I templi greci [PDF]

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Zitiervorschau

HELM UT B ERVE - GOTTFRI ED G R U B EN

I TEMPLI GRECI Fotografie

di Max Hirmer

G. C. SANSONI EDITORE

TITOLO ORIClNALE Griechische Tempel und HeiligtQmer TRADUZIONI! DJ

MINA BACCI B GIACOMO CACCIAPAGLIA

COPYRIGHT

@ rg6z

BY HIRMEN: VBRIAC MQnchm

-

C.

C.

SANSONI Firenae

P R E M ESSA

Lo scopo di questo libro è duplice : esso non vuole soltanto presentare, così come ci sono perve­

nuti, i monumenti che si trovano nel vasto ambito dell'antica Ellade quali testimonianze di uno sviluppo artistico singolare, quanto scoprire piuttosto il vero e profondo significato di questi monumenti e fare risorgere intatto davanti ai nostri occhi quello che oggi è conservato soltanto in rovina.

Ma anche se i templi e gli edifici sacri dell'antica Ellade sorgessero ancora davanti a noi intatti come allora, essi sarebbero per noi soltanto dei monumenti dell'architettura e dell'arte. Possiamo cogliere la

loro vita più profonda e reale solo se dall'alto della storia della cultura e della religione riusciamo a spin�ere il nostro sguardo nel pensiero religioso che li fece costruire, nel culto divino esplicato in essi e davanti ad essi, nel mito che fin dai tempi antichissimi aleggia intorno a loro e riempi il loro divenire e il loro essere.

Rivelare tutto questo è lo scopo delia prima parte di questo libro scritta dal prof. Helmut Berve con lin­ guaggio chiaro e con grande cultura che nasce dal suo spirito di ricerca; e per questo desidero che sia qui ringraziato. L'altro intento ovvio e necessario di questo libro è la descrizione dell'architettura dei templi e dci

santuari greci visti dal lato formale c architettonico. Certo chi oggi percorra il territorio ellenico - sia la

Grecia vera e propria, sia l'Italia meridionale e la Sicilia o le località ellenistiche delle coste occidentale del­ l'Asia Minore- dappertutto egli sarà afferrato dal fascino delle rovine e del paesaggio ampio o grandioso che le circonda. Ma al di là di questo sentimento puramente romantico la seconda parte di questo libro vuole porre davanti agli occhi sia dell'amico dell'Eiladc sia dello studioso i monumenti cosi come essi fu­ rono un tempo creati: monumenti di una architettura altissima, grandiosi, sereni, staccati da tutto il mondo che li circonda che, concepiti già in modo limpido e chiaro

fin

dai primissimi tempi ellenici, raggiunsero

il loro più alto e più completo sviluppo nei secoli di maggior fioritura della cultura ellenica. Oltre a dare un'idea dell'architettura nella sua completezza e totalità, cosi com'era un tempo, la se­ conda parte di questo libro presenta lo sviluppo dell'architettura greca sia nel suo insieme sia come storia architettonica dei singoli templi e santuari, ancora una volta vista alla luce delle ragioni mitologiche e di culto per cui in ultima analisi tutti questi edifici erano stati creati. Balza spesso davanti ai nostri occhi il contrasto tra la volontà dei committenti, condizionata dalle ragioni di culto, tra l'obbligo di usare

i resti di un antico edificio sacro da una parte, e la volontà creativa dell'artista che non voleva essere co­ stretto e che, pur rassegnandosi all'imposizione, riusciva tuttavia a creare cose altissime.

Voglio ringraziare qui il dr. Gottfried Gruben che si è assunto l'incarico di trattare per questo libro

la storia dell'architettura c della costruzione dei monumenti di tutta I'Eilade. Grazie alla. sua profonda penetrazione nell'essenza del mondo ellenico c alla sua \aSta cultura egli è riuscito sempre ad innalzare la

più concreta definizione del particolare nella sfera della norma e del valore universale. Come già si è accennato il presente volume tratta di tutta l'antica Ellade: i monumenti della Grecia

attuale, quelli dell'antica • Magna Grecia • cioè l'Italia meridionale e la Sicilia cd infine anche quelli delle località greche sulla costa occidentale dell'odierna Asia Minore turca.

7

Le illustrazioni non sono limitate esclusivamente alla parte architettonica ; anche della scultura, in

quanto si tratta di opere che stanno in immediato rapporto, come • scultura architettonica •· con i mo­ numenti, sono presentati dagli esempi. La parte centrale del corteo delle Panatenee nella facciata orien­

tale della cella del Partenone, mai pubblicata nella sua totalità in epoca recente, è qui presentata al com­

pleto radunando le opere sparse nei musei di Londra, di Parigi e di Atene.

Le tavole a colori inserite nella prima parte dell'opera cercano di dare un'immagine viva dei mo­ numenti e del mondo che li circonda in tutte le stagioni. Chi conosce soltanto di sfuggita, in occasione di brevi viaggi, le località greche, quelle dell'Italia meridionale e della Sicilia o dell'Asia Minore, rimarrà forse meravigliato da molte di queste riproduzioni. Ma si deve tenere presente che non sempre è azzurro il cielo della Grecia e non sempre sorride la magia della primavera rinverdita. Anche la Grecia conosce nuvole e tempeste e conosce la calda estate col soffio affocato della luce e l'autunno con il paese bruciato dal sole. E vi è pure il fascino delle primissime ore dell'alba, l'intensità quasi eccessiva della luce poco prima del tramonto del sole, i colori che rivestono il mondo nelle ore del mezzogiorno. Voglio ringraziare soprattutto coloro che hanno reso possibile al sottoscritto la ripresa fotografica delle opere. In Grecia il direttore generale dell'antichità nel Ministero della cultura greca, dr. Joannes Papadimitriu, e il suo predecessore, il prof. dr. Spyridon Marinatos, come pure i direttori del Museo Nazionale e del Museo dell'Acropoli di Atene, prof. dr. Christos K.arusos e dr. Jannis Miliadis. In Italia il Soprintendente dr. Pellegrino C. Sestieri, Salerno; il prof. dr. Luigi Bemabò Brea, Siracusa; il dr. Pietro Griffo, Agrigento; e ancora in particolare il Soprintendente delle province di Palermo e Trapani, prof. dr. Jole Marconi Bovio che con gentilezza squisita mi ha dato il permesso di ripro­ durre il tempio di Era (E) di Selinunte ricostituito sotto la sua guida, prima di pubblicarlo lei stessa. Voglio ringraziare ancora il Direttore Generale della sezione delle Relazioni con l'Estero nel Ministero turco dell'Educazione Nazionale ad Ankara, signor Ferid Samer per il permesso delle riprese fotografiche a Pergamo, Sardi, Efeso, Priene e Mileto-Didime. Voglio ringraziare il prof. D. E. L. Haynes per il permesso accordato per le riprese fotografiche nel British Museum, Londra, Sezione delle antichità greche e romane, come pure per la concessione delle due fotografie del fregio della cella di Basse. Voglio ringraziare ancora il prof. dr. Friedrich Krauss, Istituto per le ricerche e la storia dell'archi­ tettura, Scuola Tecnica Superiore di Monaco, che mi ha generosamente messo a disposizione le piante e i disegni da lui eseguiti per la sua nuova pubblicazione sui templi di Paestum. Il mio ringraziamento vada anche al laureando in architettura signor Gert K.aster per l'esecuzione di numerosi nuovi disegni per questa opera. La maggior parte delle riprese fotografiche per questo libro è stata fatta dal sottoscritto in collabora­ zione con la signora Julia Petzi-Asen, mentre una parte considerevole è stata fatta in collaborazione col proprio figlio, lo studente Albert Hirmer. Voglio ringraziare qui ambedue, in particolare la prima a cui devo anche l'elaborazione del materiale fotografico.

Agosto r96r

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MAX HJRMER

STORIA E CULTO DEI TEM PLI E SANT U ARI GRECI di HELMUT BERVE

INTRODUZIONE

I SANTUARI PANELLENICI

II SANTUARI REGIONALI

III SANTUARI CITTADINI

I N T R O D UZI O N E

chi visita quei paesi del Mediterraneo che più di due millenni fa appartennero all'area di coloniz­ zazione greca, avviene in non pochi luoghi d'imbattersi in rovine, o almeno vestigia, di templi e santuari ellenici. Per il viaggiatore moderno essi sono monumenti memorabili. La loro posizione naturale incanta, la loro bellezza formale e perfezione tecnica suscita ammirazione. Ma della storia di questi luoghi e della vita religiosa che vi si svolgeva molti visitatori non avranno che un'idea vaga. Eppure soltanto queste cono­ scenze, a prescindere dall'effetto estetico, possono far parlare i monumenti di pietra di quel lontano pas­ sato, strappando loro il segreto di uno dei più meravigliosi fenomeni della storia spirituale dell'umanitA, A

la religione greca. Da questo punto di vista saranno spiegati nelle pagine che seguono templi e santuari greci, e in par­ ticolare quelli riprodotti nella parte illustrativa del volume. Certo cib significa che ci limiteremo ad illu­ strare una scelta di luoghi di culto famosi e ancora oggi ricchi di fascino. Ma anche se ci fosse possibile presentare un panorama di tutti i santuari oggi noti, esso non abbraccerebbe che una piccola parte di quelli giA esistenti nel mondo greco. Perché per gli elleni tutto il mondo era pieno di dèi, come attesta il più antico dei filosofi, Talete, e dovunque si sentisse la presenza operante di un nume, si invocassero i suoi favori o temessero le sue ire, il luogo veniva dedicato al suo culto. Su dirupi o su promontori a picco sul mare burrascoso, nel fitto misterioso delle selve, in gole e caverne, nel silenzio raccolto di un boschetto o nel mezzo di una pianura assolata e feconda, era percepibile la presenza di dèi e semidei. GiA nel remoto passato gli eroi sepolti nelle loro antiche tombe operavano influssi benefici o malefici; la protezione delle acropoli e delle cittA, l'attivi!A che si svolgeva nei mercati e nelle strade, le deliberazioni delle assemblee popolari e le consultazioni delle autoritA di governo, non potevano fare a meno della vicinanza, della tu­ tela e del consiglio degli dèi. Un luogo doveva essere consacrato al loro culto. Cosl madrepatria e colonie erano ricche di aree sacre ognuna delle quali, come possedimento della divini!A, costituiva quasi un settore separato (temenos) dal residuo terreno della comunità, e perciò era spesso recinto da un muro. Quando gli dèi si erano già da lungo tempo rivelati in sembianza umana e in più luoghi erano giA corporeamente presenti in una scultura, un'ara sacrificale o un tavolo votivo costituivano ancora l'unico inventario di molte sedi di culto. Ma se un dio abitava quasi fisicamente in un sito, è natu­ rale che esso avesse bisogno di una casa adeguata alla sua digni!A. l primi templi eretti nel secolo vm, e anche i posteriori, sia che fossero cinti di portico, sia che avessero altra struttura architettonica, furono sostanzialmente modellati sul tipo dell'antica casa signorile (megaron) col suo vano quadrangolare e l'atrio aperto, la cui fronte era sorretta da colonne. Non di rado anzi un tempio di simile struttura è stato costruito sulle fondamenta di una casa signorile. Essa era la dimora del dio, presente nella statua del culto, e non un luogo di riunione dei credenti per le pratiche liturgiche comuni; in genere non era nemmeno desti­ nata ai sacrifici. L'altare era anzi collocato davanti alla parete d'ingresso del tempio; in esso si entrava solo per pregare al cospetto della divinià o per deporre offerte non cruente su un tavolo. Doni di maggiori proporzioni, o di materiale durevole, venivano sistemati nei dintorni del tempio o in appositi Tesori, che II

