gli venivano attribuite nella cronaca della breve visita di Lindbergh. «Sono qui - disse il rabbino Bengelsdorf al "News" - per fugare ogni dubbio sulla lealtà degli ebrei americani verso gli Stati Uniti d’America. Offro il mio sostegno alla candidatura del colonnello Lindbergh perché gli obiettivi politici del mio popolo sono identici ai suoi. L’America è la nostra cara patria. L’America è la nostra unica patria. La nostra religione è indipendente da ogni pezzo di terra diverso da questo grande paese, al quale, oggi come sempre, rimettiamo tutta la nostra devozione e tutta la nostra fedeltà come i più fieri dei cittadini. Io voglio che Charles Lindbergh diventi il mio presidente non ad onta del fatto che sono un ebreo, ma perché sono un ebreo: un ebreo americano.» Tre giorni dopo, Bengelsdorf prese parte alla grande manifestazione che si tenne al Madison Square Garden per segnare la fine della tournée volante di Lindbergh. Mancavano due settimane alle elezioni, e anche se il seguito di Lindbergh sembrava essere in aumento tra gli elettori in tutto il Sud tradizionalmente democratico, e si prevedevano lotte serrate negli stati più conservatori del Midwest, i sondaggi nazionali mostravano il presidente in vantaggio nel voto popolare e decisamente in testa nel computo dei voti elettorali. Si diceva che i leader del Partito repubblicano fossero disperati per l’ostinato rifiuto del loro candidato di permettere ad altri di decidere la strategia della sua campagna; e così, per strapparlo alla ripetitiva austerità della sfilza interminabile dei suoi comizi e per avvilupparlo in un’atmosfera più simile a quella della tumultuosa convention di Philadelphia, la manifestazione del Madison Square Garden fu organizzata e radiotrasmessa in tutto il paese la sera del secondo lunedì di ottobre. I quindici oratori che presentarono Lindbergh quella sera furono descritti come «illustri americani di ogni condizione sociale.» Tra loro c’era un agricoltore per parlare dei danni che una guerra avrebbe arrecato all’agricoltura americana, ancora in crisi dalla prima guerra mondiale e dalla Depressione; un leader sindacale per parlare del disastro che una guerra avrebbe rappresentato per i lavoratori americani, le cui vite sarebbero state irreggimentate dagli enti governativi; un imprenditore per parlare delle catastrofiche conseguenze a lungo termine per l’industria americana dell’eccessiva espansione e dell’onerosa tassazione del tempo di guerra; un pastore protestante per parlare dell’effetto disumanizzante della guerra moderna sui giovani
che l’avrebbero fatta; e un prete cattolico per parlare dell’inevitabile deterioramento della vita spirituale di una nazione amante della pace come la nostra e della distruzione delle norme del vivere civile e della bontà a causa dell’odio generato dalla guerra. Infine c’era un rabbino, Lionel Bengelsdorf del New Jersey, che ricevette un’accoglienza particolarmente calorosa dai sostenitori di Lindbergh al completo quando venne il suo turno di salire sul podio, e che era là per dissertare su come l’associazione di Lindbergh con i nazisti era tutt’altro che connivente. - Sì, - disse Alvin, - l’hanno comprato. Il gioco è fatto. Gli hanno messo un anello d’oro a quel nasone da ebreo, e ora possono tirarselo dove vogliono. - Questo non lo sai, - disse mio padre, ma non perché non fosse infuriato dal comportamento di Bengelsdorf. - Ascoltiamolo, - disse ad Alvin, - sentiamo cosa dice. Non ti sembra giusto? - Parole pronunciate in gran parte a beneficio di Sandy e mio, affinché il corso degli avvenimenti, per sorprendente che fosse, non ci sembrasse così terribile come appariva agli adulti. La notte prima io ero caduto dal letto mentre dormivo, cosa che non mi succedeva da quando ero passato dalla culla a un letto normale e per impedirmi di rotolarne fuori i miei genitori avevano messo un paio di sedie di fianco al materasso. Quando fu avanzata automaticamente l’ipotesi che una caduta come quella, dopo tutti questi anni, poteva solo aver avuto a che fare con la presenza di Lindbergh all’aeroporto di Newark, io insistetti che non ricordavo di aver fatto un brutto sogno su Lindbergh, che ricordavo solo di essermi svegliato sul pavimento tra il letto di mio fratello e il mio, anche se sapevo, guarda caso, che praticamente non prendevo più sonno senza pensare ai disegni di Lindbergh nascosti nella cartella di mio fratello. Continuavo a desiderare di chiedere a Sandy se non poteva nasconderli in cantina anziché sotto il letto accanto al mio, ma poiché avevo giurato di non parlare dei disegni con nessuno - e poiché non riuscivo io stesso a separarmi dal mio francobollo di Lindbergh - non osavo sollevare la questione, anche se quei disegni stavano veramente diventando un’ossessione e rendevano inavvicinabile un fratello della cui rassicurazione non avevo mai avuto più bisogno. Era una sera fredda. Il riscaldamento era acceso e le finestre erano chiuse, ma anche senza poterle sentire sapevi che le radio erano accese in tutto l’isolato e che famiglie che altrimenti non avrebbero mai pensato di seguire una manifestazione di Lindbergh si erano sintonizzate a causa della prevista comparsa del rabbino Bengelsdorf. Tra i membri della sua congregazione, qualche persona importante aveva già cominciato a chiedere le sue dimissioni, se non la sua immediata rimozione dal consiglio di amministrazione del tempio, mentre la maggioranza che continuava ad appoggiarlo si sforzava di credere che il rabbino stesse solo esercitando il suo diritto democratico alla libertà di parola e che, anche se erano inorriditi dal suo pubblico avallo di Lindbergh, provare a tacitare una celebre coscienza come la sua non rientrava nei loro diritti. Quella sera il rabbino Bengelsdorf svelò all’America quello che secondo lui era il vero motivo dietro le private missioni di volo di Lindbergh nella Germania degli anni Trenta. «Contrariamente alla propaganda disseminata dai suoi critici, - ci informò il
rabbino, - non una volta visitò la Germania come simpatizzante o sostenitore di Hitler, ma piuttosto viaggiò in ogni momento come consigliere segreto del governo degli Stati Uniti. Lungi dal tradire l’America, come continuano ad accusare gli incauti e i malintenzionati, il colonnello Lindbergh ha contribuito quasi da solo a rafforzare la preparazione militare americana impartendo il suo sapere ai nostri militari e facendo tutto ciò che era in suo potere per promuovere la causa dell’aviazione americana ed espandere le difese aeree dell’America.» - Gesù! - gridò mio padre. - Tutti sanno... - Ssss, - mormorò Alvin, - ssss... Lascia parlare il grande oratore. «Sì, nel 1936, molto tempo prima che iniziassero le ostilità in Europa, i nazisti conferirono una medaglia al colonnello Lindbergh e, sì, - continuò Bengelsdorf, - sì, il colonnello accettò quella medaglia. Ma sfruttando, amici miei, sfruttando segretamente in tutto questo tempo la loro ammirazione per meglio difendere e preservare la nostra democrazia e per conservare con la forza la nostra neutralità.» - Non posso credere... - cominciò mio padre. - Prova, - borbottò malignamente Alvin. «Questa non è la guerra dell’America, - annunciò Bengelsdorf, e la folla del Madison Square Garden rispose con un intero minuto di applausi. - Questa, - disse il rabbino, - è la guerra dell’Europa.» Altri applausi scroscianti. «È solo una di una sequenza di guerre europee lunga mille anni che risale ai tempi di Carlomagno. È la loro seconda guerra devastatrice in meno di mezzo secolo. E chi può dimenticare il tragico costo per l’America della loro ultima grande guerra? Quarantamila americani uccisi in azione. Centonovantaduemila americani feriti. Settantaseimila americani morti di malattia. Trecentocinquantamila americani oggi disabili a causa della loro partecipazione a quella guerra. E quanto astronomico sarà il prezzo questa volta? Il numero dei nostri morti... Mi dica, presidente Roosevelt, sarà semplicemente raddoppiato o triplicato o magari sarà quadruplicato? Mi dica, signor presidente, quale America la ciclopica strage d’innocenti ragazzi americani lascerà nella sua scia? Certo, le angherie e la persecuzione da parte dei nazisti della loro popolazione ebraico-tedesca sono causa di terribile angoscia per me come per ogni ebreo. Durante gli anni in cui studiavo teologia nelle facoltà delle grandi università tedesche, a Heidelberg e a Bonn, là mi sono fatto molti illustri amici, grandi uomini dotti che, oggi, solo perché sono tedeschi di origine ebraica, sono stati allontanati dalle cattedre che occupavano da tanto tempo e ora vengono spietatamente perseguitati dalle canaglie naziste che si sono impossessate della loro patria. Io mi oppongo a questo trattamento con ogni grammo della mia forza, e altrettanto fa il colonnello Lindbergh. Ma questo crudele destino toccato loro nella loro terra come potrà essere alleviato dall’entrata in guerra del nostro grande paese contro i loro torturatori? Caso mai, il dramma di tutti gli ebrei della Germania potrebbe solo peggiorare immensamente: peggiorare, temo, tragicamente. Sì, io sono ebreo, e come ebreo sento le loro sofferenze con un’acutezza familiare. Ma io sono un cittadino americano, amici miei, - di nuovo l’applauso, - sono nato e cresciuto in America, e così vi domando: come diminuirebbe il mio dolore se l’America dovesse entrare in guerra e, insieme ai figli
delle nostre famiglie protestanti e ai figli delle nostre famiglie cattoliche, i figli delle nostre famiglie ebraiche dovessero combattere e morire a decine di migliaia su un campo di battaglia impregnato di sangue europeo? Come diminuirebbe, il mio dolore, se dovessi consolare gli stessi miei fedeli...» Fu mia madre, di solito il membro meno focoso della nostra famiglia, quello che in genere cercava di calmare il resto di noi quando diventavamo troppo esuberanti, che all’improvviso trovò il suono dell’accento meridionale di Bengelsdorf talmente insopportabile da essere costretta a uscire dalla stanza. Ma finché lui non ebbe terminato il suo discorso, e non fu sceso dal palco tra gli applausi scroscianti del pubblico del Garden, nessuno si mosse o disse un’altra parola. Io non ne avevo il coraggio, e mio fratello era occupato - come faceva spesso in quelle circostanze – a schizzare le espressioni che avevamo mentre ascoltavamo la radio. Quello di Alvin era il silenzio del disprezzo più protervo, e mio padre - spogliato forse per la prima volta nella vita di quell’inesauribile passione che metteva nella lotta contro i rovesci e le disillusioni - era troppo agitato per parlare. Un pandemonio. Una gioia indescrivibile. Finalmente Lindbergh era salito sul palco del Garden e mio padre, come un mezzo demente, si alzò con un balzo dal sofà e spense la radio nel preciso istante in cui mia madre tornava nel soggiorno chiedendo: - Volete qualcosa?.. Alvin, - disse, con le lacrime agli occhi, - una tazza di tè? Tenere insieme il nostro mondo il più tranquillamente e giudiziosamente possibile, questo era il suo compito; era questo che dava pienezza alla sua vita ed era questo che stava cercando di fare; eppure nessuno di noi l’aveva mai vista così messa in ridicolo da questa banale ambizione materna. - Che diavolo sta succedendosi ? mise a gridare mio padre. – Perché diavolo ha fatto questo? Quello stupido discorso! Cosa crede, che ora un solo ebreo vada a votare per questo antisemita grazie a quel discorso stupido e menzognero? Ha perso completamente la testa? Cosa crede di fare, quest’uomo? - Servire Lindbergh in salsa kosher, - disse Alvin. – Renderlo accettabile ai goyim. - Ai goyim? - disse mio padre, esasperato da quello che sembrava un sarcastico controsenso di Alvin in un momento di così grande confusione. - Cosa? - Non lo hanno fatto salire su quel palco perché parlasse agli ebrei. Non lo hanno comprato per questo. Non capisci? - chiese Alvin, infiammato da quella che credeva l’implicita verità. - È là che parla ai cristiani, lui: sta dando ai cristiani di tutto il paese il permesso del suo rabbino personale di votare per Lindy il giorno delle elezioni. Non capisci, zio Herman, cos’hanno fatto fare al grande Bengelsdorf? Ha appena assicurato la sconfitta di Roosevelt! Quella notte verso le due, mentre dormivo della grossa, rotolai nuovamente fuori dal letto, ma questa volta mi ricordavo, dopo, cosa stavo sognando prima di cadere sul pavimento. Era un incubo coi fiocchi, e riguardava la mia raccolta di francobolli. Era successo qualcosa. Il disegno su due serie di francobolli era orribilmente cambiato senza che io sapessi quando o come. Nel sogno, avevo tirato fuori l’album
dal cassetto del comò per portarlo dal mio amico Earl e stavo camminando con l’album verso casa sua come avevo già fatto dozzine di volte. Earl Axman aveva dieci anni e faceva la quinta. Abitava con la madre nel nuovo condominio giallo in muratura di tre piani costruito tre anni prima sulla grande area fabbricabile vicina all’angolo tra Chancellor e Summit, in diagonale rispetto alla scuola elementare. Prima aveva abitato a New York. Suo padre era un musicista della Casa Loma Orchestra di Glen Gray: Sy Axman, che suonava il sassofono tenore accanto all’alto di Glen Gray. Il signor Axman aveva divorziato dalla madre di Earl, una bionda bella e teatrale che per breve tempo aveva fatto la cantante con la band prima della nascita di Earl e che, stando ai miei genitori, era originaria di Newark ed era bruna, un’ebrea di nome Louise Swig che si era trasferita nel South Side ed era diventata famosa localmente nelle riviste musicali dell’Ymha. Fra tutti i ragazzi che conoscevo, Earl era l’unico figlio di genitori divorziati, e l’unico la cui madre si truccasse pesantemente e portasse camicette che le scoprivano le spalle e gonfie sottane plissettate che nascondevano grandi sottovesti. Quando era con Glen Gray aveva anche registrato un disco della canzone Gotta Be This or That, e Earl me lo faceva ascoltare spesso. Non ho mai conosciuto un’altra madre come lei. Earl non la chiamava «mamma»: la chiamava, scandalosamente, Louise. In camera da letto Louise aveva un armadio pieno di quelle sottovesti, e quando Earl e io eravamo soli in casa, lui me le faceva vedere. Un giorno me ne lasciò persino toccare una, mormorando, mentre io aspettavo di decidere se farlo: «Dove vuoi.» Poi apri un cassetto e mi mostrò i suoi reggiseni e si offri di lasciarmene toccare uno, ma questa volta declinai l’invito. Ero ancora abbastanza piccolo per ammirare un reggiseno da lontano. I suoi genitori gli davano un dollaro la settimana da spendere in francobolli, e quando la Casa Loma Orchestra non suonava a New York ed era in tournée, il signor Axman spediva a Earl per posta aerea buste con i timbri delle città più diverse. Ce n’era persino una arrivata da «Honolulu, Oahu», dove Earl, che tendeva a conferire al padre assente un’aura di splendore - come se per il figlio di un assicuratore avere come padre il sassofonista di una celebre swing band (e come madre una cantante bionda ossigenata) non fosse abbastanza strabiliante -, sosteneva che il signor Axman era stato condotto in una «casa privata» a vedere il francobollo hawaiano da due cent «Missionary» annullato del 1851, emesso quarantasette anni prima che le Hawaii fossero annesse agli Stati Uniti come territorio, un incredibile tesoro valutato centomila dollari il cui disegno centrale era semplicemente il numero 2. Earl possedeva la migliore collezione di francobolli del quartiere. Mi insegnò tutto ciò che di pratico e di esoterico imparai da bambino sui francobolli - sulla loro storia, sui pregi e sui difetti del collezionismo del nuovo e dell’usato, su cose tecniche come la carta, la stampa, il colore, la gomma, le sovrastampe, le stampigliature e le emissioni speciali, sui grandi falsi e sugli errori nei disegni - e, da quel prodigioso pedante che era, aveva cominciato la mia educazione parlandomi del collezionista francese Monsieur Herpin, colui che coniò la parola «filatelia», spiegandone la derivazione da due parole greche, la seconda delle quali, ateleia, che significava
esenzione dalle tasse, non ebbe mai senso per me. E ogni volta che in cucina avevamo finito con i francobolli e lui aveva smesso temporaneamente di spadroneggiare, ridacchiava e diceva: «E adesso facciamo qualcosa di terribile», che fu il modo in cui arrivai a vedere la biancheria di sua madre. Nel sogno stavo andando da Earl con l’album dei francobolli incollato al petto quando qualcuno urlava il mio nome e cominciava a darmi la caccia. Mi gettavo in un vialetto e mi infilavo in uno dei garage a nascondermi e a controllare l’album per vedere se qualche francobollo si era staccato dalle linguelle quando, mentre fuggivo davanti al mio inseguitore, inciampavo e lasciavo cadere l’album proprio nel punto del marciapiede dove giocavamo regolarmente a «Dichiaro guerra.» Quando aprivo l’album al Bicentenario di Washington del 1932 – dodici francobolli il cui valore andava dal mezzo cent marrone scuro al dieci cent giallo rimanevo sbalordito. Sui francobolli Washington non c’era più. Immutata in cima a ogni francobollo - stampata in quelli che avevo imparato a riconoscere come caratteri romani chiari e spazieggiati su una o due righe - c’era la scritta «United States Postage.» Anche i colori dei francobolli erano immutati - quello da due cent rosso, quello da cinque cent blu, quello da otto cent verde oliva, e così via -, tutti i francobolli avevano le stesse dimensioni regolamentari e le cornici dei ritratti erano disegnate una per una come nella serie originaria, ma invece di un diverso ritratto di Washington per ciascuno dei dodici francobolli, ora i ritratti erano tutti uguali e non più di Washington, ma di Hitler. E anche sul nastro sotto ogni ritratto non c’era più il nome «Washington.» Che il nastro fosse piegato all’ingiù come nel francobollo da mezzo cent e da sei, o piegato all’insù come in quello da quattro, da cinque, da sette e da dieci, o diritto con i capi sollevati come in quello da uno, uno e mezzo, due, tre, otto e nove, il nome scritto sul nastro era «Hitler.» Fu quando guardai, subito dopo, la pagina opposta dell’album per vedere cos’era successo, se era successo qualcosa, ai miei dieci francobolli della serie dei parchi nazionali del 1934 che caddi dal letto e mi svegliai sul pavimento, questa volta urlando. Yosemite in California, Grand Canyon in Arizona, Mesa Verde in Colorado, Crater Lake nell’Oregon, Acadia nel Maine, Mount Rainier nello stato di Washington, Yellowstone nel Wyoming, Zion nello Utah, Glacier nel Montana, le Great Smoky Mountains nel Tennessee: e sulla faccia di ognuno di essi, sulle rupi, sui boschi, sui fiumi, sulle cime, sui geyser, sui burroni, sulle coste di granito, sulle acque profonde e sulle grandi cascate, su quanto di più verde, bianco e blu ci fosse in America, da conservare per sempre in queste riserve incorrotte, era stampata una svastica nera.
CAPITOLO 2 Novembre 1940 - giugno 1941 Fanfarone ebreo Nel giugno 1941, sei mesi giusti dopo l’insediamento di Lindbergh, la nostra famiglia fece le trecento miglia fino a Washington, D.C., per visitare i luoghi storici e i famosi palazzi del governo. Per quasi due anni mia madre aveva risparmiato e messo i soldi in un conto Christmas Club della Howard Savings Bank, un dollaro la settimana sottratto al bilancio familiare per coprire il grosso delle probabili spese di viaggio. La gita era stata programmata quando FDR era al secondo mandato della sua presidenza e i democratici controllavano i due rami del Parlamento, ma ora, con i repubblicani al potere e il nuovo ospite della Casa Bianca considerato un nemico e un traditore, in famiglia ci fu una breve discussione: perché invece non andare al Nord, a vedere le cascate del Niagara, e prendere la barca per fare la crociera, sotto gli impermeabili di tela cerata, attraverso le Mille Isole della St Lawrence Seaway, e poi passare in Canada con la macchina per visitare Ottawa? Alcuni dei nostri amici e vicini avevano già cominciato a parlare di lasciare il paese ed emigrare in Canada, se l’amministrazione Lindbergh si fosse schierata apertamente contro gli ebrei, e così una gita in Canada ci avrebbe anche familiarizzato con un potenziale rifugio dalle persecuzioni. In febbraio mio cugino Alvin era già partito per il Canada per arruolarsi nelle forze armate canadesi, proprio come diceva che avrebbe fatto, e per combattere al fianco degli inglesi contro Hitler. Fino alla sua partenza, Alvin era stato per quasi sette anni sotto tutela della mia famiglia. Il suo defunto padre era il fratello maggiore del mio; morì quando Alvin aveva sei anni, e la madre di Alvin – una cugina di secondo grado di mia madre, e quella che aveva fatto incontrare i miei genitori - morì quando Alvin aveva tredici anni; così lui era venuto a stare con noi durante i quattro anni in cui aveva frequentato il liceo di Weequahic, quando era un ragazzo sveglio che giocava d’azzardo e rubava e che mio padre era deciso a salvare. Nel 1940 Alvin aveva ventun’anni, affittava una camera ammobiliata sopra un salone di lustrascarpe di Wright Street dietro l’angolo venendo dal mercato ortofrutticolo, e da quasi due anni lavorava per Steinheim & Sons, una delle due più grosse imprese edili ebraiche della città: l’altra era diretta dai fratelli Rachlin. Alvin trovò quel posto tramite il vecchio Steinheim, il fondatore dell’impresa, che era un cliente della società di assicurazioni di mio padre. Il vecchio Steinheim, che aveva un marcato accento straniero e non sapeva leggere l’inglese ma che era, per usare le parole di mio padre, «un uomo d’acciaio», assisteva ancora alle funzioni delle feste maggiori nella nostra sinagoga locale. A uno Yom Kippur di parecchi anni prima, quando il vecchio vide mio padre davanti alla sinagoga con Alvin, scambiò mio cugino per mio fratello e chiese: «Cosa fa questo ragazzo? Lascia che venga a lavorare per noi.» Così Abe Steinheim, che aveva trasformato la piccola impresa di costruzioni di suo padre immigrato in un affare da
molti milioni di dollari - anche se solo dopo che un grosso scontro familiare aveva estromesso i suoi due fratelli -, prese in simpatia il solido e robusto Alvin e il modo spavaldo che aveva di comportarsi, e invece di metterlo nell’ufficio spedizioni o di usarlo come fattorino, lo nominò suo autista: per sbrigare commissioni, consegnare messaggi, portarlo avanti e indietro dai cantieri per controllare il lavoro dei subappaltatori (che Abe chiamava «gli imbroglioni», anche se era lui, diceva Alvin, che li imbrogliava e approfittava di tutti). D’estate, il sabato, Alvin lo accompagnava a Freehold, dove Abe aveva una mezza dozzina di trottatori che faceva correre sulla vecchia pista dell’ippodromo, cavalli che amava chiamare «polpette»5. «Abbiamo una polpetta che corre oggi a Freehold», e via che scappavano sulla Cadillac a veder perdere il suo cavallo, ogni volta. Non gli fecero mai vincere un centesimo, ma l’idea non era quella. Abe li faceva correre il sabato per la Road Horse Association sulla bella pista per il trotto di Weequahic Park, e parlava con i giornali della propria intenzione di restaurare la pista per le corse piane di Mount Holly, i cui giorni di gloria erano passati da un pezzo, e fu in questo modo che Abe Steinheim riuscì a diventare sovrintendente all’ippica per lo stato del New Jersey e ad applicare alla macchina un distintivo che gli permetteva di salire sul marciapiede, azionare una sirena e parcheggiare dappertutto. E fu così che diventò amico dei funzionari della Monmouth County e s’intrufolò nella cerchia degli amanti dell’ippica della costa: cristiani di Wall Township e Spring Lake che lo invitavano a pranzo nei loro club eleganti dove, come Abe diceva ad Alvin, «Tutti mi vedono e non fanno altro che mormorare, non si trattengono dal mormorare: "Guarda cosa abbiamo qui", ma non gli spiace bere i miei liquori e farsi offrire un bel pranzo, perciò a conti fatti ne vale la pena.» Teneva la barca da pesca d’altura ormeggiata nella Shark River Inlet e li portava in giro e li riempiva di liquori e ingaggiava dei ragazzi perché pescassero al posto loro, sicché ogni volta che veniva costruito un nuovo albergo in un punto qualsiasi tra Long Branch e Point Pleasant, era su un terreno che gli Steinheim avevano avuto quasi per niente: perché Abe, come suo padre, aveva la grande accortezza di comprare le cose solo sottoprezzo. Ogni tre giorni Alvin gli faceva attraversare i quattro isolati dall’ufficio al 744 di Broad Street per una veloce spuntatina nel salone di barbiere della hall dietro la tabaccheria, dove Abe Steinheim comprava i suoi profilattici Trojan e i suoi sigari da un dollaro e cinquanta. Ora, il 744 di Broad era uno dei due palazzi per uffici più alti dello stato, dove la National Newark and Essex Bank occupava gli ultimi venti piani e gli avvocati e i finanzieri più prestigiosi della città occupavano il resto e dove gli uomini più ricchi del New Jersey frequentavano regolarmente il salone di barbiere: e tuttavia una parte del lavoro di Alvin consisteva nel telefonare qualche minuto prima per dire al barbiere di prepararsi, perché Abe stava arrivando, e di buttar fuori chi occupava la poltrona, chiunque fosse. A cena, la sera che Alvin ebbe il posto, mio padre ci disse che Abe Steinheim era il più pittoresco, il più elettrizzante, il più grande costruttore che Newark avesse mai visto. - È un genio, - disse mio padre. 5
Hamburger; nel gergo della boxe, pugile con molte cicatrici e poche vittorie [N. d. T.]
Non è arrivato dov’è senza essere un genio. Brillante. È anche un bell’uomo. Biondo. Robusto, ma non grasso. Sempre elegante. Paltò di cammello. Scarpe bianche e nere. Belle camicie. Impeccabilmente vestito. E una bella moglie: fine, di classe, una Freilich di nascita, una Freilich di New York, una donna già molto ricca per conto suo. Abe è un gran furbone. E ha fegato. Chiedetelo a chiunque, a Newark: il progetto più rischioso, e Steinheim non si tira indietro. Costruisce dove nessun altro se la sentirebbe. Alvin imparerà da lui. Lo terrà d’occhio e vedrà cosa vuol dire lavorare ventiquattr’ore al giorno per qualcosa di tuo. Potrebbe essere un’importante ispirazione nella vita di Alvin. In gran parte perché mio padre potesse controllarlo e mia madre potesse sapere che non campava di soli hotdog, Alvin veniva a casa nostra un paio di volte la settimana a consumare un buon pasto, e miracolosamente, invece di ricevere ogni sera intorno al tavolo della sala da pranzo severe lezioni sull’onestà e la responsabilità e il duro lavoro – come quando lo avevano sorpreso con la mano nel cassetto alla stazione di servizio della Esso dove lavorava dopo la scuola e, finché mio padre non riuscì a convincere Simkowitz, il padrone, a ritirare la denuncia e ad accettare un risarcimento, sembrava avviato al riformatorio di Rahway -, Alvin discuteva accanitamente con mio padre di politica, e in particolare del capitalismo, sistema che, da quando mio padre lo aveva convinto a leggere il giornale e a interessarsi di ciò che succedeva, Alvin deplorava e mio padre difendeva, ragionando pazientemente con quel nipote riabilitato, e non da iscritto all’Associazione nazionale degli industriali, ma da adepto del New Deal rooseveltiano. Ammoniva Alvin: «Non parlare al signor Steinheim di Karl Marx. Perché quello non esiterà: ti troverai col culo per terra. Impara da lui. È per questo che sei là. Impara da lui e cerca di essere rispettoso, e questa potrebbe essere l’occasione della tua vita.» Ma Alvin non lo sopportava, Steinheim, e non faceva che svillaneggiarlo: è un imbroglione, è un bullo, è uno spilorcio, è un gradasso, è uno sbruffone, è un truffatore, è un uomo senza un amico al mondo, la gente non sopporta di trovarselo vicino, e io, diceva Alvin, devo portarlo in giro in macchina. È crudele con i figli, i nipoti non gli interessa neanche vederli, e quello stecco di sua moglie, che non osa mai dire o fare nulla che possa dispiacergli, la umilia ogni volta che gli salta il ticchio. Tutti i membri della famiglia devono vivere in appartamenti dello stesso palazzo di lusso costruito da Abe in una strada di grandi querce e aceri vicino all’Upsala College di East Orange: dall’alba al tramonto i figli lavorano per lui a Newark e lui li sgrida e se la prende con loro, poi la sera li chiama al citofono a East Orange ed è ancora là che urla e si arrabbia. Il denaro è tutto, non per comprare cose, però, ma per essere sempre in grado di superare la tempesta: per difendere la sua posizione e tutelare le sue proprietà e comprare sottoprezzo tutto quello che vuole in campo immobiliare, che è come ha fatto i soldi dopo il Grande Crollo. Soldi, soldi, soldi: essere in mezzo al caos e in mezzo agli affari e guadagnare soldi a palate. - Un tale va in pensione a quarantacinque anni con cinque milioni di dollari. Cinque milioni in banca, che è come dire un fantastilione, e sapete cosa dice Abe? Alvin lo sta chiedendo a noi due, a mio fratello dodicenne e a me. La cena è finita e
lui è con noi nella nostra camera da letto: tutti senza scarpe e distesi sopra le coperte, Sandy sul suo letto, Alvin sul mio e io di fianco a lui, nello spazio tra il suo braccio e il busto, braccio e busto da lottatore. Ed è un piacere unico: storie sull’avarizia di quell’uomo, sul suo zelo, sulla sua sconfinata vitalità e sulla sua incredibile arroganza, e a narrare queste storie un cugino sfrenato come lui, anche dopo tutto il lavoro educativo di mio padre, un cugino affascinante che però emotivamente è ancora il più immaturo degli immaturi, che a ventun’anni deve già radersi la barba nera due volte al giorno per non sembrare un criminale incallito. Storie dei nipoti carnivori dei giganteschi scimmioni che un tempo abitavano le antiche foreste e che sono scesi dagli alberi, dove masticavano le foglie per tutta la giornata, per venire a Newark a lavorare in centro. - Cosa dice il signor Steinheim? - gli chiede Sandy. - Dice: «Quell’uomo ha cinque milioni. Non ha altro. è ancora giovane e nel fiore degli anni, con la possibilità, un giorno, di avere cinquanta, sessanta, forse anche cento milioni, e mi fa: "Io chiudo bottega. Non sono come te, Abe. Io non aspetto che mi venga un infarto. Ne ho abbastanza per smettere e passare il resto della mia vita a giocare a golf".» E Abe cosa dice? «Quest’uomo è un perfetto idiota.» A ogni subappaltatore, quando viene in ufficio il venerdì a prendere il denaro per il legname, il vetro, i mattoni, Abe dice: «Guarda, non abbiamo più soldi, questo è il meglio che posso fare», e lo paga la metà, un terzo - un quarto, se può - e queste persone hanno bisogno dei soldi per sopravvivere, ma questo è il metodo che Abe ha imparato da suo padre. Costruisce tante di quelle case che riesce a farla franca e nessuno cerca di ammazzarlo. - Qualcuno vorrebbe provare ad ammazzarlo? - Sandy. - Sì, - dice Alvin, - io. - Raccontaci dell’anniversario del matrimonio, - dico io. L’anniversario del matrimonio, - ripete. - Sì, ha cantato cinquanta canzoni. Ingaggia un pianista, - ci racconta Alvin, proprio nel modo in cui racconta la storia di Abe al piano ogni volta che chiedo di sentirla, - e nessuno riesce a interromperlo, nessuno sa cosa sta succedendo, gli invitati passano tutta la sera mangiando la sua roba, e lui è là in smoking vicino al piano a cantare una canzone dopo l’altra, e quando se ne vanno è sempre là, sempre a cantare, tutte le canzoni di successo che potresti immaginare, e quando vanno a salutarlo non li ascolta nemmeno. - Ti sgrida? Alza la voce con te? - chiedo ad Alvin - Con me? Con tutti. Quello alza la voce ovunque vada. La domenica mattina lo porto da Tabatchnick. La gente fa la coda per comprare ciambelle e salmone affumicato. Entriamo, e lui si mette a urlare, e c’è una coda di seicento persone, ma lui si mette a urlare: «È arrivato Abe!», e lo fanno Passare al primo posto. Tabatchnick arriva di corsa dal retrobottega, spintonano via tutti, e Abe deve ordinare cinquemila dollari di roba, e torniamo a casa e là c’è la signora Steinheim, che pesa quarantacinque chili e sa quando è ora di togliersi dai piedi, e lui telefona ai tre figli e quelli arrivano in cinque secondi netti, e in quattro consumano un pasto per quattrocento persone. L’unica cosa per cui spende è il cibo. Roba da mangiare e sigari. Parlagli di Tabatchnick, di Kartzman, e a lui non
importa chi c’è, quante persone... Va là e compra tutto il negozio. Ogni domenica mattina mangiano fino all’ultima fetta di tutto quello che c’è, storione, aringa, merluzzo, ciambelle, sottaceti, poi lo porto all’ufficio affitti a vedere quanti appartamenti sono vuoti, quanti sono affittati, quanti sono in via di sistemazione. Sette giorni la settimana. Non si ferma mai. Non va mai in vacanza. No manana, ecco il suo slogan. Va su tutte le furie se qualcuno perde un minuto di lavoro. Non può andare a dormire se non sa che il giorno dopo ci saranno altri affari che gli frutteranno altro denaro, e tutta questa storia mi fa vomitare. Quell’uomo per me è solo una cosa: una réclame vivente per l’abbattimento del capitalismo. Mio padre chiamava le lamentele di Alvin «bambinate», cose che quando lavorava avrebbe dovuto tenere per sé, specie dopo che Abe ebbe deciso di mandarlo alla Rutgers. Sei troppo intelligente, diceva Abe ad Alvin, per essere così stupido, e poi accadde una cosa che andava oltre qualunque cosa mio padre avrebbe potuto realisticamente sperare. Abe telefona al presidente della Rutgers e si mette a urlare anche con lui. «Tu lo prenderai, questo ragazzo, com’è andato al liceo non è il problema, questo ragazzo è orfano, potenzialmente un genio, tu gli darai una bella borsa e io ti costruirò una sede per il college, la più bella del mondo... Ma non tiro su neanche una latrina se quest’orfano non va alla Rutgers con tutte le spese pagate!» Ad Alvin spiega: «Non mi è mai piaciuto avere un vero autista che era un autista che era un idiota. Mi piacciono i ragazzi come te che hanno qualcosa dentro. Tu andrai alla Rutgers, e tornerai a casa e mi farai da autista d’estate, e quando sarai laureato con tanto di Phi Beta Kappa, allora noi due ci siederemo in qualche posto a chiacchierare.» Abe avrebbe voluto che Alvin cominciasse come matricola a New Brunswick nel settembre 1941 e che, dopo quattro anni di università, tornasse come uno già in affari, ma invece, in febbraio, Alvin partì per il Canada. Mio padre era furioso. Discussero per settimane prima che finalmente, senza dircelo, Alvin prendesse il treno espresso che dalla Penn Station di Newark andava direttamente a Montreal. - Non capisco la tua morale, zio Herman. Tu non vuoi che faccia il ladro, ma ti va bene se lavoro con un ladro. - Steinheim non è un ladro. Steinheim è un costruttore. Quello che fa lui è quello che fanno tutti, - diceva mio padre, - quello che devono fare tutti perché l’edilizia è un lavoro da tagliagole. Ma le sue costruzioni mica crollano, eh? Viola forse la legge, eh, Alvin? - No, fotte solo il lavoratore ogni volta che ne ha l’occasione. Non sapevo che la tua morale accettasse anche questo. - La mia morale fa schifo, - diceva mio padre, - tutti in questa città conoscono la mia morale. Ma il problema non sono io. È il tuo avvenire. E andare all’università. Quattro anni d’istruzione a livello universitario, gratis. – Gratis perché lui intimidisce il presidente della Rutgers come intimidisce il mondo intero. - Lascia che di questo si preoccupi il presidente della Rutgers! Si può sapere che cos’hai? Vuoi startene davvero lì seduto a dirmi che il peggior essere umano che sia mai venuto al mondo è l’uomo che vuol fare di te una persona istruita e trovarti un posto nella sua impresa di costruzioni? - No, no, il peggior essere umano che sia mai
venuto al mondo è Hitler, e francamente preferirei combattere quel figlio di puttana piuttosto che perdere il mio tempo con un ebreo come Steinheim, che può solo disonorare il resto di noi ebrei con il suo cazzo di... - Oh, non parlare come un bambino... E guarda che posso benissimo fare a meno dei tuoi «cazzi.» Quell’uomo non disonora nessuno. Cosa credi, che se tu lavorassi per un costruttore irlandese sarebbe meglio? Prova: va’ a lavorare per Shanley, vedrai che uomo simpatico è. E gli italiani, credi che sarebbero meglio? Steinheim spara con la bocca... Gli italiani sparano con le pistole. - E Longy Zwillman non spara con la pistola? - Per piacere, so tutto di Longy: sono cresciuto nella stessa strada. Cosa c’entra tutto questo con la Rutgers? - C’entra con me, zio Herman, e con l’essere debitore di Steinheim per il resto della vita. Non basta che Steinheim abbia tre figli che sta già distruggendo? Non basta che debbano celebrare ogni festa ebraica con lui e ogni Ringraziamento con lui e ogni Capodanno con lui?.. Devo esserci anch’io perché possa gridare anche con me? Tutti che lavorano nello stesso ufficio e che abitano nella stessa casa e che aspettano solo una cosa: di spartirsi ogni bene quando morirà. Ti posso assicurare, zio Herman, che il loro dolore non durerà a lungo. - Ti sbagli. Hai torto marcio. Per queste persone c’è qualcosa che conta più dei soldi. – Ti sbagli tu. Lui li tiene in pugno con i soldi! Quell’uomo è completamente pazzo, e loro restano e incassano per paura di perdere i soldi! - Restano perché sono una famiglia. Tutte le famiglie sopportano tante cose. Una famiglia è la pace e la guerra. Noi stessi in questo momento stiamo affrontando una piccola guerra. Lo capisco. Lo accetto. Ma non è una ragione per rinunciare all’università che non hai fatto e che ora puoi fare e per correre invece prematuramente a batterti contro Hitler. - E così, - disse Alvin, come se finalmente avesse smascherato non soltanto il suo datore di lavoro ma anche il suo protettore familiare, - sei un isolazionista, in conclusione. Tu e Bengelsdorf. Bengelsdorf, Steinheim... Fanno proprio una bella coppia. - Di che? – chiese acidamente mio padre, che aveva ormai esaurito la pazienza. – Di imbroglioni ebrei. - Oh, - disse mio padre, - adesso anche contro gli ebrei? - Quegli ebrei. Gli ebrei che sono una vergogna per gli ebrei... Sì, assolutamente! La discussione andò avanti per quattro sere consecutive e poi, la quinta, un venerdì, Alvin non si presentò per la cena, anche se l’idea era stata di farlo venire regolarmente a mangiare con noi finché mio padre non avesse fiaccato la sua resistenza e il ragazzo non fosse rinsavito: il ragazzo che mio padre, da solo, aveva cambiato, da quell’imberbe fannullone che era, nella coscienza della famiglia. La mattina dopo venimmo a sapere da Billy Steinheim, che era il più vicino ad Alvin dei figli di Abe e tanto preoccupato da telefonarci subito di sabato, che dopo aver ricevuto la busta paga del venerdì Alvin aveva gettato le chiavi della Cadillac in faccia al padre di Billy e se n’era andato, e quando mio padre saltò in macchina e corse in Wright Street per parlare con Alvin nella sua stanza e farsi raccontare tutta la storia e valutare quanti danni Alvin aveva fatto alle sue chance, il proprietario del salone di lustrascarpe, che era il padrone di casa di Alvin, gli disse che l’inquilino aveva pagato l’affitto e fatto le valigie e che era partito per combattere contro il
peggior essere umano che fosse mai venuto al mondo. Data la grandezza della rabbia che ribolliva nell’animo di Alvin, un uomo meno iniquo non sarebbe bastato. Le elezioni di novembre non erano neanche state vinte di misura. Lindbergh ottenne il cinquantasette per cento del voto popolare, e con un grande successo elettorale si aggiudicò quarantasei stati, perdendo solo lo stato natio di FDR, New York, e per appena duemila voti il Maryland, dove la vasta popolazione di impiegati federali aveva votato prevalentemente per Roosevelt, mentre il presidente era riuscito a conservare - come non aveva fatto in nessun altro posto sotto la linea MasonDixon6 - la fedeltà di quasi metà del vecchio collegio elettorale dei democratici. Anche se la mattina dopo le elezioni prevaleva l’incredulità, specie tra gli esperti di sondaggi, entro il giorno seguente tutti parvero comprendere ogni cosa, e i commentatori radiofonici e i columnist dei giornali interpretarono l’avvenimento come se la sconfitta di Roosevelt fosse stata preordinata. Ciò che era successo, spiegarono, era che gli americani si erano dimostrati poco propensi a rompere la tradizione dei due mandati presidenziali che George Washington aveva istituito e che nessun presidente prima di Roosevelt aveva osato sfidare. Inoltre, nella scia della Depressione, la rinascente fiducia dei giovani e dei vecchi era stata ravvivata dall’età relativamente giovane di Lindbergh e dal gradevole atletismo che contrastava così nettamente con i gravi impedimenti fisici con i quali FDR era alle prese come vittima della poliomielite. E c’erano la meraviglia dell’aviazione e il nuovo modo di vivere che essa prometteva: Lindbergh, già recordman e maestro dei voli su lunga distanza, poteva guidare intelligentemente i suoi concittadini nell’ignoto del futuro aeronautico mentre assicurava loro, col suo contegno rigido e all’antica, che le moderne conquiste tecniche non dovevano erodere i valori del passato. Era saltato fuori, concludevano gli esperti, che gli americani del ventesimo secolo, stanchi di affrontare una nuova crisi ogni decennio, erano affamati di normalità, e quella rappresentata da Charles A. Lindbergh era la normalità elevata a proporzioni eroiche, un uomo perbene con una faccia onesta e una voce comune che aveva clamorosamente mostrato all’intero pianeta il coraggio di assumere il comando e la forza di fare la storia e, naturalmente, la capacità di trascendere una tragedia personale. Se Lindbergh prometteva che non ci sarebbe stata la guerra, non ci sarebbe stata la guerra: per la grande maggioranza del paese era la cosa più semplice del mondo. Anche peggio delle elezioni furono per noi le settimane successive all’insediamento, quando il nuovo presidente americano si recò in Islanda per incontrarsi personalmente con Adolf Hitler e dopo due giorni di «cordiali» conversazioni firmò un’«intesa» che garantiva pacifiche relazioni tra la Germania e gli Stati Uniti. Ci furono dimostrazioni contro l’Intesa d’Islanda in una dozzina di città americane, e discorsi appassionati alla Camera e al Senato da parte dei congressisti democratici che erano scampati alla schiacciante vittoria elettorale repubblicana e che condannavano Lindbergh per aver trattato da pari a pari con un feroce tiranno fascista e per aver accettato come luogo d’incontro un regno insulare la 6
La linea ideale che divide il Nord dal Sud degli Stati Uniti [N.d.T.]
cui fedeltà storica era a una monarchia costituzionale di cui i nazisti avevano già ottenuto la conquista: una tragedia nazionale per la Danimarca, chiaramente deplorevole per il popolo e il suo re, ma che la visita di Lindbergh a Reykjavik sembrò tacitamente condonare. Quando il presidente tornò a Washington dall’Islanda - con una formazione di dieci grossi aerei da ricognizione della marina di scorta al nuovo bimotore Lockheed Interceptor che pilotava personalmente – il suo discorso alla nazione non superò le cinque frasi. «Abbiamo ora la garanzia che questo grande paese non prenderà parte alla guerra in Europa.» Così cominciava lo storico messaggio, e così veniva elaborato e concludeva: «Noi non ci alleeremo con nessuno dei paesi belligeranti del globo. Al tempo stesso continueremo ad armare l’America e ad addestrare i nostri giovani delle forze armate all’uso della più avanzata tecnologia militare. La chiave della nostra invulnerabilità è lo sviluppo dell’aviazione americana, compresa la tecnologia dei razzi. Questo renderà i nostri confini continentali inaccessibili agli attacchi dall’esterno, anche mantenendo la più rigida neutralità.» Dieci giorni dopo, a Honolulu, il presidente firmò l’Intesa delle Hawaii col principe Fumimaro Konoye, primo ministro del governo imperiale giapponese, e col ministro degli Esteri Matsuoka. Come emissari dell’imperatore Hirohito, i due avevano già firmato una triplice alleanza con i tedeschi e gli italiani a Berlino nel settembre 1940, con i giapponesi che avallavano il «nuovo ordine europeo» stabilito sotto la leadership dell’Italia e della Germania, le quali a loro volta avallavano il «nuovo ordine in Asia Orientale» stabilito dal Giappone. I tre paesi si obbligavano inoltre ad appoggiarsi militarmente caso mai uno di essi fosse attaccato da una nazione non impegnata nella guerra europea o cino-giapponese. Come l’Intesa d’Islanda, l’Intesa delle Hawaii portò gli Stati Uniti a far parte, di fatto se non di nome, della triplice alleanza dell’Asse, estendendo il riconoscimento americano alla sovranità del Giappone in Asia Orientale e garantendo che gli Stati Uniti non si sarebbero opposti all’espansione giapponese nel continente asiatico, compresa l’annessione delle Indie olandesi e dell’Indocina francese. Il Giappone si impegnava a riconoscere la sovranità americana sul proprio continente, a rispettare l’indipendenza politica del commonwealth americano delle Filippine - che doveva entrare in vigore nel 1946 - e ad accettare i territori americani delle Hawaii, di Guam e di Midway come possedimenti americani permanenti nel Pacifico. Sulla scia delle due intese, dappertutto gli americani andarono in giro a proclamare: Niente guerra, i giovani americani non combatteranno e non moriranno mai più! Lindbergh può trattare con Hitler, dicevano, Hitler lo rispetta perché è Lindbergh. Mussolini e Hirohito lo rispettano perché è Lindbergh. Gli unici contro di lui, diceva la gente, sono gli ebrei. E questo in America era sicuramente vero. Gli ebrei non potevano fare altro che preoccuparsi. Per la strada i nostri anziani si chiedevano continuamente cosa ci avrebbero fatto, e su chi potevamo contare per difenderci e in che modo potevamo difendere noi stessi. I ragazzi più piccoli come me tornavano a casa da scuola impauriti e sgomenti, e anche in lacrime per ciò che i ragazzi più grandi si erano detti tra loro su quello che Lindbergh aveva detto di noi a
Hitler e su quello che Hitler aveva detto di noi a Lindbergh mentre mangiavano insieme in Islanda. Una delle ragioni per cui i miei genitori decisero di non annullare il nostro vecchio progetto di visitare Washington era convincere Sandy e me - ci credessero o meno loro stessi - che nulla era cambiato tranne il fatto che FDR non era più in carica. L’America non era un paese fascista e non lo sarebbe mai stato, checché avesse strologato Alvin. C’erano un nuovo presidente e un nuovo Congresso, tuttavia ciascuno dei due doveva attenersi alla legge fissata nella costituzione. Erano repubblicani, erano isolazionisti e tra loro, sì, c’erano degli antisemiti - come ce n’erano, in verità, anche tra i democratici del Sud - ma da lì a dire che erano nazisti ce ne correva. Inoltre, bastava ascoltare la domenica sera Winchell che si scagliava contro il nuovo presidente e «il suo amico Joe Goebbels» o sentirlo elencare le località prese in considerazione dal ministero degli Interni per costruirvi dei campi di concentramento - località situate perlopiù nel Montana, lo stato natio del vicepresidente di «unità nazionale» di Lindbergh, l’isolazionista democratico Burton K. Wheeler - per essere sicuri del fervore con cui la nuova amministrazione veniva tenuta sotto controllo dai reporter preferiti di mio padre, come Winchell e Dorothy Thompson e Quentin Reynolds e William L. Shirer, e naturalmente dalla redazione di «PM.» Anch’io, a questo punto, aspettavo il mio turno per leggere «PM», quando mio padre lo portava a casa, la sera, e non soltanto per la striscia di fumetti di Barnaby o per sfogliare le pagine di fotografie, ma per avere tra le mani la prova documentale che, nonostante l’incredibile velocità con cui sembrava mutare il nostro status di americani, vivevamo ancora in un paese libero. Dopo l’insediamento di Lindbergh, il 20 gennaio 1941, FDR era tornato con la famiglia nella loro tenuta di Hyde park, nello stato di New York, e da allora non si era fatto più vedere né sentire. Poiché era stato da ragazzo nella casa di Hyde Park che aveva cominciato a interessarsi di francobolli - quando sua madre, dicevano, gli aveva passato gli album della propria infanzia -, io lo immaginavo là a trascorrere tutto il suo tempo sistemando le centinaia di esemplari accumulati durante i suoi otto anni alla Casa Bianca. Come sapeva ogni collezionista, nessun presidente prima di lui aveva mai chiesto al ministro delle Poste di emettere tanti francobolli nuovi, e non c’era mai stato un altro presidente americano così intimamente legato al ministero delle Poste. Praticamente il mio primo obiettivo, quando ricevetti il mio album, fu di raccogliere tutti i francobolli nella progettazione dei quali - sapevo - FDR aveva messo lo zampino, o che aveva suggerito personalmente, a partire dal tre cent di Susan B. Anthony del 1936, il francobollo commemorativo del sedicesimo anniversario dell’emendamento per il suffragio femminile, e dal cinque cent di Virginia Dare del 1937, il francobollo che segnava la nascita a Roanoke trecentocinquant’anni prima del primo bebé inglese nato in America. Il francobollo da tre cent per il Mother’s Day del 1934 disegnato originariamente da FDR – che nell’angolo sinistro mostrava la scritta «A ricordo e in onore delle madri d’America» e a destra il celebre ritratto che Whistler aveva fatto di sua madre - mi era stato
regalato da mia madre in un foglietto di quattro per aiutarmi a iniziare la collezione. Mia madre aveva contribuito all’acquisto anche dei sette francobolli commemorativi approvati da Roosevelt nel primo anno della sua presidenza, francobolli che ci tenevo ad avere perché, ben visibile su cinque di essi, c’era la scritta «1933», il mio anno di nascita. Prima di andare a Washington chiesi il permesso di portare con me in quel viaggio l’album dei francobolli. Per paura che io lo perdessi, e poi ci restassi malissimo, mia madre dapprima disse di no, ma poi si lasciò convincere quando insistetti sulla necessità di avere con me almeno i miei francobolli dei presidenti: i sedici, cioè, che possedevo della serie del 1938 che procedeva ininterrottamente, e per valore, da George Washington a Calvin Coolidge. Il francobollo del 1922 sul cimitero nazionale di Arlington e quelli del 1923 sul Lincoln Memorial e i palazzi del Campidoglio erano di gran lunga troppo cari per il mio bilancio, ma nondimeno, come un’altra ragione per portarmi la raccolta, io le feci notare che i tre siti famosi erano chiaramente raffigurati in bianco e nero sulla pagina dell’album riservata a loro. In realtà, avevo paura di lasciare l’album a casa nel nostro appartamento vuoto a causa dell’incubo che avevo avuto, temendo che, o perché non avevo provveduto a togliere dalla mia collezione il francobollo posta aerea di Lindbergh da dieci cent o perché Sandy aveva mentito ai nostri genitori e i suoi disegni di Lindbergh giacevano intatti sotto il suo letto - o perché un tradimento filiale cospirava con l’altro -, durante la mia assenza si sarebbe verificata una perniciosa trasformazione, facendo sì che i miei Washington incustoditi si trasformassero in tanti Hitler, e che altrettante svastiche andassero a sovrastamparsi sui miei parchi nazionali. Appena entrati a Washington facemmo una svolta sbagliata nel traffico intenso, e mentre mia madre cercava di leggere la carta e guidare mio padre verso il nostro albergo apparve davanti a noi la più grossa cosa bianca che io avessi mai visto. Su un pendio in fondo alla strada sorgeva il Campidoglio, con gli scaloni che descrivevano un arco verso il colonnato, e sormontato dalla cupola a tre livelli. Eravamo giunti, senza accorgercene, proprio nel cuore della storia americana; e anche se non lo capivamo chiaramente, era proprio sulla storia americana, delineata nella sua forma più ispiratrice, che contavamo per difenderci da Lindbergh. - Guardate! - disse mia madre, voltandosi verso Sandy e me sui sedili posteriori. Non è emozionante? La risposta, ovviamente, era sì, ma Sandy sembrava essere caduto in una specie di stupore patriottico, e da lui io presi l’imbeccata e lasciai che il silenzio registrasse anche il mio timore reverenziale. In quel preciso momento un poliziotto in motocicletta si fermò di fianco a noi. Cosa c’è, Jersey? - chiese attraverso il finestrino aperto. - Stiamo cercando il nostro albergo, - rispose mio padre. - Come si chiama, Bess? Mia madre, solo un momento prima incantata dalla schiacciante solennità del Campidoglio, impallidì immediatamente, e quando cercò di parlare la sua voce era così fioca che non riuscì a farsi udire sopra il rumore del traffico. - Devo tirarvi fuori di qui, gente, - gridò il poliziotto. - Alzi la voce, signora.
- Il Douglas Hotel! - Era mio fratello che glielo stava dicendo, mentre cercava di dare una buona occhiata alla motocicletta. - In K Street, agente. - Bravo, - e alzò un braccio in aria, segnalando alle macchine dietro di noi di fermarsi e a noi di seguirlo mentre faceva una svolta a U e partiva nella direzione opposta lungo Pennsylvania Avenue. Ridendo, mio padre disse: - Ci trattano come la famiglia reale. - Ma come fai a sapere dove ci porta? - chiese mia madre. - Herman, che succede? Col poliziotto che ci precedeva, stavamo passando davanti a una fila di palazzi federali quando Sandy, emozionatissimo, puntò il dito verso un prato ondulato alla nostra sinistra. - Là! - gridò. - La Casa Bianca! - Al che mia madre cominciò a piangere. - Non è... - cercò di spiegare lei un attimo prima che arrivassimo all’albergo, mentre il poliziotto ci faceva un cenno di saluto e partiva rombando, - non è più come vivere in un paese normale. Sono terribilmente dispiaciuta, bambini... Vi prego di perdonarmi -. Ma poi si rimise a piangere. In una cameretta sul retro del Douglas c’erano un letto matrimoniale per i miei genitori e due brandine per mio fratello e me, e mio padre aveva appena dato la mancia al fattorino che aveva aperto la porta e messo le valigie nella stanza quando mia madre ridiventò quella di prima: o forse fingeva di esserlo mentre disponeva il contenuto delle nostre valigie nel comò e notava con piacere che i cassetti erano stati foderati di fresco con la carta. Eravamo in movimento da quando eravamo usciti di casa alle quattro del mattino, ed era l’una passata quando scendemmo di nuovo in strada per cercare un posto dove andare a mangiare. La macchina era parcheggiata davanti all’albergo, lungo il marciapiede opposto, e là vicino c’era un ometto dal volto affilato in un doppiopetto grigio che si tolse il cappello e disse: - Io mi chiamo Taylor, gente. Sono una guida professionista alla capitale della nazione. Se non volete perdere tempo, potreste aver bisogno d’ingaggiare uno come me. Guiderò io così non vi perderete, vi porterò a visitare i monumenti, vi racconterò tutto quello che c’è da sapere, vi aspetterò per riportarvi in albergo, mi assicurerò che andiate a mangiare dove il prezzo è giusto e la roba buona, e tutto questo vi costerà, usando la vostra automobile, nove dollari al giorno. Ecco la mia autorizzazione, - disse, e spiegò un documento di diverse pagine per mostrarlo a mio padre. - Emessa dalla camera di commercio, - disse. - Verlin M. Taylor, signore, guida ufficiale del District of Columbia dal 1937. Dal 5 gennaio 1937, per l’esattezza: lo stesso giorno in cui si riunì il Settantacinquesimo Congresso degli Stati Uniti. I due si strinsero la mano e mio padre, col suo più scrupoloso piglio da assicuratore, sfogliò i documenti della guida prima di restituirglieli. - Mi sembra una buona idea, - disse mio padre, - ma non credo che nove dollari al giorno fossero nelle previsioni, signor Taylor, non di questa famiglia, comunque. - Capisco. Ma per conto suo, signore, guidando lei e non conoscendo la strada e poi cercando di trovare un parcheggio in questa città... Be’, lei e i suoi familiari non
vedrete la metà di quello che potrete vedere con me, e non vi divertirete molto di più. Sì, io potrei portarvi a mangiare in un bel posto, aspettarvi con la macchina, e poi possiamo cominciare subito col monumento di Washington. Dopodiché, in fondo al Mall per il Lincoln Memorial. Washington e Lincoln. I nostri due più grandi presidenti... Ecco come mi piace cominciare, sempre. Lei sa che Washington non abitò mai a Washington. Il presidente Washington scelse il posto, firmò la legge che lo rendeva la sede permanente del governo, ma fu il suo successore, John Adams, il primo presidente a entrare nella Casa Bianca nel 1800. Il primo novembre, per l’esattezza. Sua moglie Abigail lo raggiunse due settimane dopo. Tra le molte interessanti rarità della Casa Bianca, c’è ancora un vaso di cristallo appartenuto a John e Abigail Adams. - Be’, questa è una cosa che non sapevo, - rispose mio padre, ma lasci che ne parli con mia moglie -. Sottovoce le domandò: - Ce lo possiamo permettere? Questo sa sicuramente il fatto suo -. Nostra madre mormorò: - Ma chi l’ha mandato? Come ha fatto a individuare la nostra macchina? - È il suo mestiere, Bess: scoprire quali sono i turisti. È così che si guadagna la vita -. Mio fratello e io ci stringemmo a loro, sperando che nostra madre tacesse e che quella guida dalla lingua sciolta con la faccia aguzza e le gambe corte venisse ingaggiata per tutto il tempo della nostra visita. - Voi due cosa volete? - disse mio padre, rivolto a Sandy e a me. - Be’, se costa troppo... - attaccò Sandy. - Lascia stare quanto costa, - ribatté mio padre. - Questo tizio vi piace o no? - È una sagoma, papà, - mormorò Sandy. - Sembra una di quelle anatre da richiamo. Mi piace quando dice «per l’esattezza.» - Bess, - disse mio padre, - quest’uomo è una vera guida di Washington, D.C. Non credo che abbia mai accennato a un sorriso, ma è un tipetto sveglio e non potrebbe essere più educato. Vediamo se si accontenta di sette dollari -. A questo punto si allontanò di qualche passo, si avvicinò alla guida, parlarono tra loro seriamente per qualche minuto e poi, concluso l’accordo, i due tornarono a stringersi la mano e mio padre disse ad alta voce: - Okay, andiamo a mangiare! - scoppiando come sempre di energia anche quando non c’era niente da fare. Era difficile dire quale fosse la cosa più incredibile: essere lontano dal New Jersey per la prima volta in vita mia, essere a trecento miglia da casa nella capitale del paese, o che la nostra famiglia si facesse scarrozzare nella propria automobile da uno sconosciuto che portava lo stesso nome del dodicesimo presidente degli Stati Uniti, il cui profilo adornava un francobollo rosso-violetto da dodici cent nell’album che tenevo sulle ginocchia, attaccato alla pagina con una linguetta tra il Polk blu da undici cent e il Fillmore verde da tredici. - Washington - stava dicendo il signor Taylor - si divide in quattro parti: nordovest, nordest, sudest e sudovest. Con qualche rara eccezione, le strade che vanno da nord a sud sono numerate e le strade che vanno da est a ovest sono indicate da una lettera. Di tutte le capitali esistenti nel mondo occidentale, solo questa città fu ideata esclusivamente per dare una sede al governo nazionale. È questo che la rende diversa non soltanto da Londra e da Parigi, ma anche dalle nostre New York e Chicago.
- Avete sentito? - chiese mio padre, voltandosi a guardare Sandy e me. - Hai sentito, Bess, cos’ha detto il signor Taylor sul motivo per cui Washington è così speciale? - Sì, - disse lei, e prese la mia mano tra le sue per assicurarsi, assicurando me, che ora tutto sarebbe andato a gonfie vele. Ma io ebbi una sola preoccupazione, da quando arrivammo a Washington a quando ripartimmo: difendere da qualunque danno la mia collezione di francobolli. Il self-service dove ci lasciò il signor Taylor era pulito ed economico e la roba era buona come aveva promesso che sarebbe stata, e quando finimmo di mangiare e uscimmo in strada, ecco la nostra macchina che accostava per fermarsi in seconda fila davanti a noi. - Che puntualità! - esclamò mio padre. - Col passare degli anni, - disse il signor Taylor, - si impara a stimare quanto tempo impiega una famiglia per mangiare. È andato tutto bene, signora Roth? - chiese a nostra madre. - Era tutto di suo gusto? - Benissimo, grazie. - Tutti, allora, sono pronti per il monumento di Washington, - disse lui, e via che ce ne andammo. - Voi sapete, naturalmente, chi commemora questo monumento: il nostro primo presidente e, a giudizio della maggior parte delle persone, il nostro miglior presidente insieme al presidente Lincoln. - Io metterei anche FDR in quella lista, sa. Un grand’uomo, e il popolo di questo paese lo ha rimosso dalla carica, - disse mio padre. – E guardate cosa abbiamo al posto suo. Il signor Taylor ascoltò cortesemente, ma non diede risposta. - Ora, - riprese, avrete visto tutti delle foto del monumento di Washington. Ma non sempre le foto ci restituiscono la sua imponenza. A centosessantanove metri e trentanove centimetri sopra il livello del suolo, è la costruzione in muratura più alta del mondo. Il nuovo ascensore elettrico vi porterà in cima in un minuto e un quarto. Altrimenti, se volete andare a piedi, potete prendere una scala a chiocciola di ottocentonovantatre gradini. La veduta da lassù ha un raggio tra le quindici e le venti miglia. Vale una visita. Eccolo... Lo vedete? - disse. - Proprio davanti a noi. Qualche minuto dopo il signor Taylor trovò da parcheggiare nello spiazzo intorno al monumento e, quando lasciammo la macchina, trotterellò al nostro fianco con le sue gambe storte, spiegando: - Il monumento è stato ripulito per la prima volta solo qualche anno fa. Che lavoro, eh, signora Roth? Hanno usato acqua mista a sabbia e spazzole con le setole d’acciaio. Ci sono voluti cinque mesi ed è costato centomila dollari. - Sotto FDR? - chiese mio padre. - Credo di sì, sì. - E la gente lo sa? - chiese mio padre. - La gente se ne cura? No. La gente vuole, invece, un pilota della posta aerea alla testa del paese. E non è la cosa peggiore. Quando entrammo nel monumento il signor Taylor rimase fuori. Davanti all’ascensore nostra madre, che mi aveva ripreso per mano, si avvicinò a nostro padre e mormorò: - Non devi parlare così.
- Così come? - Di Lindbergh. - Quello? Dicevo solo la mia opinione. - Ma non sai chi è quest’uomo. - Certo che lo so. È una guida autorizzata con i documenti che lo provano. Questo è il monumento di Washington, Bess, e tu mi stai dicendo di tenere per me i miei pensieri come se il monumento di Washington si trovasse a Berlino. Davanti a parole così franche mia madre si sentì ancora peggio, tanto più che le altre persone in attesa dell’ascensore potevano udire la nostra conversazione. Rivolto a un altro dei padri, ritto accanto alla moglie e a due bambini, mio padre gli chiese: Voi da dove venite? Noi siamo del New Jersey. - Maine, - rispose l’uomo. - Avete sentito? - disse mio padre a mio fratello e a me. Nell’ascensore entrarono, complessivamente, una ventina tra bambini e adulti, riempiendolo circa a metà, e mentre la cabina saliva nella sua incastellatura di piloni di ferro, mio padre impiegò il minuto e un quarto che ci volle per arrivare in cima per chiedere a ognuna delle altre famiglie da dove veniva. Quando la nostra visita finì, il signor Taylor ci aspettava fuori. Chiese a Sandy e a me di descrivere cos’avevamo visto dalle finestre a centocinquanta metri d’altezza e poi ci guidò in un rapido giro a piedi intorno al monumento, raccontando la storia discontinua della sua costruzione. Successivamente scattò con la nostra macchina fotografica a cassetta Brownie qualche foto della famiglia; poi mio padre, vincendo le obiezioni del signor Taylor, insistette per scattare una foto di lui con mia madre, Sandy e me e il monumento di Washington sullo sfondo, e finalmente salimmo in macchina e, col signor Taylor di nuovo al volante, ci avviammo lungo il Mall per andare al Lincoln Memorial. Questa volta, mentre parcheggiava, il signor Taylor ci avvertì che il Lincoln Memorial era diverso da tutti gli altri monumenti della terra, e che dovevamo prepararci a vedere qualcosa di strepitoso. Poi dal parcheggio ci accompagnò fino alle colonne del grande edificio con le ampie scale di marmo che ci portarono, oltre le colonne, nell’interno della hall e davanti alla svettante statua di Lincoln nel suo capace trono dei troni, con la faccia scolpita che mi guardava come il più sacro amalgama possibile: il volto di Dio e, al tempo stesso, volto dell’America. Con voce grave mio padre disse: - E gli hanno sparato, quei cani rognosi. Eravamo, tutt’e quattro, proprio ai piedi della statua, che era illuminata in modo tale da far sembrare ogni parte di Abramo Lincoln colossalmente grandiosa. Ciò che comunemente passava per grande impallidiva, e non c’era difesa, né per un adulto né per un bambino, contro la solenne atmosfera dell’iperbole. - Se pensi a quello che fa questo paese ai suoi più grandi presidenti... - Herman, - lo supplicò mia madre, - non cominciare. - Io non comincio niente. È stata una grande tragedia. Non è vero, ragazzi? L’assassinio di Lincoln?
Il signor Taylor si avvicinò e ci disse a bassa voce: - Domani andremo al Ford’s Theatre, dove gli hanno sparato, e dirimpetto alla Petersen House, a vedere il posto dov’è morto. - Stavo dicendo, signor Taylor, che è roba da mettersi le mani nei capelli quello che questo paese fa ai suoi grandi uomini. - Grazie al cielo abbiamo il presidente Lindbergh, - disse la voce di una donna ad appena qualche passo di distanza. Era anziana e se ne stava in disparte, da sola, consultando una guida, e pareva che la sua battuta non fosse rivolta a nessuno, anche se suggerita in qualche modo dai discorsi di mio padre. - Paragonare Lincoln a Lindbergh? Accidenti, - gemette mio padre. In realtà la donna anziana non era sola ma con un gruppo di turisti, tra i quali un uomo che aveva pressappoco l’età di mio padre e poteva essere suo figlio. - C’è qualcosa che la rode? - chiese costui a mio padre, avanzando con aria aggressiva nella nostra direzione. - No, - gli disse mio padre. - C’è qualcosa che la disturba in quello che ha appena detto la signora? - Nossignore. È un paese libero. Lo sconosciuto rivolse una lunga occhiata di stupore a mio padre, poi a mia madre, poi a Sandy, poi a me. E cosa vide? Un uomo asciutto, con muscolatura eccellente e spalle larghe, alto quasi un metro e ottanta, bello in tono minore, con due occhi tra il verde e il grigio chiaro e capelli castani, già un po’ radi, con una sfumatura alta sulle tempie che presentava al mondo le sue orecchie un po’ più comicamente del necessario. La donna era snella ma forte, ed era pulita e ordinata, con una ciocca degli ondulati capelli neri sopra un occhio e guance tondeggianti un po’ arrossate e un naso prominente e braccia robuste e gambe ben tornite e fianchi sottili e gli occhi vivaci di una ragazza che avesse la metà dei suoi anni. Nei due adulti, un eccesso di prudenza e un accesso di energia, e con la coppia due ragazzi non ancora formati, tutti superfici morbide e cedevoli, figli giovani di genitori ancora giovani, attentissimi, in buona salute e incorreggibili solo nell’ottimismo. E la conclusione che lo sconosciuto trasse dalle proprie osservazioni la dimostrò con un beffardo cenno del capo. Poi, sbuffando rumorosamente per non ingannare nessuno sul giudizio che si era fatto di noi, tornò dalla donna anziana e dal resto della comitiva, allontanandosi lentamente con un’andatura dondolante che sembrava, nel profilo delle sue spalle larghe, voler esprimere un avvertimento. Fu da quella distanza che lo sentimmo accennare a mio padre come a «un fanfarone ebreo», seguito dopo un attimo dalla donna anziana che dichiarava: «Non so cosa pagherei per prenderlo a schiaffi.» Il signor Taylor ci condusse via e ci guidò rapidamente verso una saletta laterale dove c’erano una targa col discorso di Gettysburg e un affresco sul tema dell’emancipazione. - Sentire parole come quelle in un posto come questo, - disse mio padre con una voce soffocata e fremente d’indignazione. - Nel sacrario di un uomo come questo!
Intanto il signor Taylor, indicando il dipinto, diceva: - Lo vedete? L’angelo della verità che libera uno schiavo. Ma mio padre non poteva vedere nulla. - Credete che qui sentireste queste cose se Roosevelt fosse ancora presidente? Non avrebbero il coraggio, non si sognerebbero, ai tempi di Roosevelt... - disse mio padre. - Ma ora che il nostro grande alleato è Adolf Hitler, ora che Adolf Hitler è il miglior amico del presidente degli Stati Uniti... Certo, ora credono di poter dire qualunque cosa e passarla liscia. È una vergogna. A partire dalla Casa Bianca... A chi si rivolgeva, oltre a me? Mio fratello seguiva il signor Taylor, facendogli domande sull’affresco, e mia madre stava cercando d’impedirsi di dire o fare qualunque cosa, lottando contro le emozioni che l’avevano sopraffatta prima in macchina; e senza una giustificazione come questa, in quel momento. - Leggetelo, - disse mio padre, indicando la targa col discorso di Gettysburg. Leggetelo. «Tutti gli uomini sono creati uguali.» - Herman, - ansimò mia madre, - io non posso andare avanti così. Tornammo alla luce del giorno e ci fermammo sull’ultimo gradino. L’alto fusto del monumento di Washington era a mezzo miglio di distanza, all’altro capo dello specchio d’acqua ai piedi della serie di terrazze che portavano al Lincoln Memorial. C’erano degli olmi piantati tutt’intorno. Era il più bel panorama che io avessi mai visto, un patriottico paradiso, il giardino dell’eden americano steso davanti a noi, e noi stavamo lassù, stretti gli uni agli altri, la famiglia messa alla porta. - Sentite, - disse mio padre, tirandosi vicino mio fratello e me, - credo sia ora che andiamo tutti a fare un pisolino. È stata una giornata pesante. Io dico di tornare in albergo a riposarci per un’ora o due. Lei che ne dice, signor Taylor? - Faccia lei, signor Roth. Dopo cena pensavo che alla famiglia potrebbe piacere un giro in macchina di Washington by night, con i celebri monumenti tutti illuminati. - Questo si chiama parlare, - gli disse mio padre. - Ti sembra una buona idea, Bess? - Ma mia madre non era facile da rincuorare come Sandy e me. - Amore, - le disse mio padre, - abbiamo incontrato un pazzoide. Due pazzoidi. Potevamo essere in Canada e incontrare qualcuno come loro. Non vorrai che questo ci rovini la gita. Andiamo a riposarci, tutti quanti, e il signor Taylor ci aspetterà, e proseguiremo da lì. Guardate, - disse poi, abbracciando il panorama con un gesto. Ecco una cosa che ogni americano dovrebbe vedere. Voltatevi, ragazzi. Date un’ultima occhiata ad Abramo Lincoln. Obbedimmo, ma non ero più capace di abbandonarmi all’estasi del patriottismo. Mentre iniziavamo la lunga discesa della scala di marmo, udii alcuni ragazzi alle nostre spalle chiedere ai loro genitori: «È proprio lui? È sepolto sotto tutta quella roba?» Mia madre, sulle scale, era al mio fianco, e cercava di comportarsi come una persona che non fosse stata presa dal panico, e all’improvviso sentii che era toccato a me tenerla insieme, diventare tutt’a un tratto una creatura nuova e coraggiosa con qualcosa dentro dello stesso Lincoln. Ma l’unica cosa che potei fare quando mi diede la mano fu prenderla e stringerla da quell’essere immaturo che ero, un ragazzo la cui
raccolta di francobolli rappresentava ancora i nove decimi della sua conoscenza del mondo. In macchina, il signor Taylor pianificò il resto della giornata. Saremmo tornati in albergo, avremmo fatto un sonnellino, e alle sei meno un quarto lui sarebbe passato a prenderci e ci avrebbe portati a cena. Potevamo tornare nel selfservice vicino alla Union Station dove avevamo pranzato, o lui poteva raccomandarci un altro paio di ristoranti a prezzi popolari di cui poteva garantire la qualità. E dopo cena ci avrebbe portati a fare il giro di Washington by night. - Non c’è nulla che la sconcerti, eh, signor Taylor? - disse mio padre. Lui reagì solo con un cenno vago. - Di dov’è lei? - gli chiese mio padre. - Dell’Indiana, signor Roth. - Dell’Indiana. Pensate, ragazzi. E qual è la sua città natale, là? - gli chiese mio padre. - Nessuna. Mio padre faceva il meccanico. Aggiustava le macchine agricole. Era sempre in giro. - Be’, - disse mio padre, per ragioni che al signor Taylor non potevano apparire molto chiare, - io le faccio tanto di cappello, signore. Lei dovrebbe essere fiero di sé. Di nuovo, il signor Taylor reagì solo con un cenno del capo; era un uomo concreto e sbrigativo con un vestito stretto e con qualcosa di decisamente militare nella sua efficienza e nel portamento: come una persona nascosta, solo che non c’era nulla da nascondere, perché tutto ciò che aveva d’impersonale era chiaramente visibile. Ciarliero su Washington, D.C., riservato su tutto il resto. Quando tornammo in albergo, il signor Taylor parcheggiò la macchina e ci accompagnò dentro come se non fosse solamente la nostra guida ma il nostro chaperon, e fu un bene, perché nell’atrio del piccolo albergo scoprimmo le nostre quattro valigie posate sul pavimento vicino al banco del portiere. L’uomo nuovo dietro il banco si presentò. Era il direttore. Quando mio padre gli chiese cosa ci facevano lì le nostre valigie» il direttore disse: - Signori, mi devo scusare. Ho dovuto farle fare e metterle lì. Il portiere del turno pomeridiano ha commesso un errore. La stanza che vi ha dato era già stata prenotata da un’altra famiglia. Ecco il vostro anticipo -. E porse a mio padre una busta con un biglietto da dieci dollari. - Ma mia moglie vi aveva scritto. E voi avete risposto. Abbiamo prenotato mesi fa. Ecco perché abbiamo spedito l’anticipo. Bess, dove sono le copie delle lettere? Mia madre indicò le valigie. - Signore, - disse il direttore, - la camera è occupata e non ci sono altre stanze libere. Non vi faremo pagare l’uso che ne avete fatto oggi, né la saponetta mancante. - Mancante? - La parola giusta per farlo uscire dai gangheri. – Sta dicendo che l’abbiamo rubata? - Nossignore, no. Forse uno dei bambini ha preso il sapone come souvenir. Niente di male. Non ci metteremo a litigare per una cosa da poco come questa, né a frugargli nelle tasche in cerca del sapone.
- Che cosa significa tutto questo? - volle sapere mio padre, e sotto il naso del direttore mollò un pugno sul banco. - Signor Roth, se lei intende fare una scenata... - Sì, - disse mio padre, - intendo fare una scenata finché non avrò scoperto cos’è successo con quella stanza! - Allora, - ribatté il direttore, - non ho altra scelta che telefonare alla polizia. A questo punto mia madre - che ci aveva messo le mani sulle spalle, a me e a mio fratello, per tenerci al riparo e a distanza di sicurezza dal banco - pronunciò il nome di mio padre, per impedirgli di andare oltre. Ma era troppo tardi. Era sempre stato troppo tardi. Lui non avrebbe mai potuto consentire a occupare tranquillamente il posto che voleva assegnargli il direttore. - E quel maledetto Lindbergh! - disse mio padre. - Ormai siete tutti a cavallo, voialtri fascistelli! - Devo chiamare la polizia, signore, o preferisce prendere le valigie e la sua famiglia e andarsene immediatamente? - Chiami la polizia, - ribatté mio padre. - Faccia pure. Nell’atrio si erano raccolte altre cinque o sei persone. Erano entrate mentre la discussione era in corso e aspettavano di vedere come si sarebbero messe le cose. Fu in quel momento che il signor Taylor si avvicinò a mio padre e disse: - Signor Roth, lei ha perfettamente ragione, ma la polizia è la soluzione sbagliata. - No, è la soluzione giusta. Chiami la polizia, - ripeté mio padre al direttore. - Ci sono leggi in questo paese contro le persone come lei. Il direttore prese il telefono, e mentre faceva il numero il signor Taylor si avvicinò alle nostre valigie, ne prese due per mano e le portò fuori dall’albergo. Mia madre disse: - Herman, è finita. Il signor Taylor ha preso le valigie. - No, Bess, - disse aspramente lui. - Ne ho abbastanza delle loro balle. Voglio parlare con la polizia. Il signor Taylor rientrò frettolosamente nell’atrio e senza fermarsi si diresse verso il banco, dove il direttore stava completando la chiamata. A bassa voce parlò solo a mio padre: - C’è un bell’albergo non molto lontano. Ho telefonato dalla cabina esterna. Hanno una camera per lei. È un buon albergo in una bella strada. Andiamo a firmare il registro. - Grazie, signor Taylor. Ma ora stiamo aspettando la polizia. Voglio che ricordino a quest’uomo le parole del discorso di Gettysburg che ho letto là incise proprio oggi. Quando mio padre accennò al discorso di Gettysburg, tutti gli astanti si guardarono con un sorriso. Io sussurrai a mio fratello: - Cos’è successo? - Antisemitismo, - rispose lui abbassando la voce. Dai nostri posti vedemmo i due poliziotti quando arrivarono in motocicletta. Li vedemmo spegnere il motore ed entrare nell’albergo. Uno di essi si piazzò appena dentro la porta, dove poteva tenere d’occhio tutti i presenti, mentre l’altro si avvicinò
al banco e con un cenno invitò il direttore a seguirlo dove poter parlare confidenzialmente. - Agente... - disse mio padre. Il poliziotto girò sui tacchi e disse: - Posso ascoltare solo una persona per volta, signore, - e riprese a parlare col direttore, stringendosi pensosamente il mento con una mano. Mio padre si rivolse a noi. - Bisogna farlo, ragazzi -. A mia madre disse: - Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Finita la discussione col direttore, il poliziotto venne a parlare con mio padre. Non sorrideva come aveva fatto di quando in quando mentre stava ad ascoltare il direttore, ma parlò nondimeno senza la minima stizza e in un tono che dapprima sembrò amichevole. - Qual è il problema, Roth? - Abbiamo spedito un anticipo per una camera in questo albergo per tre notti. Abbiamo ricevuto una lettera che confermava ogni cosa. Mia moglie ha le copie nella borsetta. Oggi arriviamo, firmiamo il registro, occupiamo la stanza e apriamo le valigie, andiamo a fare un giro turistico, e quando torniamo ci sfrattano perché la stanza era prenotata da un altro. - E il problema? - chiese il poliziotto. - Siamo una famiglia di quattro persone, agente. Siamo venuti in macchina dal New Jersey. Non possono buttarci in mezzo alla strada. - Ma, - disse il poliziotto, - se un altro prenota una stanza... - Ma non c’è nessun altro! E se ci fosse, perché dovremmo cedergli il passo? - Tuttavia il direttore le ha restituito l’anticipo. Le ha persino fatto le valigie. - Agente, lei non mi capisce. Perché la nostra prenotazione dovrebbe valere meno della loro? Sono stato con la famiglia al Lincoln Memorial. C’è il discorso di Gettysburg appeso al muro. Sa quali sono le parole scritte là? «Tutti gli uomini sono creati uguali.» - Ma questo non significa che tutte le prenotazioni degli alberghi siano create uguali. La voce del poliziotto arrivava fino agli spettatori in fondo all’atrio; incapaci di dominarsi ulteriormente, alcuni di loro scoppiarono in una fragorosa risata. Mia madre ci lasciò soli per farsi avanti e intervenire. Aveva atteso un momento in cui il suo intervento non avrebbe peggiorato le cose e, nonostante il respiro affannoso, sembrava credere che fosse questo. - Andiamo, caro, - supplicò mio padre. - Il signor Taylor ci ha trovato una camera qui vicino. - No! - gridò mio padre, e scostò la mano con cui lei aveva cercato di prenderlo a braccetto. - Questo poliziotto sa perché ci costringono a sloggiare. Lo sa lui, lo sa il direttore, lo sanno tutti quelli che sono in questo atrio. - Io credo che lei dovrebbe ascoltare sua moglie, - disse il poliziotto. - Credo che dovrebbe fare come dice lei, Roth. Vada -. Accennando alla porta con la testa, disse: - E prima di farmi scappare la pazienza.
Mio padre si opponeva ancora, ma il buonsenso non lo aveva abbandonato, e così arrivò a capire che il suo argomento non aveva più interesse per nessuno tranne lui. Uscimmo dall’albergo sotto gli occhi di tutti. L’unico a dire qualcosa fu l’altro poliziotto. Da dove si era piazzato accanto alla pianta in vaso dell’ingresso, fece un amabile inchino e, mentre ci avvicinavamo, allungò una mano per scompigliarmi i capelli. - Come andiamo, giovanotto? - Bene, risposi io. - Cos’hai lì? - I miei francobolli, - dissi, ma senza fermarmi, prima che potesse chiedermi di vedere la mia collezione e che io dovessi mostrargliela per evitare l’arresto. Il signor Taylor ci aspettava sul marciapiede. Mio padre gli disse: - Non mi era mai capitata una cosa come questa. Io sono sempre in giro tra la gente, gente di ogni tipo, di ogni ceto, e mai... - Il Douglas ha cambiato mani, - disse il signor Taylor. - Questa è una nuova proprietà. - Ma abbiamo degli amici che ci sono stati e che sono rimasti soddisfatti al cento per cento, - gli disse mia madre. - Be’, signora Roth, ha cambiato mani. Ma io vi ho trovato una camera all’Evergreen, e vedrete che andrà tutto bene. In quel preciso momento si udì il rombo fragoroso di un aereo che sorvolava Washington a bassa quota. In fondo alla strada, dove c’erano delle persone che passeggiavano, tutti si fermarono e uno degli uomini alzò le braccia al cielo come se, in giugno, avesse cominciato a nevicare. Sandy, che poteva riconoscere qualunque oggetto volante dalla silhouette, Sandy, sempre bene informato, puntò il dito e gridò: - È il Lockheed Interceptor! - È il presidente Lindbergh, - spiegò il signor Taylor. - Ogni pomeriggio a quest’ora fa un giretto lungo il Potomac. Arriva fino agli Allegheny, poi scende lungo le Blue Ridge Mountains e sbuca nella Chesapeake Bay. La gente non vede l’ora. - È l’aereo più veloce del mondo, - disse mio fratello. – Il Messerschmitt tedesco fa trecentosessantacinque miglia l’ora, l’Interceptor ne fa cinquecento. Può battere qualunque caccia. Alzammo tutti gli occhi insieme a Sandy, incapace di nascondere il proprio entusiasmo per lo stesso Interceptor che il presidente aveva pilotato, avanti e indietro, per il suo incontro con Hitler in Islanda. L’aereo cabrò con una forza terribile prima di sparire nel cielo. In fondo alla strada i passanti scoppiarono in un applauso, qualcuno urlò «Viva Lindy!» e poi continuò a camminare. All’Evergreen i miei genitori dormirono insieme in un letto a una piazza e Sandy e io nell’altro. Due letti gemelli erano il meglio che il signor Taylor fosse riuscito a trovare in così breve tempo, ma dopo quello che era successo al Douglas nessuno si lamentò - né che i letti non erano fatti esattamente per riposare, né che la camera era ancora più piccola della nostra sistemazione precedente, né che il bagno microscopico, per quanto inondato di disinfettante, non mandava un odore molto
buono - segnatamente perché vi fummo accolti con grande cortesia, quando arrivammo, da una donna ridente alla reception, mentre le valigie venivano ammucchiate su un carrello da un anziano negro in divisa da fattorino, uno spilungone che la donna chiamava Edward B., il quale aprendo l’uscio della stanza al pianterreno all’estremità inferiore di un pozzo di ventilazione annunciò spiritosamente: «L’Evergreen Hotel dà alla famiglia Roth il benvenuto nella capitale della nazione!» e ci introdusse in quella cripta fiocamente illuminata come se fosse un boudoir al Ritz. Mio fratello non aveva smesso di guardare Edward B. da quando caricava i nostri bagagli, e la mattina dopo, prima che gli altri si svegliassero, si vestì furtivamente, prese l’album per gli schizzi e corse nell’atrio a disegnarlo. Ma il caso volle che fosse di turno un altro fattorino negro, uno non pittorescamente scavato e rugoso come Edward B., anche se sul piano artistico una scoperta non meno grande: scurissimo, con lineamenti marcatamente africani, di un genere che Sandy non aveva mai potuto disegnare se non grazie a una foto in un vecchio numero del «National Geographic.» Passammo quasi tutta la mattina col signor Taylor, che ci fece visitare il Campidoglio e la sede del Congresso, e più tardi la Corte suprema e la Biblioteca del Congresso. Il signor Taylor conosceva l’altezza di ogni cupola e le dimensioni di ogni atrio e le origini geografiche di tutto il marmo dei pavimenti e i nomi dei soggetti e gli avvenimenti commemorati in ogni dipinto e ogni affresco di ogni palazzo governativo in cui mettemmo piede. - Lei è una cannonata, - gli disse mio padre. - Un ragazzo di campagna dell’Indiana. Dovrebbe essere a Information Please. Dopo pranzo andammo lungo il Potomac verso sud, entrando in Virginia per visitare Mount Vernon. - Naturalmente Richmond, in Virginia, - spiegò il signor Taylor, - era la capitale degli undici stati del Sud che lasciarono l’Unione per formare gli Stati Confederati d’America. Molte delle grandi battaglie della Guerra Civile furono combattute in Virginia. Una ventina di miglia a ovest c’è il National Battlefield Park di Manassas. Il parco comprende i due campi di battaglia dove i confederati sbaragliarono le forze dell’Unione presso il fiumiciattolo di Bull Run, prima sotto il generale P. G. T. Beauregard e il generale J. E. Johnston nel luglio 1861, e poi sotto il generale Robert E. Lee e il generale Stonewall Jackson nell’agosto 1862. Il generale Lee comandava l’armata della Virginia, e il presidente della Confederazione, che governava da Richmond, era Jefferson Davis, se ricordate cosa vi hanno insegnato a scuola. A sudovest, a centoventicinque miglia da qui, in Virginia, c’è Appomattox. Sapete cos’accadde in quel tribunale nell’aprile 1865. Il 9 aprile, per l’esattezza. Il generale Lee si arrese al generale Grant, così concludendo la Guerra Civile. E sapete tutti cos’accadde a Lincoln cinque giorni dopo: lo uccisero a colpi di pistola. - Quei cani rognosi, - ripeté mio padre. - Be’, eccola là, - disse il signor Taylor, proprio mentre appariva la casa di Washington.
Oh, che bella, - disse mia madre. - Guardate la veranda. Guardate quei finestroni. Bambini, questa non è una copia. Questa è la vera casa dove abitò George Washington. - E sua moglie Martha, - le ricordò il signor Taylor, - e i due figli di lei, per i quali il generale stravedeva. - Davvero? - chiese mia madre. - Non lo sapevo. Il mio figlio minore ha Martha Washington su un francobollo, - gli disse. - Mostra al signor Taylor il tuo francobollo, - e io immediatamente lo trovai, il francobollo marrone da un cent e mezzo del 1938 che raffigurava la moglie del primo presidente di profilo, con i capelli coperti da quella che mia madre aveva identificato per me, la prima volta che presi in mano il francobollo, come una via di mezzo tra una cuffia e una retina. - Sì, è proprio lei, - disse il signor Taylor. - Ed è anche, come sono certo che saprai, su un francobollo da quattro cent del millenovecentoventitre e su un francobollo da otto cent del millenovecentodue. E quel francobollo del millenovecentodue, signora Roth, quello è il primo francobollo che abbia mai raffigurato una donna americana. - Lo sapevi? - mi chiese mia madre. - Sì, - dissi, e per me tutte le complicazioni dovute al fatto che eravamo una famiglia ebraica nella «Washington di Lindbergh svanirono semplicemente e io mi sentii come mi sentivo a scuola quando, all’inizio di un’assemblea, ti alzavi in piedi e cantavi l’inno nazionale, a pieni polmoni. - È stata una grande compagna per il generale Washington, - ci disse il signor Taylor. - Il suo nome da ragazza era Martha Dandridge. La vedova del colonnello Daniel Parke Custis. I suoi due figli erano Patsy e John Parke Custis. Portò in dote a Washington una delle più grandi fortune della Virginia. - È quello che dico sempre ai miei ragazzi, - disse mio padre, ridendo come non lo avevamo sentito ridere in tutta la giornata. – Sposatevi come il presidente Washington. Non sono più difficili da amare solo perché sono ricche. La visita a Mount Vernon fu il momento più felice di quel viaggio, forse per la bellezza del parco e dei giardini e degli alberi e della casa, situata in posizione dominante su un dirupo affacciato sul Potomac; forse per l’eccezionalità dell’arredamento, degli addobbi e della carta da parati: carta sulla quale il signor Taylor sapeva un milione di cose; forse perché fu possibile vedere solo da qualche metro di distanza il letto a quattro colonne in cui dormiva Washington, il tavolo dove scriveva, le spade che portava, e i libri che possedeva e leggeva; o forse solo perché eravamo a quindici miglia da Washington, D.C., e dallo spirito di Lindbergh che aleggiava sopra ogni cosa. Mount Vernon era aperta fino alle quattro e trenta, e così ci fu tutto il tempo di vedere le stanze e gli edifici annessi e di gironzolare nel parco e poi di visitare il negozio dei souvenir, dove io cedetti alla tentazione di un tagliacarte che era una copia in peltro, lunga dieci centimetri, di un moschetto rivoluzionario con la sua baionetta. La comprai con dodici dei quindici cent che avevo risparmiato per la visita dell’indomani alla divisione filatelica dell’ufficio stampe e incisioni, mentre Sandy
con i suoi risparmi comprò prudentemente una storia illustrata della vita di Washington, un libro le cui figure potevano servirgli come spunto per altri ritratti della serie patriottica che teneva nella cartella sotto il letto. Era la fine della giornata, ed eravamo usciti per bere qualcosa nel self-service, quando un aereo che volava a bassa quota in lontananza venne come un bolide dalla nostra parte. Mentre il rombo diventava più forte, la gente urlò: «È il presidente! È Lindy!» Uomini, donne e bambini, tutti corsero fuori sul grande prato davanti alla casa e cominciarono a sbracciarsi per salutare l’aereo in arrivo, che mosse le ali su e giù mentre attraversava il Potomac. «Evviva! - gridava la gente. - Viva Lindy!» Era lo stesso caccia della Lockheed che avevamo visto sorvolare la città il pomeriggio del giorno prima, e non avemmo altra scelta che stare là come patrioti a guardare con gli altri mentre l’aereo dopo una virata ripassava sopra la casa di George Washington prima di ripartire lungo il Potomac per il Nord. - Non era lui... Era lei! - Qualcuno che sosteneva di essere riuscito a vedere nella carlinga aveva cominciato a spargere la voce che il pilota dell’Interceptor era la moglie del presidente. E avrebbe potuto essere vero. Lindbergh le aveva insegnato a volare quando era ancora la sua giovane sposa e lei spesso aveva volato insieme a lui nei suoi viaggi aerei, e così ora la gente cominciò a raccontare ai suoi figli che quella che avevano appena visto sorvolare Mount Vernon era Anne Morrow Lindbergh, uno storico avvenimento che non avrebbero mai dimenticato. Ormai la sua audacia come pilota del più evoluto aereo americano, unita alla sua modestia di figlia ammodo delle classi privilegiate e alle doti letterarie come autrice di due libri di poesia, l’aveva imposta in tutti i sondaggi come la donna più ammirata del paese. Così fu rovinata la nostra magnifica escursione: e non tanto perché un volo ricreativo pilotato dall’uno o dall’altra dei Lindbergh ci era per caso passato sopra la testa per la seconda volta di seguito, ma a causa di ciò che la «bravata», come la chiamava mio padre, aveva ispirato a tutti tranne noi. - Sapevamo che le cose erano messe maledisse , mio padre agli amici ai quali si mise subito a telefonare quando tornammo a casa, - ma non fino a questo punto. Dovevi essere là per vedere le reazioni. Quelli vivono in un sogno, e noi in un incubo. Fu la frase più eloquente che lo avessi mai sentito pronunciare, e sicuramente più precisa di qualunque frase avesse mai scritto la moglie di Lindbergh. Il signor Taylor ci ricondusse all’Evergreen per permetterci di lavarci e riposare, e puntualmente alle cinque e tre quarti fu di ritorno per accompagnarci all’economico self-service vicino alla stazione ferroviaria; ci saremmo incontrati dopo cena, disse, per iniziare il giro notturno di Washington rinviato il giorno prima. - Perché stasera non ci fa compagnia? - gli disse mio padre. Dev’essere triste mangiare sempre da soli. - Non vorrei violare la vostra privacy, signor Roth. - Senta, lei è una magnifica guida, e a noi farebbe molto piacere. Offro io. Di sera il self-service era ancora più affollato che di giorno, con tutte le sedie occupate e gli avventori che facevano la coda in attesa che le loro scelte venissero
scucchiaiate dai tre uomini in grembiule e berretto bianco che erano così indaffarati a servire da non avere il tempo di fermarsi per asciugarsi le facce sudate. A tavola, mia madre trovò un certo conforto nel tornare al suo ruolo materno dell’ora dei pasti «Tesoro, cerca di non mettere il mento nel piatto quando prendi un boccone» -, e l’avere il signor Taylor seduto accanto a noi come fosse un parente o un amico di famiglia, anche se non un’avventura così nuova come essere buttati fuori dal Douglas Hotel, ci fornì l’occasione di veder mangiare una persona cresciuta nell’Indiana. Mio padre era l’unico di noi che prestava attenzione agli altri avventori, che ridevano e fumavano e masticavano diligentemente l’infrancesato piatto speciale della sera roast beef au jus e torta di noci à la mode - mentre stava là seduto a giocherellare col bicchiere, nell’apparente tentativo di capire come mai i problemi delle loro vite potevano essere così diversi dai suoi. Quando riuscì a esprimere i suoi pensieri - che continuavano ad avere la precedenza sul mangiare - non lo fece con uno di noi ma col signor Taylor, che aveva appena cominciato a sgranocchiare la fetta di torta coperta da uno strato di formaggio americano che aveva scelto per dessert. - La nostra è una famiglia ebraica, signor Taylor. Ormai lei lo sa, se non lo sapeva già, perché questa è la ragione per cui ieri ci hanno cacciato via. È stato uno shock, - disse. - È difficile da mandare giù. È uno shock perché, anche se è una cosa che sarebbe potuta succedere senza che quest’uomo fosse presidente, il presidente è lui, e non è un amico degli ebrei. È amico di Adolf Hitler. - Herman, - sussurrò mia madre, - spaventerai il piccolo. - Il piccolo sa già tutto, - disse lui, e tornò a rivolgersi al signor Taylor. - Qualche volta le capita di ascoltare Winchell? Mi permetta di citarle Walter Winchell: «C’è stato qualcosa di più della loro intesa diplomatica, altre cose di cui hanno parlato, altre cose sulle quali si sono messi d’accordo? Hanno raggiunto un’intesa sugli ebrei d’America?.. E in tal caso, qual era?» Ecco il fegato di Winchell. Sono queste le parole che ha il coraggio di dire a tutto il paese. Sorprendentemente, qualcuno si era talmente avvicinato al nostro tavolo da sporgersi sopra i nostri piatti: un uomo anziano, pesante e baffuto, con un tovagliolo di carta ficcato nella cintura, che sembrava infiammato da ciò che voleva dire, qualunque cosa fosse. Stava mangiando a un tavolo vicino e i suoi compagni erano tutti protesi verso di noi, come se fossero ansiosi di udire il seguito. - Ehi, capo, ma che fa? - disse mio padre. - Faccia qualche passo indietro, le spiace? - Winchell è un ebreo, - annunciò quell’uomo, - al soldo del governo britannico. Ciò che accadde dopo fu che le mani di mio padre si alzarono violentemente dal tavolo, come per piantare il coltello e la forchetta nel pancione da oca al forno dello sconosciuto. Non doveva fare altro per comunicare la propria ripugnanza, eppure l’uomo con i baffi non si mosse. I baffi non erano un corto quadratino nero come quelli di Hitler, ma un modello concepito in uno spirito meno formale e più capriccioso, un paio di bianchi baffoni da tricheco, particolarmente folti, come quelli del presidente Taft sul francobollo rosso chiaro da cinquanta cent del 1938.
- Se c’è mai stato il caso di un fanfarone ebreo con un potere troppo grande... disse lo sconosciuto. - Basta così! - gridò il signor Taylor, e balzando in piedi si piazzò, minuto com’era, tra la grossa figura che incombeva su di noi e il mio sdegnato genitore, bloccato là sotto da quella ridicola mole; Fanfarone ebreo. E per la seconda volta in meno di quarantott’ore. Due degli uomini col grembiule da dietro il banco si erano precipitati nella sala e avevano preso in mezzo e immobilizzato il nostro aggressore. - Questo non è il suo saloon, - gli disse uno di loro, - e non lo dimentichi, egregio signore -, Lo costrinsero a sedersi al suo tavolo, e poi quello che lo aveva rimproverato si avvicinò a noi e disse: - Voglio che lorsignori si riempiano le tazze con tutto il caffè che desiderano. Mi permettano di portare ai ragazzi un altro po’ di gelato. Restino pure a finire la cena. Io sono il proprietario, mi chiamo Wilbur, e se desiderano altri dessert, offre la ditta. Portate una caraffa di acqua fresca, già che ci siamo. - Grazie, - disse mio padre, parlando con la strana impersonalità di una macchina. Grazie, - ripeté. - Grazie. - Herman, per piacere, - mormorò mia madre, - andiamo via. - Assolutamente no. No. Finiamo di mangiare -. Si schiarì la gola per continuare. Dobbiamo fare il giro di Washington by night. Non andremo a casa finché non avremo fatto il giro della Washington notturna. La serata, in altri termini, doveva fare il suo corso e arrivare alla fine senza che la paura ci inducesse a interromperla prima del tempo. Per Sandy e per me questo significò consumare altre due grosse coppe di gelato, portate al nostro tavolo da uno dei banconieri. Ci volle qualche minuto perché il self-service tornasse ad animarsi del cigolio delle sedie, del tintinnio delle posate e del sommesso acciottolio dei piatti, se non del pieno clamore dell’ora di cena. - Vuoi un’altra tazza di caffè? - mio padre chiese a mia madre. – Hai sentito il proprietario... Desidera che ci riempiamo le tazze. - No, - mormorò lei, - basta così. - E lei, signor Taylor?.. Caffè? - No, sto bene così. - E allora? - disse mio padre al signor Taylor, rigidamente, debolmente, ma ancora una volta deciso a respingere tutto ciò che di brutto stava montando intorno a noi. Che lavoro faceva prima di questo? O ha sempre fatto la guida qui a Washington? E proprio a questo punto si tornò a sentire l’uomo che si era fatto avanti per informarci che, come Benedict Arnold prima di lui, Walter Winchell si era venduto agli inglesi. - Oh, non temete, - stava assicurando agli amici, - gli ebrei se ne accorgeranno abbastanza presto. In tutto quel silenzio era impossibile fraintendere ciò che aveva detto, anche perché non si era affatto curato di attenuare la provocazione. Metà degli avventori non alzarono neanche lo sguardo, fingendo di non aver udito nulla, ma non pochi si voltarono a guardare i soggetti incriminati.
Solo una volta avevo visto impeciare e coprire di piume qualcuno, in un film western, ma pensai: «Ci spalmeranno di pece e ci rivolteranno nelle piume», immaginando tutte le nostre umiliazioni attaccate alla pelle come un grosso strato di sporcizia impossibile da togliere. Mio padre rimase interdetto, dovendo decidere ancora una volta se tentare di controllare la situazione o rinunciarvi. - Stavo chiedendo al signor Taylor - disse improvvisamente a mia madre mentre le prendeva le mani nelle sue - cosa faceva prima di fare la guida -. E la guardò come uno che fa un incantesimo, uno le cui arti consistono nell’impedire alla tua volontà di liberarsi della sua e nel trattenerti dall’agire per conto tuo. Sì, - disse lei, - ho sentito -. E poi, riempiendosi ancora una volta gli occhi di lacrime angosciate, si raddrizzò ciononostante sulla sedia e disse al signor Taylor: Sì, prego, ci racconti. - Continuate a mangiare il vostro gelato, ragazzi, - disse mio padre, allungando le mani e dandoci dei colpetti sulle braccia finché non lo guardammo negli occhi. - È buono? - Sì, - dicemmo. - Be’, continuate pure a mangiare e metteteci il tempo che ci vuole -. Sorrise per farci sorridere, e poi disse al signor Taylor: - Il lavoro prima di questo, il suo vecchio lavoro... Che cosa faceva? - Insegnavo in un college, signor Roth. - Davvero? - disse mio padre. - Avete sentito, ragazzi? State cenando con un professore. - Un professore di storia, - soggiunse il signor Taylor per amore dell’esattezza. - Dovevo immaginarlo, - riconobbe mio padre. - Un piccolo college nella zona nordoccidentale dell’Indiana, - disse il signor Taylor a tutt’e quattro. - Quando ne chiusero una parte, nel ’32, per me non ci fu niente da fare. - E allora cosa fece? - chiese mio padre. - Be’, può immaginare. Tra la disoccupazione e gli scioperi, ho fatto un po’ di tutto. Raccolto la menta nel fango dell’Indiana. Impacchettato carne per il macello di Hammond. Impacchettato sapone per Cudahy, a East Chicago. Lavorato un anno per i Real Sille Hosiery Mills di Indianapolis. Ho persino lavorato per un po’ a Logansport, in quell’ospedale psichiatrico, come inserviente per i malati mentali. E alla fine dei tempi difficili sono arrivato qui. - E come si chiamava il college dove ha insegnato? - chiese mio padre. - Wabash. Wabash? Be’, - disse mio padre, consolato dal suono stesso della parola, - tutti ne hanno sentito parlare. - Quattrocentoventisei studenti? Non ne sarei tanto sicuro. Quella che tutti sanno è la cosa che disse una volta uno dei nostri più illustri laureati, anche se non necessariamente sanno che ha studiato a Wabash. Lo conoscono per essere stato, dal
1912 al 1920, vicepresidente degli Stati Uniti. Cioè, il vicepresidente per due mandati Thomas Riley Marshall. - Certo, - disse mio padre. - Il vicepresidente Marshall, il governatore democratico dell’Indiana. Vicepresidente sotto un altro grande democratico, Woodrow Wilson. Uomo ragguardevole, il presidente Wilson. Fu il presidente Wilson - disse, in tono didattico, dopo due giorni di lezioni da parte del signor Taylor - che ebbe il coraggio di nominare Louis D. Brandeis alla Corte suprema. Il primo ebreo che sia mai stato eletto alla Corte suprema. Lo sapevate, ragazzi? Lo sapevamo si: non era la prima volta che ce lo diceva. Era la prima volta che ce lo diceva con voce tonante in un selfservice come quello dove ci trovavamo, a Washington, D.C. Riprendendo il filo del discorso, il signor Taylor continuò: - E da allora ciò che disse il vicepresidente è diventato celebre in tutta la nazione. Un giorno, al Senato mentre presiedeva un dibattito al Senato -, disse ai senatori là riuniti: «Sapete di cos’ha bisogno questo paese? Di un buon sigaro da cinque cent.» Mio padre scoppiò in una risata: era un’osservazione popolare che aveva per davvero conquistato un’intera generazione, e che conoscevamo persino Sandy e io, a furia di sentircela ripetere. Mio padre, dunque, rise giovialmente e poi, per stupire ulteriormente non soltanto i suoi familiari, ma forse tutti i presenti nel self-service, ai quali aveva già decantato Woodrow Wilson per aver nominato un ebreo alla Corte suprema, proclamò: - Sapete di cos’ha bisogno, oggi, questo paese? Di un altro presidente. Non scoppiarono tumulti. Non accadde nulla. Anzi, non essendosi arreso, parve quasi che mio padre avesse vinto la partita. - E non c’è un fiume che si chiama Wabash? - chiese poi mio padre al signor Taylor. - Il più lungo affluente dell’Ohio. Scorre per quattrocentosettantacinque miglia attraverso lo stato da est a ovest. - E c’è anche una canzone, - ricordò mio padre con un’aria quasi sognante. - Giusto, - rispose il signor Taylor. - Una canzone molto famosa. Forse famosa come la stessa Yankee Doodle. Scritta da Paul Dresser nel 1897. On the Banks of the Wabash, Far Away. - Certo! - gridò mio padre. - La canzone preferita - disse il signor Taylor - dai nostri soldati nella guerra ispano-americana del 1898 e adottata come inno dello stato dell’Indiana nel 1913. Il 4 marzo, per l’esattezza. - Certo, certo, la conosco, - gli disse mio padre. - Immagino che la conosca ogni americano, - disse il signor Taylor. E tutt’a un tratto, con una vivace cadenza, mio padre si mise a cantarla, e tanto forte da farsi sentire da tutti i clienti del self-service. - «Tra i sicomori brillano le luci delle candele...»
- Benedisse , la nostra guida con ammirazione, - benissimo, - e completamente stregato dal baritonale virtuosismo di mio padre, quella solenne enciclopedia in miniatura finalmente sorrise. - Mio marito - disse mia madre a occhi asciutti - ha una bella voce. - Proprio così, - disse il signor Taylor, e anche se non ci furono applausi - tranne che da parte di Wilbur, dietro il banco - a questo punto ci alzammo bruscamente per andarcene prima di abusare del nostro piccolo trionfo e di far uscire dai gangheri l’uomo dai baffi presidenziali.
CAPITOLO 3 Giugno 1941 - dicembre 1941 Seguendo i cristiani Il 22 giugno 1941 il patto di non aggressione Hitler-Stalin – firmato due anni prima dai due dittatori solo qualche giorno prima di invadere e spartirsi la Polonia - fu rotto senza preavviso quando Hitler, avendo già occupato l’Europa continentale, osò intraprendere la conquista dell’enorme massa terrestre che si stendeva dalla Polonia attraverso l’Asia fino al Pacifico sferrando un massiccio attacco a est contro le truppe di Stalin. Quella sera, dalla Casa Bianca, il presidente Lindbergh tenne un discorso alla nazione sul colossale allargamento della guerra da parte di Hitler e stupì persino mio padre con i suoi candidi elogi del Fùhrer tedesco. «Con questo atto, - dichiarava il presidente, - Adolf Hitler si è posto come la salvaguardia più grande del mondo contro l’espandersi del comunismo e dei suoi mali. Questo, non per minimizzare gli sforzi del Giappone imperiale. Consacratisi alla modernizzazione della Cina corrotta e feudale di Chiang Kai-shek, i giapponesi si sono messi con lo stesso impegno a sradicare la fanatica minoranza cinocomunista, il cui obiettivo era assumere il controllo di quel vasto paese e, come i bolscevichi in Russia, trasformare la Cina in un campo di prigionia comunista. Ma è a Hitler che il mondo intero dev’essere grato stasera per l’attacco all’Unione Sovietica. Se l’esercito tedesco avrà la meglio nella sua lotta contro il bolscevismo sovietico - e ci sono tutte le ragioni per ritenere che sarà così -, l’America non dovrà mai affrontare la minaccia di un vorace stato comunista che impone al resto del mondo il suo pernicioso sistema. Posso solo sperare che gli internazionalisti che ancora fanno parte del Congresso degli Stati Uniti riconoscano che se avessimo lasciato che il nostro paese venisse trascinato in questa guerra mondiale al fianco della Gran Bretagna e della Francia oggi noi troveremmo la nostra grande democrazia alleata con lo sventurato regime dell’Urss. Questa sera l’esercito tedesco è forse impegnato nella guerra che altrimenti avrebbe dovuto essere combattuta dalle truppe americane.» Le nostre truppe erano pronte, tuttavia, e lo sarebbero state, ricordò il presidente ai suoi concittadini, ancora per molto tempo, a causa della coscrizione approvata su sua richiesta dal Congresso per il tempo di pace, ventiquattro mesi di addestramento militare obbligatorio per i diciottenni, seguiti da otto anni di servizio nella riserva, che avrebbe contribuito enormemente a realizzare il duplice obiettivo di «tenere l’America fuori da tutte le guerre straniere e tenere tutte le guerre straniere fuori dall’America.» «Un destino indipendente per l’America»: questa fu la frase che Lindbergh ripeté una quindicina di volte nel suo discorso sullo stato dell’Unione e ancora alla fine della sua allocuzione la sera del 22 giugno. Quando chiesi a mio padre di spiegarmi cosa volevano dire quelle parole - assorbito dai titoli e oppresso da tutti i miei ansiosi pensieri, facevo sempre più domande sul significato di tutte le cose -, lui aggrottò la fronte e disse: - Vuol dire voltare le spalle ai nostri amici. Vuol dire
fare amicizia con i loro nemici. Sai cosa vuol dire, figliolo? Vuol dire distruggere tutto ciò che l’America rappresenta. Sotto gli auspici di Just Folks - descritto dall’appena creato Ufficio per l’assimilazione americana come «un programma di lavoro volontario per introdurre i giovani delle città alle attività tradizionali della vita nel cuore del paese» - l’ultimo giorno di giugno del 1941 mio fratello partì per un «tirocinio» estivo presso un coltivatore di tabacco del Kentucky. Poiché non si era mai allontanato da casa, e poiché la famiglia non aveva mai vissuto con una simile incertezza, e poiché mio padre si opponeva strenuamente a ciò che l’esistenza dell’Uaa insinuava sul nostro status di cittadini - e anche perché Alvin, già arruolato nell’esercito canadese, era diventato una perenne fonte di preoccupazione -, quello di Sandy fu un commiato commovente. Ciò che aveva dato a Sandy la forza di opporsi agli argomenti dei nostri genitori contro la sua partecipazione a Just Folks - e piantato nella sua testa l’idea di fare domanda - era il sostegno che aveva ricevuto dalla vivace sorella minore di mia madre, Evelyn, ora assistente esecutiva del rabbino Lionel Bengelsdorf, che era stato nominato dalla nuova amministrazione primo direttore dell’Uaa per lo stato del New Jersey. Lo scopo proclamato dell’Uaa era svolgere programmi «che incoraggiassero le minoranze religiose e nazionali d’America a meglio integrarsi nella società nel suo insieme», anche se nella primavera del 1941 l’unica minoranza che l’Uaa sembrava interessata a incoraggiare era la nostra. L’intento di Just Folks era di allontanare centinaia di ragazzi ebrei tra i dodici e i diciotto anni dalle città dove vivevano e andavano a scuola e di farli lavorare per otto settimane come braccianti e operai a giornata con famiglie di agricoltori a centinaia di miglia da casa. Cartelli strombazzanti il nuovo programma estivo erano stati affissi ai quadri avvisi di Chancellor e Weequahic, il liceo più vicino, dove la popolazione studentesca, come da noi, era ebraica al cento per cento. Un giorno di aprile, un rappresentante dell’Uaa del New Jersey era venuto a parlare ai ragazzi dai dodici anni in su della missione del programma, e quella sera a cena Sandy si presentò con un modulo per la domanda che richiedeva la firma di un genitore. - Capisci cosa sta veramente cercando di fare questo programma? – mio padre chiese a Sandy. - Capisci perché Lindbergh vuole staccare i ragazzi come te dalla famiglia e spedirli a casa del diavolo? Hai idea di cosa c’è sotto tutto questo? - Ma non c’entra nulla con l’antisemitismo, se è questo che pensi. Tu hai una cosa in mente, e una cosa sola. Questa è solo una grande occasione, tutto qui. - Occasione di che? - Di vivere in una fattoria. Di andare nel Kentucky. Di disegnare tutto quello che c’è là. Trattori. Stalle. Animali. Animali di ogni genere. - Ma non ti mandano là a disegnare animali, - gli disse mio padre. – Ti mandano là a prendere la broda per gli animali. Ti mandano là a spargere il letame. Alla fine della giornata sarai così stanco da non riuscire a reggerti in piedi, e tantomeno a disegnare un animale. E le mani? - disse mia madre. - Nelle aziende agricole c’è il filo spinato. Ci sono delle macchine con lame affilate. Potresti farti male alle mani, e allora cos’avresti
ottenuto? Non disegneresti mai più. Credevo che tu volessi andare al liceo artistico, quest’estate. Non volevi fare disegno col signor Leonard? - Posso sempre farlo... Così vedrò l’America! La sera dopo la zia Evelyn venne a cena, invitata da mia madre nelle ore che Sandy contava di passare a casa di un amico per fare i compiti; così non sarebbe stato lì ad assistere alla discussione che sarebbe sicuramente scoppiata tra la zia Evelyn e mio padre sul tema di Just Folks, e che in effetti scoppiò subito dopo che lei ebbe annunciato, entrando in casa, che si sarebbe occupata della domanda di Sandy appena fosse stata presentata. - Non farci favori, - disse mio padre senza sorridere. - Intendi dire che non vuoi lasciarlo andare? - Perché dovrei? - le chiese lui. - Perché non dovresti? - ribatté zia Evelyn. - Se non sei un altro ebreo che ha paura della sua ombra... Il contrasto non fece altro che acuirsi durante la cena, mio padre sostenendo che Just Folks era il primo passo in un piano di Lindbergh per separare i ragazzi ebrei dai genitori ed erodere la solidarietà della famiglia ebraica, e zia Evelyn insinuando non troppo gentilmente che la più grande paura di un ebreo come suo cognato era che i suoi figli potessero riuscire a non diventare gretti e spaventati come lui. Alvin era il rinnegato dalla parte di mio padre, Evelyn il cane sciolto dalla parte di mia madre, una supplente delle scuole elementari di Newark che parecchi anni prima aveva contribuito alla fondazione della Newark Teachers Union, il sindacato di sinistra composto in maggioranza di ebrei i cui iscritti, qualche centinaio, si trovavano a lottare contro un’associazione di insegnanti apolitica e meno battagliera nei negoziati per i contratti con la pubblica amministrazione. Nel 1941 Evelyn aveva appena compiuto trent’anni, e fino a due anni prima, quando la mia nonna materna morì per un collasso cardiaco dopo un decennio di invalidità dovuto alla debolezza delle sue coronarie, era stata Evelyn a occuparsi di lei nell’appartamentino all’ultimo piano della casa bifamiliare che madre e figlia condividevano in Dewey Street, poco lontano dalla scuola di Hawthorne Avenue dove Evelyn di solito faceva le sue supplenze. Nei giorni in cui una vicina non era libera di passare di là per dare un’occhiata a nostra nonna, mia madre prendeva l’autobus per Dewey Street e stava con lei fino al ritorno di Evelyn dal lavoro, e quando Evelyn, il sabato sera, andava a New York a vedere una commedia con i suoi amici intellettuali, o mio padre andava a prendere la nonna per farle passare la sera a casa nostra o mia madre tornava in Dewey Street per badare a lei lassù. Molte sere la zia Evelyn non faceva in tempo a tornare da New York - anche quando aveva stabilito di essere a Newark prima di mezzanotte - e allora mia madre era costretta a passare la notte lontano da suo marito e dai suoi figli. E poi c’erano i pomeriggi in cui Evelyn non rincasava che molte ore dopo la fine delle lezioni, per via di una vecchia e discontinua relazione amorosa con un supplente di North Newark, energico sindacalista come lei ma, diversamente da lei, sposato, italiano e padre di tre figli. Mia madre sosteneva sempre che se Evelyn a casa per tutti quegli anni non avesse dovuto occuparsi della loro madre invalida, avrebbe messo la testa a posto e si
sarebbe sposata dopo aver ottenuto l’abilitazione all’insegnamento e non sarebbe finita così, dentro e fuori da «disgustose» relazioni con uomini sposati suoi colleghi. Il naso grosso non impediva alla gente di dire che la zia Evelyn era una donna che «faceva colpo», ed era vero, come osservava mia madre, che quando la piccola Evelyn entrava in una stanza - una bruna vivace con una figura perfetta, anche se miniaturizzata, due enormi occhi neri obliqui come quelli di una gatta e un rossetto cremisi abbagliante - tutti si voltavano a guardare, le donne non meno degli uomini. I suoi capelli erano laccati fino ad assumere una lucentezza metallica e pettinati all’indietro in uno chignon, le sopracciglia depilate, e quando la zia Evelyn andava a fare lezione si metteva una gonna coloratissima, scarpe col tacco alto intonate alla a una larga cintura bianca e una camicetta sfumata semitrasparente. Mio padre trovava il suo abbigliamento di cattivo gusto per un’insegnante, e così pure il direttore della Hawthorne, ma mia madre, che, a ragione o a torto, si rimproverava per il fatto che Evelyn aveva dovuto «sacrificare la sua giovinezza» occupandosi della loro madre, era incapace di giudicare severamente l’audacia della sorella, anche quando Evelyn diede le dimissioni, lasciò il sindacato e, apparentemente senza alcun rimorso, rinunciò alle proprie idee politiche per mettersi a lavorare per il rabbino Bengelsdorf nell’Uaa di Lindbergh. Dovevano passare parecchi mesi prima che i miei genitori capissero che la zia Evelyn era l’amante del rabbino, e che lo era stata da quando si erano incontrati a un ricevimento dopo il suo discorso alla Newark Teachers Union sul tema «Lo sviluppo nell’aula scolastica degli ideali americani»; e lo capirono solo allora perché, lasciando l’Uaa del New Jersey per assumere il posto di direttore federale nella sede centrale di Washington, Bengelsdorf diede ai giornali di Newark la notizia del suo fidanzamento, all’età di sessantatre anni, con quella trottola della sua assistente trentunenne. Quando scappò per andare a combattere contro Hitler, Alvin immaginava che il modo più rapido per essere al centro degli avvenimenti sarebbe stato quello di imbarcarsi su uno dei cacciatorpediniere canadesi che facevano da scorta alle navi della marina mercantile che portavano rifornimenti in Gran Bretagna. Gli articoli dei giornali parlavano regolarmente dell’affondamento da parte dei sommergibili tedeschi di una o più delle navi canadesi nell’Atlantico settentrionale, certe volte vicino al continente, come nelle acque da pesca costiera di Terranova: uno sviluppo particolarmente sinistro per gli inglesi, perché quando l’amministrazione Lindbergh aveva abrogato la legislazione approvata dal Congresso rooseveltiano il Canada era diventato praticamente la loro unica fonte di armi, viveri, medicinali e macchinari. A Montreal Alvin incontrò un giovane disertore americano che gli disse di lasciar perdere la marina: erano i commando canadesi che si trovavano nell’occhio del ciclone, facendo incursioni notturne sul continente occupato dai nazisti, sabotando servizi di vitale importanza per i tedeschi, facendo saltare in aria arsenali di munizioni e, insieme ai commando britannici e di concerto con i movimenti della resistenza europea, distruggendo attrezzature portuali lungo la costa dell’Europa occidentale. Quando descrisse ad Alvin i molti modi in cui i commando ti
insegnavano ad ammazzare un uomo, Alvin abbandonò i suoi progetti originari e corse ad arruolarsi. Come il resto delle forze armate canadesi, i commando erano impazienti di accettare nelle loro file cittadini americani qualificati, e così, dopo sedici settimane di addestramento, Alvin fu assegnato a un’unità di commando in servizio attivo e spedito in una base segreta provvisoria nelle isole britanniche. E fu allora che finalmente ricevemmo sue notizie, una lettera di sei parole che diceva: «Sono andato a combattere. A presto.» Era passato solo qualche giorno da quando Sandy, solo so letto, aveva preso il treno notturno per il Kentucky allorché i miei genitori ricevettero una seconda lettera, questa non da Alvin ma dal ministero della Guerra di Ottawa, nella quale si informavano i parenti più stretti indicati da Alvin che il loro nipote era stato ferito in azione e si trovava in un convalescenziario del Dorset, in Inghilterra. Quella sera, dopo avere sparecchiato, mia madre tornò a sedersi al tavolo della cucina con una penna stilografica e la scatola di carta da lettere col monogramma riservata alla corrispondenza importante. Mio padre si sedette davanti a lei, e io rimasi in piedi alle sue spalle a guardare come il suo corsivo si spiegava uniformemente sul foglio grazie alla tecnica calligrafica che aveva usato quando faceva la segretaria e poi insegnato a Sandy e a me: col terzo e quarto dito messi in modo da reggere la mano, e l’indice più vicino del pollice alla punta della penna. Ripeteva ogni frase ad alta voce prima di scriverla caso mai mio padre volesse cambiarla o aggiungere qualcosa. Carissimo Alvin, stamattina abbiamo ricevuto una lettera del governo canadese che ci informa che sei stato ferito in azione e ti trovi in un ospedale in Inghilterra. La lettera non conteneva nient’altro di più specifico all’infuori di un indirizzo cui inviare la posta per te. In questo momento siamo seduti intorno al tavolo della cucina, lo zio Herman, Philip e la zia Bess. Vogliamo sapere tutto delle tue condizioni. Sandy è via per l’estate, ma gli scriveremo immediatamente per dargli tue notizie. C’è qualche probabilità che ti rimandino in Canada? In tal caso, verremmo in macchina a trovarti. Intanto, ti abbracciamo e speriamo che ci scriverai dall’Inghilterra. Scrivi, per favore, o chiedi a qualcuno di scrivere per te. Qualunque cosa tu voglia che facciamo, la faremo. Ti vogliamo bene e sentiamo la tua mancanza. A questo messaggio apponemmo le nostre tre firme. Passò quasi un mese prima che arrivasse la risposta. Caro Signor Roth e Signora, il caporale Alvin Roth ha ricevuto la vostra lettera del 5 luglio. Io sono l’infermiera anziana della sua unità e gli ho letto la lettera diverse volte per assicurarmi che capisse di chi era e cosa diceva. In questo momento il caporale Roth non è in grado di comunicare. Ha perso la gamba sinistra sotto il ginocchio ed è stato ferito gravemente al piede destro. Il piede
destro è in via di guarigione e la ferita non dovrebbe lasciarlo menomato. Quando la gamba sinistra sarà pronta, lo muniremo di una protesi con cui gli verrà insegnato a camminare. Questo è un brutto momento per il caporale Roth, ma desidero assicurarvi che col tempo egli dovrebbe essere in grado di tornare alla vita civile senza problemi fisici particolarmente significativi. Questo ospedale è riservato agli amputati e agli ustionati. Ho visto molti uomini affrontare le stesse difficoltà psicologiche del caporale Roth, ma per la maggior parte superano la crisi, e io credo fermamente che il caporale Roth farà altrettanto. Distinti saluti, Ten. A. F. Cooper. Una volta la settimana, Sandy scriveva dicendo che stava bene e parlando del caldo che faceva nel Kentucky e concludendo con una frase sulla vita alla fattoria: qualcosa come «C’è un raccolto di more eccezionale» o «Le mosche stanno facendo impazzire i manzi» o «Oggi tagliano l’erba medica» o «È iniziata la cimatura», checché questo potesse significare. Poi, sotto la firma - e forse per dimostrare a suo padre che aveva abbastanza lena per disegnare anche dopo avere lavorato per tutta la giornata in campagna -, schizzava la figura di un maiale («Questo maiale – annotava - Pesa più di centotrenta chili!») o di un cane («Suzie, la cagna di Orin. spaventare i serpenti è la sua specialità») o di un agnello («Ieri il signor Mawhinney ha portato 30 agnelli al mattatoio») o di una stalla («Hanno appena dato a questo posto una mano di creosoto. Puah!») Di solito il disegno occupava uno spazio molto più grande del messaggio, e con grande delusione di mia madre le domande da lei sollevate nella sua lettera settimanale, dove gli chiedeva se aveva bisogno di vestiti o medicine o denaro, raramente ottenevano risposta. Naturalmente io sapevo che mia madre aveva per ciascuno dei suoi figli la stessa devozione, ma solo quando Sandy partì per il Kentucky capii cosa significava, individualmente, mio fratello per lei. Anche se rifiutava di abbattersi per una separazione di otto settimane da un figlio che aveva già tredici anni, per tutta l’estate in certi gesti e certe espressioni facciali fu possibile cogliere un sottofondo di sconforto, specie a tavola, in cucina, quando le sere passavano e la quarta seggiola accostata per la cena rimaneva vuota. La zia Evelyn era con noi quando andammo alla Penn Station a prendere Sandy il sabato d’agosto in cui arrivò a Newark. Era l’ultima persona da cui mio padre avrebbe voluto farsi accompagnare, ma proprio come, contro le proprie inclinazioni, alla fine aveva permesso a Sandy di fare domanda per Just Folks e accettare quel lavoro estivo nel Kentucky, così mio padre aveva ceduto all’influenza della cognata su suo figlio per non rendere più difficile una situazione i cui pericoli non erano ancora del tutto chiari. Alla stazione, la zia Evelyn fu la prima a riconoscerlo quando Sandy scese dal treno sul marciapiede, quattro o cinque chili più pesante di quando era partito, e con i capelli castani schiariti dal lavoro nei campi sotto il sole estivo. Era cresciuto anche di statura, di cinque centimetri buoni, tanto che l’orlo dei calzoni era ormai ben lontano dalle scarpe; e complessivamente la mia impressione fu che fosse mio fratello travestito.
- Ehi, contadino, - gridò la zia Evelyn, - da questa parte! - e a lunghi passi Sandy venne nella nostra direzione, dondolando le borse ai lati del corpo e sfoggiando una nuova andatura sportiva intonata al nuovo fisico. - Bentornato, straniero, - disse mia madre, e con un’aria da ragazzina gli buttò allegramente le braccia al collo, e le parole che gli sussurrò all’orecchio («È mai esistito un ragazzo così bello?») lo costrinsero a protestare con un «Mamma! piantala!» che, naturalmente, regalò al resto della famiglia una grossa risata. Tutti lo abbracciammo e lui, davanti al treno sul quale era salito a settecentocinquanta miglia da lì, fletté i bicipiti per farmeli sentire. In macchina, quando cominciò a rispondere alle nostre domande, udimmo come si era arrochita la sua voce, e notammo per la prima volta l’accento strascicato del Sud. La zia Evelyn era trionfante. Sandy parlò dell’ultimo lavoro che aveva fatto in campagna: andare in giro con Orin, uno dei figli di Mawhinney, a raccogliere le foglie di tabacco staccatesi durante il raccolto. Erano di solito le più basse sulla pianta, disse Sandy, le chiamavano «volanti», e il caso voleva che fosse tabacco della migliore qualità, quello che al mercato spuntava il prezzo più alto. Ma gli uomini che tagliano il tabacco in una piantagione di dieci ettari non possono curarsi delle foglie rimaste sul terreno, ci spiegò, perché devono tagliare quasi tremila mazzi di tabacco al giorno per poter sistemare ogni cosa nel capannone per la cura in due settimane. Oooh! Ferma il cavallo... Cos’è un «mazzo», caro? - chiese la zia Evelyn, e di buon grado lui le usò la cortesia di darle la più lunga spiegazione possibile. E cos’è la cura, chiese lei, cos’è la cimatura, cos’è la spollonatura, cos’è lo sverminamento?.. E più domande faceva la zia Evelyn, più autorevole diventava Sandy, tanto che, quando arrivammo in Summit Avenue e mio padre mise la macchina nel vialetto, stava ancora parlando del tabacco come se si aspettasse che tutti noi andassimo subito nel cortile dietro casa e ci mettessimo a preparare il pezzo di terra pieno di erbacce vicino ai bidoni della spazzatura per il primo raccolto di Burley chiaro che si fosse mai fatto a Newark. - È il Burley addolcito che c’è nelle Lucky - ci informò - a dargli quel sapore, - e intanto io morivo dalla voglia di toccare nuovamente i suoi bicipiti, che per me non erano meno straordinari dell’accento regionale, se quello era l’accento del Kentucky: diceva «cain’t» per «can’t» e «rimember» per «remember» e «fahr» per «fire» e «agin» per «again» e «awalkin’» e «atalkin’» per «walking» e «talking», e comunque si fosse voluto chiamare quella mistura d’inglese, non era la lingua che parlavano i nati nel New Jersey. La zia Evelyn era trionfante, ma mio padre era contrariato, non disse quasi nulla, e a cena, quella sera, sembrò particolarmente cupo quando Sandy si mise a spiegare che uomo eccezionale fosse il signor Mawhinney. Prima di tutto, il signor Mawhinney si era laureato al College of Agriculture dell’università del Kentucky, mentre mio padre, come quasi tutti gli altri figli dei quartieri poveri di Newark prima della guerra mondiale, non era andato oltre l’ottava elementare. Il signor Mawhinney possedeva non una ma tre aziende agricole, le più piccole delle quali erano in mano a due affittuari: terra che apparteneva alla sua famiglia fin quasi dai tempi di Daniel Boone, mentre mio padre non aveva nulla di più imponente di un’automobile vecchia
di sei anni. Il signor Mawhinney era capace di sellare un cavallo, guidare un trattore, usare una trebbiatrice, manovrare uno spandiconcime, arare un campo con una coppia di muli e con una coppia di buoi; sapeva alternare le colture e dirigere i braccianti, bianchi e neri; sapeva aggiustare gli attrezzi, affilare le lame degli aratri e delle falciatrici, drizzare staccionate, tirare filo spinato, allevare galline, disinfestare le pecore, tagliare le corna al bestiame, ammazzare i maiali, affumicare la pancetta, salare e stagionare i prosciutti: e produceva angurie che erano le più dolci e le più succose che Sandy avesse mai mangiato. Coltivando tabacco, granturco e patate, il signor Mawhinney riusciva a vivere dei frutti della terra e poi, durante la cena domenicale (dove quell’agricoltore, che pesava un quintale ed era alto un metro e novanta, consumava più pollo fritto col sugo alla panna di tutti gli altri commensali messi insieme), mangiava solo roba coltivata da lui personalmente, mentre mio padre non sapeva fare altro che vendere polizze di assicurazione. Superfluo aggiungere che il signor Mawhinney era cristiano, membro di vecchia data della schiacciante maggioranza che aveva fatto la Rivoluzione e fondato la nazione e civilizzato la selva e soggiogato gli indiani e ridotto i negri in schiavitù ed emancipato i negri e segregato i negri, uno dei milioni di buoni cristiani, puliti e laboriosi, che avevano colonizzato la frontiera, arato i campi, costruito le città, e che governavano gli stati, sedevano al Congresso, occupavano la Casa Bianca, ammassavano ricchezze, possedevano la terra, e le acciaierie e le squadre di baseball e le strade ferrate e le banche, e possedevano e controllavano persino la lingua, uno di quegli inattaccabili protestanti nordici e anglosassoni che governavano l’America e sempre l’avrebbero governata - generali, dignitari, magnati, capitani d’industria, gli uomini che facevano le leggi e comandavano e quando volevano richiamavano all’ordine - mentre mio padre, naturalmente, era soltanto un ebreo. Quando la zia Evelyn se ne fu andata, demmo a Sandy notizie di Alvin. Mio padre era in cucina ad aggiornare i libri contabili prima di uscire per le sue riscossioni serali e mia madre era scesa in cantina con Sandy a scegliere tra i vestiti che aveva riportato dal Kentucky, a decidere cosa aggiustare e cosa buttar via prima di mettere tutto il resto nella tinozza per il bucato. Mia madre faceva sempre immediatamente le cose che andavano fatte, ed era decisa a disfarsi della sua roba sporca prima di andare a letto. Io ero giù con loro, perché non potevo permettere che mio fratello sparisse. Aveva sempre saputo tutte le cose che io non sapevo, ed era tornato dal Kentucky dopo averne imparate tante altre. - Devo parlarti di Alvin, - gli disse mia madre. - Non volevo scrivere perché... be’, non volevo spaventarti, caro -. Qui, facendosi forza per non piangere, disse a bassa voce: - Alvin è stato ferito. È all’ospedale, in Inghilterra. Sta rimettendosi dalle ferite. Sbalordito, Sandy chiese: «Chi lo ha ferito?», come se lei stesse parlando di una cosa che era successa nel nostro quartiere e non nell’Europa occupata dai nazisti, dove la gente veniva mutilata, ferita e uccisa continuamente. - Non conosciamo i particolari, - disse mia madre. - Ma non è una ferita superficiale. Devo dirti una cosa molto triste, Sanford -. E nonostante il suo tentativo
di tenerci su il morale, cominciò a tremarle la voce quando disse: - Alvin ha Perso una gamba. - Una gamba? - Non esistono molte parole meno astruse di «gamba», ma a Sandy occorse un po’ di tempo per capirla. - Sì. Stando a una lettera che abbiamo ricevuto da una delle infermiere, la gamba sinistra sotto il ginocchio -. Come se questo in qualche modo potesse consolarlo, soggiunse: - Se vuoi leggerla, la lettera è di sopra. - Ma... come farà a camminare? - Gli metteranno una gamba artificiale. - Ma non capisco chi lo ha ferito. Com’è stato ferito? - Be’, erano là per combattere i tedeschi, - disse lei, - dunque sarà stato uno di loro. Sempre cercando di respingere ciò che stava facendo presa, Sandy domandò: Quale gamba? Con tutta la tenerezza possibile, mia madre ripeté: - La sinistra. - Tutta la gamba? La gamba intera? - No, no, no, - si affrettò a rassicurarlo. - Te l’ho detto, caro: sotto il ginocchio. A un tratto Sandy si mise a piangere, e poiché si era così ingrossato nelle spalle e nel torace e intorno ai polsi, così ingrossato rispetto alla primavera scorsa, perché adesso le sue braccia erano muscolose come quelle di un uomo piuttosto che esili come quelle di un bambino, rimasi così sorpreso e spaventato alla vista delle lacrime che scorrevano sul suo viso profondamente abbronzato che mi misi a piangere anch’io. - Caro, è terribile, - disse mia madre. - Ma Alvin non è morto. È ancora vivo, e ora almeno è fuori della guerra. - Cosa? - proruppe Sandy. - Hai sentito quello che mi hai appena detto? - Che vuoi dire? - chiese lei. - Hai ascoltato le tue parole? Hai detto: «È fuori della guerra.» - Ed è così. Assolutamente. E per questo ora tornerà a casa prima che possa succedere qualche altra cosa. - Ma perché era in guerra, mamma? - Perché... - A causa di papà! - urlò Sandy. - Caro, no, questo non è vero, - e la sua mano salì a coprirle la bocca come se fosse stata lei a pronunciare quelle imperdonabili parole. – Non è così, - obiettò. - Alvin è partito per il Canada senza dircelo. È scappato via quel venerdì sera. Ricordi com’è stato terribile? Nessuno voleva che Alvin partisse per la guerra: c’è andato e basta, per conto suo. - Ma papà vuole che l’intero paese entri in guerra. Be’, non è così? Non è per questo che ha votato per Roosevelt? - Abbassa la voce, per piacere. - Prima dici: grazie a Dio che Alvin è fuori della guerra...
- Abbassa la voce! - e la tensione della giornata la travolse, tanto che perse le staffe e al ragazzo di cui aveva sentito così dolorosamente la mancanza per tutta l’estate abbaiò: - Tu non sai quello che dici! - Ma tu non ascolti, - gridò lui. - Se non fosse stato per il presidente Lindbergh... Ancora quel nome! Avrei preferito sentire lo scoppio di una bomba piuttosto che dover udire ancora una volta il nome che ci stava tormentando tutti. Proprio allora mio padre fece la sua comparsa nella luce fioca del pianerottolo in cima alla scala della cantina. Fu probabilmente un bene che, dalla nostra posizione accanto alla vasca profonda della lavanderia, di lui non si potessero vedere altro che i calzoni e le scarpe. - È sconvolto per Alvin, - disse mia madre, alzando gli occhi per spiegare cos’erano quelle urla. - Ho sbagliato -. A Sandy disse: - Non avrei mai dovuto dirtelo stasera. Non è facile per un ragazzo tornare a casa da una grossa esperienza come quella... Non è mai facile andare da un posto all’altro... E comunque tu sei così stanco... - e poi, impotente, cedendo alla stanchezza, disse: - Voi, tutt’e due, andate di sopra, adesso, così posso fare il bucato. E così noi ci voltammo per salire le scale e scoprimmo, fortunatamente, che mio padre era già sparito dal pianerottolo ed era uscito con la macchina per le sue riscossioni serali. A letto, un’ora dopo. Le luci sono spente in tutta la casa. Noi parliamo sottovoce. Ti sei divertito veramente? Mi sono divertito moltissimo. Per quale motivo? Vivere in campagna è bellissimo. Devi alzarti presto la mattina, e stai fuori tutto il giorno, e ci sono tutti questi animali. Ho disegnato un mucchio di animali, ti mostrerò i disegni. E tutte le sere c’era il gelato. La signora Mawhinney lo fa con le sue mani. Là c’è il latte fresco. Tutto il latte è fresco. No, noi lo prendevamo direttamente dalla vacca. Era ancora caldo. Lo mettevamo sul fornello per bollirlo e prendevamo la panna che c’era sopra, e poi lo bevevamo. Non potevate ammalarvi, a berlo? Per questo viene bollito. Ma non lo bevi direttamente dalla vacca. Una volta ci ho provato, ma non è tanto buono. È troppo ricco di panna. Hai munto le vacche? Orin mi ha mostrato come si fa. È difficile. Orin lo schizzava qua e là, e i gatti accorrevano e cercavano di bere il latte. Ti sei fatto degli amici? Be’, Orin è il mio migliore amico. Orin Mawhinney? Sì. Ha la mia età. Va a scuola là. Lavora in campagna. Si alza alle quattro del mattino. Sbriga i lavori domestici. Non è come noi. Va a scuola in autobus. Sono quasi tre quarti d’ora d’autobus, e poi torna a casa la sera e sbriga altre faccende, e fa i compiti, e va a letto. Si alza alle quattro della mattina dopo. È duro essere il figlio di un agricoltore. Ma sono ricchi, no? Sono abbastanza ricchi. Perché adesso parli così?
Perché non dovrei? E così che parlano nel Kentucky. Dovresti sentire la signora Mawhinney. Lei viene dalla Georgia. Tutte le mattine fa le frittelle per la colazione. Con la pancetta. Il signor Mawhinney se l’affumica da solo, la pancetta. In un affumicatoio. Sa come si fa. Mangiavi pancetta tutte le mattine? Tutte le mattine. È deliziosa. E la domenica quando ci alzavamo c’erano le frittelle con la pancetta e le uova. Delle loro galline. Le uova... sono quasi rosse dentro, tanto sono fresche. Le vai a prendere da sotto le galline e le porti in casa e le mangi lì per lì. Mangiavate prosciutto? Mangiavamo prosciutto a cena un paio di volte la settimana. Il signor Mawhinney se lo fa con le sue mani. Ha una speciale ricetta di famiglia. Dice che se il prosciutto non rimane appeso a stagionarsi per un anno, lui non lo vuole mangiare. Mangiavate salsicce? Sì. Fa anche le salsicce. Macinano tutto in un tritacarne. Certe volte mangiavamo le salsicce al posto del prosciutto. Sono buone. E braciole di maiale. Anche quelle sono buone. Sono fantastiche. Non so davvero perché noi non le mangiamo. Perché è roba che viene dal maiale. - E allora? Perché credi che gli agricoltori allevino i maiali? Per farli vedere alla gente? E come tutto il resto della roba da mangiare. La mangi, ed è veramente buona. Continuerai a mangiare maiale? Certo. Però là faceva proprio caldo, eh? Di giorno. Ma all’ora di pranzo andavamo a casa, a mangiare panini con i pomodori e la maionese. Con la limonata: con tantissima limonata. Ci riposavamo in casa e poi tornavamo fuori nei campi a fare quello che dovevamo fare. A sarchiare. A sarchiare per tutto il pomeriggio. A sarchiare il granturco. A sarchiare il tabacco. Avevamo un orto, io e Orin, e sarchiavamo anche quello. Lavoravamo con i braccianti, e c’erano dei negri, operai a giornata. E c’è un negro, Randolph, che è un affittuario, e prima era un bracciante. È un agricoltore coi fiocchi, dice il signor Mawhinney. Tu li capisci quando i negri parlano? Certo. Puoi imitarne uno? Loro dicono «’bacca» per tabacco. Dicono «questa, poi!» Questa e quella. Ma non parlano molto. Lavorano quasi sempre. Quando è ora di ammazzare i maiali, il signor Mawhinney ha Clete e il Vecchio Henry che li sbudellano. Sono due negri, sono fratelli, e si portano a casa gli intestini e se li mangiano fritti. Le frattaglie. Tu le mangeresti? Ti sembro un negro? Il signor Mawhinney dice che i negri cominciano a lasciare la campagna perché pensano di poter guadagnare di più in città. Ogni tanto, il sabato sera, il Vecchio Henry si faceva arrestare. Per ubriachezza. Il signor Mawhinney paga la multa per farlo uscire perché il lunedì ha bisogno di lui.
Hanno le scarpe? Alcuni. I bambini sono scalzi. I Mawhinney gli danno la loro roba quando non la usano più. Ma erano felici. Qualcuno dice qualcosa sull’antisemitismo? Non gli passa nemmeno per la testa, Philip. Io ero il primo ebreo che avessero mai conosciuto. Me lo hanno detto. Ma non hanno mai detto una cattiveria. È il Kentucky. Là la gente è veramente cordiale. Allora, sei contento di essere a casa? Abbastanza. Non so. Ci torni l’anno prossimo? Certo. E se papà e mamma non ti lasciano? Ci andrò in ogni modo. Diretta conseguenza, almeno apparentemente, del fatto che Sandy aveva mangiato pancetta, prosciutto, salsicce e braciole di maiale, fu che ci riuscì impossibile frenare la trasformazione delle nostre vite. Il rabbino Bengelsdorf stava Per venire a cena. Lo portava la zia Evelyn. - Perché noi? - mio padre disse a mia madre. La cena era terminata, Sandy era disteso sul suo letto a scrivere a Orin Mawhinney e io ero rimasto solo con loro nel soggiorno, curioso di vedere come mio padre avrebbe preso la notizia ora che le cose intorno a noi stavano muovendosi tutte in una volta. - È mia sorella, - disse mia madre, un po’ bellicosamente, - lui è il suo capo: non posso dirle di no. - Io sì, - disse lui. - Tu non farai nulla di simile. - Allora spiegami di nuovo perché meritiamo questo grande onore. Il pezzo grosso non ha nulla di più urgente da fare che venire qui? - Evelyn vuole fargli conoscere tuo figlio. - È ridicolo. Tua sorella è sempre stata ridicola. Mio figlio fa l’ottava nella scuola di Chancellor Avenue. Ha passato l’estate strappando erbacce. È tutto ridicolo. - Herman, vengono giovedì sera, e noi faremo in modo che si sentano a loro agio. Può anche darsi che tu lo odi, Bengelsdorf, ma non è una nullità. - Lo so, - disse lui, spazientito. - È proprio per questo che lo odio. Ora, quando mio padre girava per la casa, una copia di «PM» era costantemente tra le sue mani, o arrotolata come un’arma - come se si stesse preparando, se richiamato, ad andare in guerra pure lui - o con le pagine voltate fino a quella dove c’era una cosa che voleva leggere a mia madre. Mio padre non capiva, quella sera, per quale motivo i tedeschi continuassero ad avanzare tanto facilmente in Russia, e così, agitando esasperato il giornale, tutt’a un tratto esclamò: - Perché questi russi non combattono} Hanno gli aerei... Perché non li usano? Perché nessuno fa resistenza, laggiù? Hitler entra in un paese, passa il confine ed entra, e tombola!, è suo. L’Inghilterra annunciò – è l’unico paese europeo che abbia osato opporsi a quella canaglia. Ogni
notte lui martella quelle città inglesi, e loro rispondono e continuano a combatterlo con la Raf. Grazie a Dio per gli uomini della Raf. - Quando invaderà l’Inghilterra, Hitler? - gli chiesi io. - Perché non la invade subito? - Questo rientrava nei patti che ha stipulato col signor Lindbergh in Islanda. Lindbergh vuol essere il salvatore dell’umanità, - mi spiegò mio padre, - e negoziare la pace che mette fine alla guerra, e così, dopo che Hitler avrà preso la Russia, e dopo che avrà preso il Medio Oriente, e dopo che avrà preso tutto quello che vuole, Lindbergh convocherà una finta conferenza della pace che ai tedeschi andrà proprio a fagiolo. I tedeschi saranno là, e il prezzo per la pace mondiale e nessuna invasione tedesca della Gran Bretagna sarà questo: installare in Inghilterra un governo inglese fascista. Mettere un primo ministro fascista a Downing Street. E quando gli inglesi diranno di no, allora Hitler procederà all’invasione, e tutto col consenso di quel paciere del nostro presidente. - È quello che dice Walter Winchell? - chiesi, pensando che tutto quello che mi aveva spiegato era forse troppo sottile per lui. - È quello che dico io, - mi disse lui, e probabilmente era vero. La pressione degli avvenimenti stava accelerando l’educazione di tutti, compresa la mia. - Ma grazie a Dio per Walter Winchell. Senza di lui saremmo perduti. È l’ultima persona rimasta alla radio che alzi la voce contro questi cani rognosi. È disgustoso. È peggio che disgustoso. Lentamente, ma sicuramente, in America non c’è più nessuno disposto a parlar chiaro su Lindbergh che bacia il culo di Hitler. - E i democratici? - chiesi. - Figliolo, non parlarmi dei democratici. Sono già abbastanza rabbioso così. Giovedì sera mia madre mi chiese di aiutarla ad apparecchiare la tavola nella sala da pranzo e poi mi spedì in camera da letto a mettermi il vestito buono. La zia Evelyn e il rabbino Bengelsdorf dovevano arrivare alle sette, quarantacinque minuti più tardi di quando avremmo ordinariamente finito di mangiare in cucina, ma a causa di tutti i suoi impegni ufficiali il rabbino non poteva essere a casa nostra prima delle sette. Bengelsdorf era proprio il traditore che mio padre, di solito rispettosissimo dei ministri del culto, aveva accusato ad alta voce di avere pronunciato al Madison Square Garden «un discorso stupido e menzognero» a favore di Lindbergh, l’«imbroglione ebreo», secondo Alvin, che aveva garantito la sconfitta di Roosevelt «cucinando Lindbergh all’ebraica per i goyim», e proprio per questo era strano vedere quanta pena ci davamo per garantirgli una buona accoglienza. Io stesso ricevetti, prima del suo arrivo, l’ordine di non usare gli asciugamani freschi del bagno e di non avvicinarmi alla poltrona di mio padre, riservata al rabbino prima che ci mettessimo a tavola per la cena. All’inizio sedemmo tutti rigidamente nel soggiorno mentre mio padre offriva al rabbino un highball o, se preferiva, un goccio di schnapps, cose che Bengelsdorf declinò a favore di un bicchiere di acqua del rubinetto. - Newark ha l’acqua potabile migliore della terra, - disse il rabbino, e lo disse come diceva ogni cosa, con profonda considerazione.
Graziosamente ricevette il bicchiere, su un sottobicchiere, da mia madre, che in ottobre - lo ricordavo bene - usciva dalla stanza per non sentirlo elogiare Lindbergh alla radio. - Avete una casa davvero accogliente, - le disse. - Ogni cosa al suo posto e ogni cosa perfettamente a posto. Rivela un amore per l’ordine che anch’io condivido. Vedo che avete un debole per il verde. - Verde foresta, - disse mia madre, sforzandosi di sorridere e cercando di essere simpatica, ma parlando a fatica e ancora stentando a guardare dalla sua parte. - Lei dev’essere molto fiera della sua bella casa. Sono onorato di essere suo ospite. Il rabbino era molto alto, più o meno come Lindbergh, un uomo magro e spelacchiato in un completo scuro e con un paio di lucide scarpe nere; la sua posizione eretta sembrava esprimere, da sola, un’adesione ai più nobili ideali dell’umanità. Dal mellifluo accento meridionale che avevo sentito alla radio mi ero fatto l’idea di una persona con un aspetto molto meno severo, mentre invece bastavano gli occhiali a intimidire, in parte perché erano quegli occhiali ovali da gufo che per non scivolare ti pizzicavano il naso, come quelli che portava Roosevelt, e in parte perché proprio il fatto che li portasse - e che attraverso gli occhiali ti esaminasse microscopicamente - ti faceva capire chiaramente che era un uomo da cui era sconsigliabile dissentire. E tuttavia quando parlava il suo tono era cordiale, caloroso, confidenziale addirittura. Continuavo ad aspettarmi che ci trattasse con aria sprezzante o che ci ordinasse di fare questo o quello, e lui invece non faceva altro che chiacchierare con quell’accento (che non assomigliava per niente a quello di Sandy), e così piano che certe volte dovevo trattenere il respiro per sentire che uomo colto fosse. E tu devi essere il ragazzo - disse a Sandy - che ci ha reso tutti così orgogliosi. - Io sono Sandy, signore, - rispose Sandy, arrossendo furiosamente. Era, a mio avviso, una brillante risposta a una domanda che un altro ragazzo vincente, cercando di mostrare la giusta dose di modestia, avrebbe potuto non essere in grado di dare con tanta prontezza. No, nulla avrebbe più potuto rovinarlo, con quei muscoli e quei capelli schiariti dal sole e tutta la carne di maiale di cui si era ingozzato senza chiedere il permesso a nessuno. - E com’era, - chiese il rabbino, - lavorare là nei campi del Kentucky sotto il sole cocente? - Diceva «wuhk» per «work» e «buhning» per «burning» e «theyuh» per «there», e pronunciava la parola «Kentucky» com’era scritta e non, come faceva ora Sandy, come se le prime tre lettere fossero K-in. - Ho imparato molto, signore. Ho capito tante cose del mio paese. La zia Evelyn approvò visibilmente, come c’era da aspettarsi, dato che per telefono, la sera prima, gli aveva suggerito la risposta proprio a quella domanda. Poiché doveva essere sempre superiore a mio padre, non poteva provare una soddisfazione più grande di questa: plasmare l’esistenza del suo figlio maggiore proprio sotto il suo naso. - Eri in una piantagione di tabacco, mi ha detto tua zia Evelyn. - Sissignore. Tabacco Burley chiaro.
- Lo sapevi, Sandy, che il tabacco è stato il fondamento economico della prima colonia inglese permanente in America, a Jamestown, in Virginia? - No, - ammise lui, ma soggiunse: - Anche se non mi sorprende, - e in un lampo il peggio era passato. - Molte disgrazie afflissero i pionieri di Jamestown, - gli disse il rabbino. - Ma quella che li salvò dalla fame e salvò la colonia dall’estinzione fu la coltivazione del tabacco. Pensa. Senza tabacco, il primo governo rappresentativo del nuovo mondo non si sarebbe mai riunito a Jamestown, come fece nel 1619. Senza tabacco, la colonia di Jamestown sarebbe crollata, la colonizzazione della Virginia sarebbe fallita e le Prime Famiglie della Virginia, la cui ricchezza derivava dalle loro piantagioni di tabacco, non sarebbero mai venute alla ribalta. E quando si ricorda che le Prime Famiglie della Virginia furono le antenate degli statisti virginiani che furono i padri fondatori della nostra patria, si apprezza la vitale importanza del tabacco nella storia della nostra repubblica. - Certo, - disse Sandy. - Io stesso - disse il rabbino - sono nato nel Sud. Sono nato quattordici anni dopo la tragedia della Guerra Civile, Mio padre, da giovane, combatté per la Confederazione. Suo padre era venuto dalla Germania a stabilirsi in South Carolina nel 1850. Era un venditore ambulante. Aveva un cavallo con un carro e una lunga barba, e vendeva le sue merci ai negri e ai bianchi. Hai mai sentito parlare di Judah Benjamin? - il rabbino chiese a Sandy. - Nossignore -. Ma si rimise prontamente in carreggiata, questa volta replicando: Posso chiederle chi era? - Be’, era un ebreo, e secondo solo a Jefferson Davis nel governo della Confederazione. Era un avvocato ebreo che prestò servizio sotto Davis come ministro della Giustizia, ministro della Guerra e segretario di stato. Prima della secessione degli stati del Sud aveva prestato servizio nel Senato degli Stati Uniti come uno dei due senatori del South Carolina. La causa per cui il Sud entrò in guerra non era a mio giudizio né legittima né morale, eppure ho sempre tenuto Judah Benjamin nella massima considerazione. Un ebreo era una rarità in America a quei tempi, nel Nord non meno che; nel Sud, ma non credere che anche allora non esistesse un antisemitismo con cui lottare. Ciononostante, Judah Benjamin si avvicinò all’apogeo del successo politico nel governo confederato. Perduta la guerra, si recò all’estero e divenne un illustre avvocato in Inghilterra. A questo punto mia madre andò in cucina - con la scusa di controllare la cena - e la zia Evelyn disse a Sandy: - Forse questo è un buon momento per mostrare al rabbino i disegni che hai fatto laggiù. Sandy si alzò e si avvicinò alla poltrona del rabbino con l’album da disegno che aveva riempito di schizzi durante l’estate e che aveva tenuto sulle ginocchia da quando ci eravamo radunati nel soggiorno. Il rabbino prese uno degli album e cominciò lentamente a girare le pagine. - Di’ al rabbino qualcosa su ogni figura, - suggerì la zia Evelyn.
- Quello è il capannone, - disse Sandy. - È il posto dove appendono il tabacco per curarlo dopo averlo raccolto. - Be’, è proprio un capannone, e anche disegnato molto bene. Mi piace molto il contrasto fra la luce e il buio. Hai un grande talento, Sanford. - E questa è una pianta di tabacco. È così che sono fatte. Vede, ha la forma di un triangolo. Sono grosse. Questa ha ancora il fiore, sopra. Prima di essere cimata. - E questa pianta di tabacco, - disse il rabbino, voltando la pagina, - col sacchetto sopra?.. Questa è una cosa che non ho mai visto. - È per avere la semente. È una pianta da seme. Coprono il fiore con un sacchetto di carta e lo legano stretto. Conserva il fiore come si deve. - Molto, molto benedisse , il rabbino. - Non è facile disegnare accuratamente una pianta e fare insieme un’opera d’arte. Guarda come hai ombreggiato la parte inferiore delle foglie. Molto bene, davvero. - E questo è un aratro, naturalmente, - disse Sandy, - e quella è una zappa. Una zappa manuale. Per sarchiare. Ma puoi usare anche solo le mani. - E hai sarchiato molto? - chiese il rabbino per canzonarlo. - Mamma mia! - disse Sandy, e il rabbino Bengelsdorf sorrise, perdendo tutta la sua aria burbera. - E quella è la cagna, - proseguì Sandy, - la cagna di Orin. Addormentata. E quello è uno dei negri, il Vecchio Henry, e quelle sono le sue mani. Mi sembravano caratteristiche. - E questo chi è? - Quello è il fratello del Vecchio Henry, Clete. - Mi piace come lo hai reso. L’aria stanca che ha, così sbracato. Li conosco, questi negri... Sono cresciuto con loro, e li rispetto. E questo? Questo che cosa sarebbe? chiese il rabbino. - Qui, col soffietto. - Be’, c’è una persona, sotto. È così che irrora il tabacco per uccidere i vermi. Deve vestirsi così da capo a piedi con grossi guanti e roba pesante tutta abbottonata per non bruciarsi. Quando schizza l’insetticida dal soffietto può ustionarsi. È verde, la polvere, e quando finisce ne è tutto coperto. Ho cercato di mostrare com’è la polvere, ho cercato di farlo più chiaro dove c’è la polvere, ma non credo che sia venuto bene. - Be’, sono sicuro - disse il rabbino - che non è facile disegnare la polvere, - e cominciò a procedere un po’ più rapidamente attraverso le pagine che restavano finché arrivò all’ultima e chiuse l’album. – Il Kentucky è un’esperienza che con te non è stata sprecata, vero, giovanotto? - Mi è piaciuto un mondo, - rispose Sandy, e mio padre, che era rimasto muto e immobile sul sofà da quando aveva ceduto al rabbino la sua poltrona preferita, si alzò e disse: - Devo aiutare Bess, - nello stesso modo in cui avrebbe potuto dire: «Ho deciso di ammazzarmi e ora vado a buttarmi dalla finestra.» - Gli ebrei d’America - ci disse il rabbino a cena - sono diversi da quelli di tutte le altre comunità israelitiche nella storia del mondo. Hanno la più grande occasione che si sia mai presentata al nostro popolo nell’epoca moderna. Gli ebrei d’America possono partecipare pienamente alla vita nazionale del loro paese. Non devono più
vivere appartati, comunità paria separata dagli altri. Tutto quello che ci vuole è il coraggio che ha mostrato vostro figlio, Sandy, affrontando da solo l’ignoto del Kentucky per andarvi a lavorare come bracciante durante l’estate. Io credo che Sandy e gli altri ragazzi ebrei come lui del programma Just Folks dovrebbero servire da modello non soltanto per ogni bambino ebreo cresciuto in questo paese, ma anche per ogni adulto. E questo non è un sogno soltanto mio; è il sogno del presidente Lindbergh. Improvvisamente la situazione aveva preso la piega peggiore possibile. Non avevo dimenticato l’incidente di Washington, quando mio padre le aveva cantate al direttore dell’albergo e al poliziotto prepotente, e così, ora che il nome di Lindbergh era stato pronunciato con rispetto in casa sua, pensai che per lui fosse giunto il momento di scagliarsi anche contro Bengelsdorf. Ma un rabbino è un rabbino, e mio padre tacque. Mia madre e la zia Evelyn servirono il pasto, tre portate seguite da una torta marmorizzata cotta nel nostro forno quel pomeriggio. Mangiammo nei piatti «buoni» con le posate «buone», e nientemeno che in sala da pranzo, dove c’erano il nostro tappeto migliore e il nostro mobilio migliore e la nostra tovaglia migliore, e dove noi stessi mangiavamo solo nelle grandi occasioni. Dal mio lato del tavolo si vedevano i ritratti fotografici dei defunti della famiglia allineati sopra la credenza che era il nostro sacrario. Là incorniciati c’erano due nonni, la nostra nonna materna, una zia materna e due zii, uno dei quali era lo zio Jack, padre di Alvin e adorato fratello maggiore di mio padre. Dopo l’invocazione del nome di Lindbergh da parte del rabbino Bengelsdorf, io ero più confuso che mai. Un rabbino è un rabbino, questo è vero, ma intanto Alvin era in un ospedale militare canadese di Montreal a imparare a camminare con una gamba sinistra artificiale dopo avere perduto la sua mentre combatteva contro Hitler, e a casa mia – dove avrei dovuto indossare qualunque cosa tranne il vestito buono - io avevo dovuto mettermi la mia unica cravatta e la mia unica giacca per fare una buona impressione proprio al rabbino che aveva contribuito a eleggere il presidente di cui Hitler era amico. Come potevo non essere confuso, quando la nostra infamia e la nostra gloria erano la stessa cosa? Qualcosa di essenziale era andato distrutto e perduto, qualcuno ci costringeva a essere diversi dagli americani che eravamo, e tuttavia, alla luce del lampadario di vetro molato, tra i mobili scuri e massicci della sala da pranzo, stavamo mangiando il brasato di mia madre in compagnia del primo celebre visitatore che avessimo mai avuto l’onore di ricevere. Per accrescere la mia confusione e farmi pagare il prezzo pieno dei miei pensieri, Bengelsdorf si mise, tutt’a un tratto, a parlare di Alvin, di cui aveva saputo dalla zia Evelyn. - Sono addolorato dalla disgrazia che ha colpito la vostra famiglia. Avete tutta la mia simpatia. Evelyn mi dice che quando sarà dimesso dall’ospedale vostro nipote verrà a fare la convalescenza con tutti voi. Sono certo che conoscete l’angoscia mentale che una ferita del genere può provocare in un giovane ancora nel fiore degli anni. Ci vorranno tutto l’amore e la pazienza che riuscirete a mettere insieme per aiutarlo a riprendere una vita utile. La sua storia è particolarmente tragica, perché non
c’era alcun bisogno che andasse in Canada ad arruolarsi nelle loro forze armate. Alvin Roth è un cittadino degli Stati Uniti, e gli Stati Uniti non sono in guerra con nessuno, non hanno intenzione di fare la guerra a nessuno e non chiedono il sacrificio della vita o di un arto a uno solo dei loro giovani. Alcuni di noi si sono dati molto da fare per arrivare a questo. Io stesso ho incontrato una considerevole ostilità da parte dei membri della comunità ebraica per aver appoggiato, alle elezioni del 1940, la campagna di Lindbergh. Ma sono stato sorretto dalla mia avversione per la guerra. È abbastanza terribile che il giovane Alvin abbia perso la gamba in una battaglia sul continente europeo che non ha nulla a che fare con la sicurezza dell’America o il benessere degli americani... E continuò così, ripetendo più o meno ciò che aveva detto al Madison Square Garden a favore della neutralità americana, ma il mio interesse si era ormai concentrato soltanto su Alvin. Sarebbe venuto a stare con noi? Guardai mia madre. Non ci aveva detto niente. Quando sarebbe arrivato? Dove avrebbe dormito? Era già abbastanza brutto, come mia madre aveva detto a Washington, vivere in un paese che non era normale; ora non saremmo più vissuti neanche in una casa normale. Una vita piena di sofferenze ancora più grandi stava formandosi intorno a me, e io avevo voglia di urlare: «No! Alvin non può stare qui... Ha una gamba sola!» Ero così sconvolto che passò un certo tempo prima che mi rendessi conto che il regno del decoro della sala da pranzo era tramontato e che mio padre aveva smesso di farsi spingere in disparte. In un modo o nell’altro era riuscito finalmente a rovesciare gli ostacoli posti dalle credenziali di Bengelsdorf e dalle proprie insufficienze; aveva cessato di farsi intimidire dalla sua rabbinica grandezza e, spinto dal proprio irreprimibile senso di un disastro incombente - e fortemente irritato dalla sua condiscendenza -, gli stava dando addosso, pince-nez e tutto. - Hitler, - lo sentii dire, - Hitler non è «la solita vecchia storia»,rabbino! Questo pazzo non sta facendo una guerra di mille anni. Sta facendo la guerra come nessun altro l’ha mai vista su questo pianeta. Ha conquistato l’Europa. È in guerra con la Russia. Ogni notte bombarda Londra trasformandola in un mucchio di macerie e uccide centinaia di innocenti civili britannici. È il peggior antisemita della storia. Eppure il suo grande amico, il nostro presidente, lo prende in parola quando Hitler gli dice che hanno un’«intesa.» Hitler aveva un’intesa con i russi. L’ha mantenuta? Aveva un’intesa con Chamberlain. L’ha mantenuta? L’obiettivo di Hitler è conquistare il mondo, e questo comprende gli Stati Uniti d’America. E poiché ovunque vada ammazza gli ebrei, quando sarà il momento verrà ad ammazzare anche gli ebrei di questo paese. E allora che farà il nostro presidente? Ci proteggerà? Ci difenderà? Il nostro presidente non alzerà un dito. Quella è l’intesa che hanno raggiunto in Islanda, e ogni adulto che la pensi diversamente è pazzo. Il rabbino Bengelsdorf non mostrò la minima impazienza con mio padre, ma ascoltò rispettosamente, come se fosse d’accordo almeno con qualcosa di ciò che stava ascoltando. Solo Sandy sembrava stentare a nascondere i propri sentimenti, e quando nostro padre parlò in tono sprezzante di Lindbergh come del «nostro presidente», si girò verso di me e fece una smorfia che rivelava quanto fosse ormai
lontano dall’orbita familiare per il semplice fatto di essersi adattato, come un americano qualunque, alla nuova amministrazione. Mia madre era seduta alla destra di mio padre e, quando lui ebbe finito, gli prese la mano tra le sue, non era chiaro se per comunicargli che era fiera di lui o per fargli segno di tacere. Quanto alla zia Evelyn, lei imitava in tutto il rabbino, nascondendo i suoi pensieri sotto una maschera di benevola tolleranza mentre il suo futile cognato Osava opporsi, col suo povero vocabolario, a uno studioso che parlava dieci lingue. Bengelsdorf non reagì immediatamente, ma creò invece un solenne intervallo nel quale inserire quietamente la sua replica: - Ero alla Casa Bianca a parlare col presidente giusto ieri mattina. - Qui bevve un sorso del suo bicchiere d’acqua, dandoci il tempo di riprendere la nostra compostezza. - Mi congratulavo con lui, continuò, - per quanto aveva fatto per dissipare i sospetti degli ebrei che risalivano ai suoi viaggi in Germania nella seconda metà degli anni Trenta, quando lui di nascosto prendeva le misure dell’aviazione tedesca per conto del governo americano. L’ho informato che un gran numero dei miei correligionari che avevano votato per Roosevelt erano ormai suoi strenui sostenitori, grati che avesse stabilito la nostra neutralità e risparmiato al nostro paese gli strazi di un’altra grande guerra. Gli ho detto che Just Folks e gli altri programmi come quello cominciavano a convincere gli ebrei americani che lui è tutt’altro che il loro nemico. Certo, prima di diventare presidente ha fatto, qualche volta, dichiarazioni pubbliche fondate su cliché antisemiti. Ma allora parlava per ignoranza, e oggi è il primo a riconoscerlo. Sono lieto di dirti che sono bastate due o tre sedute a tu per tu col presidente per fargli abbandonare le sue idee sbagliate e apprezzare la molteplice natura della vita ebraica in America. Non è un uomo cattivo, nel modo più assoluto. È un uomo dotato di un’enorme intelligenza innata, e di grande rettitudine, che viene giustamente celebrato per il suo coraggio personale e che ora mi chiede di aiutarlo ad abbattere quelle barriere d’ignoranza che continuano a separare il cristiano dall’ebreo e l’ebreo dal cristiano. Perché sfortunatamente c’è ignoranza anche tra gli ebrei, molti dei quali continuano a pensare al presidente Lindbergh come a un Hitler americano quando sanno benissimo che non è un dittatore che sia andato al potere con un putsch, ma un leader democratico che è entrato in carica grazie a una vittoria schiacciante in leali e libere elezioni e che non ha mostrato la minima inclinazione verso forme di governo autoritario. Lindbergh non glorifica lo stato a spese dell’individuo ma, al contrario, incoraggia l’individualismo imprenditoriale e un sistema affidato alla libera iniziativa scevro da interferenze da parte del governo federale. Dov’è lo statalismo fascista? Dov’è il teppismo fascista? Dove sono le camicie brune naziste e la polizia segreta? Quando hai notato una sola manifestazione di antisemitismo fascista ispirata dal nostro governo? Ciò che Hitler ha perpetrato sugli ebrei della Germania con l’approvazione nel 1935 delle leggi di Norimberga è l’assoluta antitesi di ciò che il presidente Lindbergh ha deciso di fare per gli ebrei d’America con la creazione dell’Ufficio per l’assimilazione americana. Le leggi di Norimberga hanno privato gli ebrei dei loro diritti civili e hanno fatto di tutto per cancellare la loro appartenenza alla nazione. Ciò che io ho incoraggiato il presidente Lindbergh a fare è tutto il
contrario: varare programmi che stimolino gli ebrei a partecipare nel modo più ampio possibile alla vita nazionale; una vita nazionale che noi abbiamo, - e sono certo che tu saresti d’accordo, - lo stesso diritto di goderci che hanno tutti gli altri. Una pioggia di spiegazioni documentate come queste non c’era mai stata intorno al tavolo della nostra sala da pranzo, né probabilmente in nessun’altra casa del quartiere, e perciò fu sorprendente - quando il rabbino concluse chiedendo piuttosto gentilmente, confidenzialmente addirittura: «Dimmi, Herman, le spiegazioni che ti ho dato sopiscono un po’ i tuoi timori?» - sentii mio padre rispondere seccamente: - No. No. Mai e poi mai -. Dopodiché, incurante di fargli un affronto che non avrebbe soltanto incontrato la disapprovazione del rabbino, ma offeso la sua dignità e provocato il suo vendicativo disprezzo, mio padre soggiunse: - Sentire una persona come lei che parla così... Francamente, mi allarma ancora di più. La sera dopo la zia Evelyn telefonò tutta felice per informarci che tra i cento ragazzi del New Jersey andati nel West quell’estate sotto il patrocinio di Just Folks Sandy era stato scelto come «ufficiale reclutatore» dello stato per parlare da veterano ai giovani ebrei idonei e ai loro familiari dei tanti vantaggi del programma dell’Uaa e per incoraggiarli a fare domanda. Così il rabbino si prese la rivincita. Il figlio maggiore di nostro padre era ormai un membro onorario della nuova amministrazione. Fu poco dopo che Sandy cominciò a passare il pomeriggio in centro, nell’ufficio dell’Uaa della zia Evelyn, che mia madre si mise il vestito migliore - l’elegante tailleur grigio a righine che indossava per presiedere le riunioni dell’Agi, e come scrutatrice nel seminterrato della scuola quando c’erano le elezioni - e andò a cercare lavoro. A cena annunciò di averlo trovato: avrebbe venduto vestiti da donna da Hahne, un grande magazzino del centro. Era stata assunta un po’ in anticipo come aiuto temporaneo per le feste e avrebbe dovuto lavorare sei giorni la settimana e il mercoledì sera, ma poiché era un’esperta segretaria nutriva la speranza di essere tenuta dopo Natale come impiegata fissa se nelle settimane successive si fosse reso vacante un posto negli uffici del grande magazzino. A Sandy e a me spiegò che il suo stipendio sarebbe servito a pagare le spese supplementari provocate dal ritorno di Alvin, mentre la sua vera intenzione (nota soltanto a suo marito) era di depositare per posta i suoi assegni in una banca di Montreal caso mai fossimo dovuti scappare e ricominciare da zero in Canada. Mia madre era sparita, mio fratello era sparito, e presto Alvin sarebbe tornato a casa. Mio padre era andato a Montreal a trovarlo in quell’ospedale militare. Un venerdì mattina, parecchie ore prima che Sandy e io ci alzassimo per andare a scuola, mia madre gli preparò la colazione, gli riempì il thermos, impacchettò la roba da mangiare – tre sacchetti di carta segnati con la matita per le ombreggiature di Sandy, P per pranzo, M per merenda, C per cena - e via che mio padre se ne andò verso il confine internazionale trecentocinquanta miglia a nord. Poiché il suo capo poteva dargli solo un giorno di vacanza, il venerdì, mio padre avrebbe dovuto viaggiare tutto il giorno per vedere Alvin il sabato e poi viaggiare tutta la domenica per tornare in tempo per la riunione degli agenti del lunedì mattina. Bucò una gomma all’andata e
altre due tornando a casa, e per fare in tempo a partecipare alla riunione fu costretto a non venire a casa e dall’autostrada ad andare direttamente in centro. Quando lo vedemmo a cena, quella sera, non dormiva da più di ventiquattr’ore e non si lavava a dovere da un tempo ancora più lungo. Alvin, ci disse, sembrava un cadavere, ed era dimagrito fino a pesare meno di cinquanta chili. Udendo questo, io mi chiesi quanto pesasse la gamba che aveva perso, e quella sera cercai, senza accesso, di pesare la mia sulla bilancia del bagno. - Non ha appetito, - disse mio padre. - Gli mettono la roba davanti e lui la respinge. Quel ragazzo, tosto com’è, non ha voglia di vivere, non vuole altro che stare là disteso, svuotato, con quella terribile espressione sul viso. «Alvin, - gli ho detto, - ti conosco da quando sei nato. Tu sei un lottatore. Uno che non si arrende. Hai la forza di tuo padre. Tuo padre era capace d’incassare il colpo più duro e continuare come se niente fosse. E anche tua madre.» Gli ho detto: «Quando tuo padre è morto, la donna doveva riprendersi per forza: non aveva altra scelta, c’eri tu.» Ma non so se ha fatto presa. Speriamo, - disse, con voce roca, perché mentre ero là, con tutti quei ragazzi ammalati in quei letti tutt’intorno a me, mentre ero seduto al suo capezzale in quell’ospedale... - e non andò oltre. Fu la prima volta che vidi piangere mio padre. Una pietra miliare, nell’infanzia, quando le lacrime degli altri sono più insopportabili delle proprie. - È perché sei così stanco, - gli disse mia madre. Si alzò dalla sedia e, cercando di calmarlo, girò intorno al tavolo e cominciò a carezzargli la testa. - Quando avrai finito di mangiare, - disse, - farai una doccia e andrai subito a letto. Premendo la testa contro la sua mano, lui si mise a singhiozzare incontrollabilmente. - Gli hanno portato via una gambale , disse, e mia madre a questo punto fece segno a Sandy e a me di lasciarla sola a confortarlo. Per me cominciò una nuova vita. Avevo visto mio padre crollare, e la mia infanzia non sarebbe stata più la stessa. La madre che stava sempre in casa adesso era fuori tutto il giorno a lavorare da Hahne, il fratello che era sempre reperibile adesso dopo la scuola era fuori a lavorare per Lindbergh e il padre che a Washington le aveva spavaldamente cantate a tutti quegli sprovveduti antisemiti da tavola calda piangeva a dirotto con la bocca spalancata - come un bimbo abbandonato e come un uomo torturato - perché era impotente a fermare l’imprevisto. E come l’elezione di Lindbergh non avrebbe potuto chiarirmi meglio, lo svolgersi dell’imprevisto era tutto. Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di «storia», la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando disastro in un’epopea. Ero solo, e per questo cominciai a passare tutte le ore dopo la scuola con Earl Axman, il mio mentore filatelico, e noti soltanto per ponzare sulla sua collezione con la mia lente d’ingrandimento o per aprire il cassettone di sua madre e scartabellare nell’enigmatico assortimento della sua biancheria intima. Poiché i compiti li facevo in un lampo e l’unico altro impegno era apparecchiare la tavola per la cena, ero ormai pienamente disponibile per le birichinate. E poiché, di pomeriggio, la madre di Earl pareva sempre via, o all’istituto di bellezza o a New York a fare lo shopping, Earl era
libero di darmene lo spunto. Aveva quasi due anni più di me, e dato che i suoi affascinanti genitori erano divorziati - e dato che erano affascinanti - sembrava che Earl non si fosse mai curato di essere un ragazzo modello. Negli ultimi tempi, sempre più irritato dal fatto che io lo ero, a letto avevo cominciato a borbottare: «E adesso facciamo qualcosa di terribile», la proposta con cui Earl ora mi elettrizzava ora mi spaventava ogni volta che si stancava di quello che stavamo facendo. L’avventura era destinata a far udire il suo richiamo, prima o poi, ma io, deluso dall’impressione che i miei, insieme al mio paese, si stessero allontanando da me, ero pronto a imparare le libertà che poteva prendersi un ragazzo di una famiglia esemplare quando cessava di darsi da fare per accontentare tutti con la sua purezza infantile e scopriva il colpevole piacere di agire segretamente per conto suo. Quello che cominciai a fare con Earl fu seguire la gente. Lui lo faceva già, da mesi, un paio di volte la settimana: andava in centro da solo, dopo la scuola, e aspettava alle fermate dell’autobus cercando degli uomini che tornassero a casa dal lavoro. Quando l’uomo sul quale aveva messo gli occhi montava sull’autobus, anche Earl vi saliva, viaggiava con lui senza farsi notare fino alla sua fermata, scendeva subito dopo di lui e poi, tenendosi a rispettosa distanza, lo seguiva fino a casa. - Perché? chiesi. - Per vedere dove vivono. - E allora? Tutto qui? - È molto. Io vado dappertutto. Mi allontano anche da Newark. Vado dove voglio. La gente vive dappertutto, - spiegò Earl. - Come fai a tornare a casa prima di tua madre? - È questo il bello: andare più lontano che posso e tornare indietro prima di lei -. I soldi per i biglietti dell’autobus, confessò prontamente di rubarli dalle borsette di sua madre e poi, allegramente come se stesse facendo scattare la serratura della camera blindata di Fort Knox, spalancò un cassetto della stanza dove borsette di ogni genere erano ammucchiate alla rinfusa le une sopra le altre. Nei weekend che passava da suo padre a New York rubava dalle tasche dei vestiti appesi nell’armadio di suo padre, e quando quattro o cinque musicisti della Casa Loma Orchestra venivano nell’appartamento di suo padre la domenica a giocare a poker, lui ammucchiava, servizievole, i soprabiti sul letto, poi frugava nelle loro tasche e nascondeva gli spiccioli in un calzino sporco in fondo alla valigia. Poi andava lemme lemme nel soggiorno, con aria indifferente, a guardare la partita per tutto il pomeriggio e ad ascoltare le storielle divertenti che raccontavano di quando avevano suonato alla Paramount e alla Essex House e al casinò di Glen Island. Nel 1941 l’orchestra era appena tornata da Hollywood, dove aveva preso parte a un film, e così tra una mano e l’altra parlavano dei divi e di com’erano, notizie riservate che Earl passava a me e che io poi ripetevo a Sandy, il quale diceva invariabilmente: «Tutte balle», e mi esortava a non andare in giro con Earl Axman. - Il tuo amico - mi disse - la sa troppo lunga per un bambino. - Ha una magnifica collezione di francobolli. - Già, e ha una madre - disse Sandy - che esce con tutti. Esce con uomini che non hanno neanche la sua età. - Tu come lo sai? - In Summit Avenue lo sanno tutti. - Io no, - dissi. - Be’, disse lui, - non è l’unica cosa che non sai, - e io, molto contento di me, pensai: «Forse c’è qualcosa che anche tu non sai», ma nervosamente non Potei fare a meno di
chiedermi se la madre del mio migliore amico non era per caso quella che i ragazzi più grandi chiamavano «una puttana.» Abituarmi a rubare ai miei genitori risultò più facile di guanto avessi potuto pensare, e più facile di quanto immaginassi risultò seguire la gente, anche se le prime due o tre volte non ci fu un momento in cui la cosa non mi sbalordisse, a partire dal fatto che mi trovavo in centro, senza sorveglianza, alle tre e mezzo del pomeriggio. Qualche volta, per trovare qualcuno, andavamo fino alla Penn Station, qualche volta all’angolo tra Broad e Market, qualche volta al supermarket fino al tribunale per aspettare alla fermata dell’autobus e catturare là la nostra preda. Non seguivamo mai le donne. Non ci interessavano, diceva Earl. Non seguivamo mai nessuno che ci sembrasse ebreo. Non ci interessavano. La nostra curiosità era rivolta agli uomini, i cristiani adulti che lavoravano tutto il giorno nel centro di Newark. Dove andavano quando tornavano a casa? La mia apprensione era al colmo quando salimmo sull’autobus e pagammo. I soldi per il biglietto erano rubati, noi eravamo dove non avremmo dovuto essere e non avevamo idea di dov’eravamo diretti: e quando ci arrivammo, ovunque fosse, ero troppo stordito dall’emozione per capire cosa diceva Earl quando mi sussurrò all’orecchio il nome del quartiere. Ero sperduto, un ragazzo sperduto: ecco cosa fingevo di essere. Cosa mangerò? Dove dormirò? Sarò assalito dai cani? Mi arresteranno e mi metteranno in galera? Un cristiano mi accoglierà in casa sua e mi adotterà? O finirò per essere rapito come il figlio di Lindbergh? Fingevo o di essermi sperduto in qualche lontana regione a me sconosciuta o che, con la connivenza di Lindbergh, Hitler aveva invaso l’America e Earl e io stavamo cercando di sfuggire ai nazisti. E per tutto il tempo in cui mi tormentavo con questi timori furtivamente giravamo angoli e attraversavamo strade e ci accovacciavamo dietro alberi per non farci vedere fino al momento decisivo in cui l’uomo che seguivamo arrivava a casa e noi lo vedevamo aprire la porta ed entrare. Allora, a una certa distanza, ci fermavamo a guardare la casa - la cui porta si era richiusa - e Earl diceva qualcosa tipo: «Quel prato è davvero grande» oppure «L’estate è finita: perché c’è ancora la reticella contro le zanzare?» oppure «Hai visto nel garage? Quella è la nuova Pontiac.» E poi, dato che provare ad avvicinarsi di nascosto alle finestre per spiare all’interno senza farsi vedere esorbitava anche dall’ebraico voyeurismo di Earl Axman, il mio amico mi riaccompagnava fino all’autobus che ci avrebbe ricondotti alla Penn Station. Spesa quell’ora, mentre tutti si affrettavano a lasciare il lavoro, l’autobus che tornava in centro non trasportava altri passeggeri che noi due, e così era come se il conducente fosse uno chauffeur e l’autobus del servizio pubblico la nostra limousine privata, e noi i due ragazzi più coraggiosi della terra. Earl era un decenne molto ben pasciuto e con la carnagione bianca, già piuttosto obeso, con due tonde gote infantili, lunghe ciglia scure e riccioli neri incollati al cranio e profumati con la brillantina di suo padre, e se l’autobus era vuoto si sdraiava sul lungo sedile in fondo in una posa da pascià che incarnava
perfettamente la sua iattanza, mentre, seduto accanto a lui, esile e ossuto com’ero, io ostentavo il sorrisetto di superiorità un po’ vergognoso del compare. Dalla Penn Station prendevamo il 14 per tornare a casa, facendo la nostra quarta audace corsa in autobus del pomeriggio. A cena io pensavo: «Ho seguito un cristiano, e nessuno lo sa. Avrei potuto essere rapito, e nessuno lo sa. Con i soldi che avevamo tra noi due avremmo potuto, se avessimo voluto...», e qualche volta quasi mi tradivo, davanti agli occhi bene aperti di mia madre, perché sotto il tavolo della cucina (e proprio come Earl quando stava macchinando qualcosa) non riuscivo a smettere di muovere il ginocchio. E una sera dopo l’altra andavo a dormire sotto l’elettrizzante incantesimo del grande nuovo scopo che avevo scovato per la mia vita di bambino di otto anni: sfuggirle. Quando a scuola, da una finestra aperta, sentivo il rumore di un autobus che affrontava la salita di Chancellor Avenue, l’unica cosa che riuscivo a pensare era di essere a bordo; l’intero mondo esterno era diventato un autobus, così come per un ragazzo del South Dakota era un pony: il pony che lo porta ai limiti della fuga consentita. Mi unii a Earl come apprendista bugiardo e ladro nell’ottobre inoltrato e, senz’alcuna riduzione del senso d’importanza, le nostre escursioni clandestine continuarono in novembre, mentre la stagione diventava più fredda, e poi anche in dicembre, quando in centro comparvero gli ornamenti natalizi e ci fu un’eccedenza di uomini da scegliere quasi a ogni fermata. Sui marciapiedi del centro si vendevano gli alberi di Natale, cosa che non avevo mai visto, e a venderli a un dollaro l’uno erano dei ragazzi che sembravano o il prodotto di una vita di stenti o teppistelli appena usciti dal riformatorio. Che i soldi cambiassero di mano, così, all’aperto a tutta prima mi sembrò contro la legge, eppure nessuno sembrava preoccuparsi di nascondere la transazione. C’erano poliziotti dovunque, poliziotti col manganello che facevano la ronda nei loro grandi pastrani blu, ma avevano l’aria abbastanza contenta e sembravano anche loro della partita: di quelli che festeggiavano il Natale, cioè. Grandi tempeste di neve avevano sferzato la città due volte la settimana dal giorno del Ringraziamento, e così ai lati delle strade sgomberate di fresco erano già allineati mucchi di neve sporca alti come un’automobile. Muovendosi agilmente nella calca del tardo pomeriggio, i venditori liberavano un albero dagli altri, lo portavano per un tratto sul marciapiede affollato e lo drizzavano sul tronco segato per mostrarlo al cliente. Era strano vedere alberi cresciuti in qualche vivaio a miglia e miglia dalla città ammassati lungo le cancellate in ferro battuto davanti alle chiese più vecchie della città e appoggiati a fasci contro le facciate delle sedi imponenti di banche e società di assicurazioni, e strano anche, in una via del centro, respirare il loro rustico aroma. Non c’erano alberi in vendita nel nostro quartiere - perché non c’era nessuno che li comprasse - e così il mese di dicembre, se odorava di qualcosa, odorava del rifiuto che un soffiante gatto randagio aveva estratto da un bidone della spazzatura rovesciato nel cortile di qualcuno, e della cena che si scaldava sul fornello di un appartamento la cui finestra appannata della cucina era socchiusa per far entrare l’aria dal vialetto, e delle nubi tossiche di gas di carbone eruttate dai camini degli impianti
di riscaldamento, e del secchio di cenere portato su dalla cantina per essere svuotato all’aperto sopra viscidi tratti di marciapiede. Paragonati alle fragranze della primavera umida e dell’estate paludosa e dell’autunno instabile e capriccioso del New Jersey settentrionale, gli odori di un gelido inverno erano quasi impercettibili: o almeno di questo io ero convinto fino al giorni in cui andai in centro con Earl e vidi gli alberi e presi una boccata d’aria e scoprii che, come in tante altre cose, per i cristiani dicembre era diverso. Tra le migliaia di lampadine sparse in tutto il centro cittadino e i canti natalizi e la banda dell’Esercito della Salvezza che impazzava e a ogni angolo di strada un altro Babbo Natale che rideva, era il mese dell’anno in cui il cuore della mia città era loro e soltanto loro. Al Military Park c’era un albero di Natale con tutti i suoi ornamenti alto più di dieci metri, e dalla facciata del palazzo dei servizi pubblici pendeva un gigantesco albero di Natale di metallo, illuminato dai riflettori, che - diceva il «Newark News» - era alto venticinque metri, mentre io ero alto solo un metro e trentasette. Il mio ultimo viaggio con Earl ebbe luogo un pomeriggio qualche giorno prima delle vacanze di Natale quando salimmo sull’autobus di Linden dietro un uomo che portava in ogni mano la borsa di un grande magazzino imbottita di regali e decorata in rosso e verde per la stagione; solo dieci giorni dopo la signora Axman avrebbe avuto un esaurimento nervoso e sarebbe stata portata via da un’ambulanza nel cuore della notte, e subito dopo, il giorno di Capodanno del 1942, Earl sarebbe stato portato via da suo padre, collezione di francobolli e tutto. Un furgone da traslochi comparve più tardi, in gennaio, e mentre io guardavo portò via tutto l’arredamento della casa, compreso il comò con la biancheria intima della madre di Earl, e nessuno in Summit Avenue rivide mai più gli Axman. Il freddo crepuscolo invernale calava ormai molto rapidamente, e per questo seguire la gente che scendeva dall’autobus ci dava una grande soddisfazione, come se stessimo facendo una cosa che andava ben oltre la mezzanotte, quando gli altri bambini già dormivano da ore. L’uomo con le borse rimase sull’autobus fino al confine con Hillside e oltre, quando l’autobus imboccò Elizabeth, e scese dopo il grande cimitero, poco lontano dall’angolo dov’era cresciuta mia madre, sopra la drogheria di suo padre. Scendemmo abbastanza tranquillamente dopo di lui, indistinguibili da altri mille ragazzi del posto nella tenuta regolamentare invernale costituita da un giaccone col cappuccio, grosse manopole di lana e informi calzoni di velluto a coste infilati in scalcagnate galosce di gomma con metà dei loro esasperanti bottoncini slacciati. Ma poiché ci credevamo più nascosti di quanto eravamo dalle ombre sempre più fonde, o perché la nostra accortezza stava venendo meno col passare del tempo, dovevamo averlo seguito meno abilmente di quanto avevamo l’abitudine di fare, e così mettemmo a repentaglio «l’invincibile duo», come Earl aveva vanagloriosamente battezzato la coppia di pedinatori di cristiani che eravamo diventati. C’erano da attraversare due lunghi isolati, costituiti da imponenti edifici in muratura sfolgoranti di luci natalizie che Earl in un sussurro identificò come «palazzi di milionari»; poi c’erano due isolati più brevi di modeste case di legno assai più
piccole del tipo che ormai avevamo visto a centinaia nelle strade che avevamo percorso, ciascuna con un serto natalizio sulla porta. Nel secondo dei due isolati l’uomo svoltò in uno stretto sentiero di mattoni che formando una curva portava a una bassa casa di legno che sembrava una scatola da scarpe e spuntava graziosamente dai cumuli di neve come un ornamento commestibile su una grossa torta glassata. Delle lampade mandavano una luce fioca sopra e sotto, e attraverso una delle finestre a lato della porta si vedeva luccicare l’albero di Natale. Mentre l’uomo posava le borse per tirar fuori la chiave, noi ci avvicinammo sempre più all’ondulato prato bianco finché, attraverso la finestra, riuscimmo a discernere gli ornamenti che decoravano l’albero. - Guarda, - mormorò Earl. - Vedi la cima? Proprio in cima all’albero... Lo vedi? È Gesù! - No, è un angelo. - Cosa credi che sia, Gesù? - Io credevo che fosse il loro Dio, - risposi in un sussurro. - È il capo degli angeli... Eccolo là! Questo, dunque, era il culmine della nostra ricerca: Gesù Cristo, che secondo le loro argomentazioni era tutto e secondo le mie aveva incasinato tutto; perché se non fosse stato per Cristo non ci sarebbero stati i cristiani, e se non fosse stato per i cristiani non ci sarebbe stato l’antisemitismo, e se non fosse stato per l’antisemitismo non ci sarebbe stato Hitler, e se non fosse stato per Hitler Lindbergh non sarebbe mai diventato presidente, e se Lindbergh non fosse diventato presidente... A un tratto l’uomo che avevamo seguito, ritto davanti alla porta aperta con le borse, girò su se stesso e sommessamente, come esalando un anello di fumo, chiamò: - Ragazzi. Talmente sbalorditi rimanemmo dalla scoperta di essere stati sorpresi che io, per parte mia, sentii il bisogno di fare un passo avanti sul sentiero che portava alla casa e, da quel ragazzo modello che ero stato fino a due mesi prima, di sgravarmi la coscienza dicendogli il mio nome. Solo il braccio di Earl mi tirò indietro. - Ragazzi, non nascondetevi. Non è necessario, - disse l’uomo. - Cosa, adesso? - sussurrai a Earl. - Sssssss, - rispose lui sempre in un sussurro. - Ragazzi, lo so che siete lì. Ragazzi, sta facendosi terribilmente buio, - ci avvertì con voce cordiale. - Non state gelando, laggiù? Non gradireste una bella tazza di cioccolata? Ora dentro, ragazzi, dentro, presto, prima che riprenda a nevicare. C’è la cioccolata calda, e ho anche del pampepato e una torta coi pinoli e degli ometti di pan di zenzero, ho animal cracker glassati di tutti i colori, e ci sono i marshmallow... Ci sono i marshmallow, ragazzi, marshmallow nella credenza che potremmo abbrustolire sul fuoco. Quando mi girai a guardarlo per scoprire cosa fare, Earl stava già tornando a Newark. - Corri, - mi urlò voltandosi indietro, - scappa, Phil... È una checca!
CAPITOLO 4 Gennaio 1942 - febbraio 1942 Il moncherino Alvin fu congedato nel gennaio 1942, dopo aver abbandonato prima la sedia a rotelle e poi le grucce e, nel corso di una lunga riabilitazione ospedaliera, dopo aver imparato dalle infermiere militari canadesi a camminare da solo sulla gamba artificiale. Avrebbe ricevuto dal governo canadese una pensione mensile d’invalidità di centoventicinque dollari, poco più della metà di quello che mio padre guadagnava ogni mese con la Metropolitan, e trecento dollari supplementari come indennità di congedo. Come reduce portatore di handicap avrebbe avuto titolo a ulteriori benefici se avesse scelto di restare in Canada, dove i volontari stranieri nelle forze armate canadesi ottenevano la cittadinanza, se volevano, subito dopo il congedo. E perché non è diventato un canuck7?, chiese lo zio Monty. Visto che non poteva soffrire l’America, perché non ne aveva approfittato e non era rimasto lassù? Monty era il più arrogante dei miei zii, cosa che probabilmente spiegava per quale motivo era anche il più ricco. Aveva fatto fortuna vendendo all’ingrosso frutta e verdura al mercato di Miller Street, vicino ai binari della ferrovia. Il padre di Alvin, lo zio Jack, aveva fondato la ditta e chiamato Monty a farne parte, e dopo la morte dello zio Jack Monty aveva fatto entrare nella ditta il fratello minore, mio zio Herbie; quando invitò a entrare anche mio padre - allorché il miei genitori erano due sposini senza un soldo -, mio padre disse di no, perché aveva già subìto abbastanza prepotenze da parte di Monty durante l’adolescenza. Mio padre poteva eguagliare il prodigioso consumo di energia di Monty, e la capacità di sopportare privazioni di ogni genere non era meno rimarchevole di quella di Monty, ma sapeva, dagli scon della fanciullezza, di non essere un rivale per l’innovatore che per primo aveva puntato sull’idea di portare pomodori maturi a Newark in pieno inverno comprando vagoni di pomodori verdi a Cuba e facendoli maturare dentro camere appositamente riscaldate al cigolante primo piano del suo magazzino di Miller Street. Quando erano pronti, Monty li impacchettava a quattro per scatola e faceva soldi a palate, e da allora in poi fu chiamato il Re dei Pomodori. Mentre noi restavamo inquilini locatari di un appartamento di cinque stanze al primo piano di un edificio di Newark, gli zii nel ramo dei prodotti ortofrutticoli all’ingrosso abitavano nel quartiere ebraico del sobborgo di Maplewood, dove ognuno di loro possedeva una grande casa bianca in stile coloniale, con le persiane, un prato verde sul davanti e una Cadillac lucida nel garage. Bene o male, l’esaltato egoismo di un Abe Steinheim o di uno zio Monty o di un rabbino Bengelsdorf – ebrei dinamici, apparentemente tutti spinti dal loro status di figli di immigrati a interpretare il ruolo più grosso che potessero assicurarsi come americani - non era nelle corde di 7
Spregiativo per "canadese» [N. d. T.]
mio padre, come non c’era in lui il minimo desiderio di esercitare una supremazia, e così, anche se l’orgoglio personale era una forza motrice e la sua miscela di fermezza e combattività veniva fortemente alimentata, come la loro, dai rancori concernenti le sue origini di ragazzo povero al quale gli altri ragazzi davano del «giudeo», gli bastava combinare qualcosa nella vita (anche senza raggiungere tutti i traguardi), e farlo senza distruggere la vita di quelli che lo circondavano. Mio padre era nato per contendere ma anche per difendere, e infliggere danni a un nemico non lo esaltava come esaltava il suo fratello maggiore (per non parlare degli altri brutali machers dell’imprenditoria). C’era chi comandava e c’era chi obbediva, e di solito chi comandava lo faceva per una buona ragione - e lavorava in proprio per una buona ragione, che il ramo fosse l’edilizia o i prodotti ortofrutticoli o il abbinato o la criminalità. Era la soluzione migliore che potessero trovare per non essere ostacolati e, ai loro occhi, umiliati - dalle discriminazioni della gerarchia protestante, che teneva al loro posto, senza che si lamentassero, il novantanove per cento degli ebrei impiegati dalle società dominanti. - Se Jack fosse vivo, - disse Monty, - il ragazzo non sarebbe uscito dalla porta. Non avresti mai dovuto lasciarlo andare, Herm. Quello scappa in Canada per fare l’eroe ed ecco cos’è diventato, un maledetto zoppo per il resto della vita -. Era la domenica prima del giorno, un sabato, fissato per il ritorno di Alvin, e lo zio Monty, con una sigaretta penzolante dalla bocca e roba pulita al posto della giacca a vento macchiata in malo modo, dei vecchi pantaloni impataccati e del lurido berretto di tela che al mercato erano la sua tenuta abituale, appoggiava la schiena all’acquaio della nostra cucina. Mia madre non era presente. Si era scusata, come faceva quasi sempre quando c’era Monty, ma io ero un bambino e lo zio mi affascinava, come se fosse per davvero il gorilla che diceva lei in privato quando l’esasperazione per la sua volgarità aveva il sopravvento. - Alvin non sopporta il tuo presidente, - rispose mio padre, - ecco perché è andato in Canada. Neanche tu lo sopportavi, non tanto tempo fa. Ma ora questo antisemita è amico tuo. La Depressione è finita, me lo dite tutti voi ricchi ebrei, e grazie non a Roosevelt ma al signor Lindbergh. La borsa sale, salgono i profitti, gli affari vanno bene... E perché? Perché abbiamo la pace di Lindbergh al posto della guerra di Roosevelt. E che altro conta, che altro conta, all’infuori del denaro, per voi? - Parli come Alvin, Herman. Parli come un bambino. Cosa conta all’infuori del denaro? I tuoi due ragazzi contano. Vuoi che un giorno Sandy torni a casa conciato come Alvin? Vuoi che Phil - disse, guardando verso il tavolo della cucina dietro il quale sedevo ad ascoltare - un giorno torni a casa conciato come Alvin? Noi siamo fuori della guerra, e fuori della guerra resteremo. Lindbergh non mi ha fatto nessun male, da quello che posso vedere -. Mi aspettavo che mio padre rispondesse «Aspetta e vedrai», e invece, forse perché c’ero io, già abbastanza spaventato, non lo fece. Appena Monty se ne andò, mio padre mi disse: - Tuo zio non usa il cervello. Tornare a casa come Alvin... È una cosa che non accadrà. – Ma se Roosevelt ridiventa presidente? Allora ci sarebbe una guerra, - dissi io. - Forse sì e forse no, rispose mio padre, - nessuno può saperlo in anticipo. - Ma se ci fosse una guerra, -
dissi io, - e se Sandy fosse abbastanza grande, lo richiamerebbero per combattere nella guerra. E se combattesse nella guerra, allora quello che è successo ad Alvin potrebbe succedere anche a lui. - Figliolo, tutto può succedere a chiunque, - mi disse mio padre, - ma di solito non succede -. «Tranne quando succede», pensai, ma non osai dirlo perché mio padre era già turbato dalle mie domande e avrebbe anche potuto non trovare una risposta se io avessi insistito. Poiché quello che gli disse lo zio Monty di Lindbergh era esattamente quello che gli aveva detto il rabbino Bengelsdorf - e anche quello che Sandy mi diceva di nascosto -, cominciai a chiedermi se mio padre sapeva di cosa parlava. Lindbergh era entrato in carica da quasi un anno quando Alvin tornò a Newark con un treno notturno da Montreal, accompagnato da un’infermiera della Croce Rossa canadese e senza la metà di una delle gambe con cui era partito. Andammo a prenderlo alla Penn Station com’eravamo andati a prendere Sandy l’estate prima, solo che stavolta Sandy era con noi. Qualche settimana prima, nell’interesse dell’armonia familiare, mi avevano permesso di andare, con la zia Evelyn e lui, a sedermi tra il pubblico e a sentire che impressione faceva mio fratello sulla congregazione di una sinagoga a New Brunswick, una quarantina di miglia a sud di Newark, mentre incoraggiava i presenti a iscrivere i loro figli a Just Folks con storielle della sua avventura kentuckiana e con una mostra dei suoi disegni. I miei genitori erano stati chiari e mi avevano detto che il lavoro di Sandy per Just Folks era una cosa di cui non dovevo parlare ad Alvin; gli avrebbero spiegato tutto loro, ma solo dopo che Alvin avesse avuto la possibilità di riabituarsi alla vita familiare e di capire meglio com’era cambiata l’America da quando lui era andato in Canada. Non si trattava di nascondere qualcosa ad Alvin o di dirgli delle bugie, ma di proteggerlo da tutto ciò che poteva interferire con la sua guarigione. Quel mattino il treno da Montreal era in ritardo, e per passare il tempo - e anche perché la situazione politica era un pensiero che non lo abbandonava mai - mio padre aveva comprato una copia del «Daily News.» Seduto su una panchina della Penn Station, diede una scorsa al giornale un tabloid newyorkese di destra che lui chiamava immancabilmente «quel giornalaccio», mentre noi passeggiavamo sul marciapiede, aspettando ansiosamente che iniziasse la nuova fase della nostra vita. Quando l’altoparlante annunciò che il treno da Montreal sarebbe arrivato ancora più tardi del previsto, mia madre, prendendo a braccetto Sandy e me, ci ricondusse alla panchina ad aspettare, tutti insieme, là. Mio padre, intanto, aveva finito di leggere tutto il «Daily News» che poteva sopportare e lo aveva buttato in un cestino per la spazzatura. La nostra era una famiglia dove contavano anche i centesimi, e per questo io rimasi perplesso vedendolo scartare il giornale solo qualche minuto dopo averlo comprato, così come in primo luogo mi aveva stupito vederglielo leggere. «Roba da matti! - disse lui. - Questo cane fascista è ancora il loro eroe.» Quello che non disse fu che mantenendo la promessa fatta in campagna elettorale di tenere l’America fuori della guerra mondiale il cane fascista era ormai diventato l’eroe praticamente di tutti i giornali del paese tranne «PM.»
- Be’, - disse mia madre mentre il treno entrava finalmente in stazione e cominciava a frenare per fermarsi, - ecco che arriva vostro cugino. - Cosa dobbiamo fare? - le chiesi mentre ci faceva alzare in piedi e andavamo, tutt’e quattro, verso l’orlo del marciapiede. - Salutatelo. È Alvin. Dategli il bentornato. - E la gamba? - mormorai. - Cosa, caro? Mi strinsi nelle spalle. Qui mio padre mi mise una mano sul braccio. - Non aver paura, - mi disse. - Non aver paura di Alvin e non aver paura della sua gamba. Facciamogli vedere come siete cresciuti. Fu Sandy a staccarsi da noi e a correre verso la carrozza che si era fermata sul binario a una cinquantina di metri di distanza. Alvin stava scendendo dal treno in carrozzella, spinto da una donna con la divisa della Croce Rossa, mentre la persona che correva verso di lui gridando il suo nome era l’unico di noi che si fosse lasciato convincere a passare dall’altra parte. Non sapevo più cosa pensare di mio fratello, ma non era soltanto questo; non sapevo più cosa pensare anche di me, tanto ero impegnato nello sforzo di ricordarmi di nascondere i segreti di tutti mentre facevo del mio meglio per soffocare le mie paure e cercavo di non smettere di avere fiducia in mio padre come pure nei democratici e in FDR e in chiunque altro potesse impedirmi di unirmi al resto del paese nell’adorazione del presidente Lindbergh. - Sei tornato! - gridò Sandy. - Sei a casa! - E poi vidi che mio fratello, che aveva appena compiuto quattordici anni ma era già forte come un giovanotto di venti, cadeva in ginocchio sul cemento del marciapiede per poter meglio buttare le braccia al collo di Alvin. Allora mia madre cominciò a piangere e mio padre mi prese per mano, prontamente, o per cercare d’impedirmi di crollare o per difendersi dal caos dei propri sentimenti. Ritenni mio dovere correre a mia volta incontro ad Alvin, e così mi staccai dai genitori e mi diressi verso la sedia a rotelle e, una volta là, imitando Sandy, gli buttai le braccia al collo, solo per scoprire che puzzava. In un primo momento pensai che il puzzo venisse dalla gamba, invece veniva dalla sua bocca. Trattenni il respiro e chiusi gli occhi e lasciai la mia presa su Alvin solo quando lo sentii sporgersi in avanti sulla sedia per stringere la mano di mio padre. Notai allora le stampelle di legno assicurate a un lato della sedia a rotelle, e per la prima volta trovai il coraggio di guardarlo in faccia. Non avevo mai visto una persona così scheletrica o così abbattuta. I suoi occhi, però, non mostravano paura, né la minima traccia di pianto, e scrutavano mio padre con ferocia, come se fosse stato lui, il tutore, a commettere l’atto imperdonabile che aveva reso invalido il nipote affidato alle sue cure. - Herman, - disse, ma questo fu tutto. - Sei qua, - disse mio padre, - sei a casa. Ti portiamo a casa. Poi mia madre si chinò per baciarlo. - Zia Bess, - disse Alvin.