come possedimenti del dio avevano la fonna di un piccolo tempio. Accanto a questi tesori e offerte sacre, per i quali poteva servire di custodia anche un locale situato dietro la ceiia, ve ne erano altri profani, che venivano affidati da privati o daiia comunità alla protezione del dio. Infatti era considerato crimine gra­ vissimo, destinato a sicura punizione da parte del dio, asportare violentemente oggetti o persone dall'area a lui consacrata. Dai tempi più remoti perseguitati e condannati vi godevano diritto di asilo. Gli atti di culto eseguiti nei santuari greci erano di vario genere, conformemente aiia diversità deiie preghiere e aiia diversità degli stessi dèi. Sacrifici se ne compivano naturalmente ovunque, sia dedicando alla divinità offerte incruente, frutti dei campi, focacce e simili, sia maceiiando la bestia da essa preferita e bruciandone parti prestabilite secondo i riti prescritti. Vario era il procedimento secondo che si offrisse

la vittima alle potenze sotterranee c deiia morte, o agli dèi della luce. Nel primo caso non era consentito mangiare la carne della vittima, perché cosi si sarebbe consacrata la propria persona alla morte. Nei sa­ crifici ai celesti invece il festino sacrificale aveva grande importanza, e ciò vale sia per l'ambito privato, dove la macellazione di ogni animale comportava un sacrificio, sia, e in misura maggiore, per le feste pub­ bliche, durante le quali si arrivava talvolta a macellare cento buoi (ecatombe) e i partecipanti erano am­ messi a cibarsi della carne. La vittima tuttavia non era soltanto un'offerta accompagnatoria della preghiera o del rendimento di grazie. Dalle viscere degli animali, o dal modo in cui il fumo si sollevava, era possibile

dedurre il favore o il disfavore degli dèi. In tal senso il sacrificio si legava alla disciplina oracolare che, per

quanto in altro modo, veniva praticata in molti luoghi di culto. Chi si avvicinava al nume nel suo sacrario per compiervi un sacrificio o per partecipare personalmente a un atto rituale, doveva essere puro nel senso cultuale, cioè soprattutto fisicamente puro e immune da delitto capitale o sacrilegio, il che significa che

abluzioni e, se necessario, espiazioni, dovevano essere effettuate prima di adire la presenza del nume. L'esi­ genza della purezza morale e della devozione genuina fu fatta valere già in epoca arca.ica dall' Apoiio delfico, ma

solo con l'interiorizzazione etica della religione greca in età classica penetrò piil largamente. Oltre ai sacrifici gli dèi ricevevano nei loro santuari, da privati, associazioni e organi pubblici, ab­

bondanti doni come ringraziamento dei favori largiti. Statue grandi e piccole della divinità adorata, tripodi di bronzo e bacini, armi strappate al nemico e monumenti finanziati con la decima agraria, col guadagno dei commerci o con le prede belliche, si accumulavano nelle aree sacre. Vi si aggiungevano statue di uomini e giovinetti, di donne e di fanciulle che rappresentavano i votanti. Non si trattava di ritratti naturalistici, ma di figure idealizzate di grande forza e pienezza vitale, delle quali gli dèi si rallegravano. � la stessa con­ cezione che troviamo a base delle gare ginniche, che

fin

dall'età arcaica non mancavano mai alle grandi

festività celebrate nelle sedi di culto famose. Senza dubbio in queste pratiche trovava soddisfazione lo spi­ rito agonistico proprio dei greci, e che essi manifestavano in tutti i campi della vita, ma che queste gare assurgessero a una delle più alte forme di adorazione del divino sta a dimostrare che non si concepiva dono piil alto ai celesti di questo : consacrare loro la perfezione delle membra umane e le prestazioni più emi­

nenti del corpo e dello spirito. Che poi il canto corale di inni, nei quali si celebrava la potenza del nume,

o fastose processioni, nelle quali si portava in giro il simulacro del dio e arredi sacri, fossero parte impor­ tante delle feste, non è una caratteristica specifica del costume greco. Lo è se mai il fatto che gli dèi ellenici, volti alla vita terrena e ad essa partecipi, gioivano della festa come tale, dei suoi banchetti sacrificali e del suo allegro frastuono che spesso si protraeva fino a tarda notte.

� il caso di dire ancora una parola sulla funzione e importanza dei sacerdoti nel culto greco. Un vero e proprio ceto sacerdotale, autorizzato con iniziazione speciale alla intermediazione fra uomini e dèi, o

magari necessario a tale rapporto, in genere non ci fu, né si richiedeva un particolare tirocinio per eserci­

tare il sacerdozio. l sacrifici potevano essere effettuati da qualsiasi padre di famiglia; quanto ai riti pre-

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scritti per le cerimonie pubbliche, vi erano spesso famiglie che se ne tramandavano la conoscenza di padre in figlio. Difatti il culto statale era stato un tempo appannaggio delle stirpi nobili, o addirittura si era for­ mato nell'ambito di una determinata stirpe, alla quale anche in seguito fu riconosciuto il diritto di espri­ mere dal proprio seno il sacerdote di una data divinità. Non di rado anche gli oracoli discendevano da una stirpe che si tramandava di generazione in gene­ razione l'arte di interpretare la volontà divina. Ma la maggior parte dei sacerdoti pubblici erano designati per sorteggio, a vita o per un anno, sicché in certo senso era la divinità stessa a scegliere i suoi servitori. La purezza intesa come assenza di difetti fisici, e per le sacerdotesse per lo più anche la castità, erano re­ quisiti indispensabili per ricoprire uffici sacri. Molti sacerdoti, specie quelli che nei misteri e nella divina­ zione erano in più stretto contatto con la divinità, avevano denominazioni varie, ma tutti si distinguevano dalla massa per la loro veste lunga, per i capelli lunghi, un bastone a forma di scettro e durante gli atti di culto per l'abbigliamento più sontuoso e la corona o l'infula sulla testa. Il fatto che in molte comunità il sacerdozio era venale e trovava compratori, testimonia il prestigio di cui godeva la dignità sacerdotale, e che la rendeva desiderabile; d'altro canto mette bene in chiaro quanto poco si potesse parlare di un ceto

o di una professione sacerdotale nel senso nostro. Le mansioni inerenti all'ufficio, fra le quali si annove­

ravano oltre ai sacrifici e ad altri riti e pratiche la custodia del tempio e dei possedimenti del nume - in

quanto non fossero espressamente affidati a speciali corporazioni - consentivano ai sacerdoti di dedicarsi nel tempo libero ad altre occupazioni, tanto più nei minori santuari. D'altronde essi, non diversamente dai detentori di altre cariche onorifiche, non erano regolarmente retribuiti, ma ricevevano parte della carne degli animali sacrificati, la loro pelle, e oltre a ciò tributi in natura o danaro. Pure, nelle maggiori sedi di culto, tali proventi erano cosi lauti, che potevano rendere ambita l'assunzione o la compera di una carica sacerdotale.

l maggiori santuari, sulla cui storia e vita religiosa riferiremo nelle pagine seguenti, mentre tralasce­

remo il campo delle pratiche private, erano generalmente sottoposti alle comunità stesse che li avevano istituiti o nella cui giurisdizione si trovavano, in quanto il culto pubblico con le sue numerose festività era considerato dai greci parte integrante degli ordinamenti politici. La maggior parte degli uffici sacri venivano assegnati dagli organi di governo della città; essi deli­ beravano le leggi sacrali, cioè definivano i tributi da devolvere a un determinato santuario, e non solo ad Atene gli affari del culto incombevano a uno dei più alti funzionari statali. L'allestimento delle grandi feste e l'aggiudicazione dei premi nelle gare spettava ad autorità statali o a speciali commissioni a ciò delegate. Nonostante gli stretti vincoli intercorrenti fra stato e religione, è consigliabile ai fini di una visione panora­ mica della cosa disporre la trattazione dei templi e santuari, alla quale ora ci accingiamo, non secondo le città-stato, ma secondo il posto che essi occuparono nel quadro complessivo della religiosità ellenica e il loro raggio d'azione. Perciò parleremo in primo luogo delle sedi di culto di riconosciuta importanza panel-· lenica, poi di quelle che furono il centro sacrale di una regione e spesso anche di un'area più ampia, infine dei santuari cittadini che per loro natura restarono essenzialmente legati all'ambito della polis. A questi ricollegheremo i teatri, per quanto ve ne fossero anche fuori delle città, in quanto le pratiche per le quali furono costruiti presero le mosse da una sede di culto cittadina, quella dedicata a Dioniso ad Atene.

IJ

L SANTU ARI PANELLENICI

Il fatto che già nell'antichità gli Epinici di Pindaro venivano raggruppati in odi olimpiche, pitiche, nemee ed istmiche dimostra che le gare disputate in occasione delle feste di Olimpia, Delfi, Nemea, ed

istmiche sopravanzavano in fama e importanza tutti gli altri agoni. Se pure la definizione di « feste na­

zionali », usata per queste quattro solennità, può essere considerata infelice in quanto l'applicazione del concetto politico di nazionalità alla Grecia è equivoca, è incontestabile che gli elleni, affluenti in gran nu­ mero da paesi vicini e lontani a quelle feste, nell'adorazione comune di una grande divinità prendessero assai più che altrove coscienza della loro unità spirituale e della loro appartenenza a una civiltà comune.