La gamba sinistra dei calzoni gli pendeva nel vuoto dal ginocchio, una vista generalmente familiare per gli adulti, ma che mi fece trasalire, anche se conoscevo già un uomo senza gambe, un uomo che cominciava all’altezza dei fianchi e che era lui stesso nient’altro che un moncherino. Lo avevo visto chiedere l’elemosina sul marciapiede davanti all’ufficio di mio padre, in centro, ma, confuso com’ero da quella colossale mostruosità, non avevo mai dovuto pensarci molto perché non c’era mai stato il pericolo che venisse ad abitare in casa nostra. Il momento in cui le cose gli andavano meglio era durante il campionato di baseball, quando elencava i risultati finali pomeridiani con una voce declamatoria e assurdamente profonda mentre gli uomini che lavoravano nel palazzo uscivano alla fine della giornata, e ciascuno di essi lasciava cadere un paio di monete nel secchiello ammaccato che era la sua cassetta per le elemosine. Si spostava - in realtà sembrava vivere - su un pannello di legno compensato montato su pattini a rotelle. Tolto il ricordo dei grossi e logori guanti da lavoro che portava tutto l’anno - per proteggere le mani che erano i suoi strumenti di locomozione – non so descrivere il resto del suo equipaggiamento perché la paura di restare a bocca aperta, mescolata al terrore di quello che avrei visto, mi impediva sempre di guardarlo abbastanza a lungo per notare cosa indossava. Il semplice fatto che si vestisse non mi sembrava meno miracoloso del fatto che in qualche modo era capace di orinare e defecare, e persino di ricordare i risultati delle partite di baseball. Ogni volta che un sabato mattina andavo con mio padre nell’ufficio vuoto - in gran parte per il piacere di piroettare nella sua poltrona mentre lui controllava la posta della settimana -, mio padre e quell’uomo ridotto un moncherino si salutavano sempre con un cordiale cenno del capo. Scoprii allora che la grottesca ingiustizia consistente nel dimezzamento di un uomo non era soltanto capitata, cosa già abbastanza incomprensibile, ma capitata a uno che si chiamava Robert, nome che non avrebbe potuto essere più comune, di sei lettere come il mio. «Salve, Little Robert», diceva mio padre mentre noi due entravamo nel palazzo. «Salve, Herman», rispondeva Little Robert. Alla fine chiesi a mio padre: - Non ha un cognome? - Tu ce l’hai? - mi chiese mio padre. - Sì. - Be’, anche lui. - E qual è? Little Robert come? - chiesi. Mio padre rifletté un momento, poi rise e disse: - A dirti la verità, figliolo, non lo so. Dal momento in cui scoprii che Alvin tornava a Newark per fare la convalescenza in casa nostra, vedevo involontariamente Robert sulla sua pedana e con i guanti da lavoro ogni volta che giacevo irrigidito al buio cercando di prendere sonno: prima i miei francobolli coperti di svastiche, poi Little Robert, il moncherino vivente. - Io credevo che tu stessi in piedi sulla gamba che ti hanno dato. Credevo che altrimenti non potessero congedarti, - sentii mio padre dire ad Alvin. - Cos’è successo? Senza guardarlo, Alvin sbottò: - Il moncherino ha sbiellato. - Come sarebbe a dire? - chiese mio padre. - Niente. Non preoccuparti.
- Non ha bagaglio? - chiese mio padre all’infermiera. Ma prima che lei potesse rispondere, Alvin disse: - Certo che ho bagaglio. Dove credi che sia la mia gamba? Sandy e io ci dirigemmo con Alvin e l’infermiera verso il deposito bagagli nell’atrio principale mentre mio padre correva a prendere la macchina al parcheggio di Raymond Boulevard, accompagnato da mia madre, che lo aveva seguito all’ultimo momento, molto probabilmente per parlare di tutto ciò che non avevano previsto sullo stato mentale di Alvin. Sul marciapiede, l’infermiera aveva chiamato un facchino, e insieme aiutarono Alvin ad alzarsi in piedi, e poi il facchino si occupò della sedia a rotelle mentre l’infermiera camminava al fianco di un Alvin saltellante fino alla scala mobile. Là lei prese posto come uno scudo umano, e lui sempre saltellando la seguì, attaccandosi al corrimano in movimento mentre la scala mobile scendeva. Sandy e io eravamo alle spalle di Alvin, lontano finalmente dal suo alito pestifero, e dove Sandy istintivamente si preparò ad afferrarlo caso mai Alvin perdesse l’equilibrio. Il facchino, portando sopra la testa la sedia a rotelle capovolta con le grucce sempre fissate a un lato, prese le scale parallele alla scala mobile ed era già là ad accoglierci nell’atrio quando Alvin scese con un saltello dalla scala mobile e noi dietro di lui. Il facchino depose la sedia a rotelle sul pavimento dell’atrio e la tenne ferma per farvi sedere Alvin, ma Alvin girò sul suo unico piede e cominciò ad allontanarsi saltellando vigorosamente e lasciando l’infermiera - a cui non aveva detto né grazie né addio, là a guardarlo mentre lui si allontanava a tutta birra tra la folla che gremiva l’atrio marmoreo nella direzione del deposito bagagli. - Non rischia di cadere? - chiese Sandy all’infermiera. - Va così in fretta! E se scivola e cade? - Lui? - rispose l’infermiera. - Quel ragazzo, saltellando, può andare dappertutto. Può fare molta strada. Non cadrà. È il campione del mondo di salto. Sarebbe stato più contento di venire qui da Montreal saltellando che di farsi accompagnare da me in treno -. Poi ci confidò, a noi due, bambini privilegiati e assolutamente ignari dell’amarezza di quella perdita: - Ne ho già visti tanti arrabbiarsi, - disse, - ho visto arrabbiarsi quelli che hanno perso braccia e gambe, ma finora mai nessuno arrabbiarsi come lui. - Arrabbiarsi per cosa? - chiese ansiosamente Sandy. Era una donna grande e grossa con due severi occhi grigi e i capelli corti come quelli di un soldato sotto il berretto grigio della Croce Rossa, ma fu nel più dolce tono materno, con una delicatezza che fu un’altra delle sorprese della giornata, come se Sandy fosse proprio una delle persone affidate alle sue cure, che spiegò: - Per quello che fa arrabbiare la gente: per come si mettono le cose. Per tornare a casa mia madre e io fummo costretti a prendere l’autobus, perché nella piccola Studebaker familiare non c’era abbastanza posto. La sedia a rotelle di Alvin andò nel baule, anche se, essendo un vecchio modello ingombrante e non pieghevole, per farcela stare si dovette legare il coperchio del baule con un pezzo di robusto spago. La borsa di tela da viaggio oltreoceano (con dentro la gamba artificiale) era così piena che Sandy non riuscì a sollevarla nemmeno col mio aiuto, e fummo costretti a trascinarla sul pavimento dell’atrio e attraverso la porta fino in
strada; là subentrò mio padre, che insieme a Sandy la depose sul sedile posteriore, praticamente piegato in due, Sandy si appollaiò sopra la borsa per il viaggio di ritorno, con le grucce di Alvin sulle ginocchia. Le estremità delle grucce, con i loro puntali di gomma, sporgevano da uno dei finestrini posteriori, e mio padre vi legò il suo fazzoletto per avvertire gli altri automobilisti, Mio padre e Alvin salirono davanti, e io mi stavo preparando tristemente a strizzarmi fra loro a destra della leva del cambio quando mia madre disse che voleva la mia compagnia per tornare a casa in autobus. Quello che voleva, in realtà, era impedirmi di dover assistere ancora per molto a quello strazio. - Va benedisse , mentre camminavamo verso l’angolo per raggiungere il sottopassaggio dove si faceva la coda per l’autobus numero 14. - È assolutamente naturale essere sconvolti. Lo siamo tutti. Dissi che non ero affatto sconvolto, e invece mi sorpresi a guardarmi intorno cercando qualcuno da seguire. Da quella fermata alla Penn Station partivano comodamente una dozzina di linee diverse, e il caso volle che un autobus di Vailsburg diretto alla remota North Newark stesse caricando i passeggeri nel preciso istante in cui mia madre e io eravamo fermi sul marciapiede del sottopassaggio ad aspettare che arrivasse il 14. Individuai l’uomo giusto da seguire, un uomo d’affari con una borsa che non mi parve - con la mia conoscenza certo ancora imperfetta delle caratteristiche rivelatrici con cui Earl era in così grande sintonia - ebreo. Ma potei solo guardare nostalgicamente la porta dell’autobus che si chiudeva alle sue spalle, e lui che si allontanava senza che io potessi spiarlo da un posto vicino al suo. Quando restammo soli insieme sull’autobus, mia madre disse: - Dimmi cos’è che ti rode. Non risposi, e allora lei cominciò a spiegarmi il comportamento di Alvin alla stazione. - Alvin si vergogna. Si vergogna di farsi vedere da noi su una sedia a rotelle. Quando è partito era forte e indipendente. Adesso vorrebbe nascondersi e vorrebbe urlare e vorrebbe fare una sfuriata, ed e una cosa terribile, per lui. Ed è terribile anche per un ragazzo come te avere visto tuo cugino, grande e grosso com’è, in questo stato. Ma tutto ciò cambierà. Appena avrà capito che non c’è niente da vergognarsi nell’aspetto che ha o in quello che gli è capitato, riprenderà il peso che ha perduto, e riprenderà ad andare dappertutto con la sua gamba artificiale, e sarà di nuovo come te lo ricordi prima che partisse per il Canada... Ti senti meglio? Ti rassicura quello che sto dicendo? - Non ho bisogno di essere rassicurato, - dissi, ma quello che volevo chiedere era: «Il moncherino... Cosa vuol dire che ha sbiellato? Dovrò guardarlo? Dovrò toccarlo? Dovranno aggiustarlo?» Un sabato di un paio di settimane prima ero sceso in cantina con mia madre e l’avevo aiutata a vuotare gli scatoloni pieni della roba di Alvin recuperata da mio padre nella stanza di Wright Street dopo che mio cugino era scappato via per arruolarsi nell’esercito canadese. Tutta la roba lavabile mia madre l’aveva strofinata sull’asse nella vasca divisa in due della cantina, insaponando da una parte, risciacquando dall’altra, e poi passando un capo dopo l’altro nel torcitoio mentre io
giravo la manovella per spremerne l’acqua della risciacquatura. Odiavo quel torcitoio; ogni capo usciva appiattito dai due rulli, con l’aria di essere stato schiacciato da un camion, e ogni volta che ero giù in cantina per una ragione qualunque avevo sempre paura di voltare le spalle a quella macchina. Ma ora mi feci coraggio e lasciai cadere nel cesto ogni indumento umido e deforme di quel bucato spappolato e portai su il cesto affinché mia madre potesse asciugare ogni cosa sulla corda nel cortile. Le passai le mollette mentre si sporgeva dalla finestra per stendere il bucato, e quella sera dopo cena, mentre lei stirava le camicie e i pigiami che l’avevo appena aiutata a tirar dentro, io mi sedetti al tavolo della cucina per piegare la biancheria di Alvin e appallottolare ogni paio di calzini, deciso a fare in modo che tutto andasse bene comportandomi come il bambino più bravo immaginabile, molto, molto migliore di Sandy e migliore persino di me. Il giorno seguente, dopo la scuola, mi ci vollero due viaggi per portare la roba buona di Alvin dal sarto dietro l’angolo dove facevano il lavaggio a secco. Verso la fine della settimana l’andai a prendere e a casa sistemai ogni cosa - paltò, vestito, giacca sportiva e due paia di calzoni - sugli attaccapanni nella metà che gli avevo assegnato dell’armadio della mia camera da letto e misi il resto della roba pulita nei primi due cassetti che una volta erano di Sandy. Poiché Alvin avrebbe dormito nella nostra camera da letto - per permettergli il più comodo accesso possibile al bagno -, Sandy si era già preparato a spostarsi nella veranda sul davanti sistemando le sue cose nella credenza della sala da pranzo, accanto alla tovaglia di lino e ai tovaglioli. Una sera, qualche giorno prima del previsto ritorno di Alvin, lucidai il suo paio di scarpe marrone e il suo paio di scarpe nere, ignorando il più possibile l’incertezza che mi spingeva a domandarmi se fosse ancora necessario lucidarle tutt’e quattro. Far brillare quelle scarpe, pulire i suoi vestiti buoni, sistemare nei cassetti del comò la roba appena lavata, tutto questo era solo una preghiera, una preghiera improvvisata rivolta agli dèi del focolare per implorarli di proteggere le nostre cinque umili stanze e tutto ciò che contenevano dalla furia vendicativa della gamba che non c’era più. Da quello che vedevo fuori dal finestrino dell’autobus cercai di misurare quanto tempo ci restava prima di arrivare in Summit Avenue, quando sarebbe stato troppo tardi per cambiare il mio destino. Eravamo in Clinton Avenue, poco dopo il Riviera Hotel, dove, come non mancavo mai di ricordare, i miei genitori avevano passato la prima notte del loro matrimonio. Avevamo lasciato il centro, eravamo a metà strada, e proprio davanti a noi c’era il tempio B’nai Abraham, la grande fortezza ovale costruita per i bisogni dei ricchi ebrei della città, e a me non meno estranea che se fosse stato il Vaticano. - Potrei spostarmi io nel tuo letto, - disse mia madre, - se è questo che ti disturba. Per ora, finché tutti non si saranno riabituati alla presenza di tutti gli altri, potrei dormire nel tuo letto accanto al letto di Alvin e tu potresti andare a dormire con papà nel nostro letto. Sarebbe meglio? Risposi che preferivo dormire da solo nel mio letto. - E se Sandy dalla veranda tornasse nel suo letto, - propose mia madre, - e Alvin dormisse nel tuo e tu dormissi dove doveva dormire Sandy, sul divano letto nella
veranda? Ti sentiresti troppo solo nella parte davanti della casa, o è quello che in realtà preferiresti? Se lo avrei preferito? Con tutto il cuore. Ma com’era possibile che Sandy, che ora lavorava per Lindbergh, dividesse una stanza con qualcuno che aveva perso una gamba in una guerra contro gli amici nazisti di Lindbergh? Dalla fermata di Clinton Avenue stavamo svoltando in Clinton Place, il consueto angolo residenziale dove - prima che il sabato pomeriggio Sandy mi abbandonasse per la zia Evelyn - lui e io scendevamo dall’autobus per andare a vedere il doppio programma al Roosevelt Theater, il cui tendone a lettere nere era visibile a un isolato di distanza. Presto l’autobus sarebbe passato davanti agli angusti vialetti e alle case bifamiliari che fiancheggiavano il tratto pianeggiante di Clinton Place - strade che somigliavano molto alla nostra, ma la cui fila di rosse verande timpanate in muratura non suscitava una sola delle fondamentali emozioni dell’infanzia che suscitava la nostra - prima di arrivare alla grande svolta finale in Chancellor Avenue. Là sarebbe cominciata la ripida salita sferragliante, oltre gli eleganti pilastri scanalati del liceo nuovo fiammante, fino alla robusta asta della bandiera davanti alla mia scuola elementare, e ancora su fino alla cresta del colle, dove in un minuscolo villaggio la nostra maestra di terza elementare diceva che era vissuta una tribù di Lenni Lenape, cucinando il cibo su pietre roventi e facendo disegni sui loro vasi. Questa era la nostra destinazione, la cima di Summit Avenue, dirimpetto, in diagonale, ai vassoi di cioccolatini appena sfornati generosamente esposti nelle vetrine adorne di pizzi di Anna Mae, il candy store che aveva preso il posto dei tepee degli indiani e il cui profumo allettante addolciva l’aria a meno di due minuti di cammino da casa nostra. In altri termini, il tempo rimasto per dire sì alla veranda era misurabile con precisione e stava per scadere, di cinema in cinema, di candy store in candy store, di veranda in veranda, eppure tutto quello che riuscivo a dire era no, no, starò bene dove sono, finché mia madre non ebbe nient’altro di consolatorio da proporre e, suo malgrado, si chiuse in un cupo e ostentato silenzio, con un’aria molto sinistra, come se l’eccezionalità degli avvenimenti di quel mattino avesse avuto finalmente su di lei lo stesso effetto che aveva avuto su di me - Intanto, poiché non sapevo per quanto tempo avrei potuto continuare a nascondere che non potevo soffrire Alvin per la gamba amputata e il calzone vuoto e il suo orribile odore e la sedia a rotelle e le grucce e il fatto che quando parlava non guardava in faccia nessuno, cominciai a fingere di stare seguendo qualcuno, sull’autobus, che non aveva l’aria di un ebreo. Fu in quel momento che mi resi conto - utilizzando tutti i criteri che mi aveva impartito Earl - che mia madre aveva l’aria di un’ebrea. I capelli, il naso, gli occhi... Mia madre sembrava inconfondibilmente un’ebrea. Ma anch’io, allora, dovevo sembrarlo, io che le somigliavo tanto. Non l’avevo mai notato. A far puzzare Alvin erano tutte le carie che aveva in bocca. «Quando si hanno dei problemi si perdono i denti», spiegò il dottor Lieberfarb dopo aver guardato qua e là col suo specchietto e detto «Oh oh» diciannove volte, e lo stesso pomeriggio si mise a trapanare. Avrebbe fatto tutto quel lavoro gratis perché Alvin era andato volontario a combattere i fascisti, e anche perché, diversamente dai «ricchi ebrei» che stupivano mio padre ritenendosi al sicuro nell’America di Lindbergh, Lieberfarb non si faceva
illusioni su quello che «i tanti Hitler di questo mondo» potevano ancora avere in serbo per noi. Diciannove otturazioni d’oro erano roba grossa, ma era così che il dottor Lieberfarb mostrava la propria solidarietà a mio padre, a mia madre, a me e ai democratici, al contrario dello zio Monty, della zia Evelyn, di Sandy e di tutti i repubblicani che in quel momento si erano accaparrati l’amore dei loro concittadini. Diciannove otturazioni richiesero anche un mucchio di tempo, specialmente a un dentista che aveva fatto la scuola serale mentre di giorno lavorava al porto di Newark a caricare le navi mercantili, e il cui tocco non fu mai tanto leggero. Lieberfarb dovette trapanare per mesi, ma già nelle prime settimane erano state tolte abbastanza carie da rendere una prova non più così dura dorare più o meno vicino alla bocca di Alvin. Il moncherino era un’altra cosa. «Sbiellato» significa che l’estremità del moncherino ha dei problemi: si apre, si screpola, s’infetta. Si formano vesciche, piaghe, edemi, e non puoi camminarci sopra con la protesi, e così devi stare senza e ricorrere alle grucce finché non guarisce e non può sopportare la pressione senza «sbiellare» di nuovo. La colpa era della gamba artificiale. I dottori gli dicevano: «Non ti va più bene», ma Alvin non era cambiato, e la protesi non era mai andata bene, diceva, perché quello che l’aveva fabbricata non aveva preso le misure giuste. - Quanto tempo ci mette a guarire? - gli chiesi la notte in cui mi disse finalmente cosa significava «sbiellato.» Sandy nella veranda davanti alla casa e i miei genitori nella loro camera da letto dormivano già da ore, e così pure Alvin e io, quando lui si mise a urlare «Balla! Balla!» e, con un rantolo impressionante, si drizzò a sedere sul letto, completamente sveglio. Quando accesi la lampada sul comodino e lo vidi coperto di sudore, mi alzai e aprii l’uscio della camera, e anche se io stesso all’improvviso ero tutto coperto di sudore, attraversai in punta di piedi il corridoietto posteriore, non però per andare nella stanza dei miei genitori, a riferire l’accaduto, ma nel bagno a prendere un asciugamano per Alvin. Lui lo usò per tergersi il viso e il collo, poi si tolse la giacca del pigiama per asciugarsi il petto e le ascelle, e allora vidi finalmente cos’era diventata la metà di sopra di quell’uomo dopo che la metà di sotto era stata asportata da un proiettile. Né ferite, né punti, né cicatrici deturpanti, ma anche nessuna energia, solo la pallida carnagione di un ragazzo malaticcio aderente ai nodi e alle creste delle ossa. Era la quarta notte che passavamo insieme. Le prime tre Alvin aveva badato a mettersi il pigiama nel bagno e poi a tornare indietro saltellando per appendere la sua roba nell’armadio, e poiché usava di nuovo il bagno per vestirsi la mattina, non avevo ancora dovuto guardare il moncherino e potevo far finta di non sapere che esisteva. La sera mi giravo con la faccia contro il muro e, spossato da tutte le mie preoccupazioni, cadevo subito in un sonno profondo e continuavo a dormire fino alle prime ore del mattino, quando Alvin si alzava e saltellando andava in bagno e tornava a letto. Faceva tutto questo senza accendere la luce, e io stavo là disteso temendo che andasse a sbattere contro qualche ostacolo e cadesse a terra. Di notte, ogni suo movimento mi fava venir voglia di scappare, e non solo dal moncherino. Fu in questa quarta notte, quando ebbe finito di asciugarsi con l’asciugamano ed era là disteso con
i soli calzoni del pigiama, che Alvin rimboccò la gamba sinistra del pigiama per dare un’occhiata al moncherino. Pensai che fosse un buon segno - che cominciasse a essere un po’ meno agitato, almeno con me - tuttavia ancora non me la sentivo di guardare dalla sua parte... E proprio per questo allora lo feci, cercando di comportarmi da soldato. Ciò che vidi prolungarsi dall’articolazione del ginocchio fu una cosa lunga dieci o quindici centimetri che somigliava alla testa allungata di un animale informe, una testa su cui Sandy, con qualche tocco ben aggiustato, avrebbe potuto disegnare gli occhi, un naso, una bocca, dei denti e delle orecchie, e trasformarla nel muso di un topo. Ciò che vidi fu quello che la parola «moncherino» descrive: l’avanzo smussato di qualcosa d’intero che li aveva il proprio posto e lì era stato, un tempo. Se non sapevi che aspetto avesse una gamba, questa avrebbe potuto sembrarti normale, da come la pelle glabra era dolcemente arrotondata all’estremità accorciata come se fosse opera della natura e non il risultato di una penosa sequenza di amputazioni mediche. - È guarito? - gli chiesi. - Non ancora. - Quanto ci vorrà? - Una vita, - rispose. Rimasi sbalordito. Allora questo non finirà mai!, pensai. - Estremamente frustrante, - disse Alvin. - Ti metti la gamba che ti hanno fatto e il moncherino sbiella. Adoperi le grucce e comincia a gonfiarsi. Qualunque cosa tu faccia, il moncherino soffre. Prendimi le bende dal comò. Obbedii. Avrei dovuto maneggiare le fasce elastiche beige che Alvin usava per impedire al moncherino di gonfiarsi quando si toglieva la gamba artificiale. Erano arrotolate in un angolo del cassetto, vicino ai calzini. Ciascuna di esse era larga sette centimetri ed era fermata a un’estremità da una grossa spilla da balia che le impediva di srotolarsi. Non desideravo tuffare la mano in quel cassetto più di quanto desiderassi andare in cantina e ficcare la mano nel torcitoio, ma lo feci, e quando gli portai le bende fino al letto, stringendone una in ogni pugno, Alvin disse: «Bravo ragazzo», e riuscì a farmi ridere carezzandomi la testa come quella di un cane. Timoroso di vedere il resto, mi sedetti sul letto a guardare. - Ti metti questa benda - spiegò lui - per impedirgli di gonfiarsi -. Tenendo il moncherino in una mano, con l’altra aprì la spilla da balia e cominciò a srotolare una delle bende incrociandola ripetutamente sopra il moncherino, fino all’articolazione del ginocchio e oltre. - Ti metti questa benda per impedirgli di gonfiarsi, - ripeté stancamente con una pazienza esagerata, - ma non vuoi bende sulla parte malata perché impedirebbero al moncherino di guarire. Così vai avanti e indietro sino a diventare matto -. Quando ebbe finito di srotolare la benda e infilato la spilla per fermarla, mi mostrò i risultati. - Devi stringerla, vedi? - E iniziò un’identica routine con l’altra benda. Il moncherino – quando ebbe finito - tornò a ricordarmi un piccolo animale, ma questa volta un animale cui bisognava mettere la museruola con estrema cautela per impedirgli di affondare i denti aguzzi nella mano dell’uomo che lo aveva catturato.
- Come s’impara? - gli chiesi. - Non c’è niente da imparare. Te la metti e basta. Solo, - annunciò improvvisamente, - è troppo stretta, perdio. Forse è vero che devi imparare. Maledetta figlia di puttana! o è troppo larga, cazzo, o è troppo stretta. Ti fa diventare matto... tutta questa storia -. Tolse la spilla da balia che fissava la seconda benda e le srotolò entrambe per ricominciare da capo. - Puoi vedere - mi disse, ora cercando di soffocare il disgusto per la futilità di ogni cosa - come diventi bravo, - e riprese a fasciare il moncherino, cosa che, come la guarigione, sembrava destinata a durare, nella nostra camera da letto, una vita. Il giorno dopo, finita la scuola, corsi subito a casa, una casa che sapevo sarebbe stata vuota: Alvin era dal dentista, Sandy in qualche posto con la zia Evelyn, per aiutare inspiegabilmente Lindbergh a raggiungere i suoi scopi, e i miei genitori non sarebbero tornati dal lavoro fino all’ora di cena. Poiché Alvin aveva stabilito di usare le ore del giorno per permettere al moncherino sfasciato di guarire e la sera per fasciare e impedire che si gonfiasse, trovai subito le due bende nell’angolo del primo cassetto del comò dove le aveva rimesse, arrotolate, quel mattino. Mi sedetti sulla sponda del letto, mi rimboccai il calzone sinistro e, folgorato dalla scoperta che la circonferenza del moncherino di Alvin non era molto più lunga di quella della mia gamba, cominciai a bendarmi. A scuola avevo passato la giornata rivedendo mentalmente la scena a cui avevo assistito la notte prima, ma alle tre e venti, quando arrivai a casa, avevo solo appena iniziato ad avvolgere la prima benda intorno a un moncherino immaginario tutto mio quando, contro la pelle sotto il ginocchio, sentii quella che si rivelò una ruvida crosta staccatasi dall’ulcerata parte inferiore del moncherino di Alvin. La crosta doveva essersi staccata durante la notte: Alvin l’aveva ignorata o non se n’era accorto - e adesso era appiccicata a me: dovevo fare qualcosa, ma provvedere era un’impresa decisamente superiore alle mie forze. Anche se i conati cominciarono in camera da letto, correndo alla porta sul retro e giù per la scala posteriore della cantina riuscii a mettere la testa sopra la doppia vasca qualche secondo prima di vomitare. Trovarmi da solo nell’umida caverna della cantina era un tormento in tutte le circostanze, e non soltanto a causa del torcitoio. Col suo fregio sbavato di muffa che correva lungo i muri imbiancati e screpolati - macchie dell’arcobaleno escrementizio in ogni sfumatura e chiazze lasciate da infiltrazioni che sembravano venire da un cadavere -, la cantina era un regno demoniaco separato dal resto del mondo che si stendeva sotto la casa intera e non traeva neanche un po’ di luce dalla mezza dozzina di sottili finestrelle orizzontali appannate dalla sporcizia che davano sul cemento dei vialetti e sulle erbacce del cortile anteriore. Incassati nel fondo inclinato di una cavità in mezzo al pavimento di cemento c’erano diversi tubi di scarico la cui sezione era grande come un piattino. Fissato alla bocca di ogni tubo c’era un pesante disco nero munito di una serie di perforazioni concentriche grandi come una monetina da cui, senza fatica, immaginavo che creature vaporose si sprigionassero dalle viscere della terra per entrare malevolmente nella mia vita. La cantina era un posto privo non soltanto di una finestra soleggiata ma di ogni umana sicurezza, e quando, arrivato al
liceo, cominciai a studiare la mitologia greca e romana, e lessi nei libri di testo dell’Ade, di Cerbero e del fiume Stige, a tornarmi in mente fu sempre il ricordo della nostra cantina. Una lampadina da 30 watt penzolava sopra la vasca in cui avevo vomitato, un’altra vicino alle caldaie a carbone - fiammeggianti, voluminose e allineate come il Plutone in tre persone dell’oltretomba - e un’altra, quasi sempre bruciata, era appesa a un filo elettrico dentro ciascuna delle nicchie. Non riuscivo ad accettare che in futuro toccasse a me la responsabilità invernale di spalare per prima cosa ogni mattina il carbone nella nostra caldaia, poi di abbassare il fuoco prima di andare a letto, e una volta al giorno di portare un secchio di cenere fredda nel bidone del cortile. Sandy era già diventato abbastanza forte per prendere il posto di mio padre, e di lì a qualche anno, quando come tutti gli altri diciottenni americani sarebbe andato a fare i suoi ventiquattro mesi di servizio militare nel nuovo esercito popolare del presidente Lindbergh, io avrei ereditato quel lavoro e lo avrei abbandonato solo quando avessero richiamato anche me. Immaginare un futuro nel quale mi sarei trovato in cantina a occuparmi solo soletto della caldaia era, a nove anni, sconvolgente come pensare all’inevitabilità della morte, cosa, anche questa, che aveva cominciato a tormentarmi, a letto, ogni notte. Ma soprattutto temevo la cantina a causa di coloro che erano già morti: i miei due nonni, la madre di mia madre e gli zii che un tempo costituivano la famiglia di Alvin. I loro corpi potevano essere stati sepolti dalle parti della statale 1 sul confine NewarkElizabeth, ma per occuparsi dei nostri affari e controllare la nostra condotta i loro spiriti abitavano due piani sotto il nostro. Di loro non avevo quasi alcun ricordo, soltanto della nonna che era morta quando io avevo sei anni, eppure ogni volta che dovevo andare in cantina da solo mi preoccupavo di avvertirli tutti, uno per uno, che stavo per scendere, e li pregavo di restare lontani e di non importunarmi, una volta che mi fossi trovato in mezzo a loro. Quando Sandy aveva la mia età era solito armarsi contro questo tipo di paura lanciandosi giù per le scale della cantina e urlando: «Cattivi, lo so che siete lì sotto... Ho una pistola», mentre io scendevo mormorando: «Mi pento di tutti gli sbagli che ho fatto.» C’erano il torcitoio, i tubi di scarico, i morti - gli spiriti dei morti che guardavano e giudicavano e condannavano mentre io vomitavo nella doppia vasca dove mia madre e io avevamo lavato la roba di Alvin -, e c’erano i gatti randagi che sparivano in cantina quando la porta sul retro veniva lasciata socchiusa e poi gnaulavano dal buio dov’erano acquattati, e c’era la tosse disperata del nostro vicino del piano di sotto, il signor Wishnow, una tosse che dalla cantina faceva pensare ai denti della sega con cui due uomini lo stessero tagliando in due. Come mio padre, il signor Wishnow era un agente di assicurazioni della Metropolitan, ma da più di un anno era in malattia, troppo debilitato da un cancro alla bocca e alla gola per fare altro che stare in casa ad ascoltare, quando non dormiva o non tossiva incontrollabilmente, i racconti a episodi che la radio trasmetteva durante il giorno. Con la benedizione della sede centrale, la moglie lo aveva sostituito – primo agente di assicurazioni donna nella storia del
circondario di Newark – e ora faceva gli stessi lunghi orari di mio padre, che generalmente doveva uscire di nuovo dopo cena per fare le sue riscossioni e cercare nuovi clienti quasi tutti i sabati e le domeniche, perché il weekend era l’unico momento in cui poteva sperare di trovare in casa un padre di famiglia al quale far ascoltare il suo pistolotto. Prima di mettersi a lavorare anche lei come commessa da Hahne, mia madre si fermava al piano di sotto un paio di volte al giorno per vedere come se la passava il signor Wishnow; e ora, quando la signora Wishnow telefonava per dire che non poteva essere a casa in tempo per preparare una cena vera e propria, mia madre cucinava un po’ di più di quello che mangiavamo noi e Sandy e io, prima di poterci sedere a tavola davanti alla nostra cena, portavamo un piatto di roba calda per ciascuno al pianterreno su un vassoio, uno per il signor Wishnow e uno per Seldon, l’unico figlio dei Wishnow. Seldon ci apriva la porta e noi con i nostri vassoi attraversavamo l’ingresso e andavamo in cucina, cercando con la massima attenzione di non rovesciare nulla mentre li posavamo sul tavolo dove il signor Wishnow era già in attesa, con un tovagliolo di carta infilato nella giacca del pigiama, ma con l’aria di non essere assolutamente capace di nutrirsi da solo, anche se disperatamente bisognoso di nutrimento. «Tutto bene, ragazzi?» ci chiedeva con quel filo di voce rotta che gli era rimasto. «Hai una barzelletta per me, Phillie? Una buona barzelletta potrebbe farmi comodo», riconosceva, ma senza amarezza, senza malinconia, mostrando semplicemente la mite e difensiva giovialità di uno che continuava a tener duro senza una ragione apparente. Seldon doveva aver detto a suo padre che a scuola io riuscivo a far ridere gli altri bambini, e così mi veniva scherzosamente chiesto di raccontargli una barzelletta quando con la sua sola vicinanza il signor Wishnow avrebbe obliterato la mia capacità di parlare. Il meglio che ero in grado di fare era sforzarmi di guardare uno che sapevo che stava per morire - e, peggio, che era ormai rassegnato alla morte – senza permettere ai miei occhi di vedere la raccapricciante testimonianza della sofferenza fisica che veniva costretto a subire mentre passava a una vita spettrale nella nostra cantina con tutti gli altri morti. Qualche volta, quando si doveva andare in farmacia per rifornire il signor Wishnow di medicine, Seldon saliva le scale di corsa per chiedermi se volevo accompagnarlo, e poiché io avevo saputo dai miei genitori che suo padre era condannato - e poiché lo stesso Seldon si comportava come se non ne sapesse nulla era impossibile pensare a un rifiuto, anche se non mi era mai piaciuto stare con qualcuno così scopertamente ansioso di fare amicizia. Seldon era un bambino chiaramente in balia della propria solitudine, immeritatamente ricco di dolore, e che faceva troppi sforzi per avere sempre un sorriso sulle labbra, uno di quei ragazzi magri, pallidi e con la faccia buona che mettono tutti in imbarazzo lanciando una palla come una bambina, ma anche il bambino più intelligente della nostra classe e in aritmetica il fenomeno di tutta la scuola. Stranamente, durante la lezione di ginnastica non c’era nessuno che fosse capace di arrampicarsi e scendere dalla fune appesa all’altissimo soffitto della palestra meglio di Seldon, e questa sua aerea agilità doveva
essere strettamente collegata - secondo uno dei nostri insegnanti - alla sua incontestabile destrezza con i numeri. Era già un campioncino di scacchi, gioco che gli aveva insegnato suo padre, e così, ogni volta che lo accompagnavo in farmacia, sapevo che mi sarebbe stato impossibile evitare di finire, più tardi, davanti a una scacchiera nel soggiorno buio del suo appartamento: buio per risparmiare elettricità e buio perché adesso le tende erano tirate in permanenza, per impedire che la morbosa curiosità spingesse i vicini a spiare per assistere al graduale passaggio di Seldon alla condizione di orfano di padre. Senza farsi scoraggiare dalla mia tenace resistenza, Seldon il Solitario (com’era stato battezzato da Earl Axman, per il quale il subitaneo crollo mentale della madre era stato una terribile catastrofe parentale di altro genere) cercava di insegnarmi per la milionesima volta come muovere i pezzi e giocare la partita mentre, dietro l’uscio della camera da letto sul retro, suo padre tossiva così spesso e con tanta forza da farmi pensare che là dentro non ci fosse solo un padre ma quattro, cinque, sei padri che stavano morendo a furia di tossire. In meno di una settimana fui io e non Alvin a bendare il moncherino, e allora mi ero già così impratichito su me stesso - e senza più vomitare - che non una volta lui dovette lamentarsi che le bende erano troppo larghe o troppo strette. Lo facevo tutte le sere - anche dopo che il moncherino era guarito e lui camminava regolarmente sulla gamba artificiale - per impedire che tornasse a gonfiarsi. Per tutto il tempo in cui il moncherino guariva, la gamba artificiale era rimasta in fondo all’armadio dei vestiti, in gran parte nascosta dalle scarpe sul pavimento e dai calzoni appesi alla sbarra trasversale. Ci voleva ancora un po’ per non notarla, ma io ero deciso e non seppi di cos’era fatta fino al giorno in cui Alvin la tirò fuori per mettersela. A parte che riproduceva stranamente la forma della parte inferiore di un vero arto inferiore, tutto in quella gamba era orribile, ma orribile e meraviglioso insieme, a partire da quella che Alvin chiamava la sua bardatura: la guaina di cuoio scuro che si allacciava sul davanti e andava da sotto la natica al disopra della rotula e che era attaccata alla protesi mediante cerniere d’acciaio ai lati del ginocchio. Il moncherino, fasciato da una lunga calza di lana bianca, entrava comodamente in una cavità imbottita nella parte alta della protesi, che era di legno con alcuni fori per l’aerazione, e non, come avevo immaginato, un pezzo di gomma nera somigliante a una clava da fumetti. In fondo alla gamba c’era un piede artificiale che si piegava solo di qualche grado ed era provvisto di una suola di spugna. Era avvitato alla gamba senza che si vedessero le parti metalliche, e anche se sembrava più un tendiscarpe di legno che un vero piede con cinque dita separate, quando Alvin si metteva calze e scarpe - le calze lavate da mia madre, le scarpe lustrate da me - avresti detto che i piedi erano entrambi suoi. Il primo giorno in cui tornò a mettersi la gamba artificiale, Alvin si esercitò nel vialetto camminando avanti e indietro dal garage in fondo alla siepe rada che cingeva il giardinetto sul davanti, ma senza mai fare un passo di più, cioè senza arrivare dove poteva essere visto da qualcuno fuori in strada. Il secondo giorno riprese a esercitarsi da solo la mattina, ma quando tornai a casa da scuola mi portò fuori con lui per un’altra seduta, questa volta non concentrandosi semplicemente sul camminare, ma
fingendo che il buono stato del moncherino e l’adattamento della protesi - e il lungo futuro che lo aspettava come uomo con una gamba sola - non opprimessero il suo spirito. Dopo una settimana Alvin portava la sua gamba in giro per la casa per tutta la giornata, e dopo un’altra settimana mi disse: «Va’ a prendere la palla.» Se non fosse che noi non l’avevamo: avere una palla ovale era una roba grossa come avere le scarpe con i tacchetti o i paraspalle, e ce l’avevano solo i ragazzi «ricchi.» E io non potevo prenderne una al campo sportivo dietro la scuola se non andavamo a usarla proprio là, perciò quello che feci - io che fino ad allora non avevo rubato altro che qualche spicciolo dalle tasche dei miei genitori -, quello che feci senza un attimo di esitazione fu andare in fondo a Keer Avenue, dove c’erano delle case unifamiliari col prato davanti e didietro, a perlustrare ogni vialetto finché non trovai quello che cercavo: una palla da rubare, una Wilson di vero cuoio, un po’ graffiata dalle lastre di pietra, con le sue stringhe di cuoio e la camera d’aria da gonfiare, che qualche bambino pieno di soldi aveva lasciato incustodita. Me la misi sottobraccio e scappai via, facendo a tutta birra la salita fino a Summit Avenue come se stessi sfruttando una rimessa per la vecchia Notre Dame. Quel pomeriggio ci allenammo a passarci la palla nel vialetto per quasi un’ora, e la sera, quando insieme esaminammo il moncherino dietro la porta chiusa della camera, non vedemmo ombra di danni, anche se quando mi faceva i suoi lanci perfetti con la sinistra Alvin caricava praticamente tutto il peso sulla gamba artificiale. «Non avevo altra scelta»: ecco la difesa che avrei formulato se mi avessero colto in flagrante quel giorno in Keer Avenue. Mio cugino Alvin voleva una palla ovale, Vostro Onore. Ha perso la gamba combattendo contro Hitler e ora è a casa e voleva una palla ovale. Che altro avrei potuto fare? Era ormai passato un mese dall’orribile giorno del suo arrivo alla Penn Station e, anche se la cosa non era necessariamente piacevole, io non provavo più nessuna ripugnanza degna di questo nome quando, nel cercare le mie scarpe la mattina, allungavo la mano verso il fondo dell’armadio per prendere la protesi di Alvin e gliela porgevo, e lui seduto sul letto in mutande aspettava il suo turno per andare in bagno. Il lato macabro della cosa si stava affievolendo e lui aveva cominciato a ingrassare, abbuffandosi tra un pasto e l’altro di tutto quello che trovava nel frigo, e i suoi occhi non sembravano più così enormi, e i capelli erano ridiventati folti, capelli ondulati così neri da avere una cerea lucentezza, e ogni mattina, mentre lui stava là seduto quasi inerme col moncherino in bella vista, per un ragazzo che lo adorava c’era qualcosa di più da adorare, mentre quello che c’era da compatire era un po’ meno impossibile da sopportare. Presto Alvin cessò di confinarsi nel vialetto, e senza essere costretto ad appoggiarsi alle grucce o al bastone che lo umiliava dover usare in pubblico cominciò ad andare dappertutto sulla gamba artificiale, facendo la spesa per mia madre dal macellaio, dal panettiere e dal fruttivendolo, comprandosi un hotdog giù all’angolo, prendendo l’autobus non soltanto per andare dal dentista in Clinton Avenue ma fino a Market Street a comprarsi una camicia nuova da Larkey: e anche, come io ancora ignoravo, facendo una visitina ai campi da gioco dietro il liceo con la sua paga del soldato in tasca per vedere se c’era qualcuno che aveva voglia di giocare a poker o a dadi. Un
giorno, dopo la scuola, andammo insieme a mettere la sedia a rotelle in cantina, e quella sera dopo cena raccontai a mia madre un’idea che mi era venuta a scuola. Ovunque fossi e qualunque cosa dovessi fare, mi sorprendevo a pensare ad Alvin e a cosa fare per aiutarlo a dimenticare la sua protesi; e così dissi a mia madre: «Se Alvin avesse una cerniera lampo su un lato della gamba del calzone, gli sarebbe più facile mettersi e togliersi i pantaloni quando ha la protesi, no?» La mattina dopo, mentre andava a lavorare, mia madre lasciò un paio di calzoni militari di Alvin da una sarta del quartiere che lavorava in casa, e la sarta poté aprire la cucitura laterale e mettervi una cerniera lunga una quindicina di centimetri che partiva dall’orlo senza risvolto del calzone sinistro. Quella sera, quando Alvin s’infilò i pantaloni dopo aver aperto la cerniera, il calzone passò comodamente sopra la protesi senza che lui dovesse maledire il mondo intero solo perché si stava vestendo. E quando chiuse la cerniera non si vedeva niente. «Non capisci nemmeno che c’è!» gridai. La mattina, mettemmo tutti gli altri pantaloni in un sacchetto di carta per farli portare da mia madre dalla sarta a sistemare. «Non potrei vivere senza di temi , disse Alvin quella sera quando andammo a letto. - Non potrei mettermi i calzoni senza di te», e mi diede da tenere per sempre la medaglia canadese con cui lo avevano decorato «per l’adempimento del suo dovere in circostanze eccezionali.» Era una medaglia d’argento circolare, da un lato re Giorgio VI di profilo e dall’altro un leone rampante ritto sul corpo di un drago. Io, naturalmente, la tenevo in gran conto e cominciai a portarla regolarmente, ma col nastrino verde da cui pendeva appuntato alla canottiera affinché nessuno la vedesse e mettesse in discussione la mia fedeltà agli Stati Uniti. La lasciavo a casa, in un cassetto, solo nei giorni in cui avevo palestra e dovevamo toglierci la camicia per fare ginnastica. E Sandy a questo punto che fine aveva fatto? Poiché era molto indaffarato pure lui, in un primo tempo parve non accorgersi della mia rapidissima trasformazione in cameriere personale di un eroe di guerra canadese decorato che ora aveva proceduto a decorare anche me; e quando se ne accorse - e all’inizio ci rimase molto male non tanto per il legame tra me e Alvin, che era inevitabile con la nuova disposizione dei posti letto, ma a causa dell’ostile indifferenza che Alvin gli mostrava - era troppo tardi per estromettermi dal quel ruolo di «spalla» (con i suoi nauseanti doveri) che ero stato praticamente costretto ad assumermi e che, con sorpresa di Sandy, aveva ottenuto un così sublime riconoscimento negli ultimi anni della mia lunga carriera di fratello minore. E tutto questo era stato ottenuto senza che io accennassi una sola volta all’affiliazione di Sandy, attraverso la zia Evelyn e il rabbino Bengelsdorf, nella nostra attuale detestabile amministrazione. Tutti, compreso mio fratello, avevano evitato di parlare dell’Uaa e di Just Folks in presenza di Alvin, convinti che, finché lui non fosse arrivato a capire come l’enorme popolarità della politica isolazionista di Lindbergh aveva cominciato a guadagnarsi anche l’appoggio di molti ebrei - e come per un ragazzo ebreo dell’età di Sandy essere attratto dall’avventura offerta da Just Folks era assai meno sleale di quel che potesse apparire -, sarebbe stato impossibile mitigare l’indignazione del nemico di Lindbergh più tenace e altruistico di tutti noi. Ma Alvin sembrava avere già intuito che Sandy lo aveva tradito e, essendo Alvin,
non si curava di nascondere i propri sentimenti. Io non avevo detto niente, i miei genitori non avevano detto niente, certo Sandy non aveva detto niente che lo incriminasse agli occhi di Alvin, eppure Alvin era arrivato a sapere (o a comportarsi come se sapesse) che il primo a dargli il bentornato a casa alla stazione era stato anche il primo ad arruolarsi tra i fascisti. Nessuno sapeva cos’avrebbe fatto adesso Alvin. Ci sarebbero stati dei problemi per trovare un lavoro, perché non tutti avrebbero assunto un individuo che era considerato un invalido, un traditore o entrambe le cose. Però era indispensabile, secondo i miei genitori, contrastare ogni inclinazione che Alvin potesse avere a non far niente e limitarsi a essere di cattivo umore e autocommiserarsi per il resto della vita mentre sopravviveva con la sua pensione. Mia madre voleva che usasse l’assegno mensile per andare all’università. Aveva chiesto in giro e le avevano detto che se Alvin avesse passato un anno alla Newark Academy, prendendo delle B nelle materie per le quali aveva preso delle D e delle F a Weequahic, più che probabilmente sarebbe stato in grado di iscriversi all’università di Newark l’anno dopo. Ma mio padre non riusciva a immaginare un Alvin che tornasse volontariamente in dodicesima, anche in una scuola privata del centro; a ventidue anni e dopo tutto quello che aveva passato, aveva bisogno di trovare al più presto un lavoro che avesse un avvenire, e per questo mio padre gli propose di mettersi in contatto con Billy Steinheim. Billy era il figlio che aveva fatto amicizia con Alvin quando Alvin era l’autista di Abe, e se Billy era disposto a chiedere a suo padre di dare ad Alvin un’altra chance, forse tra loro gli avrebbero trovato un posto nella ditta, un posto senza pretese, per ora, ma tale da permettergli di riscattarsi agli occhi di Abe Steinheim. In caso di bisogno, e solo in caso di bisogno, Alvin avrebbe potuto cominciare con lo zio Monty, che era già venuto a offrire a suo nipote di lavorare al mercato ortofrutticolo; questo era successo in quei primi brutti tempi in cui il moncherino di Alvin lo faceva soffrire parecchio e lui passava a letto quasi tutta la giornata e non voleva aprire le finestre per paura di vedere anche solo di sfuggita il piccolo mondo in cui una volta era stato intero. Tornando a casa in macchina dalla Penn Station con mio padre e Sandy, aveva chiuso gli occhi davanti alla scuola per non ricordare le innumerevoli volte in cui era uscito di corsa da quell’edificio alla fine della giornata senza essere tormentato dai dolori e libero di fare ciò che voleva. Fu proprio il pomeriggio prima della visita dello zio Monty che io tornai da scuola un po’ in ritardo - era toccato a me fermarsi a pulire le lavagne - e arrivando a casa scoprii che Alvin era sparito. Non riuscii a trovarlo né a letto né in bagno né in un altro angolo qualsiasi dell’appartamento, e allora corsi fuori a cercarlo nel cortile e poi, sbigottito, tornai in casa dove, ai piedi delle scale, udii deboli lamenti che venivano dal basso: spettri, gli spettri sofferenti dei genitori di Albin. Quando feci qualche passo giù per le scale della cantina, per controllare se gli spettri si potevano vedere oltre che udire, ciò che vidi, contro il muro della cantina, fu invece Alvin in persona che spiava dal vetro della stretta finestrella orizzontale che dava, a livello della strada, in Summit Avenue. Era coperto da un accappatoio e con una mano, per tenersi in equilibrio, si era aggrappato allo stretto davanzale. L’altra mano non riuscii
a vederla. La stava usando per una cosa di cui non sapevo niente perché ero troppo piccolo. Attraverso un circoletto di finestra liberato dalla sporcizia, guardava le ragazze del liceo che abitavano in Keer Avenue tornare a casa da Weequahic lungo la nostra via. Da lì non poteva avere visto altro che le gambe che passavano davanti alla siepe, ma quella vista era sufficiente e lo spingeva a manifestare con lamenti quella che io presi per l’angoscia di non avere più, lui stesso, due gambe con le quali camminare. Mi ritirai in silenzio dalle scale e uscii dalla porta di dietro e mi accovacciai nell’angolo più lontano del garage, meditando di scappare a New York per andare a vivere con Earl Axman. Solo perché cominciava a farsi buio e io avevo i compiti da fare, rientrai in casa, fermandomi prima a sbirciare in cantina per vedere se Alvin era ancora là. Non c’era, e allora trovai il coraggio di scendere le scale, passando rapidamente davanti al torcitoio e alle vasche, e una volta davanti alla finestra e sulla punta dei piedi - solo nell’intento di guardare fuori in strada come aveva fatto lui - scoprii che il muro imbiancato sotto la finestra era viscido e coperto da un’abbondanza di roba appiccicosa. Poiché non sapevo cos’era la masturbazione, naturalmente non sapevo cosa volesse dire eiaculare. Pensai che fosse pus. Pensai che fosse catarro. Non sapevo cosa pensare, tranne che era qualcosa di terribile. Davanti a quello spurgo ancora misterioso, immaginai che si trattasse di qualcosa che suppurava nel corpo di un uomo e poi gli schizzava dalla bocca quando era totalmente consumato dal dolore. Il pomeriggio che venne a trovare Alvin, lo zio Monty stava andando in centro, in Miller Street, dove, da quando aveva quattordici anni, lavorava al mercato per tutta la notte, arrivando verso le cinque e tornando a casa solo alle nove del mattino dopo per consumare il suo pasto principale e andare a dormire per il resto della giornata. Questa era la vita che faceva il membro più ricco della nostra famiglia. Le sue due figlie se la passavano meglio. Linda e Annette, che erano un po’ più grandi di Sandy e mostravano la penosa timidezza delle ragazzine che girano in punta di piedi intorno a un padre tirannico, avevano un sacco di vestiti e frequentavano il liceo suburbano Columbia di Maplewood, dove c’erano altri ragazzi ebrei che avevano un sacco di vestiti e i cui padri, come Monty, avevano una Cadillac per sé e un’altra macchina in garage per la comodità della moglie e dei figli grandi. Con tutti loro nella spaziosa casa di Maplewood viveva mia nonna, che aveva un sacco di vestiti pure lei, tutti comprati dal figlio più fortunato e nessuno dei quali mia nonna indossava se non per le feste maggiori, e quando Monty la costringeva a mettersi elegante per andare a mangiare fuori con la famiglia la domenica. I ristoranti non erano abbastanza kosher per i suoi standard, perciò non ordinava mai altro che il pasto del prigioniero à la carte di pane e acqua; e poi, comunque, non aveva mai saputo come comportarsi in un ristorante. Un giorno che aveva visto un aiutocameriere riportare in cucina un’impressionante pila di piatti, si era alzata per andarlo ad aiutare. Zio Monty gridò: «Mamma! No! Loz ìm tsu ru! Lascia stare quel ragazzo!», e quando lei per liberarsi gli diede un colpo sulla mano dovette essere presa per la manica del vestito coperto di ridicoli lustrini e ricondotta al tavolo. C’era una donna nera, nota come «la ragazza», che veniva in autobus da Newark a fare le pulizie due giorni la settimana, ma questo
non impediva alla nonna, quando non c’era nessuno in giro, di mettersi ginocchioni à lavare i pavimenti della cucina e del bagno, o la propria roba sopra un’asse, nonostante la presenza nell’elegante seminterrato di Monty di una lavatrice Bendix Home nuova di zecca da 99 dollari. La zia Tillie, la moglie di Monty, non faceva che lagnarsi per il fatto che suo marito dormiva tutto il giorno e la sera non era mai a casa, anche se tutti gli altri membri della famiglia la consideravano - assai più della sua nuova Oldsmobile - una fortuna. Alvin era a letto e ancora in pigiama alle quattro del pomeriggio di quel giorno di gennaio in cui Monty venne a trovarlo per la prima volta e osò fargli la domanda di cui nessuno di noi conosceva esattamente la risposta: «Come diavolo hai fatto a perdere una gamba?» Poiché Alvin era stato così poco socievole quando ero tornato da scuola, reagendo con un grugnito di disgusto a tutti i miei tentativi di rallegrarlo, non mi aspettavo proprio che il nostro meno amabile parente gli strappasse una risposta. Ma la presenza minacciosa dello zio Monty, con l’eterna sigaretta penzolante dall’angolo della bocca, fu tale che neppure Alvin, in quei primi giorni, poté dirgli di chiudere il becco e togliersi dai piedi. Quel particolare pomeriggio Alvin non arrivò neanche a una pallida imitazione della sprezzante insolenza che al suo ritorno a casa da amputato gli aveva permesso di attraversare con una serie di salti prodigiosi l’atrio principale della Penn Station. - Francia, - rispose Alvin con voce cavernosa alla grossa domanda. - Il paese peggiore della terra, - gli disse Monty, senza la minima incertezza. A ventun’anni, nell’estate del 1918, lui stesso aveva combattuto in Francia contro i tedeschi nella seconda sanguinosa battaglia della Marna, e poi nella foresta delle Argonne quando gli Alleati sfondarono il fronte occidentale tedesco, e così, naturalmente, sapeva tutto della Francia. - Non ti sto chiedendo dove, - disse Monty, - ti sto chiedendo come. - Come? - ripeté Alvin. - Sputa, ragazzo. Ti farà bene. Sapeva anche questo: cosa gli avrebbe fatto bene. - Dov’eri - chiese - quando ti hanno colpito? E non dirmi «nel posto sbagliato.» Sei stato per tutta la vita nel posto sbagliato. - Stavamo aspettando che la barca ci venisse a prendere. A questo punto Alvin chiuse gli occhi come se sperasse di non riaprirli mai più. Ma invece di fermarsi lì, come io pregavo che facesse, «Avevo sparato a un tedesco», disse a un tratto. - E...? - disse Monty. - È rimasto là fuori a urlare per il resto della notte. - E allora? Allora? Avanti. Quello urlava. E allora? - Allora verso l’alba, prima che arrivasse la barca, mi sono avvicinato strisciando al posto dove si trovava. Forse a cinquanta metri di distanza. A quel punto era già morto. Ma io ho strisciato fino a trovarmi sopra di lui e gli ho sparato due volte alla testa. Poi ho sputato su quel figlio di puttana. E in quel secondo hanno tirato la granata. L’ho presa nelle gambe. Su una delle gambe il piede era girato dall’altra
parte. Rotto e girato. Quello hanno potuto aggiustarlo. L’hanno operato e aggiustato. Ci hanno messo un’ingessatura. L’hanno raddrizzato. Ma l’altro non c’era più. Ho guardato sotto e ho visto un piede rivolto all’indietro e una gamba ciondoloni. La sinistra, già quasi amputata. Ecco tutto, e ben lontano dall’eroica realtà che avevo così futilmente immaginato. - Solo soletto là nella terra di nessuno, - gli disse Monty, - potresti essere stato colpito da uno dei tuoi. Ancora non c’è luce, c’è una mezza luce, uno sente sparare, viene preso dal panico... Tombola, strappa la sicura. A quelle congetture, Alvin non trovò niente da dire. Chiunque altro avrebbe capito e ridotto la pressione, anche solo per il sudore che imperlava la fronte di Alvin e le goccioline che gli si raccoglievano nella cavità della gola e il fatto che non voleva ancora aprire gli occhi. Ma mio zio no: lui capisce e insiste. - E come mai non ti hanno lasciato là? Dopo una bravata come quella, perché non ti hanno lasciato là a morire? - C’era fango dappertutto, - fu la risposta distratta di Alvin. – Il terreno era pieno di fango. Non ricordo altro che questo: c’era del fango. - Chi ti ha salvato, balordo? - Sono venuti a prendermi. Devo aver perso i sensi. Sono venuti a prendermi. - Sto cercando di capire come ragioni, Alvin, e non ci riesco. Sputa. Lui sputa. Ed ecco la storia di come perde una gamba. - Certe cose, non sai perché le fai -. Ero stato io a parlare. Che ne sapevo, io? Però stavo dicendo a mio zio: - Si fanno e basta, zio Monty. Non puoi farne a meno. - Non puoi farne a meno, Phillie, quando sei un balordo di professione -. Ad Alvin disse: - E ora? Vuoi stare lì sdraiato a vivere degli assegni d’invalidità? Vuoi fare il furbo e approfittare della fortuna che hai avuto? O magari prenderesti in considerazione l’idea di mantenerti come il resto di noi stupidi mortali? C’è un posto al mercato per te, quando ti sarai alzato dal letto. Comincerai dalla gavetta, lavando il pavimento e facendo la cernita dei pomodori, comincerai dalla gavetta con gli scaricatori e gli imbranati, ma c’è un posto per te nella mia ditta, e un assegno ogni settimana. Tu ti sei fregato metà dell’incasso della stazione della Esso, ma io ti darò una mano ugualmente perché sei sempre il figlio di Jack, e per mio fratello Jack farei qualunque cosa. Non sarei arrivato dove sono senza di lui. Jack mi ha insegnato il mestiere ed è morto. Proprio come Steinheim voleva insegnarti il suo. Ma nessuno è capace d’insegnarti qualcosa, balordo. Butta le chiavi in faccia a Steinheim, lui. È troppo grande per Abe Steinheim. Solo Hitler è abbastanza grande per Alvin Roth. In cucina, in un cassetto con le presine e il termometro del forno, mia madre teneva un ago lungo e rigido e del filo grosso per cucire il tacchino del Ringraziamento dopo averlo farcito. Era l’unico strumento di tortura che avessimo, a parte il torcitoio, e mi venne voglia di andarlo a prendere per chiudere la bocca di mio zio. Sulla porta della camera da letto, prima di uscire per andare al mercato, Monty si voltò indietro per ricapitolare. I prepotenti amano ricapitolare. La ricapitolazione, ammonitrice e ridondante, che ha qualcosa in comune solo con l’antica fustigazione. I tuoi compagni hanno rischiato tutto per salvarti. Sono venuti a prenderti e a
trascinarti via sotto il fuoco. No? E per cosa? Perché tu potessi passare il resto della vita giocando a dadi con Margulis? Perché tu possa giocare a teresina nel cortile della scuola? Perché tu possa riprendere a pompare benzina e a derubare Simkowitz fino a ridurlo sul lastrico? Tu fai tutti gli errori dell’elenco. Tutto quello che fai è sbagliato. Hai sbagliato persino a sparare ai tedeschi. Perché? Perché tiri le chiavi alla gente? Perché sputi?Uno che è già morto... E tu sputi? Perché? Perché la vita non ti è stata servita su un piatto d’argento come al resto dei Roth? Se non fosse per Jack, Alvin, non starei qui a sprecare il fiato. Non c’è nulla che tu ti sia guadagnato. Diciamolo chiaramente. Nulla. Per ventidue anni sei sempre stato un disastro. Io faccio questo per tuo padre, figliolo, non per te. Lo faccio per tua nonna. «Aiuta quel ragazzo», mi dice, e io ti aiuto. Quando avrai deciso come vuoi fare fortuna, vieni a trovarmi sulla tua gamba di legno e faremo quattro chiacchiere. Alvin non pianse, non imprecò, non gridò, anche dopo che Monty era uscito dalla porta di dietro e rimontato in macchina, quando avrebbe potuto sfogare tutta la sua rabbia. Era troppo abbattuto, quel giorno, per sfogarsi. O anche per crollare. Solo io crollai, dopo che non volle aprire gli occhi e guardarmi quando lo implorai di farlo; solo io crollai, più tardi, da solo, nell’unico posto della casa dove sapevo di poter andare per essere lontano dai vivi e da tutto ciò che non possono trattenersi dal fare.
CAPITOLO 5 Marzo 1942 - giugno 1942 Mai prima di allora Ecco come Alvin arrivò ad avercela con Sandy. Prima di lasciarlo solo, la mattina del primo lunedì dopo il suo ritorno, mia madre gli aveva fatto promettere di usare le stampelle per muoversi finché uno di noi non fosse in casa e potesse andare a prendere ciò che gli serviva. Ma Alvin detestava camminare con le stampelle, tanto da rifiutare, anche da solo, di piegarsi alla stabilità che garantivano. La sera, quando eravamo a letto con la luce spenta, Alvin mi faceva ridere spiegando perché girare con le stampelle non era così semplice come credeva mia madre. «Tu vai in bagno, - diceva, - e quelle non fanno che scivolare. Non fanno che sbattere qua e là. Non fanno che strepitare, accidenti. Tu vai in bagno, hai queste stampelle, cerchi di tirare fuori il cazzo, e non ce la fai perché hai le stampelle sempre tra i piedi. Devi disfarti delle stampelle. Allora cerchi di tenerti in equilibrio su una gamba sola. Però non va mica tanto bene. Ondeggi a destra e a sinistra, schizzi da tutte le parti. Tuo padre mi dice di sedermi, se devo pisciare. Sai cosa dico io? "Mi siederò quando lo farai tu, Herman". Maledette stampelle. Stai su una gamba sola. Tiri fuori il cazzo. Cristo. Pisciare è già abbastanza difficile così com’è.» Io rido ormai incontrollabilmente non soltanto perché la storiella è particolarmente divertente, mentre lui la racconta a mezza voce nella stanza buia, ma perché mai prima d’ora un uomo mi si è rivelato in questo modo, usando così liberamente le parole proibite e dicendo sconcezze senza ritegno. «Sudice , Alvin, - devi ammetterlo, ragazzo mio... Pisciare non è una cosa tanto facile come sembra.» Così accadde che la mattina di quel primo lunedì in cui era rimasto solo, quando l’amputazione era ancora una perdita illimitata che lo avrebbe ostacolato, pensava, e tormentato per sempre, Alvin fece il ruzzolone di cui nessuno in famiglia seppe tranne me. Puntellato contro l’acquaio, si trovava in cucina, dove, senza l’aiuto delle stampelle, era andato a prendere un bicchier d’acqua. Quando si voltò per tornare in camera da letto dimenticò (per tutte le ragioni possibili) di avere una gamba sola e, invece di saltellare, fece quello che in casa nostra facevano tutti gli altri: cominciò a camminare e naturalmente cadde. Il dolore che gli saettò attraverso il corpo partendo dall’estremità del moncherino fu peggio del dolore che sentiva nel segmento mancante della gamba: un dolore, mi spiegò Alvin dopo che io per la prima volta lo ebbi visto cedere al suo assedio nel letto accanto al mio, «che ti prende e non ti lascia andare», anche se non c’è più nessun arto a provocarlo. - C’è il dolore dove ci sei, disse Alvin quando venne il momento di tranquillizzarmi con una specie di osservazione comicae , c’è il dolore dove non ci sei. Chissà chi ha avuto questa idea. L’ospedale inglese distribuiva agli amputati della morfina per controllare il dolore. - La chiedi in continuazione, - mi disse Alvin. - E ogni volta che la chiedi te la danno. Schiacci un bottone per l’infermiera e quando arriva le dici: «Morfina, morfina», e
poi sei fuori. - Ti faceva molto male all’ospedale? - gli chiesi. - Non è stato divertente, ragazzo mio. - È stato il dolore più forte che tu abbia mai sentito? - Il dolore più forte che io abbia mai sentito - rispose - è stato quando avevo sei anni e mio padre mi chiuse lo sportello della macchina su un dito -. Scoppiò in una risata, e allora risi anch’io. - Mio padre disse... quando mi vide piangere come un disperato, questo stronzetto alto così... mio padre disse: «Smettila di piangere, non serve a niente» -. Ridendo ancora, sommessamente, Alvin disse: - E questo forse è stato peggio del dolore. Ed è l’ultimo ricordo che ho di lui. Lo stesso giorno, più tardi, cadde a terra e morì. Mentre si torceva sul linoleum della cucina, Alvin non aveva nessuno a cui chiedere aiuto, e tantomeno un’iniezione di morfina; tutti erano via, a scuola o al lavoro, e così fu costretto, piano piano, a strisciare attraverso la cucina e il corridoio per andare a letto. Ma proprio mentre si stava preparando a tirarsi su dal pavimento, scoprì la cartella di Sandy. Sandy usava ancora la cartella per conservare i suoi grandi disegni a matita e carboncino tra due fogli di carta lucida e per portarli con sé quando doveva mostrarli a qualcuno. La cartella era troppo grande per poterla tenere nella veranda, e così l’aveva lasciata nella nostra stanza. La semplice curiosità spinse Alvin a estrarre la cartella da sotto il letto, ma poiché in quel momento era incapace di determinarne lo scopo - e poiché in realtà non voleva fare altro che rimettersi sotto le coperte - era pronto a dimenticare tutto quando notò il nastro che teneva insieme le due metà. L’esistenza era inutile, la vita insopportabile, lui pulsava ancora dal dolore per lo stupido incidente davanti all’acquaio della cucina, e così, per l’unico motivo che in quel momento non si sentiva in grado di compiere uno sforzo maggiore, si mise a trafficare con i nastri finché non ebbe sciolto il nodo. Quelli che trovò nella cartella erano i tre ritratti di Charles A. Lindbergh aviatore che Sandy aveva detto ai miei genitori di avere distrutto due anni prima, nonché quelli che aveva disegnato su richiesta della zia Evelyn dopo che Lindbergh era diventato presidente. Io stesso avevo visto quelli nuovi solo quando la zia Evelyn mi aveva portato a New Brunswick a sentire Sandy che teneva il suo discorso di reclutamento per Just Folks nel seminterrato della sinagoga. «Questo mostra il presidente Lindbergh mentre firma la legge per la coscrizione universale, destinata a tenere l’America in pace insegnando ai nostri giovani le arti necessarie per proteggere e difendere la nazione. Questo mostra il presidente al tavolo da disegno di un progettista, mentre aggiunge i suoi suggerimenti aeronautici al disegno dell’ultimo cacciabombardiere americano. Qui mostro il presidente Lindbergh mentre si rilassa alla Casa Bianca col cane della famiglia.» Sul pavimento della camera da letto Alvin esaminò ognuno dei nuovi ritratti di Lindbergh esibiti come preludio al discorso di Sandy a New Brunswick. Poi, dominando l’impulso distruttivo suscitato dall’ammirazione per il talento ampiamente profuso in quei bellissimi ritratti, li rimise tra i fogli di carta lucida e spinse la cartella sotto il letto. Quando riprese a uscire e a girare per il quartiere, Alvin non dovette fare assegnamento soltanto sui disegni di Lindbergh di Sandy per rendersi conto che,
mentre lui attaccava depositi di munizioni in Francia, il successore repubblicano di Roosevelt aveva finito, se non per conquistarsi tutta la fiducia degli ebrei, almeno per diventare tollerabile, per il momento, anche tra quelli dei nostri vicini che avevano cominciato con l’odiarlo appassionatamente come mio padre. Nel suo programma radiofonico della domenica sera Walter Winchell insisteva negli attacchi al presidente, e tutti gli abitanti dell’isolato si sintonizzavano devotamente, sulla sua lunghezza d’onda per prestar fede, mentre ascoltavano, alle sue allarmanti interpretazioni della politica presidenziale, ma poiché dal giorno dell’insediamento nulla di ciò che temevano si era realizzato, i nostri vicini cominciavano lentamente a riporre più fiducia nelle ottimistiche assicurazioni del rabbino Bengelsdorf che nelle cupe profezie di Winchell. E non soltanto i vicini ma i leader ebraici di tutto il paese cominciavano apertamente a riconoscere che Lionel Bengelsdorf di Newark, lungi dall’averli traditi appoggiando Lindy alle elezioni del 1940, era stato tanto preveggente da vedere dove stava andando la nazione, e che la sua nomina alla direzione dell’Ufficio per l’assimilazione americana - e a principale consigliere dell’amministrazione per gli affari ebraici - era la diretta conseguenza del fatto che, come vecchio sostenitore, si era chiaramente guadagnato la fiducia di Lindbergh. Se l’antisemitismo del presidente era stato in qualche modo neutralizzato (o, cosa più notevole, sradicato), gli ebrei erano disposti ad attribuire il miracolo all’influenza del venerabile rabbino che presto sarebbe diventato - altro miracolo - zio, per matrimonio, di Sandy e di me. Un giorno, ai primi di marzo, andai, non invitato, nel vicolo cieco dietro il campo sportivo della scuola dove Alvin aveva cominciato a giocare a dadi e a teresina se faceva abbastanza caldo e non pioveva. Di rado, ormai, era in casa quando io vi tornavo dopo la scuola, e anche se generalmente rincasava verso le cinque e mezzo per la cena, dopo il dessert usciva per recarsi allo spaccio di hotdog a un isolato da casa nostra a vedere i vecchi amici di scuola, alcuni dei quali avevano lavorato nella stazione di servizio della Esso di proprietà di Simkowitz ed erano stati licenziati insieme a lui per aver derubato il principale. Quando lui rientrava per la notte io dormivo, e solo quando si toglieva la gamba e cominciava a saltellare avanti e indietro dal bagno aprivo gli occhi e borbottavo il suo nome prima di ripiombare nel sonno. Sei o sette settimane dopo che si era trasferito nel letto accanto al mio, avevo cessato di essere indispensabile e mi ero trovato di colpo privo del mesmerico surrogato di Sandy che lui era stato per me. Mio fratello era ormai scomparso dal mio fianco per diventare la stella di un firmamento di cui la zia Evelyn era la mente direttiva. Il paria americano mutilato e sofferente che aveva finito per apparirmi più grande di tutti gli altri uomini che avevo conosciuto, compreso mio padre, l’uomo le cui lotte appassionate erano diventate le mie, per l’avvenire del quale mi crucciavo quando in classe avrei dovuto ascoltare l’insegnante, aveva cominciato a fare comunella con gli stessi fannulloni che lo avevano aiutato a diventare un ladruncolo a sedici anni. Ciò che sembrava avere perduto in combattimento, insieme alla gamba, era ogni decorosa abitudine inculcatagli quando era solo un ragazzo affidato alle cure dei miei genitori. Né
mostrava il minimo interesse per la lotta contro il fascismo, lotta alla quale due anni prima nessuno era riuscito a impedirgli di partecipare. Anzi, se ogni sera si precipitava fuori di casa sulla sua gamba artificiale era, almeno all’inizio, in gran parte per non dover sedere in salotto mentre mio padre leggeva ad alta voce le notizie della guerra sul giornale. Non c’era campagna contro le forze dell’Asse per la quale mio padre non soffrisse le pene dell’inferno, soprattutto quando le cose andavano male per l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna, e quando era chiaro con quale urgenza questi paesi avessero bisogno delle armi degli Stati Uniti sottoposte a embargo da Lindbergh e dal Congresso repubblicano. Ormai mio padre sapeva usare molto bene la terminologia di uno stratega militare quando dissertava sulla necessità che inglesi, australiani e olandesi impedissero ai giapponesi i quali, nella loro marcia attraverso l’Asia sudorientale, mostravano tutta la virtuosa crudeltà di un popolo razzialmente superiore - di procedere verso ovest in India e verso sud nella Nuova Zelanda e poi in Australia. Nei primi mesi del 1942 le notizie sulla guerra nel Pacifico che ci leggeva erano uniformemente cattive: ci furono il riuscito attacco giapponese contro la Birmania, la cattura giapponese della Malesia, il bombardamento giapponese della Nuova Guinea e, dopo attacchi devastanti dal mare e dall’aria e la cattura di decine di migliaia di soldati inglesi e olandesi, la caduta di Singapore, del Borneo, di Sumatra e di Giava. Ma ciò che lo preoccupava di più era l’andamento della campagna di Russia. L’anno prima, quando pareva che i tedeschi fossero in procinto di occupare tutte le città principali nella metà occidentale dell’Unione Sovietica (compresa Kiev, dai cui dintorni i miei nonni materni erano emigrati in America nell’ultimo decennio dell’Ottocento), i nomi di città russe ancora più piccole come Petrozavodsk, Novgorod, Dnepropetrovsk e Taganrog mi erano diventati familiari come le capitali dei quarantotto stati americani. Nell’inverno del 1941-42 i russi avevano sferrato i terribili contrattacchi che avevano rotto gli assedi di Leningrado, Mosca e Stalingrado, ma in marzo i tedeschi si erano raggruppati dopo la catastrofe invernale e, come dimostrato dai movimenti di truppe illustrati sul «Newark News», si stavano rafforzando per un’offensiva primaverile destinata alla conquista del Caucaso. Ciò che rendeva così orribile la prospettiva di un crollo della Russia, spiegava mio padre, era che per il mondo esso avrebbe rappresentato l’invincibilità della macchina bellica tedesca. Le grandi risorse naturali dell’Unione Sovietica sarebbero cadute in mano ai tedeschi e la popolazione russa sarebbe stata costretta a servire il Terzo Reich. Peggio di tutto, «per noi», era il fatto che con l’avanzata della Germania verso oriente milioni e milioni di ebrei russi sarebbero finiti sotto il controllo di un esercito occupante incaricato di attuare in ogni modo il messianico programma hitleriano di liberare l’umanità dalle grinfie degli ebrei. Secondo mio padre, il brutale trionfo del militarismo antidemocratico era imminente quasi dappertutto, il massacro degli ebrei russi, compresi i membri della grande famiglia di mia madre, era vicino, e di tutto questo ad Alvin non importava un fico secco. Alvin non voleva più portare il peso di sofferenze che non fossero le sue. Lo trovai piegato sul ginocchio buono della gamba vera, con i dadi in mano e la pila di banconote accanto a lui tenuta ferma da un pezzo frastagliato di cemento. Con
la gamba artificiale tesa davanti a lui, sembrava un russo accovacciato che ballasse una di quelle loro pazze danze slave. C’erano altri sei giocatori stretti intorno a lui, tre ancora in gioco, che stringevano gli avanzi del loro gruzzolo, due che erano rimasti in bolletta e stavano soltanto lì a guardare - nei quali io riconobbi vagamente due ex bocciati di Weequahic ormai sulla ventina - e lo spilungone che incombeva su di lui, il «socio» di Alvin, come risultò, Shushy Margulis, uno scarno ma vigoroso elegantone dal passo leggero, tra i fannulloni che lavoravano con Alvin alla stazione di rifornimento quello che mio padre disprezzava di più. Shushy era conosciuto da noi ragazzi come il Re del Flipper perché uno zio malavitoso di cui si vantava era veramente il re del flipper - e anche di tutte le macchinette illegali mangiasoldi di Philadelphia, dove regnava -, e anche per le ore che passava a fare punti giocando a flipper nei candy store del quartiere, spintonando il bigliardino, maledicendolo, scuotendolo violentemente a destra e a manca finché il gioco non veniva interrotto o dalle luci colorate che lampeggiavano la parola «Tilt» o dal proprietario del negozio che lo cacciava via. Shushy era il comico famoso che divertiva i suoi ammiratori buttando allegramente fiammiferi accesi nella bocca della grossa cassetta postale verde davanti alla scuola, e che un giorno per una scommessa aveva mangiato una mantide religiosa viva, e che, durante la sua breve carriera accademica, amava far fare due risate alla gente davanti allo spaccio di hotdog zoppicando attraverso Chancellor Avenue con una mano alzata per fermare il traffico in arrivo: zoppicando in malo modo, tragicamente, anche se stava benone. Aveva già passato la trentina e viveva ancora con la madre sarta in uno degli appartamentini all’ultimo piano di una casa bifamiliare vicina alla sinagoga di Wainwright Street. Era alla madre di Shushy, da tutti chiamata con grande comprensione «la povera signora Margulis», che mia madre aveva portato i calzoni di Alvin per farvi mettere le cerniere: «povera signora Margulis» non soltanto perché, rimasta vedova, sopravviveva lavorando a cottimo per un salario da fame per un fabbricante di vestiti di Down Neck, ma anche perché quel gagà di suo figlio sembrava non essere mai riuscito a fare un lavoro diverso da quello di galoppino per l’allibratore che accettava le scommesse nella sala bigliardi dietro l’angolo di casa loro, a pochi isolati dall’orfanotrofio cattolico di Lyons Avenue. L’orfanotrofio si trovava all’interno del parco cintato di St Peter, la chiesa parrocchiale che stranamente monopolizzava circa tre isolati proprio nel cuore del nostro irredimibile quartiere. La chiesa stessa era dominata da un’alta torre campanaria e da un campanile ancora più alto coronato da una croce che svettava divinamente sopra i fili del telefono. In tutta la zona non si vedevano altri edifici di quell’altezza fino al posto dov’ero nato io, il Beth Israel Hospital, a quasi un miglio di distanza dalla collina di Lyons Avenue, dov’erano nati anche tutti i ragazzi che conoscevo e dove, all’età di otto giorni, erano stati ritualmente circoncisi. Di fianco alla torre campanaria della chiesa c’erano due campanili più piccini che non mi ero mai curato di esaminare perché si diceva che vi fossero scolpiti nella pietra i volti dei santi cristiani, e perché le alte e strette vetrate della chiesa narravano una storia che non volevo conoscere. Accanto alla chiesa c’era una piccola canonica; come quasi
tutte le altre cose situate entro le nere cancellate di questo mondo estraneo, era stata costruita durante l’ultima parte del secolo precedente, parecchi decenni prima che sorgesse la prima delle nostre case e che il margine occidentale del quartiere di Weequahic diventasse la frontiera ebraica di Newark. Dietro la chiesa c’era la scuola elementare frequentata dagli orfanelli - erano circa un centinaio - e da un numero più piccolo di ragazzi cattolici del posto. Scuola e orfanotrofio erano gestiti da un ordine monacale, suore tedesche, ricordo che mi dissero. I bambini ebrei cresciuti anche in famiglie tolleranti come la mia generalmente attraversavano la strada nelle rare occasioni in cui le vedevamo venire frusciando dalla nostra parte nel loro abbigliamento stregonesco, e una storia che avevo già sentito diceva che quando mio fratello, da bambino, seduto un pomeriggio solo soletto sui gradini dell’ingresso, ne aveva viste un paio avvicinarsi da Chancellor Avenue, aveva gridato concitatamente a mia madre: «Guarda, mamma... Le matte8.» Vicino alla dimora degli orfanelli sorgeva un convento. Erano, ambedue, semplici edifici in muratura, e alla fine di un giorno d’estate a volte si vedevano di sfuggita gli orfanelli - bambini bianchi, maschi e femmine, dai sei ai quattordici anni - seduti fuori sulla scala antincendio. Non ricordo di avere mai visto un gruppo di orfanelli in qualche altro posto, di sicuro non li ho mai visti correre liberamente per le strade come facevamo noi. Una frotta di orfanelli non mi avrebbe sconcertato meno dell’inquietante apparizione delle suore, in primo luogo perché erano degli orfani, ma anche perché si diceva che fossero «abbandonati» e «bisognosi.» Alle spalle dell’orfanotrofio, e diverso da ogni altro visibile nel quartiere - o in ogni altro posto di una città industriale di quasi mezzo milione di abitanti -, c’era un orto di quelli che hanno fatto guadagnare al New Jersey l’appellativo di «Stato giardino» quando le zone rurali ancora poco coltivate dello stato erano costellate di compatti orticelli familiari capaci di dare un piccolo profitto. Gli ortaggi coltivati e raccolti a St Peter servivano a nutrire gli orfanelli, le dodici o tredici suore, il vecchio monsignore responsabile e il prete più giovane che era il suo assistente. Con l’aiuto degli orfanelli, la terra veniva lavorata da un fattore tedesco residente di nome Thimmes, se non ricordo male, e Thimmes era il nome del monsignore di St Peter, che aveva diretto quel posto per anni. Nella nostra scuola elementare pubblica a meno di un miglio di distanza si vociferava che durante le lezioni le suore che istruivano gli orfanelli picchiassero regolarmente i più stupidi di loro sulle mani con un righello di legno; e che quando l’offesa di un ragazzo era così grave da riuscire intollerabile, venisse convocato l’assistente del monsignore per frustare il colpevole sulle natiche con lo stesso staffile usato dal fattore sulla coppia di pesanti cavalli da lavoro dal dorso incurvato che tiravano l’aratro per la messa a dimora primaverile. Questi cavalli li conoscevamo tutti perché di tanto in tanto attraversavano insieme l’orto fino al piccolo prato alberato ai confini meridionali del parco di St Peter e ficcavano la testa, incuriositi,
8
Nut (matto, fuori di testa) per nun (suora) [N. d. T.]
sopra il cancello che dava in Goldsmith Avenue, dove stava svolgendosi la partita a dadi nella quale mi ero imbattuto. Ai bordi del campo sportivo dal lato più vicino di Goldsmith Avenue c’era una rete metallica a maglie larghe alta un paio di metri, e un’altra rete metallica a maglie più piccole inchiodata a una fila di pali alla boschiva estremità dell’orto dal lato più lontano, e poiché nei paraggi non era ancora sorta nemmeno una casa e non c’era mai molto traffico degno di questo nome, né pedonale né automobilistico, la piccola banda di falliti del quartiere poteva contare su un isolamento quasi silvestre per abbandonarsi ai propri piaceri senza finire nei guai. Il momento in cui, prima d’allora, ero andato più vicino a uno di questi sinistri conclavi era stato quando, durante una partita, avevo dovuto inseguire una palla che era rotolata fino alla rete metallica oltre la quale i giocatori formavano un capannello, scambiandosi imprecazioni e serbando le paroline dolci per i dadi. Ora, io non ero un virtuoso nemico del gioco d’azzardo, e avevo pregato Alvin d’insegnarmi a giocare un pomeriggio che lui girava ancora con le stampelle e mia madre mi aveva pregato di accompagnarlo in autobus all’appuntamento dal dentista e di fare cose come mettere i soldi del biglietto nell’apposita cassetta e reggergli le grucce mentre lui saltava giù dalla porta posteriore. Quella sera, quando tutti gli altri erano andati a dormire e noi avevamo spento la lampada sul comodino fra i nostri letti, Alvin mi guardò con un sorriso mentre, alla luce della mia lampadina tascabile, mormoravo: «Dadi belli» e facevo silenziosamente tre sette consecutivi gettandoli sulle lenzuola. Ma ora, mentre lo guardavo, là tra le grinfie di individui che gli erano inferiori, e ricordavo tutti i sacrifici che aveva fatto la mia famiglia per impedirgli di trasformarsi in una copia di Shushy, tutte le oscenità che avevo imparato come suo compagno di stanza si affollarono nella mia mente. Imprecai contro di lui a nome di mio padre, di mia madre e soprattutto del mio ostracizzato fratello: era per questo che tutti noi avevamo accettato di sopportare il deplorevole comportamento di Alvin verso Sandy? Era per questo che era scappato via per andare a combattere? Pensai: «Prendi quella medaglia del cazzo, storpio, e ficcatela in quel posto!» Avesse almeno imparato la lezione perdendo tutti i soldi della pensione d’invalidità, ma in realtà non riusciva a smettere di vincere, non poteva rinunciare al desiderio di essere ancora l’eroe di qualcuno, e avendo già intascato un grosso rotolo di banconote accostò i dadi alle mie labbra e, con una voce roca con cui voleva divertire gli amici, mi ordinò: - Soffiaci su, bello -. Io soffiai, lui tirò e vinse ancora una volta. - Sei e uno... Quanto fa? - chiese. - Sette, - risposi, obbediente, - denaro sudato. Shushy abbassò una mano per scompigliarmi i capelli e prese a chiamarmi la mascotte di Alvin, come se «mascotte» potesse comprendere tutto ciò che avevo deciso di essere per lui da quando Alvin era tornato a casa, come se una parola così vuota e puerile potesse spiegare per quale motivo la medaglia con re Giorgio di Alvin era attaccata alla mia canottiera. Shushy indossava un doppiopetto di gabardine color cioccolato, con i pantaloni larghi ai fianchi e stretti alle caviglie e ampie spalle imbottite e vistosi risvolti, la sua tenuta preferita ogniqualvolta bighellonava per il quartiere schioccando le dita - e, per usare le parole di mia madre, «buttando via» la
propria vita – mentre nel loro appartamentino sotto il tetto sua madre faceva l’orlo a cento vestiti al giorno per arrivare alla fine del mese. Quando incominciò a perdere, Alvin raccolse tutte le sue vincite e ostentatamente si ficcò il rotolo in tasca: l’uomo che dietro la scuola aveva sbancato il casinò. Poi, aggrappandosi alla rete metallica, si rimise in piedi. Sapevo (e non soltanto per il modo tormentato in cui si mise a zoppicare al momento d’incamminarsi) che la sera prima gli era venuta una grossa vescica sul moncherino e che quel giorno non era nella forma migliore. Ma Alvin non voleva più farsi vedere con le stampelle da nessun estraneo alla famiglia, e prima di raggiungere il losco Shushy - e di passare un’altra giornata ripudiando apertamente tutti gli ideali che lo avevano reso invalido ficcava il moncherino nella protesi anche se gli faceva male. - Dannato chi ha fatto questa gamba, - fu tutto ciò che disse per lamentarsi quando venne a mettermi una mano sulla spalla. - Posso andare a casa, adesso? - mormorai. - Sicuro, perché no? - e poi tolse di tasca due biglietti da dieci dollari, quasi la metà della paga settimanale di mio padre, e me li stese sul palmo della mano. Mai prima di allora il denaro mi era sembrato una cosa viva. Invece di tornare indietro attraverso il campo sportivo, per andare a casa feci un giro un po’ più lungo, giù per Goldsmith Avenue fino a Hobson Street per vedere da vicino i cavalli dell’orfanotrofio. Non avevo mai trovato il coraggio di allungare una mano per toccarli, e prima di quel giorno non gli avevo mai rivolto la parola come facevano gli altri bambini, chiamando scherzosamente questi animali coperti di fango che sbavavano una saliva appiccicosa «Omaha» e «Whirlaway», che erano i nomi di due dei più grandi vincitori del Kentucky Derby dei nostri tempi. Mi fermai a rispettosa distanza da dove l’altorilievo di quegli occhi cupi e luccicanti guardava fuori da sopra il recinto dell’orfanotrofio, sorvegliando impassibile tra le lunghe ciglia la terra di nessuno che separava il bastione di St Peter dal quartiere degli ebrei. La catena era sganciata e pendeva dal cancello. Dovevo solo alzare il paletto e aprire il battente, e i cavalli sarebbero stati liberi di galoppare via. La tentazione era enorme: come il mio risentimento. - Maledetto Lindbergh, - dissi ai cavalli, - brutto bastardo fottuto nazista di Lindbergh! - e poi, temendo che i cavalli, se avessi aperto il cancello, invece di correre via avrebbero usato i loro dentoni per trascinarmi dentro l’orfanotrofio, spiccai una corsa lungo la strada e, svoltando in Hobson, passai davanti alla fila di case da quattro famiglie che occupavano un intero isolato e sbucai all’angolo di Chancellor Avenue, dove massaie di mia conoscenza entravano e uscivano dai negozi del droghiere, del panettiere e del macellaio, e ragazzi più grandi che conoscevo di nome giravano in bicicletta, e il figlio del sarto portava sulle spalle un carico di abiti appena stirati da consegnare, e dove canzoni italiane prorompevano nella strada dalla vetrina del ciabattino, con la radio sintonizzata come sempre sulla Wevd - la Evd in onore del perseguitato eroe socialista Eugene V. Debs – e dove ero al riparo da Alvin, Shushy, i cavalli, gli orfanelli, i preti, le suore e la frusta della scuola parrocchiale.
Quando imboccai la salita per tornare a casa, un uomo ben vestito con un completo scuro mi raggiunse e mi affiancò. Era ancora troppo presto perché la gente che lavorava andasse a casa a cena, e questo mi rese immediatamente sospettoso. - Signorino Philip? - s’informò con un largo sorriso. - Lei ascolta mai Gangbusters alla radio, signorino Philip? Su J. Edgar Hoover e l’Fbi? - Sì. - Be’, io lavoro per il signor Hoover. È il mio capo. Sono un agente dell’Fbi. Ecco, - disse, e prese un portafoglio da una tasca interna della giacca e lo aprì per mostrarmi il distintivo. - Se non le spiace, vorrei farle qualche domandina. - Non mi spiace, ma sto andando a casa. Devo andare a casa. Pensai subito ai due biglietti da dieci dollari. Se mi avesse perquisito, se aveva un mandato di perquisizione, non avrebbe trovato tutti quei soldi e dedotto che erano rubati? Non l’avrebbe fatto chiunque? E fino a dieci minuti prima, per una vita intera, ero andato in giro con le tasche vuote, fuori in strada senza un soldo a nome mio! La paghetta di cinque cent la settimana la mettevo in un vaso da marmellata con una fessura nel coperchio che Sandy aveva praticato con la lama del suo coltello da boy scout. Adesso andavo in giro come un rapinatore di banche. - Non abbia paura. Si calmi, signorino Philip. Ha sentito Gangbusters. Noi siamo dalla sua parte. La proteggiamo. Voglio farle solo qualche domanda su suo cugino Alvin. Come sta? - Sta bene. - Come va la gamba? - Bene. - Cammina bene? - Sì. - Non era lui quello che ho visto nel posto da dove lei è appena arrivato? Non era Alvin quello dietro il campo sportivo? Sul marciapiede, non era Alvin quello con Shushy Margulis? Non risposi, e allora lui disse: - È tutto a posto, se giocano a dadi. Non è un reato. È solo una delle attività dei grandi. Chissà quanto avrà giocato a dadi, Alvin, in quell’ospedale militare di Montreal. E poiché continuavo a tacere, mi chiese: - Di cosa parlavano quei ragazzi? - Di niente. - Sono stati là per tutto il pomeriggio, e non parlavano di niente? - Si lamentavano dei soldi che perdevano. - Nient’altro? Nulla sul presidente? Lei sa chi è il presidente, no? - Charles A. Lindbergh. - Nulla sul presidente Lindbergh, signorino Philip? - No, ch’io sappia, - risposi con sincerità. Ma non poteva aver udito me mentre dicevo quello che avevo detto ai cavalli? Impossibile... Eppure ormai ero certo che quell’uomo conosceva ogni movimento che avevo fatto da quando Alvin era tornato dalla guerra e mi aveva dato la sua medaglia.
Era incontestabile che sapeva che portavo la medaglia. Altrimenti, perché mi guardava con tanta attenzione? - Hanno parlato del Canada? - chiese. - Di andare in Canada? - Nossignore. - Chiamami Don, perché no? E io ti chiamerò Phil. Tu sai cos’è un fascista, vero, Phil? - Credo di sì. - Hanno dato del fascista a qualcuno, che tu sappia? - No. - Non essere precipitoso. Aspetta a rispondere. Mettici tutto il tempo che ci vuole. Cerca di ricordare. È importante. Hanno dato del fascista a qualcuno? Hanno detto qualcosa su Hitler? Tu sai chi è Hitler. - Lo sanno tutti. - È un uomo cattivo, no? - Sì, - dissi io. - È contro gli ebrei, no? -Sì. - E oltre a lui chi è contro gli ebrei? - Il Bund. - Qualcun altro? - chiese lui. La sapevo abbastanza lunga per non parlare di Henry Ford, America First, dei democratici del Sud o dei repubblicani isolazionisti, e tantomeno di Lindbergh. Negli ultimi anni, la lista che sentivo a casa di illustri americani che odiavano gli ebrei era molto più lunga di questa, e poi c’erano le persone comuni, decine di migliaia, forse milioni di americani, come i bevitori di birra accanto ai quali non volevamo stare a Union e il proprietario dell’albergo di Washington e il baffuto avventore che ci aveva insultato al self-service vicino alla Union Station. «Non parlare», mi dissi, come se un ragazzo ben protetto di nove anni facesse parte di un giro di criminali e avesse qualcosa da nascondere. Ma dovevo avere già cominciato a considerarmi un piccolo criminale perché ero ebreo. - E chi altro? - ripeté lui. - Il signor Hoover vuole saperlo. Vuota il sacco, Phil. - L’ho fatto, - insistetti io. - Tua zia Evelyn come sta? - Bene. - Si sposa. Non è vero che si sposa? Puoi rispondere almeno a questo. - Sì. - E sai chi sposa? - Sì. - Sei un ragazzo intelligente. Io credo che tu sappia altre cose, molte altre cose. Ma sei troppo intelligente per dirmele, no? - Sposa il rabbino Bengelsdorf, - dissi io. - Il capo dell’Uaa.
Le mie parole lo fecero ridere. - Okay, - mi disse, - va’ pure a casa. Va’ a casa a mangiare il tuo matzoh9. È questo che ti rende tanto intelligente? Mangiare il matzoh? Ormai eravamo all’angolo tra Chancellor e Summit, e in fondo all’isolato si vedeva la veranda della nostra casa. - Arrivederci! - gridai, e non attesi che il semaforo cambiasse colore ma corsi a casa prima di cadere nella sua trappola, se non c’ero già caduto. C’erano tre macchine della polizia ferme sulla strada davanti alla nostra casa, il vialetto era bloccato da un’ambulanza e un paio di agenti parlavano tra loro sui gradini mentre un altro era appostato di fianco alla porta sul retro. Le donne dell’isolato, quasi tutte ancora col grembiule, erano uscite dalle loro case e cercavano di capire cosa stava succedendo, e tutti i bambini si erano raccolti davanti alla nostra casa, sull’altro marciapiede, e guardavano i poliziotti e l’ambulanza da dietro la fila di macchine parcheggiate. Non ricordavo di averli mai visti così silenziosi, e con un’aria così apprensiva. Il nostro vicino del piano di sotto era morto. Il signor Wishnow si era suicidato. Ecco perché tutto quello che non avrei mai potuto aspettarmi di vedere era adesso davanti alla porta della nostra casa. Benché pesasse appena quaranta chili, era riuscito a strangolarsi passando le corde delle tende del soggiorno sopra la sbarra di legno nell’armadio a muro in fondo al corridoio, poi girandosele intorno al collo e cadendo in avanti dall’orlo della sedia della cucina su cui si era seduto dentro l’armadio. Quando Seldon, tornato da scuola, era andato a mettere via la giacca, aveva trovato suo padre, in pigiama, appeso a faccia in giù nell’armadio tra gli stivali di gomma e le galosce della famiglia. Il mio primo pensiero nell’apprendere la notizia fu che non dovevo più temere di sentire un accesso di tosse del moribondo al pianterreno ogni volta che ero solo in cantina, né di udirlo dal mio letto al piano di sopra quando cercavo di prendere sonno. Ma poi mi resi conto che lo spettro del signor Wishnow ora si sarebbe unito alla cerchia di spettri che già infestavano la cantina e che, proprio perché io mi sentivo sollevato dalla sua morte, il signor Wishnow avrebbe fatto di tutto per ossessionarmi fino alla fine dei miei giorni. Non sapendo che altro fare, in un primo momento mi inginocchiai di fianco alle macchine parcheggiate, nascondendomi là con gli altri bambini. Nessuno di loro aveva un’idea più chiara della mia del cataclisma che si era abbattuto sui Wishnow, ma fu dai loro mormorii che arrivai a capire, collegando un pezzo all’altro, come il signor Wishnow era morto e come lo avevano trovato, e sempre da loro venni a sapere che Seldon e sua madre erano dentro con uno dei poliziotti e gli infermieri. E col cadavere. Era il cadavere che tutti i ragazzi aspettavano di vedere. Non volendo finire per trovarmi nel corridoio di dietro proprio mentre portavano il signor Wishnow giù per le scale, aspettai con loro. Non volevo neanche arrivare a casa e dover aspettare tutto solo fino al ritorno di mia madre, di mio padre o di Sandy. Quanto ad Alvin, non volevo più vederlo, e speravo che nessuno mi facesse più domande su di lui. 9
Pane azzimo [N. d. T.]
La donna che uscì dalla casa insieme agli infermieri non era la signora Wishnow ma mia madre. Non riuscii a capire perché fosse tornata dal lavoro finché nella mia mente non si fece strada l’idea che il padre morto che portavano via fosse il mio. Sì, certo: quello che si era suicidato era mio padre. Non ne poteva più di Lindbergh, e di quello che Lindbergh permetteva ai nazisti di fare agli ebrei russi, e di quello che Lindbergh aveva fatto alla nostra famiglia proprio lì, e così a impiccarsi era stato lui... Nel nostro armadio. Allora non avevo centinaia di cose che me lo ricordassero, ne avevo solo una, e non mi sembrava abbastanza importante per essere il ricordo che avrei dovuto avere. L’ultimo ricordo che Alvin aveva di suo padre era di lui che chiudeva lo sportello della macchina sul dito del suo bambino; il mio era di mio padre che salutava l’uomo ridotto a un moncherino che ogni giorno chiedeva l’elemosina davanti al suo ufficio. «Come te la passi, Little Robert?» diceva mio padre, e quell’uomo ridotto a un moncherino rispondeva: «E tu, Herman?» Fu a questo punto che m’insinuai tra le macchine strettamente parcheggiate e attraversai la strada di corsa. Quando vidi che il lenzuolo che copriva il corpo e la faccia di mio padre non poteva assolutamente permettergli di respirare, cominciai a piagnucolare. - No, no, tesoro, - disse mia madre. - Non c’è da avere paura -. Mi mise le braccia intorno alla testa, mi tirò a sé e ripeté: - Non c’è da avere paura. Era ammalato e soffriva ed è morto. Ora non soffre più. - Era nell’armadio, - dissi. - No, non è vero. Era nel suo letto. È morto nel suo letto. Era molto, molto malato. Lo sapevi. Ecco perché tossiva in continuazione. A questo punto le portiere dell’ambulanza furono aperte per accogliere la lettiga. Gli infermieri la introdussero con cura all’interno e si chiusero le porte alle spalle. Mia madre rimase sulla strada accanto a me, tenendo la mia mano tra le sue e con un’aria così composta che mi stupì. Solo quando feci l’atto di strapparmi da lei e di correre dietro l’ambulanza, solo quando gridai: «Non può respirare!» finalmente si rese conto di quello che mi tormentava. - È il signor Wishnow... È il signor Wishnow che è morto -. Mi scosse, mi scosse dolcemente avanti e indietro per farmi tornare in me. - È il padre di Seldon, tesoro... È morto oggi pomeriggio della sua malattia. Non sapevo se mentiva per impedirmi di diventare più isterico o se stava dicendo la meravigliosa verità. - L’ha trovato Seldon nell’armadio? - No. Te l’ho detto... No. Seldon ha trovato suo padre a letto. La madre di Seldon non era in casa e allora lui ha chiamato la polizia. Io sono venuta perché la signora Wishnow mi ha telefonato al grande magazzino e mi ha chiesto di aiutarla. Capisci? Papà è al lavoro. Papà sta lavorando. Oh, cosa diavolo hai creduto? Prestissimo papà sarà a casa per la cena. E anche Sandy. Non c’è da avere paura. Presto saranno tutti a casa, stanno tutti tornando a casa, mangeremo una bella cenetta, - disse in tono rassicurante, - e tutto andrà bene.
Ma non era vero, non c’era niente che andasse «bene» - L’agente dell’Fbi che mi aveva torchiato su Alvin in Chancellor Avenue prima era passato al reparto abbigliamento femminile di Hahne per interrogare mia madre, poi all’ufficio della Metropolitan di Newark per interrogare mio padre e, subito dopo che Sandy aveva lasciato l’ufficio della zia Evelyn per tornare a casa, era salito sull’autobus di mio fratello e, dal posto di fianco al suo, aveva condotto un altro interrogatorio. Alvin non era a cena per sentire tutto questo: nel preciso momento in cui ci stavamo sedendo per mangiare telefonò e disse a mia madre di non mettergli da parte nulla. A quanto pareva, ogni volta che vinceva una grossa somma a poker o ai dadi Alvin invitava Shushy in centro, all’Hickory Grill, per offrirgli una bella bistecca alla griglia. Mio padre chiamava Shushy «il complice di Alvin.» Di Alvin, quella sera, disse che era ingrato, stupido, sconsiderato, ignorante e incorreggibile. - È inasprito, - disse mia madre tristemente, - inasprito dalla storia della gamba. - Be’, io mi sono stufato della sua gamba, - disse mio padre. - È andato in guerra. Chi ce l’ha mandato? Io no. Tu no. Abe Steinheim nemmeno. Abe Steinheim voleva mandarlo all’università. È andato in guerra di sua iniziativa, ed è fortunato a non averci lasciato la pelle. È fortunato ad averci rimesso solo una gamba. Basta, Bess. Io ne ho abbastanza di quel ragazzo. L’Fbi interroga i miei figli? È già abbastanza brutto che tormentino te e me... e nel mio ufficio, bada, davanti al Boss! No, - le disse. Questo deve cessare, e cessare immediatamente. Questa è una casa privata. La nostra è una famiglia. Lui è a cena in centro con Shushy? Vada a vivere con Shushy. - Se almeno andasse a scuola, - disse mia madre. - Se almeno accettasse un lavoro. - Un lavoro ce l’ha, - rispose mio padre. - Fa il barbone. Finito di cenare, mia madre preparò qualcosa per Seldon e la signora Wishnow e mio padre l’aiutò a portare da mangiare al piano di sotto mentre Sandy e io ci occupavamo dei Piatti sporchi. Ci mettemmo al lavoro davanti all’acquaio come facevamo quasi tutte le sere, senonché io non riuscivo a stare zitto. Gli raccontai dei dadi. Gli dissi dell’agente dell’Fbi. Gli parlai del signor Wishnow. - Non è morto nel suo letto, - dissi. - La mamma non ci sta dicendo la verità. Si è suicidato, solo che lei non vuole dirlo. Seldon l’ha trovato nell’armadio quando è tornato a casa da scuola. Si è impiccato. Ecco perché è venuta la polizia. - Ha cambiato colore? - mi chiese mio fratello. - L’ho visto solo sotto il lenzuolo. Forse era il colore... Non so. Non voglio sapere. Era già abbastanza brutto quando scuotevano la barella, che lo vedevi muoversi -. Che in un primo tempo io avessi creduto che sotto il lenzuolo ci fosse mio padre non lo dissi ad alta voce per paura che se lo dicevo risultasse vero. Il fatto che mio padre era vivo, vividamente vivo, arrabbiato con Alvin e deciso a buttarlo fuori di casa, non ebbe alcun impatto sul mio ragionamento. - Come lo sai che era nell’armadio? - chiese Sandy. - È quello che dicevano tutti i ragazzi.
- E tu ci credi? - A causa della sua fama, stava diventando un ragazzo molto duro la cui formidabile fiducia in se stesso, quando parlava di me o dei miei amici, ormai somigliava sempre più a un’arroganza da gran signore. - Be’, perché c’era tutta quella polizia? Solo perché è morto? La gente non fa che morire, - dissi, cercando però di non crederci. - Si è ucciso. Vi è stato costretto. - E uccidersi è contro la legge? - mi chiese mio fratello. – Cosa faranno, lo metteranno in galera perché si è ucciso? Non lo sapevo. Non sapevo più cos’era la legge e perciò non sapevo cosa poteva o non poteva essere contro la legge. Sembravo ignorare se il mio stesso padre - che era appena sceso con mia madre - era proprio vivo o fingeva di essere vivo o viaggiava, morto, a bordo di quell’ambulanza. Non sapevo niente. Non sapevo perché ora Alvin era cattivo anziché buono. Non sapevo se avevo sognato che un agente dell’Fbi mi aveva interrogato in Chancellor Avenue. Doveva essere un sogno e tuttavia non poteva esserlo se tutti gli altri dicevano di essere stati interrogati anche loro. A meno che il sogno non fosse proprio questo. Mi girava la testa e credevo di svenire. Non avevo mai visto prima qualcuno svenire, se non al cinema, e personalmente non ero mai svenuto. Non avevo mai guardato la mia casa da un nascondiglio sull’altro marciapiede, desiderando che fosse la casa di un altro. Non avevo mai avuto venti dollari in tasca. Non avevo mai conosciuto nessuno che avesse visto suo padre impiccato in un armadio. Non avevo mai dovuto diventare grande così in fretta. Mai prima di allora: il ritornello del 1942. - Meglio che chiami la mamma, - dissi a mio fratello. - Chiamala... Dille di venire subito a casa! - Ma prima che Sandy potesse arrivare alla porta di dietro per correre giù dai Wishnow, stavo già vomitando nello strofinaccio che avevo ancora in mano, e quando caddi a terra fu perché la gamba mi era stata strappata da un’esplosione e il mio sangue era schizzato dappertutto. Per sei giorni rimasi a letto con la febbre alta, così debole e smorto che il medico di famiglia veniva tutte le sere a controllare l’andamento della malattia, quella malattia infantile, tutt’altro che rara, che si chiama: perché-le-cose-nonpossono-più-esserecome-una-volta? Il giorno dopo per me era domenica. Era il tardo pomeriggio, e lo zio Monty era venuto a trovarci. C’era anche Alvin, e da ciò che potevo sentire dal mio letto di quello che dicevano in cucina, nessuno lo aveva più visto da quando, venerdì, il signor Wishnow si era suicidato e lui aveva smesso di giocare a dadi e se n’era andato col suo rotolo di banconote da cinque, dieci e venti dollari. Ma dall’ora di cena di venerdì anch’io ero stato via, via con i cavalli e i loro zoccoli, colpito da caleidoscopiche allucinazioni dei cavalli da lavoro dell’orfanotrofio che mi inseguivano fino ai confini della terra. E ora di nuovo lo zio Monty, lo zio Monty che attacca Alvin, e con parole che non potevo credere venissero pronunciate in casa nostra alla presenza di nostra madre. Ma lo zio Monty sapeva piegare Alvin con sistemi ai quali mio padre era semplicemente incapace di ricorrere.
Verso sera, quando tutte quelle urla erano cessate trasformandosi in lamentazioni per il povero zio Jack e la voce tonante di Monty era diventata rauca, Alvin accettò il lavoro al mercato ortofrutticolo che aveva rifiutato di prendere in considerazione quando Monty glielo aveva offerto la prima volta. Accasciato com’era dalla sua mutilazione la mattina del suo arrivo alla Penn Station con quella grossa infermiera canadese, sfiancato dalla sconfitta come quando, dalla sedia a rotelle, non osava guardare negli occhi nessuno di noi, Alvin acconsentì a sciogliere la sua società con Shushy e a rinunciare al gioco d’azzardo nelle strade del quartiere. Stupì tutti i presenti, lui che odiava la sottomissione non meno del pianto, scoppiando in lacrime di pentimento e chiedendo perdono e accettando di smettere di essere un bruto con mio fratello, un ingrato con i miei genitori e una cattiva influenza su di me, e di trattarci con l’apprezzamento che ci era dovuto. Lo zio Monty avvertì Alvin che se non avesse mantenuto le promesse e avesse invece continuato a sabotare la famiglia di Herman, i Roth avrebbero chiuso con lui per sempre. Anche se parve mettercela tutta per sbrigare nel modo migliore l’umile sgobbo che era il suo primo lavoro, Alvin al mercato non durò abbastanza per alzarsi di un gradino dal livello dei fattorini e degli uomini delle pulizie. Un giorno, quando era là da poco più di una settimana, l’Fbi venne a chiedere informazioni sul suo conto, lo stesso agente con le stesse domande minacciosamente innocue che aveva fatto ai miei familiari e a me, solo dando a intendere ora agli altri commercianti che Alvin era per sua stessa ammissione un traditore che complottava con altri antiamericani malcontenti come lui per assassinare il presidente Lindbergh. Le accuse erano ridicole, e tuttavia, mansueto come Alvin era stato per tutta quella settimana mansueto come aveva giurato e spergiurato di restare -, venne licenziato su due piedi, e mentre se ne andava uno dei gorilla che spadroneggiavano al mercato gli ordinò di non farsi più vedere da quelle parti. Quando mio padre telefonò a suo fratello chiedendo di sapere cos’era successo, Monty rispose di non avere altra scelta: aveva ricevuto l’ordine di sbarazzarsi del nipote dai ragazzi di Longy. Longy Zwillman di Newark, che come mio padre e i suoi fratelli era un figlio di immigrati cresciuto nei vecchi quartieri poveri ebraici, allora capeggiava la malavita organizzata del New Jersey, spietato monarca di ogni attività dalle scommesse clandestine e dal crumiraggio ai servizi di carico e trasporto imposti ai commercianti come Belmont Roth. Poiché l’ultima cosa che Longy voleva erano degli agenti federali ficcanaso, Alvin perse il posto, se ne andò da casa nostra e lasciò la città in meno di ventiquattr’ore, questa volta non per attraversare il confine internazionale verso Montreal e i commando canadesi, ma il fiume Delaware e, raggiungendo Philadelphia, trovare lavoro dallo zio di Shushy, il re delle macchinette mangiasoldi, un gangster che evidentemente era più tollerante con i traditori della sua impareggiabile controparte nel North Jersey. Nella primavera del 1942, per celebrare il successo dell’Intesa d’Islanda, un ricevimento ufficiale fu organizzato alla Casa Bianca dal presidente e dalla signora Lindbergh in onore del ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, che era noto per aver presentato Lindbergh ai suoi colleghi nazisti come il candidato presidenziale
americano ideale della Germania molto tempo prima che il Partito repubblicano lo arruolasse durante la sua convention del 1940. Von Ribbentrop era il negoziatore seduto a fianco di Hitler nel corso dei meeting islandesi e fu il primo leader nazista a essere invitato in America da un funzionario o un ente governativo da quando i fascisti erano andati al potere quasi dieci anni prima. L’annuncio della cena in onore di Von Ribbentrop era stato appena reso pubblico quando forti critiche furono espresse dalla stampa progressista, e comizi e dimostrazioni furono inscenati in tutto il paese per protestare contro la decisione della Casa Bianca. Per la prima volta da quando aveva lasciato la carica, l’ex presidente Roosevelt uscì dal suo isolamento per rivolgere un breve discorso alla nazione da Hyde Parie esortando il presidente Lindbergh ad annullare l’invito «nell’interesse di tutti gli americani che amano la libertà, e in particolare delle decine di milioni di americani di origine europea i cui paesi ancestrali sono costretti a vivere sotto il giogo soffocante dei nazisti.» Roosevelt venne subito attaccato dal vicepresidente Wheeler per avere «giocato alla politica» mettendo in discussione la condotta degli affari esteri di un presidente in carica. Non era soltanto cinico, disse il vicepresidente, ma totalmente irresponsabile da parte sua difendere le stesse scelte pericolose che avevano quasi trascinato l’America in una sanguinosa guerra europea mentre i democratici del New Deal governavano il paese. Wheeler era lui stesso un democratico, un ex senatore del Montana reduce da tre mandati e il primo e unico membro del partito all’opposizione scelto per essere messo in lista con un candidato presidenziale da quando Lincoln optò per Andrew Johnson come candidato alla vicepresidenza per il secondo mandato nel 1864. All’inizio della sua carriera politica Wheeler era stato così a sinistra da essere la voce dei leader sindacali radicali di Butte, il nemico dell’Anaconda Copper la società mineraria che amministrava il Montana più o meno come una delle sue filiali - e, come antico sostenitore di FDR, era stato proposto come suo candidato vicepresidenziale nel 1932. Si era staccato per la prima volta dal Partito democratico nel 1924 per unirsi al senatore riformista del Wisconsin Robert La Follette nel ticket presidenziale del Partito progressista appoggiato dai sindacati, e poi, dopo aver abbandonato La Follette e i suoi sostenitori della sinistra americana non comunista, si era unito a Lindbergh e alla destra isolazionista per aiutarli a fondare America First, attaccando Roosevelt con dichiarazioni contro la guerra così estreme da spingere il presidente a definire le sue critiche «la cosa più falsa... più vile e antipatriottica... che sia mai stata detta nella vita pubblica nel corso della mia generazione.» Wheeler era stato scelto dai repubblicani come candidato alla vicepresidenza di Lindbergh un po’ perché nell’ultima parte degli anni Trenta la sua macchina politica del Montana aveva contribuito a eleggere al Congresso i repubblicani, ma principalmente per convincere il popolo americano della forza di un sostegno bipartisan all’isolazionismo e per avere in lista un candidato combattivo e diverso da Lindbergh. Il suo compito doveva essere quello di attaccare e vilipendere il proprio partito a ogni pie sospinto, come fece nella conferenza stampa dall’ufficio del vicepresidente quando predisse che, se la sconsiderata retorica «bellicista» del messaggio di Roosevelt da Hyde Park era un indice della campagna che intendevano intraprendere alle prossime elezioni, i
democratici avrebbero subito perdite congressuali ancora più grandi di quelle provocate dalla schiacciante vittoria elettorale repubblicana del 1940. Il weekend successivo, il Bund Tedesco-Americano riempì il Madison Square Garden al limite della sua capacità con una folla di circa venticinquemila persone che erano accorse per appoggiare l’invito del presidente Lindbergh al ministro degli Esteri tedesco e attaccare i democratici per questi nuovi discorsi «guerrafondai.» Durante il secondo mandato di Roosevelt, l’Fbi e le commissioni parlamentari che indagavano sulle attività del Bund avevano paralizzato l’organizzazione, indicandola come una facciata del nazismo e denunciando penalmente all’autorità giudiziaria i leader al vertice. Ma sotto Lindbergh gli sforzi del governo per intimidire o perseguire i membri del Bund cessarono, ed essi poterono recuperare le forze identificandosi non soltanto come patrioti americani di origine tedesca contrari all’intervento in guerre straniere, ma anche come irriducibili nemici dell’Unione Sovietica. Il profondo cameratismo fascista che univa il Bund adesso veniva mascherato da clamorose denunce patriottiche del pericolo di una rivoluzione comunista mondiale. Come organizzazione anticomunista piuttosto che filonazista, il Bund era antisemita come prima, paragonando apertamente il bolscevismo all’ebraismo negli opuscoli di propaganda e battendo sul tasto del gran numero di ebrei «a favore della guerra» - come il ministro del Tesoro Morgenthau e il finanziere Bernard Baruch, che erano stati tra i consiglieri di Roosevelt - e, naturalmente, mantenendosi fedele ai propositi enunciati nella sua dichiarazione ufficiale del 1936, quando si era organizzato per la prima volta: «combattere la follia della minaccia mondiale rossa orchestrata da Mosca e i suoi ebrei portatori del bacillo», e promuovere degli «Stati Uniti liberi e governati da gentili.» Spariti, tuttavia, dalla manifestazione al Madison Square Garden del 1942 erano i vessilli nazisti, i bracciali con la svastica, il saluto hitleriano a braccio teso, le uniformi delle sa e il gigantesco ritratto del Fùhrer esposto alla prima manifestazione, il 20 febbraio 1939, un evento promosso dal Bund sotto questa etichetta: «Esercitazioni per il compleanno di George Washington.» Spariti erano tutti i cartelloni che proclamavano «Svegliati America - Schiaccia gli Ebrei Comunisti!» e gli accenni degli oratori a Franklin D. Roosevelt come «Franklin D. Rosenfeld» e i grossi bottoni bianchi con le scritte nere che erano stati distribuiti ai membri del Bund perché se li mettessero all’occhiello, bottoni che dicevano: TIENI L’AMERICA FUORI DALLA GUERRA DEGLI EBREI. Intanto Walter Winchell continuava a chiamare i bundisti «banditi» e Dorothy Thompson, l’illustre giornalista e moglie del romanziere Sinclair Lewis, che era stata espulsa dalla manifestazione del Bund del 1939 per aver esercitato quello che lei chiamava il suo «diritto costituzionale di burlarsi di ridicole dichiarazioni fatte in pubblico», continuava a denunciare la sua propaganda nello stesso spirito che aveva mostrato tre anni prima quando era uscita dalla sala gridando: «Balle, balle, balle! Il Mein Kampf, parola per parola!» E nel suo programma della domenica sera seguito alla manifestazione del Bund «Winchell sostenne, con la solita baldanza, che la crescente ostilità verso il ricevimento ufficiale in onore di Von Ribbentrop segnava la
fine della luna di miele dell’America con Charles A. Lindbergh. «La corbelleria presidenziale del secolo, - la chiamava Winchell, - la corbelleria delle corbellerie per la quale i reazionari tirapiedi repubblicani del nostro presidente filofascista pagheranno con la vita politica alle elezioni di novembre.» La Casa Bianca, abituata a una quasi universale deificazione di Lindbergh, sembrava in imbarazzo davanti alla forte disapprovazione che l’opposizione riusciva così rapidamente a suscitare contro di lui, e anche se l’amministrazione cercò di prendere le distanze dalla manifestazione newyorkese del Bund, i democratici - decisi ad associare Lindbergh con l’ignominiosa reputazione dell’organizzazione - tennero al Madison Square Garden una loro manifestazione. Un oratore dopo l’altro denunciarono aspramente «i bundisti am Lindbergh», finché con gioia e sbalordimento di tutti sul palco fece la sua comparsa FDR in persona. L’ovazione di dieci minuti suscitata dalla sua presenza sarebbe durata anche di più se l’ex presidente non avesse gridato energicamente, per vincere il frastuono: «Americani, miei concittadini... Ho un messaggio per il signor Lindbergh e il signor Hitler. Il momento mi costringe a dichiarare con un candore che essi non possono fraintendere che siamo noi, e non loro, i padroni del destino dell’America», parole così drammatiche e commoventi che ogni essere umano in quella folla (e nel soggiorno di casa nostra e negli altri soggiorni delle case di tutta la nostra via) fu travolto dalla gioiosa illusione che la redenzione del paese fosse a portata di mano. «L’unica cosa che abbiamo da temere - disse FDR ai suoi ascoltatori, ricordando le otto parole iniziali della frase più celebre che fosse mai stata pronunciata a un insediamento - è l’ossequiosa acquiescenza di Charles A. Lindbergh ai suoi amici nazisti, l’inverecondo corteggiamento da parte del presidente della più grande democrazia della terra di un despota responsabile di innumerevoli imprese criminali e atti di ferocia, un crudele e barbaro tiranno che non ha rivali nella storia dei misfatti dell’uomo. Ma noi americani non accetteremo un’America dominata da Hitler. Noi americani non accetteremo un mondo dominato da Hitler. Oggi il mondo intero si divide tra schiavitù dell’uomo e libertà dell’uomo. Noi... scegliamo... la libertà! Noi accettiamo solo un’America consacrata alla libertà! Se qui in patria c’è un complotto ordito da forze antidemocratiche che caldeggiano il progetto di un Quisling per un’America fascista, o da nazioni estere avide di potere e supremazia - un complotto per sopprimere la grande impennata della libertà umana di cui il Bill of Rights americano è il documento fondamentale, un complotto per rimpiazzare la democrazia americana con l’autorità assoluta di un governo dispotico come quello che schiavizza i popoli conquistati d’Europa -, quanti oserebbero cospirare segretamente contro la nostra libertà si rendano conto che gli americani non rinunceranno, davanti a qualunque minaccia e qualunque pericolo, alle garanzie di libertà formulate per noi dai nostri avi nella costituzione degli Stati Uniti.» La risposta di Lindbergh arrivò dopo qualche giorno: il Presidente indossò la sua tenuta di volo da Aquila Solitaria e una mattina di buon’ora decollò da Washington a bordo del suo bimotore Lockheed Interceptor per avere un incontro faccia a faccia con gli americani e assicurare loro che ogni decisione che prendeva era destinata solo
ad aumentare la loro sicurezza e a garantire il loro benessere. Era quello che faceva ogni volta che la minima crisi spuntava all’orizzonte: volava nelle città di tutte le regioni del paese, questa volta anche quattro o cinque al giorno grazie alla velocità fenomenale dell’Interceptor, e ovunque l’aeroplano si posasse lo aspettava una foresta di microfoni, nonché i pezzi grossi locali, i cronisti delle agenzie, i reporter dei giornali e le migliaia di cittadini che si erano radunati per vedere il loro giovane presidente con la sua famosa giacca a vento e il caschetto di pelle da aviatore. E ogni volta che atterrava metteva bene in chiaro che volava attraverso il paese senza scorta, senza essere protetto né dal servizio segreto né dall’aviazione. Ecco quanto, secondo lui, erano sicuri i cieli americani; ecco quanto era sicuro il paese ora che la sua amministrazione, in poco più di un anno, aveva fugato ogni minaccia di guerra. Lindbergh ricordava ai suoi ascoltatori che non un solo ragazzo americano aveva rischiato la vita da quando lui era entrato in carica, e che non l’avrebbe rischiata finché in carica fosse rimasto. Gli americani avevano avuto fiducia nella sua leadership, e tutte le promesse che lui aveva fatto le aveva mantenute. Quello che diceva, o aveva da dire, era tutto qui. Non fece mai il nome né di Von Ribbentrop né di FDR e non accennò mai né al Bund Tedesco-Americano né all’Intesa d’Islanda. Non disse nulla a favore dei nazisti, nulla che rivelasse un’affinità con il loro capo e i suoi obiettivi, nemmeno per notare con soddisfazione che l’esercito tedesco si era ripreso dalle perdite invernali e che lungo tutto il fronte russo i comunisti sovietici venivano respinti sempre più a est verso la loro ultima sconfitta. Ma in America tutti sapevano che era un’incrollabile convinzione del presidente, come pure dell’ala destra prevalente nel suo partito, che la miglior difesa contro l’espandersi del comunismo attraverso l’Europa, in Asia e nel Medio Oriente, e fino al nostro emisfero, era la totale distruzione dell’Unione Sovietica di Stalin da parte della potenza militare del Terzo Reich. Nel suo modo dimesso, taciturno e convincente Lindbergh diceva alle folle negli aeroporti e agli ascoltatori della radio chi era e cos’aveva fatto, e quando risaliva sull’aereo per decollare per la tappa successiva, avrebbe potuto annunciare che dopo la cena alla Casa Bianca in onore di Von Ribbentrop la First Lady avrebbe invitato Adolf Hitler e la sua fidanzata a passare il weekend del Quattro Luglio come ospiti per quella vacanza nella camera da letto di Lincoln alla Casa Bianca, e sarebbe stato ancora applaudito dai suoi concittadini come il salvatore della democrazia. Un amico d’infanzia di mio padre, Shepsie Tirschwell, era stato uno dei tanti proiezionisti-montatori del Newsreel Theater di Broad Street dalla sua apertura nel 1935 come l’unico cinematografo cittadino dedicato esclusivamente alle notizie di attualità. Il filmato di un’ora del Newsreel comprendeva cinegiornali, cortometraggi e The March of Time10, e veniva proiettato tutti i giorni dalla mattina presto fino a mezzanotte. Ogni giovedì, dalle centinaia di metri di cinegiornali forniti da società come la Pathé e la Paramount, il signor Tirschwell e gli altri tre montatori ricavavano una 10
La Marcia del Tempo [N. d. T.]
serie di storie e le mettevano insieme in uno show aggiornatissimo in modo tale che i regolari clienti come mio padre - il cui ufficio in Clinton Street era solo a qualche isolato di distanza - potessero stare al passo con le notizie nazionali, gli importanti avvenimenti mondiali e i momenti più emozionanti degli incontri sportivi di campionato che, nell’era della radio, si potevano vedere su uno schermo solo in un cinematografo. Mio padre cercava di trovare un’ora ogni settimana per vedere uno spettacolo completo, e quando ci riusciva raccontava durante la cena cos’aveva visto e chi. Tojo. Pétain. Batista. De Valera. Arias. Quezon. Camacho. Litvinov. Zukov. Hull. Welles. Harriman. Dies. Heydrich. Blum. Quisling. Gandhi. Rommel. Mountbatten. Re Giorgio. La Guardia. Franco. Papa Pio. E questa non era che Una lista abbreviata del formidabile cast di personaggi dei cinegiornali protagonisti di avvenimenti che - diceva mio padre – un giorno avremmo ricordato come storia degna di essere trasmessa ai nostri figli. - Perché cos’è la storia? - chiedeva retoricamente quando era in vena, espansivo e didattico come spesso gli capitava di essere a cena. La storia è tutto ciò che accade dappertutto. Anche qui a Newark. Anche qui in Summit Avenue. Anche quello che succede in una casa a un uomo qualunque: anche questo domani sarà storia. Nei weekend in cui il signor Tirschwell lavorava, mio padre ci portava, Sandy e me, al Newsreel Theater per perfezionare la nostra educazione. Il signor Tirschwell ci lasciava dei biglietti al botteghino e, ogni volta che dopo lo spettacolo mio padre ci accompagnava nella cabina di proiezione, ci impartiva la solita lezioncina di educazione civica. Ci diceva che in una democrazia tenersi aggiornati sull’attualità era il dovere più importante del cittadino, e che non era mai troppo presto per cominciare a informarsi sulle notizie del giorno. Noi ci raccoglievamo intorno al proiettore, di ogni pezzo del quale il signor Tirschwell ci diceva il nome, e poi guardavamo le fotografie in cornice appese ai muri che erano state scattate la sera della solenne inaugurazione del teatro, quando il primo e unico sindaco ebreo di Newark, Meyer Ellenstein, aveva tagliato il nastro teso attraverso l’atrio e dato il benvenuto agli invitati più famosi, tra i quali, come ci disse il signor Tirschwell, indicando le loro fotografie, l’ex ambasciatore americano in Spagna e il fondatore del grande magazzino Bamberger. Ciò che mi piaceva di più del Newsreel Theater era che le poltrone erano fatte in modo tale che anche un adulto non doveva alzarsi per far passare gli altri, che la cabina di proiezione era - dicevano - insonorizzata e che sulla moquette dell’atrio erano disegnate delle bobine cinematografiche sulle quali si poteva camminare entrando e uscendo. Solo se ripenso a quei due sabati consecutivi del 1942, quando Sandy aveva quattordici anni e io nove, e mio padre ci condusse apposta a vedere il comizio del Bund una settimana e FDR che parlava durante la manifestazione al Garden contro Ribbentrop la settimana successiva, ricordo qualcosa di più della voce narrante di Lowell Thomas, che presentava la maggior parte delle notizie politiche, e di Bill Stern, che faceva una cronaca entusiastica degli avvenimenti sportivi. Ma il comizio del Bund non l’ho mai veramente dimenticato. A causa dell’odio che
m’instillarono i bundisti quando si alzarono in piedi salmodiando il nome di Von Ribbentrop come se ora il presidente degli Stati Uniti fosse lui, e il discorso di FDR non l’ho dimenticato perché quando alla manifestazione contro Ribbentrop dichiarò: «L’unica cosa che abbiamo da temere è l’ossequiosa acquiescenza di Charles A. Lindbergh ai suoi amici nazisti», una buona metà del pubblico in sala fischiò e protestò mentre il resto, compreso mio padre, applaudiva più forte che poteva, e io mi chiesi se non poteva scoppiare una guerra proprio lì in Broad Street nel bel mezzo della giornata e se, usciti dal teatro buio, non avremmo trovato il centro di Newark ridotto a un mucchio di macerie fumanti e di incendi appiccati dappertutto. Non fu facile per Sandy assistere fino in fondo a quelle due proiezioni pomeridiane del sabato al Newsreel Theater, e poiché lui aveva già capito in anticipo che sarebbe stato così, in un primo momento declinò l’invito di mio padre e accettò di venire con noi solo quando gli fu ordinato di farlo. Nella primavera del 1942, a qualche mese dall’inizio del liceo, Sandy era un bel ragazzo alto e snello con gli abiti sempre in ordine, i capelli ben pettinati e il portamento, in piedi o seduto, esemplare come quello di un cadetto di West Point. La sua esperienza come brillante giovane oratore per Just Folks gli aveva inoltre conferito un’aria autorevole che di rado si vedeva in un ragazzo così giovane. Che Sandy si fosse dimostrato così esperto nell’influenzare degli adulti e che avesse messo insieme un rispettoso seguito tra i ragazzi più giovani del quartiere ansiosi di emularlo e di qualificarsi per il programma agricolo estivo dell’Ufficio per l’assimilazione americana aveva sorpreso i miei genitori e reso la sua presenza in casa nostra più intimidatoria di quando tutti lo trovavano un ragazzo affabile e abbastanza comune con un Particolare talento per il disegno. Per me era sempre stato il più forte a causa della sua anzianità; ora sembrava più forte che mai, e suscitava facilmente la mia ammirazione nonostante gli avessi voltato le spalle per via di quello che Alvin aveva descritto come il suo opportunismo: anche se persino opportunismo (se Alvin ci aveva preso e quella era la parola giusta) sembrava un’altra notevole conquista, l’emblema di una maturità tranquilla e consapevole saggiamente coniugata con le arti del mondo. Certo, a nove anni il concetto di opportunismo non mi era molto familiare, ma la sua connotazione etica mi era stata comunicata abbastanza chiaramente dal disgusto con cui Alvin aveva recitato il suo atto d’accusa e da quello che aveva aggiunto a mo’ di spiegazione. Era appena tornato dall’ospedale, in quel momento, ed era ancora troppo infelice per mostrare un particolare ritegno. - Tuo fratello è uno zero, - m’informò una sera dal suo letto. - È meno di zero -. E fu allora che diede a Sandy dell’opportunista. - Sì? Perché? - Perché la gente è così, perché cerca il vantaggio personale e all’inferno tutto il resto. Sandy è un opportunista, cazzo. Come quella stronza di tua zia con le tettone a punta. Come il grande rabbino. La zia Bess e lo zio Herman sono brave persone. Ma Sandy... Vendersi a questi bastardi su due piedi? Alla sua età? Col suo talento? Un vero bijou, cazzo, tuo fratello.
Vendersi? Anche questo linguaggio mi riusciva nuovo, ma ormai non più difficile da capire della parola «opportunista.» - Ha solo disegnato qualche ritratto, - spiegai. Ma Alvin non aveva nessuna voglia di sentirmi minimizzare l’esistenza di quei ritratti, soprattutto perché in qualche modo era venuto a sapere della connessione di Sandy con Just Folks. Non ebbi il coraggio di chiedergli come avesse scoperto ciò che avevo deciso di non dirgli mai, anche se quello che immaginavo era che, dopo avere scoperto casualmente la cartella sotto il letto, fosse andato in sala da pranzo a frugare nei cassetti della credenza, dove Sandy teneva i suoi quaderni scolastici e la sua carta da lettere, e vi avesse trovato tutte le prove necessarie per odiare Sandy in eterno. - Non significa quello che credi tu, - dissi, ma fui subito costretto a domandarmi che altro poteva significare. - Lo fa per proteggerci, - annunciai. - Perché non ci mettiamo nei guai. - A causa mia, - disse Alvin. - No! - protestai. - Ma quello che vi ha detto è proprio questo. Così la famiglia non si metterà nei guai a causa di Alvin. Ecco come giustifica le stronzate che fa. - Ma per quale altro motivo dovrebbe farlo? - Feci questa domanda con lo stesso candore, e con la stessa astuzia, con cui potrebbe farla un bambino: e senz’avere la minima idea di come fare per districarmi da un conflitto che avevo solo intensificato mentendo stupidamente per difendere mio fratello. - Cosa c’è di sbagliato in quello che fa se sta solo cercando di aiutarci? Alvin rispose soltanto: «Non ti credo, campione», e, poiché non ero in grado di competere con Alvin, rinunciai al tentativo di credere a me stesso. Ah, se Sandy mi avesse detto che aveva una doppia vita! Che cercava di uscire nel modo migliore da una terribile situazione e che si mascherava da fedelissimo di Lindbergh per proteggerci! Ma avendolo sentito parlare a un pubblico di ebrei adulti nello scantinato di quella sinagoga di New Brunswick, sapevo quanto era convinto di quello che diceva e quanto era contento dell’attenzione che tutto questo richiamava sulla sua persona. Mio fratello aveva scoperto dentro di sé la rara capacità di essere qualcuno, e così, mentre teneva discorsi elogiativi del presidente Lindbergh ed esibiva i disegni che aveva fatto di lui e decantava pubblicamente (con parole scritte dalla zia Evelyn) i grandi benefici delle sue otto settimane come bracciante ebreo nel cuore della terra dei gentili - mentre faceva, diciamo la verità, quello che non mi sarebbe spiaciuto fare anch’io, quello che in tutta l’America era normale e patriottico, e aberrante e anomalo solo a casa sua -, Sandy si divertiva un mondo. Poi arrivò un’altra grandissima intrusione della storia: da parte del Presidente Charles A. Lindbergh e Signora al Rabbino Lionel Bengelsdorf e alla Signorina Evelyn Finkel, un invito su cartoncino, in rilievo, a partecipare a un banchetto in onore del ministro degli Esteri tedesco la sera di sabato 4 aprile 1942. Il solitario tour aereo di trenta città attraverso u paese aveva portato la reputazione di Lindbergh come un realista, concreto e senza peli sulla lingua a livelli più alti di quelli che
aveva raggiunto prima che Winchell avesse definito la cena per Von Ribbentrop «l’errore politico del secolo.» Le pagine degli editoriali della stampa del paese, in gran parte repubblicana, cominciarono subito a dire che l’errore era di FDR e dei democratici, i quali avevano deliberatamente presentato come un sinistro complotto quello che era solo un cordiale ricevimento alla Casa Bianca per un dignitario straniero. Sbalorditi com’erano dalla notizia dell’invito, i miei genitori non potevano fare granché. Qualche mese prima avevano manifestato a Evelyn il loro disappunto per averla vista diventare un altro membro della piccola banda di ebrei malconsigliati che facevano i sottopancia degli uomini oggi al potere. Non era sensato sfidare ancora una volta la sua remota connessione amministrativa col presidente degli Stati Uniti, soprattutto perché entrambi sapevano che ad animarla non era né la convinzione ideologica, come sembra che fosse accaduto ai tempi del suo impegno sindacale, né la semplice e bassa ambizione politica, ma l’euforia prodotta dal fatto che il rabbino Bengelsdorf l’aveva salvata da una vita di supplente installata in un sottotetto di Dewey Street e portata con sé a corte miracolosamente come Cenerentola. Tuttavia, quando una sera inaspettatamente telefonò per dire a mia madre che lei e il rabbino avevano organizzato tutto per farsi accompagnare alla cena in onore di Von Ribbentrop da mio fratello... be’, in un primo momento nessuno le voleva credere. Era ancora possibile, appena appena, accettare che Evelyn avesse potuto lei stessa passare in una notte dalla nostra piccola società locale alla celebrità della March of Time, ma anche Sandy, adesso? Non erano già abbastanza inverosimili le sue prediche per Lindbergh nelle cantine delle sinagoghe? Questo era semplicemente impossibile, decretò mio padre; e intendeva dire che non doveva succedere, che, a parte la credibilità, era troppo ripugnante. - È la dimostrazione - disse a mio fratello che tua zia è matta. E forse lo era, forse era stata squilibrata da un senso esagerato della propria nuova importanza. Altrimenti, come poteva aver trovato il coraggio di sollecitare un invito a un evento così importante per un nipote di quattordici anni? Come avrebbe potuto convincere il rabbino Bengelsdorf a fare alla Casa Bianca una richiesta così stravagante se non insistendo con l’irriducibile tenacia di un pazzoide egocentrico sicuro del fatto suo? Al telefono mio padre le parlò con tutta la calma che riuscì a trovare. «Basta con queste stupidaggini, Evelyn. Noi non siamo persone importanti. Lasciaci in pace, ti prego. Veramente, sono già anche troppe le cose che deve sopportare la gente comune.» Ma l’impegno preso da mia zia di liberare un nipote eccezionale dai limiti dell’irrilevanza di un cognato ignorante (in modo che potesse avere al mondo un ruolo di protagonista come lei) era ormai inoppugnabile. Sandy doveva partecipare alla cena come prova del successo di Just Folks, vi doveva partecipare nientemeno che come il rappresentante nazionale di Just Folks, e nessun padre di nessun ghetto li avrebbe fermati: né lui, né lei. Evelyn saltò in macchina, e dopo un quarto d’ora ci fu la resa dei conti. Deposto il ricevitore, mio padre nulla fece per nascondere la propria indignazione, e la sua voce continuò a salire come se fosse lo zio Monty. - In Germania Hitler ha almeno la decenza di bandire gli ebrei dal
Partito nazista. Questo e i bracciali, questo e i campi di concentramento, e almeno è chiaro che gli sporchi ebrei non sono graditi. Ma qui i nazisti pretendono di invitare gli ebrei a entrare. E perché? Per farli addormentare. Per farli dormire col ridicolo sogno che in America va tutto bene. Ma questo? - gridò. - Questo? Invitarli a stringere la mano macchiata di sangue di un criminale nazista? Incredibile! Le loro menzogne e i loro armeggi non si fermano davanti a nulla! Trovano il ragazzo migliore, il ragazzo più dotato, il ragazzo più laborioso e più maturo... No! Ci hanno preso in giro a sufficienza con quello che gli stanno facendo! Sandy non va in nessun posto! Mi hanno già rubato il mio paese... Non mi ruberanno mio figlio! - Ma nessuno - urlò Sandy - prende in giro nessuno. Questa è una grande opportunità -. «Per un opportunista», pensai, ma tenni la bocca chiusa. - Taci, - gli disse mio padre, solo questo, e la sua tranquilla severità fu più efficace dell’ira nel far comprendere a Sandy che era sull’orlo dell’ora peggiore della sua vita. La zia Evelyn stava bussando, e mia madre si alzò per andare ad aprire la porta di dietro. - Cosa vuole, adesso, questa donna? - le gridò mio padre. - Io le dico di lasciarci in pace... Ed eccola che arriva, matta come un cavallo. Mia madre non era affatto in contrasto con la decisione di mio padre, ma riuscì a scoccargli un’occhiata implorante mentre spuntava dalla cucina, sperando di convincerlo a essere clemente, anche se era poca la clemenza che Evelyn meritava per la sconsiderata stupidità con cui aveva sfruttato lo zelo di Sandy. La zia Evelyn era stupita (o fingeva di esserlo) dall’incapacità dei miei genitori di capire cosa significava per un ragazzo dell’età di Sandy essere invitato alla Casa Bianca, cos’avrebbe significato per il suo avvenire essere stato tra gli ospiti di una cena alla Casa Bianca... - La Casa Bianca non mi fa nessuna impressione! - gridò mio padre, mollando un pugno sul tavolo per farla tacere dopo che lei aveva detto «la Casa Bianca» per la quindicesima volta. - Solo chi ci abita mi fa impressione. E la persona che ci abita è un nazista. - Non è vero! - insistette Evelyn. - E vorresti dirmi che anche Herr Von Ribbentrop non è un nazista? - Per tutta risposta, lei diede a mio padre del provinciale incolto, pauroso e gretto... E lui le diede dell’arrampicatrice sociale sventata e credulona... E la lite infuriò intorno al tavolo, man mano che ognuno di loro lanciava accuse furibonde per attizzare la rabbia dell’altro, finché una delle cose dette dalla zia Evelyn - una cosa relativamente innocua, a conti fatti, su tutte le ruote che il rabbino Bengelsdorf aveva dovuto ungere per Sandy - fu per lui la goccia che fece traboccare il vaso, e allora mio padre si alzò e la invitò ad andarsene. Uscì dalla cucina e andò in fondo al corridoio, dove aprì la porta e da là le gridò: - Fuori. Vattene. E non tornare indietro. Non voglio più vederti in questa casa. Lei non poteva crederci, non più del resto di noi. A me parve uno scherzo, una battuta recitata in un film di Gianni e Pinotto. Fuori, Pinotto. Se continui a comportarti così, esci da questa casa e non tornare mai più. Mia madre si alzò da dove i tre adulti erano seduti davanti al loro tè e lo seguì nel corridoio.
- Quella donna è un’idiota, Bess, - le disse mio padre, - un’idiota, un bamboccio che non capisce niente. Un’idiota pericolosa. - Chiudi la porta, per piacere, - gli disse mia madre. - Evelyn, - gridò lui. - Allora? Immediatamente. Vattene. - Non lo fare, - mormorò mia madre. - Sto aspettando che tua sorella esca dalla mia casa, - rispose lui. - La nostra casa, - disse mia madre, e tornò in cucina. - E va’ via, - disse a bassa voce, - così le cose si calmeranno -. La zia Evelyn aveva la faccia sul tavolo, nascosta tra le mani. Mia madre la prese per un braccio e la fece alzare in piedi e l’accompagnò alla porta di dietro e la fece uscire, mentre la nostra autoritaria ed effervescente zietta aveva l’aria di essere stata colpita da un proiettile e condotta via a morire. Poi sentimmo mio padre sbattere la porta. - Quella donna crede che sia uno scherzo, - disse a Sandy e me quando uscimmo nel corridoio a vedere le conseguenze della battaglia. – Crede che sia un gioco. Siete stati al Newsreel Theater. Vi ho portato io. Sapete bene cos’avete visto. - Sì, - dissi io. Sentivo di dover dire qualcosa, perché ora mio fratello si rifiutava di parlare. Aveva sopportato stoicamente l’inesorabile ostracismo di Alvin e aveva sopportato stoicamente il Newsreel Theater e ora stava sopportando stoicamente la proscrizione della sua zia preferita: già simile, a quattordici anni, agli uomini caparbi della famiglia, deciso a resistere a tutto. - Be’, - disse mio padre, - non è un gioco. È una lotta. Ricordatelo: una lotta! Di nuovo, dissi di sì. - Fuori, nel mondo... - Ma qui si interruppe. Mia madre non era rientrata in casa. Io avevo nove anni e pensai che non sarebbe più tornata. E poteva darsi che mio padre, a quarantun anni, lo pensasse anche lui: mio padre, che le tribolazioni avevano liberato di molte paure, non si era liberato della paura di perdere la sua preziosa moglie. La catastrofe non era più lontana dalla mente di nessuno, e mio padre guardava i suoi figli come se fossimo rimasti improvvisamente senza madre come Earl Axman la sera dell’esaurimento nervoso della signora Axman. Quando mio padre andò nel soggiorno a guardare fuori dalla finestra, Sandy e io lo seguimmo da vicino. La macchina della zia Evelyn non c’era più. E mia madre non era né sul marciapiede né sui gradini dell’ingresso né nel vialetto e nemmeno di là dalla strada: e non era in cantina, quando mio padre corse giù per le scale gridando il suo nome. E non era con Seldon e sua madre, che stavano mangiando in cucina quando mio padre bussò e fummo fatti entrare tutt’e tre. Mio padre disse alla signora Wishnow: - Ha visto Bess? La signora Wishnow era una donna corpulenta, alta e goffa che camminava con i pugni chiusi e di cui si diceva, cosa per me stupefacente, che era stata una ragazza sorridente e spensierata quando mio padre aveva conosciuto lei e la sua famiglia nella Terza Circoscrizione prima della Grande Guerra. Ora che era sia madre che capofamiglia, i miei genitori decantavano in continuazione gli sforzi generosi che faceva per il bene di Seldon. Che la sua vita fosse una lotta era indiscutibile: bastava guardare quei pugni.
- Che succede? - gli domandò lei. - Bess è qui? Seldon si alzò da tavola per venire a salutarci. Dal giorno del suicidio di suo padre l’avversione che provavo per lui era diventata più forte, e alla fine della giornata mi nascondevo dietro la scuola quando sapevo che era uscito e mi aspettava per accompagnarmi a casa. E anche se abitavamo ad appena un breve isolato dalla scuola, la mattina io scendevo le scale in punta di piedi e uscivo di casa quindici minuti prima per precederlo. Ma poi nel tardo pomeriggio invariabilmente lo incontravo, anche se ero all’altro capo della salita di Chancellor Avenue. Ero uscito per una commissione, ed ecco Seldon alle mie calcagna, che si comportava come se mi avesse incontrato per caso. E ogni volta che veniva a cercarmi per provare a insegnarmi a giocare a scacchi, io fingevo di non essere in casa e non andavo ad aprire. Se mia madre era in casa, cercava di convincermi a giocare con lui ricordandomi proprio la cosa che volevo dimenticare. «Suo padre era un magnifico scacchista. Anni fa è stato campione dell’Ymca. Ha insegnato a Seldon, e ora Seldon non ha nessuno con cui giocare, e vuole giocare con te.» Io le dicevo che quel gioco non mi piaceva o che non lo capivo o che non sapevo giocare, ma alla fine non c’era scelta e Seldon arrivava con gli scacchi e la scacchiera e io mi sedevo davanti a lui al tavolo della cucina dove lui cominciava immediatamente a ricordarmi come suo padre aveva fatto la scacchiera e trovato i pezzi. «È andato a New York, e conosceva i posti dove andare, e ha trovato proprio i pezzi giusti... Non sono belli? Sono di un legno speciale. E questa scacchiera l’ha fatta lui. Ha trovato il legno, e l’ha intagliato... Vedi i colori come sono diversi?», e l’unico sistema che trovavo per impedirgli di continuare a parlare eternamente di suo padre, morto in un modo così terrificante, consisteva nel bombardarlo con le ultime barzellette sconce udite a scuola. Mentre risalivamo le scale mi resi conto che ora mio padre avrebbe sposato la signora Wishnow, e che una delle prossime sere avremmo portato, tutt’e tre, la nostra roba giù per la scala posteriore per andare ad abitare con lei e Seldon, e che sia nell’andare a scuola che nel tornare a casa sarebbe stato impossibile evitare Seldon e il suo bisogno incessante di trarre da me il suo sostentamento. E che, tornato a casa, avrei dovuto riporre il paltò nell’armadio dove il padre di Seldon si era impiccato. Sandy avrebbe dormito nella veranda dei Wishnow, come aveva fatto nella nostra quando Alvin viveva con noi, io avrei dormito accanto a Seldon nella stanza di dietro, mentre nell’altra camera da letto mio padre avrebbe dormito dove dormiva il padre di Seldon, di fianco alla madre di Seldon e ai suoi pugni chiusi. Volevo andare fino all’angolo e montare su un autobus e sparire. Avevo ancora i venti dollari di Alvin nascosti nella punta di una scarpa in fondo all’armadio. Avrei preso i soldi e sarei salito su un autobus e alla Penn Station avrei comprato un biglietto ferroviario di sola andata per Philadelphia. Là avrei rintracciato Alvin, e non avrei mai più abitato con la mia famiglia. Sarei rimasto con Alvin, invece, e avrei badato al suo moncherino.
Mia madre telefonò a casa dopo aver messo a letto la zia Evelyn. Il rabbino Bengelsdorf era a Washington, ma aveva parlato con Evelyn per telefono, e successivamente anche con mia madre, assicurandole che sapeva meglio di quell’asino di suo marito cos’era e cosa non era nell’interesse degli ebrei. Come Herman aveva trattato Evelyn non sarebbe stato dimenticato, disse, specie dopo tutto quello che lui stesso si era scomodato a fare per suo nipote su richiesta di Evelyn. Il rabbino concluse dicendo a mia madre che quando fosse venuto il momento si sarebbero presi provvedimenti. Verso le dieci mio padre andò a prendere mia madre per riportarla a casa. Sandy e io eravamo già in pigiama quando lei entrò nella stanza e si sedette sul mio letto e mi prese la mano. Non l’avevo mai vista così esausta: non completamente svuotata come la signora Wishnow, ma ben diversa dalla madre instancabile e contenta che una volta era sempre così calma e mostrava tanta energia, quando le sue uniche preoccupazioni erano quelle di mantenere la famiglia con i cinquanta dollari scarsi che suo marito portava a casa ogni settimana. Un lavoro in centro, una casa da mandare avanti, una sorella tempestosa, un marito deciso, un quattordicenne caparbio, un altro figlio apprensivo di nove anni: per una donna così piena di risorse nemmeno la simultanea inondazione di tutti questi pensieri con le loro esigenti richieste sarebbe stata eccessivamente onerosa, se non ci fosse stato pure Lindbergh. - Sandy, - disse, - che dobbiamo fare? Vuoi che ti spieghi perché papà non crede che ci dovresti andare? Possiamo farlo insieme senza litigare? A un certo punto dobbiamo parlare di tutto fino in fondo. Tu e io, da soli. Qualche volta papà perde la pazienza, ma io no: lo sai. Puoi fidarti, io ti ascolto. Ma dobbiamo ridimensionare quello che sta succedendo. Perché forse non è proprio un bene che tu venga risucchiato ulteriormente da una cosa come questa. Forse la zia Evelyn ha commesso un errore. È esagitata, tesoro. È sempre stata così. Succede qualcosa di straordinario e lei perde ogni prospettiva. Papà pensa... Devo continuare, caro, o vuoi metterti a dormire? - Fa’ quello che vuoi, - disse Sandy seccamente. - Continua, - dissi io. Mia madre mi guardò con un sorriso. - Perché? Cosa vuoi sapere? - Che cos’hanno tutti da gridare. - Perché ognuno vede le cose diversamente-. Dandomi il bacio della buonanotte, disse: - Perché tutti hanno un sacco di pensieri, - ma quando si sporse verso il letto di Sandy per baciarlo, lui affondò la faccia nel cuscino. Di solito mio padre era già uscito per andare a lavorare quando io e Sandy ci svegliavamo, e mia madre si alzava presto per fare colazione con lui e prepararci i panini per il pranzo e avvolgerli nella carta oleata e metterli nel frigo e poi andava a lavorare anche lei dopo avere controllato se eravamo pronti per la scuola. Il giorno seguente, però, mio padre non andò in ufficio finché non ebbe la possibilità di spiegare a Sandy perché non sarebbe andato alla Casa Bianca e perché non avrebbe più partecipato a nessuno dei programmi sponsorizzati dall’Uaa.
- Questi amici di Von Ribbentrop - disse a Sandy - non sono amici nostri. Tutte le macchinazioni che Hitler ha ordito contro l’Europa, tutte le sporche bugie che ha raccontato agli altri paesi, sono uscite dalla bocca del signor Von Ribbentrop. Un giorno studierai cos’è successo a Monaco. Studierai la parte che ha avuto il signor Von Ribbentrop nel convincere con l’inganno il signor Chamberlain a firmare un trattato che non valeva la carta sulla quale era scritto. Leggi cosa scrive «PM» di quest’uomo. Ascolta cosa dice Winchell di quest’uomo. Il ministro degli Esteri Von Ribbensnob, lo chiama Winchell. Sai cosa faceva per vivere prima della guerra? Vendeva champagne. Un piazzista di liquori, Sandy. Un imbroglione: un plutocrate, un ladro e un imbroglione. Anche il «von» che ha nel nome è una frode. Ma tu non ne sai nulla. Non sai nulla di Von Ribbentrop, non sai nulla di Gòring, non sai nulla di Goebbels e di Himmler e di Hess... Ma io sì. Hai mai sentito parlare del castello austriaco dove Herr Von Ribbentrop mangia e beve col resto dei criminali nazisti? Sai come lo ha ottenuto? Lo ha rubato. L’aristocratico che lo possedeva è stato chiuso da Himmler in un campo di concentramento, e ora il castello è di proprietà del piazzista di liquori! Sai dov’è Danzica, Sandy, e cos’è successo là? Sai cos’è il trattato di Versailles? Hai mai sentito parlare di Mein Kampf? Chiedi al signor Von Ribbentrop: te lo dirà lui. E te lo dirò anch’io, ma non dal punto di vista dei nazisti. Io seguo la situazione, e leggo, e so chi sono questi criminali, figliolo. E non permetto che ti avvicini a loro. - Questa non te la perdonerò mai, - ribatté Sandy. - Invece sì, - gli disse mia madre. - Un giorno capirai che quello che papà vuole per te è solo ciò che è nel tuo interesse. Ha ragione, caro, credimi... Tu non devi frequentare questa gente. Vogliono solo strumentalizzarti. - La zia Evelyn? - chiese Sandy. - La zia Evelyn vuole «strumentalizzarmi?» Farmi invitare alla Casa Bianca... Questo è «strumentalizzarmi?» - Sì, - disse tristemente mia madre. - No! Non è vero! - disse lui. - Mi spiace, ma non posso deludere la zia Evelyn. - È tua zia Evelyn - gli disse mio padre - che ci ha deluso. Just Folks! - disse in tono sprezzante. - L’unico scopo di questa cosiddetta Just Folks è trasformare i ragazzi ebrei in una quinta colonna e metterli contro i genitori. - Cazzate! - disse Sandy. - Smettila! - disse mia madre. - Smettila subito. Ti rendi conto che la nostra è l’unica famiglia dell’isolato che si trova in questa situazione? L’unica famiglia in tutto il quartiere. Tutti gli altri stanno cercando di continuare a vivere come prima delle elezioni e di dimenticare chi è il presidente. Ed è quello che facciamo anche noi. Sono accadute delle brutte cose, ma ormai sono finite. Alvin se n’è andato e ora se n’è andata anche la zia Evelyn, e ogni cosa tornerà alla normalità. - E quando ci trasferiamo in Canada, - le chiese Sandy, - a causa della vostra mania di persecuzione? Puntando il dito, mio padre disse: - Non scimmiottare quella stupida di tua zia. Non rispondere mai più così. - Tu sei un dittatore, - gli disse Sandy, - sei un dittatore peggiore di Hitler.
Poiché erano cresciuti, tutt’e due, in famiglie dove un padre all’antica non esitava a punire i suoi figli secondo i tradizionali metodi di coercizione, i miei genitori erano assolutamente incapaci di alzare la mano su Sandy o su di me e disapprovavano qualunque punizione corporale. Di conseguenza, per tutta risposta a uno dei suoi figli che gli aveva detto che era peggiore di Hitler mio padre non fece altro che voltare le spalle, disgustato, e andare a lavorare. Ma era appena uscito dalla porta di dietro quando mia madre alzò la mano e, con mia grande meraviglia, diede a Sandy uno schiaffo sul viso. - Lo sai cos’ha appena fatto tuo padre per te? - gli gridò. - Ancora non capisci cosa stavi per fare a te stesso? Finisci la colazione e va’ a scuola. E torna a casa appena la scuola è finita. Tuo padre ha imposto la sua volontà, e sarà meglio che tu obbedisca. Sandy non batté ciglio quando lei lo colpì, e ora, deciso a resistere a tutti i costi, si accinse ad allargare il proprio eroismo dicendole temerariamente: - Io vado alla Casa Bianca con la zia Evelyn. Me ne frego se a voialtri ebrei del ghetto piace o no. Per aggravare la bruttezza di quel mattino, per aggravare l’esasperante implausibilità di tutta quella confusione, lei lo costrinse a pagare pienamente per la sua disobbedienza rifilandogli un’altra percossa, e questa volta lui scoppiò in lacrime. E se non lo avesse fatto, questa nostra prudentissima madre avrebbe alzato la sua mano materna dolce e gentile e lo avrebbe colpito una terza, una quarta e una quinta volta. «Non sa quello che fa, - pensai, - non è più lei... Nessuno è più quello di prima», e afferrai i libri di scuola e corsi giù per le scale fino al vialetto e sbucai nella strada e, come se la giornata non fosse già abbastanza orribile, c’era Seldon sui gradini che mi aspettava per accompagnarmi a scuola. Tornando a casa dal lavoro un paio di settimane dopo, mio padre si fermò al Newsreel Theater a vedere un cinegiornale che parlava della cena in onore di Von Ribbentrop. Fu allora che apprese da Shepsie Tirschwell, che era andato a trovare nella sua cabina dopo la proiezione, che il primo giugno il suo vecchio amico d’infanzia partiva per Winnipeg con la moglie, i tre figli, la madre e gli anziani genitori della moglie. Alcuni rappresentanti della piccola comunità israelitica di Winnipeg lo avevano aiutato a trovare lavoro come proiezionista in un cinematografo del loro quartiere e avevano affittato appartamenti per tutta la famiglia in un modesto quartiere ebraico molto simile al nostro. I canadesi avevano anche procurato ai Tirschwell un prestito a basso interesse per il loro trasferimento dall’America e per contribuire al mantenimento dei parenti acquisiti fino a quando la signora Tirschwell non avesse trovato a Winnipeg un lavoro che le permettesse di pagare il costo della vita dei suoi genitori. Il signor Tirschwell disse a mio padre che gli spiaceva moltissimo separarsi dalla sua città natale e dai suoi vecchi amici, e che ovviamente rimpiangeva di perdere un posto così buono nel più importante cinematografo di Newark. C’era molto da lasciare e molto da perdere, ma da tutti i filmati originali e non montati girati dai cineoperatori in tutto il mondo che aveva visto negli ultimi anni lui si era convinto che il lato segreto del patto stipulato tra Lindbergh e Hitler in Islanda nel
1941 contemplasse queste cose: per Hitler, in primo luogo, la sconfitta dell’Unione Sovietica, poi l’invasione e la conquista dell’Inghilterra, e soltanto dopo (e dopo che i giapponesi avessero invaso la Cina, l’India e l’Australia, completando così la creazione del loro «Nuovo Ordine in Asia Orientale») che il presidente degli Stati Uniti istituisse il «Nuovo Ordine Fascista Americano», una dittatura totalitaria modellata su quella di Hitler che avrebbe preparato la scena per l’ultima grande lotta continentale: l’invasione tedesca, la conquista e la nazificazione del Sudamerica. Di lì a due anni, con la svastica di Hitler alta sopra il palazzo del Parlamento a Londra, il Sol Levante sopra Sydney, Nuova Delhi e Pechino, e Lindbergh eletto alla presidenza per altri quattro anni, il confine americano col Canada sarebbe stato chiuso, le relazioni diplomatiche tra i due paesi sarebbero state rotte e, per concentrare l’attenzione degli americani sul grave pericolo interno che richiedeva la limitazione dei loro diritti costituzionali, sarebbe iniziato un attacco en masse contro i quattro milioni e mezzo di ebrei americani. Sulla scia della visita di Von Ribbentrop a Washington - e del trionfo che essa rappresentò per i più pericolosi tra i sostenitori americani di Lindbergh - queste erano le previsioni del signor Tirschwell, e talmente più pessimistiche di qualunque cosa prevedesse mio padre erano queste previsioni che lui decise di non riferircele, quando verso sera arrivò dal Newsreel Theater per la cena, e di tacere sulla partenza imminente dei Tirschwell, sicuro che la notizia avrebbe terrorizzato me, irritato Sandy e spinto mia madre a chiedere di emigrare immediatamente. Dall’entrata in carica di Lindbergh un anno e mezzo prima, si calcolava che solo due o trecento famiglie ebraiche avessero stabilito in modo permanente la propria residenza nel rifugio canadese; i Tirschwell erano i primi di questi fuggitivi che mio padre conoscesse di persona, e la notizia della loro decisione lo aveva molto scosso. E poi c’era lo shock di vedere in un filmato il nazista Von Ribbentrop e la moglie ricevuti cordialmente nel colonnato della Casa Bianca dal presidente e dalla signora Lindbergh. E lo shock di vedere tutti quegli illustri ospiti che scendevano dalle loro limousine sorridendo alla prospettiva di mangiare e ballare alla presenza di Von Ribbentrop: e tra gli invitati, in apparenza non meno elettrizzati degli altri dalla disgustosa occasione, il rabbino Lionel Bengelsdorf e la signorina Evelyn Finkel. Non ci potevo credere, - disse mio padre. - Ha sulla faccia un sorriso largo un miglio. E il futuro marito? Sembra credere che la cena sia per lui. Dovreste vederlo, quest’uomo... Che saluta tutti con inchini come se contasse davvero qualcosa! - Ma perché ci sei andato, - gli chiese mia madre, - se doveva sconvolgerti così? - Ci sono andato, - le disse lui, - perché ogni giorno mi faccio la stessa domanda: com’è possibile che questo accada in America? Com’è possibile che questa gente governi il nostro paese? Se non lo vedessi con i miei occhi, crederei di avere un’allucinazione. Anche se avevamo appena cominciato a cenare, Sandy mise giù le posate, borbottò «Ma in America non succede niente, niente», e lasciò la tavola: e non per la prima volta dalla mattina in cui mia madre lo aveva schiaffeggiato. Durante i pasti, adesso, al minimo accenno alle notizie, Sandy si alzava e senza spiegazioni né scuse spariva nella nostra camera, chiudendosi la porta alle spalle. Le prime volte mia madre lo
aveva seguito ed era andata dentro per parlare con lui e invitarlo a tornare a tavola, ma Sandy restava seduto alla scrivania temperando una matita carboncino o scarabocchiando fon la stessa sull’album da disegno finché lei non lo lasciava in pace. Mio fratello non rispondeva neanche a me quando, spinto soltanto dalla solitudine, osavo chiedergli per quanto tempo ancora intendeva comportarsi così. Cominciavo a domandarmi se un giorno o l’altro non sarebbe andato via di casa, e non per trasferirsi dalla zia Evelyn, ma per andare a vivere con i Mawhinney nella loro fattoria del Kentucky. Avrebbe cambiato il proprio nome in Sandy Mawhinney e noi non lo avremmo mai più visto, proprio come non avremmo mai più visto Alvin. E nessuno doveva preoccuparsi di rapirlo: lo avrebbe fatto lui stesso, si sarebbe consegnato lui ai cristiani per non dover avere più niente a che fare con gli ebrei. Nessuno doveva rapirlo perché Lindbergh lo aveva già rapito, lui e tutti gli altri! Il comportamento di Sandy mi scombussolava così tanto che la sera cominciai a fare i compiti lontano da lui, al tavolo della cucina. Fu così che sentii mio padre - il quale era nel soggiorno con mia madre, a leggere il giornale della sera, mentre Sandy rimaneva in sdegnosa clausura in fondo all’appartamento - ricordarle che la nostra baruffa familiare era proprio la forma di dissenso che gli antisemiti lindberghiani avevano sperato di fomentare tra i genitori ebrei e i loro figli con programmi come quelli di Just Folks. Capirlo, tuttavia, aveva solo rafforzato la sua decisione di non seguire l’esempio di Shepsie Tirschwell e lasciare il paese. - Cosa stai dicendo? - disse mia madre. - Mi stai dicendo che i Tirschwell vanno in Canada? - In giugno, sì, - rispose lui. - Perché? Perché in giugno? Cosa succede in giugno? Quando lo hai saputo? Perché non hai detto nulla? - Perché sapevo che ti avrebbe sconvolto. - Ed è vero... Perché non dovrebbe? Perché, - volle sapere, - perché, Herman, partono in giugno? Perché secondo Shepsie è arrivato il momento. Non parliamone più, - disse mio padre abbassando la voce. - Il piccolo è in cucina, ed è già abbastanza spaventato. Se Shepsie ritiene che sia ora, questa è la sua decisione per sé e per i suoi, e buon pro gli faccia. Shepsie sta sempre là a vedere le ultime notizie, di ora in ora. Le notizie sono la vita di Shepsie, e le notizie sono terribili, e perciò influenzano il suo modo di pensare, e questa è la decisione che ha preso. - Ha preso questa decisione, - disse mia madre, - perché è informato. - Anch’io sono informato, - disse mio padre in tono secco. - Non sono meno informato di lui: sono semplicemente arrivato a una conclusione diversa. Non capisci che questi bastardi antisemiti vogliono che noi scappiamo via? Vogliono che gli ebrei arrivino a essere così stufi di tutto, - le disse, da andarsene per sempre, e allora avranno questo magnifico paese tutto per loro. Be’, io ho un’idea migliore. Perché non se ne vanno loro} Tutti quanti, dal primo all’ultimo... Perché non vanno tutti a vivere sotto il Fùhrer nella Germania nazista? Allora lo avremo noi un magnifico paese! Guarda, Shepsie può fare tutto quello che gli sembra giusto, ma noi non andiamo in nessun posto. C’è ancora una Corte suprema in questo paese. Grazie a Franklin Roosevelt, è una Corte suprema progressista, ed è lì per difendere i nostri diritti. C’è il giudice Douglas. C’è il giudice Frankfurter. Ci sono il giudice Murphy e il giudice Black. Sono lì per far applicare la
legge. Ci sono ancora delle brave persone in questo paese. C’è Roosevelt, c’è Ickes, c’è il sindaco La Guardia. In novembre c’è un’elezione congressuale. Ci sono ancora le urne e la gente può ancora votare senza che qualcuno le dica cosa fare. - E per cosa voteranno? - chiese mia madre, e si rispose immediatamente. - Il popolo americano voterà, - disse, - e i repubblicani diventeranno ancora più forti. - Zitta. Cerca di tenere la voce bassa, eh? In novembre, - le disse, - vedremo i risultati, e ci sarà tutto il tempo di decidere cosa fare. - E se non ci sarà il tempo? - Ci sarà. Ti prego, Bess, - disse, non possiamo andare avanti così tutte le sere -. E la sua fu l’ultima parola, anche se probabilmente fu solo perché io stavo facendo i compiti in cucina che mia madre si sforzò di non dire altro. L’indomani, subito dopo la scuola, andai in fondo a Chancellor Avenue, svoltai in Clinton Place e poi, oltrepassato il liceo, dove immaginavo di avere poche probabilità di essere riconosciuto da qualcuno, attesi un autobus diretto in centro per andare al Newsreel Theater. Avevo guardato l’orario sul giornale la sera prima. C’era una proiezione di un’ora che iniziava alle quattro meno cinque, il che significava che potevo prendere il 14 delle cinque alla fermata di Broad Street davanti al cinematografo ed essere a casa in tempo per la cena, o anche prima, a seconda del momento in cui Von Ribbentrop era inserito nel programma. In un modo o nell’altro dovevo vedere la zia Evelyn alla Casa Bianca, e non perché, come i miei genitori, io fossi sbigottito e offeso da quello che faceva, ma perché il fatto che c’era andata mi sembrava più notevole di qualunque altra cosa potesse capitare a un membro della nostra famiglia: tranne quello che era capitato ad Alvin. ALTO PAPAVERO NAZISTA OSPITE DELLA CASA BIANCA: era questa la scritta a caratteri cubitali che si leggeva ai due lati del tendone triangolare del teatro, e insieme al fatto che mi trovavo in centro senza mio fratello o Earl Axman o uno dei miei genitori, mi fece sentire un autentico delinquente quando mi avvicinai allo sportello del botteghino e chiesi un biglietto. - Non accompagnato da un adulto? Nossignore, - mi disse la donna che vendeva i biglietti. - Sono orfano, - le dissi io. – Vivo nell’orfanotrofio di Lyons Avenue. La suora mi ha mandato a fare un tema sul presidente Lindbergh. - Dov’è il bigliettone ? avevo scritto uno con cura in autobus, usando una pagina bianca del mio taccuino, e glielo porsi attraverso la fessura per i soldi. Si ispirava ai permessi che mia madre compilava per le gite scolastiche, ma era firmato «Suor Mary Catherine, Orfanotrofio di St Peter.» La donna lo guardò senza leggerlo e mi fece cenno di spingere il denaro verso di lei. Le diedi uno dei biglietti da dieci dollari di Alvin - una banconota di grosso taglio per un bambino della mia età, per di più un orfanello di St Peter - ma lei aveva da fare e mi diede nove dollari e cinquanta di resto e mi allungò un biglietto senza tante storie. Omise, tuttavia, di restituirmi il mio biglietto. - Mi serve, - dissi. Spostati, figliolo, - disse lei, spazientita, e con un cenno mi invitò a fare posto alla gente ancora in coda per lo spettacolo successivo. Entrai proprio mentre si spegnevano le luci e cominciava una musica marziale e le prime immagini del film comparivano sullo schermo. Poiché tutti gli uomini di Newark (il teatro attirava pochissime donne) volevano dare un’occhiata all’inverosimile ospite della Casa Bianca, per questa proiezione del tardo pomeriggio
di venerdì la sala era piena zeppa e l’unico posto vuoto che riuscii a trovare era nella parte più angolata della prima galleria: chiunque fosse entrato in quel momento avrebbe dovuto stare in piedi in platea dietro l’ultima fila di sedie. Mi aveva preso una grande eccitazione, non soltanto per aver fatto una cosa che da me nessuno si aspettava, ma perché, immerso nel fumo di centinaia di sigarette e nell’odore stravagante dei sigari da cinque cent, mi sembrava di essere sprofondato nella virile magia di un ragazzo mascherato da uomo tra gli uomini. Gli inglesi sbarcano in Madagascar per occupare la base navale francese. Pierre Laval, capo del governo francese di Vichy, stigmatizza la mossa britannica come un «atto di aggressione.» La Raf bombarda Stoccarda per la terza notte consecutiva. Caccia inglesi in feroci scontri aerei nel cielo di Malta. L’esercito tedesco riprende l’attacco all’Urss nella penisola di Kerc. Mandalay si arrende all’armata giapponese in Birmania. L’esercito giapponese sferra un nuovo attacco nella giungla della Nuova Guinea. L’esercito giapponese entra dalla Birmania nella provincia cinese di Yiinnan. Guerriglieri cinesi assaltano la città di Canton, uccidendo cinquecento soldati giapponesi. Una moltitudine di elmetti, uniformi, armi, palazzi, porti, spiagge, flora, fauna volti umani di ogni razza - ma per il resto sempre lo stesso inferno, l’imbattibile male dai cui orrori solo gli Stati Uniti, fra tutte le grandi nazioni, erano risparmiati. Un’immagine dopo l’altra di angosce senza fine: i mortai che sparano, i fanti che si piegano in due e corrono, i marines che sguazzano fino alla riva con i fucili sopra la testa, aeroplani che sganciano le bombe, aeroplani colpiti dalla contraerea che precipitano, le fosse comuni, i cappellani in ginocchio, le croci improvvisate, le navi che affondano, i marinai che annegano, il mare in fiamme, i ponti distrutti, il cannoneggiamento dei carri armati, gli ospedali presi di mira e tagliati in due, colonne di fuoco che si alzano da serbatoi bombardati, prigionieri radunati in un mare di fango, barelle che trasportano tronchi umani ancora vivi, civili infilzati dalle baionette, bambini morti, corpi decapitati da cui il sangue gorgoglia e trabocca... E poi la Casa Bianca. Le luci del tramonto in una sera Primaverile. Ombre lunghe sulla distesa del prato. Cespugli rigogliosi. Alberi in fiore. Berline guidate da autisti in livrea e tutti che scendono in abito da cerimonia. Dal salone marmoreo oltre le porte aperte del colonnato, un’orchestra d’archi suona la canzone che l’anno scorso era in testa alle classifiche, Intermezzo, ispirata a un tema tratto dal Tristano e Isotta di Wagner. Benevoli sorrisi. Risate sommesse. Il presidente, magro, amato e bello. Al suo fianco la valente poetessa, audace aviatrice e dignitosa esponente dell’alta società che è la madre del loro bambino assassinato. L’ospite onorato, loquace e con i capelli argentati. L’elegante consorte nazista nel suo abito lungo di raso. Parole di benvenuto, spiritosaggini, e il gentiluomo del Vecchio Continente, contagiato dalla teatralità di quella corte regale e in piena forma nell’abito da sera, con un sorriso affascinante bacia la mano della First Lady.
Non fosse stato per la croce di ferro, concessa al ministro degli Esteri dal suo Führer, e che abbelliva il taschino qualche centimetro sotto il fazzoletto di seta impeccabilmente piegato, l’impostore rimpannucciato nel modo più convincente che l’umana furberia potesse immaginare. E là!, la zia Evelyn e il rabbino Bengelsdorf... Davanti ai marines di guardia, attraverso la soglia, e via! Non potevano essere stati sullo schermo più di tre secondi, eppure il resto del notiziario nazionale e le ultime cronache sportive mi riuscirono incomprensibili, e continuavo a sperare che il cinegiornale tornasse indietro fino al momento in cui mia zia si materializzava, sfolgorante di gemme che prima erano appartenute alla defunta moglie del rabbino. Fra le tante inverosimiglianze che le cineprese stabilivano come irrefutabilmente reali, l’ignominioso trionfo della zia Evelyn fu per me la meno reale di tutte. Quando lo spettacolo finì e si accesero le luci, una maschera in divisa era ferma nella corsia e faceva dei segnali con la lampadina. - Tu, - disse. - Vieni con me. Mi fece strada tra la folla che stava uscendo dall’atrio e attraverso una porta che aprì con una chiave e poi su per una stretta scala che riconobbi da quando Sandy e io eravamo stati accompagnati lì a vedere le manifestazioni per Von Ribbentrop al Madison Square Garden. – Quanti anni hai? - mi chiese la maschera. - Sedici. - Questa è buona. Ragazzo, continua così. Ti troverai in un bel pantano. - Ora devo tornare a casa, - gli dissi io. - Perderò l’autobus. - Altro che l’autobus perderai. Bussò seccamente alla famosa porta insonorizzata della cabina di proiezione del Newsreel e il signor Tirschwell ci fece entrare. Aveva in mano il biglietto di suor Mary Catherine. - Non vedo come posso non mostrarlo ai tuoi genitori, - mi disse. - Era solo uno scherzo, - dissi io. - Tuo padre sta venendo a prenderti. Ho telefonato in ufficio per dirgli che eri qui. - Grazie, - dissi io educatamente, come mi avevano insegnato a fare. - Prego, accomodati. - Ma era uno scherzo, - ripetei. Il signor Tirschwell stava preparando le pizze per il nuovo spettacolo. Quando cominciai a guardarmi attorno, vidi che molte delle foto con autografo dei più famosi frequentatori del teatro erano state tolte dalle pareti, e mi resi conto che il signor Tirschwell aveva cominciato a raccogliere i cimeli che voleva portare a Winnipeg. E compresi anche che la gravità di una simile decisione poteva da sola essere bastata a spiegare la severità con cui mi stava trattando. Mi fece anche l’impressione, tuttavia, di essere uno di quegli adulti particolarmente esigenti il cui senso di responsabilità spesso si estende a cose che non sono affari loro. Sarebbe stato difficile dire, dall’aspetto o dal modo di parlare, che era cresciuto in una casa popolare di Newark con mio padre. Era una versione sfumata, e decisamente più raffinata e superba di mio padre, dell’incolto ragazzo dei quartieri poveri che si era tirato fuori dalla miseria dei genitori immigrati quasi interamente in virtù di una
vigile, programmatica industriosità. L’ardore, per questi Uomini, era l’unica cosa che avevano per tirare avanti. Quella che i cristiani loro superiori chiamavano invadenza era di solito soltanto questo: l’ardore che era tutto. - Ora vado, - dissi, - posso ancora prendere l’autobus ed essere a casa in tempo per la cena. - Per piacere, resta dove sei. - Ma cos’ho fatto di male? Volevo vedere mia zia. Non è giusto, - dissi, pericolosamente vicino alle lacrime. - Volevo vedere mia zia alla Casa Bianca, tutto qui. - Tua zia, - disse lui, e strinse i denti per non dire altro. Di tutte le cose, il suo disdegno per la zia Evelyn diede il via alle mie lacrime. A questo punto il signor Tirschwell perse la pazienza. - Soffri? - chiese sardonicamente. - Cosa, cosa soffri? Hai idea di quello che sta passando la gente in tutto il mondo? Non hai capito niente di quello che hai appena visto, giusto? Spero solo che in futuro ti venga risparmiata ogni vera ragione per piangere. Spero e prego che nei giorni a venire la tua famiglia... - Si interruppe di colpo, chiaramente non avvezzo a un’indecorosa deflagrazione di sentimenti irrazionali, segnatamente nel trattamento di un insignificante ragazzino. Riuscivo a capire pure io che la sua irritazione era indirizzata verso qualcosa di diverso da me, però questo non riduceva il disagio dato dal doverne sopportare l’urto. - Cosa succederà in giugno? - gli chiesi. Era la domanda senza risposta che avevo sentito mia madre fare a mio padre la sera prima. Il signor Tirschwell continuò a scrutarmi in viso come se stesse cercando di decidere quanto era scarsa la mia intelligenza. - Tirati su, - disse infine. - Ecco, - e mi porse un fazzoletto. - Asciugati gli occhi. Obbedii, ma quando ripetei: «Cosa succederà? Perché andate in Canada?», l’esasperazione sparì improvvisamente dalla sua voce ed emerse qualcosa di più forte e mite insieme: la sua intelligenza. - Ho un nuovo lavoro laggiù, - rispose. Che mi risparmiasse mi terrorizzò, e scoppiai di nuovo in lacrime. Mio padre arrivò una ventina di minuti dopo. Il signor Tirschwell gli porse il biglietto che avevo scritto per entrare nel cinematografo, ma mio padre non si fermò a leggerlo finché non mi ebbe preso per il gomito e spinto fuori dal teatro e nella strada. Fu in quel momento che mi colpì. Prima mia madre picchia mio fratello, ora mio padre legge le parole di suor Mary Catherine e, per la prima volta in vita sua, mi dà, senza ritegno, una sberla in pieno viso. Poiché sono già teso - e per nulla stoico come Sandy - io crollo e mi dispero irrimediabilmente proprio di fianco al botteghino, sotto gli occhi di tutti i gentili che stanno correndo a casa dai loro uffici del centro per uno spensierato weekend di primavera nella pacifica America di Lindbergh, l’autonoma fortezza a oceani di distanza dalle zone di guerra del mondo dove nessuno è in pericolo tranne noi.
CAPITOLO 6 Maggio 1942 - giugno 1942 La loro patria
22 maggio 1942 Caro Signor Roth, su richiesta di Homestead 42, Ufficio per l’Assimilazione Americana, Ministero degli Interni degli Stati Uniti, la nostra società offre possibilità di trasferimento ai vecchi dipendenti come lei, ritenuti abilitati all’inclusione nella nuova audace iniziativa nazionale dell’Uaa. Fu esattamente ottant’anni fa che il Congresso degli Stati Uniti approvò la Homestead Act del 1862, la famosa legge, mai adottata da nessun altro stato, che assegnava praticamente gratis 64 ettari di terreno demaniale vacante agli agricoltori disposti a trasferirsi e a colonizzare il nuovo West americano. Nulla di paragonabile è stato intrapreso da allora per fornire agli americani dotati di spirito d’avventura elettrizzanti nuove opportunità per espandere i loro orizzonti e rafforzare il loro paese. Metropolitan Life è fiera di essere il primo gruppo di grandi società e istituti finanziari americani scelti per partecipare al nuovo programma Homestead, che ha lo scopo di offrire alle famiglie americane emergenti un’occasione che nella vita capita una volta sola, l’occasione di trasferirsi, a spese del governo, e mettere radici in una interessante regione dell’America prima a loro inaccessibile. Homestead 42 fornirà un ambiente stimolante imbevuto delle più antiche tradizioni del nostro paese dove genitori e figli potranno arricchire di generazione in generazione la loro americanità. Al ricevimento di questo annuncio lei dovrebbe contattare immediatamente il Signor Wilfred Kurth, il rappresentante di Homestead 42, nel nostro ufficio di Madison Avenue. Egli risponderà personalmente a tutte le sue domande e il suo staff l’assisterà cortesemente in tutti i modi possibili. Congratulazioni a lei e ai suoi familiari: siete stati scelti tra numerosi candidati meritevoli della Metropolitan Life per essere tra i primi pionieristici «assegnatari» del 1942. Distinti saluti, Homer L. Kasson Vicepresidente per gli Affari dei Dipendenti. Parecchi giorni dovettero passare prima che mio padre ritrovasse la calma necessaria per mostrare a mia madre la lettera della ditta e darle la notizia che dal 1°
settembre 1942 lo avrebbero trasferito dalla circoscrizione di Newark della Metropolitan a un ufficio circoscrizionale che si sarebbe aperto a Danville, nel Kentucky. Su una mappa del Kentucky che era stata acclusa al pacchetto di Homestead 42 presentatogli dal signor Kurth, ci indicò dov’era Danville. Poi lesse ad alta voce da una pagina di un opuscolo della camera di commercio intitolato Lo stato della fienarola. - «Danville è il capoluogo di contea della rurale Boyle County. Si trova nelle bellissime campagne del Kentucky una sessantina di miglia a sud di Lexington, la seconda città dello stato in ordine di grandezza dopo Louisville» -. Cominciò a sfogliare l’opuscolo per trovare delle cose ancora più interessanti che mitigassero in qualche modo l’insensatezza di questa piega degli avvenimenti. «Daniel Boone aiutò a tracciare "il Sentiero nella Foresta" che aprì la strada alla colonizzazione del Kentucky... Nel 1792 il Kentucky diventò il primo stato a ovest degli Appalachi a entrare nell’Unione... Nel 1940 gli abitanti del Kentucky erano 2845627.» Quelli di Danville - ecco -, quelli di Danville erano 6700. - E quanti ebrei a Danville, - chiese mia madre, - sui seimilasettecento? Quanti in tutto lo stato? - Lo sai già, Bess. Sono pochissimi. L’unica cosa che ti posso dire è che potrebbe andar peggio. Potrebbe essere il Montana, dove vanno i Geller. Potrebbe essere il Kansas, dove vanno gli Schwartz. Potrebbe essere l’Oklahoma, dove vanno i Brody. Dal nostro ufficio vanno via in sette, e io sono il più fortunato, credimi. Il Kentucky è un posto bellissimo con un bellissimo clima. Non è la fine del mondo. Vedrai che finiremo per viverci più o meno come viviamo qui. Forse meglio, dato che tutto è meno caro e il clima è veramente gradevole. Ci sarà la scuola per i ragazzi, ci sarà il lavoro per me, ci sarà la casa per te. È probabile che potremo permetterci di comprare una casa dove i ragazzi avranno una stanza per uno e un giardino dove giocare. - E dove hanno trovato la faccia tosta di far questo? - chiese mia madre. - Io sono sbalordita, Herman. Qui sono le nostre famiglie. Qui sono gli amici di una vita. Qui i ragazzi hanno i loro amici. Qui abbiamo abitato per tutta la vita in pace e in armonia. Siamo ad appena un isolato dalla migliore scuola elementare di Newark. Siamo a un isolato dal migliore liceo del New Jersey. I nostri ragazzi sono cresciuti tra gli ebrei. Vanno a scuola con altri ragazzi ebrei. Non ci sono attriti con gli altri ragazzi. Non ci sono insulti. Non ci sono baruffe. Non hanno mai dovuto sentirsi esclusi e isolati come me quando ero piccola. Non posso credere che la ditta ti stia facendo questo. Come hai lavorato per questa gente, gli orari che hai fatto, la fatica... E questa - disse rabbiosamente - è la ricompensa. - Ragazzi, - disse mio padre, - chiedetemi cosa volete sapere. La mamma ha ragione. Questa è una grossa sorpresa per tutti noi. Siamo tutti un po’ sbalorditi. Dunque, fate tutte le domande che volete. Cerchiamo di evitare qualunque confusione. Ma Sandy non era confuso, e non sembrava affatto sbalordito. Sandy era elettrizzato e stentava a nascondere la gioia, e tutto perché sapeva esattamente dove trovare Danville, nel Kentucky, sulla mappa: a quattordici miglia dalla piantagione di tabacco dei Mawhinney. Era anche possibile che avesse saputo del trasferimento
molto prima di noi. I miei genitori potevano non avere detto niente, ma proprio perché nessuno lo diceva persino io riuscivo a capire che la scelta di mio padre come uno dei sette «assegnatari» ebrei della circoscrizione non era più fortuita della sua assegnazione al nuovo ufficio di Danville della ditta. Da quando aveva aperto la porta di dietro e intimato alla zia Evelyn di uscire e non tornare mai più, la nostra sorte non poteva essere diversa. Avevamo cenato ed eravamo nel soggiorno. Imperturbabile e sereno, Sandy stava disegnando qualcosa e non aveva domande da fare; nemmeno io – che guardavo fuori, col viso schiacciato contro la reticella della finestra aperta avevo domande da fare, e allora mio padre, cupo e assorto nei suoi pensieri, e conscio del fatto che era stato sconfitto, si mise a passeggiare nella stanza, mentre mia madre, sul sofà, mormorava qualcosa a fior di labbra, non volendo rassegnarsi a quello che ci aspettava. In quel drammatico braccio di ferro, quella lotta contro non sapevamo cosa, ciascuno di noi aveva assunto il ruolo che l’altro aveva interpretato nell’atrio dell’albergo di Washington. Mi rendevo conto che le cose erano arrivate fino a questo punto e che tutto era ormai terribilmente confuso e che le calamità, quando colpiscono qualcuno, lo fanno con la rapidità del fulmine. Era piovuto regolarmente dalle tre, ma poi l’acquazzone sospinto dal vento era cessato di colpo e il sole era tornato a splendere come se gli orologi fossero stati messi avanti e, a ponente, l’inizio della mattina di domani fosse stato fissato per le sei pomeridiane di oggi. Come poteva una strada modesta come la nostra produrre una simile ebbrezza solo perché era lucida di pioggia? Come potevano le lagune del marciapiede, impraticabili e cosparse di foglie, e i giardinetti erbosi gonfi dell’acqua uscita dai pluviali, mandare un odore che mi riempiva di gioia come se fossi nato in una foresta tropicale? Tinta dalla luce sfolgorante del dopo-temporale, Summit Avenue era piena di vita come un gatto o un cagnolino, il mio gatto serico e pulsante, ripulita da cortine di pioggia e ora allungata a crogiolarsi in quella beatitudine. Nulla mi avrebbe mai spinto a lasciarla. - E i ragazzi con chi giocheranno? - chiese mia madre. - Il Kentucky è pieno di ragazzi con cui giocare, - le assicurò lui. - E io con chi parlerò? - chiese lei. - Chi avrò là al posto delle amiche che ho avuto per tutta la vita? - Là ci sono anche delle donne. - Donne cristiane, - disse lei. Di solito mia madre non traeva alcuna forza dal disprezzo, ma ora parlò con disprezzo: ecco quanto era perplessa e come si sentiva in pericolo. - Buone cristiane, - disse, - che si faranno in quattro per mettermi a mio agio. Non hanno alcun diritto di far questo! - proclamò. - Bess, ti prego... Sono cose che capitano quando si lavora per una grossa azienda. Le grosse aziende non fanno che trasferire la gente. E quando capita, devi fare le valigie e andare. - Sto parlando del governo. E il governo che non può far questo. Non possono obbligare la gente a far fagotto e andarsene: non c’è in nessuna costituzione, ch’io sappia.
- Non ci stanno obbligando. - Allora perché andiamo via? - chiese lei. - Certo che ci stanno obbligando. Questo è illegale. Non puoi prendere gli ebrei solo perché sono ebrei e costringerli a vivere dove vuoi tu. Non puoi prendere una città e farne quello che vuoi. Liberarsi di Newark così com’è, con gli ebrei che vivono qui come tutti gli altri? Mica sono affari loro! Questo è contro la legge. Tutti sanno che è contro la legge. - Già, - disse Sandy senza alzare gli occhi da quello che stava disegnando, - perché non facciamo causa agli Stati Uniti d’America? - Si può, - gli dissi io. - Rivolgendosi alla Corte suprema. - Ignoralo, - mi disse mia madre. - Fino a quando tuo fratello non avrà imparato a essere una persona civile, continueremo semplicemente a ignorarlo. A questo punto Sandy si alzò in piedi e portò il suo materiale da disegno nella nostra camera da letto. Incapace di assistere oltre allo spettacolo dell’impotenza di mio padre e dell’angoscia di mia madre, io aprii la porta d’ingresso, scesi le scale di corsa e uscii in strada, dove i ragazzi che avevano finito di cenare stavano già buttando nei rigagnoli le stecche di legno dei ghiaccioli per vederle precipitare dalla grata di ferro nella fogna gorgogliante insieme ai detriti naturali che il temporale aveva fatto piovere dalle robinie e al gorgo di cartine di caramelle, scarafaggi, tappi di bottiglia, lombrichi, mozziconi di sigarette e, misteriosamente, inspiegabilmente, prevedibilmente, un mucillaginoso preservativo. Erano tutti fuori a divertirsi per l’ultima volta prima di rientrare per andare a letto: e tutti ancora capaci di divertirsi perché nessuno aveva un genitore che lavorava per una delle società che collaboravano con Homestead 42. I loro padri erano uomini che lavoravano per conto proprio o con un socio che era un fratello o un parente acquisito, e così non dovevano andare in nessun posto. Ma nemmeno io sarei andato in nessun posto. Il governo degli Stati Uniti non mi avrebbe scacciato da una strada in cui persino le cunette lungo i marciapiedi traboccavano dell’elisir della vita. Alvin era nella malavita di Philadelphia, Sandy viveva in esilio in casa nostra e l’autorità di mio padre come protettore era stata drasticamente compromessa, se non distrutta, due anni prima, per difendere la vita che avevamo scelto, aveva trovato la forza di recarsi alla sede centrale e, faccia a faccia col grande capo, rifiutare la promozione che avrebbe fatto fare un passo avanti alla sua carriera e aumentato i suoi guadagni, ma al costo di portare tutti noi in un New Jersey pesantemente bundista. Ora mio padre non aveva più voglia di contestare uno sradicamento potenzialmente non meno rischioso, essendo giunto alla conclusione che lo scontro era inutile e la nostra sorte indipendente dalla sua volontà. In un modo abbastanza sconvolgente, mio padre era stato reso impotente dal fatto che la sua ditta si era associata allo stato in questa impresa. Non restava più nessuno per proteggerci, nessuno tranne me. Dopo la scuola, il giorno seguente, tornai di nascosto a prendere l’autobus che andava in centro, questa volta il numero 7, il cui percorso passava a circa un chilometro da Summit Avenue, di là dall’orto dell’orfanotrofio, dove la chiesa di St Peter fronteggiava il grande traffico di Lyons Avenue e dove, all’ombra del suo campanile coronato da una croce, era ancor meno probabile che io fossi riconosciuto
da un vicino o un compagno di scuola o un amico di famiglia di quando mi proponevo di passare davanti al liceo e andare in Clinton Place a prendere il 14. Aspettai alla fermata davanti alla chiesa accanto a due suore identicamente sepolte nella stoffa pesante e grossolana di quelle voluminose tonache nere che non avevo mai avuto la possibilità di studiare come feci quel giorno. A quei tempi la tonaca di una suora le arrivava alle scarpe, e questo, insieme all’arco bianchissimo di tessuto inamidato che incorniciava austeramente le sue sembianze e impediva ogni visione laterale - il rigido soggolo che nascondeva cuoio capelluto, orecchie, mento e collo, ed era anch’esso avvolto in un ampio fazzoletto bianco -, faceva delle suore cattoliche tradizionalmente vestite le creature dall’aria più arcaica che io avessi mai visto, assai più sorprendenti da vedere nel nostro quartiere anche dei preti con la loro raccapricciante aria da necrofori. Non si vedevano né tasche né bottoni, e così era impossibile immaginare in che modo quell’involucro di tende fittamente pieghettate stesse su o si togliesse - se mai veniva tolto - dato che sopra tutto il resto c’era una grande croce di metallo appesa a una lunga collana di corda, e i grani di un rosario, grossi e lucidi come biglie «killer», che penzolava fin quasi a terra dalla parte anteriore di una cintura di pelle nera e, assicurato al fazzoletto, un velo nero che si allargava sulle spalle e veniva giù fino alla vita. All’infuori della piccola regione esposta che era il volto insignificante e disadorno chiuso nel soggolo, né peli, né capelli, né alcunché di morbido in nessun posto. Immaginai che queste fossero due delle suore che controllavano la vita degli orfanelli e insegnavano nella scuola parrocchiale. Nessuna di esse guardò dalla mia parte e io da solo, senza un compagno spiritoso come Earl Axman, non osavo guardarle se non con occhiate furtive, anche se, mentre ero là che mi guardavo i piedi, la capacità di autocensura del bambino intelligente mi abbandonò e ripetutamente mi ritrovai davanti ai misteri, a tutte le domande concernenti i loro corpi femminili e le loro funzioni più prosaiche, e tutte queste domande tendevano alla depravazione. Nonostante la serietà della missione segreta di quel pomeriggio e tutto ciò che dipendeva dal suo esito, non riuscivo a stare vicino a una suora, e tantomeno a una coppia di suore, senza che la mia mente pullulasse di pensieri ebraici tutt’altro che puri. Le suore occuparono i due posti alle spalle del conducente e, anche se per la maggior parte i posti più lontani verso il fondo erano vuoti, io mi sedetti di fianco a loro dall’altra parte dello stretto corridoio, nel posto dietro il tornello e la cassetta dei soldi. Non avevo avuto l’intenzione di sedermi proprio lì, non capivo perché lo avessi fatto, ma invece di spostarmi in una zona dove potevo sottrarmi al dominio di una curiosità senza impacci, aprii il mio quaderno e finsi di studiare, sperando e temendo al tempo stesso di sentirle dire qualcosa di cattolico. Ahimè, rimasero mute, pregando - immaginavo - e non meno affascinanti per il motivo che lo facevano su un autobus. A quattro o cinque minuti dal centro si udì un musicale tintinnio di grani di rosario quando si alzarono insieme per scendere all’ampia intersezione di High Street con Clinton Avenue. Da un lato dell’incrocio c’era il deposito di un venditore di automobili, e dall’altro l’Hotel Riviera.
Mentre passavano, la suora più alta mi sorrise dal corridoio e, con una vaga tristezza nella voce sommessa - forse perché il Messia era arrivato ed era andato via senza che io me ne accorgessi -, rivolta alla compagna commentò: - Che bel bimbo ordinato e pulitino. Avrebbe dovuto sapere cosa stavo pensando. Ma forse lo sapeva. Qualche minuto dopo, prima che l’autobus facesse l’ultima grande svolta da Broad Street e imboccasse Raymond Boulevard per l’ultima fermata davanti alla Penn Station, scesi anch’io e mi misi a correre verso il Federal Office Building di Washington Street, dove la zia Evelyn aveva l’ufficio. Dentro l’atrio il ragazzo dell’ascensore mi disse che l’Uaa era all’ultimo piano, e quando vi arrivai chiesi di Evelyn Finkel. – Tu sei il fratello di Sandy, - disse la receptionist. - Potresti essere il suo gemellino, - soggiunse in tono di apprezzamento. - Sandy ha cinque anni più di mele , dissi io. - Sandy è un ragazzo magnifico, magnifico, - disse lei, - erano tutti felici di averlo con loro, - e poi chiamò all’interfono l’ufficio della zia Evelyn. - C’è suo nipote Philip, signorina F., - annunciò, e in pochi secondi la zia Evelyn mi fece passare davanti alle scrivanie di una mezza dozzina di uomini e donne che scrivevano a macchina ed entrare nel suo ufficio prospiciente la biblioteca pubblica e il museo di Newark. Mi stava baciando e abbracciando e dicendo quanto le ero mancato, e nonostante tutte le mie apprensioni - a partire, si capisce, dalla paura che il mio incontro con la zia che ci eravamo inimicati venisse scoperto dai miei genitori - io procedetti come avevo in animo confidando alla zia Evelyn che ero andato al Newsreel Theater da solo e di nascosto per vederla alla Casa Bianca. Mi sedetti sulla sedia di fianco alla sua scrivania - una scrivania che era più del doppio di quella di mio padre nel suo ufficio in Clinton Street - e le chiesi di dirmi che impressione le aveva fatto cenare con il presidente e la signora Lindbergh. Quando lei cominciò a rispondere dettagliatamente – e con una voglia di impressionare che appariva incomprensibile a un bambino già sopraffatto dalla grandezza del suo tradimento – non riuscivo a convincermi di essere riuscito così facilmente a farle credere che questo era il motivo per cui ero lì. C’erano due grandi carte geografiche trafitte da gruppi di spilli colorati e attaccate a un enorme tabellone di sughero sulla parete dietro la scrivania. La carta più grande era dei quarantotto stati e la più piccola del solo New Jersey, il cui lungo confine fluviale interno con la vicina Pennsylvania a scuola ci avevano insegnato a identificare con l’arcana traccia del profilo di un capo indiano, la fronte su a Phillipsburg, le narici giù a Stockton e il mento che si stringeva verso il collo nelle vicinanze di Trenton. L’angolo densamente popolato più orientale dello stato, che abbracciava Jersey City, Newark, Passaic e Paterson, e si estendeva verso nord fino al confine dritto come un fuso con le contee più meridionali dello stato di New York, indicava la parte più alta posteriore della corona di penne dell’indiano. Era così che la vedevo allora, e così continuo a vederla; oltre ai cinque sensi, un bambino col mio retroterra aveva a quei tempi un sesto senso, il senso geografico, l’acuto senso di dove viveva e chi e cosa lo circondava.
Sulla spaziosa scrivania della zia Evelyn, accanto alle foto in cornice della mia povera nonna e del rabbino Bengelsdorf, c’erano una grande foto con autografo del presidente e della signora Lindbergh insieme nell’Oval Office e una foto più piccola della zia Evelyn in abito da sera che stringeva la mano del presidente. - È la norma del ricevimento, - spiegò. - Mentre vanno in sala da pranzo, gli invitati sfilano a uno a uno davanti al presidente, alla First Lady e all’ospite d’onore di quella sera. Ti presentano per nome e ti fanno una fotografia e poi la Casa Bianca te la manda. - Il presidente ha detto qualcosa? - Ha detto: «Che piacere averla qui.» - Ti permettono di rispondere qualcosa? - chiesi io. - Io ho detto: «Sono onorata, signor presidente» -. Non fece alcuno sforzo per nascondere come quello scambio di battute era stato importante per lei e forse anche per il presidente degli Stati Uniti. Come sempre con la zia Evelyn, nel suo entusiasmo c’era qualcosa di molto accattivante, benché non potesse sfuggirmi, nel contesto della confusione che regnava nella mia famiglia, che c’era anche qualcosa di diabolico. Non avevo mai giudicato così severamente un adulto in vita mia - né i miei genitori, né Alvin e neppure lo zio Monty - e non avevo capito, fino a quel momento, come la sfacciata vanità di certi perfetti idioti possa avere un’influenza decisiva sulla sorte di altre persone. - Hai incontrato il signor Von Ribbentrop? Timida, ora, come una ragazzina, la zia Evelyn rispose: - Ho ballato col signor Von Ribbentrop. - Dove? - Dopo cena c’era un ballo sotto un tendone sul prato della Casa Bianca. Era una sera bellissima. Un’orchestra e il ballo, e Lionel e io siamo stati presentati al ministro degli Esteri e a sua moglie, e ci siamo messi a parlare, e poi lui ha fatto un inchino e mi ha chiesto di ballare. È noto per essere un eccellente ballerino, e lo è, senza dubbio: un ballerino davvero magico. E il suo inglese è impeccabile. Ha studiato all’università di Londra e poi da giovane è vissuto per quattro anni in Canada. La sua grande avventura giovanile, la chiama. L’ho trovato un gentleman molto affascinante ed estremamente intelligente. - Cos’ha detto? - chiesi. - Oh. Abbiamo parlato del presidente, dell’Uaa, della nostra vita... Abbiamo parlato di tutto. Suona il violino, sai? È come Lionel, un uomo di mondo, bene informato e capace di parlare di tutto. Ecco, guarda, caro... Guarda cosa indossavo. Vedi la borsetta che avevo? È di rete dorata. Vedi questo? Vedi gli scarabei? Scarabei d’oro, di smalto e di turchesi. - Cos’è uno scarabeo? - È uno scarafaggio. È una gemma che viene tagliata in modo da somigliare a uno scarafaggio. Ed è stata fatta proprio qui a Newark dalla famiglia della prima signora Bengelsdorf. Il loro atelier era famoso in tutto il mondo. Facevano gioielli per i re e le regine d’Europa e per tutte le persone più ricche d’America. Guarda il mio anello di fidanzamento, - disse, mettendomi la manina profumata così vicino al viso che a un
tratto mi sembrò di essere un cane e mi venne voglia di leccarla. - Hai visto la pietra? Questo è uno smeraldo, mio caro carissimo bambino. - Vero? Mi baciò. - Vero! E nella foto, qui... Questo è un braccialetto di maglia. È d’oro con perle e zaffiri. Veri! - disse, baciandomi di nuovo. - Il ministro degli Esteri ha detto che non aveva mai visto un braccialetto più bello di questo. E cosa credi che abbia intorno al collo? - Una collana? - Una collana a festone. - Cos’è un festone? - Una catena di fiori, una ghirlanda di fiori. Tu conosci la parola «festivo.» Conosci «festività.» E conosci anche «festa», no? Be’, sono tutte imparentate tra loro. E guarda, le due spille, le vedi? Sono zaffiri, caro... Zaffiri del Montana montati in oro. E vedi chi li porta? Chi? Chi è quella? È la zia Evelyn! È Evelyn Finkel di Dewey Street! Alla Casa Bianca! Non è incredibile? - Credo di sì, - dissi io. - Oh, tesoro, - disse lei, attirandomi a sé e baciandomi ora su tutto il viso, - lo credo anch’io. Sono così contenta che tu sia venuto a trovarmi. Mi sei mancato tanto, - e mi passò le mani sui fianchi come per scoprire se avevo le tasche piene di roba rubata. Solo qualche anno dopo arrivai a capire che a spiegare il rapido rinnovamento della vita della zia Evelyn da parte di un personaggio della statura di Lionel Bengelsdorf poteva benissimo essere stata proprio la destrezza con cui lei usava quelle mani palpeggianti. Per brillante ed erudito che fosse il rabbino, superiore a tutti anche nell’egoismo, la zia Evelyn con lui non doveva mai essersi trovata in difficoltà. Allora, certo, il paradiso di questi abbracci non era identificabile. Ovunque mettessi le mani, c’era la morbida superficie del suo corpo. Ovunque muovessi la faccia, c’era l’intensità del suo profumo. Ovunque volgessi lo sguardo, c’erano i suoi indumenti, nuove vesti primaverili talmente vaporose e trasparenti che non riuscivano nemmeno a velare il luccichio della sottoveste. E c’erano gli occhi di un altro essere umano come non li avevo mai visti. Non ero ancora giunto all’età del desiderio, ero accecato, naturalmente, dalla parola «zia», consideravo ancora il casuale irrigidirsi di quella piccola ghianda del mio pene la sconcertante seccatura che era sempre stata, e così la gioia che provai nello stringermi alle curve della sorella trentunenne di mia madre, una piccola e vivace Pollicina che non sembrava affatto timida e che nelle forme aveva preso dalle mele e dalle colline, fu solo un momento di pallida frenesia, come se il rarissimo tesoro di un francobollo difettoso di un valore che sapevo inestimabile fosse apparso accidentalmente su una lettera ordinaria lasciata dal postino nella nostra cassetta di Summit Avenue. - Zia Evelyn? - Tesoro mio. - Sai che andiamo nel Kentucky? - Sì, e allora? - Io non ci voglio andare, zia Evelyn. Voglio restare nella mia scuola.
Fece un brusco passo indietro, e stavolta con un’aria tutt’altro che seduttiva domandò: - Chi ti ha mandato qui, Philip? - Mandato? Nessuno. - Chi ti ha mandato da me? Di’ la verità. - È la verità. Nessuno. Tornò alla poltrona dietro la scrivania, e l’espressione che aveva negli occhi mi costrinse a fare tutto il possibile per non alzarmi e scappare via. Ma volevo quello che volevo troppo per scappare via. - Non c’è nulla di cui avere paura nel Kentucky, - disse. - Io non ho paura. Non voglio semplicemente dover andare via. Persino il suo silenzio era simile a un abbraccio, e se davvero avessi mentito mi avrebbe strappato la confessione che voleva. La sua vita, povera donna, era un perenne stato d’intensità. - Non potrebbero andarci Seldon e sua madre al posto nostro? - chiesi. - Chi è Seldon? - Il ragazzo al piano di sotto rimasto senza padre. Sua madre lavora per la Metropolitan, adesso. Perché noi dobbiamo andarci e loro no? - Non è stato tuo padre a istigarti, tesoro? - No. No. Non sanno neppure che sono qui. Ma capivo che non mi credeva, ancora: la sua avversione per mio padre era troppo preziosa per essere scacciata dalla lampante verità. - Seldon vuole venire con te nel Kentucky? - mi chiese. - Non gliel’ho chiesto. Non lo so. Ho pensato solo di chiederti se non potevano andarci loro al posto nostro. - Caro bambino mio, vedi quella carta del New Jersey? Vedi quegli spilli sulla carta? Ciascuno di essi rappresenta una famiglia scelta per il trasferimento. Ora guarda la carta di tutto il paese. Vedi tutti quegli spilli? Quelli rappresentano il posto al quale è stata assegnata ogni famiglia del New Jersey. Per fare queste assegnazioni occorre la cooperazione di moltissime persone, in questo ufficio, al quartier generale di Washington e nello stato in cui si trasferisce ogni famiglia. Le più grosse e importanti società del New Jersey trasferiscono dei dipendenti di comune accordo con Homestead 42, e così per tutto questo c’è voluta altra programmazione, molta più di quanta tu ne possa lontanamente immaginare. E, naturalmente, nessuna decisione viene presa da una singola persona. Ma anche se fosse così, e quella persona fossi io, e potessi far qualcosa per tenerti vicino ai tuoi amici e alla tua scuola, continuerei a pensare che per te sarà enormemente vantaggioso diventare qualcosa di più di un altro bimbo ebreo che ha paura di lasciare il ghetto, tanto l’hanno spaventato i genitori. Guarda cos’ha fatto la tua famiglia a Sandy. Hai visto tuo fratello a New Brunswick, quella sera. L’hai visto parlare a tutta quella gente della sua avventura nella piantagione di tabacco. Ti ricordi di quella sera? - mi chiese. - Non eri fiero di lui? - Sì.