È

significativo inoltre il fatto che le quattro feste, dopo essersi svolte per lungo tempo come manifesta­

zioni locali e avere attratto gli abitanti delle regioni circonvicine, assunsero pressoché contemporaneamente,

nei primi decenni del VI secolo a C., gli ordinamenti e le caratteristiche

panelleniche che con­

serveranno in seguito. Era l'epoca in cui, prima che le città-stato completassero la loro formazione e assu­ messero una struttura chiusa, la società nobiliare legava insieme l'intero mondo greco in una rete di rela­ zioni familiari e personali cementate dalla comune visione della vita. Come luoghi di convegno e di gloriosa affermazione nella gara coi membri della stessa classe, i santuari panellenici hanno svolto una funzione unificatrice che si è poi trasmessa ai ceti borghesi insieme con l'appassionato slancio di partecipazione alle gare ginniche comuni, a onta del particolarismo ormai affennatosi col consolidamento delle città-stato.

OLIMPIA O madre degli agoni inghirltJruloti d'oro, Olimpia. Sr"gnora dello flerità dooe indovini chiedono al fulmintmte Zeus se egli luJ cura degli uomini eire aspirano 7U!l loro cuore a compiere gesta eroiche e a respirare dalle fatiche. PINDARO

Per il visitatore nordico l'ampio, dolce paesaggio alberato sul basso corso dell'Alfeo ha un'aria quasi familiare. I tratti che solitamente compongono il volto della Grecia, calve montagne scoscese, valli anguste, insenature profondamente addentrate nella terra, mancano nella parte nordoccidentale del Peloponncso. Solo ad oriente luccicano i contrafforti montuosi dell'Arcadia, e anche il vasto Jonio con la sua costa im­ portuosa sembra lontano, tanto che appena se ne intravede la superficie scintillante dalle alture al mar­ gine della valle. Anche storicamente l'Elide è rimasta estranea ai vivaci contrasti che animavano il centro dell'Ellade, ed ha condotto un'esistenza appartata e abbastanza tranquilla al margine dei grandi eventi. Forse proprio per questo ha potuto sorgere qui un centro, nel quale i greci, provenienti da una madre­ patria geograficamente e politicamente scissa, e dalle colonie della Magna Grecia e della Sicilia situate

oltre lo Jonio, si ritrovavano in un culto comune c al di là delle frontiere e delle diversità prendevano co-

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l

Olympia. Veduta da nord-ovest della collina di Crono, dell'Altis e della valle dell'Alfeo dall'altura che sovrasta Druwa

scienza della loro unità. Anche la struttura relativamente poco rigida dello stato tribale, che era propria dei greci nordoccidentali e degli elei ad essi ascritti, si presentava più propizia della polis jonica e dorica, con la sua personalità nettamente delimitata. Questi elei, come si chiamarono d'allora in poi dal nome della terra che li ospitò, erano immigrati

dal nord tra la fine del 11 e l'inizio del 1

millennio, ma

il

tratto meridionale della regione rimase ancora a lungo in possesso dei preellenici signori di Pisa, una lo­

calità poco distante da Olimpia, coi quali gli elei furono ripetutamente in lotta fino all'inizio del VI se­ colo per il dominio dell'area sacra sull'Alfeo e per la direzione dei giochi, che vi si disputavano da tempo.

È

possibile, anzi probabile, che gli immigrati fossero i primi a consacrare a Zeus quei luoghi e che poi gli

dessero il nome di Olimpia dall'omonimo monte della Tessaglia. Perché le più antiche feste qui celebrate non erano dedicate al dio del cielo, ma all'eroe Pelope, dal quale aveva avuto nome l'intera penisola del Peloponneso. In onore di questo eroe, che a suo tempo vin­ cendo Enomao re di Pisa in una corsa di cocchi aveva ottenuto in sposa sua figlia lppodamia, si svolge­ vano giochi funebri e si offrivano vittime presso la confluenza del Cladeo nell'Alfeo, in un'area sepolcrale

non edificata, ma cinta di mura, che al pari di alcune case vicine risaliva al Il millennio e fu conservata a lungo come venerata sede di culto. Il boschetto sacro che sorgeva all'intorno, l' Altis, era stato delimitato, secondo la leggenda, da Eracle

per suo padre Zeus. In ogni caso al più tardi dal principio del 1

millennio Zeus ne era il padrone;

nel suo mezzo vi era un'ara alla quale si offrivano sacrifici all'aperto e che per progressivo accumulo delle ceneri si innalzava continuamente. E come la collina selvosa situata al margine settentrionale dell'Altis era stata consacrata a suo padre Crono, anche la sua consorte Era, probabilmente per influsso dell'Ar­ golide, dove era tenuta da molto tempo in grande onore, ebbe posto nel santuario. Sembra che già nel­

l'vm secolo essa abbia ottenuto un tempio ai piedi della collina di Crono; al principio del VI secolo poi fu eretto al suo posto il lungo edificio dorico i cui resti sono ancora oggi visibili. Il simulacro collocato nell'interno raffigurava Era troneggiante, e accanto a lei Zeus. Quest'ultimo, il padre degli dèi, non posse­ dette per lungo tempo né tempio né statua del culto ad Olimpia, ma già prima del 6oo adoratori ricchi e potenti fecero erigere preziose statue di Zeus nei dintorni dell'altare. Olimpia non avrebbe certo assunto la sua eccezionale importanza nel mondo greco, né si sarebbe me­ ritata la sua fama ultramillenaria se i greci vi si fossero limitati ad offrire sacrifici al più alto dei numi o a interrogare l'oracolo, amministrato da una stirpe di indovini, gli Iamidi, che fu presto messo in ombra da Delfi. Sono stati gli a�oni, disputati prima in onore di Pelope, poi di Zeus, a trasformare la modesta loca­ lità sulle rive deii'Aifeo in un centro di relazioni religiose e sociali per tutti i greci al di qua dell'Egeo, grazie all'attrazione da essi esercitata sugli abitanti dell'intera madrepatria e delle colonie occidentali. Per quanto siano numerosi i centri e le feste, nei quali si usava dedicare agli dèi agoni sportivi, in nessun luogo come qui ad Olimpia si è manifestato in modo più grandioso il sentimento ellenico della bellezza corporea, il valore estetico ed etico della educazione delle membra, il potenziamento del proprio io nel­ l'alterno confronto delle forze. Secondo un'antica tradizione, la cui attendibilità non è tuttavia sicura, i giochi olimpici furono isti­ tuiti nell'anno 776 come festa quadriennale. Sta di fatto comunque che da questa data si fece cominciare in seguito la lista dei vincitori (olimpionici); questa indica come il più antico, e inizialmente unico agone, la corsa a piedi sul percorso di uno stadio (19z m). Se ne ricava contemporaneamente, che nel primo mezzo secolo i partecipanti provenivano in prevalenza dall'Elide stessa e dalle vicine regioni di Acaia e Messenia.

Ma presto la cerchia si allargò. Accanto agli spartani, cui nel VII secolo appartenne una parte consi-

J6

II

Olympia. Tempio di Era da nord-ovest

derevole dei vincitori, figurano anche ateniesi e abitanti delle città dell'Istmo, come anche greci della Magna Grecia e di Sicilia. Intorno all'anno 6oo Olimpia si è già affermata nell'ambito panellen.ico. Può

aver contribuito non poco a questo successo il fatto che nel frattempo ad Olimpia la festa, e in modo spe­

ciale le gare, avevano assunto sviluppo assai maggiore che in qualunque altro santuario. Alla corsa sem­ plice si era aggiunta la corsa doppia, che consisteva nel percorrere due volte lo stadio, all'andata c al ritorno,

poi la corsa di resistenza, che contemplava un percorso di ventiquattro stadi. Si erano aggiunte anche altre specialità sportive : il • pentatlo •. che consisten di corsa, salto, lancio del giavellotto, lancio del disco

e lotta; il pugilato semplice e il pancrazio, che univa lotta e pugilato. La corsa delle quadrighe - le bighe furono ammesse solo assai dopo - deve essere stata introdotta anche nel vu secolo, ma può anche darsi che fosse disputata già prima, secondo antichissimi usi, in onore di Pelope.

La partecipazione a questo complesso di gare, delle quali verso la fine dell'età arcaica entrò a far parte

l'oplitodromo o corsa a piedi in armatura pesante, era riservata agli uomini adulti, ma si dice che già prima

del 6oo anche a giovanetti fra i

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e i zo anni venisse concesso di cimentarsi nella corsa, nella lotta e nel

pugilato. Tuttavia, nonostante questi sviluppi, la corsa a piedi di uno stadio, che era l'agone più antico,

conservò il primato. Chi vinceva questa gara era considerato il vincitore olimpico per eccellenza, e da lui

prendeva nome l'Olimpiade, cioè lo spazio quadriennale tra una festa e l'altra. In seguito, poiché il mondo greco nel suo frazionamento mancava di una cronologia unitaria, la lista dei vincitori ha fornito agli sto­ rici antichi un mezzo utile per le determinazioni cronologiche. Nella vita pratica tuttavia la datazione non avvenne mai per Olimpiadi, ma sempre secondo i magistrati eponimi locali. Il luogo dove si svolgevano la maggior parte delle gare, era lo stadio, una pista fiancheggiata da ter­ rapieni, che ancora nel v secolo non si trovava fuori dell'Altis, anzi si estendeva fin nel cuore di questo, presso l'altare di Zeus, così che i corridori avevano il loro traguardo innanzi all'ara del dio, al quale ve­ nivano dedicate le prestazioni sportive. Per la corsa delle quadrighe serviva un ippodromo situato a sud dello stadio, del quale si è perduta ogni traccia in seguito a una deviazione del corso dell'Alfeo avvenuta nel Medio Evo. Della comodità dello spettatore non ci si preoccupava affatto; essi sedevano sui terrapieni lungo la pista, c solo per le autorità dirigenti i giochi veninno preparati posti speciali. I partecipanti alla festa non trovavano neanche alloggio.