- E sembrava che vivere nel Kentucky fosse spaventoso e che Sandy avesse mai, per un solo momento, avuto paura? - No. Qui, dopo aver frugato nella scrivania cercando qualcosa, si alzò e girandole attorno venne dov’ero seduto io. Il suo viso grazioso, dai tratti larghi e pesantemente truccati, all’improvviso mi sembrò assurdo: il volto carnale dell’insaziabile mania di cui, secondo mia madre, la sua emotiva sorella minore era irrimediabilmente caduta in preda. Certo, per un bambino alla corte di Luigi XIV le ambizioni e le soddisfazioni di una parente così non sarebbero mai giunte a creare l’aura di soggezione che la zia Evelyn aveva per me; né il successo mondano di un religioso come il rabbino Bengelsdorf sarebbe apparso minimamente scandaloso ai miei genitori, se essi stessi fossero cresciuti a corte come un marchese e una marchesa. Forse non avrei fatto male - anzi, avrei fatto molto meglio - a cercare conforto dalle due suore sull’autobus di Lyons Avenue, piuttosto che da una persona che si beava dei piaceri delle piccole e più comuni corruzioni che proliferano ovunque gli uomini competono tra loro per il minimo miglioramento della loro condizione sociale. - Sii coraggioso, amore. Devi essere un ragazzo coraggioso. Vuoi passare il resto della vita là seduto sui gradini di Summit Avenue o vuoi affrontare il mondo come ha fatto Sandy e dimostrare quello che vali? Metti che io avessi avuto paura di andare alla Casa Bianca e di incontrare il presidente perché la gente come tuo padre sparla di lui e lo insulta. Metti che avessi avuto paura di incontrare il ministro degli Esteri perché sparlano di lui. Non puoi andare in giro avendo paura di tutto quello che non conosci. Non puoi diventare grande e avere paura come i tuoi genitori. Promettimi che non lo farai. - Prometto. - Ecco, - disse lei, - ho un regalo per te -. E mi porse una delle due scatoline di cartone che teneva in mano. - L’ho preso per te alla Casa Bianca. Ti amo, tesoro, e voglio che l’abbia tu. - Cos’è? - Un cioccolatino. Un cioccolatino avvolto nella carta dorata. E sai cosa c’è, impresso sul cioccolatino? Il sigillo presidenziale. Eccone uno per te, e se ti do quello di Sandy, glielo consegni da parte mia? - Okay. - È quello che portano in tavola alla fine della cena alla Casa Bianca. Cioccolatini su un piatto d’argento. E appena li ho visti ho pensato ai due ragazzi che più di chiunque altro voglio rendere felici sulla terra. Mi alzai, stringendo i cioccolatini nella mano, e la zia Evelyn mi cinse le spalle con un braccio e mi accompagnò all’uscita passando davanti a tutte le persone che lavoravano per lei; fino al corridoio, dove schiacciò il bottone dell’ascensore. - Qual è il cognome di Seldon? - mi chiese. - Wishnow. - Ed è il tuo migliore amico.
Come facevo a spiegarle che non lo potevo soffrire? E così finalmente mentii e dissi: - Sì, è vero, - e poiché mia zia mi amava veramente e non mentiva, lei, quando diceva che voleva farmi felice, solo qualche giorno dopo, quando mi fui finalmente sbarazzato dei cioccolatini della Casa Bianca aspettando che non ci fosse nessuno e buttandoli dentro il recinto dell’orfanotrofio, la signora Wishnow ricevette dalla Metropolitan una lettera per informarla che anche lei e la sua famiglia erano stati tanto fortunati da essere scelti per il trasferimento nel Kentucky. Una domenica pomeriggio alla fine di maggio nel soggiorno di casa nostra si tenne una riunione confidenziale degli agenti di assicurazione ebrei che, insieme a mio padre, dovevano essere spostati dall’ufficio della Metropolitan di Newark sotto gli auspici di Homestead 42. Arrivarono tutti soltanto con le mogli, avendo concordato che sarebbe stato meglio lasciare i figli a casa. Nel primo pomeriggio Sandy e io, aiutati da Seldon Wishnow, avevamo sistemato le sedie per la riunione, comprese quattro sedie da bridge portate su dall’appartamento dei Wishnow. Dopodiché la signora Wishnow ci portò in macchina tutt’e tre al Mayfair Theater di Hillside, dove avremmo visto un doppio programma e saremmo stati prelevati da mio padre alla fine della riunione. Gli altri ospiti erano Shepsie ed Estelle Tirschwell, che di lì a qualche giorno sarebbero partiti per Winnipeg, e Monroe Silverman, un lontano cugino che aveva appena aperto uno studio legale a Irvington, sopra il negozio di abbigliamento di proprietà di uno dei fratelli maggiori di mio padre, Lenny, lo zio che riforniva Sandy e me di nuovi vestiti scolastici «a prezzo di costo.» Quando mia madre aveva proposto - spinta dall’inalterabile rispetto per tutto ciò che si impara a rispettare - di invitare Hyman Resnick, il nostro rabbino locale, a partecipare alla riunione, nessun altro degli organizzatori che si erano riuniti nella nostra cucina la settimana prima aveva mostrato molto entusiasmo per l’idea e, dopo qualche minuto di ossequiosa discussione (durante la quale mio padre disse diplomaticamente quello che diplomaticamente diceva sempre del rabbino Resnick: «Mi è simpatico, lui e la moglie, non dubito che faccia un ottimo lavoro, ma non è molto brillante, vero?»), la proposta di mia madre era stata respinta. Anche se, con grande gioia di un bambino piccolo, questi amici intimi dei nostri genitori si esprimevano in una gamma di voci ampia e divertente come quella dei personaggi del Fred Allen Show ed erano diversi tra loro come le figure dei fumetti del giornale della sera - tutto questo accadeva quando gli effetti della marcia sorniona dell’evoluzione erano ancora ben visibili, molto tempo prima che il giovanilistico restauro della faccia e della figura diventasse una seria aspirazione degli adulti -, nella sostanza erano persone molto simili: allevavano i figli, vegliavano sul bilancio familiare, si occupavano dei vecchi genitori e badavano alle loro modeste abitazioni nello stesso modo, su quasi tutte le questioni pubbliche la pensavano nello stesso modo, alle elezioni politiche votavano nello stesso modo. Il rabbino Resnick dirigeva un’insignificante sinagoga gialla in muratura ai margini del quartiere dove ogni anno tutti si facevano vedere, nell’abito buono delle feste maggiori, per i tre giorni di riti di Rosh Hashanah e Yom Kippur, ma per il resto ci tornavano di rado, solo per recitare coscienziosamente, quando era
necessario, la preghiera quotidiana per i defunti durante il periodo prescritto. Il rabbino serviva per officiare ai matrimoni e ai funerali, occuparsi del bar mitzvah dei figli maschi, visitare i malati all’ospedale e consolare i dolenti alla shiva; oltre a questo non aveva la minima parte nella loro vita quotidiana, e nessuno di essi – compresa la mia rispettosa madre - pretendeva che l’avesse, e non solo perché Resnick non era tanto brillante. L’essere ebrei non derivava dal rabbinato o dalla sinagoga o da qualche pratica religiosa ufficiale, anche se col passare degli anni, in gran parte per amore dei genitori ancora al mondo che una volta la settimana andavano a trovarle e a mangiare da loro, parecchie famiglie, tra le quali anche la nostra, erano kosher. L’essere ebrei non veniva neppure dall’alto. Certo, ogni venerdì al tramonto, quando mia madre accendeva ritualmente (e in una maniera toccante, con la delicata devozione che aveva assorbito da bambina guardando sua madre) le candele del sabbath, invocava l’Onnipotente col suo titolo ebraico, ma per il resto nessuno parlava mai di «Adonai.» Questi erano ebrei che non avevano bisogno di grandi termini di riferimento, di professioni di fede o di credenze religiose, per essere ebrei, e che sicuramente non avevano bisogno di altre lingue: ne avevano già una, la lingua del loro paese natale, la cui espressività vernacolare esercitavano senza fatica e, sia al tavolo da gioco sia nel pistolotto di un venditore, con l’indulgente padronanza della popolazione indigena. E l’essere ebrei non era né una disgrazia né una sfortuna né una cosa di cui andare «fieri.» Ciò che erano era ciò di cui non potevano liberarsi: ciò di cui non avrebbero mai neanche potuto pensare di liberarsi. L’essere ebrei derivava dall’essere se stessi, come l’essere americani. Era quello che era, era nella natura delle cose, fondamentale come avere arterie e vene, ed essi non manifestarono mai il minimo desiderio di cambiarlo o di negarlo, indipendentemente dalle conseguenze. La conoscevo da quando ero nato, questa gente. Le donne erano amiche intime e fidate che si scambiavano confidenze e ricette, che si compiangevano a vicenda per telefono e badavano l’una ai bambini dell’altra e festeggiavano regolarmente i compleanni facendo le dodici miglia fino a Manhattan per vedere uno spettacolo di Broadway. Gli uomini avevano non soltanto lavorato per anni nello stesso ufficio della circoscrizione, ma si incontravano per giocare a pinnacolo le due sere al mese in cui le donne giocavano a mahjong, e di tanto in tanto, una domenica mattina, formavano una cornice e andavano alle vecchie saune di Mercer Street tirandosi dietro i ragazzi: guarda caso, i loro figli erano tutti maschi di un’età tra quella di Sandy e la mia. Il Decoration Day, il Quattro Luglio e il Labor Day le famiglie di solito organizzavano un picnic una decina di miglia a ovest del nostro quartiere, nella bucolica South Mountain Reservation, dove padri e figli lanciavano ferri di cavallo e facevano il tifo per le diverse squadre di softball e ascoltavano la partita alla radio portatile disturbata di qualcuno, lo sviluppo tecnologico più prodigioso che il nostro mondo conoscesse. I ragazzi non erano necessariamente i migliori degli amici, ma ci sentivamo legati dall’affiliazione dei nostri padri. Seldon era il meno robusto e il meno sicuro di tutti noi e, cosa che per lui doveva essere la più dolorosa, il meno fortunato, e tuttavia era con Seldon che io ero riuscito ad allearmi per il resto
dell’infanzia e probabilmente oltre. Seldon aveva cominciato a seguirmi con maggior accanimento da quando lui e sua madre avevano appreso del trasferimento, e io potevo solo pensare che, poiché saremmo stati gli unici due scolari ebrei in tutta la scuola elementare di Danville, avrei dovuto essere - per i cristiani di Danville non meno che per i nostri genitori - il suo alleato naturale e il suo compagno più fedele. L’onnipresenza di Seldon poteva non essere il peggio di ciò che mi aspettava nel Kentucky, ma nell’immaginazione di un bambino di nove anni figurava come una prova insopportabile e rendeva più forte la spinta a ribellarsi. In che modo? Ancora non lo sapevo. L’unica cosa che avevo provato fino ad allora era l’irritazione che precede l’ammutinamento, e per calmarla non avevo fatto altro che trovare una valigetta di cartone macchiato dall’umidità dimenticata in cantina sotto le borse e le valigie utilizzabili e, dopo averla ripulita della muffa dentro e fuori, nascondervi gli indumenti che toglievo di nascosto, uno per uno, dalla camera di Seldon ogni volta che mia madre mi obbligava a sopportare la mia ora al pianterreno come stizzito studente di scacchi. Avrei preso la mia roba da mettere nella valigia se non avessi saputo che mia madre avrebbe scoperto cosa mancava e io, prima o poi, avrei dovuto darle una spiegazione. Faceva ancora il bucato durante il weekend e metteva via la roba lavata - insieme a quella lavata a secco che toccava a me ritirare il sabato dal sarto - e così, stampato nella mente, aveva un inventario di ogni armadio che era completo fino alla posizione dell’ultimo paio di calzini. D’altra parte, rubare la roba di Seldon era uno scherzo, e una vendetta - per avermi fatto capire che io ero l’altro lato della sua personalità - che trovavo irresistibile. I calzini e la biancheria erano abbastanza facili da prelevare dall’appartamento dei Wishnow e da portare giù per la scala della cantina fino alla valigia nascosti sotto la canottiera. Rubare e nascondere un paio di calzoni, una camicia sportiva e un paio di scarpe rappresentò un problema più difficile, ma Seldon era abbastanza distratto perché il furto potesse essere compiuto e per qualche tempo passasse inosservato. Una volta messa insieme tutta la roba sua che mi serviva, non avrei saputo dire cosa pensavo di fare dopo. Io e lui avevamo più o meno la stessa taglia, e il pomeriggio in cui trovai il coraggio di nascondermi in cantina e cambiare la mia roba con quella di Seldon, non feci altro che stare là in piedi, mormorare: «Salve. Mi chiamo Seldon Wishnow» e sentirmi strano, e non soltanto perché Seldon era diventato così strano con me e io mi ero messo nei suoi panni, ma perché da tutto il mio trasgressivo gironzolare di nascosto per Newark - culminato in questa festa in costume nella cantina buia - era evidente che ero diventato molto più strano di lui. Un maniaco col suo corredo. Finirono nella valigia, sotto gli indumenti, anche i diciannove dollari e cinquanta avanzati dai venti dollari di Alvin. Poi mi rimisi in fretta la mia roba, ficcai la valigia di cartone sotto le altre borse e, prima che lo spettro furibondo del padre di Seldon potesse strangolarmi con la corda di un boia, corsi fuori nel vialetto e all’aria aperta. Nei due o tre giorni successivi riuscii a dimenticare quello che avevo nascosto e lo scopo imprecisato al quale doveva servire. Riuscii persino a considerare quest’ultima avventura come nulla di seriamente aberrante, e innocua come i pedinamenti dei cristiani che avevo fatto con
Earl, fino alla sera in cui mia madre dovette correre giù a tenere la mano della signora Wishnow, farle una tazza di tè e metterla a letto, tanto infelice e sconvolta era l’esausta madre di Seldon davanti al fatto che inspiegabilmente suo figlio stava «perdendo i vestiti.» Seldon intanto era su da noi, dove lo avevano mandato a fare i compiti con me. Era parecchio sconvolto pure lui. « Non li ho persi, - disse tra le lacrime. - Come potrei perdere un paio di scarpe? Come potrei perdere un paio di calzoni? » - Le passerà, - dissi io. - No, non a lei: a lei non passa mai niente. «Ci manderai all’ospizio», mi ha detto. Per mia madre ogni cosa è «l’ultima goccia.» - Forse li hai lasciati in palestra, - suggerii. - Com’è possibile? Come potrei uscire dalla palestra senza vestiti? - Seldon, in qualche posto devi averli lasciati. Pensaci. La mattina dopo, prima che io andassi a scuola e mia madre a lavorare, lei mi propose di regalare a Seldon uno dei miei vestiti per sostituire il suo che era sparito. C’è quella camicia che tu non porti mai... Quella dello zio Lenny che tu dici che è troppo verde. E il paio di calzoni di velluto a coste di Sandy, quelli marrone che non ti sono mai andati bene... Sono sicura che a Seldon andrebbero benissimo. La signora Wishnow è fuori di sé, e sarebbe un gesto davvero gentile da parte tua, - disse. - E le mutande? Vuoi dargli anche le mie mutande? Vuoi che me le tolga subito, mamma? - Non è necessario, - disse lei, sorridendo per calmare la mia irritazione. - Ma la camicia verde e i calzoni marroni di velluto a coste e magari una delle tue vecchie cinture che non usi... Devi decidere tu, ma vorrebbe dir molto per la signora Wishnow, e per Seldon sarebbe importantissimo. Seldon ti adora. Lo sai. Pensai immediatamente: «Lo sa. Sa cos’ho fatto. Sa tutto.» - Ma io non voglio che vada in giro con i miei vestiti, - dissi. – Non voglio che nel Kentucky dica a tutti: «Guardatemi, porto la roba di Roth.» - Perché non ti preoccupi del Kentucky quando e se ci andremo? - La porterà a scuola qui, mamma. - Si può sapere che cos’hai? - rispose lei. - Che ti ha preso? Stai diventando... - Anche tue ! scappai a scuola con i miei libri, e quando tornai a casa a mangiare, a mezzogiorno, tirai fuori dall’armadio in camera da letto la camicia verde che avevo sempre odiato e i calzoni di velluto a coste marrone che non mi erano mai andati bene e li portai giù a Seldon, che in cucina stava mangiando il sandwich lasciatogli da sua madre e giocando a scacchi da solo. - Ecco, - dissi, gettando la roba sul tavolo. - Ti regalo questi, - e poi gli dissi, per quello che serviva a cambiare la direzione delle nostre vite: - Ma almeno smettila di seguirmi! Per la cena, quando Sandy, Seldon e io tornammo dal cinema, c’erano dei sandwich avanzati della rosticceria. Gli adulti, che avevano mangiato nel soggiorno quando era finita la riunione, erano già andati tutti a casa, tranne la signora Wishnow,
che era seduta al tavolo della cucina con i pugni chiusi, sempre tormentata, sempre in lotta con tutto ciò che sembrava deciso a schiacciare lei e il suo ragazzo senza padre. Ascoltò, con noi tre, gli show radiofonici della domenica sera, e mentre mangiavamo guardò Seldon come un animale guarda il suo cucciolo quando ha fiutato il furtivo avvicinarsi di qualcosa. La signora Wishnow aveva lavato e asciugato i piatti e li aveva riposti nella credenza della dispensa, mia madre era nel soggiorno a scopare il tappeto e mio padre aveva raccolto e messo fuori la spazzatura e portato giù le sedie da bridge dei Wishnow per rimetterle in fondo all’armadio dove il signor Wishnow si era ucciso. L’odore del fumo di tabacco pervadeva la casa nonostante ogni finestra fosse stata spalancata e la cenere e le cicche fossero state buttate nel water e i portacenere di vetro fossero stati lavati, asciugati e accatastati nell’armadietto dei liquori della credenza (da cui quel pomeriggio non era uscita una sola bottiglia, né in sintonia con la prosaica temperanza praticata nella maggior parte delle case di quella prima industriosa generazione nata in America – una sola goccia era stata chiesta da un singolo invitato). Per il momento le nostre vite erano intatte, le nostre case erano in piedi e il comfort dei riti abituali era quasi abbastanza forte per non farmi perdere la pacifica illusione infantile di un presente eterno e immune da persecuzioni. C’era la radio che trasmetteva i nostri programmi preferiti, noi avevamo per cena sandwich gocciolanti di carne di manzo salata e una bella torta di caffè per dessert, avevamo davanti a noi la ripresa del tran-tran della settimana scolastica e un doppio programma alle spalle. Ma poiché non sapevamo cos’avevano deciso i nostri genitori per il futuro - non avevamo ancora modo di dire se Shepsie Tirschwell li aveva persuasi a emigrare in Canada, se il cugino Monroe aveva escogitato un’abbordabile manovra legale per contestare il piano di trasferimenti senza far licenziare nessuno, o se, dopo avere ponzato sui pro e contro di quella rimozione voluta dal governo con tutta la freddezza di cui disponevano, non avevano trovato alternativa all’accettare che le guarentigie della cittadinanza non erano più del tutto valide per loro -, l’abbraccio di quell’ambiente familiare non era l’orgia della domenica sera che sarebbe stato in tempi normali. Seldon aveva la faccia tutta coperta di senape quando attaccò avidamente il suo panino, e mi sorprese vedere sua madre allungare la mano per pulirgliela con un tovagliolo di carta,. Che lui la lasciasse fare mi sorprese ancora di più. Pensai: «E perché è senza padre», e anche se ormai lo pensavo per tutto ciò che lo riguardava, forse questa volta avevo ragione. Pensai: «Ecco come sarà nel Kentucky.» La famiglia Roth contro il mondo, e Seldon e sua madre per sempre a cena con noi. La nostra bellicosa voce di protesta, Walter Winchell, si fece udire alle nove. Tutti avevano atteso per più di una domenica sera che Winchell si scagliasse contro Homestead 42, e quando non lo fece mio padre cercò di calmare la propria agitazione sedendosi a scrivere una lettera per l’unico uomo a parte Roosevelt che considerasse l’ultima speranza dell’America. «Questo è un esperimento, signor Winchell. È così che ha fatto Hitler. I criminali nazisti cominciano con qualcosa di piccolo, e se la fanno franca, - scrisse, - se nessuno come lei lancia un grido d’allarme...», ma non
arrivò mai a elencare gli orrori che potevano seguire, perché mia madre era sicura che la lettera sarebbe finita nell’ufficio dell’Fbi. È indirizzata a Walter Winchell, ragionava, ma a Walter Winchell non arriverà mai... Alla posta la deviano verso l’Fbi e la mettono in una cartella con l’etichetta «Roth, Herman», da archiviare accanto alla cartella già esistente etichettata «Roth, Alvin.» Mio padre ribatté: - Mai. Non la posta degli Stati Uniti, - ma l’assennata replica di mia madre lo privò su due piedi del poco che gli restava della sua certezza. - Tu sei lì che scrivi a Winchell, - gli disse , stai dicendo che questa gente non si fermerà davanti a nulla, quando sapranno di poterla fare franca. E ora stai cercando di dire a me che non possono fare quello che vogliono con la posta? Lascia che a Walter Winchell scriva qualcun altro. I nostri figli sono già stati interrogati dall’Fbi. L’Fbi ci sta già sorvegliando dalla mattina alla sera a causa di quello che ha fatto Alvin. - Ma è proprio per questo che gli scrivo, - disse lui. - Che altro dovrei fare? Che altro posso fare? Se tu lo sai, consigliami. Dovrei semplicemente stare qui seduto ad aspettare il peggio? Nel suo impotente smarrimento lei vide la sua occasione e, non perché fosse insensibile ma perché era disperata, la colse e così facendo lo umiliò ancora di più. Tu mica lo vedi, Shepsie, là seduto a scrivere lettere e ad aspettare il peggio, - disse. No, - rispose lui, - no, ancora il Canada! - come se Canada fosse il nome di un’insidiosa malattia che ci stava debilitando tutti. - Non voglio sentirne parlare. Il Canada - le disse in tono fermo - non è una soluzione. - È l’unica soluzione, - lo scongiurò lei. - Io non scappo via! - gridò lui, spaventando tutti. - Questa è la nostra patria! - No, - disse tristemente mia madre, - non più. È la patria di Lindbergh. È la patria dei goyim. È la loro patria, - disse, e la sua voce rotta e quelle parole impressionanti e l’immediatezza da incubo di ciò che era spietatamente reale costrinsero mio padre, un uomo nel fiore degli anni, forte, concentrato e difficilmente scoraggiabile come tutti gli altri uomini della sua età, a vedersi con mortificante chiarezza: un padre devoto di titanica energia non più capace di proteggere dal male la sua famiglia di quanto lo fosse il signor Wishnow penzolante, già morto, nell’armadio. A Sandy - ancora silenziosamente inferocito dall’ingiustizia di essere stato spogliato della sua precoce importanza non sembravano altro che due stupidi, e quando mio fratello era solo con me non esitava a parlare di loro nella lingua che aveva appreso dalla zia Evelyn. «Ebrei ghettizzati, - diceva Sandy, - ebrei ghettizzati, impauriti e paranoici.» In casa sghignazzava di quasi tutto quello che dicevano, di ogni argomento, e poi mi scherniva quando apparivo scettico davanti alla sua asprezza. Forse aveva già cominciato a divertirsi veramente a sghignazzare, e forse anche in tempi normali i nostri genitori si sarebbero trovati nella necessità di tollerare meglio che potevano la sprezzante derisione di un adolescente ribelle, ma nel 1942 ciò che lo rendeva più che meramente esasperante era il dramma ambiguamente minaccioso per tutta la durata del quale Sandy avrebbe continuato a denigrarli apertamente. - Cosa vuol dire «paranoico?» - gli chiesi.
- Uno che ha paura della sua ombra. Uno che crede che il mondo intero sia contro di lui. Uno che crede che il Kentucky sia in Germania e che il presidente degli Stati Uniti sia un nazista delle sa. Questa gente... - disse, imitando la nostra capziosa zietta quando voleva sdegnosamente distinguersi dalla feccia ebraica. - Ti offri di pagargli le spese del trasloco, ti offri di aprire le porte ai loro figli... Sai cosa vuol dire paranoico? - disse Sandy. - Paranoico vuol dire suonato. Quelli sono matti tutt’e due... Sono fuori di testa. E sai cos’è che li ha fatti ammattire? La risposta era Lindbergh, ma non ebbi il coraggio di dirglielo. - Cosa? domandai. - Vivere come un mucchio di immigrati di fresco in un ghetto, maledizione! Sai come la zia Evelyn dice che lo chiama il rabbino Bengelsdorf? - Come chiama cosa? - Il modo di vivere di questa gente. Lo chiama così: «Essere fedeli alla certezza del travaglio ebraico.» - E cosa dovrebbe significare? Non capisco. Traduci, per piacere. Cosa vuol dire «travaglio?» - Travaglio? Il travaglio è quello che voi ebrei chiamate tsurìs. I Wishnow erano ridiscesi e Sandy era andato in cucina a finire i compiti quando i miei genitori, nella stanza sul davanti, accesero la radio del soggiorno per ascoltare Walter Winchell. Io ero a letto con la luce spenta: non volevo più sentire da nessuno una sola parola atterrita su Lindbergh, Von Ribbentrop o Danville nel Kentucky, e non volevo più pensare al mio futuro con Seldon. Volevo solo sparire nel sonno che dà l’oblio e svegliarmi la mattina in un altro posto. Ma poiché era una notte calda e le finestre erano spalancate, non potei fare a meno, alle nove in punto, di essere assalito, praticamente da ogni punto cardinale, dal famoso marchio di fabbrica radiofonico di Winchell: il ticchettio di punti e linee di un telegrafo che trasmetteva nel codice Morse (Sandy me lo aveva insegnato) un messaggio che non significava assolutamente nulla. E poi, sopra lo strepito in calando del telegrafo, la folata rovente dello stesso Winchell che arrivava da tutte le case dell’isolato. «Buonasera, signor America e signora...», seguita dal fuoco di sbarramento di quelle parole lungamente attese: finalmente il benefico staffile di Winchell che avrebbe cambiato tutto. In tempi normali, quando in genere era nei poteri di mia madre e di mio padre sistemare le cose e spiegare una parte dell’ignoto abbastanza grande da far sembrare razionale l’esistenza, le cose non erano affatto così, ma per via di quel presente esasperante Winchell era diventato, anche per me, un dio in piena regola, e di gran lunga più importante di Adonai. «Buonasera, signor America e signora e tutte le navi in alto mare. Andiamo in macchina! Notizia lampo! Con grande gioia di quel muso da topo di Joe Goebbels e del suo capo, il Macellaio di Berlino, è iniziata ufficialmente la designazione degli ebrei americani come bersaglio da parte dei fascisti di Lindbergh. Il nome fittizio della prima fase della persecuzione organizzata degli ebrei nella terra dei liberi è "Homestead 42". Homestead 42 è sponsorizzato, con un concorso in reato e favoreggiamento, dai più rispettabili dei baroni ladri d’America... Ma non temete,
saranno ricompensati con grosse riduzioni fiscali dagli scagnozzi repubblicani di Lindbergh nel prossimo Congresso pro-avidità. «Notizia lampo: I due principali leccasvastica di Lindbergh, il vicepresidente Wheeler e il ministro degli Interni Henry Ford, devono ancora decidere se gli ebrei di Homestead finiranno in campi di concentramento hitleriani tipo Buchenwald. Ho detto "se"? Chiedo scusa, il mio tedesco non è tanto buono. Volevo dire "quando". » «Altra notizia lampo: Duecentoventicinque famiglie ebraiche hanno già ricevuto l’ordine di lasciare le città del Nordest americano per essere spedite a migliaia di miglia da familiari e amici. Questa prima spedizione è stata tenuta strategicamente piccola per farla sfuggire all’attenzione nazionale. Perché? Perché segna il principio della fine per i quattro milioni e mezzo di cittadini americani di origine ebraica. Gli ebrei saranno sparpagliati in lungo e in largo là dove impazzano i filo-hitleriani di America First. Là i destrorsi sabotatori della democrazia - i cosiddetti patrioti e i cosiddetti cristiani – potranno essere sguinzagliati nottetempo contro queste isolate famiglie ebraiche. » «E a chi tocca, signor America e signora, ora che il Bill of Rights non è più la legge del paese e i razzisti mandano avanti la baracca? A chi tocca nei progetti di pogrom Wheeler Ford per una persecuzione finanziata dal governo? Ai negri, che soffrono già da tanto tempo? Ai laboriosi italiani? Agli ultimi dei mohicani? Chi altro di noi non è più gradito nell’America ariana di Adolf Lindbergh? » «Notizia in esclusiva! Il vostro reporter ha appreso che Homestead 42 è stato messo in cantiere il 20 gennaio 1941, il giorno in cui il Nuovo Ordine Fascista Americano ha mandato i suoi sgherri alla Casa Bianca, ed è stato firmato in occasione della svendita islandese tra il Fùhrer americano e il suo complice nazista. » «Altra notizia in esclusiva! Il vostro reporter ha appreso che solo in cambio del graduale trasferimento - e della finale incarcerazione generale - degli ebrei d’America da parte degli ariani di Lindbergh Hitler accetterebbe di risparmiare le isole britanniche da una massiccia invasione armata attraverso la Manica. In Islanda i due amati Fùhrer hanno riconosciuto che massacrare dei genuini ariani con gli occhi azzurri e i capelli biondi non aveva senso, se proprio non c’eri obbligato. E non è una sorpresa che Hitler sarà costretto a farlo, se il Partito fascista inglese di Oswald Mosley non riunirà ad assumere il controllo dittatoriale del 10 di Downing Street prima del 1944. Ecco quando la razza padrona prevede di portare a termine la riduzione in schiavitù nazista di trecento milioni di russi e di alzare la svastica sopra il Cremlino moscovita. » «E per quanto tempo il popolo americano tollererà questo tradimento perpetrato dal presidente eletto? Per quanto tempo gli americani continueranno a dormire mentre la loro amata costituzione viene fatta a pezzi dalla quinta colonna fascista della destra repubblicana in marcia sotto il segno della croce e della bandiera? Restate con me, col vostro corrispondente da New York Walter Winchell, per la prossima notizia bomba sulle proditorie menzogne di Lindbergh. "Sarò di ritorno in un lampo con una notizia lampo!» Poi accaddero tre cose contemporaneamente: la voce suadente dell’annunciatore Ben Grauer cominciò a tessere gli elogi della lozione
per le mani Jergens, sponsor del programma; il telefono si mise a squillare nell’ingresso, fuori dalla porta della mia camera da letto, come non faceva mai dopo le nove di sera; e Sandy esplose. Rivolto solo alla radio (ma con tanto calore che mio padre fu costretto ad alzarsi di colpo dalla sua poltrona nel soggiorno), cominciò a urlare: - Sporco bugiardo! Stronzo d’un cacciaballe! » - Ehi, - disse mio padre precipitandosi in cucina. - Non in questa casa. Non quelle parole. Basta così. - Ma come potete ascoltare queste cazzate? Quali campi di concentramento? Non ci sono campi di concentramento! Ogni parola è una bugia... Balle su balle perché voi vi sentiate in sintonia! Tutto il paese sa che Winchell è un pallone gonfiato... Gli unici a non saperlo siete voi. - E noi chi saremmo, esattamente? - sentii mio padre dire. - Io ci sono stato, nel Kentucky! Il Kentucky è uno dei quarantotto stati d’America! Ci vivono degli esseri umani come tutti gli altri! Non è un campo di concentramento! Quest’uomo guadagna milioni di dollari vendendo la sua merdosa lozione per le mani... E voi gli credete! - Ti ho già detto di moderare le parole, e ora ti dirò di questa storia di «voi» e «voi» e «voi.» Ancora un altro «voi» figliolo, e ti chiederò di lasciare questa casa. Se vuoi andare a vivere nel Kentucky anziché qui, ti accompagno alla Penn Station e puoi prendere il primo treno in partenza. Perché io so benissimo cosa significa questo «voi.» È lo sai anche tu. Lo sanno tutti. Non usare mai più quella parola in questa casa. - Be’, per me Walter Winchell dice un sacco di fesserie. - Benedisse , mio padre. - È la tua opinione, e hai il diritto di averla. Ma altri americani la pensano diversamente. Così, guarda caso, milioni e milioni di americani ascoltano Walter Winchell ogni domenica sera... E non soltanto quelli che tu e la tua brillante zietta chiamate «voi.» Il suo programma è ancora il più ascoltato programma giornalistico radiofonico. Franklin Roosevelt confidava a Walter Winchell cose che non avrebbe mai detto a un altro giornalista. E ascoltami, ti spiace?.. Questi sono fatti. - Ma non posso ascoltarti. Come faccio ad ascoltarti quando mi parli di «milioni» di persone? Milioni di persone non sono altro che milioni di idioti! Intanto mia madre aveva risposto al telefono nell’ingresso, e ora dal mio letto si poteva sentir parlare anche lei. Sì, diceva, certo che stavano ascoltando Winchell. Sì, era terribile, era peggio di quello che pensassero, ma ora almeno era tutto squadernato sotto gli occhi della gente. Sì, Herman avrebbe telefonato appena fosse finito il programma di Winchell. Quattro volte consecutive rispose in questo modo, ma quando il telefono squillò per la quinta volta non corse più a rispondere, anche se a chiamare doveva essere un altro dei loro amici scossi dalla raffica di rivelazioni di Winchell: non rispose perché era finita la pubblicità e lei e mio padre erano tornati ad ascoltare la radio nel soggiorno. E ora Sandy era nella nostra camera, dove io fingevo di dormire mentre lui si preparava per andare a letto vicino alla lampada sul comodino, la piccola
lampada con l’interruttore a pompetta che aveva fabbricato con materiale di fortuna durante le lezioni di officina quando era ancora solo un ragazzo dal temperamento artistico affascinato da ciò che poteva fare con le sue abili mani e beatamente incontaminato dalle battaglie ideologiche. Il nostro telefono non era mai stato usato in un modo così incessante, e così tardi, dal giorno della morte di mia nonna un paio di anni prima. Erano quasi le undici quando mio padre finì di rispondere a tutti, e un’altra ora passò prima che i miei genitori lasciassero la cucina, dov’erano rimasti a conversare sommessamente, e andassero a letto anche loro. E altre due ore passarono prima che io potessi essere certo che dormivano profondamente e che, nel letto di fianco al mio, mio fratello non fissava più il soffitto con aria torva ma dormiva pure lui, e che potevo alzarmi tranquillamente senza essere scoperto e andare fino alla porta di dietro e aprire il catenaccio e sgattaiolare fuori dall’appartamento e scendere a passi felpati la scala della cantina e, al buio, dirigermi a piedi nudi attraverso il pavimento umido fino al nostro ripostiglio. Non c’era nulla d’impulsivo né d’isterico che mi spingeva a farlo, nulla di melodrammatico nella mia decisione, nulla di avventato, ch’io vedessi. La gente disse, dopo, che non sospettava che sotto quella patina di obbedienza e buona educazione da scolaretto di quarta elementare io potessi essere un bambino così sorprendente, irresponsabile e sognatore. Ma questo non era un futile sogno a occhi aperti. Non giocavo a «facciamo finta che...», e non facevo marachelle per il gusto di farle. Tirate le somme, le marachelle fatte con Earl Axman erano state un prezioso allenamento, ma erano state intraprese per uno scopo completamente diverso. Di sicuro io non mi sentivo come se stessi precipitando a capofitto nella follia, nemmeno quando entrai in quel vano buio per togliermi il pigiama e infilarmi i calzoni di Seldon, mentre al tempo stesso respingevo mentalmente lo spettro di suo padre e cercavo di non farmi spaventare dalla sedia a rotelle vuota di Alvin. A inghiottirmi era soltanto la decisione di oppormi a un disastro che la nostra famiglia e i nostri amici non potevano più eludere e al quale avrebbero potuto non scampare. Più tardi i miei genitori dissero: «Non sapeva quello che faceva», e «sonnambulismo» diventò la spiegazione ufficiale. Ma io ero perfettamente sveglio, e la mia motivazione non mi fu mai oscura. L’unica cosa oscura era se sarei riuscito nell’impresa. Uno dei miei insegnanti insinuò che soffrivo di «manie di grandezza» ispirate da quello che stavo imparando a scuola sulla Underground Railroad, organizzata prima della Guerra Civile per aiutare gli schiavi a raggiungere il Nord e la libertà. Non era così. Io non ero affatto come Sandy, in cui l’opportunismo aveva attizzato il desiderio di essere un ragazzo su vasta scala, ritto sulla cresta della storia. Io non volevo aver niente a che fare con la storia. Io volevo essere un ragazzo nella scala più piccola possibile. Volevo essere un orfano. C’era solo una cosa che non potevo lasciarmi dietro: l’album dei francobolli. Forse, se avessi potuto essere certo che l’avrebbero conservato così com’era dopo la mia scomparsa, non mi sarei fermato, all’ultimo momento, mentre uscivo dalla camera da letto, ad aprire il mio cassetto del comò e, il più silenziosamente possibile, a toglierlo da dove lo tenevo sotto i calzini e la
biancheria. Ma era intollerabile pensare al mio album fatto a pezzi o buttato via o, peggio ancora, regalato assolutamente intatto a un altro ragazzo, e allora me lo misi sottobraccio, e con esso il tagliacarte a forma di moschetto che avevo comprato a Mount Vernon la cui baionetta appuntita usavo per aprire ordinatamente la sola posta che mi fosse mai stata indirizzata, a parte i biglietti di auguri per i compleanni: i «foglietti» inviati regolarmente in esame da Boston 17, Massachusetts, da parte della «società filatelica più grande del mondo», la H. E. Harris & Co. Non ricordo nulla del tempo che passò tra la mia uscita furtiva dalla casa con relativa camminata lungo la strada deserta verso il parco dell’orfanotrofio e il mio risveglio dell’indomani davanti alle facce scure dei miei genitori ai piedi del letto e al dottore che, sfilandomi una specie di tubo dal naso, mi diceva che ero un paziente del Beth Israel Hospital e che, anche se forse in quel momento avevo un tremendo mal di testa, presto sarei stato benone. La testa mi doleva atrocemente, ma non per un embolo che premesse sul cervello - possibilità che avevano temuto quando mi avevano Covato sanguinante e privo di sensi -, e non perché ci fosse qualche lesione cerebrale. Le radiografie avevano escluso una frattura cranica e la visita neurologica non mostrava lesioni ai nervi. A parte una lacerazione di sette centimetri che richiese diciotto punti, tolti la settimana dopo, e a parte il fatto che non ricordavo nulla della botta subita, non avevo niente di grave. Una normalissima commozione, disse il medico: ecco la causa del dolore, nonché dell’amnesia. Probabilmente non mi sarei mai ricordato di aver preso un calcio da un cavallo - o della serie di avvenimenti che avevano portato a quella collisione - ma il dottore disse che anche questo era normale. Per il resto, la mia memoria era intatta. Fortunatamente. Usò parecchie volte quella parola, che nella mia testa indolenzita sembrava ridicola. Mi tennero in osservazione per tutto il giorno e tutta la notte - svegliandomi quasi ogni ora per essere sicuri che non tornassi a scivolare nell’incoscienza -, e la mattina dopo mi dimisero consigliandomi semplicemente di andarci piano con le attività fisiche per una settimana o due. Mia madre aveva chiesto un permesso per stare con me all’ospedale ed era lì per accompagnarmi a casa in autobus. Poiché la testa non cessò di farmi male per una decina di giorni, e poiché non potevamo farci niente, mi tennero a casa da scuola, ma per il resto dicevano che stavo bene, e bene in primo luogo grazie a Seldon, che da lontano aveva assistito a quasi tutto ciò che io non ero in grado di ricordare. Se Seldon non fosse sgattaiolato fuori dal letto quando mi aveva sentito scendere le scale di dietro, se al buio non mi avesse seguito lungo Summit Avenue e attraverso il campo sportivo del liceo fino al lato dell’orfanotrofio di Goldsmith Avenue e oltre il cancello aperto all’interno del parco, probabilmente sarei rimasto là disteso nei suoi panni, privo di sensi, fino a morire dissanguato. Seldon tornò indietro di corsa, svegliò i miei genitori, che telefonarono immediatamente al centralino per chiedere aiuto, e salì sulla nostra macchina con loro e li guidò proprio fino al punto dove mi trovavo. Erano quasi le tre del mattino, in quel momento, ed era buio pesto; inginocchiandosi sul terreno umido accanto a me, mia madre mi premette sulla testa l’asciugamano che aveva portato con sé per a restare l’emorragia mentre mio padre mi buttava addosso una vecchia coperta da
picnic che era nel baule della macchina e mi tenne caldo fino all’arrivo dell’ambulanza. I miei genitori organizzarono il mio salvataggio, ma Seldon Wishnow mi salvò la vita. A quanto pare, avevo spaventato i due cavalli allorché, disorientato, mi misi a barcollare nelle tenebre dove il bosco si allargava davanti all’orto, e quando mi voltai per cercare di sfuggire ai cavalli e di tornare sulla strada attraverso il bosco uno di essi s’impennò, io inciampai e caddi, e l’altro cavallo, fuggendo, mi colpì con uno zoccolo alla nuca. Per settimane Seldon narrò tutto eccitato (a me e, ovviamente, a tutta la scuola) ogni dettaglio del mio tentativo notturno di scappare di casa e farmi accogliere dalle suore come un bambino senza famiglia: assaporando particolarmente, nel racconto, la mia disavventura con i cavalli, oltre al fatto che, uscito nel cuore della notte, a piedi nudi e in pigiama, lui aveva attraversato per due volte il miglio di terreno accidentato tra il parco dell’orfanotrofio e la nostra casa. Diversamente da sua madre e dai miei genitori, Seldon stentò a riaversi dall’emozione di scoprire che non era stato lui a «perdere» inspiegabilmente la sua roba, ma io a rubargliela per utilizzarla nella fuga. Questa cosa assolutamente inverosimile attribuì alla sua esistenza, come non era mai successo, un valore che prima era sfuggito alla sua attenzione. Narrare la storia con tutto il prestigio del salvatore e insieme del congiurato - e mostrare i piedi graffiati a chiunque avesse voluto vederli - sembrò rendere Seldon importante, finalmente, anche ai suoi occhi, trasformandolo in uno scavezzacollo capace di attirare per la prima volta in vita sua l’attenzione che spetta agli eroi, mentre io ero devastato, non soltanto dalla vergogna di tutto l’insieme, che fu più insopportabile e durò più a lungo del mal di testa, ma perché il mio album dei francobolli, il mio tesoro più grande, senza il quale non avrei potuto vivere, era sparito. Non ricordai di averlo portato con me fino al giorno in cui, tornato a casa e alzatomi la mattina per vestirmi, vidi che non era sotto i calzini e la biancheria. Se lo tenevo lì era, anzitutto, perché fosse la prima cosa che vedevo ogni mattina mentre mi vestivo per andare a scuola. E ora la prima cosa che vidi la prima mattina che passai a casa fu che la cosa più grande che avessi mai avuto era sparita. Sparita e insostituibile. Come - e del tutto diversa dal - perdere una gamba. - Mamma! - urlai. - Mamma! È successa una cosa terribile! - Cosa? - gridò lei, e venne di corsa dalla cucina nella mia stanza. - Che succede? Credeva, naturalmente, che la mia ferita avesse ripreso a sanguinare o che io stessi per svenire o che il mal di testa fosse diventato insopportabile. - I miei francobolli! - Fu tutto ciò che riuscii a dire, e lei poté immaginare il resto. Quello che fece dopo fu andarli a cercare. Tutta sola, entrò nel bosco dell’orfanotrofio e frugò tra i cespugli dove mi avevano trovato, ma non riuscì a scovare l’album in nessun posto: non trovò nemmeno un francobollo. - Sei sicuro che li avevi? - chiese quando tornò a casa. - Sì! Sì! Sono là! Devono essere là! Non posso perdere i miei francobolli! - Ma ho guardato bene. Ho guardato dappertutto. - Chi potrebbe averli presi? Dove potrebbero essere? Sono miei! Dobbiamo trovarli! Sono i miei francobolli!
Ero inconsolabile. Vedevo davanti a me un’orda di orfanelli che notavano l’album nel bosco e lo facevano a pezzi con le loro mani sporche. Li vedevo strappare i francobolli e mangiarseli e calpestarli e buttarli a manciate nel water del loro orribile bagno. Odiavano l’album perché non era loro... Odiavano l’album perché non c’era nulla che fosse di loro proprietà. Poiché la pregai di fare così, mia madre non disse né a mio padre né a mio fratello che fine avevano fatto i miei francobolli, e non parlò dei soldi scoperti nei calzoni di Seldon. - Nella tasca, quando ti abbiamo trovato, c’erano diciannove dollari e cinquanta cent. Non so da dove vengono e non lo voglio sapere. Quell’episodio è un capitolo chiuso. Ti ho aperto un libretto di risparmio alla Howard Savings Bank. Te li ho depositati per il tuo avvenire -. Qui mi porse un libretto di banca col mio nome dentro e la scritta «$19,50», la prima e unica annotazione stampata in nero sulla pagina dei depositi. - Grazie, - dissi. E lei allora formulò sul suo secondogenito il giudizio che, credo, si è portata nella tomba. «Tu sei il bambino più strano del mondo, - mi disse. - Impensabile, - disse. - Non mi aveva mai sfiorato» -. E poi mi porse il tagliacarte, il moschetto di peltro in miniatura di Mount Vernon. Il calcio era graffiato e sporco e la baionetta un po’ storta. Lo aveva trovato quel pomeriggio allorché, a mia insaputa, aveva fatto una scappata all’ora di pranzo ed era andata per la seconda volta a perlustrare il terreno nel bosco dell’orfanotrofio in cerca dei minimi resti della collezione di francobolli che si era dissolta nel nulla.
CAPITOLO 7 GIUGNO 1942 - OTTOBRE 1942 I disordini di Winchell Il giorno prima di scoprire che i miei francobolli erano spariti avevo appreso della decisione di mio padre di lasciare il suo lavoro. Solo qualche minuto dopo il mio ritorno a casa dall’ospedale, martedì mattina, arrivò a casa ed entrò nel vialetto sul camion con le fiancate di stecche di legno dello zio Monty e ve lo parcheggiò dietro la macchina della signora Wishnow, avendo appena finito la sua prima notte di lavoro al mercato di Miller Street. Da allora in poi, dalla domenica sera al venerdì mattina, era tornato a casa alle nove, alle dieci antimeridiane, si era lavato, aveva consumato il suo pasto principale, era andato a letto e si era addormentato prima delle undici, e quando io tornavo da scuola dovevo stare attento a non sbattere la porta e a non svegliarlo. Poco prima delle cinque del pomeriggio si alzava e usciva, perché tra le sei e le sette gli agricoltori cominciavano ad arrivare al mercato con i loro prodotti, e poi dalle dieci alle quattro del mattino venivano a comprare i dettaglianti, insieme ai padroni dei ristoranti e agli albergatori e agli ultimi venditori ambulanti della città. Sopravviveva alla lunga notte grazie al thermos di caffè e alla coppia di sandwich che mia madre gli aveva preparato da portare via. La domenica mattina andava a trovare sua madre dallo zio Monty o Monty la portava a farci visita, e passava il resto della domenica a dormire, e di nuovo si doveva fare silenzio per non disturbarlo. Era una vita dura, anche perché ogni tanto doveva prendere il camion e andare ben prima dell’alba dagli agricoltori delle contee di Passaic e Union a prendere da solo la frutta e la verdura, se così facevano allo zio Monty migliori condizioni. Sapevo che era una vita dura perché quando rientrava la mattina beveva qualcosa. Di solito in casa nostra una bottiglia di Four Roses durava anni. Mia madre, una caricatura dell’astemio, non sopportava la vista di un bicchiere di birra spumeggiante, e tantomeno l’odore del whiskey liscio, e quando mai mio padre aveva bevuto qualcosa, se non per il loro anniversario o quando il suo capo veniva a cena e lui gli offriva un Four Roses on the rocks? Ma ora tornava dal mercato e, prima di cambiarsi e fare una doccia, versava il whiskey in un bicchierino, rovesciava la testa all’indietro e lo buttava giù in un sorso, facendo la faccia di un uomo che ha appena affondato i denti in una lampadina. «Buono! - diceva ad alta voce. - Buono!» Solo allora poteva rilassarsi quanto bastava per consumare un intero pasto senza fare indigestione. Io ero sbalordito, e non soltanto dal brusco declino nello status professionale di mio padre - non soltanto dal camion nel vialetto e dagli scarponi con la suola grossa ai piedi di un uomo che prima andava a lavorare con la giacca, la cravatta e le scarpe lucide, non soltanto dall’assurdità del liquore che ingollava e della cena che consumava solo soletto alle dieci del mattino - ma anche da mio fratello, dalla sua imprevista trasformazione.
Sandy non era più rabbioso. Non era più sprezzante. Non aveva più, nel modo più assoluto, un’aria di superiorità. Era come se anche lui avesse preso una botta in testa, ma una botta che, invece di provocare un’amnesia, aveva fatto rivivere il ragazzo tranquillo e coscienzioso le cui soddisfazioni provenivano non dall’essere un precoce pezzo grosso pieno di idee ostili, ma dal flusso forte e regolare di una vita interiore che lo portava misuratamente dalla mattina alla sera e che, ai miei occhi, lo aveva sempre reso genuinamente superiore agli altri ragazzi della sua età. O forse era che la passione per la celebrità - insieme alla capacità di lottare - si era esaurita; forse non aveva mai avuto l’egoismo necessario, e si sentiva segretamente sollevato alla prospettiva di non dover più essere pubblicamente stupendo. O forse non aveva mai creduto veramente nelle cose alle quali avrebbe dovuto fare propaganda. O forse, mentre io giacevo privo di sensi all’ospedale con un ematoma che poteva essere mortale, mio padre gli aveva fatto una ramanzina che aveva funzionato. O forse, nella scia della crisi che io avevo fatto precipitare, nascondeva solamente la sua stupenda personalità dietro il vecchio Sandy, mascherando, calcolando, aspettando astutamente nel proprio nascondiglio che... che succedesse chissà diavolo cosa. In ogni modo, per ora lo shock prodotto dalle circostanze aveva ricondotto mio fratello all’ovile familiare. E mia madre non era più una donna che lavorava. Nel conto della banca di Montreal non c’era quello che aveva sperato di accumulare, ma abbastanza per permetterci di varcare la frontiera e stabilirci in Canada, se avessimo dovuto fuggire con un brevissimo preavviso. Aveva lasciato il posto da Hahne non meno speditamente di mio padre quando si era liberato della sicurezza dei suoi dodici anni di lavoro con la Metropolitan per sventare i piani del governo che contemplavano il nostro trasferimento nel Kentucky e difenderci da quel trucco antisemita che era Homestead 42, come sapevano benissimo sia lui sia Walter Winchell. Era tornata a governare la casa a tempo pieno e ancora una volta sarebbe stata lì quando fossimo rientrati per il pranzo e tornati a casa da scuola, e durante le vacanze estive sarebbe stata lì a controllare Sandy e me affinché non uscissimo di carreggiata per mancanza di supervisione. Un padre rifatto, un fratello restaurato, una madre riacquistata, diciotto neri punti di sutura cuciti alla mia testa e il mio tesoro più grande irrimediabilmente perduto, e il tutto con una rapidità prodigiosa e fiabesca. Una famiglia declassata e ripiantata dalla sera alla mattina, che non era di fronte né all’esilio né all’espulsione ma ancora trincerata in Summit Avenue, mentre nel breve giro di tre mesi Seldon - al quale ero fatalmente aggiogato ora che andava in giro per il quartiere gloriandosi del fatto che mi aveva impedito di morire dissanguato mentre mi ero travestito con la sua roba -, Seldon sarebbe partito. Dal 1° settembre Seldon sarebbe andato a vivere altrove con sua madre, unico bambino ebreo a Danville, nel Kentucky. Il mio «sonnambulismo» avrebbe forse provocato nel nostro ambiente uno scandalo ancora più umiliante di quello che provocò se Walter Winchell non fosse stato licenziato dalla Lozione Jergens, sponsor del suo programma, solo qualche ora dopo la fine della trasmissione la domenica sera in cui scappai. Questa era la notizia veramente scandalosa alla quale
nessuno poteva credere e che Winchell non aveva alcuna intenzione di far dimenticare. Dopo dieci anni come principale giornalista radiofonico d’America, alle nove della domenica successiva venne rimpiazzato dall’ennesima orchestra da ballo che andava in onda dall’ennesimo club di lusso sulla terrazza di un albergo nel centro di Manhattan. La prima accusa della Jergens contro di lui era che un giornalista con un pubblico nazionale settimanale di oltre venticinque milioni di ascoltatori aveva in sostanza «gridato "Al fuoco!" in un teatro affollato»; la seconda era che aveva calunniato un presidente degli Stati Uniti con malevole accuse «che soltanto il più oltraggioso demagogo avrebbe escogitato per suscitare l’indignazione della gente.» Persino il moderato «New York Times», giornale fondato dagli ebrei e di loro proprietà - e per tale motivo molto stimato da mio padre – e tutt’altro che favorevole alla politica di Lindbergh verso la Germania hitleriana, annunciò il proprio sostegno incondizionato all’azione intrapresa dalla Lozione Jergens in un editoriale intitolato Una vergogna professionale. «Da qualche tempo tra gli attivisti anti-Lindbergh è in corso una gara», scrisse il «Times», per determinare chi è capace di fornire le spiegazioni più offensive dell’operato dell’amministrazione Lindbergh. Con un enfatico passo avanti, Walter Winchell è passato in testa al gruppo. I pochi scrupoli e il gusto discutibile di Winchell sono degenerati in un attacco al vetriolo tanto imperdonabile quanto immorale. Con accuse talmente stiracchiate che potrebbero spingere anche il democratico più incallito a provare un’inattesa simpatia per il presidente, Winchell si è irrimediabilmente screditato. La Lozione Jergens va elogiata per la rapidità con cui lo ha tolto dall’etere. Il giornalismo praticato dai Walter Winchell di questo paese è un’offesa tanto alla nostra illuminata cittadinanza quanto ai criteri giornalistici di precisione, correttezza e responsabilità verso i quali Winchell, le ciniche coorti dei giornali popolari e i loro avidi editori hanno sempre mostrato il massimo disprezzo. In un attacco successivo sferrato per conto dell’amministrazione Lindbergh e pubblicato dal «Times» come la prima e la più lunga delle lettere provocate dal suo editoriale, un illustre corrispondente, dopo avere ringraziato per l’editoriale e rafforzato la sua argomentazione con altri esempi dell’ostentato abuso del Primo Emendamento da parte di Winchell, concludeva: «Il tentativo di infiammare e spaventare i suoi correligionari non è meno detestabile della sua mancanza di riguardo per le norme del vivere civile che il vostro giornale condanna con tanta energia. Sicuramente, non c’è nulla di così odioso come approfittare delle storiche paure di un popolo perseguitato, specie quando la totale partecipazione a una società aperta libera dall’oppressione è proprio quello che l’attuale amministrazione sta cercando di ottenere per questo stesso gruppo grazie agli sforzi dell’Ufficio per l’Assimilazione Americana. Che Walter Winchell caratterizzi Homestead 42, un programma destinato ad allargare e arricchire la partecipazione alla vita nazionale degli orgogliosi cittadini ebrei d’America, come una strategia fascista per isolare gli ebrei ed escluderli dalla vita nazionale è il colmo dell’incoscienza giornalistica e un esempio della tecnica della Grossa Bugia che oggi è, dappertutto, la più grande minaccia alla libertà democratica.»
La lettera era firmata «Rabbino Lionel Bengelsdorf, Direttore dell’Ufficio per l’Assimilazione Americana, Ministero degli Interni, Washington, D.C..» La risposta di Winchell arrivò nella rubrica che teneva per il «Daily Mirror», il giornale di New York appartenente al più ricco editore americano, William Randolph Hearst, il quale possedeva una catena di una trentina di giornali di destra, una mezza dozzina di riviste popolari e la King Features, dove Winchell era consorziato e letto da molti altri milioni di americani. Hearst disprezzava le idee politiche di Winchell, specie la sua glorificazione di FDR, e lo avrebbe licenziato già da qualche anno se non fosse stato che proprio i lettori di New York, dove il «Mirror» gareggiava contro il «Daily News», trovavano irresistibile il fascino un po’ teppistico del singolare cocktail di provocatorio scandalismo e smaccato patriottismo del columnist. Secondo Winchell, la ragione per cui Hearst alla fine lo aveva licenziato c’entrava meno con la vecchia animosità tra il columnist e il suo editore che con le pressioni della Casa Bianca, pressioni alle quali nemmeno un vecchio e spietato magnate potente come Hearst osava opporsi per paura delle conseguenze. «I fascisti di Lindbergh - così iniziava la rubrica di quell’ostinata faccia di bronzo di Winchell due o tre giorni dopo che il giornalista aveva perso il contratto con la radio - hanno cominciato apertamente il loro attacco nazista alla libertà di espressione. Oggi Winchell è il nemico da ridurre al silenzio... Winchell "il guerrafondaio", "il bugiardo", "l’allarmista", "il comunista", "l’ebreo". Oggi tocca al vostro affezionato, domani a tutti i giornalisti della radio e della carta stampata che oseranno dire la verità sulla congiura fascista per distruggere la democrazia americana. Gli ariani onorari come il rabbioso rabbino cacciaballe Lionel B. e i boriosi proprietari di Park Avenue dello smidollato "New York Times" non sono i primi civilissimi Quisling ebrei a strisciare davanti a un padrone antisemita perché anche loro sono troppo... troppo raffinati per battersi come Winchell... E non saranno gli ultimi. Quegli idioti della Jergens non sono i primi manager codardi che giocano a palla con la dittatoriale fabbrica di menzogne che oggi sta rovinando il paese... E non saranno nemmeno gli ultimi.» E quell’articolo - che passava a elencare un’altra quindicina dei suoi nemici personali che si qualificavano come importanti collaboratori fascisti dell’America doveva infatti essere l’ultimo. Tre giorni più tardi, dopo essere andato a Hyde Park per assicurarsi che FDR fosse ancora deciso a non uscire dal suo isolamento politico per candidarsi a un terzo mandato, Winchell annunciò la propria candidatura alla presidenza degli Stati Uniti nelle prossime elezioni generali. Fino ad allora considerati in lizza il segretario di stato di Roosevelt, Hull; l’ex ministro dell’Agricoltura e candidato vicepresidenziale nel ticket del 1940, Henry Wallace; il ministro delle Poste di Roosevelt e presidente del Partito democratico, James Farley; il giudice della Corte suprema William U. Douglas; e due democratici moderati, nessuno di loro favorevole al New Deal, l’ex governatore dell’Indiana Paul V. McNutt e il senatore Scott W. Lucas dell’Illinois. C’era anche la notizia non confermata (fatta circolare e forse inventata da Winchell quando guadagnava ancora 800 mila dollari l’anno facendo circolare notizie non confermate) che se la
convention fosse arrivata a un punto morto, come poteva accadere facilmente con una lista di candidati così poco appetitosa, Eleanor Roosevelt, una forte presenza politica e diplomatica durante i due mandati del marito - e ancora una figura popolare che con la sua mescolanza di franchezza e aristocratico riserbo si era procurato un seguito enorme tra gli elettori progressisti del partito come pure molti beffardi nemici nella stampa di destra -, si sarebbe presentata alla convention come aveva fatto Lindbergh nel 1940 a quella dei repubblicani e avrebbe ottenuto la nomination per acclamazione. Ma quando Winchell diventò il primo candidato democratico a iscriversi alla gara, e a farlo quasi trenta mesi prima delle elezioni del ’44, prima ancora delle elezioni parlamentari di medio termine - e a farlo subito dopo il cancan prodotto dal fatto che era stato «epurato dal pugno di ferro della tattica golpista della squadraccia fascista alla Casa Bianca» (come Winchell descriveva i suoi nemici e i loro metodi nell’annunciare la sua candidatura) -, l’ex cronista mondano diventò l’uomo da battere, l’unico democratico con un nome noto a tutti e abbastanza audace da attaccare con ferocia un presidente in carica amato come Lindy. I leader repubblicani non si degnarono di prenderlo sul serio, pensando o che con questo numero autocelebrativo l’incontenibile performer volesse scroccare denaro a un pugno di ricchi democratici intransigenti o che fosse un vistoso candidato civetta per FDR (o magari per l’ambiziosa moglie di Roosevelt), messo in campo per suscitare e misurare tempestivamente quali nascosti sentimenti anti-Lindbergh potevano esistere in un paese dove i sondaggi dimostravano che Lindbergh continuava a essere appoggiato da una percentuale record tra l’ottanta e il novanta di ogni classe e categoria di elettori, tranne gli ebrei. Winchell, in breve, era il candidato degli ebrei, e lui stesso un ebreo tra i più volgari, e non assomigliava in alcun modo agli educati e dignitosi ebrei democratici della piccola cerchia di Roosevelt come il ricco Bernard Baruch o il banchiere e governatore di New York Herbert Lehman o il giudice della Corte suprema Louis Grandeis, che era appena andato in pensione. È come se essere un ebreo di umili origini che incarnava quasi tutti i lati più plebei che rendevano gli ebrei poco graditi negli strati più elevati della società culturale e finanziaria americana non bastasse a fare di lui un’irrilevante impertinenza sulla scena politica dappertutto tranne che entro i confini massicciamente ebraici di New York City, a farlo detestare dall’austera moltitudine c’erano la sua fama di adultero donnaiolo con la tendenza a sedurre ballerine con le gambe lunghe e la sua licenziosa vita notturna tra le dissolute celebrità di Hollywood e di Broadway che bevevano a tutte le ore allo Stork Club di New York. La sua candidatura era uno scherzo e i repubblicani non la trattarono diversamente. Ma nella nostra strada, quella settimana, sulla scia del licenziamento di Winchell e della sua istantanea resurrezione come candidato presidenziale, il significato dei due avvenimenti fu quasi tutto ciò di cui i vicini poterono parlare tra loro. Dopo quasi due anni in cui non avevano mai saputo se credere al peggio, in cui avevano cercato di concentrarsi sulle esigenze della vita quotidiana per poi assorbire senza poter fare nulla ogni diceria su ciò che il governo aveva in serbo per loro, in cui non erano mai
riusciti a giustificare con i fatti né il loro allarme né la loro compostezza, dopo tante perplessità, erano così maturi per le illusioni che, quando i genitori si riunivano la sera a chiacchierare sulle sedie a sdraio sistemate nei vialetti, il gioco degli interrogativi che invariabilmente cominciava poteva continuare per ore senza interruzioni: Chi sarebbe stato il vicepresidente nel ticket di Winchell? Chi avrebbe messo nel suo gabinetto? Chi avrebbe eletto alla Corte suprema? Chi si sarebbe dimostrato il leader più grande, FDR o Walter Winchell? Si gettavano a capofitto in mille fantasie, e anche i bambini piccolissimi coglievano lo spirito e giravano ballando e saltando la corda, cantando: «Wind-shield11 for presi-dent... Wind-shield for presi-dent.» Naturalmente, che nessun ebreo potesse aspirare alla presidenza - e men che meno un ebreo con una lingua irrefrenabile come quella di Winchell - lo capiva anche un ragazzo della mia età, come se il divieto fosse scritto a tutte lettere nella costituzione americana. Eppure, nemmeno quell’inoppugnabile certezza poté impedire agli adulti di rinunciare al buonsenso e, per una sera o due, di immaginare se stessi e i loro figli come cittadini veri e propri, e non come immigrati, del paradiso. Il matrimonio del rabbino Bengelsdorf con la zia Evelyn ebbe luogo una domenica verso la metà di giugno. I miei genitori non furono invitati, e non si aspettavano né si auguravano di esserlo, eppure non si poté fare nulla per alleviare il dolore di mia madre. L’avevo già sentita piangere da dietro l’uscio della sua camera da letto, e anche se non era un fatto abituale, o che mi piacesse, in tutti i mesi durante i quali i miei genitori si sforzarono di valutare la minaccia posta dall’amministrazione Lindbergh e di decidere quale doveva essere la posizione più ragionevole che poteva assumere una famiglia ebraica, non l’avevo mai vista così inconsolabile. - Perché doveva succedere anche questo? - chiese a mio padre. - È solo un matrimonio, - le disse lui. - Non è la fine del mondo. - Ma io non riesco a smettere di pensare a mio padre, - disse lei. - Tuo padre è morto, - disse lui, - mio padre è morto. Non erano dei giovanotti, si sono ammalati e sono morti -. Sarebbe stato difficile immaginare un atteggiamento più comprensivo del suo, ma l’infelicità di lei era tale che più dolce diventava la voce di mio padre, più soffriva. E penso anche a mia madre, - disse, - penso che la mamma non avrebbe capito più niente. - Amore, tutto potrebbe essere molto più terribile... Lo sai. E lo diventerà, disse mia madre. - Forse no, forse no. Forse tutto sta cominciando a cambiare. Winchell... - Oh, per piacere, Walter Winchell non... - Sss, sss, - le disse lui, - il piccolo... E così capii che Walter Winchell non era, in realtà, il candidato degli ebrei: era il candidato dei figli degli ebrei, una cosa che ci davano alla quale attaccarci, come non molti anni prima ci avevano dato un seno non soltanto per nutrirci, ma per calmare le paure della prima infanzia. La cerimonia nuziale si tenne nel tempio del rabbino e il ricevimento successivo nella sala da ballo dell’Essex House, l’albergo più lussuoso di Newark. I notabili presenti, ciascuno accompagnato da una moglie o da un marito, 11
Parabrezza [N. d. T.]
erano elencati in un box separato dalla cronaca vera e propria del matrimonio e di fianco alle fotografie degli sposi che apparvero sul «Newark Sunday Call.» La lista era sorprendentemente lunga e impressionante, e io la presento qui per spiegare per quale motivo io, anzitutto, dovevo chiedermi se i miei genitori e i loro amici della Metropolitan non fossero completamente avulsi dalla realtà per immaginare che potesse capitargli qualcosa di male a causa di un programma governativo diretto da un luminare della statura del rabbino Bengelsdorf. Tanto per cominciare, alla cerimonia nuziale assistettero ebrei in quantità, tra i quali familiari e amici, frequentatori del tempio del rabbino Bengelsdorf, ammiratori e colleghi del New Jersey, e altri che per essere presenti erano arrivati da ogni angolo del paese. E c’erano anche molti cristiani. E secondo l’articolo del «Sunday Call» che quel giorno occupava una e mezza delle due pagine mondane - tra i numerosi invitati che non poterono partecipare ma che tramite la Western Union inviarono i loro migliori auguri c’era la moglie del presidente, la First Lady, Anne Morrow Lindbergh, descritta come un’amica intima del rabbino, «jerseyana e poetessa come lui», col quale aveva in comune «interessi culturali e intellettuali» e che incontrava spesso «davanti a una tazza di tè a un tète-à-tète pomeridiano alla Casa Bianca per discutere di filosofia, letteratura, religione ed etica.» A rappresentare il municipio c’erano i due ebrei di grado più elevato che avessero mai fatto parte dell’amministrazione di Newark, l’ex sindaco Meyer Ellenstein, che era rimasto in carica per due mandati, e il segretario cittadino, Harry S. Reichenstein; e cinque dei tantissimi irlandesi più cospicui del momento, il direttore della pubblica sicurezza, il direttore del dipartimento erario e finanza, il direttore dei parchi e beni pubblici, l’ingegnere capo del comune e l’avvocato generale. C’erano anche il direttore delle poste di Newark e il direttore della biblioteca pubblica di Newark, nonché il presidente del consiglio di amministrazione della biblioteca. Tra gli illustri educatori invitati alle nozze c’erano il presidente dell’università di Newark, il presidente del politecnico di Newark, il provveditore agli studi e il preside di St Benedict, il liceo privato. E tra i presenti c’era anche una schiera di insigni religiosi: protestanti, cattolici ed ebrei. Della prima chiesa battista Peddie Memorial, la più grande congregazione negra della città, c’era il reverendo George E. Dawkins; della Trinity Cathedral, il reverendo Arthur Dumper; della chiesa episcopale della Grazia, il reverendo Charles L. Gomph; della chiesa ortodossa greca di St Nicholas, in High Street, il reverendo George E. Spyridakis; e della cattedrale di St Patrick, il molto reverendo John Delaney. Assente - e quest’assenza balzava agli occhi, per i miei genitori, anche se nell’articolo nessuno ne parlava - era l’antagonista e il principale dei rabbini di Newark, Joachim Prinz della congregazione B’nai Abraham. Prima dell’ascesa del rabbino Bengelsdorf alla ribalta nazionale, l’autorità del rabbino Prinz tra gli ebrei della città, nella più ampia comunità israelita e tra gli studiosi e i teologi di ogni religione aveva superato di gran lunga quella del suo più anziano collega, ed era solo lui, dei rabbini conservatori a capo delle tre più ricche congregazioni cittadine, che non aveva mai fatto un passo indietro nella sua
opposizione a Lindbergh. Ma erano presenti comunque gli altri due, Charles I. Hoffman di Oheb Shalom e Solomon Foster di B’nai Jeshurun, e il rabbino Foster diresse la cerimonia nuziale. Erano presenti anche i presidenti delle quattro principali banche di Newark, i presidenti di due delle maggiori società di assicurazioni, il presidente del più grosso studio di architettura, i due soci fondatori dello studio legale più prestigioso, il presidente dell’Athletic Club di Newark, il proprietario di tre dei grandi cinematografi del centro, il presidente della camera di commercio, il presidente della Bell Telephone del New Jersey, i direttori dei due quotidiani e il presidente della P. Ballantine, la distilleria più famosa di Newark. Del governo della Essex County c’erano il supervisore e tre membri del consiglio amministrativo della contea, e della magistratura del New Jersey c’erano il vicecancelliere della corte d’equità e un giudice associato della Corte suprema dello stato. Dell’assemblea di stato c’erano lo speaker della maggioranza e tre dei quattro deputati della Essex County, e del Senato un rappresentante della Essex County. Il funzionario statale più importante era un ebreo, il procuratore generale David T. Wilentz, che aveva brillantemente rappresentato l’accusa nel processo a Bruno Hauptmann, ma il funzionario statale la cui presenza mi fece più impressione fu Abe J. Greene, un altro ebreo ma, cosa più importante, il presidente della commissione pugilistica del New Jersey. C’era anche uno dei due senatori del New Jersey, il repubblicano W. Warren Barbour, nonché il nostro deputato Robert W. Kean. Della corte distrettuale degli Stati Uniti per il distretto del New Jersey c’erano un giudice di circoscrizione, due giudici distrettuali e il procuratore distrettuale (di cui riconobbi il nome perché ascoltavo Gangbusters) John J. Quinn. Molti stretti collaboratori del rabbino al quartier generale nazionale dell’Uaa e diversi funzionari in rappresentanza del ministero degli Interni erano venuti su da Washington, e anche se al matrimonio non c’era nessuno dei più alti gradi del governo federale, c’era un eloquente documento che rappresentava un personaggio non meno importante dello stesso presidente: il telegramma della First Lady che fu letto ad alta voce dal rabbino Foster durante il ricevimento, dopodiché gli invitati si alzarono spontaneamente per applaudire le parole della First Lady e furono invitati dallo sposo a restare in piedi e a unirsi a lui e alla sposa nel canto dell’inno nazionale. Il lungo testo del telegramma era riportato integralmente dal «Sunday Call.» E diceva così: Caro Rabbino Bengelsdorf e cara Evelyn, mio marito e io vi inviamo i nostri auguri più sentiti e ci uniamo a tutti i presenti nel farvi ogni augurio di felicità. Siamo stati lieti di avere l’occasione di conoscere Evelyn al ricevimento organizzato dalla Casa Bianca per il ministro degli Esteri tedesco. È una giovane donna energica e incantevole, chiaramente una persona retta e degna di stima, e mi sono bastati i pochi momenti che ho passato a chiacchierare con lei per riconoscere le doti personali e intellettuali che le hanno fatto guadagnare la devozione di un uomo straordinario come Lionel Bengelsdorf.
Oggi voglio ricordare i versi splendidamente succinti che il mio incontro con Evelyn mi fece venire in mente quella sera. La poetessa è Elizabeth Barrett Browning, e le parole con cui ella comincia il quattordicesimo dei suoi Sonetti dal portoghese rappresentano la stessa saggezza femminile che ho visto emanare dagli stupefacenti occhi neri e bellissimi di Evelyn. «Se proprio devi amarmi, - ha scritto la Browning, - non sia per altro Che per amore dell’amore...» Rabbino Bengelsdorf, lei è stato qualcosa di più che un amico da quando ci siamo conosciuti qui alla Casa Bianca dopo la cerimonia per la fondazione dell’Ufficio per l’assimilazione americana; da quando si è trasferito a Washington per diventare il direttore dell’Uaa, lei è stato un preziosissimo mentore. Le nostre appassionanti conversazioni, insieme ai libri illuminanti che lei mi ha generosamente fatto leggere, mi hanno insegnato molte cose, non soltanto sulla fede degli ebrei ma sulle tribolazioni del popolo ebraico e sulle fonti della grande forza spirituale che è stata la causa prima della loro sopravvivenza per tremila anni. Avere scoperto, grazie a lei, quanto il mio retaggio religioso sia profondamente radicato nel suo mi ha reso molto più ricca. La nostra principale missione di americani è vivere in fratellanza e in armonia come un popolo unito. Dall’ottimo lavoro che voi due state facendo per l’Uaa so con quale passione ci state aiutando a raggiungere questo prezioso obiettivo. Dei molti doni fatti da Dio al nostro paese, nessuno è più grande di questo: avere tra noi dei cittadini come voi, campioni orgogliosi e vitali di una razza indomabile i cui antichi concetti di giustizia e libertà hanno sostenuto la nostra democrazia americana dal 1776. Con i miei migliori auguri, Anne Morrow Lindbergh La seconda volta che l’Fbi entrò nella nostra vita, a essere sorvegliato fu mio padre. Lo stesso agente che mi aveva fermato per interrogarmi su Alvin, il giorno in cui il signor Wishnow si era impiccato (e che aveva interrogato Sandy in autobus, mia madre nel grande magazzino e mio padre in ufficio), si presentò al mercato ortofrutticolo e si mise a gironzolare intorno al ristorantino dove gli uomini andavano a mangiare e a prendere il caffè nel cuore della notte e, comportandosi come aveva fatto quando Alvin si era messo a lavorare per lo zio Monty, cominciò ora a chiedere in giro dello zio di Alvin, Herman, e cosa diceva dell’America e del nostro presidente. Lo zio Monty lo venne a sapere da uno degli scagnozzi di Longy Zwillman, il quale riferì allo zio Monty quello che gli aveva detto l’agente McCorkle: e cioè che dopo aver ospitato e nutrito un traditore che aveva combattuto per un paese straniero, ora mio padre aveva lasciato un buon posto alla Metropolitan Life per non partecipare a un programma governativo destinato a unificare e rafforzare il popolo americano. Lo zio Monty disse all’uomo di Longy che suo fratello era un povero sempliciotto senza educazione che aveva una moglie e due figli da mantenere e che non poteva fare molti danni all’America trasportando cassette di frutta e verdura sei notti la settimana. E l’uomo di Longy si mostrò comprensivo, secondo lo zio Monty,
il quale, senza l’ombra del decoro ordinariamente praticato in casa nostra, ci raccontò tutta la storia in cucina un sabato pomeriggio: - Eppure quello mi fa: «Tuo fratello se ne deve andare.» Allora gli dico: «Sono tutte cazzate. Di’ a Longy che questa è una delle solite cazzate contro gli ebrei.» E guarda che quello è un ebreo pure lui, Niggy Apfelbaum, ma quello che dico lo lascia del tutto indifferente. Niggy torna da Longy e gli dice che Roth non ha obbedito. Dopodiché, cosa succede? Si presenta il Lungo in persona, proprio là nel mio ufficetto puzzolente, e con un completo di seta fatto a mano. Alto, mellifluo, un elegantone... È così che fa colpo sulle dive del cinema. Io gli dico: «Mi ricordo di te dalle elementari, Longy. Fin da allora si capiva che avresti fatto strada.» Allora Longy mi fa: «Anch’io mi ricordo di te. Fin da allora si capiva che non avresti combinato un accidente.» Ci siamo messi a ridere, e io gli ho detto: «Mio fratello ha bisogno di lavorare, Longy. Come posso non dare un lavoro a mio fratello?» «E io, forse che posso permettere all’Fbi di venire a ficcare il naso?» mi domanda lui. «So tutto, - dico io, - e non mi sono forse liberato di mio nipote Alvin a causa dell’Fbi? Ma con mio fratello non è la stessa cosa, eh? Guardagli , dico, - tempo ventiquattr’ore e sistemo tutto. Se no, se non ci riesco, Herman se ne va.» Così la mattina dopo aspetto la chiusura e vado da Sammy Eagle, e là seduto al banco c’è l’idiota irlandese dell’Fbi. «Posso offrirti la colazione?» gli dico, e gli ordino un whiskey con birra, e mi siedo vicino a lui e gli dico: «Cos’hai contro gli ebrei, McCorkle?» «Niente», dice lui. «Allora perché dai tanto fastidio a mio fratello? Cos’ha fatto?» «Guarda, se avessi qualcosa contro gli ebrei starei qui seduto da Eagle, e Sammy Eagle sarebbe mio amico in questo caso?» E chiama Eagle in fondo al banco e gli fa cenno di avvicinarsi. «Dimmi, - fa McCorkle, - ho qualcosa contro gli ebrei, io?» «No, ch’io sappia», dice Eagle. «Quando il tuo ragazzo ha fatto il bar mitzvah, non sono forse venuto a regalargli un fermaglio per la cravatta?» «Lo porta ancora», mi dice Eagle. «Vedi? - dice McCorkle. - Io sto solo facendo il mio lavoro, come Sammy fa il suo e tu fai il tuo.» «E mio fratello fa la stessa cosa», gli dico io. «Bene. Ottimo. Dunque, non dire che ce l’ho con gli ebrei.» «Errore mio, - gli faccio, - mi scuso.» E intanto gli passo la busta, la bustarella marrone, e la cosa finisce lì. A questo punto mio zio si rivolse a me e disse: - Ho sentito che sei un ladro di cavalli. Ho sentito che hai rubato un cavallo dalla chiesa. Sei un ragazzo sveglio. Fa’ vedere -. Mi sporsi verso di lui e gli mostrai dove lo zoccolo del cavallo mi aveva aperto la testa. Lui si mise a ridere quando passò lievemente il dito sulla cicatrice e intorno alla chiazza rasata dove i capelli avevano appena ricominciato a crescere. Che tu possa averne molti altri, - mi disse; e poi, come aveva sempre fatto, mi issò rudemente su un ginocchio perché potessi starci sopra a gambe larghe come se fossi a cavallo. - Tu sei stato a un bris12, no? - chiese, e alzando e abbassando la coscia 12
La cerimonia della circoncisione [N. d. T.]
cominciò a farmi galoppare. - Sai quando circoncidono il bambino durante il bris, sai quello che fanno, no? - Gli tagliano il prepuzio, - dissi io. - E cosa fanno col piccolo prepuzio? Dopo averlo tagliato... Sai che cosa fanno? - No, - gli dissi io. - Be’, - disse lo zio Monty, - li mettono da parte, e quando ne hanno abbastanza li danno all’Fbi per fare degli agenti -. Non riuscii a trattenermi, e anche se sapevo che non avrei dovuto, e anche se l’ultima volta che mi aveva raccontato quella barzelletta aveva detto: «Li mandano in Irlanda per fare dei preti», cominciai a ridere. - Cosa c’era nella busta? gli chiesi. - Indovina, - disse lui. - Non so. Soldi? - Soldi è la risposta giusta. Sei sveglio, piccolo ladro di cavalli. I soldi che fanno sparire tutti i problemi. Solo in seguito appresi da mio fratello, che aveva sentito parlare i nostri genitori in camera da letto, che l’intero importo della bustarella data a McCorkle doveva essere rimborsato allo zio Monty dalla busta paga, già magra, di mio padre, al ritmo di dieci dollari la settimana nell’arco dei sei mesi successivi. E mio padre non poteva farci niente. Quanto alla fatica del lavoro, e alle mortificazioni connesse al fatto di essere al servizio di suo fratello, l’unica cosa che diceva sempre era: «È così da quando aveva dieci anni, e sarà così fino alla morte.» Tranne il sabato e la domenica mattina, quell’estate mio padre non si vide quasi mai. Mia madre, d’altra parte, adesso era sempre presente, e poiché Sandy e io dovevamo essere a casa a mezzogiorno per il pranzo e di nuovo a metà del pomeriggio per farci vedere e giustificare i nostri movimenti, nessuno dei due poteva allontanarsi troppo, e la sera ci era vietato andare oltre il campo sportivo della scuola a un isolato dalla nostra casa. O mia madre si controllava molto bene o era riuscita provvisoriamente a fare la pace con tutti i suoi dispiaceri, perché anche se mio padre aveva subito una drastica riduzione della paga e il bilancio familiare richiedeva qualche difficile aggiustamento lei non mostrava alcuna traccia dello sconforto provocato dai problemi che aveva dovuto affrontare l’anno prima. Il suo recupero era molto legato al suo essere tornata a occuparsi di cose che le davano più soddisfazioni di quelle derivanti dalla vendita di abiti, un lavoro davanti al quale non si era tirata indietro ma che, paragonato alle sue normali attività, le pareva insignificante. Quanto grandi continuassero a essere le sue preoccupazioni mi sarebbe apparso chiaro solo quando arrivò una lettera di Estelle Tirschwell che parlava della loro vita a Winnipeg. Ogni giorno all’ora di pranzo io portavo su la posta che avevo trovato nella cassetta dell’ingresso, e se c’era una busta con un francobollo canadese lei si sedeva immediatamente al tavolo della cucina e, mentre Sandy e io mangiavamo i nostri sandwich, leggeva due volte la lettera tra sé, poi la piegava e la metteva nella tasca del grembiule per guardarla un’altra decina di volte prima di passarla a mio padre da leggere quando si alzava per andare al mercato: la lettera per mio padre, i francobolli canadesi annullati per me, per aiutarmi a iniziare una nuova collezione. Gli amici di Sandy erano improvvisamente diventati le ragazze della sua età, le adolescenti che conosceva da quando andavano a scuola insieme ma che non aveva mai scrutato con tanta avidità. Andava a cercarle al campo sportivo, dove le attività organizzate dell’estate si svolgevano per tutto il giorno e fino a sera. Ci andavo
anch’io, accompagnato ormai regolarmente da Seldon. Guardavo Sandy con fluttuanti sentimenti di trepidazione e di piacere, come se mio fratello fosse diventato un borsaiolo o un giocatore di professione. Lui si parcheggiava su una panchina vicino al tavolo da ping-pong, dove tendevano a radunarsi le ragazze, e cominciava a fare sul suo album uno schizzo a matita della più carina; invariabilmente le ragazze volevano vedere i disegni, e così, prima che il giorno finisse, c’erano buone probabilità che Sandy uscisse con aria sognante dal campo sportivo mano nella mano con una di loro. La sua forte tendenza all’infatuazione non era più galvanizzata dalla propaganda che faceva per Just Folks o dal tabacco che cimava per i Mawhinney, ma alimentata da queste ragazze. O la nuova eccitazione del desiderio aveva trasformato la sua esistenza con la stessa incredibile rapidità del Kentucky e, a quattordici anni e mezzo, Sandy era stato rifuso in una sola vampata ormonale o, come credevo io - con la mia inclinazione ad accordargli l’onnipotenza -, persuadere le ragazze ad andare via con lui era solo un divertente stratagemma, un modo di attendere il momento opportuno finché... Sempre, con Sandy, io pensavo che doveva esserci sotto molto più di quello che potessi arrivare a capire, quando in realtà, nonostante l’aria sicura del bel ragazzo, non sapeva neanche lui, non più di chiunque altro, perché abboccasse all’amo. Il coltivatore di tabacco ebreo di Lindbergh scopre i seni, e improvvisamente si rivela un adolescente come tutti gli altri. I miei genitori attribuivano questa passione per le ragazze alla sua resistenza all’autorità, alla sua «ribellione», a uno sfoggio compensatore d’indipendenza seguito al forzato ritiro dalla causa di Lindbergh, e parevano disposti a considerarla relativamente innocua. Ma evidentemente una delle madri delle ragazze non era dello stesso avviso, e telefonò per dirlo. Quando mio padre tornò dal lavoro ci fu una lunga conversazione tra lui e mia madre dietro la porta della loro camera da letto, e poi un’altra fra mio padre e mio fratello dietro la porta della nostra camera da letto, e per il resto della settimana Sandy non fu autorizzato a lasciare gli immediati dintorni della nostra casa. Ma non potevano, naturalmente, tenerlo in gabbia in Summit Avenue per tutta l’estate, e presto mio fratello tornò al campo sportivo a disegnare tranquillamente i ritratti delle più carine, e qualunque cosa queste ragazze gli lasciassero fare con le mani quando andavano via insieme - che non poteva essere granché per quattordicenni ignoranti in materia di sesso come lo erano in quegli anni i ragazzi così giovani – non correvano certo a casa a riferirlo, e così, in mezzo a tutti gli altri problemi, non ci furono più telefonate di protesta alle quali i miei genitori dovessero rispondere. Seldon. La mia estate era Seldon. Il muso di Seldon davanti alla mia faccia come quello di un cane, e ragazzi che conoscevo da quando ero nato che ridevano e mi davano dell’«addormentato», ragazzi con le braccia tese rigidamente davanti a loro che camminavano col passo lento e rumoroso dello zombie, imitando presumibilmente la mia marcia vacillante nel sonno verso l’orfanotrofio, e la squadra in campo che cantava in coro «Hi ho Silver!» ogni volta che andavo alla battuta. Quell’anno non ci sarebbe stato nessun grande picnic di fine estate nella South Mountain Reservation il Labor Day, perché tutti gli amici dei miei genitori che lavoravano alla Metropolitan in settembre avevano già lasciato Newark con i figli per
stabilirsi qua e là prima dell’inizio dell’anno scolastico. A una a una, per tutta quell’estate, ogni famiglia venne un sabato a trovarci e a salutarci. Fu una cosa terribile per i miei genitori, che erano i soli del gruppo della locale circoscrizione della Metropolitan destinato al trasferimento da Homestead 42 ad avere scelto di restare dov’erano. Erano i loro amici più cari, e quei caldi pomeriggi del sabato con gli adulti in lacrime che si abbracciavano in mezzo alla strada sotto gli occhi disperati dei bambini - pomeriggi che finivano con noi quattro che restavamo indietro e salutavamo con la mano dal marciapiede mentre mia madre gridava alla macchina in partenza: «Non dimenticatevi di scrivere! » - furono i momenti più strazianti che avessimo passato fino ad allora, quando la nostra impotenza mi appariva reale e io sentivo che quello era l’inizio della distruzione del nostro mondo. E quando mi rendevo conto che mio padre, di tutti questi uomini, era il più ostinato, irrimediabilmente vincolato ai suoi migliori istinti e alle loro eccessive esigenze. Solo allora capivo che aveva lasciato il suo posto non soltanto perché aveva paura di quello che ci aspettava se avessimo accettato come gli altri di farci trasferire, ma perché, nel bene e nel male, quando veniva oppresso da forze superiori che lui riteneva corrotte era nella sua natura non cedere: in questo caso, opporsi sia alla voglia di fuggire in Canada, come mia madre proponeva che facessimo, sia all’obbligo di inchinarsi davanti a una direttiva del governo che era palesemente ingiusta. C’erano due tipi di uomini forti: quelli come lo zio Monty e Abe Steinheim, inesorabili nel fare soldi, e quelli come mio padre, spietatamente ligi alla loro idea del fair play. - Coraggio, - disse mio padre, nel tentativo di rincuorarci il sabato in cui l’ultima delle sei famiglie trasferite era apparentemente sparita per sempre. Coraggio, ragazzi. Andiamo a prendere un gelato -. Percorremmo insieme Chancellor fino al drugstore, dove il farmacista era uno dei suoi più vecchi assicurati e dove d’estate l’interno era generalmente più piacevole che stare fuori in strada, tra i tendoni che impedivano ai raggi del sole di attraversare la vetrina e le pale dei tre ventilatori sul soffitto che cigolavano sommessamente mentre giravano sopra la nostra testa. Scivolammo in un séparé e ordinammo quattro sundaes, e anche se mia madre non poté mangiare, nonostante le esortazioni di mio padre, alla fine riuscì a impedire alle lacrime di scorrerle sul viso. Anche noi, dopotutto, non eravamo meno schiavi di un inconoscibile futuro dei nostri amici mandati in esilio, e così restammo là seduti a mangiare i nostri sundaes nella penombra riparata di quella fresca farmacia, silenziosi e completamente stremati, fino a quando mia madre alzò finalmente lo sguardo dal tovagliolo di carta che stava strappando in tante striscioline e, con quel sorriso nudo e ironico che viene quando uno ha pianto tutte le sue lacrime, disse a mio padre: - Be’, piaccia o non piaccia, Lindbergh ci sta insegnando cosa significa essere ebrei -. Poi aggiunse: - Noi ci illudiamo di essere americani. Sciocchezze. No! - ribatté mio padre. - Loro credono che noi ci illudiamo di essere americani. La cosa non è in discussione, Bess. Non è negoziabile. Questa gente non capisce quello che io do per scontato, maledizione! Altri? Ha il coraggio di chiamarci
altri? È lui l’altro. Quello che sembra il più americano di tutti... e che è il meno americano! Quello è un uomo indegno. Non dovrebbe essere dov’è. Non dovrebbe essere dov’è, è molto semplice! Per me, la partenza più dura da digerire fu quella di Seldon. Naturalmente, ero felice di vederlo andare via. Per tutta l’estate avevo contato i giorni. Eppure quella mattina presto dell’ultima settimana di agosto in cui i Wishnow se ne andarono con due materassi assicurati al tetto della macchina (alzati e legati sotto una tela cerata la sera prima da mio padre e da Sandy) e la loro roba ammassata fino al tetto sui sedili posteriori della vecchia Plymouth (pile di indumenti, compresi molti dei miei, che mia madre e io li avevamo aiutati a caricare), io fui l’unico, abbastanza grottescamente, che non riusciva a smettere di piangere. Ricordavo un pomeriggio in cui Seldon e io avevamo appena sei anni, e il signor Wishnow era vivo e sembrava star bene e lavorava ancora ogni giorno per la Metropolitan, e la signora Wishnow era ancora una casalinga come mia madre, tutta presa dalle necessità quotidiane della famiglia e capace addirittura, all’occasione, di badare a me se mia madre doveva uscire per occuparsi dell’Agi e Sandy non c’era e io ero solo in casa dopo la scuola. Ricordavo il generico spirito materno che condivideva con mia madre - quel calore così consolante in cui mi crogiolavo come se fosse una cosa naturale - e di cui feci un’esperienza straordinaria il pomeriggio nel quale rimasi chiuso nel loro bagno senza essere più capace di uscire. Ricordavo com’era stata gentile con me mentre io cercavo ripetutamente, senza farcela, di aprire la porta, occupandosi spontaneamente di me come se, a prescindere dalle differenze nell’aspetto e nel temperamento e in quell’occasione particolare, noi quattro - Seldon e Selma, Philip e Bess - fossimo un tutto unico. Ricordavo la signora Wishnow quando il suo pensiero dominante era il pensiero dominante di mia madre: quando era solo un’altra vigile componente del locale matriarcato il cui compito prioritario era stabilire una way of life domestica per la generazione successiva. Ricordavo la signora Wishnow quando era una donna tranquilla, quando non aveva i pugni stretti e il viso stravolto dal dolore. Era un bagnetto, proprio come il nostro, molto stretto, con la porta vicino al water e il water a ridosso del lavandino e una vasca pigiata tra quello e il muro. Io mi attaccai alla porta, ma non si aprì. A casa mia me la sarei semplicemente accostata alle spalle, ma dai Wishnow l’avevo chiusa a chiave: cosa che non avevo mai fatto in vita mia. La chiusi a chiave e pisciai e tirai la catena e mi lavai le mani e, poiché non volevo toccare il loro asciugamano, me le asciugai sul didietro dei calzoni di velluto a coste: tutto a posto, e poi feci per uscire dal bagno, e non fui in grado di aprire la serratura sopra la maniglia della porta. Riuscivo a girare un po’ la chiave, che poi si bloccava e smetteva di girare. Non bussai e non scossi la maniglia, ma continuai semplicemente a cercare di girare la chiave il più silenziosamente possibile. Non girava, e allora mi sedetti sul water e pensai che forse in qualche modo si sarebbe sbloccata da sola. Rimasi là seduto per un po’, ma poi mi venne la malinconia e mi alzai e riprovai ad aprire la serratura. Continuava a essere bloccata, e allora cominciai a bussare piano piano sulla porta, e la signora Wishnow arrivò e disse:
- Oh, ogni tanto la serratura fa così. Devi girare la chiave in questo modo -. Mi spiegò come fare, ma io non riuscivo ancora ad aprirla, e allora con molta calma lei disse: - No, Philip, mentre la giri devi tirarla indietro, - e io provai a fare come aveva detto lei, però la chiave continuava a non girare. - Caro, - disse lei, - gira e tira indietro simultaneamente... Gira e tira indietro nello stesso tempo. - Indietro, da che parte? - dissi io. - Indietro. Indietro verso il muro. - Ah, il muro. Okay, - dissi io, ma qualunque cosa facessi non riuscivo ad aprire la porta. - Non funziona, - dissi, e cominciai a sudare, e poi sentii la voce di Seldon. - Philip? Sono Seldon. Perché hai chiuso a chiave? Non sarebbe entrato nessuno. - Non ho detto questo, - dissi io. - Allora perché hai chiuso a chiave? - Non lo so, - dissi. - Mamma, credi che dovremmo chiamare i pompieri? Possono tirarlo fuori con la scala. No, no, no, - disse la signora Wishnow. - Dai, Philip, - disse Seldon, - non è così difficile. - Sì, invece. È bloccata. - Come farà a uscire, mamma? - Seldon, sta’ zitto. Philip? - Sì. - Stai bene? - Be’, qua dentro fa molto caldo. Comincia a fare caldo. - Bevi un bicchiere d’acqua fresca, caro. C’è un bicchiere nell’armadietto dei medicinali. Riempi un bicchiere d’acqua e bevilo lentamente e starai bene. - Okay -. Ma sul fondo del bicchiere c’era qualcosa di viscido, e io lo tirai fuori ma feci solo finta di bere dal bicchiere e bevvi invece dalle mani a coppa. - Mamma, - disse Seldon, - cosa fa di sbagliato? Philip, cosa stai facendo di sbagliato? - Come faccio a saperlo? - dissi io. - Signora Wishnow? Signora Wishnow? - Sì, caro. - Qua dentro comincia a fare troppo caldo. Sto cominciando a sudare. - Apri la finestra, allora. Apri il finestrino della doccia. Sei abbastanza alto per arrivarci? - Credo di sì -. Mi tolsi le scarpe ed entrai nella doccia con i calzini, e stando sulla punta dei piedi riuscii ad arrivare alla finestra - una finestra piuttosto piccola col vetro smerigliato che dava nel vialetto - ma quando cercai di aprirla, era bloccata anche lei. - Non si apre, - dissi. - Dàlle un colpetto, caro. Da’ un colpo al telaio, in basso, non troppo forte, e sono sicura che si aprirà -.
Obbedii, ma non riuscii a sbloccarla. Ormai avevo la camicia zuppa di sudore, e mi puntellai in modo tale da poter dare alla finestra una bella spinta verso l’alto, ma mentre mi voltavo dovevo aver urtato col gomito la manopola della doccia perché l’acqua cominciò a uscire. - Oh, no! - dissi, mentre l’acqua gelida mi scorreva sulla testa e sulle spalle, e allora saltai dalla doccia sul pavimento piastrellato. - Cos’è successo, caro? - Si è aperta la doccia. - Come ha fatto? – disse Seldon. - Come ha potuto aprirsi? - Non lo so! - Sei molto bagnato? – mi chiese lei. - Un po’. - Prendi un asciugamano, - mi disse. - Tira fuori un asciugamano dall’armadio. Gli asciugamani sono nell’armadio. Avevamo anche noi, al piano di sopra, lo stesso armadio stretto sopra l’armadio del bagno dei Wishnow, e anche noi lo usavamo per gli asciugamani, ma quando feci per aprire il loro, non ci riuscii: lo sportello era bloccato. Tirai, ma non si aprì. - Cosa c’è ora, Philip? - Niente. Non glielo potevo dire. - Hai preso un asciugamano? - Sì. - Asciugati, allora. E devi stare calmo. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. - Sono calmo. - Siediti. Siediti e asciugati -. Ero zuppo, e ora stava bagnandosi anche il pavimento, e allora mi sedetti sul water e fu in quel momento che vidi un bagno per quello che è - la parte alta di una fogna e fu in quel momento che mi vennero le lacrime agli occhi. - Sta’ tranquillo, - mi gridò Seldon, - tra poco arrivano i tuoi genitori. - Ma come farò a uscire? - E tutt’a un tratto la porta si aprì, e là fuori c’era Seldon e dietro di lui sua madre. - Come hai fatto? - dissi io. - Ho aperto la porta, - disse lui. - Ma come? Alzò le spalle. - Ho spinto. Ho spinto e basta. È sempre stata aperta -. E fu allora che cominciai a piagnucolare e la signora Wishnow mi prese tra le braccia e disse: - Va tutto bene. Sono cose che succedono. Possono capitare a tutti. - Era aperta, mamma, - le disse Seldon. - Ssss, - gli disse lei. - Ssss. Non ha importanza, - e poi entrò nel bagno e chiuse l’acqua fredda che stava ancora scorrendo nella vasca e senza problemi aprì lo sportello dell’armadio e tirò fuori un asciugamano pulito e cominciò ad asciugarmi i capelli e il viso e il collo, sempre dicendomi nello stesso tempo che non aveva importanza, che erano cose che capitavano e che potevano capitare a tutti.