Nella calda estate la moltitudine, che nell'età d'oro dei giochi, fra il VI e il v secolo, ammontava

a molte migliaia, si accampan a cielo aperto ali 'intorno. La gente più agiata si faceva preparare una abi­ tazione di tende. A quell'epoca i greci non erano viziati, e non si aspettavano niente di meglio. Del resto il loro animo di credenti era disposto ad ogni privazione, pur di poter assistere alla grande funzione pro­ piziatrice dci giochi. A questi era ammesso ogni elleno libero, purché non fosse macchiato di delitto ca­ pitale o di sacrilegio. Invece ai non greci, agli schiavi e alle donne - eccettuata la sacerdotessa di De­ metra - la partecipazione ai giochi era '"ietata sotto minaccia di gravi pene. Era un'autorità degli elei, il collegio degli Ellanodici, a vegliare sulla ossernnza di queste disposizioni; essa dirigeva la festa, assi­ stita da una schiera di funzionari minori. I membri di questo collegio, diversi per ogni festa, prendevano già dieci mesi prima dell'inizio i pronedimenti necessari, dapprima nella stessa Elide, poi ad Olimpia, dove si recavano in solenne corteo con la celebrazione dei rituali sacrifici. Chi desiderava prender parte alle gare, si presentava poco prima della data stabilita per la festa, che secondo le oscillazioni del calendario veniva celebrata ora in agosto ora in settembre. Qui proseguiva l'al­ lenamento cominciato in patria; se era ancora sconosciuto compi\'a i suoi esercizi sotto il controllo degli Ellanodici, i quali escludevano i concorrenti non sufficientemente qualificati. Quando poi si avvicinava il periodo dei giochi, gli araldi di Olimpia si mettevano in viaggio nel mondo greco per proclamare la tregua

18

sacra per tutta la durata della festa, più le settimane necessarie all'andata e al ritorno. Tutte le contese e le guerre dovevano essere sospese in questi giorni, affinché ognuno potesse recarsi senza impedimento al grande convegno panellenico. In un paese cosi litigioso e discorde come la Grecia, le ostilità furono sempre effettivamente interrotte durante la tregua sacra, almeno finché l'antica fede restò intatta. Ciò è dovuto evidentemente, più che al timore di venire esclusi dai giochi futuri in caso di violazione della tregua, al­ l'orrore religioso, alla paura di attirare su di sé l'ira del dio olimpico. Persino nell'anno 480, quando i per­ siani avanzavano dal nord, gli alleati di Sparta ritennero più importante di celebrare indisturbati i giochi olimpici che andare incontro ai persiani alle Termopili. Proprio per questo riconoscimento generale della tregua sacra, come anche per l'ammissione di tutti gli elleni alla festa e l'esclusione dei barbari, Olimpia dimostrò di essere il simbolo dell'unità dei greci. La festa, cui allluivano mercanti, ambascerie delle più svariate comunità, e la massa incalcolabile dei partecipanti, durava parecchi giorni; dopo il riordinamento avvenuto nell'anno 468 probabilmente più di una settimana. Per quest'epoca è già possibile ricostruirne con una certa approssimazione lo svolgimento. Il primo giorno non era ancora dedicato ai giochi. Prima si offrivano sacrifici alla tomba di Pelope e a di­ versi altari nell'Altis, poi davanti all'altare di Giove opx: agnur castus, arbusto delle verbenacee), il che lascia intuire che Era aveva raccolto qui l'eredità di una divinità arborea pregreca. Il sacro agnocasto stava vicino al suo altare, e anche statue più tarde della dea, per esempio quella famosa del Louvre, ci fanno pensare a un tronco d'albero per la loro caratteristica sa­ goma a colonna. Intorno all'anno 8oo fu eretto il primo tempio per ospitare la statua, un edificio della lunghezza di centi piedi (Ecatompedo) che non molto dopo fu circondato da un portico in legno. L'ipo­ tesi che certi riti documentati per epoche posteriori fossero praticati già ora, è autorizzata dal ritrovamento di un piccolo bacino, alimentato dalle acque del fiumicello lmbraso, nel quale veniva lavata la statua della dea. Nella prima metà del vn secolo il santuario aveva già raggiunto tale importanza, che fu edificato per Era un nuovo tempio più luminoso e un nuovo altare più grande ; inoltre il suo recinto sacro fu arric­ chito di un lungo portico destinato ai preziosi doni votivi, di parecchi altri impianti e di un arco trionfale, nel quale sfociava la Via Sacra proveniente dalla città. Nell'età seguente le donazioni divennero sempre più ricche : statue di Era, gruppi scultorei e giganteschi bacini bronzei, fra i quali uno offerto dal cittadino di Samo Coleo col guadagno dei suoi commerci marittimi che lo avevano condotto intorno al 6oo fino allo stretto di Gibilterra. L'Heraion era divenuto uno dei santuari più venerati dell'Egeo orientale quando, poco prima della metà del VI secolo, ci si decise a rinnovarlo radicalmente e a edificare alla dea un tempio che non doveva avere l'uguale in grandezza. Sotto la guida degli architetti Reco e Teodoro sorse una gigantesca costruzione di stile ionico; la cella a tre navate con ampio atrio era circondata da una doppia fila di colonne (diptero) in numero com­ plessivo di 108. La sola cella con l'atrio misurava settanta metri di lunghezza, l'intero edificio cento ; le co­ lonne erano alte quindici metri. Questo grandioso tempio di poros, nella cui navata mediana era collo­ cata una immagine di culto, accolse il primo esemplare degli splendidi altari ionici, lungo trenta metri e profondo sedici. Altre costruzioni sorsero inoltre, in parte erette sulle precedenti, fra cui un edificio si­ mile a un tempio, forse destinato agli agoni musicali per la grande festa della dea. Ma era appena stato completato il tetto dell'immenso tempio, che un incendio violento lo devastò. Probabilmente si sarebbe potuto restaurarlo, ma l'ambizione del tiranno Policrate, che regnava su Samo dal 538 circa, preferl una costruzione ex novo, per le cui fondamenta furono impiegati stilobati e lastre di pietra del vecchio tempio. Di dimensioni poco minori di questo e come questo in gran parte di poros, il tempio di Policrate fu ef­ fettivamente portato avanti, tanto che due generazioni dopo poteva destare la stupita ammirazione di Ero­ doto, ma come molte cattedrali del Medio Evo non fu mai completato. Comunque, per quanto in se­ guito sorgessero in questa sede anche altri edifici (fra cui i minori tempi i di Ermes e di Afrodite) il santuario di Era ha ricevuto la sua impronta fondamentale dal tempio policrateo, e in esso e nei suoi din­ torni si è svolto il culto della dea nell'età classica.

49

Due feste vi si celebravano ogni anno. La maggiore, chiamata Heraia, cominciava con una solenne pro­ cessione dalla città al recinto sacro. Come in Argolide, vi prendevano parte gli uomini atti alle armi in assetto di guerra, e anche a Samo si disputavano in onore di Era agoni ginnici e musical i ; su di essi purtroppo sappiamo ben poco. Siamo un po' più informati sull'altra festa (Toneia) cosi chiamata perché uno dei suoi riti consisteva nell'attorcigliare ramoscelli di agnocasto attorno all'antica statua del culto. Secondo la leg­ genda, a Samo Zeus avrebbe inseguito Era adirata e sfuggente e si sarebbe giaciuto con lei prima ancora di farla sua consorte legittima. Nelle Toneie si ripeteva in certo senso questo evento anno per anno, in quanto, purificando il simulacro della dea col bagno, le si restituiva la verginità perduta. Poi il simulacro veniva abbandonato in un luogo qualsiasi e dopo un po' ci si metteva alla sua ricerca, come se fosse effet­ tivamente sparito. Trovatolo, gli si offriva una focaccia e lo si rivestiva di ornamenti virginei e di ghir­ lande di agnocasto. Non si celebravano però le t nozze divine t, poiché l'accoppiamento di Zeus con la dea

era già avvenuto prima del matrimonio. Non sappiamo quale parte avesse in tali feste, e in generale in questo culto, la sacerdotessa, che portava il titolo di Euangelis (annunciatrice di bene) ; sembra che ella fosse assistita da un sacerdote, ma che l'amministrazione del santuario e dei suoi tesori spettasse fin dai tempi più antichi a un collegio di notabili di Samo. Vi apparteneva probabilmente anche Aiace, padre di Policrate ; un'iscrizione, incisa su una delle statue da lui donate, ricorda che egli votò a Era un decimo della sua preda di guerra e dell'introito delle sue spedizioni commerciali e piratesche. o La dea

di Samo •, come si amava chiamare la signora del santuario per analogia con • l'Argiva •·

era per i cittadini l'incarnazione divina della loro polis. Su una lastra contenente il testo di un trattato fra Samo e Atene, Era e Atena si porgono la mano al di sopra del testo. Del resto la dea, o per meglio dire il suo culto, veniva mescolato

in

vari modi alla vita politica. Policrate sfruttò il momento in cui

gli uomini atti alle armi erano assenti per la grande festa di Era per compiere il suo colpo di stato, e quando lo spartano Lisandro, dopo la caduta di Atene

(404)

costrinse anche Samo alla capitolazione e

fece rientrare gli oligarchi banditi, questi lo ringraziarono facendogli costruire un altare nel santuario e venerandolo come un dio nell'Heraia - che cambiò nome per l'occasione in Lisandreia - con agoni, sa­ crifici e peana. Dopo la caduta del superbo Lisandro, Era fu naturalmente restaurata nei suoi antichi diritti e ancora per tre secoli il suo culto conservò intatto il suo prestigio a Samo. In età ellenistica re e principi le furono larghi di doni ; alcuni assunsero persino la carica onoraria di direttore della grande festa e degli agoni. Si sforzarono anche di completare il tempio e di abbellirlo. Le colonne di poros furono sostituite con altre di marmo, delle quali una

è

ancora in piedi e annuncia da lontano il santuario, ma non si giunse

a fornirle di scanalature, come del resto anche altri lavori previsti non andarono mai a compimento. Il primo secolo della dominazione romana (dal

IJJ),

a causa delle spogliazioni commesse da alcuni

luogotenenti e potentati, provocò un declino del santuario; ne dà testimonianza uno scrittore, il quale ri­

corda che allora parti del tempio venivano impiegate come deposito di doni votivi. Con l'avvento di Au­

gusto la situazione migliorò, ma né la costruzione di due minori templi di marmo e di una scalinata di marmo all'ingresso del grande tempio, né l'accoglimento del culto di Asclepio e del culto imperiale nel recinto sacro possono cancellare l'impressione che l'età d'oro dell'Heraion di Samo fosse per sempre passata . Già prima della definitiva vittoria del cristianesimo, intorno al eruli e non

so

è

262,

esso

è

stato distrutto dagli

più risorto. Alla fine del VI secolo fu eretta sulle sue rovine una basilica cl istiana.

SANTUARI DI APOLLO DELO Ma a De/o trt, Febo, n'rtori più c� altrove il Tuo cuore, dove gli Ioni si adunano arJ'!Iolti in lunglu tJesti con i /oro figli e le donne onorate.

INNO OMERlCO

Quando Latona, la figlia del Titano, che era stata amata da Zeus, si vide vicina al parto, andò vagando all'intorno, perseguitata dalla gelosia di Era. Nessuno voleva accoglierla. Sull'isola di Ortigia, presso Delo, ella diede alla luce Artemide, ma Delo non volle permetterle di generare sul suo suolo anche l'altro ge­ mello; tanto grande era la paura suscitata dalla collera di Era. Allora Latona promise che il dio al quale ella dava la vita avrebbe preso sotto la sua protezione un grande tempio ; gli uomini vi sarebbero accorsi da tutto il mondo per celebrarvi i sacrifici e le feste e gli abitanti dell'isola, finora povera e infeconda, ne avrebbero tratto abbondanti benefici. Allora Delo diede il suo consenso. Vennero tutte le dee, tranne Era, anche la protettrice del parto Ilizia, e furono presenti nel momento in cui Latona, aggrappandosi a una palma, diede alla luce Apollo. D'allora in poi la piccola isola fu sacra ad Apollo, anzi divenne uno dei più grandi santuari del mondo greco. Ad esso fecero capo le altre isole circostanti dell'arcipelago delle Ci­ dadi, abitate da ioni. Già nel n millennio, se non prima, deve esserci stato a Delo un centro di culto. Ruderi edilizi e una tomba a cupola dell'età micenea, nella quale qualcuno volle vedere il sepolcro delle vergini iperborec condotte da Latona nell'isola, non consentono certo di stabilire se a quel tempo si adorava in Delo una di­ vinità femminile pregreca che poi in seguito assunse la figura di Artemide, oppure Apollo e sua sorella. È tuttavia certo che i due gemelli furono oggetto di culto, e ricevettero sacrifici a Delo fin dall'epoca del­ l'invasione dorica. Comunque, su una bassa terrazza situata poco più su della baia, nella parte occidentale dell'isola (che misura in tutto solo 3,6 kmq), sorgeva intorno all'anno 8oo un altare di Artemide e pro­ babilmente già un primo tempio di Apollo. Presto il santuario divenne il centro religioso delle Cicladi, e gli abitanti ionici dell'arcipelago si associarono in una anfizionia simile alla Lega di Delo allo scopo di pro­ teggerlo, di amministrare il patrimonio del dio e di organizzare le grandi feste. Persino l'Inno omerico ad Apollo testimonia che a partire dall'viii secolo un certo numero di edifici furono costruiti non solo sull'antico luogo di culto, ma anche nei dintorni più o meno vicini. Da soli, i pochi abitanti di Delo non sarebbero stati in grado di farlo. Prima di tutti si segnalarono i nobili della ricca isola di Nasso per la co­ struzione di un portic e per i ricchi doni votivi offerti, fra cui una statua colossale di Apollo. Probabilmente furono anche gli anfizioni a votare un tempio ad Artemide, e uno ad Era, per placarnc le ire. La sua dimora sorgeva sulla salita dd monte Cinto, la cima che dall'altezza di un centinaio di metri domina tutta l'isola, e sulla quale venivano adorati Zeus, padre dei gemelli divini, c sua figlia Atena. Anche Latona ottenne un tempio nel VI secolo, propriamente non lontano dal Lago Sacro, situato a nord del recinto di Apollo, dove essa secondo la tradizione avrebbe generato il dio. Cigni e oche animavano le acque del lago, e su di esse guardavano, da una Terrazza dci leoni situata sulla Via Sacra, una serie di leoni marmorci, opera veramente unica dell'arte greca del vn secolo. Lo stesso Apollo però, che finora aveva dovuto conten­ tarsi di un vecchio e primitivo tempio c di un Altare delle Corna davanti al quale veniva eseguito il ge­ ranos o danza delle gru, non molto dopo il 550 si trasferl in una nuova dimora, un tempio di calcare ; qui una statua alta otto metri raffigurava il dio con le Cariti sulla mano. Questo edificio, che in prosicguo di

tempo fu fiancheggiato dai Tesori, sorgeva vicino al vecchio recinto, che era stato ampliato a causa del crescente numero di doni votivi, di visitatori e di fedeli. A quel tempo la ionica Atene, che ogni anno inviava una ambasceria alla grande festa di Apollo, aveva già un posto importante a Delo. Non molto tempo dopo, il tiranno Pisistrato purificò addirittura l'isola votata al etio della purezza facendone asportare tutte le tombe. Anche Policrate di Samo ebbe cura del santuario, al quale aggiunse la vicina isola di Reneia, ma con l'ascesa della Lega attica, a partire dal soo, questa ebbe il sopravvento. Ciò avvenne specialmente quando Delo, che nella sua debolezza si era assog­ gettata ai persiani e con ciò aveva ottenuto che i suoi luoghi sacri fossero rispettati nel 490,

fu

designata

a centro sacrale della Lega marittima dominata dagli ateniesi (478-7) come lo era stata dell'antica anfi­ zionia. Questo fatto ebbe effetti positivi e negativi : da un lato si accrebbe la fama e la prosperità economica dell'isola sacra come centro di adunata dei delegati di tutta l'area egea, dall'altro l'amministrazione dei fondi federali depositati nel tempio di Apollo

fu

soro

fu

affidata a mani ateniesi.

E

anche quando, nel 454• il te­

trasferito ad Atene, la tutela, anzi il dominio di Atene su Delo non venne per questo a cessare.

Nel 425 gli ateniesi sgomberarono nuovamente dal paese le tombe e vietarono ai cittadini di Delo di morire sull'isola. Poco dopo, ma per breve tempo, fu persino evacuata l'intera popolazione dell'isola e, sebbene

già prima del 454 gli anfizioni avessero iniziata la costruzione di un secondo tempio per la custodia della

cassa federale,

fu edificato un terzo tempio in onore di Apollo, il • Tempio degli Ateniesi •, mentre l'opera

degli anfizioni rimase incompiuta fino all'età ellenistica. Il crollo della potenza ateniese (404) procurò ai cittadini di Delo solo pochi anni di relativa indipen­

denza sotto la protezione di Sparta. Poi l'isola, e con essa il santuario, ricadde sotto la dominazione di

Atene, e nonostante gli sforzi per liberarsene, vi rimase fino al 314. In età classica, in verità, l'isola non mai territorio ateniese, ma il suo rapporto con Atene

fu

fu

simile a quello in cui si trovava Eleusi. Nell'una

come nell'altra, Atene fece praticamente proprio il prestigio panellenico delle feste. Fra le innumerevoli feste che venivano celebrate in onore dei singoli dèi adorati a Delo, quelle di Apollo superavano le altre, anche quelle per il genetliaco di Artemide, per importanza e splendore. Le feste

in

onore di Apollo erano soprattutto due : le Apollonie e le Delie. Le prime avevano luogo in maggio,

le seconde, istituite dagli zteniesi nel .p6, ogni quattro anni a febbraio. Naturalmente non mancavano nelle Apollonie, come nelle rimanenti grandi feste elleniche, processioni, abbondanti sacrifici con seguito di banchetti, agoni ginnici di uomini e di giovinetti ed agoni ippici. Ma la nota particolare in questo caso era data dalle esibizioni musicali, che a Delo erano in primo piano, ancor più che a Delfi. Oltre alla già citata danza delle gru che si svolgeva attorno all'Altare delle Coma e ad altre danze, al etio venivano of­ ferti i canti dei gruppi corali giunti per la gara dalle città dell'anfizionia. La sola Atene, che già nel VI secolo mandava una sua delegazione a Delo, presentò in seguito quattro cori virginei (Deliacti) che ga­ reggiavano fra loro. Finché la delegazione era presente alla festa, in patria non potevano essere pronun­ ciate sentenze di morte, perché questo avrebbe contaminato la purezza di Apollo. Perciò Socrate dovette attendere qualche tempo per ricevere la morte. Ancora più splendida era la celebrazione delle Delie, istituite dagli ateniesi e considerate una delle loro feste di stato ; non vi si festeggiava solo Apollo, ma anche altri dèi; per esempio, sulle llrme delle Dio­ nisie ateniesi, un simulacro di Dionisio prendeva parte alla processione montato su un carro a forma di nave. Mentre per solito le navi parate a festa approdavano nel porto vicino all'antico santuario, nell'anno 418 la nave della delegazione ufficiale attica si ancorò davanti alla vicina isola Reneia ; di qua fu gettato durante la notte un ponte di barche tra Reneia e Dclo, perché vi passasse l'indomani la solenne proccs-

52

IX

Dclo. Uno dci leoni lungo la Via della processione che conduce al Lago Sacro

sione diretta ai luoghi sacri. Ancora nel IV secolo gli ateniesi trasportarono sull'isola una intera ecatombe

di

manzi in occasione delle Delie, e li sacrificarono al dio.

Negli anni dopo la morte di Alessandro, finita la potenza marittima attica, le Delie non furono più

celebrate e Atene non profuse più il suo denaro per la manutenzione o l'abbellimento del santuario. Questo tuttavia trovò poco dopo un nuovo mecenate, rispettoso della sua autonomia amministrativa, nel diadoco Antigono, che nel

315

fece rivivere l'antica anfizionia delle Cicladi in una Lega dei greci delle isole (Ne­

sioti) sotto il suo protettorato. Suo figlio Demetrio Poliorcete fece erigere un ampio edificio a forma di sala,

che fu completato verso la metà del 111 secolo dal nipote Antigono Gonata. Esso conteneva un'intera nave da guerra, come dono votivo e insieme come trofeo della vittoria navale riportata su Tolomeo re di Egitto, che per un certo tempo aveva assunto il protettorato sull'isola. Lo stesso Antigono inoltre diede un compimento scenografico al sacro recinto, ampliato ancora una volta, facendovi costruire un grande portico sul lato nord. Anche i Tolomei e i rodi, successi a loro intorno al 200 nella direzione della Lega dei Nesioti, come anche i romani nei primi tempi del loro dominio suli'Ellade, offrirono doni votivi ad Apollo Delio. Nel secolo e mezzo di forrnale indipendenza a partire dal