Ma questo accadde molto tempo prima che andasse di traverso tutto il resto. La campagna congressuale cominciò alle otto del mattino del martedì dopo il Labor Day, con Walter Winchell in piedi sopra una cassetta all’angolo tra Broadway e 42nd Street - il celebre incrocio dove aveva annunciato la propria candidatura alla presidenza dall’alto della stessa autentica cassetta di legno - e che in pieno giorno era proprio identico a come lo presentavano le fotografie quando parlava alla radio nello studio della Nbc la domenica sera alle nove: senza giacca, in maniche di camicia, con i polsini rimboccati e la cravatta slacciata e, inclinato sulla nuca, il feltro del giornalista cinico e incallito. Bastarono pochi minuti per rendere necessario l’intervento di una mezza dozzina di poliziotti a cavallo per deviare il traffico dal fiume di persone elettrizzate che venivano su per la strada a passo di carica per sentirlo e vederlo in carne e ossa. E quando si sparse la voce che l’oratore col megafono non era un altro seccatore della Bibbia venuto a profetare la rovina dell’America peccatrice, ma l’habitué dello Stork Club che fino a poco tempo prima era stato il giornalista più influente della radio e il giornalista più nefando della stampa popolare, il numero degli spettatori passò dalle centinaia alle migliaia: quasi diecimila persone in tutto, scrissero i giornali, rigurgitati dalla sotterranea e scaricati dagli autobus, attirati dal cane sciolto e dalla sua sregolatezza. - I codardi della radio, - Winchell disse loro, - e i teppisti miliardari dell’editoria controllata dalla Casa Bianca della banda di Lindbergh dicono che Winchell è stato licenziato per aver gridato «Al fuoco!» in un teatro affollato. Signor New York City e signora, la parola non era «fuoco.» Era «fascismo» che Winchell ha gridato... E lo è ancora. Fascismo! Fascismo! E io continuerò a gridare «fascismo» a ogni folla di americani che riuscirò a trovare finché il partito del tradimento filo-hitleriano di Herr Lindbergh non sarà espulso dal Congresso il giorno delle elezioni. Gli amici di Hitler possono portarmi via il microfono, e hanno fatto proprio questo, come sapete. Possono togliermi la mia rubrica giornalistica, e lo hanno fatto, come sapete. E quando, Dio non voglia, l’America sarà diventata fascista, le SA di Lindbergh potranno chiudermi in un campo di concentramento per farmi tacere... E faranno anche questo, come sapete. Possono chiudere anche voi in un campo di concentramento per farvi tacere. E io spero che ormai lo sappiate bene. Ma quello che i nostri hitleriani fatti in casa non potranno mai portare via è il mio amore per l’America, e il vostro. Il mio amore per la democrazia, e il vostro. Il mio amore per la libertà, e il vostro. Quello che non potranno portare via - a meno che i creduloni e i timidi e i paurosi non siano tanto autolesionisti da riportarli ancora una volta a Washington - è la forza dell’urna. Il complotto hitleriano contro l’America dev’essere fermato... e fermato da voi! Da voi, signor New York e signora! Dalla forza elettorale degli amanti della libertà, degli abitanti di questa grande città martedì 3 novembre millenovecentoquarantadue! Per tutta la giornata - 8 settembre 1942 - fino alla sera, Winchell salì sulla sua cassetta in ogni quartiere di Manhattan, da Wall Street, dove fu largamente ignorato, a Little Italy, dove venne fischiato, al Greenwich Village, dove fu messo in ridicolo, al Distretto dell’Abbigliamento, dove fu applaudito solo a tratti, all’Upper West Side,
dove fu accolto come un salvatore dagli ebrei di Roosevelt, e infine a nord di Harlem, dove, nella folla di parecchie centinaia di negri che si raccolsero verso l’imbrunire per sentirlo parlare all’angolo di Lenox Avenue con l’25th Street, qualcuno rise e un gruppetto applaudì, ma per la maggior parte rimasero rispettosamente insoddisfatti, come se per vincere la loro antipatia si dovesse, da parte sua, recitare una tiritera completamente diversa. Non fu facile accertare l’impatto che quel giorno Winchell ebbe sul pubblico degli elettori. Al suo vecchio giornale, il «Daily Mirror» di Hearst, il chiaro tentativo di ottenere il sostegno della base locale per espellere il Partito repubblicano dal Congresso in tutto il paese sembrò più che altro una trovata pubblicitaria - la trovata pubblicitaria prevedibilmente egocentrica di un columnist mondano disoccupato che non sopportava di stare lontano dalla luce dei riflettori - e a maggior ragione per il fatto che non un solo candidato democratico congressuale alle elezioni di Manhattan scelse di mostrarsi in un posto qualunque a portata di udito dal megafono di Winchell. Se i candidati erano in giro per la campagna elettorale, si tennero lontani da dove Winchell commetteva ripetutamente l’errore politico di associare il nome di Adolf Hitler a quello di un presidente americano il cui eroismo il mondo ancora idolatrava, le cui imprese anche il Fùhrer rispettava, e che una schiacciante maggioranza dei suoi connazionali continuava ad adorare come divino catalizzatore nazionale di pace e prosperità. In un breve e sardonico editoriale, Ci risiamo, il «New York Times» non poté arrivare che a una conclusione in merito alle ultime «interessate manovre» di Winchell: «Non c’è nulla per cui Walter Winchell abbia più talento, - scrisse il "Times", - che se stesso.» Winchell passò un giorno intero in ognuno degli altri quattro distretti amministrativi della città, e la settimana successiva partì per il Connecticut. Benché mancasse ancora di un candidato democratico disposto a coniugare una campagna congressuale ai primi passi con la sua retorica incendiaria, Winchell procedette a collocare la sua cassetta davanti ai cancelli delle fabbriche di Bridgeport e all’entrata dei cantieri di New London, dove si spingeva il feltro sulla nuca, si slacciava la cravatta e gridava «Fascismo! Fascismo!» in faccia alla gente. Dalla costa industriale del Connecticut ripartì per il Nord e le enclave operaie di Providence, e poi dal Rhode Island passò alle città industriali del Massachusetts sudorientale, parlando ai capannelli agli angoli delle strade di Fall River, Brockton e Quincy con non meno fervore di quello che aveva mostrato nel suo discorso inaugurale in Times Square. Da Quincy passò a Boston, dove contava di fermarsi per tre giorni andando dalla Dorchester irlandese fino a South Boston e al North End italiano. Ma durante il primo pomeriggio nell’affollata Perkins Square di South Boston i pochi disturbatori che lo avevano seguito canzonandolo e provocandolo come ebreo da quando era partito dalla New York natia - lasciandosi dietro la protezione della polizia garantitagli da Fiorello La Guardia, il sindaco repubblicano anti-Lindbergh della città - diventarono rapidamente una folla che innalzava cartelli scritti a mano che facevano pensare ai vessilli e agli striscioni che abbellivano le manifestazioni del Bund al Madison Square Garden. E nell’attimo in cui Winchell aprì la bocca per
parlare, qualcuno che brandiva una croce fiammeggiante corse verso la cassetta per dargli fuoco e una pistola sparò due colpi in aria, o come segnale ai facinorosi da parte degli organizzatori o come avvertimento per l’uomo di «New York» tenuto sotto tiro, o tutt’e due le cose. Là nel vecchio paesaggio urbano a mattoni rossi di bottegucce a gestione familiare e tram e alberi ombrosi e casette, tutte allora coronate, prima della Tv, solo dall’appendice di uno svettante camino, nella Boston dove la Depressione non era mai terminata, tra i negozi consacrati alla main Street americana – la gelateria, il barbiere, la farmacia - e a due passi dallo scuro profilo aguzzo della chiesa di St Augustine, alcuni picchiatori armati di bastone si gettarono avanti urlando «Ammazzalo!» e, a due settimane dall’inizio nei cinque distretti amministrativi di New York, la campagna di Winchell, come Winchell l’aveva immaginata, prese quota. Era riuscito finalmente a far venire a galla il grottesco lindberghiano, l’altra faccia dell’affabile mitezza di Lindbergh, cruda e senza maschera. Anche se la polizia di Boston nulla fece per fermare i sediziosi – i colpi di pistola erano echeggiati almeno da un’ora prima che una volante venisse a vedere cosa stava succedendo -, la squadra di guardie del corpo in borghese messa ai fianchi di Winchell per tutto il viaggio riuscì a spegnere le fiamme che gli stavano bruciando una gamba dei calzoni e, dopo averlo liberato dalla prima ondata della folla quando aveva ricevuto solo qualche colpo, a caricarlo su una macchina ferma a pochi metri dalla cassetta e a portarlo al Carney Hospital di Telegraph Hill, dove lo curarono per ferite al viso e piccole ustioni. All’ospedale il suo primo visitatore non fu il sindaco, Maurice Tobin, né il rivale a quella carica sconfitto da Tobin, l’ex governatore James M. Curley (un altro democratico rooseveltiano che, come il democratico Tobin, non voleva aver nulla a che fare con Winchell). E non fu nemmeno il locale rappresentante del Congresso, John W. McCormack, il cui fratello attaccabrighe, un barista conosciuto col nome di Knocko, comandava nel quartiere con la stessa autorità del popolare deputato democratico. Con sorpresa di tutti, a partire dallo stesso Winchell, il suo primo visitatore fu un patrizio repubblicano di illustre prosapia del New England, il governatore per due mandati del Massachusetts Leverett Saltonstall. Saputo del ricovero di Winchell all’ospedale, il governatore Saltonstall aveva lasciato il proprio ufficio nella sede del governo per comunicare il suo rammarico direttamente a Winchell (un uomo che in privato poteva solo avere disprezzato), e per promettere un’inchiesta a tutto campo sul ben organizzato e ovviamente premeditato pandemonio che, per pura combinazione, non aveva fatto delle vittime. Assicurò inoltre a Winchell la protezione della polizia di stato - e se necessario, della guardia nazionale - per tutta la durata della campagna di Winchell nel Massachusetts. E prima di lasciare l’ospedale il governatore provvide a far mettere due agenti armati davanti alla porta di Winchell, solo a qualche passo dal suo letto. Il «Boston Herald» interpretò l’intervento di Saltonstall come una manovra politica destinata a farlo riconoscere come un conservatore coraggioso, onesto ed equanime che poteva essere utile al suo partito, nel 1944, come dignitoso rimpiazzo del
vicepresidente democratico Burton K. Wheeler, che aveva fatto il suo dovere nella campagna del 1940, ma era troppo imprudente come oratore: molti repubblicani ora temevano che potesse compromettere il loro presidente nel secondo mandato. In una conferenza stampa all’ospedale, durante la quale Winchell si presentò ai fotografi in vestaglia, con le bende che gli coprivano metà del viso e il piede sinistro ampiamente fasciato, il giornalista accettò di buon grado l’offerta del governatore Saltonstall ma declinò il suo aiuto in un messaggio (articolato, ora che lo avevano attaccato, più in un linguaggio da uomo di stato che nel febbrile cicaleccio che gli era abituale) che fu distribuito alle due dozzine di reporter della radio e della stampa affluiti nella sua stanza. La dichiarazione cominciava così: «Il giorno in cui un candidato alla presidenza degli Stati Uniti avrà bisogno di una falange di funzionari di polizia armati e di membri della guardia nazionale per difendere il suo diritto a esprimersi liberamente, questo grande paese sarà caduto nella barbarie fascista. Non posso accettare che l’intolleranza religiosa irradiata dalla Casa Bianca abbia già così corrotto il comune cittadino da fargli perdere ogni rispetto per gli americani di una fede diversa dalla sua. Non posso accettare che l’odio per la mia religione nutrito da Adolf Hitler e Charles A. Lindbergh possa avere già corroso...» Da allora in poi gli agitatori antisemiti andarono a caccia di Winchell a ogni crocevia, anche se senza successo a Boston, dove Saltonstall aveva ignorato le esibizioni di Winchell e ordinato alle sue truppe di imporre l’ordine, usando la forza se necessario, e di mettere al fresco i violenti, ordine che venne eseguito, anche se con qualche riluttanza. Intanto - usando un bastone per reggersi a causa del piede ustionato e con la mascella e la fronte ancora bendate - Winchell riusciva ad attirare una folla rabbiosa che cantava «Torna a casa, ebreo!» in ogni parrocchia dove andava a mostrare le sue stimmate ai fedeli, dalla Gate of Heaven Church di South Boston al St Gabriel’s Monastery di Brighton. Oltre il Massachusetts, nelle comunità settentrionali dello stato di New York, della Pennsylvania e di tutto il Midwest che erano già note per il loro fanatismo - e alle quali l’esplosiva strategia di Winchell inevitabilmente lo additava - la maggior parte delle autorità locali non condividevano l’indisponibilità di Saltonstall a tollerare la conflittualità civile, e così, nonostante il raddoppio del suo cordone di guardie del corpo in borghese, il candidato andava assai vicino a farsi malmenare ogni volta che saliva sulla cassetta per denunciare «il fascista alla Casa Bianca» e per attribuire direttamente all’«odio religioso» del presidente la responsabilità di «incoraggiare nelle strade americane una barbarie di stampo nazista senza precedenti.» Le violenze peggiori e più diffuse ebbero luogo a Detroit, il quartier generale nel Midwest del «prete della radio» padre Coughlin, del suo Fronte Cristiano antisemita e del demagogico ministro del culto noto come «il decano degli antisemiti», il reverendo Gerald L. K. Smith, il quale predicava che «il carattere cristiano è la base genuina del vero americanismo.» Detroit, naturalmente, era anche la culla dell’industria automobilistica americana e dell’anziano ministro degli Interni di Lindbergh, Henry Ford, il cui giornale dichiaratamente antisemita, il «Dearborn Independent», pubblicato negli anni Venti, si era dedicato a «un’inchiesta sulla
Questione Ebraica» che Ford aveva infine ristampato in quattro volumi, per un totale di quasi mille pagine, intitolati The International Jew, in cui avvertiva che nell’epurazione dell’America «l’Ebreo Internazionale e i suoi satelliti, nemici consapevoli di tutto ciò che gli anglosassoni intendono con la parola civiltà, non saranno risparmiati.» C’era da aspettarsi che organizzazioni come l’American Civil Liberties Union e illustri giornalisti come John Gunther e Dorothy Thompson si sarebbero indignati per i disordini di Detroit e avrebbero immediatamente reso pubblico il loro disgusto, ma altrettanto fecero molti americani borghesi e benpensanti che, anche se trovavano ripugnanti Walter Winchell e la sua retorica e capivano che lui «cercava rogna», erano anche sbigottiti dalle testimonianze oculari di come i disordini scoppiati alla prima sosta di Winchell a Hamtramck (il quartiere residenziale abitato principalmente da lavoratori dell’industria automobilistica e dalle loro famiglie di cui si diceva che, Varsavia esclusa, avesse la popolazione polacca più grande del mondo) si erano in pochi minuti sospettosamente estesi prima a l’2th Street, poi a Linwood e a Dexter Boulevard. Là, nei quartieri ebraici più grandi della città, negozi vennero saccheggiati e vetrine infrante, gli ebrei sorpresi all’aperto furono aggrediti e malmenati, e croci impregnate di kerosene furono incendiate sui prati delle case eleganti lungo Chicago Boulevard e davanti alle modeste abitazioni bifamiliari degli imbianchini, degli idraulici, dei macellai, dei fornai, dei rigattieri e dei droghieri che vivevano a Webb e Tuxedo e nei cortiletti in terra battuta degli ebrei più poveri di Pingry e Euclid. A metà del pomeriggio, solo qualche istante prima che chiudessero le scuole, una bomba incendiaria fu gettata nell’atrio della scuola elementare Winterhalter, dove metà degli studenti erano ebrei, un’altra nell’atrio di Central High, il cui corpo studentesco era ebraico al novantacinque per cento, un’altra attraverso una finestra allo Sholem Aleichem Institute - un’organizzazione culturale alla quale Coughlin aveva ridicolmente affibbiato l’etichetta di comunista - e una quarta davanti a un altro dei bersagli «comunisti» di Coughlin, la Jewish Workers’ Alliance. Poi venne l’attacco alle sedi del culto. Non soltanto si sfondarono le finestre e si imbrattarono i muri di una metà della trentina di sinagoghe ortodosse della città, ma quando stavano per iniziare le funzioni serali ci fu un’esplosione sui gradini del prestigioso tempio Shaarey Zedek di Chicago Boulevard. L’esplosione provocò gravi danni all’esotico pezzo forte in stile moresco dell’architetto Albert Kahn: le tre imponenti arcate dell’ingresso che attiravano l’attenzione della popolazione operaia per il loro stile decisamente poco americano. Cinque passanti, nessuno dei quali – guarda caso - era ebreo, rimasero feriti dalle schegge staccatesi dalla facciata, ma non ci fu notizia di altre vittime. Verso sera, parecchie centinaia dei trentamila ebrei della città erano fuggiti e si erano rifugiati oltre il fiume Detroit a Windsor, nell’Ontario, e la storia americana aveva registrato il suo primo pogrom su vasta scala, chiaramente modellato sulle «dimostrazioni spontanee» contro gli ebrei della Germania note come Kristallnacht, «la Notte dei Cristalli», le cui atrocità erano state programmate e perpetrate dai nazisti quattro anni prima e che padre Coughlin nel suo tabloid settimanale, «Social
Justice», aveva allora difeso come giusta reazione dei tedeschi contro il «comunismo di ispirazione ebraica.» La Kristallnacht di Detroit venne giustificata analogamente nella pagina degli editoriali del «Detroit Times» come la risposta inopportuna ma inevitabile e perfettamente comprensibile alle attività dell’invadente piantagrane che il giornale chiamava «il demagogo ebreo il cui obiettivo era stato fin dal primo momento quello di attizzare il furore dei patrioti americani con la sua perfida sobillazione.» La settimana dopo l’attacco di settembre agli ebrei di Detroit - che non fu condannato con prontezza né dal governatore del Michigan né dal sindaco della città -, nuove violenze scoppiarono contro le case, i negozi e le sinagoghe nei quartieri ebraici di Cleveland, Cincinnati, Indianapolis e St Louis, violenze che i nemici di Winchell attribuivano alle sue visite deliberatamente provocatorie a quelle città dopo il cataclisma che aveva scatenato a Detroit, e che lo stesso Winchell – che a Indianapolis aveva evitato per un pelo di essere schiacciato da una lastra di pietra gettata da un tetto che aveva rotto il collo della guardia del corpo piazzata di fianco a lui - spiegava col «clima di odio» che emanava dalla Casa Bianca. La nostra strada di Newark era a molte centinaia di miglia dal Dexter Boulevard di Detroit, da queste parti nessuno era mai stato a Detroit, e prima del settembre 1942 tutto ciò che i ragazzi dell’isolato sapevano di Detroit era che l’unico giocatore ebreo del baseball professionistico era il celebre prima base dei Tigers, Hank Greenberg. Ma poi arrivarono i disordini di Winchell, e improvvisamente anche i bambini sapevano recitare i nomi dei quartieri di Detroit che erano stati sconvolti dalla violenza. Ripetendo a pappagallo quello che sentivano dai loro genitori, non facevano che discutere tra loro se Walter Winchell era coraggioso o stupido, altruista o egoista, e se faceva o non faceva il gioco di Lindbergh permettendo ai cristiani di dire che gli ebrei le loro disgrazie se l’erano proprio andate a cercare. Discutevano se non sarebbe stato meglio - prima che Winchell provocasse un pogrom su scala nazionale desistere e permettere che tra gli ebrei e i loro compatrioti americani si ristabilissero rapporti «normali», o se invece a lungo andare non sarebbe stato meglio che Winchell continuasse a suonare l’allarme tra gli ebrei più soddisfatti del paese - e a stimolare la coscienza dei cristiani - denunciando la minaccia dell’antisemitismo da un capo all’altro dell’America. Mentre andavano a scuola, al campo sportivo dopo le lezioni, fra una lezione e l’altra nei corridoi, si vedevano i ragazzi più svegli formare dei capannelli, ragazzi dell’età di Sandy e anche qualcuno non più grande di me, e discutere accanitamente se il giro del paese di Walter Winchell con la sua cassetta per stanare i bundisti tedesco-americani e i seguaci di padre Coughlin e i membri del KuKlux-Klan e le Silver Shirts e gli America Firsters e la Black Legion e il Partito nazista americano, se spingere questi antisemiti organizzati e le loro migliaia di invisibili simpatizzanti a mostrarsi per quello che erano - e a mostrare il presidente per quello che era, un presidente e un comandante in capo che non si era ancora preoccupato di riconoscere che esisteva qualcosa di simile a uno stato di emergenza, e che si era ben guardato dallo schierare le truppe federali per prevenire altri disordini - era per gli ebrei un bene o un male.
Dopo Detroit gli ebrei di Newark - circa cinquantamila in una città di ben oltre un milione di abitanti - cominciarono a prepararsi alle gravi violenze che potevano scoppiare nelle loro strade, o per via di una puntata di Winchell nel New Jersey quando fosse tornato verso est, o per l’inevitabile diffondersi dei disordini in città dove, come a Newark c’era un quartiere massicciamente ebraico a ridosso di vaste comunità di lavoratori irlandesi, italiani, tedeschi e slavi che contavano già un bel numero di fanatici. L’ipotesi era che queste persone non avrebbero avuto bisogno di molti incoraggiamenti per trasformarsi in una folla irragionevole e violenta grazie all’opera dei filonazisti che avevano progettato e felicemente scatenato i disordini di Detroit. Quasi dalla sera alla mattina il rabbino Joachim Prinz, insieme ad altri cinque illustri ebrei di Newark - compreso Meyer Ellenstein -, fondò il Newark Committee of Concerned Jewish Citizens. Il gruppo diventò rapidamente un modello per analoghi gruppi ad hoc di cittadini ebrei in altre grandi città decise a garantire la sicurezza delle loro comunità chiedendo alle autorità di studiare piani di emergenza per prepararsi al peggio. Il comitato di Newark organizzò prima un incontro in municipio - presieduto dal sindaco Murphy, la cui elezione aveva messo fine agli otto anni di carica di Ellenstein - con il capo della polizia di Newark, il capo dei pompieri e il direttore del dipartimento della pubblica sicurezza. Il giorno dopo il comitato si riunì nella sede dell’assemblea legislativa di Trenton con il governatore democratico Charles Edison, il sovrintendente della polizia di stato del New Jersey e il comandante della guardia nazionale del New Jersey. Partecipava anche il procuratore generale Wilentz, una vecchia conoscenza dei sei membri del comitato, e nel bollettino del comitato di Newark distribuito ai giornali del New Jersey si lesse che Wilentz aveva assicurato al rabbino Prinz che chiunque avesse tentato di aggredire gli ebrei di Newark sarebbe stato perseguito a termini di legge. Quindi il comitato telegrafò al rabbino Bengelsdorf chiedendo di incontrarsi con lui a Washington, ma fu informato che il loro era un problema locale e non federale, e ricevette il consiglio di rivolgersi, come già stavano facendo, ai rappresentanti dello stato e della città. I sostenitori di Bengelsdorf lo elogiarono per essersi tenuto al di sopra della mischia, evitando di esporsi nel sordido affare Winchell, mentre tra le quinte, in conversazioni private alla Casa Bianca con la signora Lindbergh, il rabbino chiedeva con insistenza che si portasse aiuto a quegli ebrei innocenti che in tutto il paese stavano pagando tragicamente per l’iniqua condotta del candidato traditore, un provocatore che cinicamente incoraggiava i cittadini americani che non avevano alcun bisogno di sentirsi assediati a restare attaccati alle loro più vecchie, più paralizzanti ansietà. I sostenitori di Bengelsdorf costituivano un’influente conventicola appartenente agli strati più alti e fortemente assimilati della società ebraico-tedesca. Molti di essi erano benestanti e appartenevano alla prima generazione ebraica che aveva frequentato scuole secondarie di élite e università dell’Ivy League dove, poiché piccolo era il loro numero, si erano mescolati con i nonebrei, ai quali in seguito si erano associati in imprese comuni politiche e affaristiche, e che a volte sembravano accettarli come loro pari. Per questi ebrei privilegiati non
c’era nulla di sospetto nei programmi ideati dall’ufficio del rabbino Bengelsdorf per insegnare agli ebrei più poveri e meno colti a vivere più in armonia con i cristiani della nazione. La cosa deprecabile, per loro, era che gli ebrei come noi continuassero a stringersi gli uni agli altri nelle città come Newark a causa di una xenofobia generata da pressioni storiche che non esistevano più. Lo status conferito dai privilegi economici e professionali li spingeva a credere che quelli che non avevano il loro prestigio venissero respinti dalla società in generale più per il loro gretto spirito di clan che per un forte desiderio di esclusione da parte della maggioranza cristiana, e che i quartieri come il nostro fossero meno il risultato della discriminazione che il suo brodo di coltura. Essi riconoscevano, naturalmente, che in America c’erano sacche di arretratezza dove l’antisemitismo era ancora la passione più grande e più ossessiva della gente, ma questa al direttore dell’Uaa sembrava solo una ragione di più Per incoraggiare gli ebrei svantaggiati dalle limitazioni di Un’esistenza segregata a permettere almeno ai loro figli di integrarsi nella società americana e mostrare di essere completamente diversi dalla caricatura dell’ebreo propagandata dai nostri nemici. Se questi ebrei ricchi, cittadini e sicuri di sé aborrivano in particolar modo la caricatura che Winchell faceva di se stesso era perché in questo modo lui rinfocolava deliberatamente proprio l’ostilità che essi immaginavano di aver attenuato col proprio comportamento esemplare verso i colleghi e gli amici cristiani. Tolti il rabbino Prinz e l’ex sindaco Ellenstein, gli altri quattro membri del comitato di Newark erano l’anziana leader civica responsabile del successo dei programmi di americanizzazione per bambini immigrati nel sistema scolastico di Newark - e moglie del principale chirurgo del Beth Israel Hospital - Jenny Danzis; il direttore del grande magazzino e figlio del fondatore della S. Plaut & Co., nonché presidente per la decima volta della Broad Street Association, Moses Plaut; l’illustre proprietario immobiliare ed ex presidente della Newark Conference of Jewish Charities, il leader comunitario Michael Stavitsky; e il capo del personale medico del Beth Israel, il dottor Eugene Parsonette. Che al principale gangster di Newark, Longy Zwillman, non fosse stato chiesto di unirsi a un gruppo di ebrei locali importante come questo non fu una sorpresa per nessuno, anche se Longy era un uomo ricco di enorme influenza e non meno afflitto del rabbino Prinz dalla minaccia rappresentata dagli antisemiti che, col pretesto di essere stati provocati da Walter Winchell, avevano inaugurato quella che a molti sembrava la prima fase della soluzione della «Questione Ebraica» di Henry Ford. Longy cominciò separatamente, oltre alle numerose autorità civili che avevano promesso al rabbino Prinz tutta la loro collaborazione, a darsi da fare affinché, se e qualora la polizia di Newark e quella del New Jersey non avessero reagito più vigorosamente di quanto aveva fatto la polizia ai disordini di Boston e Detroit, gli ebrei della città non restassero senza protezione. Apfelbaum detto «il Proiettile», il socio noto in tutta la città come il braccio esecutivo di Longy - e il fratello maggiore di Niggy Apfelbaum -, ricevette l’incarico da Longy di integrare il buon lavoro del Newark Committee of Concerned Jewish Citizens reclutando quel drappello di incorreggibili ragazzi ebrei che non avevano finito le scuole superiori e addestrandoli
come quadri di un corpo di volontari frettolosamente costituito sotto il nome di Polizia ebraica provvisoria. Questi erano i ragazzi del posto senza nessuno degli ideali radicati nel resto di noi, che avevano cominciato ad avere un alone di illegalità già in quinta elementare, gonfiando preservativi nei gabinetti della scuola e facendo a cazzotti sul 14 e lottando fino a sanguinare sul marciapiede di cemento davanti al cinema, quelli con i quali, negli anni di scuola, i genitori esortavano i figli a non immischiarsi, e che avevano passato la ventina e ora si occupavano della lotteria clandestina e giocavano a bigliardo e lavavano i piatti nelle cucine di questo o quello dei ristoranti e delle rosticcerie del quartiere. Alla maggior parte di noi erano noti, se lo erano, solo per la teppistica magia dei loro nomignoli survoltati - Leo Nusbaum detto «il Leone», Kimmelman «Pugno di ferro», Big Gerry Schwartz, Breitbart «lo Scemo», Duke Glick «Fa a cazzotti» - e per i loro quozienti d’intelligenza a due cifre. E adesso erano lì, ogni due angoli di strada, il plotoncino delle schiappe del nostro vicinato, lì a sputare nel rigagnolo con aria esperta e a scambiarsi segnali fischiando con le dita in bocca. Eccoli, gli incalliti e gli ottusi e i deficienti, i devianti degli ebrei a passeggio per le strade come marinai in libera uscita che cercassero di attaccar briga. Eccoli, i pochi scriteriati che i nostri genitori ci avevano insegnato a compiangere e a temere, i trogloditi dell’età della pietra e gli omuncoli rabbiosi e i sinistri ammazzasette con le spalle da sollevatori di pesi, che in Chancellor Avenue attaccavano bottoni ai ragazzi come me e ci dicevano di tenere le mazze da baseball a portata di mano caso mai ci avessero chiamato a occupare le strade nel cuore della notte, e la sera andavano all’Y13 e ai campi di baseball la domenica e nei negozietti del posto durante la settimana, arruolando con la forza gli uomini validi tra gli adulti del quartiere in modo da portare a un totale di tre per isolato le squadre su cui contare in caso di emergenza. Incarnavano tutto ciò che di rozzo e di spregevole i nostri genitori avevano sperato di lasciarsi dietro, insieme alla loro miseria infantile e agli slum della terza circoscrizione; ed ecco invece che i nostri demoni erano diventati i nostri difensori, ciascuno con un revolver carico appeso al polpaccio, in prestito dalla collezione di Apfelbaum «il Proiettile», che com’era noto a tutti aveva dedicato l’esistenza a intimidire fedelmente la gente per conto di Longy, a minacciarla, a picchiarla, a torturarla e - nonostante il fatto che, a imitazione di un boss che pesava sicuramente quindici chili meno di lui ed era più alto di trenta centimetri, «il Proiettile» non si faceva mai vedere se non con un completo adorno di un fazzoletto di seta da taschino ben piegato dello stesso colore della cravatta, e con in testa un costoso Borsalino bonariamente angolato solo qualche centimetro sopra quello che era, per ammissione generale, l’ingeneroso cipiglio di un severissimo giudice della natura umana - a troncarne la vita, se questa fosse stata la volontà del boss. Ciò che rese la morte di Walter Winchell un avvenimento sul quale si gettarono immediatamente i giornalisti di tutta la nazione non fu solo il fatto che la sua poco ortodossa campagna aveva scatenato i disordini antisemiti peggiori del secolo fuori dai confini della Germania nazista, ma che l’assassinio di un semplice candidato alla 13
Abbreviazione per Ymja (Young Men’s Jewish Association) [N. d. T]
presidenza era in America una cosa senza precedenti. Anche se i presidenti Lincoln e Garfield erano stati uccisi a colpi di pistola nella seconda metà dell’Ottocento e McKinley all’inizio del Novecento, e anche se nel 1933 FDR era sfuggito a un attentato che era invece costato la vita a uno dei suoi sostenitori, il sindaco democratico di Chicago Cermak, soltanto ventisei anni dopo l’assassinio di Winchell sarebbe stato ucciso un altro candidato alla presidenza: il senatore democratico di New York Robert Kennedy, fatalmente colpito alla testa dopo aver vinto le primarie del suo partito in California martedì 4 giugno 1968. Il 5 ottobre 1942, un lunedì, ero in casa da solo dopo la scuola ad ascoltare alla radio del soggiorno la cronaca degli ultimi inning della quinta partita della World Series tra i Cardinal e gli Yankee quando, all’inizio del nono, mentre i Cardinal andavano alla battuta con le squadre in pareggio sul 2 a 2 - ed erano in testa alla Series con tre partite a una, la cronaca minuto per minuto fu interrotta da una voce che parlava con quella dizione finemente articolata un po’ all’inglese molto apprezzata in un annunciatore ai primi tempi della radio: «Interrompiamo questo programma per leggervi un importante bollettino. Il candidato presidenziale Walter Winchell è stato ucciso a colpi di pistola. Ripetiamo: Walter Winchell è morto. È stato assassinato a Louisville, nel Kentucky, mentre teneva un comizio all’aperto. Questo è tutto ciò che si sa per il momento sull’assassinio del candidato presidenziale democratico Walter Winchell a Louisville. Riprendiamo la trasmissione del programma regolarmente previsto.» Non erano ancora le cinque. Mio padre era appena uscito per. andare al mercato sul camion dello zio Monty, mia madre era andata in Chancellor Avenue qualche minuto prima a comprare qualcosa per la cena e mio fratello, sempre mirando al suo unico scopo, era andato a cercare un posto adatto agli appuntamenti dove poter riprendere a convincere una delle sue ragazze del doposcuola a permettergli l’accesso al suo seno. Sentii qualcuno gridare nella via, poi un urlo da una casa vicina, ma la partita era ripresa e la suspense era tremenda: Red Ruffing lanciava al terza base dei Cardinal, il novellino Whitey Kurowski, col catcher dei Cardinal, Walker Cooper, in prima base al sesto colpo messo a segno in cinque partite, e ai Cardinal bastava questa vittoria per vincere la Series. Rizzuto aveva fatto un home run per gli Yankee, Enos Slaughter, con quel nome prodigioso14, aveva fatto un home run per i Cardinal, e, come i piccoli tifosi amano istrionicamente raccontare, prima ancora che Ruffing eseguisse il primo lancio io «sapevo» che Kurowski avrebbe fatto un altro home run per i Cardinal e dato loro la quarta vittoria consecutiva dopo la sconfitta iniziale. Non vedevo l’ora di correre fuori urlando: «Lo sapevo! Lo dicevo! Da Kurowski c’era da aspettarselo! » Ma quando Kurowski fece 1 home run e l’incontro fini e io ero fuori dalla porta e correndo a perdifiato stavo per uscire dal vialetto, vidi due Cembri della polizia ebraica - Big Gerry e Duke Glick - correre da un lato all’altro della strada bussando alle porte e gridando negli androni: «Hanno sparato a Winchell! Winchell è morto!» 14
Slaughter significa "macello, carneficina, strage» [N. d. T.]
Intanto altri ragazzi stavano uscendo dalle loro case, in delirio per la vittoria della World Series. Ma appena mettevano piede nella strada gridando il nome di Kurowski Big Gerry cominciava ad abbaiare: «Andate a prendere le mazze! È scoppiata la guerra!» E non intendeva la guerra contro la Germania. Prima di sera nella nostra strada non c’era una famiglia che non si fosse barricata dietro porte chiuse a doppia mandata, con la radio sempre accesa per sentire l’ultimo bollettino e con tutti che telefonavano per dire a tutti che alla folla di Louisville Winchell non aveva detto nulla di incendiario, che anzi aveva iniziato il suo discorso con quello che poteva essere stato inteso solo come un appello all’amor proprio della cittadinanza: «Signor Louisville, nel Kentucky, e signora, orgogliosi abitanti della straordinaria città americana che è la sede della più grande corsa ippica del mondo e il luogo di nascita del primo giudice ebreo della Corte suprema degli Stati Uniti...» Eppure, prima che potesse pronunciare il nome di Louis D. Brandeis, era stato abbattuto da tre proiettili alla nuca. Un secondo bollettino, andato in onda solo qualche istante dopo, diceva che il punto dove era avvenuto l’omicidio si trovava solo a pochi metri da uno dei più eleganti palazzi municipali in stile Rinascimento greco di tutto il Kentucky, la Jefferson County Courthouse, con la sua imponente statua di Thomas Jefferson rivolta verso la strada e una scalinata lunga e larga che portava al grandioso colonnato del portico. I colpi che avevano ucciso Winchell sembravano essere stati esplosi da una delle grandi, austere e ben proporzionate finestre sul davanti. Mia madre cominciò a fare le prime telefonate subito dopo essere tornata dallo shopping. Io l’aspettavo appena dentro per dirle di Walter Winchell appena fosse arrivata, ma lei sapeva già il poco che si poteva sapere, primo perché la moglie del macellaio aveva telefonato al negozio per ripetere il bollettino a suo marito proprio mentre lui stava incartando l’ordinazione di mia madre, e poi per lo sconcerto evidente fra le persone uscite in strada, che stavano già correndo per mettersi al sicuro nelle loro case. Non riuscendo a raggiungere mio padre, che non era ancora arrivato al mercato coì camion, cominciò naturalmente a preoccuparsi per mio fratello, che ancora una volta camminava sul filo del rasoio e probabilmente sarebbe sbucato di corsa dalle scale di dietro solo qualche secondo prima del momento in cui doveva sedersi a tavola con le mani monde della sporcizia della giornata e la faccia ripulita dal rossetto. Era il peggior momento immaginabile per essere via e in un luogo imprecisato, ma senza perdere tempo a togliere la roba dal sacchetto o a esprimere il suo allarme, mia madre mi disse: «Portami la mappa. Portami la tua carta dell’America.» C’era una grande carta geografica pieghevole del continente nordamericano chiusa in una tasca dentro il primo volume dell’enciclopedia che ci aveva venduto un rappresentante porta a porta l’anno in cui io avevo iniziato la scuola. Mi precipitai nella veranda, dove, sistemata su una mensola tra i reggilibri d’ottone di George Washington comprati a Mount Vernon da mio padre, c’era tutta la nostra biblioteca: l’enciclopedia in sei volumi, una copia rilegata in pelle della costituzione degli Stati Uniti ricevuta in premio dalla Metropolitan Life e il dizionario Webster in edizione
integrale che la zia Evelyn aveva regalato a Sandy per il suo decimo compleanno. Aprii la carta e la spiegai sopra la tela cerata che copriva il tavolo della cucina, dopodiché mia madre usando la lente d’ingrandimento che avevo ricevuto dai miei genitori come dono per il mio settimo compleanno insieme all’insostituibile e non dimenticato album di francobolli - cercò nel Kentucky centrosettentrionale il puntino che era la città di Danville. In pochi secondi eravamo di nuovo davanti al tavolino del telefono nell’ingresso, sopra il quale pendeva un altro dei premi ricevuti da mio padre per le polizze che aveva venduto, un’incisione su rame in cornice con una copia della Dichiarazione d’Indipendenza. Nella Essex County il telefono aveva appena dieci anni di vita, e probabilmente un buon terzo della popolazione di Newark non aveva ancora l’apparecchio e la maggior parte di quelli che l’avevano, come noi, erano in duplex e così la telefonata interurbana era ancora un fenomeno meraviglioso, non soltanto perché fare una telefonata interurbana per una famiglia dei nostri mezzi era un’esperienza tutt’altro che comune, ma perché nessuna spiegazione tecnologica, per quanto semplice, riusciva a toglierla interamente dal regno della magia. Mia madre parlò al centralino con molta precisione per essere sicura che non ci fossero malintesi e che non ci venisse addebitato per sbaglio qualche extra. Centralino, voglio fare un’interurbana da persona a persona. A Danville, nel Kentucky. Da persona a persona con la signora Selma Wishnow. E per favore, centralino, quando i miei tre minuti saranno scaduti, non si dimentichi di dirmelo. Ci fu una lunga pausa mentre il centralino si faceva dare il numero dal servizio elenco telefonico. Quando mia madre finalmente sentì fare la telefonata, mi indicò di accostare l’orecchio al suo, ma di non parlare. - Pronto! - Quello che risponde entusiasticamente è Seldon. Centralino: - Questa è un’interurbana. Ho una chiamata da persona a persona per la signora Selma Wistful. - Uh-uh, - borbotta Seldon. - È la signora Wistful? - Pronto? In questo momento mia madre non è in casa. Centralino: - Vorrei parlare con la signora Selma Wistful... - Wishnow, - urla mia madre. - Wishnow. - Chi è? - dice Seldon. - Chi parla? Centralino: - Signorina, sua madre è in casa? - Io sono un ragazzo, - dice Seldon. Sconcertato. Un altro colpo. Non smettono di arrivare. Ma effettivamente sembra una ragazza, la sua voce è ancora più acuta di quando abitava al piano di sotto. - Mia madre non è ancora tornata dal lavoro, - dice Seldon. Centralino: - La signora Wishnow non è in casa, signora. Mia madre mi guarda e dice: - Cosa può essere successo? Il ragazzo è solo. Dove può essere andata? È completamente solo. Centralino, parlerò con chiunque sia in casa. Centralino: - Parli pure, signore. - Chi è? - chiede Seldon. - Seldon, sono la signora Roth. Da Newark.
- La signora Roth? - Sì. Ho fatto un’interurbana per parlare con tua madre. - Da Newark? - Sai chi sono. - Ma sembra che lei sia qui vicino. - Be’, non è così. È un’interurbana. Seldon, dov’è tua madre? - Sto facendo uno spuntino. Sto aspettando che torni a casa dal lavoro. Sto mangiando dei biscotti con i fichi. E un po’ di latte. - Seldon... - Sto aspettando che torni a casa dal lavoro... Lavora fino a tardi. Lavora sempre fino a tardi. Sto qui seduto e basta. Certe volte faccio uno spuntino... - Seldon, basta. Sta’ zitto un momento. - E poi torna a casa e prepara la cena. Ma ogni sera torna a casa tardi. Qui mia madre si rivolge a me e accenna a porgermi il telefono. - Parlagli tu. Non mi ascolta quando parlo. - Di cosa gli devo parlare? - dico io, respingendo il telefono. - C’è Philip, lì? - Solo un attimo, Seldon, - dice mia madre. - C’è Philip, lì? - ripete Seldon. A me mia madre dice: - Prendi il telefono, per favore. - Ma cosa dovrei dire? - chiedo. - Prendi il telefono, - e mi mette il ricevitore in una mano e solleva il microfono per farmelo tenere nell’altra. - Pronto, Seldon? - dico io. Titubante, incredulo, risponde con un filo di voce: - Philip? - Sì. Ciao, Seldon. - Ehi, sai, a scuola non ho neanche un amico. Gli dico: - Vogliamo parlare con tua madre. - Mia madre è andata a lavorare. Ogni sera lavora fino a tardi. Io sto facendo uno spuntino. Sto mangiando dei biscotti con i fichi e un bicchiere di latte. Tra una settimana è il mio compleanno e mia madre ha detto che potremmo fare una festa... - Seldon, aspetta un momento. - Ma io non ho amici. - Seldon, devo fare una domanda a mia madre. Aspetta. - Copro il microfono con la mano e le sussurro: - Cosa dovrei dirgli? Mia madre mormora: - Chiedigli se sa cos’è successo oggi a Louisville. - Seldon, mia madre vuole sapere se sai cos’è successo oggi a Louisville. - Io abito a Danville. Abito a Danville, nel Kentucky. Sto aspettando che mia madre torni a casa. Sto facendo uno spuntino. È successo qualcosa a Louisville? - Solo un minuto, Seldon, - dico io. - E adesso? - sussurro a mia madre. - Parla con lui, per favore. Continua a parlare con lui. E se il centralino dice che i tre minuti sono passati, dimmelo. - Perché hai telefonato? - chiede Seldon. - Vieni a trovarci?
- No. - Ricordi quando ti ho salvato la vita? - dice lui. - Sì, certo. Mi ricordo. - Ehi, lì che ore sono? Sei a Newark? Sei in Summit Avenue? - Te l’abbiamo detto. Sì. - Si sente benissimo, vero? Sembrate a due passi da qui. Vorrei che tu potessi venire a fare uno spuntino con me, e poi potresti essere qui per la mia festa di compleanno la settimana prossima. Non ho neanche un amico da invitare per il mio compleanno. Non ho nessuno con cui giocare a scacchi. Ora sono qui seduto a esercitarmi con la mossa di apertura. Ti ricordi la mia mossa di apertura? Io muovo il pedone che sta proprio davanti al re. Ti ricordi quando cercavo di insegnarti? Io muovo il pedone di re, ricordi? Poi muovo l’alfiere, poi muovo il cavallo e poi l’altro cavallo. E ricordi la mossa quando non ci sono più pezzi tra il re e una delle torri? Quando muovo il re di due caselle per difenderlo? - Seldon... Mia madre sussurra: - Digli che senti la sua mancanza. - Mamma! - le dico. - Diglielo, Philip. - Sento la tua mancanza, Seldon. - Allora, vuoi venire a fare uno spuntino? Cioè, sembra proprio... Siete proprio qui vicino? - No, questa è una telefonata interurbana. - Che ore sono, lì? - Sono, uh... Circa le sei meno dieci. - Oh, sono le sei meno dieci anche qui. Mia mamma dovrebbe essere già a casa verso le cinque. Al più tardi le cinque e mezzo. Una sera è tornata alle nove. - Seldon, - dico, - sai che Walter Winchell è stato ucciso? - Chi? - domanda lui. - Fammi finire. Walter Winchell è stato ucciso a Louisville, nel Kentucky. Nel tuo stato. Oggi. - Mi spiace sentirlo. Chi è? Centralino: - I tre minuti sono scaduti, signore. - E tuo zio? - chiede Seldon. - E quello zio che è venuto a trovarti? È morto? - No, no, - dico, e sto pensando che, tutto solo ora là nel Kentucky, è lui a parlare come se fosse quello che ha preso un calcio in testa. Sembra stordito. Paralizzato. Sembra bloccato. Eppure era il ragazzo più intelligente della nostra classe. Mia madre prende il telefono. - Seldon, sono la signora Roth. Voglio che tu scriva una cosa. - Okay. Devo trovare un pezzo di carta. E una matita. Aspettiamo. Aspettiamo. Seldon? - dice mia madre. Aspettiamo ancora. - Okay, - dice Seldon. - Seldon, scrivi questo. Questa telefonata sta diventando cara. - Mi spiace, signora Roth. Non riuscivo a trovare una matita. Ero a tavola. Stavo facendo uno spuntino.
- Seldon, scrivi che la signora Roth... - Okay. -...ha telefonato da Newark. ...Da Newark. Accipicchia! Vorrei essere ancora a al piano di sotto. Sa, ho salvato la vita a Philip. - La signora Roth ha telefonato da Newark per assicurarsi... – Un momento. Sto scrivendo. -... per assicurarsi che vada tutto bene. - Perché? C’è chi dice che qualcosa non va bene? Cioè Philip sta bene. E anche lei sta bene. Il signor Roth sta bene? - Sì, grazie per avermelo chiesto, Seldon. Di’ a tua madre che ho telefonato per questo. Qui non c’è nulla di cui preoccuparsi. - Dovrei essere preoccupato per qualcosa? - No. Fa’ pure il tuo spuntino... - Credo di averne mangiati abbastanza, di biscotti con i fichi, ma grazie lo stesso. - Arrivederci, Seldon. - I biscotti con i fichi mi piacciono, però. - Arrivederci, Seldon. - Signora Roth? -Sì? - Philip può venire a trovarmi? La settimana prossima è il mio compleanno e non ho nessuno da invitare per la mia festa di compleanno. Non ho neanche un amico a Danville. I ragazzi di qui mi chiamano Salatino. Devo giocare a scacchi con un bambino di sei anni. Abita nella casa accanto. È l’unico con cui posso giocare. Un solo ragazzo. Gli ho insegnato a giocare a scacchi. Certe volte fa delle mosse che non si possono fare. O muove la regina, e io gli devo dire di non farlo. Vinco sempre io, però in realtà non ci si diverte. Ma non ho nessun altro con cui giocare. - Seldon, è dura per tutti. È dura per tutti, ormai. Arrivederci, Seldon -. E mise il ricevitore sulla forcella e cominciò a singhiozzare. Solo qualche giorno prima, il primo ottobre, i due appartamenti di Summit Avenue lasciati liberi in settembre dagli «assegnatari del 1942» - quello sotto il nostro e un altro di là dalla strada, a tre porte da noi - furono occupati da famiglie italiane venute su dalla Prima Circoscrizione. In sostanza nuovi alloggi erano stati loro assegnati da un vero e proprio editto del governo, anche se con l’edulcorante incentivo di uno sconto del quindici per cento sull’affitto (cioè di $6,37 sui loro $42,50 mensili) in un periodo di cinque anni, soldi da versare direttamente al padrone di casa da parte del ministero degli Interni per i tre anni iniziali dell’affitto e i primi due anni di un rinnovo di altri tre anni. Queste disposizioni rientravano in una parte non ancora resa pubblica del piano di trasferimenti chiamata Progetto di Buon Vicinato che mirava a introdurre un numero sempre maggiore di residenti non-ebrei nei quartieri prevalentemente ebraici e in tal modo ad «arricchire» l’«americanità» di tutti gli interessati. Quello che si sentiva dire in casa, però - e qualche volta anche a scuola da parte dei nostri insegnanti -, era che lo scopo sottinteso del Progetto di Buon Vicinato, proprio come quello di Just Folks, era di indebolire la solidarietà della
struttura sociale ebraica, come pure di ridurre la forza elettorale che una comunità israelitica poteva avere alle elezioni locali e congressuali. Se la rimozione delle famiglie ebraiche e la loro sostituzione mediante l’arruolamento di famiglie gentili fosse avvenuta al ritmo stabilito dal piano complessivo dell’ente, una maggioranza cristiana avrebbe potuto formarsi in almeno una metà dei venti quartieri ebraici più densamente popolati d’America già all’inizio del secondo mandato di Lindbergh, e la soluzione della Questione Ebraica in America sarebbe stata, in un modo o nell’altro, a portata di mano. La famiglia inviata a stabilirsi sotto di noi - madre, padre, un figlio e una nonna era quella dei Cucuzza. Per avere passato tanti anni a battere la Prima Circoscrizione, dove i clienti di cui riscuoteva ogni mese i modesti premi erano in gran parte italiani, mio padre i nuovi inquilini li conosceva già, e di conseguenza, quando tornò a casa dal lavoro la mattina dopo che il signor Cucuzza, un guardiano notturno, ebbe trasportato la roba della famiglia dal loro appartamento senza l’acqua calda in una casa popolare di una traversa poco lontano dal cimitero del Santo Sepolcro, mio padre prima di salire si fermò davanti alla porta al piano di sotto per vedere se, nonostante si fosse presentato senza la giacca e la cravatta e con le mani sporche, la vecchia nonna lo avrebbe riconosciuto come l’assicuratore che aveva venduto a suo marito la polizza che aveva fornito alla famiglia i mezzi per seppellirlo. Gli «altri» Cucuzza (parenti dei «nostri» Cucuzza, che dal loro appartamento senza l’acqua calda nella Prima Circoscrizione avevano traslocato nella casa a tre porte dalla nostra) erano una famiglia molto più grande - tre figli, una figlia, i due genitori e un nonno - e dei vicini potenzialmente più rumorosi e disturbatori. Attraverso il nonno e il padre erano infatti imparentati con Ritchie Boiardo detto «la Gabina», il gangster che dominava i quartieri italiani di Newark e costituiva l’unico serio concorrente cittadino al monopolio della malavita di Longy. Certo, il padre, Tommy, era solo uno di un branco di tirapiedi e, come il proprio padre pensionato, aveva un secondo lavoro come cameriere nel ristorante popolare di Boiardo, il Vittorio Castle, quando non faceva il giro delle taverne, dei barbieri, dei bordelli, dei cortili delle scuole e dei negozi di dolciumi degli slum della Terza Circoscrizione per vuotare le tasche dei negri che puntavano fedelmente sui numeri della lotteria clandestina. Indipendentemente dalla religione, gli altri Cucuzza non erano proprio i vicini che i miei genitori avrebbero voluto per i loro impressionabili figlioli, e per consolarci una domenica mattina a colazione mio padre ci spiegò come saremmo stati peggio se avessimo avuto l’esattore della lotteria clandestina e i suoi tre ragazzi al posto del guardiano notturno e di suo figlio Joey, un undicenne appena iscritto a St Peter e, stando alle parole di mio padre, un ragazzo bonaccione con un problema di udito che non aveva molto in comune con quegli scavezzacolli dei suoi cugini. Mentre giù nella Prima Circoscrizione i quattro figli di Tommy Cucuzza erano tutti andati alla scuola pubblica, qui erano stati iscritti con Joey a St Peter piuttosto che in una scuola pubblica come la nostra, piena da scoppiare di piccoli ebrei col cervello fino.
Poiché mio padre aveva lasciato il lavoro solo qualche ora dopo l’assassinio di Winchell e, vincendo le irritate obiezioni dello zio Monty, era andato a casa a passare il resto di quella nervosa serata accanto a sua moglie e ai suoi figli, eravamo seduti tutt’e quattro intorno al tavolo della cucina in attesa che la radio ci desse le ultime notizie quando il signor Cucuzza venne su con Joey per la scala di dietro a farci visita. Bussarono alla porta e poi dovettero aspettare sul pianerottolo che mio padre controllasse chi era. Il signor Cucuzza era un uomo calvo e massiccio alto un metro e novanta che pesava centodieci chili, e indossava l’uniforme da guardiano che era la sua tenuta da lavoro, camicia blu scuro, calzoni blu scuro stirati di fresco e un cinturone nero che oltre a tenergli su i calzoni reggeva qualche chilo della più straordinaria collezione di aggeggi a cui io fossi mai stato così vicino da poterla toccare. C’erano mazzi di chiavi, ciascuno grande come una bomba a mano, che pendevano di fianco alle tasche dei calzoni, c’erano un paio di manette vere, e c’era un orologio marcatempo da guardiano notturno nel suo astuccio nero che penzolava da un cinturino attaccato alla fibbia lucida del cinturone. A una prima occhiata, io scambiai l’orologio per una bomba, mentre non c’era da sbagliarsi sul fatto che quella che aveva nella fondina appesa alla cintura era una pistola. Una torcia elettrica piuttosto lunga che doveva fungere anche da eventuale sfollagente era ficcata con la lampadina in alto nella tasca posteriore, e alto su una manica della camicia da lavoro inamidata c’era un distintivo bianco triangolare le cui lettere blu dicevano «Special Guard.» Anche Joey era grosso - aveva solo due anni più di me e pesava il doppio - e per me l’aggeggio che sfoggiava era quasi interessante come quelli di suo padre. Il tappo che aveva nell’orecchio destro, che sembrava una pallottola di bubble gum, era un apparecchio acustico attaccato da un filo sottilissimo a una tonda scatola nera con un quadrante sul davanti che portava attaccata al taschino della camicia; un altro filo era attaccato a una batteria grande più o meno come un grosso accendino che lui portava nella tasca dei calzoni. E tra le mani aveva una torta, dono di sua madre alla mia. Il regalo di Joey era la torta, quello del signor Cucuzza era una pistola. Ne aveva due, una che portava per lavoro e l’altra che teneva in casa, nascosta. Era venuto a offrire a mio Padre quella in più. - Molto gentile da parte tua, - gli disse mio padre, - Ma veramente io non so sparare. - Hai da tira’ il grilletto -. Il signor Cucuzza aveva una voce sorprendentemente dolce per un uomo così enorme, ma con qualcosa di stridente, come se fosse stata esposta per troppo tempo alle intemperie durante le lunghe ore della sua ronda di guardiano. E il suo accento era così piacevole da udire che quando ero solo qualche volta fingevo che il suo modo di parlare fosse anche il mio. Quante volte mi divertii a dire ad alta voce «Hai da tira’ il grilletto?» Con l’eccezione della madre di Joey, che era nata in America, tutti i nostri Cucuzza avevano delle voci piuttosto strane, e quella della nonna baffuta era la più strana di tutte, ancora più strana di quella di Joey, che, più che una voce, sembrava l’eco senza inflessioni di una voce. E strana non soltanto perché lei girava parlando solo in italiano, sia agli altri (me compreso)
che a se stessa mentre spazzava la scala di dietro o si inginocchiava per terra piantando i suoi ortaggi nel nostro minuscolo cortile o semplicemente se ne stava a borbottare nell’androne buio. La sua voce era la più strana perché sembrava la voce di un uomo: lei aveva l’aria di un vecchietto con un lungo abito nero e parlava anche come lui, specie quando abbaiava ordini, decreti e ingiunzioni a cui Joey non osava mai disobbedire. La sua metà giocherellona, l’anima della quale suore e preti non videro mai abbastanza per salvarla, era in pratica tutto quello che incontravo quando noi due eravamo soli. Se era difficile sentirsi troppo dispiaciuti per il suo udito era perché Joey, personalmente, era un ragazzo molto allegro e burlone con un modo di ridere sguaiato tutto suo, un ragazzo loquace, curioso e monumentalmente credulone la cui mente si muoveva in fretta, anche se in modi imprevedibili. Era difficile sentirsi dispiaciuti per lui, ma quando Joey era con la sua famiglia la sua obbedienza era così rigorosa e completa che contemplarla mi riusciva quasi altrettanto stupefacente quanto la rigorosa e completa illegalità di un Shushy Margulis. Non avrebbe potuto esistere un figlio migliore in tutta la Newark italiana, ed era questo il motivo per cui mia madre presto lo trovò irresistibile: la sua impeccabile devozione filiale e le lunghe ciglia scure, il modo in cui rivolgeva sguardi imploranti agli adulti, aspettando che gli dicessero cosa fare, le permetteva di accantonare l’apprensivo riserbo che era la sua difesa automatica contro i gentili. Ma la nonna del Vecchio Continente le faceva venire - a lei e a mela pelle d’oca. - Tu prendi la mira, - spiegò a mio padre il signor Cucuzza, usando l’indice e il pollice per la sua dimostrazione, - e spari. Prendi la mira e spari, tutto qui. - Non mi serve, - disse mio padre. - Ma se vengono, - disse il signor Cucuzza, - come ti difendi? - Cucuzza, io sono nato nella città di Newark nell’anno millenovecento e uno, - gli disse mio padre. - Per tutta la vita ho pagato l’affitto in tempo, ho pagato le tasse in tempo e in tempo ho pagato le mie fatture. Non ho mai rubato a un datore di lavoro neanche dieci cent. Non ho mai cercato di imbrogliare il governo degli Stati Uniti. Io credo in questo paese. Amo questo paese. - Anch’io, - disse il nostro massiccio nuovo vicino del piano di sotto, il cui cinturone nero avrebbe potuto reggere una fila di teste rimpicciolite, dato il fascino che continuava a esercitare su di me. - Io sono arrivato che avevo dieci anni. Il paese migliore di tutti. Niente Mussolini, qui. - Sono lieto che tu la pensi così, Cucuzza. È una tragedia per l’Italia, è una tragedia umana per la gente come te. - Mussolini, Hitler... Mi fanno vomitare. - Sai qual è la mia passione, Cucuzza? Il giorno delle elezioni, - gli disse mio padre. - Io amo votare. Da quando ero abbastanza grande, non ho perso un’elezione. Nel 1924 ho votato contro Coolidge e per Davis, e ha vinto Coolidge. E sappiamo tutti cos’ha fatto Coolidge per i poveri di questo paese. Nel 1928 ho votato contro Hoover e per Smith, e ha vinto Hoover. E sappiamo cos’ha fatto lui per i poveri di questo paese.
Nel 1932 ho votato contro Hoover per la seconda volta e per Roosevelt per la prima volta, e grazie a Dio Roosevelt ha vinto, e ha rimesso l’America in piedi. Ha tirato questo paese fuori dalla Depressione e ha dato alla gente quello che aveva promesso: un nuovo patto15. Nel 1936 ho votato contro Landon e per Roosevelt, e Roosevelt ha vinto ancora: due stati, il Maine e il Vermont, ecco gli unici posti dove Landon riesce a vincere. Non riesce ad assicurarsi nemmeno il Kansas. Roosevelt stravince in tutto il paese col maggior numero di voti mai ottenuti alle elezioni, e ancora una volta mantiene ogni promessa fatta ai lavoratori in quella campagna. E allora cosa fanno gli elettori nel millenovecento e quaranta? Al suo posto eleggono un fascista. Non un semplice idiota come Coolidge, non un semplice allocco come Hoover, ma un fascista patentato con tanto di medaglia che lo prova. Eleggono un fascista e un demagogo fascista, Wheeler, come suo compare, e nel gabinetto ci mettono anche Ford, che non è soltanto un antisemita come Hitler ma uno schiavista che ha trasformato il lavoratore in una macchina. E così stasera tu vieni da me, Cucuzza, a casa mia, e mi offri una pistola. In America nell’anno millenovecento e quarantadue, un vicino nuovo di zecca, un uomo che ancora non conosco, deve venire qui a offrirmi una pistola perché io possa proteggere la mia famiglia dalla teppa antisemita del signor Lindbergh. Be’, non credere che io non ti sia grato, Cucuzza. Non dimenticherò mai che ti sei preoccupato per noi. Ma io sono un cittadino degli Stati Uniti d’America, e così mia moglie, e così i miei figli, e così... - disse, con la voce che tremava, - e così era Walter Winchell... Ma ora, tutt’a un tratto, c’è un bollettino della radio su Walter Winchell. - Ssss! dice mio padre. - Ssss! - come se non fosse stato lui, l’oratore principale in cucina. Ascoltiamo tutti - persino Joey sembra ascoltare - come gli uccelli formano uno stormo per migrare e i pesci nuotano in un banco. La salma di Walter Winchell, trucidato quel giorno durante una manifestazione politica a Louisville, nel Kentucky, da un presunto assassino del Partito nazista americano che agiva in collaborazione col Ku-Klux-Klan, sarà portata durante la notte in treno da Louisville alla Pennsylvania Station di New York City. Là, per ordine del sindaco Fiorello La Guardia e sotto la protezione della polizia di New York City, la salma sarà esposta per tutta la mattina nella camera ardente del salone della stazione ferroviaria. Secondo la tradizione ebraica, un servizio funebre si terrà lo stesso giorno alle due pomeridiane nel tempio Emanuel, la più grande sinagoga di New York. Un sistema di altoparlanti trasmetterà la cerimonia all’esterno del tempio a una folla di dolenti in Fifth Avenue, il cui numero dovrebbe ascendere a decine di migliaia. Insieme al sindaco La Guardia, gli oratori comprenderanno il senatore democratico James Mead, il governatore ebreo di New York Herbert Lehman e l’ex presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt. - Finalmente! - esclama mio padre. - È tornato! FDR è tornato! - Ne abbiamo bisogno un mucchio, - dice il signor Cucuzza. 15
Il New Deal rooseveltiano [N. d. T.]
- Ragazzi, - chiede nostro padre, - capite cosa sta succedendo? - e ci butta le braccia al collo, a Sandy e a me. - È l’inizio della fine del fascismo in America! Niente Mussolini qui, Cucuzza... Basta con i Mussolini, qui!
CAPITOLO 8 Ottobre 1942 Brutti giorni Alvin arrivò a casa nostra la sera dopo, al volante di una Buick verde nuova di zecca e con una fidanzata di nome Minna Schapp. La parola «fidanzata» mi faceva sempre impressione quando la sentivo pronunciare da bambino. La faceva sembrare, chiunque fosse, una persona speciale: poi si presentava, ed era solo una ragazza che, quando incontrava la famiglia, aveva paura di dire la cosa sbagliata. Qui la persona speciale, comunque, non era la futura sposa ma il futuro suocero, un autoritario faccendiere deciso a togliere Alvin dal ramo delle macchine da gioco - dove, assistito da due scagnozzi che si occupavano del carico e tenevano a bada i malintenzionati, mio cugino aveva il compito di trasportare con un camion e sistemare le macchine illegali - per fargli indossare il completo di seta di Hong Kong cucito a mano e la camicia col monogramma bianco su bianco di un restaurateur di Atlantic City. Anche se lo stesso signor Schapp aveva cominciato negli anni Venti sotto il nome di Billy Schapiro detto Bigliardino, un trafficone da quattro soldi associato con i peggiori delinquenti delle più scalcinate case a schiera delle strade più violente dei calanchi di South Philadelphia - tra i quali lo zio di Shushy Margulis -, nel 1942 i profitti sui bigliardini e le macchinette mangiasoldi ammontavano a cifre superiori ai quindicimila dollari esentasse la settimana, e Billy Bigliardino era rinato come William F. Schapp II, stimatissimo socio del Green Valley Country Club, della confraternita ebraica Brith Achim (dove il sabato sera Schapp portava la dinamica moglie con i suoi gioielli giganteschi a ballare alla musica di Jackie Jacobs e dei suoi Jolly Jazzers) e della sinagoga Har Zion (tramite la cui impresa di pompe funebri aveva acquistato la tomba di famiglia in un bellissimo angolo del cimitero della sinagoga), e come il maragià di una villa di diciotto camere nella Merion suburbana e l’invernale occupante di un attico che era il sogno di ogni ragazzo povero riservatogli annualmente all’Eden Roc di Miami Beach. A trentun anni, Minna aveva otto anni più di Alvin ed era una donna burrosa dall’aria intimidita che, quando osava dire qualcosa nella sua vocetta da bambina, enunciava ogni parola come se avesse appena imparato a dire l’ora. Era in tutto e per tutto la figlia di due dispotici genitori, ma siccome il padre possedeva, oltre all’Intercity Carting Company - la facciata pubblica dell’operazione macchine da gioco -, un enorme ristorante specializzato in aragoste dirimpetto allo Steel Pier dove nei weekend la gente faceva una lunghissima coda per entrare, e poiché negli anni Trenta, quando era finito il proibizionismo e il lato redditizio della sua partecipazione al cartello interstatale di contrabbandieri di alcolici di Waxey Gordon era improvvisamente venuto meno, Billy Bigliardino aveva fondato l’«Original Schapp’s» di Philadelphia - la bisteccheria più amata da quella che a Philadelphia chiamavano la Mafia Ebraica -, agli occhi di Alvin Billy Bigliardino passava per il
grande difensore di Minna. «Il contratto è in questi termini, - gli disse Schapp quando porse ad Alvin il denaro per comprare l’anello di fidanzamento a sua figlia. - Minna provvede alla tua gamba, tu provvedi a Minna e io provvedo a te.» Fu così che mio cugino arrivò a indossare i completi cuciti a mano e ad arrogarsi la prestigiosa responsabilità di accompagnare ai loro tavoli clienti dal grosso nome come il corrotto sindaco di Jersey City Frank Hague, il campione dei mediomassimi del New Jersey Gus Lesnevich e pezzi grossi della delinquenza come Moe Dalitz di Cleveland, King Solomon di Boston, Mickey Cohen di Los Angeles e persino «il Cervello» in persona, Meyer Lansky, quando erano in città per una convention della malavita organizzata. E regolarmente, ogni settembre, a dare il benvenuto alla nuova Miss America appena incoronata, fresca fresca dalla sua sfilata trionfale, con i parenti frastornati al seguito. Quando tutti erano stati coperti di complimenti e muniti dei loro stupidi bavaglini, era Alvin che aveva il piacere di segnalare al cameriere, schioccando le dita, che a offrire era la casa. Il futuro genero monco di Billy Bigliardino presto si guadagnò un nomignolo, Sbruffoncello, trovatogli, come Alvin disse a tutti, da Allie Stolz, lo sfidante per il titolo mondiale dei leggeri. Alvin era tornato da Philadelphia per vedere Stolz - come Gus Lesnevich, un ragazzo di Newark - il giorno in cui venne con Minna a cena da noi. Stolz si era battuto e aveva perso in quindici riprese contro il campione dei pesi leggeri al Madison Square Garden nel maggio precedente e quell’autunno si stava allenando nella palestra di Marsillo in Market Street per un incontro in novembre contro Beau Jack che gli avrebbe permesso, se avesse vinto, di sfidare Tippy Larkin. «Una volta battuto Beau Jack, - diceva Alvin, - tra lui e il titolo c’è solo Larkin, e Larkin ha la mascella di vetro.» Mascella di vetro. Tutte fesserie. Una bella ripassata. Un tipo tosto. Dov’è la ciccia? Faccio il tirapiedi. L’inghippo più vecchio del mondo. Alvin aveva un nuovo vocabolario e un modo di esprimersi completamente nuovo e pretenzioso che faceva chiaramente soffrire i miei genitori. Ma quando disse con aria adorante della generosità di Stolz: «Allie ha il dollaro facile», mi sentii morire dalla voglia di sembrare io stesso un tipo tosto ripetendo a scuola quella frase strabiliante insieme al ricco zibaldone di espressioni gergali che ora Alvin usava per la parola «denaro.» Minna tacque per tutto il pasto - anche se mia madre ce la mise tutta per tirarla fuori dal guscio -, io ero sopraffatto dalla timidezza e mio padre non riusciva a pensare ad altro che all’attentato alla sinagoga che aveva avuto luogo a Cincinnati la notte prima e al saccheggio dei negozi di proprietà di ebrei in città americane sparpagliate in due fusi orari. Era la seconda notte di seguito che aveva abbandonato il lavoro per non lasciare sola la famiglia in Summit Avenue, ma in un momento come questo non poteva preoccuparsi della collera di suo fratello, e invece per tutta la cena non fece che alzarsi e andare nel soggiorno ad accendere la radio per sentire che notizie c’erano della situazione dopo il funerale di Winchell. Alvin, intanto, riusciva solo a parlare di «Allie» e della sua caccia al titolo mondiale della boxe come se lo sfidante dei leggeri nato a Newark incarnasse la concezione più profonda che mio
cugino avesse della razza umana. Poteva esserci stato un abbandono più completo del codice morale che gli era costato la gamba? Alvin si era sbarazzato di tutto ciò che un tempo stava tra lui e le aspirazioni di un Shushy Margulis: si era sbarazzato di noi. Mi chiedevo, quando la conobbi, se Alvin avesse mai detto a Minna di essere un mutilato. Non pensai che era proprio la sua docile personalità a fare di lei la prima e unica donna a cui Alvin poteva dirlo, e non compresi che Minna era la testimonianza della sua incapacità con le donne. Era il suo moncherino, in realtà, a costituire il suo più grande successo con Minna, specie dopo la morte di Schapp nel 1960, quando quell’inetto del fratello di Minna prese in mano le macchinette mangiasoldi, mentre Alvin si accontentava di tenersi i ristoranti e di cominciare ad andare in giro con le più belle prostitute di due stati. Ogni volta che il moncherino si gonfiava e gli faceva male e diventava screpolato e infetto - cosa che accadeva in conseguenza delle sue tante follie -, Minna interveniva immediatamente e non gli permetteva di mettersi la protesi. Alvin le diceva: «Per amor di Dio, non preoccuparti, guarirà», ma soltanto qui Minna aveva la meglio. «Non puoi mettere un peso su quella gamba, - gli diceva, - finché non l’hai fatta aggiustare»: alludendo alla gamba artificiale, che era sempre, nella frase del fabbricante che Alvin mi aveva insegnato quando la materna Minna ero io, a nove anni non ancora compiuti, «troppo stretta o troppo larga.» Quando Alvin invecchiò, e il moncherino non faceva che gonfiarsi a portare tutto il peso che mio cugino aveva messo insieme, quando doveva stare senza protesi per settimane di seguito finché non era guarito, Minna d’estate lo accompagnava in macchina alla spiaggia pubblica e, vestita di tutto punto, lo sorvegliava da sotto un ombrellone mentre lui giocava per ore nella spuma della risacca che tutto guarisce, ballonzolando tra le onde e galleggiando sulla schiena e sollevando spruzzi di acqua salata e poi, per spaventare i turisti che gremivano la spiaggia, uscendo dall’acqua urlando «Uno squalo! Uno squalo!» mentre indicava, inorridito, il moncherino. Alvin venne a cena con Minna dopo avere telefonato quel mattino per dire a mia madre che stava arrivando nel North Jersey e che voleva passare a ringraziare gli zii per tutto quello che avevano fatto per lui quando era tornato dai cortimando facendo soffrire tutti. Aveva molte cose per cui essere riconoscente, disse, e voleva fare la pace con loro due e vedere i ragazzi, e presentare la sua fidanzata. Questo è ciò che disse e questo può anche essere stato ciò che aveva in mente prima di trovarsi faccia a faccia con mio padre e col ricordo degli istinti riformatori di mio padre - e col fatto della loro innata antipatia, l’antipatia come tipi umani che in realtà era sempre esistita fin dal primo momento -, e fu proprio per questo che, quando tornai a casa da scuola e lo venni a sapere, andai a frugare nel mio cassetto e trovai la sua medaglia e, per la prima volta da quando lui era partito per Philadelphia, tornai ad attaccarmela alla canottiera. Certo, non era il giorno ideale per una visita distensiva da parte della pecora nera della famiglia. Non si aveva notizia di violenze antisemite scoppiate durante la notte né a Newark né in altre grandi città del New Jersey, ma l’incendio e la distruzione
totale della sinagoga sul fiume Ohio, a Cincinnati, qualche centinaio di miglia a nord di Louisville, e le vetrine spaccate e il saccheggio dei negozi di proprietà degli ebrei in altre otto città (St Louis, Buffalo e Pittsburgh le tre maggiori) nulla fece per attenuare la paura che lo spettacolo del funerale ebraico di Walter Winchell sull’altra riva dell’Hudson, a New York - e le dimostrazioni e le controdimostrazioni coincidenti con tutte le solenni cerimonie religiose -, potessero provocare facilmente uno scoppio di violenza molto più vicino a casa. Quella mattina a scuola, per prima cosa, si era svolta un’assemblea straordinaria di mezz’ora per le classi dalla quarta all’ottava. Insieme a un rappresentante del consiglio della pubblica istruzione, a un aggiunto del sindaco Murphy e al presidente in carica dell’Agi, il direttore parlò delle misure che erano state prese per garantire la nostra sicurezza durante il giorno ed espose dieci norme che ci avrebbero tenuto al riparo dai guai nell’andare e tornare da scuola. Mentre nessuno parlò della polizia ebraica di Apfelbaum «il Proiettile» - che era stata nelle strade per tutta la notte e che c’era ancora la mattina, bevendo caffè caldo dai thermos e mangiando ciambelle spolverate di zucchero a velo offerte dalla panetteria di Lehrhoff quando Sandy e io eravamo usciti per andare a scuola -, l’aggiunto del sindaco ci assicurò che «finché la situazione non fosse tornata alla normalità» altre squadre di poliziotti avrebbero pattugliato il quartiere, e noi fummo esortati a non allarmarci se avessimo trovato un agente in divisa davanti a ogni porta della scuola e un altro nei corridoi. Due fogli ciclostilati furono poi distribuiti a ogni scolaro, l’uno con le regole da seguire per la strada, che i nostri insegnanti avrebbero ripassato con noi quando fossimo tornati nelle nostre aule, e l’altro da portare ai nostri genitori per metterli al corrente delle nuove procedure adottate per garantire la nostra sicurezza. Se c’erano domande, i nostri genitori dovevano rivolgerle alla signora Sisselman, la presidente dell’Agi che era succeduta a mia madre. Mangiammo in sala da pranzo, dove avevamo mangiato per l’ultima volta quando la zia Evelyn aveva portato il rabbino Bengelsdorf per presentarci al futuro marito. Dopo la telefonata di Alvin, mia madre (sulla cui incapacità di serbare rancori personali Alvin doveva aver saputo di poter contare nel momento in cui l’aveva udita rispondere al telefono) andò a comprare qualcosa da fare a cena che gli fosse particolarmente gradito, e questo nonostante l’ansietà che la prendeva ogni volta che doveva aprire la porta e uscire in strada. Il fatto che dei poliziotti armati di Newark ora facessero la ronda e andassero su e giù per le strade del quartiere sulle volanti non la tranquillizzava molto più di quanto lo facesse la vista della polizia ebraica di Apfelbaum «il Proiettile», e così, come tutte le altre persone che andavano a fare la spesa in una città assediata, finì quasi per mettersi a correre sia andando che tornando da Chancellor Avenue per prendere tutta la roba di cui aveva bisogno. In cucina procedette a infornare la torta al cioccolato con la glassa di cioccolato e le noci tritate che era stata la preferita di Alvin e a pelare le patate e a tagliare le cipolle per i latke16 che Alvin era capace di divorare a padellate; e la casa era ancora impregnata degli odori di dolci cotti al forno e di fritto e di carne alla griglia suscitati dalla visita 16
In questo caso, crocchette di patate [N. d. T.]
inattesa quando Alvin entrò nel vialetto con la sua Buick nuova. Lì (dove ci eravamo allenati a passarci la palla che avevo rubato) Alvin si fermò dietro il pickup Ford col quale il signor Cucuzza faceva piccoli traslochi nel tempo libero e che per caso era chiuso nel garage perché era il giorno di vacanza del guardiano notturno, e nel giorno di vacanza lui dormiva giorno e notte. Alvin arrivò con un completo di lana pettinata grigio perla abbondantemente imbottito nelle spalle, scarpe traforate bicolori con la mascherina allungata e rinforzi di cuoio sulla punta, e portando regali per tutti: quello della zia Bess era un grembiule bianco adorno di rose rosse, quello di Sandy un album da disegno, il mio un berretto dei Phillie e quello dello zio Herman un buono per una cena a base di aragoste per una famiglia di quattro persone nel ristorante di Atlantic City. Il fatto che ci facesse tutti questi regali mi tranquillizzò: solo perché era scappato a Philadelphia, non aveva dimenticato tutte le buone cose trovate in casa nostra negli anni prima di perdere la gamba. Non sembrava di sicuro, in quel momento, che fossimo una famiglia divisa, né che quando avessimo finito di cenare - e Minna era già in cucina a prendere da mia madre una lezione sulla preparazione dei latke - tra mio padre e Alvin potesse scoppiare una battaglia campale. Forse se Alvin non fosse arrivato con quei vestiti sgargianti e quella macchina sciccosa, quasi sprizzando la cruda sensualità che si respirava nella palestra di Marsillo, e su di giri per l’imminente acquisizione di una ricchezza insperata... forse se Winchell non fosse stato assassinato ventiquattr’ore prima e il peggio che avevamo temuto quando Lindbergh era entrato in carica non fosse apparso più vicino che mai a rovesciarsi sulla nostra testa... forse allora i due uomini adulti che per me erano stati i più importanti in tutto il corso della mia infanzia non sarebbero mai arrivati a un pelo dall’uccidersi. Prima di quella sera non avevo immaginato che mio padre fosse così portato a rovinare tutto o così pronto a fare quel fulmineo passaggio dalla sanità mentale alla follia che è indispensabile per abbandonarsi allo sfrenato impulso alla distruzione. Diversamente dallo zio Monty, lui preferiva non parlare mai delle tribolazioni di un ragazzo ebreo delle case popolari di Runyon Street prima della Grande Guerra, quando gli irlandesi, armati di sassi e bastoni e tubi di ferro, venivano su regolarmente attraverso i sottopassaggi del viadotto del rione Ironbound per vendicarsi degli assassini di Cristo della Terza Circoscrizione ebraica, e tanto gli piaceva portare Sandy e me al Laurel Garden di Springfield Avenue, quando qualcuno gli offriva i biglietti per un buon match, quanto aborriva la vista di due uomini che si picchiavano fuori da un ring. Che avesse sempre avuto un fisico muscoloso lo sapevo da un’istantanea scattata quando aveva diciotto anni e incollata da mia madre nell’album fotografico familiare insieme all’unica altra foto superstite dell’infanzia, un’immagine di mio padre a sei anni ritto accanto allo zio Monty, di tre anni maggiore di lui e di quasi mezzo metro più alto: due ragazzi di strada rigidamente in posa nelle loro vecchie tute con le camicie sporche e i berretti spinti sulla nuca quanto basta per svelare la crudeltà della loro tosatura. In quella foto seppiata di lui a diciotto anni mio padre è già a un milione di miglia dalla sua infanzia, una forza della natura, un uomo fatto in costume da bagno ritto a braccia
conserte sulla spiaggia assolata di Spring Laice, nel New Jersey, l’incrollabile chiave di volta alla base di una piramide umana di sei disinvolti camerieri d’albergo che si godono il loro pomeriggio di libertà. Come testimoniato da quella foto del 1919, era sempre stato, fin dal principio, forte di torace, e le spalle che reggevano il giogo e le braccia muscolose le aveva mantenute in qualche modo anche dopo tutti gli anni passati bussando alle porte per la Metropolitan Life, sicché ora, a quarantun anni, dopo aver lavorato a trasportare pesanti cassette e a sollevare sacchi da quaranta chili sei notti la settimana per tutto settembre, in quel corpo si era probabilmente raccolta più forza esplosiva di quanta mio padre ne avesse mai avuta in vita sua. Prima di quella sera mi sarebbe stato impossibile immaginare che potesse malmenare qualcuno - tantomeno picchiare a sangue il figlio orfano del suo fratello maggiore - come mi era impossibile immaginarlo sopra mia madre, anche perché tra gli ebrei con le nostre impoverite origini europee e le nostre ambizioni americane tenacemente coltivate non esisteva un tabù più forte della diffusa regola non scritta che proibiva di regolare le dispute con la forza. A quei tempi la comune propensione degli ebrei era in generale non violenta e non alcolica, una virtù il cui inconveniente era l’incapacità di insegnare al grosso dei giovani della mia generazione quella combattiva aggressività che era la prima legge di altre educazioni etniche e indiscutibilmente di grande valore pratico quando non potevi evitare la violenza con le trattative e non riuscivi a scappare via. Tra - diciamo - le parecchie centinaia di ragazzi fra i cinque e i quattordici anni della mia scuola elementare che non erano cromosomicamente destinati a diventare eccellenti pesi leggeri come Allie Stolz o grossi gangster come Longy Zwillman, scoppiavano sicuramente meno risse che in tutte le altre scuole della Newark industriale, dove gli obblighi etici di un bambino erano definiti diversamente e i compagni di scuola mostravano la loro bellicosità con metodi che non erano alla nostra portata. Così, per ogni ragione immaginabile, fu una sera devastante. Non avevo la capacità, nel 1942, anche solo di cominciare a decifrare tutte le orribili implicazioni, ma la semplice vista del sangue di mio padre e di Alvin fu abbastanza impressionante. Sangue sparso in lungo e in largo sul nostro finto tappeto persiano, sangue che gocciolava dai resti scheggiati del nostro tavolino da caffè, sangue impiastrato come un segno sulla fronte di mio padre, sangue che colava dal naso di mio cugino... E loro due che non tanto facevano a pugni, non tanto lottavano quanto carambolavano, con un terribile scricchiolio di ossa, mentre si scontravano fra loro, arretrando e caricando come uomini ai quali fossero spuntate le corna, creature fantastiche, ibridi usciti dalla mitologia e finiti nel soggiorno di casa nostra, che si riducevano le carni in poltiglia con le corna massicce e ramificate. In casa, di solito, si misurano i movimenti, si riduce la velocità, mentre lì la scala era invertita e terribile a vedersi. I disordini di South Boston, i disordini di Detroit, l’assassinio di Louisville, la bomba incendiaria di Cincinnati, le stragi di St Louis, Pittsburgh, Buffalo, Akron, Youngstown, Peoria, Scranton e Syracuse... E ora questo: in una comune stanza di soggiorno - la scena tradizionale di uno sforzo collettivo per opporsi alle intrusioni di un mondo ostile - gli antisemiti, per risolvere il più grosso
problema dell’America, si erano assicurati la nostra complicità, e noi avevamo impugnato i randelli e ci stavamo istericamente distruggendo da soli. L’orrore fini quando il signor Cucuzza, in camicia e berretto da notte (abbigliamento che non avevo mai visto indossare da nessuno, uomo o ragazzo, tranne che in qualche comica al cinema), irruppe nel nostro appartamento con la pistola spianata. Un frenetico lamento si alzò dalla nonna italiana di Joey, avvolta in una specie di sudario come una Regina delle Ombre calabrese ai piedi delle scale: e dall’interno del nostro appartamento venne un rumore altrettanto terrificante nell’attimo in cui la porta di dietro, sfondata, si aprì, e mia madre vide che l’intruso in camicia da notte era armato. Minna cominciò a vomitarsi in mano tutto ciò che aveva inghiottito a cena, io non riuscii a trattenermi e mi feci la pipi addosso, mentre Sandy, l’unico di noi che fu capace di trovare le parole giuste e la forza di proferirle, gridava: «Non sparate! È Alvin!» Ma il signor Cucuzza era un custode professionale di proprietà private addestrato ad agire prontamente e a fare distinzioni solo in un secondo tempo e - senza fermarsi a chiedere «Chi è Alvin?» - immobilizzò l’aggressore di mio padre in una soffocante mezza nelson con un braccio mentre gli teneva la pistola puntata alla testa con la mano dell’altro. La protesi di Alvin si era rotta in due, il moncherino era a brandelli e mio cugino si era spezzato un polso. Mio padre aveva tre denti rotti, due costole fratturate e un taglio sullo zigomo destro che dovette essere suturato con quasi il doppio dei punti che erano stati necessari per chiudere la ferita inflittami dal cavallo dell’orfanotrofio, e si era torto il collo a tal punto che per mesi dovette andare in giro con un alto collare d’acciaio. Il tavolino da caffè col piano di vetro e il telaio di mogano scuro che mia madre aveva comprato da Barn con i risparmi di anni (e dove, alla fine di una piacevole ora di lettura serale, lei posava, col segnalibro alla pagina giusta, il nuovo romanzo di Pearl Buck o Fannie Hurst o Edna Ferber preso in prestito dalla piccola biblioteca circolare della farmacia locale) giaceva in tanti pezzi sul pavimento della stanza, e microscopiche schegge di vetro si erano conficcate nelle mani di mio padre. Il tappeto, i muri e i mobili erano macchiati di cioccolato (dalle fette di torta che stavano mangiando quando si erano seduti nel soggiorno a chiacchierare davanti al dessert) e di sangue, e poi c’era l’odore: l’odore di chiuso di un mattatoio, che faceva venir voglia di vomitare. È straziante la violenza, quando scoppia in una casa: come vedere i vestiti su un albero dopo un’esplosione. Puoi essere pronto a vedere la morte, ma non i vestiti sull’albero. E tutto per il fatto che mio padre non riusciva a capire che la natura di Alvin non era mai stata veramente riformabile, nonostante i predicozzi e le minacce che l’affetto gli ispirava: tutto perché lo aveva preso in casa per salvarlo da ciò che semplicemente era nella sua natura diventare. Tutto perché mio padre lo aveva guardato e, ricordando la vita tragicamente evanescente del defunto padre di Alvin, aveva scosso malinconicamente il capo e, disperato, aveva detto: - Una Buick, un vestito da elegantone, per amici la feccia della terra... Ma lo sai, te ne importa, ti preoccupa almeno un po’ quello che sta succedendo stasera in questo paese? Anni fa te ne
importava, maledizione. Me lo ricordo bene. Ma oggi no. Oggi sono grossi sigari e automobili. Ma hai un’idea di quello che sta succedendo agli ebrei mentre noi stiamo qui seduti? E Alvin, che finalmente aveva avuto successo, le cui prospettive non erano mai state così rosee, non poteva e non voleva essere informato dal tutore di cui un tempo aveva venerato l’insegnamento - dal parente che, quando nessun altro lo voleva, per due volte lo aveva portato a vivere con sé in un accogliente appartamentino di Weequahic con i suoi familiari e le loro affettuose premure - che il suo non era un successo ma un fallimento. Con la voce arrochita dal dolore della parte offesa, scandendo rapido le parole e senza interrompersi per dire qualcosa che non fosse frutto di semplice ritorsione, tutto calunnia, tutto critica severa, tutto violenza e fatua sbruffonata, Alvin urlò a mio padre: - Gli ebrei? Io mi sono rovinato la vita per gli ebrei! Ho perso questa cazzo di gamba per gli ebrei! Ho perso questa cazzo di gamba per te. Cosa vuoi che m’importasse di Lindbergh? Ma tu mi mandi a combatterlo, cazzo, e io, da quello stupido ragazzo che sono, ci vado. E guarda, guarda, Zio Disastro del Cazzo... Non ho più la gamba, cazzo! A questo punto tirò su un pugno di quella stoffa grigio perla in cui era così lucidamente avvolto per mostrare che lì sotto, in effetti, non c’era più un arto inferiore di carne e sangue e muscolo e osso. E poi, offeso, rinnegato, ridiventato internamente ancora una volta l’uomo evirato (e il ragazzo fannullone), aggiunse il tocco finale di eroismo sputando in faccia a mio padre. La famiglia, amava dire mio padre, è insieme pace e guerra, ma questa fu una guerra familiare come non avrei mai potuto immaginarla. Sputare in faccia a mio padre come aveva sputato in faccia al cadavere di quel soldato tedesco! Se soltanto lo avessero lasciato andare, senza cercare di rieducarlo, lungo la sua fetida traiettoria... Ma questo non era successo, e dunque fu così che la grande minaccia ci distrasse e l’abominio della violenza entrò nella nostra casa, e io vidi come l’amarezza acceca un uomo, e la corruzione da essa generata. E perché, perché, anzitutto, era andato a combattere? Perché aveva combattuto e perché era caduto? Perché c’è una guerra in corso, e lui sceglie quella strada: l’istinto furioso e ribelle nella trappola della storia! Se fossero stati altri tempi, se fosse stato più furbo... Ma lui vuole combattere. È proprio come i padri di cui vuole disfarsi. Ecco la tirannia del problema. Cercare di essere fedele a ciò di cui sta cercando di disfarsi. Cercare di essere fedele e disfarsi, al tempo stesso, di ciò a cui è fedele. Ecco perché andò a combattere, anzitutto: questo, almeno, è ciò che riesco a immaginare. Più tardi, quella sera, dopo che un paio degli amici di Alvin erano arrivati su una Cadillac targata Pennsylvania (uno per accompagnare Alvin e Minna dal dottore di Allie Stolz in Elizabeth Avenue, l’altro per portare a Philadelphia la loro Buick); dopo che mio padre era tornato a casa dal pronto soccorso del Beth Israel (dove gli avevano tolto le schegge di vetro dalle mani e cucito il viso e radiografato il collo e bendato la cassa toracica, dandogli mentre usciva delle compresse di codeina da prendere contro il dolore); dopo che il signor Cucuzza, che aveva portato mio padre all’ospedale col suo pickup, lo aveva restituito sano e salvo al campo di battaglia
disordinato e sporco che era diventato il nostro appartamento, in Chancellor Avenue si udirono i primi colpi d’arma da fuoco. Spari, urla, strilli, sirene... Il pogrom era cominciato, e passarono pochi secondi prima che il signor Cucuzza risalisse di gran carriera le scale che aveva appena sceso e battesse ancora una volta alla nostra porta mezzo sfondata prima di precipitarsi all’interno. Cadevo dal sonno, e mio fratello mi tirò giù dal letto, ma quando le mie gambe si rifiutarono di funzionare e continuarono a piegarsi a causa della paura incontrollabile, mio padre fu costretto a prendermi in braccio. Mia madre - che invece di andare a letto e cercare di dormire si era messa il grembiule e un paio di guanti di gomma e aveva cominciato a pulire la casa con un secchio, una scopa e uno straccio da pavimenti -, la mia meticolosa madre, piangendo tra i resti del soggiorno, fu accompagnata alla porta dal signor Cucuzza, e tutt’e quattro scendemmo le scale e andammo a rifugiarci nel vecchio appartamento dei Wishnow. Questa volta, quando il signor Cucuzza gli offrì una pistola mio padre l’accettò. Aveva il corpo livido e bendato quasi dappertutto e la bocca piena di denti rotti, eppure si sedette là con noi sul pavimento in fondo al corridoio senza finestre dei Cucuzza, guardando l’arma che aveva in mano con tutta la sua concentrazione, come se non fosse più solo un’arma, ma la cosa più seria che gli avessero affidato da quando gli avevano dato da tenere i figli appena nati. Mia madre sedeva con la schiena rigida tra l’imbarazzato stoicismo di Sandy e la mia stordita inerzia, stringendoci per il braccio a lei più vicino e facendo tutto il possibile per nascondere ai figli il suo terrore sotto un sottilissimo strato di coraggio. Intanto l’uomo più grosso che io avessi mai visto gironzolava con una pistola nell’appartamento buio, passando furtivamente da una finestra all’altra per controllare con l’occhiuta accuratezza del guardiano notturno sperimentato che nessuno fosse in agguato nelle vicinanze con un’ascia, un fucile, una corda o una latta di kerosene. Joey, sua madre e sua nonna avevano ricevuto l’ordine di stare a letto, anche se la vecchia signora non poteva resistere al magnetismo di tutta quella turbolenza e al drammatico quadro che formavamo con la nostra presenza. Sparando piccole raffiche di un italiano crudo e ringhiante che non poteva essere complimentoso verso gli ospiti, ci guardava dalla soglia della cucina buia - dove dormiva abitualmente, vestita, su una branda vicino ai fornelli - inquadrandoci nel mirino della sua pazzia (perché pazza era) come se fosse la santa patrona dell’antisemitismo il cui crocifisso d’argento aveva generato tutto questo. La sparatoria durò meno di un’ora, ma noi non tornammo di sopra fino all’alba, e solo quando il signor Cucuzza si avventurò coraggiosamente come un esploratore fin dove Chancellor Avenue era chiusa al traffico venimmo a sapere che la battaglia non era stata tra la polizia municipale e gli antisemiti, ma tra la polizia municipale e la polizia ebraica. Non c’era stato nessun pogrom a Newark quella notte, ma solo un conflitto a fuoco, straordinario per essere avvenuto a portata d’orecchio della nostra casa, ma per il resto non molto diverso dalle risse che potevano scoppiare in ogni grande città dopo il tramonto. E se tre ebrei erano rimasti uccisi - Duke Glick, Big Gerry e «il Proiettile» in persona - non fu necessariamente perché erano ebrei
(«Anche se questo non guastava», disse lo zio Monty), ma perché erano proprio il tipo di malviventi che il nuovo sindaco voleva togliere dalle strade, soprattutto per far capire a Longy che non era più un membro onorario del Board of Commissioners (posto che aveva occupato - dicevano i nemici del sindaco Ellenstein - sotto il predecessore ebreo di Murphy). Nessuno prese troppo sul serio il sovrintendente della polizia quando spiegò al «Newark News» che erano stati «i vigilantes dal grilletto facile» ad aprire il fuoco prima di mezzanotte, senza provocazione, contro due agenti a piedi che facevano la ronda, né tra i nostri vicini ci furono particolari espressioni di dolore per come i tre - gente pericolosa di cui nessuna persona perbene si sarebbe mai sognata di chiedere la protezione - erano stati falciati senza tante cerimonie. Certo, era orribile che il sangue di uomini violenti dovesse macchiare il marciapiede dove ogni giorno passavano i bambini del quartiere per andare a scuola, ma almeno non era sangue versato in uno scontro col Klan o le Silver Shirts o il Bund. Nessun pogrom, eppure alle sette di quel mattino mio padre era al telefono con Winnipeg per confessare a Shepsie Tirschwell che gli ebrei erano talmente spaventati e gli antisemiti talmente imbaldanziti che a Newark - dove per fortuna il prestigio del rabbino Prinz aveva continuato a esercitare la sua influenza sulle autorità costituite e nessuna famiglia ebraica era stata costretta a fare qualcosa di peggio che trasferirsi altrove - non era più possibile condurre una vita normale. Se fosse inevitabile una persecuzione bella e buona, sanzionata dal governo, nessuno poteva dirlo con certezza, ma la paura della persecuzione era tale che nemmeno un uomo pratico alle prese con i suoi doveri quotidiani, una persona che faceva del suo meglio per frenare l’incertezza, l’ansia e la rabbia e per agire secondo il dettato della ragione, poteva sperare di mantenere l’equilibrio ancora per molto tempo. Sì, confessava mio padre, lui aveva sempre avuto torto e Bess e i Tirschwell avevano avuto ragione: e poi, meglio che poté, si scrollò di dosso l’imbarazzo per tutto ciò che aveva mal gestito e mal giudicato, compresa l’inverosimile violenza che aveva fatto a pezzi, insieme al nostro tavolino da caffè, quell’antica barriera di rigida rettitudine che si era sempre interposta tra la sua rozza educazione e gli ideali della maturità. - È così, - disse a Shepsie Tirschwell, - non posso più vivere senza sapere cos’accadrà domani, - e la loro conversazione telefonica passò all’emigrazione e ai passi da fare e agli accordi da prendere, tanto che, quando Sandy e io uscimmo per andare a scuola, non c’erano più equivoci: in un modo del tutto incredibile eravamo stati sopraffatti dalle forze schierate contro di noi e stavamo per fuggire e diventare dei forestieri. Io piansi per tutta la strada. La nostra incomparabile infanzia americana era finita. Presto la mia patria non sarebbe stata altro che il mio luogo di nascita. Ormai persico Seldon, nel Kentucky, stava meglio di noi. Ma poi tutto finì. L’incubo si era dissolto. Lindbergh era sparito e noi eravamo al sicuro, anche se io non sarei stato più capace di ritrovare l’imperturbato senso di sicurezza che in un bambino piccolo veniva incoraggiato da una repubblica grande e protettiva e dal profondo senso di responsabilità dei suoi genitori. Dagli archivi del Newsreel Theater di Newark
Martedì 6 ottobre 1942 Trentamila persone sfilano nel salone della Pennsylvania Station per vedere la bara imbandierata di Walter Winchell. L’affluenza va oltre le previsioni anche del sindaco di New York Fiorello La Guardia, che ha deciso di trasformare l’assassinio in un’occasione per una giornata di lutto cittadino per «le vittime americane della violenza nazista» culminata in un’orazione funebre pronunciata da FDR. Fuori dalla stazione (come in numerosi altri luoghi in tutta la città) donne e uomini silenziosi in abiti scuri distribuiscono bottoni neri grandi come un mezzo dollaro le cui lettere bianche pongono la domanda «Dov’è Lindbergh?» Poco prima di mezzogiorno il sindaco La Guardia arriva negli studi della radio cittadina, dove si toglie lo Stetson nero a larghe tese (ricordo delle sue radici infantili nel Territorio dell’Arizona come figlio di un capobanda dell’esercito americano) per recitare il padrenostro; poi si rimette il cappello per leggere ad alta voce, in ebraico, la preghiera ebraica per i defunti. A mezzogiorno in punto, decretato dal consiglio comunale, nelle cinque circoscrizioni si osserva un minuto di silenzio. La polizia di New York è visibile dappertutto, per sorvegliare in particolar modo le manifestazioni di protesta organizzate dalla serie di gruppi di destra che hanno la loro sede a Yorkville - il quartiere di Manhattan prevalentemente tedesco a nord dell’Upper East Side e a sud di Harlem dov’è molto diffuso il Movimento nazista americano - e che appoggiano attivamente il presidente e la sua politica. All’una, una guardia d’onore di motociclette pilotate da poliziotti con un bracciale nero si allinea al corteo funebre che si sta formando davanti alla Penn Station e, col sindaco che apre la strada dal sidecar di una motocicletta, lo scorta lentamente verso nord lungo Eighth Avenue, verso est lungo 57th Street, e ancora verso nord lungo Fifth Avenue fino a 15th Street e al tempio Emanuel. Là, tra i dignitari convocati da La Guardia che riempiono il tempio fino all’ultimo posto ci sono i dieci membri del gabinetto di Roosevelt del 1940, i quattro giudici della Corte suprema nominati da Roosevelt, il presidente del CLO Philip Murray, il presidente dell’Afl William Green, il presidente della United Mine Workers John L. Lewis, Roger Baldwin dell’American Civil Liberties Union, nonché governatori, senatori e deputati democratici passati e presenti dello stato di New York, del New Jersey, della Pennsylvania e del Connecticut, tra i quali lo sconfitto aspirante democratico alla presidenza del 1928, l’ex governatore dello stato di New York Al Smith. Gli altoparlanti installati durante la notte dagli operai del municipio e attaccati ai pali del telefono e alle insegne dei barbieri e agli architravi delle case in tutta la città trasmettono il servizio funebre ai newyorkesi che si sono raccolti nelle strade di ogni quartiere di Manhattan (tranne Yorkville) e alle migliaia di persone venute da fuori città che si sono schierate al loro fianco: tutti quei «signor America e signora» che hanno ascoltato settimanalmente Walter Winchell dalla prima volta che è andato in onda e che hanno raggiunto la sua città natale per rendergli omaggio. E praticamente ogni uomo, donna e bambino in mezzo a loro ora
porta quell’onnipresente distintivo di spavalda solidarietà, il bottone bianco e nero che dice «Dov’è Lindbergh?» Fiorello H. La Guardia - il realista, l’idolo dei lavoratori cittadini; il reboante ex deputato che aveva bellicosamente rappresentato per cinque mandati un congestionato distretto di italiani ed ebrei poveri di Harlem, che fin dal 1933 descrisse Hitler come un «perfido maniaco» ed esortò al boicottaggio dei prodotti tedeschi; il tenace portavoce dei sindacati, dei bisognosi e dei disoccupati che si era battuto quasi da solo contro l’infingardo Congresso repubblicano di Woover durante il primo cupo anno della Depressione e, tra lo sgomento del suo stesso partito, aveva chiesto una tassazione che «tartassasse i ricchi»; il repubblicano progressista antiTammany17 che per tre mandati è stato il sindaco fusionista della città più popolosa del paese, la metropoli che vanta la più grande concentrazione di ebrei dell’emisfero , La Guardia è l’unico tra i membri del suo partito a mostrare il proprio disprezzo per Lindbergh e per il dogma nazista della superiorità ariana che (lui stesso figlio di una madre ebrea non osservante originaria della Trieste austriaca e di un padre italiano libero pensatore venuto in America come musicista sulle navi) ha identificato come il precetto nel cuore del credo di Lindbergh e della vasta setta americana che adora il presidente. Ritto di fianco al feretro, La Guardia si rivolge ai dignitari con la stessa voce eccitabile e acuta con cui dalla radio cittadina ha descritto ai bambini i fumetti domenicali ogni domenica mattina durante uno sciopero dei giornali di New York, procedendo con pazienza come il migliore degli zii, tavola per tavola, fumetto per fumetto, da Dick Tracy a Little Orphan Annie e così via fino all’ultima puntata. «Sgombriamo subito il campo dalle ipocrisie, - dice il sindaco. – Tutti sanno che Walter non era una persona particolarmente simpatica. Walter non era l’uomo forte e silenzioso che nasconde ogni cosa, ma il giornalista scandalistico che odia tutto ciò che è nascosto. Come vi possono dire tutti quelli che sono finiti nella sua rubrica, Walter non era sempre accurato come avrebbe potuto essere. Non era timido, non era modesto, non era dignitoso, discreto, amabile, eccetera. Amici miei, se dovessi elencarvi tutto ciò che di amabile W. W. non era, staremmo qui fino al prossimo Yom Kippur. Temo che il povero Walter Winchell non fosse altro che l’ennesimo esemplare di quel capolavoro che è l’uomo imperfetto. Nel presentare la propria candidatura alla presidenza degli Stati Uniti i suoi motivi erano forse puri come una saponetta marca Ivory? I motivi di Walter Winchell? Non era forse contagiata, la sua assurda candidatura, da un ego deliberante? Amici miei, solo un Charles A. Lindbergh ha motivi puri come una saponetta marca Ivory quando si candida alla presidenza degli Stati Uniti. Solo un Charles A. Lindbergh è dignitoso, discreto, eccetera... oh, e anche accurato, sempre estremamente accurato quando ogni due o tre mesi raccoglie tutto il suo istinto gregario per indirizzare alla nazione le sue dieci banalità preferite. Solo Charles A. Lindbergh è un governante disinteressato e un santo forte e silenzioso. Walter, d’altra 17
Dal nome della sede del Partito democratico di New York, Tammany Hall, divenuto sinonimo di "corruzione politica» [N. d. T.]
parte, era il Columnist delle Maldicenze. Walter, d’altra parte, era Mister Broadway: gli piacevano i cavalli, gli piaceva fare le ore piccole, gli piaceva Sherman Billingsley... Una volta qualcuno mi ha detto che gli piacevano persino le donne. E l’abrogazione di quel "nobile esperimento", come lo chiamò Herbert Hoover, l’abrogazione dell’ipocrita, costoso, stupido, inapplicabile Diciottesimo Emendamento, non fu più ignobile per Walter Winchell di quanto lo fosse per il resto di noi qui a New York. In breve, Walter era privo di tutte le splendide virtù mostrate quotidianamente dall’incorruttibile pilota collaudatore che si nasconde alla Casa Bianca. «Oh sì, qualche altra differenza che forse vale la pena di notare tra il fallibile Walter e l’infallibile Lindy. Il nostro presidente è un simpatizzante del fascismo, più che probabilmente un fascista bello e buono... E Walter Winchell era un nemico del fascismo. Il nostro presidente non ama gli ebrei e più che probabilmente è un fanatico antisemita, mentre Walter Winchell era un ebreo e un irremovibile, fragoroso nemico degli antisemiti. Il nostro presidente è un ammiratore di Adolf Hitler e più che probabilmente lui stesso un nazista... E Walter Winchell era il primo nemico americano di Hitler e il suo peggior nemico americano. Ecco dove il nostro imperfetto Walter era incorruttibile: dove contava. Walter è troppo volgare, Walter parla troppo in fretta, Walter parla troppo, e tuttavia, al confronto, la volgarità di Walter è qualcosa di grande, e il decoro di Lindbergh fa paura. Walter Winchell, amici miei, era il nemico dei nazisti dappertutto, senza escludere i Dies e i Bilbo e i Parnell Thomas che servono il loro Fùhrer nel Congresso degli Stati Uniti, senza escludere gli hitleriani che scrivono per il «New York Journal-American» e il «New York Daily News», senza escludere coloro che fanno grandi feste agli assassini nazisti nella nostra Casa Bianca americana a spese del contribuente. Ed è perché era nemico di Hitler ed è perché era nemico del nazismo che Walter Winchell è stato ucciso ieri all’ombra della statua di Thomas Jefferson nella pubblica piazza più storica e bella della graziosa vecchia Louisville. Per aver detto quello che pensava nello stato del Kentucky, W. W. è stato assassinato dai nazisti d’America, i quali, grazie al silenzio del nostro forte, silenzioso, disinteressato presidente, oggi impazzano in questo grande paese. Qui non può accadere? Amici miei, qui sta accadendo... E dov’è Lindbergh? Dov’è Lindbergh?» Nelle strade, quelli che ascoltano insieme intorno agli altoparlanti raccolgono il grido del sindaco, e ben presto la loro cantilena echeggia stranamente in tutta la città «Dov’è Lindbergh? Dov’è Lindbergh?» - mentre dentro la sinagoga il sindaco continua a ripetere rabbiosamente le sue quattro sillabe, battendo i pugni sul pulpito non come un oratore che sottolinea istrionicamente un punto della propria esposizione ma come un cittadino indignato che chiede la verità. «Dov’è Lindbergh?» Ecco la ringhiosa perorazione con cui il congestionato La Guardia prepara l’assemblea dei dolenti al momento culminante rappresentato dalla comparsa di Franklin D. Roosevelt, il quale sbalordisce anche i suoi più intimi consiglieri politici (Hopkins, Morgenthau, Farley, Berle, Baruch, tutti seduti col cappello in testa a pochi
passi dal feretro del candidato martirizzato, la cui forma di megalomania non è mai piaciuta alla cerchia più interna della Casa Bianca, per quanto possa essere stata un utile portavoce per il loro capo) consacrando come successore di Winchell l’astuto, sprezzante, irascibile, testardo tombolotto di un metro e sessanta al quale i suoi devoti elettori hanno affibbiato l’affettuoso nomignolo di Fiorellino. Dal pulpito del tempio Emanuel il capo simbolico del Partito democratico promette il suo sostegno al sindaco repubblicano di New York come candidato di «unità nazionale» per contrastare la richiesta di Lindbergh di un secondo mandato nel 1944. Mercoledì 7 ottobre 1942 Pilotato dal presidente Lindbergh, lo Spirit of St Louis parte da Long Island la mattina, alzandosi dalla pista che servì come punto d’imbarco per il volo transatlantico in solitario del 20 maggio 1927. Senza scorta, l’aereo sfreccia attraverso un cielo autunnale privo di nubi sorvolando il New Jersey, la Pennsylvania, l’Ohio e abbassandosi verso il Kentucky. Solo un’ora prima di quella prevista per l’atterraggio all’aeroporto commerciale di Louisville sotto il sole di mezzodì la Casa Bianca viene informata dal presidente della sua destinazione. Dato il brevissimo preavviso, il sindaco di Louisville Wilson Wyatt, la città e i suoi abitanti fanno appena in tempo a prepararsi per l’arrivo del presidente. A terra, un meccanico è pronto a controllare l’aereo e rifornirlo per il viaggio di ritorno. Dei 320 mila residenti di Louisville, la polizia calcola che almeno un terzo abbiano fatto la scarpinata di cinque miglia dalla città e stiano già occupando i campi e le strade adiacenti il Bowman Field quando il presidente atterra e rulla tranquillamente con l’aereo fino a un palco dove gli hanno installato un microfono perché possa parlare alla vasta folla. Quando finalmente il rumore degli applausi comincia a diminuire e si riesce a sentire la sua voce, il presidente non fa il minimo accenno a Walter Winchell, non parla dell’assassinio di due giorni prima né del funerale del giorno prima o del discorso del sindaco La Guardia in occasione della sua consacrazione come successore di Winchell da parte di Franklin Roosevelt in una sinagoga di New York. Non è tenuto a farlo. Che La Guardia, come Winchell prima di lui, non sia altro che un candidato civetta per FDR nella sua richiesta dittatoriale e senza precedenti di un terzo mandato presidenziale, e che dietro «le rabbiose calunnie di La Guardia contro il nostro presidente» ci siano proprio le stesse persone che avrebbero costretto l’America a entrare in guerra nel 1940, è già stato brillantemente spiegato alla nazione dal vicepresidente Wheeler in un discorso improvvisato a Washington alla convention dell’American Legion la sera prima. Tutto ciò che il presidente dice alla folla è: «Il nostro paese è in pace. La nostra gente è al lavoro. I nostri figli sono a scuola. Sono venuto qui a ricordarvelo. Ora torno a Washington per fare in modo che le cose vadano avanti così.» Una serie di frasi abbastanza innocue, ma per queste decine di migliaia di kentuckiani che per due giorni interi sono stati al centro dell’interesse nazionale è come se avesse annunciato
la fine di ogni tribolazione sulla terra. Scoppia un altro pandemonio mentre il presidente, laconico come sempre, saluta con un cenno e introduce il proprio corpo allampanato nella carlinga dell’aereo. Dalla pista, un meccanico sorridente gli segnala con la sua chiave inglese che tutto è stato controllato e l’aereo è pronto al decollo. Il motore parte, l’Aquila Solitaria agita la mano in un ultimo cenno di saluto, e con una breve corsa e un rombo lo Spirit of St Louis si stacca dalle magnifiche pianure dello stato di Daniel Boone, centimetro per centimetro, metro per metro, fino a sfiorare (da quel pilota acrobatico che era quando faceva il giro della morte e camminava sulle ali dell’aereo, e sorvolava a bassa quota le cittadine agricole del West, tra la gioia della folla in delirio) i fili del telefono attaccati ai pali lungo la statale 58. Cabrando regolarmente nella tiepida e dolce corrente d’aria di un vento di coda, l’aeroplanino più famoso nella storia dell’aviazione - il moderno equivalente della Santa Maria di Colombo e del Mayflower dei Padri Pellegrini – scompare all’orizzonte, verso est, per non riapparire mai più. Giovedì 8 ottobre 1942 Dall’esame del terreno lungo la normale rotta aerea tra Louisville e Washington non si rileva alcuna traccia di rottami nonostante un tempo autunnale ideale che permette alle squadre di soccorso locali di addentrarsi fra le scoscese montagne del West Virginia e di perlustrare dall’alto i campi mietuti del Maryland, e alle autorità statali di inviare nelle ore diurne lance della polizia lungo il litorale del Maryland e del Delaware. Nel pomeriggio si uniscono alle ricerche l’esercito, la guardia costiera e la marina, insieme alle centinaia di uomini e ragazzi in ogni contea di ogni stato a est del Mississippi che si sono offerti di aiutare le unità della guardia nazionale mobilitate dai governatori degli stati. Ma all’ora di cena, a Washington, non si ha ancora notizia di avvistamenti né dell’aereo né del suo relitto, e così alle otto il gabinetto viene convocato in seduta straordinaria a casa del vicepresidente. Là Burton K. Wheeler annuncia che, dopo essersi consultato con la First Lady, con i leader della maggioranza alla Camera e al Senato e col capo della Corte suprema, ha ritenuto che fosse nell’interesse del paese assumere la carica di presidente ad interim conformemente all’articolo II, sezione 1 della costituzione americana. In dozzine di giornali il titolo della sera, stampato nei caratteri più grossi e più neri che si siano visti sulle prime pagine americane dal giorno del crollo in borsa del 1929 (e tendente a svergognare Fiorello La Guardia), dice cupamente: DOV’È LINDBERGH? Venerdì 9 ottobre 1942 Quando gli americani si svegliano per iniziare la giornata, in tutti gli Stati Uniti continentali e nei territori e nei possedimenti è stata imposta la legge marziale. A mezzogiorno il presidente ad interim Wheeler raggiunge sotto scorta militare il Campidoglio, dove durante una seduta d’emergenza a porte chiuse del Congresso
annuncia che l’Fbi ha ricevuto informazioni secondo cui il presidente è stato sequestrato e viene trattenuto da ignoti in una località del Nordamerica. Il presidente ad interim dice al Congresso che si stanno facendo tutti i passi per ottenere il rilascio del presidente e assicurare alla giustizia gli autori del reato. Intanto le frontiere del paese con il Canada e il Messico sono state sbarrate, aeroporti e porti di mare sono stati chiusi, e nel District of Columbia l’ordine pubblico, dice il presidente ad interim, sarà mantenuto dalle forze armate, e altrove dalla guardia nazionale in collaborazione con l’Fbi e le autorità della polizia locale. ANCORA! Questo il titolo di ogni giornale di Hearst, stampato sopra le immagini di Baby Lindbergh, fotografato vivo per l’ultima volta nel 1932, solo qualche giorno prima del suo rapimento all’età di venti mesi. Sabato 12 ottobre 1942 La radio pubblica tedesca annuncia di avere scoperto che il sequestro di Charles A. Lindbergh, trentatreesimo presidente degli Stati Uniti e firmatario della storica Intesa d’Islanda tra l’America e il Terzo Reich, è stato compiuto da una collusione di «interessi ebraici.» Si citano dati segretissimi dei servizi segreti della Wehrmacht che corroborano le prime notizie fornite dal ministero secondo cui il complotto è stato architettato dal guerrafondaio Roosevelt - d’intesa con il suo ministro del Tesoro ebreo Morgenthau, col giudice ebreo della Corte suprema Frankfurter e col banchiere d’affari ebreo Baruch - finanziato dagli usurai internazionali ebrei Warburg e Rothschild e realizzato dal tirapiedi di Roosevelt, quel gangster bastardo e mezzo ebreo di La Guardia, sindaco dell’ebraica New York City, insieme al potente governatore ebreo dello stato di New York, il finanziere Lehman, per far tornare Roosevelt alla Casa Bianca e scatenare una guerra totale degli ebrei contro il mondo non ebraico. I dati dei servizi segreti, che sono stati passati all’Fbi dall’ambasciata tedesca a Washington, asseriscono che l’assassinio di Walter Winchell era stato organizzato ed eseguito dalla stessa cricca di ebrei rooseveltiani - e che la responsabilità del delitto era stata da loro prevedibilmente attribuita agli americani di origine tedesca - allo scopo di incoraggiare la malevola campagna «Dov’è Lindbergh?», che a sua volta aveva indotto il presidente a prendere l’aereo e a volare fino al teatro dell’assassinio per tranquillizzare gli abitanti di Louisville, nel Kentucky, giustificabilmente timorosi di rappresaglie organizzate dagli ebrei. Ma là stando ai rapporti della Wehrmacht - mentre il presidente apostrofava la folla, un meccanico dell’aeroporto comprato dal complotto ebraico (che è sparito a sua volta e che è stato, si ritiene, assassinato per ordine di La Guardia) sabotava la radio dell’aereo. Il presidente era appena decollato per Washington quando si accorgeva di non riuscire a mettersi in contatto né con le stazioni di controllo a terra né con altri aerei, e non ha potuto fare altro che capitolare quando lo Spirit of St Louis è stato circondato da caccia inglesi da alta quota che lo hanno costretto a deviare dalla sua rotta e ad atterrare, qualche ora dopo, su una pista segreta tenuta in efficienza da
interessi internazionali ebraici oltre la frontiera canadese, appena fuori dallo stato di New York di Lehman. In America, l’annuncio tedesco spinge il sindaco La Guardia a dire ai cronisti cittadini: «Qualunque americano possa credere a una balla nazista di questo calibro è sceso al più basso livello possibile.» Ciononostante, fonti bene informate riferiscono che sia il sindaco che il governatore sono stati lungamente interrogati dagli agenti dell’Fbi, e il ministro degli Interni Ford chiede che Mackenzie King, il primo ministro canadese, conduca in terra canadese un’accurata ricerca del presidente Lindbergh e di coloro che lo hanno catturato. Il presidente ad interim Wheeler sta esaminando la documentazione tedesca con i consiglieri della Casa Bianca, ma non intende fare commenti su queste dichiarazioni finché la ricerca dell’aereo del presidente non sarà stata portata a termine. Cacciatorpediniere della marina e motosiluranti della guardia costiera stanno ora cercando tracce di un disastro aereo a nord fino a Cape May, nel New Jersey, e a sud fino a Cape Hatteras, in North Carolina, mentre unità dell’esercito, del corpo dei marines e della guardia nazionale continuano a cercare in venti stati indizi della presenza dell’aereo scomparso. Le unità della guardia nazionale incaricate di far rispettare il coprifuoco non segnalano incidenti provocati dalla scomparsa del presidente. Sotto la legge marziale l’America non perde la calma, anche se il Gran Maestro del Ku Klux Klan e il capo del Partito nazista americano hanno di comune accordo invitato il presidente ad interim «a prendere misure radicali per proteggere l’America da un colpo di stato ebraico.» Intanto, un comitato di religiosi israeliti americani capeggiato dal rabbino Stephen Wise di New York telegrafa alla First Lady esprimendo tutta la sua comprensione per la sua famiglia nell’ora del bisogno. Nel tardo pomeriggio il rabbino Lionel Bengelsdorf è stato visto entrare alla Casa Bianca, su richiesta - si dice - della signora Lindbergh, per offrire una guida spirituale alla famiglia in quello che è già il terzo giorno della loro veglia. L’invito alla Casa Bianca del rabbino Bengelsdorf viene da molte parti interpretato come un’indicazione del rifiuto della First Lady di accettare la tesi secondo cui «interessi ebraici» sarebbero all’origine della scomparsa di suo marito. Domenica 11 ottobre 1942 Durante le funzioni religiose svoltesi in tutto il paese si recitano preghiere per la famiglia Lindbergh. Le tre maggiori reti radiofoniche cancellano trasmissioni regolarmente programmate per mettere in onda le cerimonie che si svolgono nella cattedrale nazionale di Washington, a cui assistono la First Lady e i suoi figli, e per il resto della giornata fino alla sera la programmazione è dedicata esclusivamente alla musica sacra. Alle otto il presidente ad interim Wheeler tiene un discorso al paese, assicurando ai suoi concittadini di non avere la minima intenzione di abbandonare le ricerche. Wheeler riferisce che su invito del primo ministro canadese rappresentanti
dell’autorità giudiziaria americana assisteranno la polizia a cavallo canadese nella perlustrazione della metà orientale della frontiera tra gli Stati Uniti e il Canada e delle contee più meridionali delle province orientali canadesi. In qualità di portavoce ufficiale della First Lady, il rabbino Lionel Bengelsdorf spiega a un folto gruppo di giornalisti in attesa davanti alla Casa Bianca che la signora Lindbergh invita il popolo americano a ignorare ogni speculazione proveniente da qualunque governo straniero relativamente alle circostanze della scomparsa di suo marito. La First Lady vorrebbe ricordare al pubblico, dice il rabbino, che nel 1926, quando faceva il pilota postale sulla rotta St Louis - Chicago, per due volte il presidente scampò, illeso, a incidenti che distrussero il suo aereo, e che in questo momento lei è convinta che ancora una volta il presidente se la caverà, caso mai ci fosse stato un altro incidente. La First Lady, dice il rabbino, continua a non essere convinta dalle prove di un sequestro che le sono state presentate dal presidente ad interim. Quando qualcuno gli chiede per quale motivo la signora Lindbergh non possa parlare per sé e per quale motivo si impedisca alla stampa di interrogarla direttamente, il rabbino Bengelsdorf risponde: «Tenete presente che non è la prima volta, nei suoi trentasei anni, che la signora Lindbergh ha dovuto rispondere alle domande della stampa durante la più grave delle crisi familiari. Voglio sperare che gli americani siano pronti ad accettare qualunque piano, secondo la First Lady, protegga nel modo migliore la privacy sua e dei suoi figli per tutto il tempo che dureranno le ricerche.» Quando gli viene chiesto se c’è qualcosa di vero nelle voci secondo cui la signora Lindbergh sarebbe troppo sconvolta per decidere da sola e a decidere per lei sarebbe Bengelsdorf, il rabbino risponde: «Chiunque abbia osservato il contegno della First Lady questa mattina nella cattedrale può vedere da solo che è intellettualmente lucida, nel pieno possesso di tutte le sue facoltà, e che, nonostante la precarietà della situazione, né la sua ragione né il suo giudizio hanno subito il minimo danno.» A dispetto delle assicurazioni del rabbino, le agenzie parlano di sospetti manifestati da «un funzionario governativo di alto livello» - si ritiene che si tratti del ministro Ford - sul fatto che la First Lady sarebbe prigioniera di «Rabbi Rasputin», il portavoce ebreo giudicato paragonabile nella sua influenza sulla moglie del presidente al pazzo monaco contadino siberiano che insidiosamente controllava la mente dello zar e della zarina di Russia e quasi governava il palazzo imperiale nei giorni che portarono alla rivoluzione russa e il cui folle regno terminò solo quando venne assassinato da un complotto di patriottici aristocratici russi. Lunedì 12 ottobre 1942 I giornali londinesi del mattino scrivono che il servizio segreto britannico ha inoltrato all’Fbi comunicazioni in codice tedesche che non lasciano dubbi sul fatto che il presidente Lindbergh è vivo e si trova a Berlino. Il servizio segreto britannico ha accertato che il 7 ottobre, conformemente a un piano di antica data concepito dal maresciallo dell’aria Hermann Gòring, il presidente degli Stati Uniti è riuscito ad
ammarare con lo Spirit of St Louis in un punto predeterminato dell’Atlantico circa trecento miglia a est di Washington. Là è stato preso a bordo da un sommergibile tedesco il cui equipaggio lo ha poi trasferito su una nave tedesca in attesa al largo della costa portoghese per portarlo a Kotor, la città montenegrina sull’Adriatico occupata dagli italiani. Il relitto dell’aereo presidenziale è stato requisito e caricato su un cargo militare tedesco, smontato, imballato e trasportato in un magazzino della Gestapo di Brema. Da una pista di Kotor il presidente è stato portato in Germania su un aereo della Luftwaffe camuffato, in compagnia del maresciallo dell’aria Gòring, e all’arrivo a una base aerea della Luftwaffe è stato condotto a conferire col Fùhrer nel suo rifugio di Berchtesgaden. Gruppi di partigiani serbi in Jugoslavia confermano le notizie del servizio segreto britannico sulla base di informazioni provenienti da fonti interne al governo di Belgrado istituito dai tedeschi del generale Milan Nedic, il cui ministro degli Interni ha diretto l’operazione navale nel porto di Kotor. A New York il sindaco La Guardia dice ai giornalisti: «Se è vero che il nostro presidente è fuggito volontariamente nella Germania nazista, se è vero che, da quando è entrato in carica, ha operato dalla Casa Bianca come agente nazista, se è vero che la nostra politica interna ed estera è stata dettata al presidente dal regime nazista che oggi tiranneggia l’intero continente europeo, non trovo le parole per descrivere un tradimento la cui perfidia è senza pari nella storia dell’uomo.» Nonostante l’imposizione della legge marziale e di un coprifuoco nazionale, e nonostante la presenza di truppe della guardia nazionale ben armate che pattugliano le strade di ogni grande città americana, disordini antisemiti scoppiano subito dopo il tramonto in Alabama, Illinois, Indiana, Iowa, Kentucky, Missouri, Ohio, South Carolina, Tennessee, North Carolina e Virginia, e continuano per tutta la notte e il primo mattino. Solo verso le otto le truppe federali - inviate dal presidente ad interim Wheeler in appoggio alle unità della guardia nazionale - riescono a reprimere questi disordini e a domare i peggiori incendi appiccati dai ribelli. Ma a quell’ora già 122 cittadini americani hanno perso la vita. Martedì 13 ottobre 1942 In un discorso radiofonico diffuso a mezzogiorno il presidente ad interim Wheeler attribuisce la responsabilità dei disordini «al governo britannico e ai guerrafondai americani suoi sostenitori.» «Dopo avere falsamente divulgato le più infami accuse che si potrebbero rivolgere a un patriota della statura di Charles A. Lindbergh, cosa si aspettava questa gente da un paese già prostrato dalla scomparsa di un leader amatissimo? Per favorire i suoi interessi economici e razziali, - dice il presidente ad interim, - questa gente sceglie di spingere all’eccesso la coscienza di una nazione affranta, e cosa si aspetta che accada? Posso riferire che l’ordine è stato ristabilito in tutte le nostre città devastate del Sud e del Midwest, ma a che prezzo per la serenità del paese?»
Successivamente, una dichiarazione della moglie del presidente viene letta dal rabbino Lionel Bengelsdorf. Ancora una volta la First Lady raccomanda ai suoi connazionali di ignorare tutte le ipotesi non verificabili sulla scomparsa di suo marito provenienti dalle capitali straniere, e chiede al governo americano la cessazione immediata delle ricerche dell’aereo del marito prolungatesi per tutto il weekend. La First Lady chiede al paese di ricordare la tragica vicenda di Amelia Earhart, la più grande delle aviatrici, che, sulle orme del presidente Lindbergh, fece il suo annunciato volo in solitario attraverso l’Atlantico nel 1932, solo per sparire senza lasciare tracce nel 1937 mentre cercava di portare a termine un altro volo in solitario attraverso il Pacifico. «Come esperta aviatrice in proprio, - dice alla stampa il rabbino Bengelsdorf, - la First Lady è arrivata alla conclusione che qualcosa di molto simile a ciò che accadde ad Amelia Earhart sembra ora essere toccato al presidente. La vita non è priva di rischi e anche l’aviazione, naturalmente, non è priva di rischi, specie per le persone come Amelia Earhart e Charles A. Lindbergh, la cui audacia come aviatori solitari ha dato il via all’era aeronautica in cui oggi viviamo.» La richiesta dei giornalisti di un incontro con la First Lady è stata ancora una volta respinta cortesemente dal suo portavoce ufficiale, cosa che ha spinto il ministro Ford a chiedere l’arresto di Rabbi Rasputin. Mercoledì 14 ottobre 1942 Verso sera il sindaco La Guardia convoca una conferenza stampa per mettere in evidenza tre manifestazioni della «pura e semplice follia che sta minacciando l’equilibrio mentale del paese.» Primo, un articolo in prima pagina del «Chicago Tribune», da Berlino, riferisce che il figlio dodicenne del presidente e della signora Lindbergh - il bambino che si credeva rapito e ucciso nel New Jersey nel 1932 - è stato riabbracciato da suo padre a Berchtesgaden dopo essere stato salvato dai nazisti da una prigione nascosta di Cracovia, in Polonia, dov’era stato tenuto prigioniero nel ghetto ebraico della città dal giorno della sua scomparsa e dove, ogni anno, subiva un prelievo di sangue da usare nella preparazione rituale dei matzoh per la Pasqua ebraica della comunità. Secondo, i deputati repubblicani presentano una legge che chiede di dichiarare guerra al Commonwealth del Canada se il primo ministro King non rivelerà entro quarantott’ore dove si trova il presidente americano. Terzo, la magistratura del Sud e del Midwest riferisce che i «cosiddetti disordini antisemiti» del 12 ottobre sono stati istigati da «elementi ebraici locali» che facevano parte di «una vasta cospirazione ebraica intenzionata a minare il morale del paese.» Delle 122 persone uccise nei disordini, 97 sono già state identificate come «provocatori ebrei» che cercavano di stornare i sospetti proprio dal gruppo responsabile dei disordini e miravano a prendere il controllo del governo federale. Il sindaco La Guardia dice: «È vero, c’è un complotto, e io faccio volentieri il nome delle forze che lo animano: isterismo, ignoranza, rancore, stupidità, odio e paura. Che spettacolo ripugnante sta dando il nostro paese! Dappertutto falsità,
crudeltà e follia, e tra le quinte la forza bruta in attesa di darci il colpo di grazia. Ora leggiamo sul «Chicago Tribune» che in Polonia per tutti questi anni furbi fornai ebrei hanno usato il sangue del figlio rapito di Lindbergh per fare i matzoh per la Pasqua ebraica... Una storia pazzesca come la prima volta che ci fu ammannita da maniaci antisemiti cinquecento anni fa. Che piacere deve fare al Fùhrer avvelenare il nostro paese con queste sinistre idiozie! Interessi ebraici. Elementi ebraici. Usurai ebrei. Rappresaglie ebraiche. Cospirazioni ebraiche. Una guerra degli ebrei contro il mondo. Avere asservito l’America con questo abracadabra! Avere conquistato l’anima della più grande nazione della terra senza pronunciare una sola parola di verità! Oh, che piacere dobbiamo fare all’uomo più malvagio della terra!» Giovedì 15 ottobre 1942 Poco prima dell’alba il rabbino Lionel Bengelsdorf viene arrestato dall’Fbi perché sospettato di essere «tra i caporioni della trama cospirativa contro l’America.» Nello stesso tempo la First Lady, colpita - si dice - da «un forte esaurimento nervoso», viene trasferita con un’ambulanza dalla Casa Bianca all’ospedale militare Walter Reed. Gli altri arrestati nella retata mattutina comprendono il governatore Lehman, Bernard Baruch, il giudice Frankfurter, il protégé di Frankfurter e amministratore di Roosevelt David Lilienthal, i consiglieri del New Deal Adolf Berle e Sam Rosenman, i dirigenti sindacali David Dubinsky e Sidney Hillman, l’economista Isador Lubin, i giornalisti di sinistra I. F. Stone e James Wechsler e il socialista Louis Waldman. Si dice che altri arresti siano imminenti, ma l’Fbi non ha rivelato se l’accusa di avere cospirato per sequestrare il presidente sarà mossa contro qualcuno dei sospettati. Carri armati e unità di fanteria dell’esercito americano entrano a New York per aiutare la guardia nazionale a soffocare sporadiche violenze antigovernative nelle strade. A Chicago, Philadelphia e Boston tentativi di organizzare manifestazioni di protesta contro l’Fbi – dimostrazioni che violano la legge marziale - provocano solo qualche ferito leggero, anche se la polizia parla di centinaia di arresti. Al Congresso, influenti repubblicani elogiano l’Fbi per avere sventato le trame dei cospiratori. A New York, il sindaco La Guardia, Eleanor Roosevelt e Roger Baldwin dell’Aclu organizzano una conferenza stampa per chiedere l’immediato rilascio del governatore Lehman e degli altri presunti congiurati. La Guardia viene poi arrestato in municipio. L’ex presidente Roosevelt lascia la sua residenza di Hyde Park per parlare a una manifestazione di protesta organizzata da un comitato di cittadini di New York e qui, «per la sua protezione», viene prontamente arrestato dalla polizia. L’esercito americano chiude tutte le redazioni dei giornali e le stazioni radio di New York, dove il coprifuoco notturno previsto dalla legge marziale sarà fatto rispettare ventiquattr’ore al giorno fino a nuovo avviso. Carri armati sbarrano tutti i ponti e tutti i tunnel che portano in città. A Buffalo il sindaco annuncia l’intenzione di distribuire maschere antigas alla cittadinanza, e il sindaco della vicina Rochester vara un programma di rifugi antiaerei
«per difendere i nostri residenti nel caso di un attacco a sorpresa da parte del Canada.» La Canadian Broadcasting Company dà notizia di uno scambio di colpi al confine tra il Maine e la provincia di New Brunswick, poco lontano dalla residenza estiva di Roosevelt sull’isola di Campobello nella baia di Fundy. Da Londra, il primo ministro Churchill mette in guardia contro un’imminente invasione tedesca del Messico, per proteggere a quanto si dice il fianco meridionale dell’America, mentre gli Stati Uniti si preparano a strappare agli inglesi il controllo del Canada. «Non si tratta più - dice Churchill - della grande democrazia americana che intraprende un’azione militare per salvarci. È venuto il momento per i cittadini americani di intraprendere un’azione civile per salvarsi. Non ci sono due drammi storici isolati, quello americano e quello inglese, e non ci sono mai stati. C’è un solo cimento, e oggi come nel passato lo affrontiamo insieme.» Venerdì 16 ottobre 1942 A partire dalle nove del mattino un trasmettitore radiofonico nascosto in qualche angolo della capitale diffonde la voce della First Lady che, con l’aiuto dei lealisti di Lindbergh all’interno del servizio segreto, è riuscita a fuggire dal Walter Reed, dove dichiarata malata di mente dalle autorità e affidata alle cure degli psichiatri militari è stata costretta a indossare una camicia di forza e tenuta prigioniera per quasi ventiquattr’ore. Il tono è gentile e suadente, e nelle parole che pronuncia non c’è la minima traccia di durezza o legittimo disprezzo: è la voce piana e pacata di una persona degna di rispetto educata ad affrontare dolori e delusioni senza mai perdere il controllo. Non è un ciclone, ma l’impresa è straordinaria e lei non mostra alcuna paura. «Americani, miei concittadini, l’illegalità da parte dei poteri che sono tenuti a far rispettare la legge non può prevalere, e noi non permetteremo che prevalga. A nome di mio marito, chiedo a tutte le unità della guardia nazionale di abbassare le armi e sciogliersi, e ai loro componenti di tornare alla vita civile. Chiedo a tutti i membri delle forze armate degli Stati Uniti di lasciare le nostre città e di raggrupparsi nelle loro basi agli ordini dei loro ufficiali superiori autorizzati. Chiedo all’Fbi di rilasciare tutti gli arrestati per accuse di cospirazione ai danni di mio marito e di ripristinare immediatamente tutti i loro diritti di cittadini. Chiedo alle autorità di tutta la nazione di fare lo stesso con coloro che sono detenuti in carceri locali e nazionali. Non esiste la minima prova che un solo detenuto sia responsabile in qualche modo di ciò che è accaduto a mio marito e al suo aereo mercoledì 7 ottobre 1942 o dopo, qualunque cosa sia. Chiedo alla polizia di New York di evacuare le sedi illegalmente occupate dei giornali, delle riviste e delle stazioni radio sequestrate dal governo, e che queste strutture riprendano le loro normali attività come garantito dal Primo Emendamento alla costituzione. Chiedo al Congresso degli Stati Uniti di avviare la procedura per rimuovere dalla carica l’attuale presidente ad interim degli Stati Uniti e nominare un nuovo presidente conformemente alla legge di successione presidenziale del 1886, che designa il segretario di stato come diretto successore del presidente qualora si
renda vacante anche la vicepresidenza. La legge di successione del 1886 stabilisce inoltre che, nelle circostanze descritte, il Congresso deciderà se tenere una speciale elezione presidenziale, e perciò chiedo al Congresso di fare proprio questo e di autorizzare un’elezione presidenziale che coincida con le elezioni congressuali già fissate per il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre.» Questa trasmissione mattutina viene ripetuta ogni mezz’ora finché, a mezzogiorno, la First Lady annuncia che in barba al presidente ad interim - che accusa per nome e cognome di aver ordinato illegalmente il suo sequestro e la sua segregazione - tornerà con i suoi figli ad abitare alla Casa Bianca. Appropriandosi deliberatamente per la sua perorazione di echi del testo più venerato della democrazia americana, conclude cosi: «Io non cederò né mi farò intimidire dagli illegittimi rappresentanti di un’amministrazione sediziosa, e al popolo americano non chiedo altro che questo: che segua il mio esempio e si rifiuti di accettare o di sostenere una condotta governativa che è indifendibile. La storia dell’attuale amministrazione è una storia di offese e usurpazioni ripetute, tutte aventi come oggetto l’istituzione di una tirannia assoluta su questi stati. Questo governo è stato sordo alla voce della giustizia e ci ha sottoposto a una giurisdizione ingiustificabile. Di conseguenza, a difesa di quegli stessi inalienabili diritti rivendicati nel luglio del 1776 da Jefferson della Virginia e Franklin della Pennsylvania e Adams della baia del Massachusetts, e dall’autorità della stessa brava gente di questi Stati Uniti, e appellandomi allo stesso giudice supremo del mondo per la rettitudine delle nostre intenzioni, io, Anne Morrow Lindbergh, nativa dello stato del New Jersey, residente nel District of Columbia e sposa del trentatreesimo presidente degli Stati Uniti, ordino che si ponga fine a questa oltraggiosa storia di usurpazione. Il complotto dei nostri nemici è fallito, la libertà e la giustizia sono ripristinate, e coloro che hanno violato la costituzione degli Stati Uniti saranno giudicati dalla magistratura, in stretto accordo con le leggi del paese.» La «Nostra Signora della Casa Bianca» - come Harold Ickes battezza a denti stretti la signora Lindbergh - rientra nei quartieri presidenziali quella sera, e da là, ricorrendo alla forza della sua mistica di madre dolente dell’infante martirizzato e vedova risoluta del dio scomparso, dà il via al rapido smantellamento, da parte del Congresso e delle corti di giustizia, dell’incostituzionale amministrazione Wheeler, il cui tasso di criminalità, in soli otto giorni di insediamento, ha superato di gran lunga quello dell’amministrazione repubblicana di Warren Harding di vent’anni prima. Dopo due settimane e mezzo, martedì 3 novembre 1942, il ripristino delle regolari procedure democratiche avviato dalla signora Lindbergh culmina in una vittoria schiacciante dei democratici alla Camera e al Senato, e nella trionfale conquista del terzo mandato presidenziale da parte di Franklin Delano Roosevelt. Il mese successivo - in seguito al devastante attacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbor e, quattro giorni dopo, alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti da parte della Germania e dell’Italia -, l’America entra nel conflitto globale che era iniziato in Europa circa tre anni prima con l’invasione tedesca della Polonia e che da allora si era allargato fino a coinvolgere due terzi della popolazione mondiale.
Screditati dalla loro collusione col presidente ad interim e demoralizzati dalla colossale sconfitta elettorale, i pochi repubblicani rimasti nel Congresso si impegnano a sostenere fino alla fine il presidente democratico e la sua lotta contro le potenze dell’Asse. Camera e Senato approvano l’entrata in guerra dell’America senza un solo voto contrario nelle due ali del Parlamento, e il giorno dopo l’insediamento il presidente Roosevelt emana il Proclama n. 2568, «per la concessione del perdono a Burton Wheeler.» Esso dice, tra l’altro: In seguito a certi atti verificatisi prima della sua rimozione dalla carica di Presidente Ad Interim, Burton K. Wheeler si è esposto alla possibilità di essere accusato e processato per reati contro gli Stati Uniti. Per risparmiare al paese l’angoscia di un processo penale contro un ex Presidente Ad Interim degli Stati Uniti e per proteggerlo dall’effetto disgregatore che un simile spettacolo avrebbe in tempo di guerra, io, Franklin Delano Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti, ricorrendo al potere di perdonare conferitomi dall’Articolo II, Sezione 2 della Costituzione, ho concesso e col presente documento concedo a Burton Wheeler un perdono pieno, libero e assoluto per tutti i reati contro gli Stati Uniti che egli, Burton Wheeler, abbia commesso o possa avere commesso o di cui possa essere stato complice nel periodo dall’8 ottobre 1942 al 16 ottobre 1942. Come tutti sanno, il presidente Lindbergh non fu ritrovato e di lui non si seppe più nulla, anche se molte storie circolarono per tutta la durata della guerra e nel decennio successivo, insieme alle dicerie su altri illustri scomparsi di quell’era turbolenta, come Martin Bormann, il segretario privato di Hitler, di cui si pensava che fosse sfuggito agli eserciti alleati rifugiandosi nell’Argentina di Juan Perón - ma che più probabilmente perì negli ultimi giorni della Berlino nazista – e Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese la cui distribuzione di passaporti svizzeri salvò dallo sterminio circa ventimila ebrei ungheresi, anche se poi lui stesso sparì, forse in un carcere sovietico, quando i russi occuparono Budapest nel 1945- Tra gli studiosi della congiura di Lindbergh, il cui numero si riduce sempre più, articoli su tracce e avvistamenti hanno continuato ad apparire in pubblicazioni saltuarie dedicate alle teorie sulla fine misteriosa del trentatreesimo presidente americano. La storia più complicata, la storia più incredibile - anche se non necessariamente la meno convincente - venne raccontata per la prima volta alla nostra famiglia dalla zia Evelyn dopo l’arresto del rabbino Bengelsdorf, e la sua fonte non era altro che Anne Morrow Lindbergh, che a suo dire l’aveva confidata al rabbino solo qualche giorno prima di essere espulsa dalla Casa Bianca contro la sua volontà e tenuta prigioniera nell’ala psichiatrica del Walter Reed. La signora Lindbergh, riferì il rabbino Bengelsdorf, faceva risalire ogni cosa al rapimento del 1932 di suo figlio Charles, organizzato segretamente e finanziato, sosteneva, dal Partito nazista poco prima dell’avvento di Hitler al potere. Stando al riassunto fatto dal rabbino della storia della First Lady, il bambino era stato dato da Bruno Hauptmann in custodia a un amico che abitava vicino a lui nel Bronx – un altro immigrato tedesco che in realtà era un agente dello spionaggio nazista - e solo qualche ora dopo essere stato tolto dalla culla di Hopewell, nel New Jersey, e portato
giù per la scala di fortuna in braccio a Hauptmann, Charles junior era già stato fatto uscire di nascosto dal paese ed era in viaggio per la Germania. Il cadavere trovato e identificato come quello di Baby Lindbergh dieci settimane dopo era di un altro bambino, scelto dai nazisti per la sua somiglianza a Baby Lindbergh e assassinato, e poi, quando il corpo era già in decomposizione, abbandonato nel bosco vicino alla casa dei Lindbergh per assicurare la condanna e l’esecuzione di Hauptmann e tenere segrete le vere circostanze del rapimento a tutti tranne gli stessi Lindbergh. Tramite una spia nazista infiltrata come corrispondente straniero a New York, la coppia era stata subito informata dell’arrivo di Charles, sano e salvo, sul suolo tedesco, e le era stato garantito che il bambino avrebbe ricevuto le cure più sollecite da parte di una squadra di medici, infermiere, insegnanti e personale militare nazista – cure giustificate dalla sua condizione di figlio primogenito dell’aviatore più grande del mondo - purché i Lindbergh cooperassero pienamente con Berlino. In seguito a questa minaccia, per i dieci anni seguenti la sorte dei Lindbergh e del figlio rapito - e a poco a poco anche il destino degli Stati Uniti d’America - furono determinati da Adolf Hitler. Grazie all’abilità e all’efficienza dei suoi agenti a New York e Washington – e a Londra e Parigi dopo che la celebre coppia, obbedendo agli ordini, «fuggì» per andare a vivere da espatriati in Europa, dove Lindbergh cominciò regolarmente a visitare la Germania nazista e a decantare i successi del suo apparato militare -, i nazisti cominciarono a sfruttare la fama di Lindbergh nell’interesse del Terzo Reich e a spese dell’America, decidendo dove la coppia avrebbe abitato, di chi sarebbe stata amica, e soprattutto quali opinioni avrebbe abbracciato nelle pubbliche dichiarazioni e negli scritti. Nel 1938, come ricompensa per la graziosa accettazione da parte di Lindbergh di una prestigiosa medaglia consegnatagli da Hermann Gòring durante una cena berlinese in onore dell’aviatore, e dopo numerose lettere imploranti che erano state fatte pervenire segretamente da Anne Morrow Lindbergh al Fùhrer in persona, i Lindbergh furono finalmente autorizzati a visitare il figlio, che era ormai diventato un bel ragazzo biondo di quasi otto anni e che, dal giorno in cui era arrivato in Germania, era stato allevato come un giovane hitleriano modello. Il cadetto, che parlava tedesco, non capì, né gli fu riferito, che i famosi americani ai quali lui e i suoi compagni di classe erano stati presentati dopo la parata alla loro accademia militare erano i suoi genitori, e i Lindbergh non furono autorizzati né a rivolgergli la parola né a farsi fotografare con lui. La visita ebbe luogo proprio nel momento in cui Anne Morrow Lindbergh era arrivata alla conclusione che la storia del rapimento nazista era una beffa indicibilmente crudele e che i Lindbergh avevano atteso anche troppo per liberarsi della loro schiavitù a Adolf Hitler. Invece, dopo aver visto Charles vivo per la prima volta dal giorno della sua scomparsa nel 1932, i Lindbergh lasciarono la Germania irreversibilmente asserviti al peggior nemico della loro patria. Ricevettero l’ordine di porre fine all’espatrio e tornare in America, dove il colonnello Lindbergh doveva abbracciare la causa di America First. Gli vennero forniti i discorsi scritti in inglese che condannavano gli inglesi, Roosevelt e gli ebrei e che sostenevano la neutralità dell’America nella guerra europea; istruzioni dettagliate
specificavano dove e quando i discorsi dovevano essere tenuti, e persino il tipo di abbigliamento da indossare per ogni uscita in pubblico. Ogni stratagemma politico escogitato a Berlino, Lindbergh lo applicava con lo stesso meticoloso perfezionismo che caratterizzava le sue imprese aeronautiche, fino alla sera in cui arrivò alla convention repubblicana in divisa da aviatore e accettò la nomination alla presidenza con le parole scritte per l’occasione dal ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels. I nazisti studiarono ogni manovra della campagna elettorale che seguì, e una volta che Lindbergh ebbe sconfitto FDR, fu Hitler in persona a occuparsi di tutta la faccenda, procedendo a preparare per gli Stati Uniti - nel corso di riunioni settimanali con Gòring, il suo successore designato e il direttore dell’economia tedesca, e con Heinrich Himmler, signore supremo degli affari interni della Germania e capo della Gestapo, la polizia che aveva in custodia Charles Lindbergh junior - una politica estera che servisse nel modo migliore a raggiungere gli obiettivi della Germania in guerra e il suo ambizioso disegno imperiale. Presto Himmler cominciò a interferire direttamente negli affari interni degli Stati Uniti facendo pressione sul presidente Lindbergh - facetamente sminuito nei memorandum del capo della Gestapo come «il nostro Gauleiter americano» - perché varasse misure repressive contro i quattro milioni e mezzo di ebrei americani, e fu qui, secondo la signora Lindbergh, che il presidente decise, anche se in principio solo passivamente, di fare resistenza. Tanto per cominciare, ordinò che si costituisse l’Ufficio per l’assimilazione americana, che a suo avviso doveva essere un ente abbastanza insignificante che avrebbe lasciato gli ebrei sostanzialmente incolumi mentre in apparenza rispondeva – con programmi pro forma come Just Folks e Homestead 42 - alla direttiva di Himmler di «dare inizio in America a un sistematico processo di marginalizzazione che nel prossimo futuro porti alla confisca di tutti i beni ebraici e alla totale scomparsa della popolazione ebraica, dei suoi annessi e connessi, e delle sue proprietà.» Heinrich Himmler non era il tipo da farsi ingannare da un trucchetto così trasparente o da curarsi di dissimulare il proprio disappunto quando Lindbergh osò giustificarsi - tramite Von Ribbentrop, che Himmler spedì a Washington, apparentemente per una solenne visita ufficiale, ma in realtà per aiutare il presidente a formulare misure antiebraiche più stringenti - spiegando al comandante supremo dei campi di concentramento hitleriani che le garanzie contenute nella costituzione degli Stati Uniti, unitamente alle antiche tradizioni democratiche americane, rendevano impossibile che una soluzione finale del problema ebraico fosse attuata in America con la stessa rapidità e la stessa efficienza con cui essa veniva attuata in un continente dove c’era una storia millenaria di antisemitismo con profonde radici nella gente comune e dove il potere nazista era assoluto. Durante il ricevimento ufficiale dato in onore di Von Ribbentrop, l’illustre ospite prese in disparte il presidente e gli porse un cablogramma, decifrato qualche minuto prima all’ambasciata tedesca, che costituiva la risposta di Himmler nella sua interezza. «Pensi a suo figlio, - diceva il cablogramma, - prima di rispondere un’altra volta con queste fesserie. Pensi al prode giovane Charles, un brillante cadetto dell’accademia militare tedesca che già all’età
di dodici anni conosce meglio del suo celebre padre il valore dato dal nostro Fùhrer alle garanzie costituzionali e alle tradizioni democratiche, specie quando si tratta dei diritti dei parassiti.» La strigliata di Himmler all’«Aquila Solitaria col cuore di pollo» (come Lindbergh era descritto nel memorandum interno di Himmler) segnò l’inizio del ripudio di Lindbergh come utile pedina del Terzo Reich. Battendo Roosevelt e gli interventisti antinazisti nel partito di Roosevelt, Lindbergh aveva dato all’esercito tedesco il tempo di soffocare la continua e inaspettata resistenza dell’Unione Sovietica senza che la Germania corresse il rischio di dover affrontare simultaneamente la potenza industriale e militare degli Stati Uniti. Cosa ancora più importante, la presidenza di Lindbergh diede all’industria tedesca e alla comunità scientifica tedesca - che stava già segretamente sviluppando una bomba con una forza esplosiva inarrivabile scatenata dalla fissione atomica, nonché un razzo capace di scagliare quest’arma attraverso l’Atlantico - altri due anni per completare i preparativi per la lotta apocalittica con gli Stati Uniti il cui esito, come prevedeva Hitler, avrebbe determinato il corso della civiltà occidentale e il progresso dell’umanità per il prossimo millennio. Se Himmler avesse trovato in Lindbergh il visionario mangiaebrei che i rapporti del servizio segreto avevano dipinto per l’alto comando tedesco, anziché l’«antisemita da salotto» descritto in tono sprezzante da Himmler, forse il presidente sarebbe stato autorizzato ad arrivare alla fine del suo mandato e a restare in carica per altri quattro anni prima di ritirarsi e cedere il governo a Henry Ford, già scelto da Hitler come successore di Lindbergh a dispetto dell’età avanzata. Se per arrivare alla soluzione finale del problema ebraico in America Himmler avesse potuto contare su un presidente americano dalle impeccabili credenziali americane, questo naturalmente sarebbe stato preferibile all’impiego in un secondo tempo di risorse e personale tedesco per compiere quella missione nel Nordamerica, e l’aereo di Lindbergh non sarebbe stato costretto a sparire, come a Berlino si ritenne necessario, il 7 ottobre 1942: e il presidente ad interim Wheeler non avrebbe preso il potere la sera dopo e non si sarebbe dimostrato in pochi giorni, tra la gioia e lo stupore di coloro che fino a quel momento non lo avevano considerato che un buffone, un vero leader applicando proprio le misure che Von Ribbentrop aveva proposto a Lindbergh e che, come credeva Himmler, l’eroe americano non aveva messo in pratica a causa delle puerili obiezioni morali della moglie. Entro un’ora dalla scomparsa di Lindbergh, sua moglie era stata informata dall’ambasciata tedesca che la responsabilità del benessere di suo figlio era adesso solamente sua e che, se non avesse lasciato la Casa Bianca e non si fosse ritirata silenziosamente a vita privata, Charles junior sarebbe stato tolto dall’accademia militare e spedito sul fronte russo per l’offensiva di novembre contro Stalingrado, dove avrebbe prestato servizio nei panni del più giovane fantaccino del Terzo Reich finché non fosse caduto valorosamente sul campo di battaglia a maggior gloria del popolo tedesco.
Questa è la storia di cui la zia Evelyn fece il riassunto a mia madre quando venne a casa nostra poche ore dopo che il rabbino Bengelsdorf era stato portato via in manette dal loro albergo di Washington da agenti dell’Fbi. Sviluppata più ampiamente, è la storia narrata in La mia vita sotto Lindbergh, l’apologia di 550 pagine pubblicata subito dopo la guerra dal rabbino Bengelsdorf come diario di «uno del giro» e prontamente liquidata nella dichiarazione alla stampa di un portavoce della famiglia Lindbergh come «una deplorevole calunnia senza fondamento, motivata da spirito di vendetta e avidità, sostenuta da manie di grandezza, inventata per essere sottoposta a un volgare sfruttamento commerciale, calunnia alla quale la signora Lindbergh non farà l’onore di dare ulteriori risposte.» Quando mia madre la sentì per la prima volta, questa storia le parve la prova decisiva del fatto che lo shock prodotto dall’aver assistito all’arresto del rabbino Bengelsdorf aveva fatto perdere il senno a sua sorella. Il giorno dopo la visita a sorpresa della zia Evelyn era il 16 ottobre 1942, venerdì, e quel giorno la signora Lindbergh, prima di tornare alla Casa Bianca, parlò alla radio da una località segreta di Washington e, basandosi esclusivamente sulla propria autorità come «sposa del trentatreesimo presidente degli Stati Uniti», chiese che «si ponesse fine» all’«oltraggiosa storia di usurpazione» iniziata dall’amministrazione del presidente ad interim. Se come conseguenza del coraggio della First Lady accadde qualcosa di male al figlio rapito, se Charles junior sopravvisse alla sua prima infanzia per subire l’orribile destino promessogli da Himmler, e per di più per vivere la vita di un ragazzo privilegiato e di un prezioso ostaggio dello stato tedesco, se Himmler, Gòring e Hitler ebbero un ruolo decisivo nel favorire l’ascesa di Lindbergh ai vertici della politica come America Firster o nel decidere la linea di condotta degli Stati Uniti nei ventidue mesi della presidenza Lindbergh o nell’architettare la misteriosa scomparsa di Lindbergh, è una querelle che dura da oltre mezzo secolo, anche se ormai molto meno appassionata e diffusa di quando, per una trentina di settimane nel 1946 (e malgrado la sua citatissima definizione da parte di Westbrook Pegler, il decano dei giornalisti di destra che odiavano Roosevelt, come «il diario squinternato di un mitomane da ricoverare in manicomio»), La mia vita sotto Lindbergh rimase in testa alle liste dei bestseller americani insieme a due biografie personali di FDR, che era deceduto nell’esercizio della sua carica l’anno precedente, solo qualche settimana prima che la resa incondizionata della Germania nazista agli Alleati segnasse la fine della seconda guerra mondiale in Europa.
CAPITOLO 9 Ottobre 1942 Eterna paura La telefonata di Seldon arrivò quando mia madre, Sandy e io eravamo già a letto. Era il 12 ottobre, lunedì, e durante la cena avevamo sentito alla radio le notizie dei disordini che erano scoppiati nel Midwest e nel Sud in seguito all’annuncio dell’intelligence britannica che il presidente Lindbergh era ammarato intenzionalmente a trecento miglia dalla costa e da là era stato condotto dalla marina e dall’aviazione della Germania nazista a un appuntamento segreto con Hitler. Soltanto l’indomani i giornali del mattino furono in grado di fornire i dettagli dei disordini innescati da questo dispaccio, anche se appena qualche minuto dopo che la notizia ci ebbe raggiunto al tavolo della cucina mia madre aveva già indovinato correttamente chi quei facinorosi avevano scelto come obiettivo e perché. Erano passati tre giorni da quando era stato chiuso il confine col Canada, e anche a me, che trovavo una prospettiva insopportabile lasciare l’America, era chiaro che il rifiuto di mio padre di dare ascolto a mia madre e lasciare il paese qualche mese prima era stato l’errore più grande che avesse mai fatto. Lui adesso aveva ripreso a lavorare di notte al mercato, mia madre usciva tutti i giorni a fare la spesa donchisciottescamente un pomeriggio a scuola aveva partecipato a una riunione per i futuri scrutatori di seggio alle elezioni di novembre -, Sandy e io andavamo a scuola ogni mattina con i nostri amici, ma ciononostante all’inizio della seconda settimana dell’amministrazione del presidente ad interim Wheeler la paura era dappertutto, e questo a dispetto del consiglio della signora Lindbergh di non badare alle notizie provenienti da paesi stranieri sul luogo dove poteva trovarsi il presidente, e a dispetto dell’importanza mediatica raggiunta dal rabbino Bengelsdorf, ormai entrato a far parte della nostra famiglia, zio acquisito che un giorno aveva persino mangiato a casa nostra, ma non poteva fare niente per aiutarci e che anche se poteva non l’avrebbe fatto a causa del disprezzo che nutrivano reciprocamente lui e mio padre. La paura era dappertutto, e dappertutto era l’espressione, specie negli occhi dei nostri protettori, l’espressione che ti viene una frazione di secondo dopo aver chiuso la porta ed esserti reso conto che non hai la chiave. Non avevamo mai visto gli adulti pensare tutti, smarriti, gli stessi pensieri. I più forti tra loro facevano del loro meglio per stare calmi e non perdersi di coraggio e avere un tono realistico quando ci dicevano che presto le nostre pene sarebbero finite e la vita avrebbe ripreso regolarmente il suo ciclo, ma quando accendevano la radio per ascoltare il giornale erano devastati dalla rapidità con cui tutte quelle cose terribili stavano accadendo. Poi, la sera del dodici - mentre eravamo tutti a letto, senza riuscire a prender sonno -, il telefono squillò: Seldon che telefonava dal Kentucky, chiamata a carico del destinatario. Erano le dieci e sua madre non era ancora rincasata, e poiché sapeva il nostro numero a memoria (e non sapeva chi altro chiamare), girò la manovella, si
mise in contatto col centralino e di slancio, cercando di articolare tutte le parole necessarie prima che la forza di parlare lo abbandonasse, disse: - Chiamata a carico del destinatario, per piacere. Newark, New Jersey. 81 Summit Avenue. Waverley 34827. Il mio nome è Seldon Wishnow. Voglio parlare da persona a persona con il signore o la signora Roth. O Philip. O Sandy. Chiunque, centralino. Mia madre non è in casa. Io ho dieci anni. Non ho mangiato, e lei non è qui. Centralino, per piacere... Waverley 3-4827! Parlerò con chiunque risponda! Quel mattino la signora Wishnow era andata in macchina a Louisville, all’ufficio regionale della Metropolitan, su richiesta del suo supervisore distrettuale. Louisville era a più di cento miglia da Danville, e le strade erano quasi tutte così cattive che ci sarebbe voluto praticamente tutto il giorno solo per andare e tornare. Per quale motivo il supervisore distrettuale non avesse potuto scrivere una lettera o prendere il telefono per dirle ciò che aveva da dire nessuno riuscì mai a capirlo, e l’uomo non fu mai invitato a spiegarlo. L’ipotesi di mio padre era che quel giorno la società intendeva licenziarla: farsi consegnare il suo registro con l’elenco manoscritto delle riscossioni e poi mandarla per la sua strada, disoccupata dopo appena sei settimane di lavoro e a settecento miglia da casa. Non aveva combinato quasi niente in quelle prime settimane nelle plaghe rurali di Boyle County, ma non perché non ce la mettesse tutta: principalmente dipendeva dal fatto che non c’erano polizze da fare. In realtà, tutti i trasferimenti effettuati dalla Metropolitan sotto gli auspici di Homestead 42 stavano trasformandosi in catastrofi per gli agenti che venivano dal distretto di Newark. Negli angoli spopolati di quegli stati remoti nei quali erano stati trasferiti con le famiglie, nessuno di essi riusciva a guadagnare un quarto del totale delle commissioni che erano abituati a fare nel North Jersey metropolitano: e così, se non altro per questa ragione, mio padre era stato meravigliosamente previdente a lasciare il suo posto e ad andare invece a lavorare per lo zio Monty. Non era stato altrettanto previdente nel farci passare in Canada prima che chiudessero la frontiera e proclamassero la legge marziale. - Se era viva... - disse Seldon a mia madre, dopo che lei ebbe accettato la chiamata, - se era viva... - All’inizio, a causa dei suoi pianti, Seldon non riuscì a dire altro, e anche quelle tre parole erano appena comprensibili. - Seldon, basta. Smettila di fare così. Stai diventando isterico. Certo che tua madre è viva. È solo in ritardo nel tornare a casa... Ecco quello che è successo, tutto qui. - Ma se era viva telefonava! - Seldon, e se è rimasta semplicemente bloccata da un ingorgo? E se è successo qualcosa alla macchina e ha dovuto fermarsi per farla aggiustare? Non è già successo, quando eravate qui a Newark? Ricordi quella sera che pioveva e lei ha forato una gomma e tu sei venuto su da noi? Probabilmente non è altro che questo, una foratura, dunque calmati, caro, per piacere. Devi smettere di piangere. Tua madre sta bene. Dire quello che dici ti fa solo star male, e non è vero, dunque, per piacere, per piacere, fa’ uno sforzo, adesso, e cerca di calmarti.
- Ma è morta, signora Roth! Proprio come mio padre! Adesso i miei genitori sono morti tutt’e due. - È naturalmente aveva ragione. Seldon non sapeva nulla dei disordini di Louisville e poco di quanto stava succedendo nel resto dell’America. Nella vita della signora Wishnow non c’era più posto che per il bambino e il suo lavoro, perciò nella casa di Danville non c’era mai un giornale da leggere, e all’ora di cena non tenevano la radio accesa come facevamo noi a Newark. Più che probabile che a Danville lei fosse troppo stanca per ascoltarla, troppo inebetita, ormai, per badare a disgrazie che non fossero le sue. Ma Seldon aveva perfettamente ragione: la signora Wishnow era morta, anche se nessuno l’avrebbe saputo fino al giorno dopo, quando la macchina bruciata con i resti di sua madre fu trovata, fumante, in un fosso lungo un campo di patate nella pianura a sud di Louisville. Evidentemente era stata percossa e rapinata, e la macchina era stata incendiata nei primi minuti delle violenze serali, che non si erano limitate alle vie del centro di Louisville dove c’erano i negozi degli ebrei o alle strade residenziali dove abitavano i pochi cittadini ebrei di Louisville. I membri del Ku Klux Klan sapevano che quando le torce erano accese e le croci ardevano i parassiti avrebbero cercato di fuggire, e così erano pronti a riceverli, non soltanto sulla strada principale che portava, a nord, verso l’Ohio, ma lungo le strette strade di campagna che portavano a sud, che fu dove la signora Wishnow pagò con la vita la diffamazione del buon nome di Lindbergh, prima da parte del povero Walter Winchell e poi da parte della macchina propagandistica controllata dagli ebrei del primo ministro Churchill e di re Giorgio VI. Mia madre disse: - Seldon, devi mangiare qualcosa. Ti aiuterà a calmarti. Apri il frigorifero e prendi qualcosa da mangiare. - Ho mangiato i biscotti con i fichi. Non ne è avanzato neanche uno. - Seldon, sto parlando di fare un pasto completo. Prestissimo tua madre sarà a casa, ma intanto non puoi stare lì seduto ad aspettare che ti dia da mangiare: devi nutrirti, e non di biscotti. Metti giù il telefono e va’ a vedere nel frigorifero e poi torna indietro e dimmi cosa c’è dentro che tu possa mangiare. - Ma è un’interurbana. - Seldon, fa’ come ti dico. A Sandy e me, stretti intorno a lei in fondo al corridoio, mia madre disse: - Lei è molto in ritardo, e lui non ha mangiato, ed è tutto solo, e lei non ha telefonato, e quel povero bambino è spaventato e muore di fame. - Signora Roth? -Sì, Seldon? - C’è della ricotta. È vecchia, però. Non sembra molto buona. - Che altro c’è? - Barbabietole. In una scodella. Avanzi. Sono fredde. - E nient’altro? - Guardo ancora... Solo un momento. Questa volta quando Seldon mise giù il telefono mia madre disse a Sandy: - Quanto distano da Danville i Mawhinney?
- Col camion circa venti minuti. - Nel comò, - disse mia madre a mio fratello, - nel primo cassetto, nel borsellino... Il numero è lì. È su un pezzo di carta nel mio borsellino marrone. Vammelo a prendere, per cortesia. - Signora Roth? - Sì. Sono qui. - C’è del burro. - Tutto lì? Non c’è latte? Non c’è succo di frutta? - Ma quella è la colazione. Non è la cena. - Ci sono dei Rice Krispies, Seldon? Ci sono dei Corn Flakes? - Certo, - disse lui. - Allora prendi il cereale che ti piace di più. - Rice Krispies. - Prendi i Rice Krispies, tira fuori il latte e il succo, e voglio che ti prepari la colazione. - Adesso? - Fa’ come ti dico, per piacere, - gli disse lei. - Voglio che tu faccia colazione. - C’è Philip lì? - E qui, ma non gli puoi parlare. Prima devi mangiare. Ti richiamo tra mezz’ora, dopo che avrai mangiato. Sono le dieci e dieci, Seldon. - A Newark sono le dieci e dieci? - A Newark e a Danville. C’è esattamente la stessa ora in entrambi i posti. Ti richiamo alle undici meno un quarto, - gli disse lei. - Posso parlare con Philip allora? - Sì, ma prima voglio che tu ti sieda al tavolo della cucina con tutto quello che ti serve. Voglio che usi un cucchiaio, una forchetta, un tovagliolo e un coltello. Mangia lentamente. Usa i piatti. Usa una scodella. C’è del pane? - È vecchio. Solo un paio di fette. - Avete un tostapane? - Certo. Lo abbiamo portato in macchina. Si ricorda la mattina che abbiamo caricato tutto sulla macchina? - Ascoltami, Seldon. Concentrati. Fatti qualche toast, col cereale. E usa il burro. Imburrali. E versati un bel bicchierone di latte. Voglio che tu faccia una buona colazione, e quando arriva tua madre, voglio che tu le dica di chiamarci immediatamente. Può fare una telefonata a carico del destinatario. Dille di non preoccuparsi della spesa. È importante per noi sapere quando è a casa. Ma in un modo o nell’altro fra mezz’ora ti richiamo, dunque non andare in nessun posto. - Fuori è buio. Dove dovrei andare? - Seldon, mangia la tua colazione. - Okay. - Arrivederci, - disse lei. - Arrivederci, per ora. Ti richiamo alle undici meno un quarto. Resta dove sei.
Subito dopo telefonò ai Mawhinney. Mio fratello le porse il pezzo di carta col numero e lei chiese al centralino di metterla in comunicazione e quando qualcuno rispose all’altro capo, disse: - È la signora Mawhinney? Sono la signora Roth. Sono la madre di Sandy Roth. La chiamo da Newark, New Jersey, signora Mawhinney. Scusi se l’ho svegliata, ma abbiamo bisogno di voi perché ci aiutiate con un bambino che è rimasto solo a Danville. Cosa? Sì, certo, sì. A noi disse: - Va a chiamare suo marito. - Oh, no, - gemette mio fratello. - Sanford, non è il momento. Neanche a me piace quello che sto facendo. Mi rendo conto che non conosco queste persone. Mi rendo conto che non sono come noi. So che gli agricoltori vanno a letto presto e si alzano presto e che lavorano sodo. Ma dimmi che altro dovrei fare. Quel bambino impazzirà se sarà lasciato solo ancora per molto. Non sa dov’è sua madre. Qualcuno deve andarci. Ha già avuto troppi shock per uno della sua età. Ha perso il padre. Adesso è sparita sua madre. Riesci a capire che cosa significa? - Certo che ci riesco, - disse mio fratello, indignato. - Certo che capisco. - Bene. Allora capisci che qualcuno deve andare da lui. Qualcuno... – ma in quel momento arrivò il signor Mawhinney, e mia madre gli spiegò perché telefonava, e lui accettò immediatamente di fare tutto quello che chiedeva. Quando ebbe riagganciato, disse: - Almeno è rimasta un po’ di civiltà, in questo paese. Almeno c’è un po’ di civiltà, in qualche posto. - Te l’ho detto, - mormorò mio fratello. Non mi sarebbe mai sembrata più straordinaria di come mi apparve quella sera, e non soltanto per l’abbandono con cui accettava e faceva telefonate a e dal Kentucky. C’era qualcosa di più, molto di più. C’era, tanto per cominciare, l’attacco di Alvin a mio padre della settimana prima. C’era la reazione esplosiva di mio padre. C’era la distruzione del soggiorno. C’erano i denti rotti e le costole rotte di mio padre, i punti sulla faccia e il sostegno intorno al collo. C’era la sparatoria in Chancellor Avenue. C’era la nostra certezza che era un pogrom. C’erano le sirene che avevano suonato per tutta la notte. C’erano le grida e le urla nelle strade per tutta la notte. C’era il fatto che c’eravamo nascosti nel corridoio dei Cucuzza, la pistola carica sulle ginocchia di mio padre, la pistola carica nel pugno del signor Cucuzza... E tutto questo era successo solo la settimana prima. C’era anche il mese prima, l’anno prima e l’anno prima di quello: tutti quei colpi, tutti quegli insulti e tutte quelle sorprese che avevano lo scopo di indebolire e spaventare gli ebrei e che non erano ancora riusciti a piegare la forza di mia madre. Prima di sentirla dire a Seldon, da più di settecento miglia di distanza, di prepararsi qualcosa da mangiare e di sedersi a mangiare, prima di sentirla telefonare ai Mawhinney - cristiani praticanti che non aveva mai visto - per farsi aiutare da loro a impedire a Seldon d’impazzire, prima di sentirla chiedere di parlare col signor Mawhinney e poi dirgli che se alla signora Wishnow era capitato qualcosa di grave i Mawhinney non dovevano preoccuparsi che Seldon gli restasse sul gobbo, che mio padre era pronto a saltare in macchina e ad andare nel Kentucky a prendere Seldon e a riportarlo a Newark (e fare questa promessa al signor Mawhinney quando
ancora nessuno sapeva fino a che punto i Wheeler e i Ford intendessero permettere alla teppa americana di andare), non avevo capito niente della storia che era la sua vita in quegli anni. Fino alla frenetica telefonata di Seldon dal Kentucky, non avevo mai calcolato quanto era costata la presidenza Lindbergh ai miei genitori: fino a quel momento non ero stato capace di fare un’addizione così grossa. Quando mia madre telefonò a Seldon alle undici meno un quarto gli illustrò il piano elaborato con i Mawhinney. Doveva mettere in un sacchetto di carta lo spazzolino da denti, il pigiama, biancheria intima e un paio di calzini, puliti, e doveva indossare un maglione e la giacca pesante e il berretto di flanella, e doveva aspettare in casa che il signor Mawhinney venisse a prenderlo col camion. Il signor Mawhinney era un uomo molto gentile, mia madre disse a Seldon, un uomo buono e generoso con una brava moglie e quattro figli che Sandy conosceva dall’estate che aveva passato nella fattoria dei Mawhinney. - Allora è morta! - strillò Seldon. No, no, no, assolutamente no: sua madre sarebbe andata a prenderlo dai Mawhinney la mattina dopo per accompagnarlo a scuola. I signori Mawhinney avrebbero pensato a tutto, e Seldon non doveva preoccuparsi di nulla. Ma intanto c’era un lavoro da fare: con la sua migliore calligrafia Seldon doveva scrivere un biglietto per sua madre e lasciarlo sul tavolo della cucina, un biglietto per dirle che avrebbe passato la notte dai Mawhinney e che le lasciava il numero telefonico dei Mawhinney. Nel biglietto doveva dirle anche di chiamare la signora Roth a Newark, telefonata a carico del destinatario, appena rientrata. Poi Seldon doveva sedersi nel soggiorno e aspettare là finché non avesse udito il signor Mawhinney fuori che suonava il clacson, poi doveva spegnere le luci della casa... Gli fece da guida attraverso tutte le fasi della partenza e poi, a che prezzo non avrei saputo dire, restò in linea finché lui non ebbe fatto quello che gli aveva detto di fare e non fu tornato al telefono per dirle che l’aveva fatto, e neanche allora riattaccò né smise di tranquillizzarlo fino a quando finalmente Seldon urlò: - È lui, signora Roth! Sta suonando il clacson! - e mia madre disse: - Okay, bene, ma con calma adesso, Seldon, con calma... Prendi la tua borsa, spegni la luce, non dimenticare di chiudere la porta a chiave quando esci, e domani mattina presto rivedrai tua madre. Ora, buona fortuna, tesoro, e non correre, e... Seldon? Seldon, metti giù il telefono! - Ma questo Seldon trascurò di farlo. Nell’ansia di scappare più in fretta che poteva da quella spaventosa casa solitaria e senza genitori, lasciò il ricevitore a penzolare, anche se questo aveva poca importanza. La casa avrebbe potuto essere rasa al suolo da un incendio e questo non avrebbe avuto nessuna importanza, perché Seldon non doveva più rimetterci piede. Tornò in Summit Avenue il 18 ottobre, domenica. Mio padre, accompagnato da Sandy, andò a prenderlo con la macchina nel Kentucky. La bara con i resti della signora Wishnow li seguì in treno. Sapevo che il suo corpo, nella macchina bruciata, era diventato irriconoscibile, eppure continuavo a immaginarla distesa dentro la cassa
con i pugni ancora stretti. E alternativamente mi vedevo chiuso nel loro bagno con la signora Wishnow fuori nel corridoio che mi diceva come aprire la porta. Quanta pazienza aveva avuto! Come somigliava a mia madre! E ora era dentro una cassa, e io ero quello che ce l’aveva messa. Questo fu tutto ciò che riuscii a pensare la sera in cui mia madre, come un ufficiale in combattimento, aiutò Seldon a prepararsi la cena e a organizzare la partenza e a mettersi al sicuro nelle mani dei Mawhinney. Sono stato io. Questo fu tutto ciò che riuscii a pensare allora ed è tutto ciò che riesco a pensare adesso. Io ho fatto questo a Seldon e io ho fatto questo a lei. Il rabbino Bengelsdorf aveva fatto quello che aveva fatto, la zia Evelyn aveva fatto quello che aveva fatto, ma quello che aveva dato il via a tutta la faccenda ero io: questo disastro era opera mia. Il 15 ottobre, giovedì - il giorno in cui il putsch di Wheeler raggiunse il colmo dell’illegalità -, il nostro telefono squillò alle sei meno un quarto del mattino. Mia madre pensò che fossero mio padre e Sandy che chiamavano con cattive notizie dal Kentucky, o peggio qualcuno che chiamava a nome loro, invece per il momento le cattive notizie riguardavano mia zia. Solo qualche minuto prima agenti dell’Fbi avevano bussato alla porta della camera dell’albergo di Washington dove alloggiava il rabbino Bengelsdorf. La zia Evelyn l’aveva raggiunto da Newark proprio il giorno prima, e così quella notte per caso era presente: altrimenti, forse non avrebbe conosciuto le circostanze della sua scomparsa. Gli agenti non aspettarono che qualcuno aprisse la porta dall’interno; gliel’aprì gentilmente il passepartout del direttore, e dopo aver mostrato il mandato d’arresto per il rabbino Bengelsdorf e atteso in silenzio che lui si vestisse, gli agenti lo scortarono mentre usciva in manette dalla stanza senza una parola di spiegazione alla zia Evelyn, che subito dopo averli visti allontanarsi su una macchina senza contrassegni chiamò mia madre per chiederle aiuto. Ma non era il momento, per mia madre, di affidarmi alle cure di qualcun altro e farsi cinque ore di treno per dare una mano a una sorella con cui da mesi non aveva più rapporti. Centoventidue ebrei erano stati uccisi tre giorni prima fra i quali, come avevamo appena saputo, la signora Wishnow -, mio padre e Sandy erano ancora via nel loro viaggio pericoloso per salvare Seldon, e nessuno sapeva cosa riservava il futuro anche a quelli di noi che erano a casa loro in Summit Avenue. La sparatoria con la polizia cittadina che aveva provocato la morte di tre bravacci del posto era la cosa peggiore che fosse accaduta a Newark fino a quel momento; nondimeno, il fatto che fosse accaduta dietro l’angolo, in Chancellor Avenue, aveva lasciato in tutti quelli che abitavano nella via la sensazione che fosse stato abbattuto un muro che prima proteggeva le loro famiglie: non il muro del ghetto (che non aveva difeso nessuno, sicuramente non dalla paura e dalle patologie dell’esclusione), non un muro destinato a escluderli o a tenerli rinchiusi, ma un muro di protezione di garanzie legali che sorgeva tra loro e le schizofrenie di un ghetto. Alle cinque di quel pomeriggio la zia Evelyn bussò alla nostra porta, più frenetica di com’era parsa al telefono sulla scia dell’arresto del rabbino Bengelsdorf. Nessuno a Washington voleva o poteva dirle dov’era trattenuto suo marito, o addirittura se era ancora vivo, e poi, quando aveva saputo degli arresti di figure apparentemente
inattaccabili come il sindaco La Guardia, il governatore Lehman e il giudice Frankfurter, si era lasciata vincere dal panico e aveva preso il treno per venire su da Washington. Non volendo tornare da sola nella casa di Elizabeth Avenue del rabbino - e temendo che, se prima avesse telefonato, mia madre le avrebbe detto di stare lontano - dalla Penn Station aveva preso un taxi direttamente fino a Summit Avenue, e ora pregava che la lasciassero entrare. Solo un paio d’ore prima la radio aveva diffuso un bollettino sconvolgente - la notizia che il presidente Roosevelt, entrando a New York per partecipare a una manifestazione serale di protesta al Madison Square Garden, era stato «fermato» dalla polizia - ed era stato questo a spingere mia madre a uscire di casa e, per la prima volta da quando avevo cominciato ad andare all’asilo nel 1938, a venirmi a prendere alla fine della giornata. Fino ad allora era stata pronta come gli altri a seguire le istruzioni del rabbino Prinz, a comportarsi normalmente e a lasciare i problemi della sicurezza al comitato, ma quel pomeriggio decise che gli avvenimenti avevano ormai scavalcato la saggezza del rabbino, e con altre cento madri arrivate alla stessa conclusione era venuta a recuperare suo figlio quando suonò l’ultima campana e i ragazzi cominciarono a sciamare dalle uscite per andare a casa. - Li ho alle costole, Bess! Devo nascondermi... Devi nascondermi! Come se in poco più di una settimana non fosse andata a gambe all’aria una parte abbastanza grande del nostro mondo, ecco la mia vibrante, altezzosa zietta, la moglie (o forse già la vedova) del personaggio più significativo che avessimo mai visto, ecco la minuscola zia Evelyn, struccata, con i capelli dritti, trasformata improvvisamente in un’orchessa, imbruttita e resa vulnerabile dal disastro e dal proprio istrionismo. Ed ecco mia madre che bloccava l’ingresso e sembrava più arrabbiata di quanto l’avrei mai potuta immaginare. Mai l’avevo vista così furiosa, come non l’avevo mai sentita sbottare in un’imprecazione. Non sapevo nemmeno che ne sapesse qualcuna. - Perché non vai a nasconderti dai Von Ribbentrop? - disse mia madre. - Perché non vai a chiedere protezione al tuo amico Herr Von Ribbentrop? Stupida! E la mia famiglia? Non credi che abbiamo paura anche noi? Non credi che anche noi siamo in pericolo? Piccola stronza egoista... Abbiamo tutti paura! - Ma mi arresteranno! Mi tortureranno, Bessie, perché so la verità. - Non puoi restare qui! È escluso! - disse mia madre. - Hai una casa, soldi, servi... Hai tutto il necessario per difenderti. Noi non abbiamo niente di simile, proprio niente. Esci, Evelyn! Vattene! Esci da questa casa! Sbalorditivamente, per chiedere asilo mia zia si rivolse a me. – Mio caro ragazzo, tesoro... - Come osi! - urlò mia madre, e sbatté la porta, mancando di poco la mano che la zia Evelyn aveva teso disperatamente verso le mie. E dopo un attimo mi strinse in un abbraccio così forte che sentii contro la fronte il battito del suo cuore. - Come farà a tornare a casa? - chiesi. - L’autobus. Non sono affari nostri. Prenderà l’autobus come tutti gli altri. - Ma cosa voleva dire quando ha detto che sa la verità? - Niente. Dimentica quello che ha detto. Tua zia non ci riguarda più.
Tornata in cucina, seppellì la faccia tra le mani e scoppiò improvvisamente in un pianto disperato. I responsabili scrupoli materni vennero meno, e con essi la forza che impiegava con rigore per nascondere le sue debolezze e tenere insieme le cose. - Come può essere morta, Selma Wishnow? - chiese. - Come possono arrestare il presidente Roosevelt? Come può succedere tutto questo? - Perché Lindbergh è scomparso? - domandai. - Perché è apparso, - replicò lei. - Anzitutto perché è apparso, quell’idiota goyisch ai comandi di quello stupido aereo! Oh, non avrei mai dovuto lasciarli andare a prendere Seldon! Dov’è tuo fratello? Dov’è tuo padre? - E dov’è, pareva chiedersi, quell’esistenza ordinata un tempo così piena di progetti, dov’è la grande, grandissima impresa di essere noi quattro? - Non sappiamo nemmeno dove sono, - disse, ma dal suo tono sembrava che a perdersi fosse stata lei. - Mandarli via così... Cos’avevo in testa? Lasciarli andare quando tutto il paese... Quando... Deliberatamente si fermò lì, ma il corso dei suoi pensieri era abbastanza chiaro: quando i goyim ammazzano gli ebrei per la strada. Non potei far altro che stare a guardare finché il pianto non l’ebbe svuotata, dopodiché tutta l’idea che avevo di lei subì un sorprendente cambiamento: mia madre era un essere umano come me. Rimasi colpito dalla rivelazione, ed ero troppo piccolo per comprendere che quello era il legame più forte di tutti. - Come ho potuto cacciarla via? - disse. - Oh, caro, cosa, oh, cosa direbbe adesso la nonna? Il rimorso, prevedibilmente, fu la forma che prese la sua angoscia, quella spietata fustigazione che è l’autocondanna, come se in tempi bizzarri come questi ci fosse un modo giusto e un modo sbagliato che a qualcun altro sarebbe apparso chiaro, come se nell’affrontare queste situazioni non ci facessimo spesso guidare dalla mano della stupidità. Ma lei si rimproverava per errori di giudizio che non erano soltanto naturali quando non c’era più una spiegazione logica per nessuna cosa, ma che erano generati da emozioni di cui non aveva motivo di dubitare. La cosa peggiore era la sua profonda convinzione di avere commesso un errore catastrofico, mentre, se fosse andata contro il proprio istinto, non avrebbe avuto meno ragione di deplorare ciò che aveva fatto. Per il bambino che la vedeva sbatacchiata di qua e di là dalla più angosciosa confusione (e che era lui stesso tremante di paura) tutto si riduceva alla scoperta che uno non poteva fare niente di giusto senza fare anche qualcosa di sbagliato, di così sbagliato, anzi, che soprattutto dove regnava il caos e ogni cosa era in gioco sarebbe stato meglio aspettare e non far nulla - solo che anche non far nulla voleva dire fare qualcosa... in quelle circostanze non far nulla significava fare molto - e che anche per la madre che ogni giorno assolveva i suoi doveri nella metodica opposizione all’indocile flusso della vita non c’era alcun sistema per venire a capo di un così funesto imbroglio. Alla luce dei drastici sviluppi della giornata (che nemmeno l’approvazione delle Leggi sugli Stranieri e la Sedizione del 1798, nemmeno quello che Jefferson chiamò «il regno delle streghe» uguagliò lontanamente quanto a tirannica intolleranza o
tradimento) furono indette assemblee straordinarie per quella sera nelle quattro scuole locali che insieme comprendevano quasi tutti gli scolari ebrei del sistema educativo elementare di Newark. Ogni assemblea sarebbe stata presieduta da un membro del Committee of Concerned Jewish Citizens. Un camion munito di altoparlante era passato nel tardo pomeriggio chiedendo a tutti di spargere la notizia dell’assemblea tra i vicini. La gente era invitata a portare i bambini, se non voleva lasciarli a casa soli, e le veniva assicurato che una mobilitazione su vasta scala della polizia in tutto il South Ward - protezione della polizia che si estendeva a est fino a Frelinghuysen Avenue e a nord fino a Springfield Avenue – era stata promessa al rabbino Prinz dal sindaco Murphy. L’intera forza di polizia a cavallo del dipartimento - due plotoni di dodici uomini suddivisi e dislocati in quattro diversi distretti - doveva essere mobilitata in particolar modo per pattugliare le vie a ovest della parte di Weequahic confinante con Irvington (dove la notte prima una bottiglieria ebraica nella principale strada commerciale era stata data alle fiamme ed era andata completamente distrutta dopo essere stata saccheggiata) e le vie a sud che confinavano con la Union County e i centri di Hillside (famoso ai miei occhi per il grande stabilimento Bristol-Myers lungo la statale 22 che produceva il dentifricio in polvere Ipana che usavamo noi e dove, il giorno prima, avevano sfondato le finestre di una sinagoga) ed Elizabeth (dove alla svolta del secolo si erano stabiliti i genitori immigrati di mia madre, dove, cosa più sconcertante per un bambino di nove anni, si diceva che la New Jersey Pretzel Factory di Livingston Street reclutasse sordomuti per fare il nodo alle ciambelline e dove avevano oltraggiato alcune tombe nel cimitero del tempio B’nai Jeshurun, ad appena qualche isolato dal campo da golf di Weequahic Park). Poco prima delle sei e trenta mia madre si avviò in fretta lungo la strada per andare all’assemblea straordinaria nella scuola di Chancellor Avenue. Io rimasi a casa, delegato a rispondere al telefono e ad accettare la chiamata se mio padre avesse chiamato durante il viaggio. I Cucuzza le avevano promesso di badare a me fino al suo ritorno e, anzi, lei non era ancora arrivata in fondo alle scale che Joey già le stava salendo, tre gradini alla volta, spedito dalla signora Cucuzza a tenermi compagnia mentre aspettavo - invano, risultò - la telefonata interurbana destinata a informarci che mio padre e mio fratello stavano bene e presto sarebbero arrivati a casa con Seldon. Poiché sotto la legge marziale l’esercito aveva requisito gli impianti della Bell Telephone per uso militare, i servizi interurbani ancora aperti ai civili erano intasati, ed erano passate quarantott’ore dall’ultima volta che avevamo avuto notizie di mio padre. Poiché il confine Newark-Hillside correva solo duecento metri circa a sud della nostra casa, quella sera fu possibile, anche con le finestre chiuse, trovare un certo conforto nel rumoroso zoccolio dei cavalli della polizia che andavano su e giù per la collina di Keer Avenue, appena dietro l’angolo. E quando spalancavo la finestra della mia camera e mi sporgevo nel vialetto sempre più buio per ascoltare, riuscivo a sentirli, anche se solo debolmente, allorché proseguivano fin dove Summit Avenue finiva e diventava la Liberty Avenue di Hillside. Liberty attraversava Hillside fino alla statale 22, che proseguiva verso ovest fino a Union e da là descriveva un largo
arco verso sud addentrandosi nel vasto ignoto cristiano di quelle città dai nomi autenticamente anglosassoni di Kenilworth, Middlesex e Scotch Plains. Questi non erano i sobborghi di Louisville, ma si trovavano più a ovest di dove io fossi mai stato, e anche se dovevi attraversare altre tre contee del New Jersey solo per raggiungere il confine orientale della Pennsylvania, la sera del 15 ottobre io riuscii a spaventarmi con una visione da incubo del furore antisemita dell’America che mugghiando si sarebbe scaricato verso est attraverso il condotto della 22, e dalla 22 in Liberty Avenue, e da Liberty Avenue in Summit Avenue e nel nostro vialetto e su per le scale di dietro come l’acqua di una piena, se non fosse stato per la robusta barriera offerta dai lucidi fianchi pomellati dei cavalli della polizia di Newark, la cui forza, velocità e bellezza il rabbino più illustre di Newark, dal nobile nome di Prinz, aveva fatto materializzare in fondo alla nostra via. Come c’era da aspettarsi, Joey non riusciva a sentire quasi niente di quello che succedeva fuori, e perciò si mise a correre da una camera all’altra guardando fuori dalle finestre ai due capi della casa per cercare di vedere l’anatomia di almeno uno dei cavalli - cavalli di una razza con gli arti molto più lunghi, il tronco muscoloso molto più snello, il cranio allungato e molto più elegante di quelli del rozzo cavallo da tiro dell’orfanotrofio che mi aveva dato un calcio in testa -, e anche per vedere i poliziotti in divisa, ognuno con due file di lucenti bottoni d’ottone sul doppiopetto della giubba attillata e una pistola nella fondina su un fianco. Parecchi anni prima, una domenica mattina, mio padre ci aveva portato, Sandy e me, a Weequahic Park a tirare i ferri di cavallo nel campo aperto al pubblico, e un poliziotto a cavallo si lanciò attraverso il parco all’inseguimento di qualcuno che aveva rubato la borsetta a una donna: un momento che, pur essendo a Newark, sembrava uscito dalla corte di Re Artù. Passarono dei giorni prima che l’emozione si spegnesse, e non riuscivo a smettere di sentirmi rimescolare tutto da quella prodezza. Da addestrare come poliziotti a cavallo reclutavano gli agenti più agili e atletici, e un bambino poteva rimanere ipnotizzato solo a vederne uno che mentre maestosamente e pigramente veniva giù per la strada si fermava a dare una multa per divieto di sosta e poi si chinava dalla sella per mettere il foglietto sotto il tergicristallo del veicolo, un gesto, se mai ce ne fu uno, di splendida degnazione verso l’era delle macchine. Ai famosi Four Corners della città c’erano delle postazioni di poliziotti a cavallo ciascuna delle quali era rivolta verso un differente punto cardinale, e il sabato moltissimi bambini venivano accompagnati dai genitori a vedere i cavalli in servizio e a fargli una carezza sul naso senza naso e a dargli da mangiare zollette di zucchero e a imparare che ogni poliziotto a cavallo valeva quattro uomini a piedi e, naturalmente, a fare le solite domande che si fanno ai poliziotti a cavallo, tipo «Come si chiama?» e «È un cavallo vero?» e «Di cos’è fatto lo zoccolo?» Qualche volta era possibile vedere un cavallo della polizia legato ai bordi di una movimentata via del centro, con l’aria più tranquilla del mondo sotto la gualdrappa bianca e blu con la sigla NP, un castrone alto più di un metro e ottanta e pesante dai quattro ai cinque quintali, con un lungo manganello dall’aria minacciosa allacciato al fianco e un’aria blasé che non aveva nulla da invidiare a quella del più seducente divo dello schermo,
mentre il poliziotto appena smontato se ne stava lì vicino nei calzoni blu scuro con lo sbuffo e negli stivaloni neri, con la pornografica fondina di cuoio che riproduceva perfettamente la forma dei genitali maschili, indifferente agli insulti nel pandemonio di macchine e camion e autobus strombettanti, a fare abili segnali con le braccia per sciogliere l’ingorgo del traffico. Questi erano i poliziotti che avevano un talento per ogni cosa - anche, con dolore di mio padre, per caricare una folla di scioperanti e disperdere i picchetti - e il fatto che, con la loro aria così eroica e affascinante, fossero anche così vicini contribuiva a calmarmi i nervi e a rendermi più preparato alle calamità future. Nel soggiorno Joey si tolse l’apparecchio acustico e me lo porse, me lo diede, con un gesto incomprensibile me lo cacciò sotto il naso: l’auricolare con la scatolina nera del microfono, la batteria e tutti i fili. Non capivo perché credesse che lo volevo, specie in una sera come questa, ma ecco qua l’intero marchingegno, nella coppa delle mie mani, dove, se possibile, era ancora più orribile di quando lo portava. Non capivo se si aspettava che io gli facessi delle domande sull’apparecchio o se voleva che lo ammirassi o che cercassi di smontarlo e di aggiustarlo. Saltò fuori che voleva che io me lo mettessi. - Mettilo, - mi disse con la sua voce cavernosa e strombettante. - Perché? - gridai. - Non mi andrà bene. - Non va bene a nessuno, - disse lui. - Mettilo. - Non so come, - protestai con la mia voce più forte, e allora Joey mi attaccò alla camicia la scatoletta del microfono, mi ficcò la batteria nella tasca dei calzoni e, dopo aver controllato tutti i fili, lasciò a me il compito di ficcarmi l’auricolare stampato nell’orecchio. Cosa che feci chiudendo gli occhi e fingendo che fosse una conchiglia e che fossimo giù alla spiaggia e che lui volesse farmi ascoltare il rombo dell’oceano... Ma dovetti reprimere i conati di vomito quando riuscii a metterlo a posto, ancora caldo e appiccicaticcio dall’interno del suo orecchio. - Okay, e adesso? A questo punto lui tese una mano e, come se quello che faceva scattare fosse l’interruttore della sedia elettrica e io il Nemico Pubblico Numero Uno, girò allegramente la rotella al centro della scatoletta del microfono. - Non sento niente, - gli dissi. - Aspetta. Lo alzo. - Questo aggeggio mi farà diventare sordo? - e subito mi vidi non soltanto sordo ma anche muto, e bloccato a Elizabeth per il resto dei miei giorni ad annodare ciambelline nella New Jersey Pretzel Factory. Joey rise di cuore alle mie parole, anche se non volevano essere una battuta di spirito. - Senti, - dissi, - non mi va di far questo. Non ora. Fuori stanno accadendo tante cose che non sono proprio il massimo, sai? Ma lui non ne era al corrente, di queste cose che non erano il massimo, o perché era cattolico e non aveva nulla di cui preoccuparsi o semplicemente perché era il solito incontenibile Joey.
- Sai cos’ha detto l’imbroglione che me l’ha venduto? Non era neanche un dottore, - mi disse Joey, - ma comunque mi fa la prova stronzate. Si toglie dalla tasca l’orologio e me lo avvicina all’orecchio e mi dice: «Senti il ticchettio dell’orologio, Joey?», e io un pochino lo sento, e allora lui comincia a indietreggiare e dice: «Lo senti ancora, Joey?», e io non lo sento, non sento niente, e allora lui scrive qualche numero su un pezzo di carta. Poi si toglie di tasca due monete da mezzo dollaro, ed è la stessa cosa. Me le fa tintinnare all’orecchio, le fa tintinnare e dice: «Senti tintinnare le monete, Joey?», e poi riprende ad allontanarsi, e io vedo che le fa tintinnare, ma non sento più niente. «Lo stesso», gli dico: e allora lui lo scrive. Poi guarda quello che ha scritto, lo guarda proprio bene, e toglie questa merda da un cassetto. Me la mette, tutti i pezzi, e dice a mio padre: «Il suo ragazzo sentirà l’erba crescere, ecco quant’è buono questo modello», - e con questo Joey riprese a girare la rotella finché io sentii un rumore di acqua che scorreva in una vasca: e la vasca ero io. Poi la girò energicamente: e ci fu un colpo di tuono. - Piantala! - gridai. - Basta! - ma Joey stava saltando allegramente qua e là, e allora alzai la mano e mi strappai l’auricolare dall’orecchio e per un attimo persi la tramontana pensando che, oltre al fatto che avevano arrestato il sindaco La Guardia e avevano arrestato il presidente Roosevelt e avevano arrestato anche il rabbino Bengelsdorf, il nuovo ragazzo del piano di sotto non sarebbe stato più facile da digerire di quello prima di lui, e fu allora che decisi di scappare un’altra volta. Ero ancora troppo indietro con la gente per capire che, a lungo andare, nessuno è facile da digerire, e che io stesso non ero facile da digerire. Prima non potevo soffrire Seldon del piano di sotto e ora non potevo soffrire Joey del piano di sotto, e allora decisi su due piedi di scappare lontano da tutt’e due. Sarei scappato prima che arrivasse Seldon, sarei scappato prima che arrivassero gli antisemiti, sarei scappato prima che arrivasse il corpo della signora Wishnow e si facesse un funerale al quale sarei dovuto andare. Sotto la protezione della polizia a cavallo, sarei scappato quella notte stessa da tutti coloro che m’inseguivano e da tutti coloro che mi odiavano e volevano ammazzarmi. Sarei scappato da tutto quello che avevo fatto e da tutto quello che non avevo fatto, e avrei ricominciato da capo come un ragazzo che nessuno conosceva. E compresi, tutt’a un tratto, dove dovevo scappare: a Elizabeth, alla fabbrica di ciambelline. Gli avrei detto, scrivendolo su un pezzo di carta, che ero sordomuto. Loro mi avrebbero dato un lavoro nella preparazione delle ciambelline, e io non avrei più parlato e avrei fatto finta di non sentire, e nessuno avrebbe scoperto chi ero. Joey disse: - Sai la storia del ragazzo che ha bevuto il sangue del cavallo? - Che sangue del cavallo? - Il cavallo di St Peter. Questo ragazzo, di notte, si è introdotto nella stalla, e ha bevuto il sangue del cavallo. Lo stanno cercando. - Chi lo sta cercando? - Quelli là. Nick. Quelli là. I più grandi. - Chi è Nick?
- Uno degli orfani. Ha diciotto anni. Il ragazzo che l’ha fatto è un ebreo come te. Sanno con certezza che è un ebreo, e lo troveranno. - Come mai ha bevuto il sangue del cavallo? - Gli ebrei bevono il sangue. - Tu non sai quello che dici. Io non bevo sangue. Sandy non beve sangue. I miei genitori non bevono sangue. Nessuno della gente che conosco beve sangue. - Questo ragazzo sì. - Sì? E come si chiama? - Nick non lo so ancora. Ma lo stanno cercando. Non temere, lo prenderanno. - E allora cosa faranno, Joey? Berranno il suo sangue? Gli ebrei non bevono sangue. È roba da matti dire queste cose -. Gli restituii l’apparecchio acustico pensando che ora potevo aggiungere Nick a tutte le altre cose da cui dovevo scappare - e presto Joey riprese a correre da una finestra all’altra cercando di vedere i cavalli finché, quando non poté più sopportare di essere lontano da uno spettacolo paragonabile nella sua mente al Wild West Show di Buffalo Bill che veniva in città e alzava il tendone davanti a casa nostra, improvvisamente corse fuori dalla porta e per quel giorno quella fu l’ultima volta che lo vidi. Si diceva che a Newark ci fosse un cavallo della polizia che masticava tabacco come l’agente che lo montava e che sapeva contare battendo lo zoccolo anteriore destro, e in seguito Joey sostenne di averlo visto là nel nostro isolato, un cavallo dell’ottavo distretto chiamato Ned che permetteva ai ragazzi di dondolarsi attaccati alla sua coda senza prenderli a calci con le zampe posteriori. E forse Joey aveva davvero incontrato il favoloso Ned, e forse ne era valsa la pena. Nondimeno, per avermi abbandonato quella sera, per non essere più tornato, per aver ceduto alla voglia di emozioni anziché obbedire agli ordini di sua madre, Joey fu severamente punito quando suo padre tornò a casa dal lavoro la mattina seguente, e i suoi fianchi cavallini furono crudelmente fustigati con la cinghia nera del marcatempo del guardiano notturno. Sparito Joey, chiusi a doppia mandata la porta alle sue spalle, e avrei acceso la radio per distrarmi dalle mie preoccupazioni se non avessi temuto che un altro bollettino interrompesse uno dei programmi già fissati e mi comunicasse, solo com’ero, notizie ancora più orribili di quelle che ci aveva dato nel corso della giornata. Non passò molto tempo prima che riprendessi a pensare di fuggire nella fabbrica di ciambelline. Ricordavo l’articolo sulla fabbrica che era apparso sul «Sunday Cali» circa un anno prima e che io avevo ritagliato e portato a scuola per un tema che dovevo fare su un’industria del New Jersey. Nell’articolo si citava il proprietario, un certo signor Kuenze, e si diceva che aveva sfatato l’idea, prevalente - a quanto pare - in tutto il mondo, che occorressero anni per insegnare a qualcuno a fare le ciambelline. «Glielo posso insegnare dall’oggi al domani, - diceva, - se sono capaci d’imparare.» Gran parte dell’articolo riguardava una polemica sulla necessità del sale sulla ciambellina. Il signor Kuenze sosteneva che il sale all’esterno non era necessario e che lui ce lo metteva solo «per accontentare i commercianti.» L’importante, diceva, era mettere il sale nell’impasto, cosa che faceva soltanto lui, fra tutti i fabbricanti di ciambelline dello stato.
L’articolo diceva che il signor Kuenze aveva cento dipendenti, tra i quali parecchi sordomuti, ma anche «ragazzi e ragazze che lavorano dopo la scuola.» Sapevo quale autobus passava vicino alla fabbrica di ciambelline: era lo stesso che Earl e io avevamo preso il pomeriggio in cui avevamo seguito fino a casa il cristiano nel quale appena in tempo Earl aveva riconosciuto un finocchio. Avrei dovuto sperare che il finocchio non si trovasse sullo stesso autobus: se per caso c’era, sarei sceso e avrei preso il successivo. Quello che avrei dovuto avere era un biglietto, un biglietto questa volta non di suor Mary Catherine ma di un sordomuto. «Caro Signor Kuenze, ho letto un articolo su di lei sul "Sunday Call". Voglio imparare a fare le ciambelline. Sono certo di poter imparare dall’oggi al domani. Sono sordomuto. Sono orfano. Può darmi un lavoro?» E lo firmai «Seldon Wishnow.» Per quanti sforzi facessi, non riuscii a pensare a un altro nome. Avevo bisogno di un biglietto, e avevo bisogno di vestiti. Dovevo dare al signor Kuenze l’impressione di un ragazzo di cui fidarsi, e non potevo presentarmi senza vestiti. E questa volta avevo bisogno di un piano, di quello che mio padre chiamava «un piano a lungo termine.» Mi venne subito in mente; il mio piano a lungo termine sarebbe stato questo: risparmiare abbastanza soldi, di quelli che guadagnavo nella fabbrica di ciambelline, per comprare un biglietto ferroviario di sola andata per Omaha, nel Nebraska, dove padre Flanagan dirigeva la Città dei Ragazzi. Sapevo della Città dei Ragazzi e di padre Flanagan – come ogni ragazzo d’America - dal film con Spencer Tracy, il quale aveva vinto un Academy Award per la parte del celebre prete e poi aveva regalato l’Oscar alla vera Città dei Ragazzi. Avevo cinque anni quando lo vidi al Roosevelt con Sandy un sabato pomeriggio. Padre Flanagan prendeva i ragazzi dalla strada, alcuni già ladruncoli e teppistelli, e li portava nella sua fattoria, dov’erano nutriti e rivestiti e dove ricevevano un’istruzione e giocavano a baseball e cantavano in coro e imparavano a diventare bravi cittadini. Padre Flanagan era il padre di tutti loro, indipendentemente dalla razza o dalla religione. Quasi tutti i ragazzi erano cattolici, qualcuno era protestante, ma nella fattoria vivevano anche alcuni ragazzi ebrei bisognosi: questo lo sapevo dai miei genitori che, come migliaia di altre famiglie americane che avevano visto il film e pianto, versavano ecumenicamente un contributo annuo alla Città dei Ragazzi. Non che io mi sarei identificato come ebreo, una volta giunto a Omaha. Avrei detto - parlando ad alta voce, finalmente - che non sapevo cos’ero né chi. Che ero niente e nessuno: solo un ragazzo e nient’altro, e non certo la persona responsabile della morte della signora Wishnow o di aver reso orfano suo figlio. Che i miei d’ora innanzi allevassero suo figlio come se fosse il loro. Poteva avere il mio letto. Poteva avere mio fratello. Poteva avere il mio futuro. Io avrei passato la vita con padre Flanagan nel Nebraska, che era ancora più lontano da Newark del Kentucky. A un tratto pensai a un altro nome e riscrissi il biglietto firmandolo «Philip Flanagan.» Poi mi alzai per andare in cantina a prendere la valigia di cartone in cui avevo nascosto la roba rubata a Seldon prima di scappare via la prima volta. Questa volta avrei messo nella valigia la mia roba e in tasca avrei portato il moschetto di
peltro in miniatura comprato a Mount Vernon e usato per aprire le buste della società filatelica quando avevo ancora una bella collezione di francobolli e ricevevo posta. La baionetta misurava appena due centimetri di lunghezza, ma andando via di casa per sempre avrei avuto bisogno di qualcosa per difendermi, e un tagliacarte era tutto ciò che avevo. Qualche minuto dopo, scendendo le scale con una lampadina tascabile, riuscii a trarre la forza per impedire alle gambe di piegarsi dalla riflessione che questa era l’ultima occasione che avrei avuto di scendere in quella cantina e affrontare il torcitoio o i gatti randagi o le chiaviche o i morti. O quel muro umido e imbrattato dalla parte della strada contro il quale una volta il monco Alvin aveva schizzato il suo dolore. Non faceva ancora abbastanza freddo per cominciare a bruciare carbone, e quando, ai piedi della scala della cantina, puntai la lampadina sulle carcasse cinerine delle caldaie spente, esse mi parvero molto simili a quelle cripte fastose dove, per tutto quello che ci guadagnano, si sotterrano i ricchi e i potenti. Rimasi là sperando che lo spettro del padre di Seldon fosse andato nel Kentucky (forse invisibile nel baule della macchina di mio padre) a prendere la moglie morta, ma sapendo benissimo che non era così, che il suo dovere di spettro era di stare lì con me: che il suo cuore spettrale ribolliva di maledizioni, e che erano tutte per me. -. Non volevo che se ne andassero, - mormorai. - E stato un errore. Il vero responsabile non sono io. Non volevo che il bersaglio fosse Seldon. Ero pronto, naturalmente, al silenzio che inevitabilmente circondava le mie imploranti profferte agli spietati defunti, e invece per tutta risposta sentii pronunciare il mio nome... È da una donna! Da dietro le caldaie, una donna gemeva il mio nome! Morta solo da poche ore e già tornata per cominciare a ossessionarmi per il resto dei miei giorni! - Io so la verità, - disse, e là, uscendo come una sacerdotessa oracolare dal tempio del nostro ripostiglio, c’era mia zia. - Mi danno la caccia, Philip, - disse la zia Evelyn. - Io so la verità, e loro mi vogliono ammazzare! Poiché doveva usare il gabinetto e mangiare qualcosa - e poiché io non sapevo che altro avrei potuto fare se non dare a mia zia tutto ciò di cui aveva bisogno -, non ebbi altra scelta che riportarla di sopra con me. Tagliai una fetta di pane dalla mezza pagnotta avanzata dalla cena, la imburrai, le riempii un bicchiere di latte e, dopo che lei andò in bagno - e io tirai le tendine della cucina in modo che dall’altra parte della strada nessuno potesse guardare all’interno -, la zia Evelyn venne in cucina e divorò febbrilmente ogni cosa. Aveva la giacca e la borsetta sulle ginocchia, e il cappello sempre in testa, e io speravo che appena avesse avuto abbastanza da mangiare si alzasse e tornasse a casa, così sarei potuto andare giù a prendere la valigia, riempirla e scappare via prima che mia madre rientrasse dall’assemblea. Invece, dopo mangiato cominciò a balbettare, ripetendo diverse volte che sapeva la verità e che per questo volevano ammazzarla. Avevano mandato la polizia a cavallo, mi disse, a cercare dove si nascondeva.