314

la vita religiosa dell'isola si è più ancora arric­

chita dal punto di vista esteriore. Già a cavallo fra il IV e il 111 secolo Asclepio, figlio di Apollo, ot­ tenne un santuario. Non molto dopo fu costruito a Zeus un altare e un tempio sul Cinto ; alcuni decenni

più tardi fu eretta una nuova dimora per Artemide e il suo recinto fu munito di portico. Inoltre i rapporti coi Tolomei e l'importanza che assunse Delo in quest'epoca come nodo commerciale del Mediterraneo orientale ebbe per conseguenza l'accoglimento di divinità forestiere, specialmente egiziane, come Sera­ pide, Iside, Anubi. L'isola sacra ad Apollo, che da tempo immemorabile aveva ospitato numerosi dèi,

sembrò trasformarsi in un Panteon interilll2ionale, rigurgitante di doni preziosi e di guadagni commer­

ciali. Se già nel IV secolo i templi avevano posseduto vasti beni fondiari e considerevoli capitali, e ave­

vano ricavato grandi rendite dal prestito di danaro, ora tale ricchezza crebbe ancor più, non senza pen­ colo per il sentimento religioso. Dopo la vittoria di Pidna sui re dei macedoni Perseo

(168)

i romani sottoposero nuovamente Delo

agli ateniesi, ma gli conferirono la condi2ione privilegiata di porto franco. A spese di Rodi, che i romani vollero abbattere, e profittando della distruzione di Corinto avvenuta nel

146,

l'isola divenne il centro

principale del commercio fra l'Italia e l'Oriente fino al principio del 1 secolo. Certo, i deli non tras­ sero alcun vantaggio da questa fioritura mercantile, poiché essi furono evacuati in massa e sostituiti da im­ migranti attici. Ma anche questi costituivano solo una parte della popolazione. Mercanti di tutto il mondo, specialmente romani ed italici, si erano stabiliti da tempo sulla piccola ma lucrosa isola, il cui mercato degli schiavi era divenuto il più grande dell'Oriente. Avvenne spesso che essi si unissero in proprie as­ sociazioni, sotto la protezione degli dèi nazionali, sicché i culti greci originari corsero il rischio di essere soffocati da questa invasione forestiera. Ma i cambiamenti non furono solo questi. Sull'isola che un tempo era sacra ad Apollo, si era formato

dal 111 secolo in poi un agglomerato cittadino di notevoli proporzioni, mentre la costruzione di edifici

sacri era cessata ; l'antico carattere lentamente si perdeva, il sacro arretrava sempre più davanti all'avan­ zare dei mercati. Finché i massacri e i saccheggi perpetrati dalle truppe di Mitridate, che invece in tempi precedenti aveva inviato doni come tanti altri despoti ellenistici, non misero bruscamente fine

(88)

anche

alla prosperità economica. Le devastazioni operate dai pirati e dalle guerre civili romane fecero il resto. Delo non si risollevò né come centro commerciale né come centro religioso, per quanto delegazioni ate­ niesi tornassero a visitarla e l'imperatore Adriano si sforzasse di rianimame i culti. Non molto dopo la

54

morte di Adriano un contemporaneo trovò l'isola pressoché vuota. Di Il a poco Atene tentò addirittura di venderla, ma non si presentò nessu n compratore. Già prima della vittoria del cristianesimo il santuario, era morto. I suoi edifici in rovina, nei secoli successivi, saranno usati come cave di pietra dai veneziani, dai turchi e dagli abitanti delle isole vicine. DI DI ME Fino ad oggi di tutti gli oracoli greci cM conosdilmo, dopo Delfi, quello dei Branch1'di è senza dubbio il più possente. CoNoNE (int. al zs a. C.) Se

Delo era sacra più di ogni altra località come terra natale di Apollo, Didime passava per il più im­ portante oracolo del dio sul suolo dell'Asia Minore. Il luogo, in posizione dominante su un'altura presso la costa anatolica a sud di Mileto, veniva spesso chiamato Branchidi dal nome della stirpe sacerdotale ivi affermatasi, e probabilmente era sede di culto già prima che i greci (dopo la metà del n millennio) si stabilissero a Mileto. Suo signore divenne prima o poi Apollo ; già ai primordi dell'età arcaica il suo ora­ colo veniva consultato in questo luogo da tutti gli elleni dell'Egeo orientale, e poco dopo esso cominciò ad attirare anche visitatori non greci da presso e da lontano. Già intorno al 6oo il faraone Neco vi spedl doni, e dei vicini re lidi non fu certo il primo Creso (560-546) ad esternare la sua gratitudine con ricche offerte. L'alto prestigio che Didime godeva a quel tempo si rispecchia nella grandiosità architettonica del santuario. Una Via Sacra lunga 18 chilometri congiungeva Mileto alla collina dove sorgeva il santuario, passando per il porto di Panormo, dove certo sbarcavano molti dei pellegrini giunti per mare. L'ultimo tratto della Via Sacra era fiancheggiato da statue marmoree sedute a grandezza maggiore della naturale, sfingi e leoni, che erano state dedicate al dio da adoratori non meno ambiziosi che riconoscenti. Il tempio, del quale il Museo pergamense di Berlino serba ancora splendidi elementi architettonici, conteneva la statua bronzea (opera di Canaco di Sicione) di Apollo Filesio ; cosi infatti veniva chiamato il dio quale protettore del giovane favorito Branco, capostipite dei Branchidi. Sulla trabeazione dell'edificio, e nel circostante boschetto, facevano il nido passeri ed altri uccelli, protetti dalla sacertà del luogo. Una fonte, che si di­ ceva proveniente da una fessura della roccia, forniva l'acqua alla sacerdotessa (Profetis) che ne beveva prima di render nota la risposta del dio, esattamente come la Pizia a Delfi dalla fonte Cassotis. E come a Delfi, anche qui la profetessa era coadiuvata da un profeta, nominato annualmente, che era a capo del personale del santuario. In complesso noi sappiamo ben poco degli oracoli qui impartiti ; la redazione scritta del responso era affidata al profeta, e quest'uso deve risalire al vi secolo, sebbene le testimonianze siano posteriori. Non è neanche possibile definire l'azione morale svolta dai Branchidi, poiché siamo quasi del tutto all'oscuro circa gli oracoli impartiti a quell'epoca. Persino i riti che non riguardano direttamente la consultazione ci sono pressoché sconosciuti. Certo, oltre le feste minori, si allestiva in onore di Apollo una grande festa annuale; una processione di milesi, il cui patrono era Apollo Delfinio, raggiungeva il santuario lungo la Via Sacra ; dopo di che nell'area del tempio si disputavano agoni, fra i quali in ispecie la corsa della fiac­ cola. Sappiamo anche con sicurezza che alla vigilia della insurrezione ionica, che doveva essere la sua rovina come lo fu di Mileto, Didime era eccezionalmente ricca di doni votivi e di altri tesori. Infatti i persiani, che tennero sotto il loro dominio i greci dell'Asia Minore dal 545, non solo ave­ vano rispettato i santuari locali, ma all'occasione avevano dato loro segni tangibili di riconoscenza. Ciò avvenne anche per i Branchidi. Tuttavia quando gli ioni, e innanzi a tutti i milesi, si ribellarono nell'anno 55

;oo,

i Branchidi, benché avessero respinto il consiglio del loro famoso concittadino Ecateo, di finanziare

la lotta con i tesori di Didime, furono considerati complici deUa rivolta antipersiana, a ragione o a torto non siamo in grado di stabilire. Fatto sta che, soffocata la rivolta nel

494,

il tempio di Didime fu distrutto

insieme con la città di Mileto e i sacerdoti furono trasferiti a Susa insieme col simulacro del dio e con i tesori. D'allora sembra che la voce dell'oracolo abbia taciuto per un secolo e mezzo e sia tornata a risonare solo all'epoca di Alessandro, quando essa confermò al re la sua discendenza da Zeus Ammone e gli predisse

le future vittorie (331 ). In realtà, per il periodo intermedio mancano completamente le testimonianze, sia

letterarie che archeologiche. Ma da Alessandro Magno in poi si torna a parlare dell'attività dell'oracolo,

e gli scavi hanno dimostrato che nell'ultimo terzo del IV secolo ci fu una ripresa di operosità edilizia. Dapprima sorse un tempietto (Naiskos) destinato ad accogliere l'antico simulacro che Seleuco I aveva ricondotto a Delo da Susa poco dopo il 300. Il re e suo figlio Antioco

l

promossero poi la costruzione di

un santuario che emulava in dimensioni e in splendore il risorto Artemision di Efeso e I'Heraion di Samo.

Questo tempio ionico misurava quasi 1 10 metri di lunghezza e S I in larghezza ; il sllo stilohate di sei gra­

dini, al quale dava accesso una scalinata, sosteneva un doppio colonnato, per un totale di 108 colonne alte

circa 20 metri. Nel fondo del pronaos, che aveva altre dodici colonne, si apriva una grandiosa finestra-portale

verso una sala, nella quale non si poteva tuttavia entrare direttamente. Per entrare nell'adyton, una enorme corte scoperta situata

4

metri e mezzo sotto il livello della sala e circondata dalle alte pareti della cella,

si doveva passare per due corridoi laterali, girando quasi intorno alla sala, che comunicava con l'adyton per mezzo di una scala. Nell'adyton si trovava il tempietto di cui si

è detto,

e anche il luogo dove operava

l'oracolo e la fonte sacra dovevano trovarsi là. Sembra invece che la redazione dei responsi scritti avesse luogo in una • casa del profeta • situata vicino al tempio. Capitelli, stilobati e frammenti del fregio a festoni,

interrotto da teste di medusa, danno ancora una idea della eccezionale ricchezza ornamentale del san­

tuario. Per rivestire di avorio le porte che dalla sala menano all'adyton, il Tolomeo mandò intorno al so a. C. trentacinque g�andi zanne di elefante.

A quel tempo il tempio di Didime non era compiuto, 3112i non lo fu mai, sebbene vi si lavorasse an­ cora nell'età imperiale romana. Il luogo sacro frul dei favori dei Seleucidi e di altri despoti ellenistici. Pa­ recchi di essi consultarono l'oracolo, sicché questo continuò a fiorire e nonostante il saccheggio subito a opera dei galati nel 277 e due secoli dopo dei pirati, nel santuario tornarono ad accumularsi ingenti te­ sori. Un numeroso corpo sacerdotale con molto personale provvedeva al culto ; alle feste annue, che ven­ nero nuovamente in onore, si aggiunse una festa quadriennale ancora più fastosa, le Grandi Didimee.

Anche sotto la dominazione romana il santuario serbò il suo prestigio, ma naturalmente dové fare conces­ sioni al culto imperiale e alla vanità di singoli cesari. Per esempio Caligola volle completare il tempio, ma pretese contemporaneamente di prendere il posto di Apollo, e sotto il figlio degenere di Marco Aurelio le Grandi Didimee furono celebrate col nome di Feste di Commodo. Ancora Diocleziano, per legittimare dal punto di vista religioso la sua g�ande persecuzione dei cristiani (303) chiese un responso all'Apollo Didimeo; Giuliano poi, nel suo sforzo romantico di rianimare l'antica fede, assunse addirittura la mansione di profeta del santuario, e allontanò dai dintorni i luoghi di pre­ ghiera cristiani. Pochi decenni più tardi, quando i culti pagani furono vietati, l'oracolo tacque per sempre. Nel gi­

gantesco edificio, la cui fronte era già stata deformata nel 111 secolo da un muro di difesa eretto contro la minaccia gotica, si annidò una basilica cristiana, circondata dalle immani pareti della cella. Queste crol­ larono solo nel 1453, in seguito a un terremoto.

SANTUARI DI ASCLEPIO Grande tUlizia degli uomini, tu che mitighi le aspre sofferenze, lode anche a Te, Signore ! lo Ti prego col canto l

sia

INNO OMERICO

Asclepio (Esculapio) nacque dalle nozze di Apollo con Coronide, figlia del re di Tessaglia. Apollo fece uccidere la madre del bambino, che gli era stata infedele, da sua sorella Artemide, ma salvò

il bam­

bino e lo affidò alle cure del centauro Chirone, che gli insegnò l'arte medica. Ma quando Asclepio, dive­ nuto maestro della medicina, osò richiamare in vita un morto, fu fulminato da Zeus, che contemporanea­

mente lo trasformò in dio. l suoi figli Macaone e Podalirio presero parte come medici alla gueiTll contro

Troia, e ancora in età storica le stirpi mediche degli Asclepiadi, soprattutto quella di Coo (che derivava

da lppocrate) si vantavano di discendere da lui. Nondimeno, fino a tutto il v secolo, Asclepio è stato

messo in ombra da suo padre Apollo, il possente e luminoso dio della medicina, e solo nella città tessala di Tricca è stato oggetto di un culto particolare. Solo più tardi, in un'epoca che aspirava a un più intimo contatto con gli dèi e ad una personale assistenza da parte di questi, i greci si rivolsero al medico divino, c

il suo culto si diffuse a tal punto dal IV secolo in poi, che noi abbiamo notizia di circa duecento san­

tuari di Asclepio. Occupano

il primo posto fra questa moltitudine quelli di Epidauro, nel nordest del Pe­

loponneso, di Coo, un'isola posta presso la costa dell'Asia Minore a sud di Didime, e di Pergamo, che si

trova all'altezza di Lesbo sul continente anatolico. Come la maggior parte dei recinti del dio guaritore, essi sono situati fuori delle città, in contrade salubri e ricche di sorgenti, e presentano caratteri comuni anche nella posizione naturale. In una valle tranquilla, a due ore di viaggio dalla città portuale di Epidauro sul Golfo Saronico, fu venerato dapprima Apollo, che aveva preso il posto di un eroe indigeno di nome Maleate ; e si continuò a rendergli onore, insieme con la sorella Artemide, anche più tardi, quando suo figlio Asclepio venuto da Tricca aveva ottenuto nel IV secolo un grande santuario. Ciò che oggi suscita l'ammirazione del visi­

tatore, il più bel teatro del mondo greco, allo stesso modo dello stadio e della palestra non è in certo senso che un edificio accessorio, eretto appena al principio dell'età ellenistica per gli agoni musicali, che si erano aggiunti a quelli ginnici e ippici risalenti al culto dell'eroe Maleate. Monumenti essenziali erano piuttosto l'area sacra, circondata da un muro, e specialmente l'altare e il tempio di Asclepio ornato di sculture fron­ tonali, ove si trovava la statua criselefantina del dio bonario e barbuto ; la fontana sacra coi lavatoi, nonché grandi portici da riposo, in parte a due piani, dai quali il malato poteva rivolgere lo sguardo alla dimora del divino risanatore, e una costruzione rotonda (tholos) decorata con particolare magnificenza. Sia ester­ namente che internamente, le sue pareti erano fiancheggiate da colonnati; nel mezzo del pavimento una apertura lasciava scorgere il sotterraneo, consistente di cunicoli concentrici collegati da un passaggio. A che cosa servisse l'edificio è tuttora un enigma. Vi erano custodite le serpi, le bestie taumaturgiche di Asclepio ? O

il malato doveva percorrere quel labirinto per fruire dell'azione risanatrice del dio 1 Non lo sappiamo,

cosi come non sappiamo quale fosse l'« abaton •, dove i malati si coricavano per immergersi nel sonno guaritore. Sembra che ce ne fossero parecchi. Ne sono indizio sia l'esistenza di un albergo di 160 stanze, sia l'abbondanza di doni votivi che si accumulavano nel santuario. L'afflusso è continuato fino alla vittoria del cristianesimo, che travolse anche l'Asclepieion di Epidauro.

Nell'isola di Coo solo alla fine del IV secolo a. C., su una pendice a una certa distanza dalla

città, fu costruito ad Asclepio un piccolo tempio ionico con un grande altare davanti. Prima, e dunque

57

anche al tempo del celebre Ippocrate (450 circa-370) il dio taumaturgo Apollo e suo figlio erano adorati

soltanto in un boschetto di cipressi. Nel 11 secolo i modesti edifici situati su un rialzo artificiale non bastavano più; si costrul allora più a monte una vasta terrazza, alla quale si accedeva dalla vecchia sede mediante una scala scoperta, interrotta da un'arcata. Là, in mezzo a una vasta corte alberata di cipressi e delimitata per tre lati da lunghi portici

di

riposo, si ergeva un tempio dorico in marmo. Neanche qui

mancava la fontana sacra, la cui acqua derivava da un impianto idrico facente capo a una fonte duecento metri più su. Non siamo più in grado di stabilire dove si svolgessero gli agoni ginnici e musicali coi quali si ono­

rava il dio nelle Grandi Asclepiee, celebrate dal 253 in poi ogni quattro anni. Quanto alla festa del • Ritro­

vamento del bastone •, cioè del ritrovamento del bastone di Asclepio che si rinnovava ogni anno, essa era

già in uso al tempo di Ippocrate, e sembra che si celebrasse dapprima nel boschetto, poi nella corte dei

cipressi. Ma l'Asclepieion di Coo ha goduto di alto prestigio nel mondo greco e romano anche a prescindere

dalla sua importanza come luogo di cura e sede di feste. Il recinto sacro era pieno di doni votivi offerti da

principi e da privati, di lapidi contenenti leggi profane e religiose o delibere dell'assemblea. Poiché la sua inviolabilità (diritto di asilo) era riconosciuta per trattato da molti stati, e più tardi venne confermata dal­ l'imperatore Tiberio, sia gli elleni che gli orientali vi depositavano i loro tesori. I terremoti, che un tempo funestavano l'isola, non hanno potuto pregiudicare la fama e l'attrattiva del santuario, che ancora in epoca romana fu ampliato con la costruzione di numerosi edifici.

Risale al IV secolo a. C. anche l'Asclepieion situato non lontano dalla città di Pergamo; si racconta che il culto del dio vi fosse portato da un uomo che era stato curato e guarito ad Epidauro. Il re­ cinto costruito successivamente sotto i re di Pergamo, dove non si adorava soltanto Asclepio, il • Salva­

tore • (Sotèr), ma - come ad Epidauro - anche Apollo e la dea della salute Igea, oltre alla fonte sacra

aveva anche altre fontane per le abluzioni e appositi locali per il sonno d'incubazione. Non trascurato, ma nemmeno arricchito durante i primi tre secoli della dominazione romana, fu splendidamente ampliato

nel 11 secolo d. C.,

quando il desiderio di guarigioni miracolose si accrebbe di

pari

passo con

le tendenze mistiche. Chi veniva dalla città per la Via Sacra, allora fiancheggiata da arcate, attraversava una corte circondata di colonne, poi un arco pomposo, e infine entrava nella vasta piazza, che solo dal lato

di accesso non era chiusa da portici. Qui invece, sulla sinistra, si trovava un tempio rotondo simile al Pan­

teon di Roma e consacrato a Zeus-Asclepio, poiché il potere del dio risanatore sembrava pari a quello di Zeus. Un edificio rotondo con sei absidi, che sorgeva a poca distanza e che era di poco posteriore, ser­ viva probabilmente, o almeno i suoi sotterranei, alle abluzioni e alle cure; difatti un lungo corridoio sot­ terraneo lo metteva in comunicazione con la fonte sacra, che occupava il centro dell'intero santuario ed era incastonata in una bella cornice architettonica.

l

locali vicini alla fonte, destinati al sonno curativo, fu­

rono poi ampliati, ma in complesso l'antico luogo di culto non subl mutamenti degni di nota. Invece dietro il portico settentrionale fu eretto un teatro, e alla sua estremità occidentale una biblioteca, istituzione che del resto non mancava nemmeno, in quel tempo, nelle �andi Terme di Roma. I tre santuari di Asclepio si differe02iarono sia per i metodi di cura, sia per l'epoca in cui fiorirono,

e cioè : Epidauro nel IV secolo, Pergamo durante il tardo impero, Coo nell'età ellenistica. Mentre Epidauro faceva assegnamento sull'operazione miracolosa, e in questo senso ricorda luoghi come Lourdes, a Coo, sede della celebre scuola medica, si procurava la guarigione mediante procedimenti medici veri e propri. Anche qui, tuttavia, era esse02iale l'azione del dio ; come il poeta canta ciò che gli hanno ispi­ rato Apollo o le Muse, cosi il medico deve la sua arte ad Asclepio, che gli consente di individuare i sin­ tomi del male e di prendere le misure idonee a debellarlo. Ma a Pergamo, dove al tempo della massima

ss

estensione del santuario viveva Galeno, il rinnovatore della medicina ippocratica, la guarigione miracolosa mediante il sonno o altri procedimenti fu sempre strettamente collegata al trattamento medico. Il retore Elio Aristide, contemporaneo di Galeno, racconta non senza ironia come egli su comando del dio dovesse strofinarsi il corpo col fango della fonte sacra, fra le raffiche della tramontana gelata, correre tre volte in­

torno al tempio e poi lavarsi alla fonte, oppure, tutto coperto di fango, coricarsi in un portico invocando il dio. Altri due pazienti non resistettero alla cura ; lo stesso Aristide guarl solo in capo a tredici anni, dopo aver ripetuto più volte la cura.