Nel silenzio che seguì quella strabiliante confessione - a cui in quelle circostanze, quando all’improvviso non c’erano più avvenimenti prevedibili, ero abbastanza piccolo per arrivare quasi a credere - seguimmo il percepibile progresso di un cavallo che risaliva scalpitando l’isolato verso Chancellor Avenue. - Sanno che sono qui, disse lei. - No, zia Evelyn, - ma già mentre le pronunciavo, queste parole non ebbero alcuna presa su di me. - Nemmeno io sapevo che eri qui. - Allora perché sei venuto a cercarmi? - Non sono venuto a cercarti. Cercavo un’altra cosa. La polizia è in giro, - le dissi, sicuro che stavo mentendo deliberatamente anche se parlavo più sinceramente che potevo, - la polizia è in giro a causa dell’antisemitismo. Pattugliano le strade per proteggerci. Lei mi guardò col sorriso riservato agli ingenui. – Raccontamene un’altra, Philip. Ora, nulla di ciò che sapevo coincideva con quello che ognuno di noi stava dicendo. L’ombra della sua follia era strisciata sopra di me senza che io capissi, ancora, che mentre si nascondeva nella nostra cantina - o forse prima, quando aveva visto l’Fbi portare via il rabbino ammanettato - la zia Evelyn era davvero uscita di senno. A meno che, naturalmente, non avesse già cominciato a scivolare irreparabilmente nella follia la sera in cui aveva ballato con Von Ribbentrop alla Casa Bianca. Questa doveva essere la teoria di mio padre: che molto tempo prima dell’arresto del rabbino, quando Bengelsdorf stupiva tutta la Newark ebraica con l’indecenza dell’altissimo posto che aveva finito per occupare nella stima del presidente, lei si era abbandonata alla stessa credulità che aveva trasformato l’intero paese in un manicomio: l’adorazione di Lindbergh e della sua visione del mondo. - Vuoi sdraiarti? - chiesi, temendo che dicesse di sì. - Hai bisogno di riposare? Vuoi che chiami il dottore? Qui lei mi prese la mano con tanta forza che le sue unghie mi morsero la carne. Carissimo Philip, io so tutto. - Sai cos’è successo al presidente Lindbergh? È questo che vuoi dire? - Dov’è tua madre? - A scuola. A un’assemblea. - Mi porterai da mangiare e da bere, caro ragazzo. - Davvero? Certo. Dove? - In cantina. Non posso bere l’acqua della vasca. Qualcuno mi troverà. - Non è necessario, - dissi io, pensando subito alla nonna di Joey e all’infuocato vento di follia che spirava da lei. - Porterò tutto io -. Ma dopo averle promesso questo, non potevo più scappare. - Hai per caso una mela? - chiese la zia Evelyn. Aprii il frigorifero. - No, niente mele. Le abbiamo finite. Mia madre non ha potuto fare la spesa. Ma c’è una pera, zia Evelyn. La vuoi? - Sì. E un altro pezzo di pane. Taglia un’altra fetta di pane. La sua voce continuava a cambiare. Adesso, dal suo tono, era come se non stessimo facendo altro che prepararci a un picnic, arrangiandoci con quello che
avevamo per andare a Weequahic Park a mangiare sotto un albero davanti al lago, e comportandoci come se gli avvenimenti del giorno fossero altrettanto trascurabili quanto lo erano, probabilmente, per tutti gli altri americani: una piccola seccatura per i cristiani, se di seccatura si poteva parlare. Dato che in America c’erano più di trenta milioni di famiglie cristiane e solo un milione di famiglie ebraiche, perché, davvero, avrebbero dovuto preoccuparsi? Tagliai un’altra fetta dalla pagnotta perché se la portasse in cantina e sopra vi spalmai uno strato più grosso di burro. Se più tardi qualcuno mi avesse chiesto del pane che mancava, avrei detto che l’aveva mangiato Joey, il pane e la pera, prima di correre via a vedere i cavalli. Quando tornò a casa e seppe che mio padre non aveva telefonato, mia madre non riuscì a nascondere le proprie reazioni. Guardò, sconsolata, l’orologio a muro della cucina, forse ricordando com’era una volta la vita a quest’ora: l’ora di andare a letto, quando bastava che i bambini si lavassero la faccia e si spazzolassero i denti perché la giornata piena di adempibili doveri si concludesse con soddisfazione di tutti. Quest’ora erano le nove: o così ci aveva fatto credere quella vivida apparenza, immutabile e affatto convincente, che si era rivelata una finzione. E il tran-tran giornaliero della scuola: anche questa era una finzione, un astuto inganno perpetrato per addolcirci con aspettative razionali e favorire assurdi sentimenti di fiducia? - Perché oggi niente scuola? - chiesi quando lei mi disse che l’indomani avremmo avuto un giorno di vacanza. - Perché - rispose mia madre, ricorrendo all’incolore formulazione suggerita ai genitori dal desiderio di essere sinceri senza spaventare troppo i figli - la situazione si è ulteriormente deteriorata. Quale situazione? - chiesi. - La nostra situazione. - Perché? Cos’è successo, ora? - Non è successo niente. Ma è meglio che voi bambini domani stiate a casa. Dov’è Joey? Dov’è il tuo amico? – Ha mangiato un po’ di pane. Ha preso la pera ed è uscito. Ha preso la pera dal frigo ed è corso fuori. È andato a vedere i cavalli. - E sei sicuro che non ha telefonato nessuno? - chiese lei, troppo esausta per arrabbiarsi con Joey per averla tradita in un momento come questo. - Voglio sapere perché non c’è scuola, mamma. - Devi proprio saperlo stasera? - Sì. Perché non posso andare a scuola? - Be’... Perché potrebbe esserci una guerra col Canada. - Col Canada? Quando? - Nessuno lo sa. Ma è meglio se state tutti a casa finché non avremo visto cosa succede. - Ma perché facciamo la guerra al Canada? - Ti prego, Philip, per stasera ne ho abbastanza. Ti ho detto tutto quello che so. Hai insistito e te l’ho detto. Adesso non ci resta che aspettare. Aspettare e vedere, come tutti gli altri -. E poi, come se l’ignorare dov’erano mio padre e mio fratello non avesse dato sfogo alle sue peggiori fantasie - che dovevano essere queste: che anche noi due, adesso, come i Wishnow, eravamo solo una vedova e suo figlio -, disse (cercando caparbiamente di seguire il protocollo delle vecchie ore nove): - Voglio che ti lavi e vai a letto. A letto: come se il letto, come luogo di calore e di conforto, piuttosto che come incubatrice di paure, esistesse ancora.
La guerra col Canada per me era un enigma, ma molto meno oscuro di quello rappresentato dalla zia Evelyn: cosa avrebbe usato, se fosse dovuta andare al gabinetto durante la notte? Da quel che riuscivo a capire, finalmente gli Stati Uniti stavano entrando nella guerra mondiale, non dalla parte dell’Inghilterra e del Commonwealth britannico, che tutti si aspettavano che avremmo sostenuto sotto la presidenza di FDR, ma dalla parte di Hitler e dei suoi alleati, l’Italia e il Giappone. Inoltre, due giorni interi erano passati dall’ultima volta che avevamo avuto notizie di mio padre e di Sandy, e per quello che ne sapevamo potevano benissimo essere stati uccisi orribilmente come la madre di Seldon nei disordini antisemiti; il giorno dopo, per di più, non c’era scuola, il che mi faceva pensare che forse la scuola non ci sarebbe più stata, se il presidente Wheeler ora doveva infliggerci le leggi che, come sapevamo, erano state imposte dai nazisti ai bambini ebrei della Germania. Una catastrofe politica di proporzioni inimmaginabili stava trasformando una società libera in uno stato di polizia, ma un bambino è un bambino, e tutto ciò che riuscivo a pensare nel mio letto era che, quando fosse venuto il momento di andare di corpo, la zia Evelyn avrebbe dovuto farla sul pavimento del nostro ripostiglio. Questo era l’evento incontrollabile che gravava su di me al posto di tutto il resto, che torreggiava su di me come l’incarnazione di tutto il resto e che cancellava tutto il resto. Il pericolo più trascurabile di tutti, e arrivò ad assumere un’importanza così grande che verso mezzanotte andai in bagno in punta di piedi e in fondo all’ultimo scaffale dell’armadio degli asciugamani trovai la padella che avevamo comprato per Alvin da usare in caso di emergenza quando era appena tornato dal Canada. Ero già sull’uscio di dietro e stavo per portare la padella alla zia Evelyn quando mia madre si parò davanti a me in camicia da notte, sbigottita dal ritratto che le offrivo, di un bambino così scosso che stava uscendo di senno. Qualche minuto dopo la zia Evelyn, accompagnata da mia madre, veniva su per le scale ed entrava nel nostro appartamento. Non c’è bisogno di descrivere il trambusto che questo provocò in casa Cucuzza, o l’antagonistica reazione alla paurosa figura di mia zia dell’altra paurosa figura che era la nonna di Joey: tutti sanno che ogni tragedia ha un lato farsesco. Mi mandarono a dormire nel letto dei miei genitori, e mia madre e la zia Evelyn si impossessarono della mia stanza, dove il grosso compito successivo di mia madre fu quello di impedire a sua sorella di alzarsi dal letto di Sandy e andare furtivamente in cucina ad accendere il gas per ammazzarci tutti. Quel viaggio andata e ritorno di millecinquecento miglia fu la grande avventura nella vita di Sandy. Fu qualcosa di più fatale per mio padre. La sua Guadalcanal, immagino, la sua battaglia delle Ardenne. A quarantun anni era troppo vecchio per essere richiamato allorché, quel dicembre, con la politica di Lindbergh screditata e Wheeler caduto in disgrazia e Roosevelt tornato alla Casa Bianca, l’America finalmente entrò in guerra contro le potenze dell’Asse, perciò questo fu il momento in cui andò più vicino alla paura, alla fatica e ai disagi del soldato al fronte. Con il suo collare d’acciaio e due costole rotte e una ferita suturata sulla faccia, e mostrando una bocca piena di denti rotti – e con la pistola di riserva del signor Cucuzza nel cassetto del cruscotto per difendersi dalla gente che aveva già
ucciso 122 ebrei proprio in quelle regioni del paese verso le quali la macchina era diretta - percorse le settecentocinquanta miglia fino al Kentucky fermandosi solo per fare benzina e andare al gabinetto. E dopo aver dormito per cinque ore e mangiato qualcosa dai Mawhinney, girò la macchina e iniziò il viaggio di ritorno, anche se, ora, con una dolorosa infezione che gli pungeva il viso lungo la sutura e con Seldon, nauseato e febbricitante sul sedile posteriore, Seldon che aveva allucinazioni su sua madre e quasi ricorreva alla magia per cercare in tutti i modi di farla tornare indietro. Il viaggio di andata era durato poco più di ventiquattr’ore, ma quello di ritorno durò tre volte tanto a causa delle molte volte che dovettero fermarsi per consentire a Seldon di vomitare sul ciglio della strada o di tirarsi giù i calzoni e accovacciarsi in un fosso, e anche perché, in un raggio di venti miglia intorno a Charleston, nel West Virginia (dove girarono in tondo, avendo perso irrimediabilmente la bussola, invece di proseguire verso nordest e il Maryland), la macchina si guastò in sei diverse occasioni in poco meno di una giornata: una volta tra i binari, le linee elettriche e i grandi nastri trasportatori di Alloy, un paese di duecento abitanti dove enormi mucchi di minerale ferroso e silice circondavano gli stabilimenti della Electro-Metallurgical Company; una volta nel paese vicino di Boomer, dove le fiamme delle cokerie erano così alte che mio padre, ritto dopo il tramonto in mezzo alla strada buia, poteva leggere (o leggere male) la carta; una volta a Belle, un altro di quei piccoli e infernali villaggi industriali dove i fumi della fabbrica di ammoniaca della DuPont gli fecero quasi venire un accidente quando scesero dalla macchina per alzare il cofano e cercare di capire cos’aveva; ancora a South Charleston, la città che a Seldon parve «un mostro» per via del vapore e del fumo che inghirlandava gli scali ferroviari e i magazzini e i lunghi tetti scuri delle fabbriche annerite dalla fuliggine; e due volte proprio alla periferia di Charleston, la capitale dello stato. Là, verso mezzanotte, mio padre per chiamare un carro attrezzi dovette attraversare a piedi una massicciata ferroviaria e poi scendere da una collina di rottami fino a un ponte che scavalcava un fiume pieno di chiatte cariche di carbone e di draghe e di rimorchiatori per andare a cercare sulla riva una bettola con un telefono a pagamento, lasciando nel frattempo i due ragazzi soli in macchina sull’altra sponda davanti a uno stabilimento che era uno sterminato guazzabuglio di tettoie e baracche, gabbiotti di lamiera e carrelli da carbone, gru e argani e torri d’acciaio, forni elettrici e fucine ruggenti, tozzi serbatoi e alte reti metalliche: uno stabilimento che era, a credere all’insegna grande come un tabellone pubblicitario, «Il Produttore Più Grande del Mondo di Asce, Accette e Falci.» Quella fabbrica traboccante di lame affilate diede il colpo finale a quel poco che restava dell’equilibrio mentale di Seldon: verso l’alba cominciò a strillare che stava per essere scotennato dagli indiani. E stranamente era su una buona pista: si poteva fare un’analogia, anche senza essere in delirio, con i coloni bianchi che per primi senza essere invitati si erano riversati attraverso la barriera appalachiana nei terreni di caccia preferiti dalle tribù delaware e algonchine, solo che invece di bianchi estranei dall’aria forestiera che affrontavano gli abitanti del posto con la loro rapacità, questi
erano ebrei estranei dall’aria forestiera che provocavano con la loro semplice presenza. Questa volta, però, quelli che difendevano con la violenza le loro terre dall’usurpazione e il loro modo di vivere dalla distruzione non erano gli indiani guidati dal grande Tecumseh, ma retti cristiani d’America sguinzagliati dal presidente ad interim degli Stati Uniti. Era già il 15 ottobre: lo stesso giovedì in cui il sindaco La Guardia fu arrestato a New York, in cui la First Lady venne chiusa al Walter Reed, in cui FDR fu «fermato» insieme agli «ebrei rooseveltiani» accusati di aver architettato il rapimento di Lindbergh pére, in cui il rabbino Bengelsdorf fu arrestato a Washington e la zia Evelyn andò in pezzi nella nostra cantina. Lo stesso giorno mio padre e Sandy stavano battendo le montagne del West Virginia in cerca dell’unico medico autorizzato della contea (di contro al barbiere autorizzato, che aveva già offerto i suoi servigi), perché somministrasse a Seldon un calmante. L’uomo che trovarono lungo una stradina in terra battuta aveva più di settant’anni e puzzava di whiskey, ed era un arzillo, gentile, buon vecchio dottore che dirigeva una clinica di campagna installata in una casetta di legno dove i pazienti che facevano la coda sulla veranda aspettando il loro turno erano, come Sandy poi me li descrisse, la banda di bianchi più straccioni che avesse mai visto. Il medico ritenne che il delirio di Seldon fosse causato principalmente dalla disidratazione e gli ordinò di passare un’ora bevendo un mestolo dopo l’altro dell’acqua del pozzo vicino al letto del torrente dietro casa. Pulì anche dal pus la ferita infetta sul viso di mio padre per impedire l’avvelenamento del sangue, che a quei tempi, tempi in cui gli antibiotici erano stati appena scoperti e non erano alla portata di tutti, probabilmente si sarebbe diffuso nell’organismo e lo avrebbe ucciso prima che arrivasse a casa. Nel ricucire la ferita il vecchietto mostrò meno talento di quanto «ne aveva mostrato diagnosticando l’incipiente setticemia, col risultato che per il resto dei suoi giorni mio padre ebbe l’aria di aver ricevuto una ferita da duello mentre studiava a Heidelberg. Dopodiché la cicatrice non sembrò semplicemente un segno degli imprevisti di quel viaggio bensì, a me, l’impronta del suo insano stoicismo. Quando finalmente arrivò a Newark era così indebolito dalla febbre e dalle infreddature - e da una tremenda tosse non meno allarmante di quella del signor Wishnow - che il signor Cucuzza lo portò dritto dritto dalla nostra cucina, dov’era svenuto sul tavolo, ancora una volta al Beth Israel Hospital, dove per poco non morì di polmonite. Ma non ci fu modo di fermarlo finché Seldon non venne salvato. Mio padre era un salvatore, e gli orfani erano la sua specialità. Perdere i genitori e restare orfani era uno sbalestramento ancora più grande che dover andare a Union o partire per il Kentucky. Guarda, ti avrebbe detto, cos’era successo ad Alvin. Guarda cos’era successo a sua cognata dopo la morte della nonna. Nessuno dovrebbe restare senza madre e senza padre. Senza madre e senza padre sei vulnerabile alla manipolazione, alle influenze: sei sradicato e vulnerabile a tutto. Sandy intanto, appollaiato sulla balaustra della veranda della clinica, disegnava i pazienti, tra i quali una ragazzina tredicenne di nome Cecile. Erano gli anni in cui il mio precoce fratello cambiò pelle tre volte in ventiquattro mesi, diventando tre
ragazzi diversi, gli anni in cui, con tutta la sua imperturbabilità, sembrava non riuscire a fare nulla di soddisfacente anche primeggiando: i miei genitori non furono contenti quando andò a lavorare per Lindbergh e diventò il piccolo oratore prodigio della zia Evelyn e la massima autorità del New Jersey sulla coltivazione del tabacco, non furono contenti quando lasciò Lindbergh per le ragazze e dall’oggi al domani diventò il più giovane dongiovanni del quartiere, e ora, essendosi offerto di guidare mio padre per un quarto della strada attraverso il continente fino alla fattoria dei Mawhinney - e sperando, con un’esibizione di autentico coraggio, di ritrovare il proprio prestigio di figlio maggiore e di rientrare nella famiglia alla quale era stato strappato -, compromise praticamente la sua causa con un diversivo che doveva essergli apparso assolutamente innocuo per il semplice fatto che era «artistico»: disegnare la nubile Cecile. Quando mio padre - con una benda nuova che gli copriva la guancia - uscì dall’ambulatorio del dottore e vide cosa stava facendo, lo prese per la cintura dei calzoni e lo trascinò, album e tutto, giù dalla veranda e in strada e in macchina. - Sei matto? - sussurrò mio padre, furioso, allungando il collo sopra il collare per voltarsi indietro, - sei matto, a disegnarla? - E solo il viso, - Sandy cercò di spiegare, stringendosi al petto l’album per gli schizzi... E dicendo una bugia. - Non importa! Hai mai sentito parlare di Leo Frank? Hai mai sentito parlare dell’ebreo che hanno linciato in Georgia a causa di quella ragazzetta della fabbrica? Smetti di disegnarla, maledizione! Smetti di disegnare ognuno di loro! Queste persone non amano essere disegnate: non lo vedi? Siamo venuti nel Kentucky a prendere questo ragazzo perché hanno bruciato sua madre con la macchina! Per carità, metti via quella roba e non disegnare altre ragazze! Rimessisi finalmente in strada, non avevano idea che Philadelphia (dove mio padre sperava di arrivare prima dell’alba del diciassette) era stata occupata dai carri armati e dalle truppe dell’esercito degli Stati Uniti, né mio padre sapeva che lo zio Monty, indifferente alle implorazioni di mia madre e sordo a qualunque problema non lo riguardasse, lo aveva licenziato per non essersi presentato al lavoro per la seconda settimana di seguito. Mio padre sceglie la resistenza, il rabbino Bengelsdorf sceglie la collaborazione e lo zio Monty sceglie se stesso. Per raggiungere la Boyle County e la casa dei Mawhinney avevano viaggiato in diagonale verso sud attraverso il New Jersey fino a Camden, attraverso il Delaware fino a Philadelphia, da là verso sud fino a Baltimora, a sudovest attraverso tutto il West Virginia e poi nel Kentucky fino a Lexington, per altre cento miglia o giù di lì, e vicino a un posto chiamato Versailles avevano deviato di nuovo verso sud fino alle colline ondulate della Boyle County. Mia madre ricostruì il loro viaggio sulla carta pieghevole dei quarantotto stati e delle dieci province canadesi della mia enciclopedia, che spiegava sul tavolo della sala da pranzo ogni volta che era presa dall’ansia, mentre sulla strada Sandy, armato di una lampadina tascabile per le ore notturne, tracciava la rotta su una carta stradale della Esso e teneva gli occhi aperti per individuare figure dall’aria sospetta, specie quando attraversavano qualche lugubre paesello con una strada sola di cui non riusciva nemmeno a trovare il nome
sulla carta. Escludendo le sei volte in cui la macchina si era guastata durante il viaggio di ritorno, Sandy ne contò almeno altre sei nel West Virginia in cui mio padre - al quale non piaceva l’aspetto di un camion sconquassato che li seguiva o dei pickup parcheggiati alla carlona davanti a qualche saloon lungo la strada o del ragazzo in tuta della stazione di servizio che aveva fatto il pieno e pulito il parabrezza e sputato per terra quando aveva preso i loro soldi - aveva chiesto a Sandy di aprire il cassetto del cruscotto e di passargli la pistola di riserva del signor Cucuzza da tenere sulle ginocchia mentre guidava, ogni volta con l’aria, lui che non aveva mai sparato un colpo in vita sua, di quello che non avrebbe esitato, se costretto, a «tira’ il grilletto.» Sandy, che una volta a casa disegnò a memoria il capolavoro della sua adolescenza - la storia illustrata della loro grande calata nel duro mondo americano -, ammise di avere quasi sempre avuto paura: paura quando attraversavano città dove gli uomini del Ku-Klux-Klan dovevano essere in attesa di ogni ebreo tanto incosciente da passare in automobile, ma una paura non meno grande quando si erano lasciati alle spalle le città più pericolose, i tabelloni sbiaditi e le piccole stazioni di servizio e le ultime baracche dove viveva la gente più sbrindellata e povera - sgangherate baracche di legno meticolosamente disegnate da Sandy, sorrette ai quattro angoli da mucchi di pietre traballanti, con feritoie al posto delle finestre e un rozzo camino sgretolato a un’estremità, e sul tetto macchiato dall’umidità qualche sasso sparso per tenere ferme le scandole - ed erano entrati in quelle che mio padre chiamava «le regioni selvagge.» Paura, disse Sandy, quando sfrecciavano davanti alle vacche e ai cavalli e alle stalle e ai granai senza che si vedesse un altro veicolo, paura quando in montagna affrontavano i tornanti senza muriccioli e senza parapetti, e paura quando l’asfalto cedeva il passo alla ghiaia e la foresta si chiudeva su di loro come se fossero Lewis e Clark. E paura soprattutto perché la nostra macchina non aveva la radio, e mio padre e mio fratello non sapevano se erano cessate le uccisioni degli ebrei o se avrebbero potuto finire casualmente proprio in mezzo alla rabbia assassina del paese contro la gente come noi. Apparentemente, l’unico interludio che non aveva spaventato mio fratello era quello che aveva tanto spaventato mio padre davanti alla casa del dottore: quando si era messo a fare il ritratto della piccola montanara del West Virginia il cui aspetto lo aveva chiaramente riscaldato. Saltò fuori che aveva proprio la stessa età della «piccola operaia» (come tutto il paese arrivò a conoscerla) uccisa ad Atlanta una trentina di anni prima dal suo supervisore ebreo, un uomo d’affari coniugato ventinovenne di nome Leo Frank. Il celebre caso del 1913 della povera Mary Phagan - trovata morta con un cappio intorno al collo sul pavimento del seminterrato della fabbrica di matite dopo essere andata il giorno del delitto nell’ufficio di Frank a ritirare la busta paga - era finito sulle prime pagine di tutti i giornali, del Nord e del Sud, pressappoco al tempo in cui mio padre, impressionabile ragazzo dodicenne che aveva appena lasciato la scuola per contribuire a mantenere la famiglia, lavorava in un cappellificio di East Orange, dove si era fatto un’istruzione di prim’ordine sulle solite calunnie che lo ricollegavano inestricabilmente ai carnefici di Cristo. Dopo la
condanna di Frank (basata su prove indiziarie non completamente attendibili che oggi sono state quasi screditate), uno dei suoi compagni di prigione diventò un eroe nazionale tagliandogli la gola e riuscendo quasi a ucciderlo. Un mese dopo, una squadra di rispettabili cittadini finì l’opera prelevando Frank dalla sua cella e - con grande soddisfazione dei colleghi di mio padre nel cappellificio - impiccando «il sodomita» a un albero di Manetta, in Georgia (la città natale di Mary Phagan), come pubblico avvertimento agli altri «libertini ebrei» di stare lontano dal Sud e dalle loro donne. Certo, il caso Frank era solo una parte della storia che alimentò il senso di pericolo di mio padre nel West Virginia rurale il pomeriggio del 15 ottobre 1942. Tutto risale a molto più indietro. Fu così che Seldon venne a vivere con noi. Dopo che furono tornati sani e salvi dal Kentucky, Sandy si trasferì nella veranda e Seldon prese il posto lasciato libero da Alvin e dalla zia Evelyn: come la persona nel letto gemello di fianco al mio distrutta dalle malevole umiliazioni dell’America di Lindbergh. Questa volta non c’erano moncherini da curare. Il ragazzo stesso era il moncherino, e finché dieci mesi dopo non lo portarono a vivere a Brooklyn con la sorella sposata di sua madre, io fui la protesi.
POSCRITTO: NOTA PER IL LETTORE Una vera cronologia dei personaggi principali Altri personaggi storici nel libro Un po’ di documentazione Nota per il lettore Il complotto contro l’America è un’opera di fantasia. Questo poscritto è destinato ai lettori ai quali interessa scoprire dove finisce il fatto storico e comincia l’invenzione. I fatti presentati sono stati tratti dalle seguenti fonti: John Thomas Anderson, Senator Burton K. Wheeler and United States Foreign Relations (dissertazione di dottorato presentata all’Università della Virginia), 1982; Neil Baldwin, Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate, 2001; A. Scott Berg, Lindbergh, 1998; Biography Resource Center, «Newark Evening News» e «Newark Star-Ledger»; Allen Bodner, When BoxingWas ajewish Sport, 1997; William Bridgwater e Seymour Kurtz (a cura di), The Columbia Encyclopedia, 1963; James MacGregor Burns, Roosevelt: The Soldier of Freedom, 1970, e Roosevelt: The Lion and the Fox, 1984; Wayne S. Cole, America First: The Battle Against Intervention, 1940-41, 1953; Sander A. Diamond, The Nazi Movement in the United States, 1924-1941, 1974; John Drexel (a cura di), The Facts on File Encyclopedia of the Twentieth Century, 1991; Henry Ford, The International Jew: The World’s Foremost Problem, vol. III, Jewish ìnfluences in American Life, 1920-22; Neal Gabler, Winchell: Gossip, Power, and the Culture of Celebrity, 1994; Gale Group Publishing, Contemporary Authors, voL. CLXXXII, 2000; John A. Garraty e Mark C. Carnes (a cura di), American National Biography, 1999; Susan Hertog, Anne Morrow Lindbergh: Her Life, 1999; Richard Hofstadter e Beatrice K. Hofstadter (a cura di), Great Issues in American History: From Reconstruction to the Present Day, 1864-1981, vol. III, 1982; Joseph G. E. Hopkins (a cura di), Dictionary of American Biography, supplementi 3-9, 1974-94; Joseph K. Howard, The Decline and Fall ofBurton K. Wheeler, in «Harper’s Magazine», marzo 1947; Harold L. Ickes, The Secret Diary of Harold L. Ickes, 1939-1941, 1974; Thomas Kessner, Fiorello H. La Guardia and theMaking of Modern New York, 1989; Herman Klurfeld, Winchell:His Life and Times, 1976; Anne Morrow Lindbergh, The Wave of the Future: A Confession of Faith, 1940; Albert . Lindemann, The Jew Accused: Three AntiSemitic Affairs (Dreyfus, Beilis, Frank), 1894-1915, 1991; Arthur Marni, La Guardia: A Fighter Against His Times, 1882-1933, 1959; Samuel Eliot Morison e Henry Steele Commager, The Growth of the American Republic, vol. II, 1962; Charles Moritz (a cura di), Current Biography Yearbook, 1988, 1988; John Morrison e Catherine Wright Morrison, Mavericks: The Lives and Battles of Montana’s Political Legends, 1997; Random House Dictionary of the English Language, 1983; Arthur M. Schlesinger Jr, The Coming of the New Deal, 1933-1935, 1958, e The Politics of Upheaval, 19351936, i960 (voli. II e III di The Age of Roosevelt); Peter Teed, A Dictionary of Twentieth-Century History, 1914-1990, 1992; Walter Yust (a
cura di), Britannica Book of the Year Omnibus, 1937-1942, e Britannica Book of the Year, 1943; Ben D. Zevin (a cura di), Nothing to Fear: The Selected Addresses of Franklin D. Roosevelt, 1932-1945, 1961.
Una vera cronologia dei personaggi principali FRANKLIN DELANO ROOSEVELT, 1882-1945 novembre 1920 Dopo essere stato sottosegretario alla marina col presidente Wilson, Roosevelt si candida alla vicepresidenza per il ticket democratico col governatore James M. Cox dell’Ohio; sconfitta democratica e vittoria schiacciante di Harding. agosto 1921 Colpito dalla poliomielite, che gli procura una grave invalidità permanente. novembre 1928 Eletto al primo di due mandati biennali come governatore democratico di New York, mentre il ticket nazionale, capeggiato dall’ex governatore Alfred E. Smith, è battuto da Herbert Hoover. Come governatore, Roosevelt si afferma con forza come un liberale progressista, come un sostenitore dell’aiuto del governo alle vittime della Depressione, compresa l’indennità di disoccupazione, e come un nemico del proibizionismo. Dopo la vittoria schiacciante alle governative del 1930, diventa il papabile candidato democratico presidenziale. luglio-novembre 1932 Scelto dai democratici come candidato presidenziale alla convention di luglio; in novembre batte il presidente Hoover col 57,4 per cento dei voti, e i democratici ottengono la maggioranza nelle due ali del Congresso. marzo 1933 Insediato come presidente il 4 marzo; col paese paralizzato dalla Depressione, nel discorso inaugurale proclama: «L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa.» Propone rapidamente le leggi del New Deal per rilanciare l’agricoltura, l’industria, l’occupazione e il commercio, e programmi assistenziali per i debitori ipotecari e i disoccupati. Il gabinetto comprende Harold L. Ickes, ministro degli Interni; Henry A. Wallace, ministro dell’Agricoltura; Frances Perkins - la prima donna che abbia mai avuto un incarico di governo -, ministra del Lavoro; e Henry Morgenthau junior - il secondo ebreo del paese che sia mai entrato nel governo -, ministro del Tesoro (in sostituzione del ministro ammalato William Woodin dal 17 novembre 1933). Vara una serie di brevi programmi radiofonici nazionali dalla Casa
Bianca, le cosiddette «chiacchierate davanti al caminetto», e convoca i giornalisti per conferenze stampa informative. novembre 1933 - dicembre 1934 Riconosce l’Unione Sovietica e comincia subito a ricostruire la flotta americana, in parte a causa delle attività giapponesi in Estremo Oriente. Prima della fine del 1934, reagendo favorevolmente ai programmi presidenziali per i diseredati, gli elettori neri, delusi dal Partito repubblicano di Lincoln, sono passati al Partito democratico di Roosevelt. 1935 Una raffica di iniziative riformistiche, nota come «secondo New Deal», porta alla Social Security Act, alla National Labor Relations Act e alla Wpa (Works Progress Administration), che occupa due milioni di lavoratori al mese. Reagendo all’instabile situazione europea, firma la prima di parecchie misure destinate a garantire la neutralità. novembre 1936 Batte il governatore repubblicano del Kansas Alfred M. Landon, aggiudicandosi tutti gli stati tranne il Maine e il Vermont; si allarga la maggioranza democratica al Congresso. Nel discorso inaugurale dice: «Ecco una sfida per la nostra democrazia... Io vedo un terzo del paese male alloggiato, malvestito, denutrito.» Nel 1937 la ripresa economica è ben avviata, ma si verifica una crisi che, insieme alla conflittualità operaia, porta alle vittorie congressuali repubblicane del 1938. settembre-novembre 1938 Nutrendo apprensioni sulle intenzioni di Hitler in Europa, esorta il capo nazista ad accettare un accordo negoziato nella disputa con la Cecoslovacchia. Alla conferenza di Monaco del 30 settembre Gran Bretagna e Francia capitolano davanti alla richiesta tedesca dei Sudeti cechi e dello smembramento della Cecoslovacchia; truppe tedesche, guidate da Hitler, vi entrano in ottobre (e cinque mesi dopo conquistano l’intero paese, concedendo l’indipendenza alla Slovacchia come repubblica fascista sostenuta dalla Germania). In novembre Roosevelt ordina un enorme aumento nella produzione degli aerei da guerra. aprile 1939 Chiede a Hitler e Mussolini di accettare per un periodo di dieci anni di astenersi dall’attaccare le nazioni europee più deboli; Hitler risponde in un discorso al Reichstag coprendo Roosevelt di disprezzo e gloriandosi della forza militare tedesca. agosto-settembre 1939
Telegrafa a Hitler chiedendogli di trovare un accordo con la Polonia nella disputa territoriale; Hitler reagisce invadendo la Polonia il 1° settembre. Inghilterra e Francia dichiarano guerra a Hitler e comincia la seconda guerra mondiale. settembre 1939 La guerra in Europa spinge Roosevelt a cercare di cambiare la Neutrality Act per consentire a Gran Bretagna e Francia di ottenere armi dagli Stati Uniti. Quando Hitler nella prima metà del 1940 invade la Danimarca, la Norvegia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e la Francia, Roosevelt aumenta significativamente la produzione americana di armamenti. maggio 1940 Fonda il Council of National Defense e, più tardi, l’Office of Production Management, per preparare l’industria e le forze armate alla possibilità di una guerra. settembre 1940 Il Giappone, che è in guerra con la Cina e ha invaso l’Indocina francese (dopo avere già annesso la Corea nel 1910 e occupato la Manciuria nel 1931), firma a Berlino una triplice alleanza con l’Italia e la Germania. Su richiesta di Roosevelt, il Congresso approva la prima legge sulla coscrizione obbligatoria in tempo di pace nella storia degli Stati Uniti, chiedendo a tutti gli uomini tra i ventun anni e i trentacinque di registrarsi per la leva e disponendo il reclutamento nelle forze armate di 800 mila coscritti. novembre 1940 Accusato dalla destra repubblicana di essere un «guerrafondaio», Roosevelt si presenta agli elettori come un nemico giurato di Hitler e del fascismo deciso a fare tutto il possibile per tenere l’America fuori dalla guerra europea e si aggiudica - fatto senza precedenti - un terzo mandato, con 449 voti elettorali contro 82, battendo il repubblicano Wendell L. Willkie in una contesa i cui temi principali sono la difesa nazionale e il rapporto degli Stati Uniti con la guerra; Willkie vince solo nel Maine, nel Vermont e nel Midwest isolazionista. gennaio-marzo 1941 Insediato il 20 gennaio. In marzo il Congresso approva la sua legge affitti e prestiti, che autorizza il presidente a «vendere, trasferire, affittare, prestare» armamenti, generi alimentari e servizi ai paesi la cui difesa egli ritenga vitale per la difesa degli Stati Uniti. aprile-giugno 1941 Dopo che l’esercito tedesco ha invaso la Jugoslavia e poi la Grecia, Hitler viola il patto comune di non aggressione e invade la Russia. In aprile gli Stati Uniti mettono
la Groenlandia sotto la loro protezione; in giugno Roosevelt autorizza lo sbarco di forze americane in Islanda ed estende alla Russia la legge affitti e prestiti. agosto 1941 Durante un incontro in alto mare, Roosevelt e Churchill compilano la Carta Atlantica dei «principi comuni», contenente una dichiarazione di intenti pacifici in otto punti. settembre 1941 Annuncia che la marina ha ricevuto l’ordine di distruggere ogni sommergibile tedesco o italiano che entri in acque americane e minacci le difese americane; chiede al Giappone di iniziare l’evacuazione militare della Cina e dell’Indocina, ma il ministro della Guerra, il generale Tojo, rifiuta. ottobre 1941 Chiede al Congresso di modificare la legge sulla neutralità per armare i mercantili americani e permettere loro di entrare nelle zone di combattimento. novembre 1941 Un’imponente forza d’urto giapponese si raduna segretamente nel Pacifico mentre i negoziati con gli americani su problemi economici e militari sembrano continuare con l’arrivo negli Stati Uniti di inviati giapponesi per «parlare di pace.» dicembre 1941 Il Giappone sferra un attacco a sorpresa contro possedimenti americani nel Pacifico e possedimenti inglesi in Estremo Oriente; dopo un discorso improvvisato del presidente, il giorno dopo il Congresso all’unanimità dichiara guerra al Giappone. L’11 dicembre Germania e Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti; il Congresso risponde dichiarando guerra a Germania e Italia. (Perdite americane nell’attacco giapponese a Pearl Harbor: 2403 morti tra marinai, soldati, marines e civili; 1178 feriti). 1942 Il presidente è quasi completamente assorbito dalla direzione dello sforzo bellico. Nel suo messaggio annuale al Congresso sottolinea l’aumento della produzione bellica e dichiara che «i nostri obiettivi sono chiari: annientare il militarismo imposto dai signori della guerra sui loro popoli asserviti.» Propone un bilancio record di 58927000000 dollari per far fronte alle spese di guerra. Con Churchill, annuncia la creazione di un comando militare unificato nell’Asia sudorientale. La conferenza strategica di giugno con Churchill ha come sbocco l’invasione di novembre del Nordafrica francese da parte delle truppe alleate al comando del generale Dwight D. Eisenhower (l’esercito tedesco sarà espulso dall’Africa sette mesi dopo); il presidente assicura a Francia, ortogallo e Spagna che gli Alleati non hanno mire sui loro
territori. In giugno chiede al Congresso di riconoscere l’esistenza dello stato di guerra contro i regimi fascisti di Romania, Bulgaria e Ungheria, alleati con le forze dell’Asse. In luglio nomina una commissione per processare otto sabotatori nazisti arrestati dagli agenti federali dopo essere sbarcati da un sommergibile nemico sulle sponde degli Stati Uniti; dopo un processo segreto, due sono incarcerati e sei giustiziati a Washington. In settembre, a Mosca, Stalin riceve Wendell Willkie, l’emissario del presidente, e chiede l’apertura di un secondo fronte in Europa occidentale. In ottobre il presidente fa un giro segreto di due settimane degli impianti per la produzione bellica e annuncia che gli obiettivi sono stati raggiunti. Chiede al Congresso di estendere la leva ai diciottenni e ai diciannovenni. gennaio 1943 - agosto 1945 La guerra in Europa (e il concomitante massacro degli ebrei europei da parte di Hitler e l’espropriazione dei loro beni) dura fino al 1945. In aprile Mussolini viene giustiziato dai partigiani italiani e in Italia finisce la guerra. La Germania accetta la resa incondizionata il 7 maggio, una settimana dopo il suicidio di Adolf Hitler nel suo bunker di Berlino e meno di un mese dopo l’improvvisa morte, per emorragia cerebrale, del presidente Roosevelt - allora al primo anno del quarto mandato presidenziale - e il giuramento del suo successore, il vicepresidente Harry S. Truman. In Estremo Oriente la guerra finisce quando il Giappone si arrende incondizionatamente il 14 agosto. La seconda guerra mondiale è terminata.
CHARLES A. LINDBERGH, 1902-1974 maggio 1927 Charles A. Lindbergh, un pilota acrobatico e postale di venticinque anni nato nel Minnesota, vola da New York a Parigi sul monoplano Spirit of St Louis in trentatre ore e trenta minuti; il completamento di questo primo volo transatlantico senza scalo in solitario fa di lui una celebrità conosciuta in tutto il mondo. Il presidente Coolidge gli concede la Distinguished Flying Cross e lo nomina colonnello della riserva dell’aviazione degli Stati Uniti. maggio 1929. Lindbergh sposa Anne Morrow, la figlia ventitreenne dell’ambasciatore americano in Messico. giugno 1930 Nel New Jersey nasce Charles A. Lindbergh junior, figlio di Charles e Anne Lindbergh. marzo-maggio 1932. Charles junior rapito dalla nuova casa isolata al centro di una tenuta di 170 ettari nella campagna di Hopewell, New Jersey; una decina di settimane dopo, il corpo in stato di decomposizione del bambino viene scoperto per caso in un bosco vicino. settembre 1934 - MARZO 1935. Un povero immigrato tedesco carpentiere ed ex detenuto, Bruno R. Hauptmann, arrestato nel Bronx, New York, per il rapimento e l’assassinio di Baby Lindbergh. Processo di sei settimane a Flemington, nel New Jersey, definito dalla stampa «il processo del
secolo.» Hauptmann trovato colpevole e giustiziato sulla sedia elettrica nell’aprile del 1936. aprile 1935 Anne Morrow Lindbergh pubblica il suo primo libro, North to the Orient, una cronaca delle sue avventure aeree del 1931 con Lindbergh; il libro diventa un bestseller e riceve il National Booksellers Àward come il più notevole libro di nonfiction dell’anno. dicembre 1935 - dicembre 1936 Per difendere la propria privacy, i Lindbergh lasciano l’America con i loro due bambini piccoli e, fino al loro ritorno nella primavera del 1939, risiedono principalmente in Inghilterra, in un paesino del Kent. Su invito dell’esercito americano, Lindbergh si reca in Germania per raccogliere informazioni sugli sviluppi dell’aviazione nazista; a tale scopo compie ripetute visite nei tre anni seguenti. Assiste alle Olimpiadi di Berlino del 1936, che si svolgono alla presenza di Hitler, e più tardi scriverà di Hitler a un amico: «È sicuramente un grand’uomo, e credo che abbia fatto molto per il popolo tedesco.» Anne Morrow Lindbergh accompagna il marito in Germania e in seguito scriverà criticamente dell’«opinione rigidamente puritana che si ha in patria, secondo cui le dittature sono necessariamente un male, instabili e sbagliate, e che non può derivarne nulla di buono - unita alla nostra fumettistica visione di Hitler come un clown - unita alla fortissima propaganda (naturalmente) ebraica sui giornali di proprietà degli ebrei.» ottobre 1938 La Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila Tedesca – un medaglione d’oro con quattro piccole svastiche, concesso agli stranieri per servizi prestati al Reich - viene offerta a Lindbergh, «per ordine del Fùhrer», dal maresciallo dell’aria Hermann Gòring durante una cena all’ambasciata americana di Berlino. Anne Morrow Lindbergh pubblica un’altra cronaca delle sue avventure di volo, Listen! the Wind, che diventa un bestseller di nonfiction nonostante la crescente impopolarità del marito tra gli antifascisti americani e il rifiuto di tenere il libro in negozio da parte di alcuni librai ebrei. aprile 1939 Quando Hitler invade la Cecoslovacchia, Lindbergh scrive nel suo diario: «Per quanto io disapprovi molte cose fatte dalla Germania, credo che abbia perseguito l’unica politica coerente in Europa negli ultimi anni.» Su richiesta del capo dell’aviazione, il generale «Hap» Arnold, e con l’approvazione del presidente Roosevelt - che non lo trova simpatico e non si fida di lui -, entra in servizio attivo come colonnello nell’aviazione militare degli Stati Uniti. settembre 1939
Dopo l’invasione tedesca della Polonia del 1° settembre, Lindbergh annota nel suo diario che occorre guardarsi «dagli attacchi di eserciti stranieri e dall’indebolimento prodotto da razze forestiere... e dall’infiltrazione di un sangue inferiore.» L’aviazione, scrive, è «uno di quei beni inestimabili che permettono alla razza bianca di sopravvivere in un mare incalzante di gialli, neri e bruni.» Qualche tempo prima, a proposito di una conversazione privata con un grosso esponente del comitato nazionale repubblicano e il giornalista conservatore Fulton Lewis junior, annotava: «Siamo infastiditi dall’effetto dell’influenza ebraica sulla stampa, sulla radio e sul cinema... È un peccato, perché qualche ebreo del tipo giusto è, credo, una risorsa per il paese.» In un’annotazione di aprile (omessa nel 1970 dall’edizione dei suoi Wartime Journals) scriveva: «In posti come New York ci sono già troppi ebrei. Qualche ebreo aggiunge forza e carattere a un paese, ma troppi creano il caos. E noi cominciamo ad averne troppi.» Nell’aprile del 1940, parlando ai microfoni del Columbia Broadcasting System, dice: «L’unica ragione per cui rischiamo di farci trascinare in questa guerra è perché in America ci sono potenti elementi che vogliono che vi partecipiamo. Rappresentano una piccola minoranza del popolo americano, ma controllano gran parte dell’apparato propagandistico che influenza e condiziona. Approfittano di ogni occasione per spingerci più vicino all’orlo.» Quando il senatore repubblicano dell’Idaho William E. Borah lo incoraggia a candidarsi alla presidenza, Lindbergh dice che preferisce assumere posizioni politiche da privato cittadino. ottobre 1940 In primavera, alla Yale University Law School viene fondato l’America First Committee per contrastare la linea interventista di FDR e promuovere l’isolazionismo; in ottobre, a Yale, Lindbergh parla a tremila persone chiedendo che l’America riconosca «le nuove potenze europee.» Anne Morrow Lindbergh pubblica il suo terzo libro, The Wave of the Future, un trattatello anti-interventista sottotitolato «Una confessione di fede» che suscita enormi polemiche e va subito ai primi posti nella classifica dei bestseller di nonfiction nonostante il ministro degli Interni Harold Ickes lo accusi di essere «la Bibbia di ogni nazista americano.» aprile-agosto 1941 Parla a diecimila persone radunatesi a Chicago per una manifestazione dell’America First Committee; in seguito il suo acerrimo nemico Harold Ickes lo chiama «il compagno di strada nazista numero uno degli Stati Uniti.» Quando Lindbergh scrive al presidente Roosevelt per lamentarsi degli attacchi di Ickes, che lo ha criticato soprattutto per aver accettato la medaglia tedesca, Ickes scrive: «Se a Lindbergh viene voglia di farsi piccolo piccolo quando si parla di lui, correttamente, come di un cavaliere dell’Aquila Tedesca, perché non restituisce quella vergognosa decorazione e non la fa finita?» (Prima, Lindbergh si era rifiutato di restituire la medaglia perché questo avrebbe rappresentato «un’inutile offesa» alla leadership nazista). Il presidente mette in dubbio apertamente la lealtà di Lindbergh, ciò che spinge Lindbergh a presentare le dimissioni da colonnello al ministro della Guerra.
Ickes fa notare che mentre Lindbergh è pronto a rinunciare al grado militare, insiste nel rifiutarsi di restituire la medaglia ricevuta dalla Germania nazista. In maggio, insieme al senatore Burton K. Wheeler del Montana, seduto sul palco accanto ad Anne Morrow Lindbergh, Lindbergh parla a venticinquemila America Firster radunatisi al Madison Square Garden; viene accolto al grido di «Ecco il nostro futuro presidente!» e il suo discorso è coronato da un’ovazione di quattro minuti. Parla ancora a vasti pubblici contro l’intervento americano nella guerra europea in tutto il paese per tutta la primavera e l’estate. settembre-dicembre 1941 A settembre, durante una manifestazione di America First a Des Moines, pronuncia il suo discorso radiofonico «Chi sono i propagandisti della guerra?»; le ottomila persone del pubblico applaudono quando nomina «la razza ebraica» tra coloro che con più forza ed efficacia spingono gli Stati Uniti - «per ragioni che non sono americane» - verso l’intervento nella guerra. Aggiunge che «non possiamo biasimarli se cercano di fare quelli che credono i loro interessi, ma dobbiamo pensare anche ai nostri. Non possiamo permettere che le naturali passioni e i pregiudizi di altri popoli portino il nostro paese alla distruzione.» L’indomani il discorso di Des Moines è attaccato sia dai democratici che dai repubblicani, ma il senatore Gerald P. Nye, repubblicano del North Dakota e fido America Firster, difende Lindbergh dalle critiche e reitera le accuse contro gli ebrei, come altri sostenitori. Il discorso del 10 dicembre, in programma per una manifestazione di America First a Boston, viene annullato da Lindbergh dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la dichiarazione di guerra americana al Giappone, alla Germania e all’Italia. L’America First Committee cessa le attività e l’organizzazione si scioglie. gennaio-dicembre 1942 Si reca a Washington per cercare di farsi reinserire nell’aeronautica militare, ma i membri più importanti del gabinetto di Roosevelt puntano i piedi, come gran parte della stampa, e Roosevelt dice di no. Falliscono anche ripetuti tentativi di trovare un posto nell’industria aeronautica, malgrado un redditizio rapporto di lavoro con la Transcontinental Air Transport («la Compagnia di Lindbergh») tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta e una consulenza altrettanto ben pagata con la Pan American Airways. Trova finalmente lavoro in primavera, con l’approvazione del governo, come consulente del programma di sviluppo dei bombardieri della Ford a Willow Run, fuori Detroit, e si trasferisce con la famiglia in un sobborgo di quella città. (Il pomeriggio di settembre in cui il presidente Roosevelt visita Willow Run per ispezionare i progetti di produzione bellica, Lindbergh pensa bene di assentarsi). Partecipa agli esperimenti del laboratorio aeromedico della clinica Mayo per ridurre i rischi fisici del volo ad alta quota; successivamente, partecipa come pilota collaudatore a esperimenti ad alta quota con apparecchiature a ossigeno. dicembre 1942 - luglio 1943
Prende parte attiva all’addestramento dei piloti del Corsair progettato per la marina e per il corpo dei marines, che aiuta a sviluppare per la United Aircraft nel Connecticut. agosto 1943 Anne Morrow Lindbergh, madre ormai di quattro figli, pubblica The Steep Ascent, un lungo racconto su una pericolosa avventura di volo; è il suo primo insuccesso editoriale, in gran parte dovuto all’ostilità dei recensori e dei lettori verso la politica prebellica della famiglia Lindbergh. gennaio-settembre 1944 Dopo un periodo di lavoro in Florida per collaudare una varietà di aerei, compreso il nuovo bombardiere B-29 della Boeing, riceve dal governo il permesso di recarsi nel Pacifico meridionale a studiare i Corsair in azione; una volta là, comincia a svolgere missioni di combattimento e di bombardamento contro obiettivi giapponesi dalla base della Nuova Guinea, prima come osservatore ma presto, con grande successo, come entusiasta partecipante. Insegna ai piloti come aumentare l’autonomia in combattimento facendo economia di carburante. Dopo aver partecipato a cinquanta missioni - e abbattuto un caccia giapponese - torna in America in settembre per riprendere il lavoro al programma dei caccia della United Aircraft e si trasferisce con la famiglia dal Michigan a Westport, nel Connecticut.
FIORELLO H. LA GUARDIA, 1882-1947 novembre 1922 Dopo aver portato a termine alcuni mandati congressuali come rappresentante del Lower East Side di Manhattan prima e dopo la prima guerra mondiale, La Guardia viene rieletto al Congresso per cinque mandati consecutivi come rappresentante repubblicano del collegio italiano ed ebraico di East Harlem. Guida la Camera nell’opposizione all’imposta generale sull’entrata del presidente Hoover e ne condanna l’incapacità di alleviare le sofferenze provocate dalla Depressione; è contrario anche al proibizionismo. novembre 1924 Alle elezioni presidenziali appoggia apertamente il candidato del Partito progressista Robert M. La Follette anziché il repubblicano, il presidente Coolidge. gennaio 1931 Il governatore di New York Franklin D. Roosevelt organizza una conferenza dei governatori per affrontare i problemi della disoccupazione provocata dalla Depressione; La Guardia lo elogia per avere promosso un’inchiesta che porta a una
legislazione sul lavoro e sulla disoccupazione che lui stesso aveva chiesto di adottare al presidente Hoover, senza successo. 1932 Come indipendente tra le file repubblicane - e membro non rieletto del Congresso viene scelto dal presidente Roosevelt per proporre la legislazione del New Deal al Settantaduesimo Congresso non rieletto ma ancora in carica dopo la schiacciante vittoria democratica del 1932. novembre 1933 Presentandosi come candidato di opposizione a Tammany (la macchina elettorale dei democratici di New York), viene eletto sindaco di New York da una coalizione comprendente i repubblicani (e più tardi anche il Partito americano del lavoro) per il primo di tre mandati consecutivi e promuove la ripresa economica di una città duramente colpita dalla crisi incoraggiando i lavori pubblici e aumentando i servizi pubblici e creandone di nuovi. Attacca il fascismo e il nazismo americani; e quando i nazisti gli appioppano l’etichetta di «sindaco ebreo di New York», risponde spiritosamente: «Non avevo mai creduto di avere abbastanza sangue ebraico nelle vene da giustificare il fatto di potermene vantare.» settembre 1938 Dopo che Hitler ha smembrato la Cecoslovacchia, La Guardia attacca gli isolazionisti repubblicani e prende le parti di FDR nella sempre più vivace polemica sull’intervento. settembre 1940 Benché si dica che Wendell Willkie stia pensando a lui come candidato alla vicepresidenza, La Guardia abbandona nuovamente i repubblicani come ha fatto nel 1924; e col senatore George Norris forma gli Indipendenti per Roosevelt e appoggia apertamente la campagna per il terzo mandato rooseveltiano. agosto-novembre 1940 Mentre la guerra si profila all’orizzonte, Roosevelt pensa a La Guardia come ministro della Guerra ma poi sceglie, al suo posto, il repubblicano Henry Stimson, nominando La Guardia presidente della parte americana del Defense Board americano-canadese. aprile 1941 Accetta da FDR il posto non retribuito di direttore della difesa civile, pur continuando a restare in carica come sindaco di New York.
febbraio-aprile 1943 Chiede a Roosevelt di poter tornare in servizio attivo col grado di generale di brigata, ma Roosevelt, che non gli ha dato un posto nel governo e non lo ha preso in considerazione come possibile vicepresidente, respinge la sua richiesta, su consiglio di amici intimi che trovano La Guardia troppo provocatorio; il sindaco, deluso, torna alla sua «divisa da spazzino.» agosto 1943 I conflitti razziali del tempo di guerra che prima avevano colpito Beaumont, Mobile, Los Angeles e Detroit - dove i disordini del 21 giugno fanno ventiquattro vittime - scoppiano ad Harlem, N.Y. Dopo quasi tre giorni di vandalismi, saccheggi e spargimento di sangue, La Guardia riceve gli elogi dei leader neri per l’energia, ma anche per la comprensione, che ha mostrato durante i disordini, il cui bilancio è di 6 morti, 185 feriti e 5 milioni di dollari di danni. maggio 1945 Un mese dopo la morte di FDR annuncia che non si candiderà per un quarto mandato; prima di ritirarsi fa una cosa che è rimasta famosa, leggendo alla radio i fumetti ai ragazzi di New York durante uno sciopero dei giornali. Lasciata la carica, accetta la direzione dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration).
WALTER WINCHELL, 1897-1972 1924 Walter Winchell, che viene dal vaudeville, è assunto dal «New York Evening Graphic» e acquista rapidamente una grande popolarità come cronista di Broadway e columnist. giugno 1929 Va a lavorare come columnist per il «New York Daily Mirror» di William Randolph Hearst, posto che occuperà per più di trent’anni. La King Features di Hearst vende la rubrica di Winchell per la pubblicazione su tutto il territorio nazionale; alla fine essa apparirà su oltre duemila giornali. Inventore della moderna cronaca mondana fatta di pettegolezzi e indiscrezioni, Winchell diventa una presenza fissa allo Stork Club, il celebre locale notturno di New York. maggio 1930 Debutta alla radio con una rubrica di cronaca rosa su Broadway; raggiunge una grande popolarità col programma Lucky Strike Dance Hour e, nel dicembre 1932, la domenica sera alle nove, col programma per la lozione Jergens diffuso dalla Blue Network della Nbc. Il quarto d’ora settimanale di indiscrezioni e notizie in genere di
Winchell raccoglie ben presto il numero più alto di radioascoltatori e la sua frase iniziale - «Buonasera, signor America e signora e tutte le navi in alto mare. Andiamo in macchina!» - entra a far parte del linguaggio corrente. marzo 1932 Comincia a occuparsi del rapimento di Baby Lindbergh, aiutato da soffiate del capo dell’Fbi. Edgar Hoover; continua a occuparsi del caso fino all’arresto di Bruno Hauptmann nel 1934 e al processo nel 1935. febbraio 1933 Quasi unico tra i pubblici commentatori e tra gli ebrei più noti, comincia ad attaccare pubblicamente Hitler e i nazisti americani, compreso il capo del Bund Fritz Kuhn; continuerà ad attaccarli alla radio e nella sua rubrica fino allo scoppio della seconda guerra mondiale; conia neologismi come ratzt e swastinker18 per mettere in ridicolo il movimento nazista. gennaio-marzo 1935 Elogiato da J. Edgar Hoover per i suoi articoli sul processo Hauptmann. Hoover e Winchell si scambiano informazioni sui nazisti americani che finiscono nella rubrica di Winchell. 1937 Il sostegno prestato da Winchell a Roosevelt nella sua rubrica porta all’invito di maggio alla Casa Bianca e a regolari comunicazioni tra il presidente e il giornalista. Gravi contrasti fra Hearst e Winchell a causa del pubblico sostegno di Winchell a FDR. Nasce l’amicizia tra Winchell e il suo vicino newyorkese, il gangster Frank Costello. 1940 Si calcola che tra lettori e radioascoltatori il pubblico di Winchell arrivi a cinquanta milioni di persone, più di un terzo della popolazione americana; il suo stipendio annuo di 800 mila dollari lo colloca tra gli americani meglio pagati. Winchell intensifica gli attacchi alle attività filonaziste con rubriche come «La colonna di Winchell contro la quinta colonna.» Appoggia con forza FDR nella sua richiesta - cosa senza precedenti - di un terzo mandato; dopo che Hearst ha censurato le sue critiche al candidato repubblicano Willkie sul «Daily Mirror», firma con uno pseudonimo articoli per «PM» nei quali attacca Willkie. aprile-maggio 1941 Attacca Lindbergh per le sue dichiarazioni isolazioniste e filotedesche; avverte il ministro degli Esteri nazista Von Ribbentrop che l’America ha la volontà di 18
Da swastoka (svastica) e stinker (puzzone, carogna, fetente) [N.d. T.]
combattere, e poi viene attaccato dal senatore Burton K. Wheeler per «il blitzkrieg con cui vuole trascinare il popolo americano in questa guerra.» settembre 1941 Dopo il discorso di Des Moines in cui Lindbergh accusa gli ebrei di spingere l’America verso la guerra, scrive che «l’aureola di Lindbergh è diventata il suo cappio» e lo attacca ripetutamente insieme ai senatori Wheeler, Nye, Rankin e altri che identifica come filonazisti. dicembre 1941 - febbraio 1972 Dopo l’ingresso dell’America nella seconda guerra mondiale, i programmi radiofonici e gli articoli di Winchell si occupano principalmente della guerra; col grado di tenente della riserva navale, chiede insistentemente a FDR di essere mandato al fronte e viene richiamato in servizio attivo nel novembre 1942. Alla fine della guerra simpatizza per l’estrema destra; diventa un fiero avversario dell’Unione Sovietica e un sostenitore anticomunista del senatore Joseph McCarthy. Verso la metà degli anni Cinquanta comincia a scivolare nell’oscurità; alla sua morte nel 1972, il funerale è seguito soltanto dalla figlia.
BURTON K. WHEELER, 1882-1975 novembre 1920 - novembre 1922 Dopo aver sconfitto, come legislatore dello stato del Montana, la potente Anaconda Copper Mining Company, e dopo essersi opposto alle violazioni dei diritti umani commesse durante la Red Scare19 del dopoguerra, nel 1920 Wheeler viene sconfitto in maio modo nella corsa al governatorato, ma nel 1922 viene eletto come democratico al Senato degli Stati Uniti per il primo di quattro mandati col forte appoggio degli agricoltori e del mondo del lavoro. Col passare degli anni trasforma il governo dello stato del Montana in una macchina elettorale bipartisan pro Wheeler. febbraio-novembre 1924 Viene scelto per dirigere l’inchiesta senatoriale sullo scandalo per la corruzione Teapot Dome, che costringe alle dimissioni il guardasigilli del presidente Coolidge Harry M. Dougherty e umilia il dipartimento della giustizia di Coolidge. Abbandona i democratici - e il ticket democratico capeggiato da John W. Davis - per candidarsi alla vicepresidenza col senatore del Wisconsin Robert M. La Follette nel ticket del Partito progressista. Coolidge riporta una vittoria schiacciante sia sui democratici che sui progressisti, anche se quest’ultimo partito ottiene sei milioni di voti in tutta la nazione e quasi il quaranta per cento dei voti nel Montana.
19
La Paura dei Rossi [N. d. T.]
1932-1937 Prima della convention democratica del 1932, visita sedici stati per favorire la nomination di Roosevelt. Pur essendo la prima figura di rilievo nazionale ad appoggiare il candidato democratico e a simpatizzare per le riforme sociali del New Deal, nel 1937 Wheeler si oppone duramente alla proposta legislativa del presidente di ingrandire la Corte suprema e «imbottirla» di sostenitori del New Deal; la leadership di Wheeler porta alla sconfitta del controverso disegno di legge e aggrava l’inimicizia personale tra lui e il presidente. 1938 L’apparato di Wheeler nel Montana riesce a indebolire il suo rivale democratico, il membro del Congresso Jerry O’Connell, contribuendo all’elezione alla Camera di Jacob Thorkelson, un repubblicano di destra definito da Walter Winchell il «portavoce del movimento nazista al Congresso.» Thorkelson dà a Winchell del «calunniatore ebreo» e dopo che Winchell lo inserisce in una serie di articoli per la rivista «Liberty» chiamata «Americani di cui possiamo fare a meno» gli fa causa. O’Connell, commentando le attività elettorali dei democratici di Wheeler, descrive Wheeler come il «Benedict Arnold20 del suo partito e un traditore del presidente.» 1940-1941 Influenti democratici fondano nel Montana il club Wheeler for President; nel suo stato e altrove egli viene considerato un formidabile concorrente alla nomination democratica fino a quando Roosevelt annuncia di aspirare al terzo mandato. In Senato, Wheeler è sempre più schierato con i repubblicani e i democratici del Sud contro l’ala rooseveltiana del Partito democratico. Si oppone a gran voce all’intervento americano nella guerra europea. Nel giugno 1940 minaccia di abbandonare il Partito democratico «se diventerà il partito della guerra.» Lo stesso mese si incontra con Charles A. Lindbergh e un gruppo di senatori isolazionisti per studiare «come rispondere all’agitazione e alla propaganda bellica»; al Senato difende Lindbergh da chi lo accusa di essere filonazista e qualche mese dopo, avendo Roosevelt pubblicamente paragonato Lindbergh a un Copperhead della Guerra Civile (cioè a un cittadino degli stati del Nord che parteggiava per i sudisti), definisce la battuta «orribile e scandalosa per ogni americano con la testa a posto.» Parlando alla radio della Nbc, avanza una proposta in otto punti di negoziati di pace con Hitler e riceve da Lindbergh un telegramma di congratulazioni. Incontra gli studenti di Yale allo scopo di organizzare un America First Committee e assume il ruolo di consigliere non ufficiale dell’organizzazione; insieme a Lindbergh, diventa l’oratore più popolare alle manifestazioni di Af. Parla contro la leva, definendo la proposta rooseveltiana di coscrizione in tempo di pace «un passo verso il totalitarismo.» Al Senato, parlando contro la legge affitti e prestiti, dice: 20
Generale americano della Guerra Rivoluzionaria che, passato agli inglesi, guidò devastanti incursioni contro il proprio paese [N. d. T.]
«Se il popolo americano vuole una dittatura - se vuole una forma totalitaria di governo e se vuole la guerra - questa legge dovrebbe essere approvata stroncando ogni resistenza dell’opposizione, com’è abitudine del presidente Roosevelt.» Afferma che la legge affitti e prestiti, se approvata, «seppellirà un ragazzo americano su quattro», spingendo Roosevelt a replicare che la battuta di Wheeler è «la cosa più falsa... più vile e antipatriottica... che sia mai stata detta nella vita pubblica nel corso della mia generazione.» Pubblicamente – e prematuramente - rivela che gli Stati Uniti mandano truppe in Islanda; la Casa Bianca, insieme al primo ministro Churchill, accusa Wheeler di mettere in pericolo vite americane e inglesi. Viene nuovamente accusato di violare il segreto militare nel novembre 1941, quando passa all’isolazionista «Chicago Tribune» un documento segreto del dipartimento della guerra che svela la strategia americana in caso di conflitto. dicembre 1941 - dicembre 1946 Dopo Pearl Harbor appoggia lo sforzo bellico, sostenendo però che l’alleanza dell’America con l’Unione Sovietica aiuta il governo comunista a sopravvivere. Nel 1944, dichiarando che «dietro la Mva ci sono i comunisti», si schiera contro i liberali e con la Montana Power Company e l’Anaconda Copper Company per aiutare a sconfiggere l’omologa della Tennessee Valley Authority (Tva) nella valle del Missouri. Successivamente perde l’appoggio degli ultimi democratici del Montana e alle primarie del 1946 per il Senato viene sconfitto dal giovane liberale del Montana Leif Erickson. anni cinquanta Fa l’avvocato a Washington, D.C. Si allea ideologicamente e politicamente col senatore Joseph McCarthy.
HENRY FORD, 1863-1947 1903-1905 La prima automobile Ford, il Model A a due cilindri da otto cavalli, progettata da Henry Ford e prodotta dalla sua nuova società per azioni Ford Motor Company, appare nel 1903 e costa 850 dollari. Modelli più cari appaiono negli anni seguenti. 1908 Viene presentata la Ford Model T, destinata all’America rurale, e fino al 1927 è l’unico modello prodotto dalla società. La Ford diventa la prima industria automobilistica del paese, realizzando il progetto di Ford di «fabbricare un’automobile per la grande massa.» 1910-1916
Con i suoi soci dell’industria automobilistica, istituisce un processo industriale di produzione ininterrotta e divisione del lavoro che alla fine del suo sviluppo dà come risultato una catena di montaggio in continuo movimento - considerata il più grande progresso industriale dall’avvento della Rivoluzione industriale - che porta alla produzione in massa del Model T. Nel 1914 Ford annuncia una paga base di 5 dollari per una giornata di otto ore; in realtà, l’offerta vale solo per una parte della forza lavoro della Ford. Ciononostante, la sua difesa della «Giornata da cinque dollari» gli procura molti elogi e una fama di industriale illuminato, se non di illuminato pensatore. «Non amo leggere libri, - spiega - mi scombussolano la mente.» «La storia, - dichiara, - più o meno sono tutte fesserie.» 1916-1919 Alla convention nazionale repubblicana viene fatto il suo nome per la nomination alla presidenza, che al primo scrutinio ottiene trentadue voti. Agisce in modo da assicurarsi il potere assoluto su tutte le imprese Ford. Nel 1916 la società sforna duemila macchine al giorno, con una produzione totale a quella data di un milione di Model T. Allo scoppio della prima guerra mondiale si attiva come pacifista e attacca i profittatori della guerra. A una riunione di dirigenti della Ford annuncia: «Io so chi ha fatto scoppiare la guerra. I banchieri ebrei tedeschi. Ho le prove. I fatti. I banchieri ebrei tedeschi sono la causa della guerra.» Quando l’America entra in guerra si impegna a «operare senza un cent di profitto» nel rispetto dei contratti governativi, ma trascura di farlo. Sollecitato dal presidente Wilson, si candida al Senato per i democratici - anche se prima si definiva repubblicano - e viene sconfitto di misura. Attribuisce la sconfitta agli «interessi» di Wall Street e agli «ebrei.» 1920 In maggio, il «Dearborn Independent» - un settimanale locale comprato da Ford nel 1918 - stampa il primo di novantuno minuziosi articoli destinati a smascherare «L’ebreo internazionale: il problema del mondo»; nei numeri seguenti pubblica a puntate il testo dei falsi Protocolli degli anziani di Sion, sostenendo che il documento - e la sua rivelazione di un piano ebraico per dominare il mondo - è autentico. Il secondo anno la circolazione del giornale sale a quasi 300 mila copie; gli abbonamenti vengono imposti ai concessionari della Ford come un prodotto della società e gli articoli fortemente antisemiti vengono raccolti in un’edizione in quattro volumi: The International Jew; The World’s Foremost Problem. anni venti Nel 1921 viene prodotta la cinquemilionesima automobile Ford. Più di metà delle macchine vendute in America sono Model T. Ford costruisce il grande stabilimento di River Rouge e la città industriale di Dearborn. Compra foreste, miniere di ferro e miniere di carbone per rifornire la sua industria automobilistica di materie prime. Diversifica il prodotto. La sua autobiografia del 1922, My Life and Work, è uno dei bestseller della nonfiction, e il nome di Ford e la sua leggenda sono noti in tutto il
mondo. Dai sondaggi risulta che quanto a popolarità batte il presidente Harding, e si parla di lui come del potenziale candidato repubblicano alla presidenza; nell’autunno del 1922 pensa seriamente di candidarsi alle elezioni. Adolf Hitler, in un’intervista del 1923, dice: «Guardiamo a Heinrich Ford come al capo del crescente movimento fascista in America.» A metà degli anni Venti, una causa per diffamazione intentatagli da un avvocato ebreo di Chicago viene risolta in via extragiudiziale, e nel 1927 Ford si rimangia gli attacchi agli ebrei, accetta di sospendere le pubblicazioni antisemite e chiude il «Dearborn Independent», un’iniziativa deficitaria che gli era costata quasi cinque milioni di dollari. Nell’agosto 1927, quando vola a Detroit con lo Spirit of St Louis, Lindbergh incontra Ford all’aeroporto e lo carica sul celebre aereo per fargli fare il primo volo. Lindbergh suscita l’interesse di Ford per l’industria aeronautica. I due si incontrano parecchie volte e nel 1940, intervistato a Detroit, Ford spiega: «Quando Charles viene qui, parliamo solo degli ebrei.» 1931-1937 La concorrenza della Chevrolet e della Plymouth e l’impatto della Depressione provocano grandi perdite, nonostante l’innovazione del motore Ford V-8. Nello stabilimento di River Rouge lo sveltimento della produzione, l’incertezza del posto di lavoro e lo spionaggio interno portano a un peggioramento delle relazioni sindacali. Gli sforzi degli United Auto Workers per organizzare i lavoratori della Ford, oltre a quelli della General Motors e della Chrysler, sono accolti da violenze e intimidazioni; un gruppo di vigilantes di Detroit si rende responsabile di un pestaggio di sindacalisti a River Rouge. La linea della Ford in materia di relazioni sindacali viene condannata dal National Labor Relations Board ed è considerata la peggiore nell’industria automobilistica. 1938 In luglio, per il suo settantacinquesimo compleanno, durante una cena a Detroit alla quale partecipano millecinquecento illustri concittadini accetta la Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila Tedesca dal governo nazista di Hitler. (E la stessa medaglia concessa a Lindbergh in Germania in ottobre, che in dicembre, durante una riunione della Cleveland Zionist Society, fa dire al ministro degli Interni Ickes: «Henry Ford e Charles A. Lindbergh sono gli unici due liberi cittadini di un paese libero che hanno ossequiosamente accettato segni di sprezzante distinzione quando l’uomo che li ha conferiti considera perduto il giorno in cui non commette un nuovo crimine contro l’umanità»). Colpito dal primo di due ictus. 1939-1940 Allo scoppio della seconda guerra mondiale si unisce all’amico Lindbergh nel sostenere l’isolazionismo e l’America First Committee. Poco dopo che Ford è entrato nel comitato esecutivo di America First, l’ebreo Lessing J. Rosenwald, direttore della Sears, Roebuck and Company, si dimette a causa della reputazione antisemita di Ford. Per qualche tempo si incontra regolarmente col prete della radio padre
Coughlin di cui, secondo Roosevelt e Ickes, Ford finanzia le attività. Presta il suo aiuto finanziario al demagogo antisemita Gerald L. K. Smith per il suo programma radiofonico settimanale e altre spese. (Qualche anno dopo Smith ristampa VInternational Jew di Ford in una nuova edizione, e negli anni Sessanta sosterrà che Ford «sugli ebrei non ha mai cambiato idea»). 1941-1947 Secondo ictus. Quando la guerra si avvicina, la società si converte alla produzione per la difesa; durante la guerra produce il bombardiere B-24 nell’enorme stabilimento di Willow Run, dove Lindbergh viene assunto come consulente. Malato, Ford non è più in grado di dirigere la società e si dimette nel 1945. Muore nell’aprile 1947, e centomila persone visitano la salma. Grossi profitti in azioni vanno alla Fondazione Ford, che ben presto diventa la fondazione privata più ricca del mondo.
Altri personaggi storici nel libro Bernard Baruch (1870-1965) Finanziere e consigliere del governo. Come direttore del War Industries Board sotto Woodrow Wilson, mobilita le risorse industriali del paese per la prima guerra mondiale. Appartiene alla cerchia della Casa Bianca durante le amministrazioni Roosevelt. Nel 1946 viene nominato da Truman rappresentante americano nella Commissione per l’energia atomica delle Nazioni Unite. Ruggiero Boiardo detto «Ritchie The Boot» (1890-1984) Membro della malavita di Newark e rivale del gangster Longy Zwillman; ha esercitato una fortissima influenza tra gli italiani della Prima Circoscrizione, dove aveva un noto ristorante. Louis D. brandeis (1856-1941) Nato a Louisville, nel Kentucky, da colti genitori ebrei immigrati da Praga. Avvocato del lavoro a Boston. È tra i primi organizzatori del movimento sionista in America. Nominato dal presidente Wilson giudice della Corte suprema, ma solo dopo quattro mesi di vivaci discussioni nella commissione giustizia del Senato e in tutto il paese, discussioni che Brandeis attribuisce al fatto di essere il primo ebreo eletto alla Corte suprema. Vi presta servizio per ventitre anni, fino al 1939. Charles E. Coughun (1891-1979) Prete cattolico romano e parroco del santuario di Little Flower a Royal Oak, nel Michigan. Diceva che Roosevelt era un comunista e aveva una grande ammirazione per Lindbergh. Negli anni Trenta divulgò idee fortemente antisemite in un programma radiofonico settimanale diffuso in tutto il paese e nel suo periodico
«Social Justice», che durante la guerra non fu più distribuito dalle poste americane per avere violato la legge sullo spionaggio e che cessò le pubblicazioni nel 1942. Amelia Earhart (1897-1937) Nel 1932 batté il record del volo transatlantico impiegando quattordici ore e cinquantasei minuti per andare da Terranova in Irlanda; fu la prima donna ad attraversare da sola l’Atlantico e il Pacifico da Honolulu alla California. Il suo aereo è andato disperso sul Pacifico nel 1937, mentre cercava di fare il giro del mondo col navigatore Frederick J. Noonan. Meyer Ellenstein (1885-1963) Dopo avere fatto il dentista e l’avvocato, nel 1933 viene scelto dai commissioner della città di Newark e nominato sindaco di Newark. Fu il primo e l’unico sindaco ebreo, e restò in carica per due mandati, dal 1933 al 1941. Edward Flanagan (1886-1948). Nel 1904 emigra dall’Irlanda negli Stati Uniti, dove comincia a studiare per il sacerdozio; ordinato nel 1912. Nel 1917, per aiutare i ragazzi senza famiglia di ogni razza e di ogni religione fondò a Omaha la Città dei Ragazzi di padre Flanagan. Diventò una figura nazionale nel 1938 grazie a un film di successo sulla Città dei Ragazzi, con Spencer Tracy nella parte di padre Flanagan. Leo Frank (1884-1915) Direttore di una fabbrica di matite di Atlanta, giudicato colpevole dell’omicidio di Mary Phagan, una dipendente tredicenne, il 26 aprile 1913; aggredito a coltellate mentre era detenuto, fu poi prelevato dal carcere con la forza da un gruppo di gente del posto e linciato nell’agosto 1915. Si ritiene che l’antisemitismo abbia avuto un ruolo importante in una condanna piuttosto dubbia. Felix Frankfurter (1882-1965) Nominato da Roosevelt giudice della Corte suprema, 1939-1962. Joseph Goebbels (1897-1945) Iscritto tra i primi al Partito nazista, nel 1933 diventa ministro della propaganda di Hitler e zar della cultura, responsabile del controllo della stampa, della radio, del cinema e del teatro, e organizzatore di pubblici spettacoli come le parate e le manifestazioni di massa. È tra i più devoti e brutali dei complici di Hitler. Nell’aprile 1945, con la Germania in ginocchio e mentre i russi entravano a Berlino, si tolse la vita con la moglie dopo aver ucciso i sei figli piccoli. Hermann Goring (1893-1946) Fondatore e primo capo della Gestapo, o polizia segreta, e responsabile della creazione dell’aeronautica tedesca. Nel 1940 Hitler lo nomina suo successore, ma
verso la fine della guerra cambia idea. Giudicato a Norimberga per crimini di guerra e condannato a morte, si suicidò due ore prima dell’esecuzione. Henry (Hank) Greenberg (1911-1986) Forte battitore e prima base dei Detroit Tigers negli anni Trenta e Quaranta; nel 1938 arrivò a due home run dal record di Babe Ruth. Eroe dei tifosi di baseball ebrei, fu il primo dei due giocatori ebrei eletti alla Hall of Fame del baseball. William Randolph Hearst (1863-1951) Editore americano considerato il principale promotore della cosiddetta «stampa gialla», un tipo di giornalismo scandalistico e sciovinista che si rivolge a un pubblico di massa; il suo impero giornalistico fiori negli anni Trenta. Originariamente allineato con i populisti democratici, scivolò sempre più a destra fino a diventare un nemico giurato di FDR. Heinrich Himmler (1900-1945) Leader nazista, comandante delle SS, che controllavano i campi di concentramento, e capo della Gestapo; incaricato dei programmi di «purificazione» razziale e come autorità secondo solo a Hitler. Si avvelenò e morì dopo essere stato catturato dalle truppe britanniche nel maggio 1945. John Edgar Hoover (1895-1972) Direttore del Federal Bureau of Investigation (originariamente Bureau of Investigation, un ufficio controllato dal dipartimento della giustizia), 1924-1972.400 Harold L. Ickes (1874-1952) Repubblicano progressista passato ai democratici, è stato ministro degli Interni di Roosevelt per quasi tredici anni, restando in carica più di ogni altro membro del gabinetto rooseveltiano. Coscienzioso ambientalista ed efficace nemico del fascismo. Fritz Kuhn (1886-1951) Nato in Germania, reduce della prima guerra mondiale, emigrò in America nel 1927, e nel 1938, come Bundesleiter che si considerava il Führer americano, aveva fatto del Bund Tedesco-Americano il gruppo nazista più potente, più attivo e più ricco degli Stati Uniti, con venticinquemila iscritti. Condannato per furto nel 1939, privato della cittadinanza nel 1943, deportato in Germania nel 1945. Nel 1948 il tribunale tedesco per la denazificazione lo giudica colpevole di aver tentato di trapiantare il nazismo negli Stati Uniti e di aver avuto stretti rapporti con Hitler; condannato a dieci anni di lavori forzati. Herbert H. Lehman (1878-1963) Socio del Lehman Brothers, istituto di credito fondato dalla sua famiglia. Vicegovernatore dello stato di New York sotto il governatore Roosevelt, gli succede
come governatore dal 1932 al 1942. Sostenitore del New Deal e forte interventista. Come senatore democratico di New York (19491957), diventa subito un avversario del senatore Joseph McCarthy. John L. Lewis (1880-1969) Leader sindacale americano. Nel 1935, come presidente degli United Mine Workers, ruppe con l’American Federation of Labor (Afl) per formare il nuovo Committee for Industrial Organization, che nel 1938 diventò il Congress of Industrial Organizations. Inizialmente sostenitore di Roosevelt, alle elezioni del 1940 appoggiò il repubblicano Willkie e dopo la sconfitta di Willkie si dimise dal Cio. Gli scioperi della Umw durante la guerra accrebbero l’inimicizia fra Lewis e l’amministrazione. Anne Spencer Morrow Lindbergh (1906-2001) Scrittrice e aviatrice americana. Apparteneva a una famiglia ricca e privilegiata di Englewood, nel New Jersey; il padre, Dwight Morrow, era socio nella finanziaria di J. P. Morgan and Co., poi diventò ambasciatore americano in Messico durante l’amministrazione Hoover e senatore repubblicano del New Jersey; la madre, Elizabeth Reeve Cutter Morrow, fu scrittrice, educatrice e, per breve tempo, presidente ad interini dello Smith College, dove la Morrow si laureò in letteratura nel 1928. Era stata presentata a Charles Lindbergh l’anno prima, durante una visita dell’aviatore nella residenza dell’ambasciatore a Città del Messico. Per i dettagli della vita di Anne Morrow dopo quell’incontro, vedi alla voce Charles a. LINDBERGH. Henry Morgenthau Jr (1891-1967) Nominato da Roosevelt ministro del Tesoro, restò in carica dal 1934 al 1945. Vincent Murphy (1888-1976) Il successore di Meyer Ellenstein come sindaco di Newark, 1941-1949. Candidato democratico alla carica di governatore del New Jersey nel 1943 e figura dominante dello stato in campo sindacale per trentacinque anni dopo la sua elezione a segretariotesoriere della Federation of Labor dello stato nel 1933. Gerald P. Nye (1892-1971) Senatore repubblicano del North Dakota ardentemente isolazionista, 1925-1945. Westbrook Pegler (1894-1969) Giornalista di destra la cui rubrica «Come la vede Pegler» apparve sui giornali di Hearst dal 1944 al 1962. Nel 1941 vinse il premio Pulitzer per un’inchiesta sui rapporti tra malavita e sindacato. Feroce critico dei Roosevelt e del New Deal, ispirato secondo lui dal comunismo, e apertamente ostile agli ebrei. Grande sostenitore e amico del senatore Joseph McCarthy e consulente della commissione d’inchiesta di McCarthy.
Joachim Prinz (1902-1988) Rabbino, autore e attivista per i diritti civili, ha prestato servizio come rabbino del tempio B’nai Abraham di Newark dal 1939 al 1977. Joachim von Ribbentrop (1893-1946) Il principale consigliere di Hitler in materia di politica estera nel 1933 e il suo ministro degli Esteri dal 1938 al 1945. Col ministro degli Esteri sovietico Molotov firmò nel 1939 il patto di non aggressione comprendente un accordo segreto per la spartizione della Polonia. Questo patto aprì la strada alla seconda guerra mondiale. Giudicato colpevole di crimini di guerra a Norimberga, è il primo nazista condannato a essere impiccato il 16 ottobre 1946. Eleanor Roosevelt (1884-1962) Nipote di Theodore Roosevelt, moglie del suo lontano cugino FDR e madre di sei figli, una femmina e cinque maschi. Come First Lady pronunciò discorsi per promuovere cause sociali progressiste, fece conferenze sulle condizioni delle minoranze, dei diseredati e delle donne, attaccò il fascismo, tenne una rubrica quotidiana su una catena di sessanta giornali e durante la seconda guerra mondiale fu copresidente dell’Office of Civilian Defense. Come delegata all’Orni nominata dal presidente Truman, appoggiò la creazione di uno stato ebraico, e nel 1952 e nel 1956 partecipò alla campagna elettorale del candidato presidenziale Adlai Stevenson. Nuovamente nominata delegata all’Onu dal presidente Kennedy, si oppose all’invasione della Baia dei Porci. Leverett Saltonstall (1892-1979) Discendente di Sir Richard Saltonstall, uno dei soci originari della Massachusetts Bay Company che arrivò in America nel 1630. Governatore repubblicano del Massachusetts, 1939-1944; senatore repubblicano, 1944-1967. Gerald L. K. Smith (1898-1976) Ministro del culto e celebre oratore, prima alleato di Huey Long e poi di padre Coughlin e Henry Ford, che lo appoggiarono nel suo implacabile odio per gli ebrei. La sua rivista antisemita «The Cross and the Flag» accusava gli ebrei di essere la causa della Depressione e della seconda guerra mondiale. Nel 1942 ottenne centomila voti nel Michigan come candidato repubblicano al Senato. Sosteneva che Roosevelt era ebreo, che lprotocolli degli anziani di Sion erano un documento autentico e, dopo la guerra, che l’Olocausto non era mai avvenuto. Allie Stolz (1918-2000) Pugile ebreo di Newark appartenente alla categoria dei pesi leggeri. Vinse 73 incontri su 85, perdendo due combattimenti per il titolo negli anni Quaranta; il primo, coronato da un verdetto discutibile alla quindicesima ripresa, col campione Sammy
Angott; il secondo - che portò al suo ritiro nel 1946 - chiuso da un knockout alla tredicesima ripresa, col campione Bob Montgomery. Dorothy Thompson (1893-1961) Giornalista, attivista politica e columnist per una catena di 170 giornali durante gli anni Trenta. Precoce nemica del nazismo e di Hitler e aspra critica della politica di Lindbergh. Sposata al romanziere Sinclair Lewis nel 1928 e divorziata nel 1942. Negli anni Quaranta e Cinquanta si oppose al sionismo e appoggiò gli arabi palestinesi. David T. Wilentz (1894-1988) Il procuratore generale del New Jersey (1934-1944) che sostenne l’accusa al processo per il rapimento di Baby Lindbergh e che ottenne la condanna e l’esecuzione di Bruno Hauptmann. In seguito fu influente nell’apparato democratico del New Jersey e consigliere di tre governatori democratici dello stato. Abner «Longy» Zwillman (1904-1959) Nato a Newark, fece contrabbando di alcolici durante il proibizionismo e dagli anni Venti agli anni Quaranta fu uno dei più grossi gangster del New Jersey. Era uno dei «Big Six» della costa orientale, con Lucky Luciano, Meyer Lansky e Frank Costello. Le sue vaste attività criminali furono smascherate durante le udienze della commissione senatoriale sulla criminalità trasmesse dalla televisione nel 1951. Otto anni dopo si suicidò.
Un po’ di documentazione… Discorso di Charles Lindbergh, «Chi sono i propagandisti della guerra?», tenuto Vii settembre 1941 alla manifestazione di Des Moines dell’America First Committee. Il testo che segue è reperibile sul sito www.pbs.org/wgbh/amex/lindbergh/filmmore/reference/primary/desmoinesspeechht ml’. Già due anni sono passati da quando è scoppiata l’ultima guerra in Europa. Da quel giorno di settembre del 1939 al momento attuale è stato compiuto uno sforzo sempre più grande per spingere gli Stati Uniti a entrare nel conflitto. Questo sforzo è stato compiuto da interessi stranieri e da una piccola minoranza della nostra popolazione; ma è stato così efficace che oggi il nostro paese si trova sull’orlo della guerra. A questo punto, mentre la guerra sta per entrare nel suo terzo inverno, pare appropriato riesaminare le circostanze che ci hanno portato alla nostra attuale situazione. Perché siamo sull’orlo della guerra? Era proprio necessario che arrivassimo a un coinvolgimento così profondo? Chi è il responsabile del
cambiamento della nostra linea politica, da una posizione di neutralità e indipendenza a questo impegolarsi negli affari europei? Personalmente, ritengo che contro il nostro intervento non ci sia argomento migliore di uno studio delle cause e degli sviluppi della guerra attuale. Ho detto spesso che se i fatti veri e i veri problemi venissero esposti al popolo americano, non esisterebbe alcun pericolo di un nostro coinvolgimento. Qui, vorrei farvi notare una differenza fondamentale tra i gruppi che appoggiano la guerra straniera e quelli che credono in un destino indipendente per l’America. Se tornate indietro col pensiero a come sono andate le cose, troverete che quelli di noi che erano contrari all’intervento hanno sempre cercato di chiarire i fatti e i problemi; mentre gli interventisti hanno cercato di nascondere i fatti e confondere i problemi. Vi invitiamo a leggere ciò che abbiamo detto il mese scorso, l’anno scorso, e anche prima dello scoppio della guerra. La nostra posizione è semplice e chiara, e noi ne siamo fieri. Non vi abbiamo convinto con i sotterfugi e la propaganda. Non siamo ricorsi a trucchi, per portare il popolo americano dove non voleva andare. Ciò che abbiamo detto prima delle elezioni, lo abbiamo detto ripetutamente anche dopo, e oggi lo diciamo ancora una volta. E domani non vi diremo che erano solo discorsi propagandistici. Avete mai sentito un interventista, o un agente britannico, o un membro del governo, chiedervi di voltarvi indietro e di studiare i verbali di ciò che hanno detto da quando è scoppiata la guerra? Sono disposti, questi sedicenti difensori della democrazia, a sottoporre il problema della guerra a un voto popolare? Quando si sono battuti, questi crociati della libertà di parola all’estero, per la rimozione della censura qui nel nostro paese? I sotterfugi e la propaganda che esiste nel nostro paese sono visibili dappertutto. Questa sera cercherò di toglierne di mezzo almeno alcuni, per arrivare alla nuda verità che c’è sotto. Quando questa guerra è scoppiata in Europa, era chiaro che il popolo americano era nettamente contrario a parteciparvi. Perché non avrebbe dovuto essere così? Avevamo la posizione difensiva migliore del mondo; avevamo una tradizione di indipendenza dall’Europa; e l’unica volta che abbiamo preso parte a una guerra europea abbiamo lasciato irrisolti i problemi dell’Europa, e non saldati i debiti verso l’America. I sondaggi nazionali hanno mostrato che quando l’Inghilterra e la Francia hanno dichiarato guerra alla Germania, nel 1939, meno del dieci per cento della nostra popolazione era a favore di un analogo corso per l’America. Ma c’erano diversi gruppi di persone, qui e all’estero, i cui interessi e le cui idee abbisognavano del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra. Questa sera indicherò alcuni di questi gruppi e descriverò i loro metodi di procedura. Così facendo, dovrò parlare con la massima franchezza, perché per ostacolare i loro sforzi noi dobbiamo sapere esattamente chi sono. I tre gruppi più importanti che hanno spinto questo paese verso la guerra sono gli inglesi, gli ebrei e l’amministrazione Roosevelt.
Dietro questi gruppi, ma di minor importanza, ci sono vari capitalisti, anglofili e intellettuali che credono che il futuro dell’umanità dipenda dal dominio dell’impero britannico. Aggiungete a questi i gruppi comunisti che erano contrari all’intervento fino a qualche settimana fa, e io credo di avere nominato i principali fautori della guerra in questo paese. Qui parlo solo dei fautori della guerra, non di quegli uomini e di quelle donne, sinceri ma fuorviati, che, confusi dalla disinformazione e impauriti dalla propaganda, seguono le orme dei fautori della guerra. Come dicevo, questi propagandisti della guerra comprendono solo una piccola minoranza della nostra popolazione; ma hanno una formidabile influenza. Contro la determinazione del popolo americano di stare fuori dalla guerra, hanno schierato le forze della loro propaganda, dei loro soldi, del loro patrocinio. Consideriamo questi gruppi, uno per volta. In primo luogo, gli inglesi: è ovvio e perfettamente comprensibile che la Gran Bretagna voglia gli Stati Uniti al suo fianco nella guerra. In questo momento l’Inghilterra è in una situazione disperata. La sua popolazione non è abbastanza grande e le sue forze armate non sono abbastanza forti per invadere il continente europeo e vincere la guerra dichiarata alla Germania. La sua posizione geografica è tale che l’Inghilterra non può vincere la guerra col semplice uso dell’aviazione, per quanti aerei le mandiamo noi. Anche se l’America entrasse in guerra, è improbabile che gli eserciti alleati potrebbero invadere l’Europa e sbaragliare le forze dell’Asse. Ma una cosa è certa. Se l’Inghilterra riesce a trascinare nella guerra questo paese, può scaricare sulle nostre spalle gran parte della responsabilità di farla e di pagarne il costo. Come tutti sapete, ci sono rimasti sul gobbo i debiti dell’ultima guerra in Europa; e se in avvenire non saremo più cauti che in passato, ci resteranno sul gobbo anche i debiti della guerra attuale. Se non fosse per la speranza che ha di poterci addossare la responsabilità finanziaria, e militare, della guerra, io credo che l’Inghilterra avrebbe negoziato la pace in Europa già da parecchi mesi, e starebbe molto meglio per averlo fatto. L’Inghilterra ha consacrato e continuerà a consacrare ogni sforzo all’obiettivo di farci entrare in guerra. Sappiamo che durante l’ultima guerra, per coinvolgerci, spese in questo paese enormi somme di denaro. Ci sono dei libri scritti da inglesi che parlano dell’intelligenza con cui esso è stato usato. Sappiamo che l’Inghilterra sta spendendo grosse somme di denaro per la propaganda in America durante la guerra attuale. Se fossimo inglesi, faremmo lo stesso. Ma il nostro primo interesse è per l’America; e come americani è essenziale che ci rendiamo conto dello sforzo che fanno gli interessi inglesi per trascinarci nella loro guerra. Il secondo grosso gruppo che ho citato sono gli ebrei. Non è difficile capire per quale motivo gli ebrei desiderano la sconfitta della Germania nazista. Le persecuzioni che hanno subito in Germania basterebbero a suscitare l’aspra inimicizia di ogni razza. Nessun essere umano che abbia un minimo di dignità può perdonare le
persecuzioni della razza ebraica in Germania. Ma nessuna persona onesta e lungimirante può considerare la politica favorevole alla guerra che gli ebrei fanno qui oggi senza vedere i pericoli che essa comporta sia per noi che per loro. Invece di battersi per la guerra, i gruppi ebraici di questo paese dovrebbero combatterla in tutti i modi possibili e immaginabili, perché saranno tra i primi a subirne le conseguenze. La tolleranza è una virtù che dipende dalla pace e dalla forza. La storia dimostra che non sopravvive alla guerra e alle devastazioni. Qualche ebreo lungimirante se ne rende conto e si dichiara contrario all’intervento. Ma la maggioranza ancora no. Il danno maggiore che fanno a questo paese sta nelle grandi proprietà che hanno e nell’influenza che esercitano nel cinema, nella stampa, nella radio e nel governo. Io non voglio attaccare né il popolo ebraico né quello britannico. A entrambe le razze va la mia ammirazione. Ma io dico che i leader di queste due razze, gli inglesi e gli ebrei, per ragioni comprensibili dal loro punto di vista ma inaccettabili dal nostro, per ragioni che non sono americane, vogliono trascinarci nella guerra. Non possiamo biasimarli se cercano di fare quelli che credono i loro interessi, ma dobbiamo pensare anche ai nostri. Non possiamo permettere che le naturali passioni e i pregiudizi di altri popoli portino il nostro paese alla distruzione. Il terzo potente gruppo che ha spinto questo paese verso la guerra è l’amministrazione Roosevelt. I suoi membri hanno usato l’emergenza bellica per ottenere, per la prima volta nella storia americana, un terzo mandato presidenziale. Hanno usato la guerra per aggiungere miliardi di dollari a un debito che era già il più alto che avessimo mai conosciuto. E hanno appena usato la guerra per giustificare restrizioni ai poteri del Congresso e l’assunzione di procedure dittatoriali da parte del presidente e dei suoi incaricati. Il potere dell’amministrazione Roosevelt dipende dal mantenimento dell’emergenza bellica. Il prestigio dell’amministrazione Roosevelt dipende dal successo della Gran Bretagna, al quale il presidente ha legato il suo avvenire politico in un momento in cui la maggior parte della gente riteneva che l’Inghilterra e la Francia avrebbero vinto facilmente la guerra. Il pericolo dell’amministrazione Roosevelt sta nei suoi sotterfugi. Mentre i suoi componenti ci avevano promesso la pace, ci hanno portato alla guerra a dispetto della piattaforma sulla quale sono stati eletti. Indicando in questi tre gruppi i principali fautori della guerra, ho voluto segnalare solo quelli il cui sostegno è indispensabile al partito della guerra. Se uno qualunque di questi gruppi - gli inglesi, gli ebrei o l’amministrazione - cesserà di agitarsi per la guerra, io credo che il pericolo di un nostro coinvolgimento verrà meno. Non credo che solo due di questi tre gruppi siano abbastanza potenti per trascinare questo paese nella guerra senza l’appoggio del terzo. E rispetto a questi tre, come dicevo, tutti gli altri gruppi favorevoli alla guerra sono di secondaria importanza. Quando in Europa cominciarono le ostilità, nel 1939, questi gruppi si resero conto che il popolo americano non aveva nessuna intenzione di entrare in guerra. Sapevano che allora chiederci una dichiarazione di guerra sarebbe stato peggio che inutile. Ma
pensavano che questo paese potesse essere trascinato nella guerra in un modo molto simile a quello con cui siamo entrati nell’ultima. Essi calcolavano, primo, di preparare gli Stati Uniti a una guerra straniera fingendo che si trattasse di difendere l’America; secondo, di coinvolgerci nella guerra, passo passo, senza che noi ce ne rendessimo conto; terzo, di creare una serie di incidenti che ci avrebbero costretto a partecipare al conflitto vero e proprio. Questi piani, naturalmente, dovevano essere coperti e aiutati dalla grande forza della loro propaganda. Ben presto i nostri teatri si sono riempiti di opere che celebravano le glorie della guerra. I cinegiornali hanno perduto ogni parvenza di obiettività. Giornali e riviste hanno cominciato a perdere la pubblicità se facevano uscire articoli contro la guerra. Una campagna di calunnie è stata lanciata contro i singoli individui che si opponevano all’intervento. I termini «quinta colonna», «traditore», «nazista», «antisemita» sono stati usati senza tregua per bollare chiunque osasse dire che entrare in guerra non era nell’interesse degli Stati Uniti. La gente perdeva il posto, se era apertamente contro la guerra. Tante altre persone non avevano più il coraggio di parlare. In poco tempo le sale per le conferenze aperte ai fautori della guerra vennero chiuse agli oratori che erano contrari. Parti una campagna di intimidazioni. Ci dissero che l’aviazione, che ha impedito alla flotta inglese di avvicinarsi al continente europeo, rendeva l’America più vulnerabile che mai all’invasione. La propaganda impazzava. Non era difficile ottenere miliardi di dollari, purché si dicesse che servivano a difendere l’America. Il nostro popolo è rimasto unito su un programma difensivo. Il Congresso ha varato uno stanziamento dopo l’altro per cannoni, aerei e corazzate, con l’approvazione della schiacciante maggioranza dei nostri concittadini. Che una grossa fetta di questi stanziamenti fosse destinata a costituire un arsenale per l’Europa, lo abbiamo appreso solo più tardi. Questo è stato un altro passo. Per fare un esempio preciso: nel 1939 ci dissero che dovevamo portare i nostri aerei a un totale di 5 mila unità. Il Congresso approvò le leggi necessarie. Qualche mese dopo, l’amministrazione ci disse che gli Stati Uniti, per la loro difesa nazionale, avrebbero dovuto avere almeno 50 mila aerei. Ma gli aerei da combattimento venivano inviati all’estero quasi con la stessa rapidità con cui erano sfornati dalle nostre fabbriche, anche se la nostra aviazione militare aveva un gran bisogno di nuovo materiale; tanto che oggi, due anni dopo lo scoppio della guerra, l’esercito americano ha solo qualche centinaio di caccia e di bombardieri veramente moderni: meno, in effetti, di quanti la Germania sia in grado di produrne in un mese. Fin dall’inizio, il nostro programma di riarmo è stato studiato allo scopo di fare la guerra in Europa, assai più che allo scopo di costruire una difesa adeguata dell’America. Ma nello stesso tempo, mentre ci si preparava a una guerra straniera, era necessario, come dicevo, coinvolgerci nella guerra. Questo è stato fatto ricorrendo a quell’espressione ormai famosa: «fare i passi necessari senza arrivare alla guerra.»
La Francia e l’Inghilterra avrebbero vinto - ci dissero - se gli Stati Uniti avessero abrogato l’embargo sulle armi e venduto munizioni in contanti. E poi è cominciato un ritornello familiare, un ritornello che per parecchi mesi ha contraddistinto ogni passo che abbiamo fatto verso la guerra: «il modo migliore per difendere l’America e stare fuori dalla guerra», ci dicevano, era «aiutando gli Alleati.» Prima abbiamo deciso di vendere armi all’Europa; poi abbiamo deciso di prestare armi all’Europa; poi abbiamo deciso di perlustrare l’oceano per l’Europa; poi abbiamo occupato un’isola europea nella zona di guerra. Ora siamo arrivati sull’orlo della guerra. I gruppi che vogliono la guerra sono riusciti a fare i primi due dei loro tre più importanti passi verso la guerra. È in corso di attuazione il più grande programma di armamento della nostra storia. Siamo ormai coinvolti nella guerra praticamente da ogni punto di vista; l’unica cosa che ancora non facciamo è sparare. Resta solo da creare un numero sufficiente di «incidenti»; e voi vedete che il primo sta già per aver luogo, secondo i piani: piani che non sono mai stati presentati al popolo americano per essere approvati. Uomini e donne dell’Iowa; oggi solo una cosa divide questo paese dalla guerra. È la crescente opposizione del popolo americano. Il nostro sistema di democrazia e governo rappresentativo oggi è messo alla prova come non mai. Siamo sull’orlo di una guerra in cui l’unico vincitore sarebbe il caos e la prostrazione. Siamo sull’orlo di una guerra per la quale siamo ancora impreparati e per la quale nessuno ha presentato un possibile piano per la vittoria: una guerra che non può essere vinta senza mandare i nostri soldati oltreoceano per effettuare uno sbarco su una costa ostile contro eserciti più forti del nostro. Siamo sull’orlo di una guerra, ma ancora non è troppo tardi per starne fuori. Non è troppo tardi per mostrare che nessuna cifra, nessuna propaganda e nessun sistema clientelare possono costringere un popolo libero e indipendente a fare la guerra contro la sua volontà. Ancora non è troppo tardi per ritrovare e mantenere il destino indipendente americano enunciato dai nostri avi in questo nuovo mondo. Il futuro poggia sulle nostre spalle. Dipende dalle nostre azioni, dal nostro coraggio e dalla nostra intelligenza. Se siete contrari al nostro intervento nella guerra, questo è il momento di far udire la vostra voce. Aiutateci a organizzare queste assemblee e scrivete ai vostri rappresentanti a Washington. Io vi dico che l’ultimo bastione della democrazia e del governo rappresentativo in questo paese è nella nostra Camera dei deputati e nel Senato. Là possiamo ancora far conoscere la nostra volontà. E se noi, il popolo americano, lo faremo, l’indipendenza e la libertà continueranno a vivere tra noi, e non ci saranno guerre straniere.
Da Lindbergh di A.Scott Berg, 1998 La pace, pensava Lindbergh, poteva esistere solo a patto che «si faccia causa comune per salvaguardare quel bene inestimabile che è il retaggio del nostro sangue
europeo, a patto che ci si difenda dagli attacchi di eserciti stranieri e dall’indebolimento prodotto da razze forestiere.» Egli vedeva l’aviazione come «un dono del cielo a quei paesi occidentali che erano già i leader della loro epoca... uno strumento fatto apposta per mani occidentali, un’arte scientifica che altri riescono solo a copiare mediocremente, un’altra barriera tra i brulicanti milioni di asiatici e il retaggio greco dell’Europa: uno di quei beni inestimabili che permettono alla razza bianca di sopravvivere in un mare incalzante di gialli, neri e bruni.» Lindbergh pensava che l’Unione Sovietica fosse diventata il peggior impero del male sulla terra e che la civiltà occidentale dipendesse dalla capacità di respingere quello e le potenze asiatiche che si trovavano oltre i suoi confini: i «mongoli e i persiani e i mori.» Scriveva che dipendeva anche da «una forza unita tra noi; da una forza troppo grande per poter essere sfidata da eserciti stranieri; da un Vallo Occidentale di razza e di armi capace di fermare un Gengis Khan o l’infiltrazione di un sangue inferiore...» (p. 394).