Se per il buon successo di un simile procedimento era di importanza primaria, accanto al metodo

naturale, la credenza nella virtù taumaturgica di Asclepio, della quale tenevano conto anche i medici di

Coo, ancora più lo era per le guarigioni miracolose mediante il sonno, che erano praticate nei locali di incubazione del recinto di Pergamo, ma soprattutto ad Epidauro. Le abluzioni nella fontana sacra non servivano alla terapia, ma dovevano preparare il paziente, rendendolo ricettivo all'operazione del dio. Poiché chi invocava l'aiuto di Asclepio doveva essere puro nella mente e nell'anima nel senso della più sincera pietà, non meno che nel corpo. Prima di stendersi sul letto in una camera chiusa e guardare nel sonno come il dio liberava il suo corpo dal male, egli aveva trascorso un certo tempo nei porticati, con gli occhi fissi sulla dimora del dio. Al risveglio si sentiva guarito, o almeno, il dio gli aveva rivelato in sogno che cosa doveva fare per guarire con sicurezza. Non c'è dubbio che in molti casi la malattia spa­ riva o i suoi sintomi si attenuavano. Era la fede a determinare il miglioramento. Perciò per rafforzarla il santuario era seminato di iscrizioni, nelle quali l'ammalato poteva apprendere quali miracoli Asclepio avesse concesso a chi fidava ciecamente nelle sue virtù.

Per esempio si leggeva : « Nel sonno, Parnfae vide un volto : egli sognò che il dio gli aprisse la

bocca, gli tenesse spalancate le mascelle con un cuneo e gli asportasse dalla bocca l'ascesso che la stava

corrodendo. Dopo di che fu guarito •· Il fanciullo Eufane, che soffriva di calcoli, dormiva nel sanatorio.

Gli si presentò in sogno il dio e gli chiese : • Che cosa mi dai in cambio se ti guarisco 1 •· Egli ri­

spose : « Dieci palline •· Allora il dio rise, promettendogli di liberarlo dal male. Il mattino dopo era gua­

rito. Andromaca, moglie di Aribba, venuta al santuario perché desiderava aver figli, ebbe il seguente sogno : un bel fanciullo le toglieva di dosso la coperta e il dio la toccava con la mano. Dopo di che, ella ebbe un figlio da Aribba. Un paralitico sognò, mentre era nel sanatorio, che il dio lo prendeva per mano, lo conduceva al focolare sacro e gli comandava di riscaldarsi al fuoco. Al levar del sole egli lo fece ef­ fettivamente e fu guarito. Accanto a racconti di questo tipo se ne registrano altri nei quali si riconosce chiaramente l'effetto dello choc; per esempio una ragazza muta riacquistò la voce per la paura provata vedendo un serpente sci­ volare giù da un albero. Altre descrizioni ci inducono a pensare che il paziente venisse sottoposto a una cura durante il sonno ; per esempio un uomo ferito sotto l'occhio dalla punta di una lancia sognò che il dio gli facesse gocciolare nell'occhio il succo di un'erba curativa. Non è invece verosimile che nell'epoca a cui risalgono queste iscrizioni fossero realmente eseguite quelle complesse operazioni al ventre che alcuni ma­ lati raccontarono di aver visto compiere al dio in persona. Fra l'altro, si raccontava anche di guarigioni procurate dalle bestie sacre di Asclepio, soprattutto dai serpenti, che avrebbero fatto scomparire il male leccando la parte affetta o staccando a morsi un bubbone. In cambio del suo aiuto il dio chiedeva sacrifici e altre offerte. All'occasione, come risulta dalle iscrizioni sacerdotali a noi pervenute, Asclepio ammonisce i pazienti a corrispondere il compenso dovuto o addirit­ tura, se questo viene negato, annulla la guarigione. Il più delle volte tuttavia dobbiamo ritenere che il ri­ sanato donasse con gioia il sacrificio dovuto, che preferibilmente consisteva in un gallo, come ricaviamo

59

dal

caso di Socrate, il quale ordinò di sacrificare un gallo ad Asclepio

per la sua liberazione dal male

deUa vita. Molti poi, secondo un antichissimo costume cbe ci è noto ancbe da santuari cristiani, votavano al dio riproduzioni delle membra guarite o piccoli dipinti che rappresentavano il salvataggio miracoloso.

Chi era in grado di farlo, dimostrava la sua riconoscenza con preziosi doni votivi. Dei doni cbe erano esposti già intorno al

250

nell'Asclepieion di Coo, allora di proporzioni ancora modeste, ci dà un'idea concreta il poeta

locale Eroda in un colloquio che egli immagina svolgersi fra due donne di umile condizione. Esse si recano

dal dio con un piccolo quadro votivo e contemplano le opere d'arte del santuario, fra cui un quadro di

Apelle, facendo commenti ingenuamente realistici.

Anche nei tempi che seguirono, nonostante l'aflievolirsi deUa religiosità, rimase vivo in tutti i ceti, e

non soltanto nel popolino, l'impulso di rivolgersi al divino risanatore per ottenere la guarigione. Siccbé i santuari di Asclepio, ampliati con nuovi impianti, conservarono la loro forza d'attrazione più di molti altri

luoghi sacri pagani, tanto era indispensabile il dio che liberava dai tormenti fisici per mezzo dei suoi medici

o per diretto intervento. Il

11

secolo d. C.

poi, con

la

sua caratteristica reviviscenza del senso

del mistero, ha consentito ad Epidauro un secondo periodo di fioritura, al santuario di Pergamo addirittura la sua fase di massimo splendore. Ma per molto tempo ancora, dopo quest'epoca, Asclepio è stato invocato

dai suoi fedeli, in questi luoghi come a Coo, fincbé il Salvatore dei cristiani e i suoi apostoli taurnaturghi non vennero a scalzarlo.

6o

X

Basse. Tempio di Apollo Epicurio

SANTUARI LOCALI Per gli sgutJrdi iniziati, in ogni cosa era l'orma di un dio. SCH!LLER I santuari di cui abbiamo parlato finora, anche se la loro fama e il loro prestigio si sono irradiati in paesi lontani, sono soprattutto centri religiosi di una regione, di un'isola o comunque di un ambito varia­ mente delimitato da fattori naturali. Accanto a questi si potrebbero ancora nominare molti altri santuari dello stesso tipo, come l'Artemision di Efeso, i templi di Apollo a Termo in Etolia e di Era Lacinia a Capo Colonne, situato a sud della città di Crotone in Italia meridionale. Ma la maggior parte degli innumerevoli santuari posti fuori delle città non ebbero che importanza locale; per loro natura, e per la risonanza che attingevano essi erano chiusi nei confini di una località, dove la potenza di un nume era direttamente percepibile nella natura. Chi potrebbe elencare tutte le grotte e le rocce scoscese, gli alberi e le fonti dove si venerava un dio

o un eroe ? In questa sede ci limiteremo a prendere in considerazione tre luoghi le cui suggestive ro­

vine testimoniano ancor oggi in che modo il divino della natura si manifestava ai greci e li induceva ad eri­ gere i loro templi. BASSE I venti che scendono dai monti dell'Arcadia sudoccidentale al Mare Jonio, portano aria fresca e sana ai luoghi più bassi. Presso il villaggio di Basse, dove quei venti cominciano appena a farsi sentire poco sotto le cime, già nel vu secolo era stata costruita una dimora per Apollo, il dio taumaturgo ; poco tempo dopo si fece la stessa cosa per sua sorella Artemide, signora dei boschi e dei monti, e, per ragioni che non conosciamo, anche per Afrodite. Più tardi, nel primo decennio della guerra del Peloponneso, una epidemia che funestava la città di Figalia, posta più giù in direzione del mare, fu evidentemente sventata dai venti delle montagne. Perciò gli abitanti ringraziarono Apollo Epikurios (colui che aiuta) costruendo accanto al suo antico san­ tuario sul crinale della montagna un grande tempio che, a giudizio di un esperto d'arte dell'età imperiale, superava tutti gli altri del Peloponneso, tranne quello di Atena a Tegea, per la bellezza del materiale im­ piegato e per l'armonia della composizione. L'autore di questo edificio, caratterizzato da una originale dispo­ sizione degli ambienti interni, sarebbe stato addirittura letino, l'architetto del Partenone. Ornato di metope

sulla trabeazione, di un fastoso fregio sulle pareti esterne della cella, questo tempio sorgeva lontano dal

mondo, nella solitudine delle montagne, a testimonianza dello spirito di sacrificio di una piccola città e

dell'arte eccelsa impiegata per dar lustro a un santuario di importanza soltanto locale.

EGINA Sulla vetta sporgente dell'isola di Egina, ricca per i commerci e già presto assurta a potenza ma­

rinara, c'era da tempo antichissimo un altare di Zeus. • Il monte •, come si usava dire senza altra spiegazione,

era visibile agli occhi di tutti gli abitanti del Golfo Saronico c di tutti i naviganti, come un centro sacro ;

il dio del cielo era adorato col nome di • Panellenico e. Pindaro chiamò l'isola • la stella scintillante dello Zeus ellenico •· Ma sulla sua costa settentrionale, a quasi tre ore di cammino dall'antica città, c'era un altro san·

tuario, situato su un dorso boscoso. Qui, forse in una grotta vicina, già nel 11 millennio era stata

62

Xl

Egina. Tempio di Maia

oggetto di culto una divinità naturale che in età greca portava il nome di Afea. Simile ad Artemide

e alla cretese Diktynna (e perciò all'occasione identificata con entrambe) Afea era dea delle montagne e della

caccia, ma anche protettrice della navigazione, che era cosi vitale per il benessere di Egina. Fu cosi che

essa divenne la patrona dell'isola, e nel vi secolo, acme della potenza di Egina, ottenne un tempio. Questo

fu poi sostituito intorno al soo da un edificio più grandioso, del quale sussistono ancora alcune parti,

e altre furono a loro tempo ricostruite. Con il suo altare eretto davanti alla dimora della dea, col suo ricettacolo per gli arredi sacri e il muro di cinta, nel quale si apre un arco trionfale di accesso al recinto sacro, il luogo fornisce il tipico esempio di ciò che poteva essere allora una santuario di media grandezza.

Ogni anno una processione moveva dalla città per raggiungere la sede della dea nel giorno della sua festa.

Là si potevano ammirare le famose sculture frontonali. Il fatto che esse rappresentino non Afea ma Atena, troneggiante sulle teste dei combattenti di un'antica guem1 simile a quella troiana cantata da Omero, non deve far credere che la vecchia patrona Afea sia stata scacciata da Atena o si sia confusa con lei. Solo in epoca più tarda, e anche allora di rado, le figure effigiate sui frontoni saranno in relazione diretta con la divinità del santuario.

SUNIO All'estremità occidentale dell'Attica il mare era agitato da frequenti tempeste, come ancor oggi accade. Qui Poseidone sembrava presente in tutta la sua potenza, qui il navigante atterrito lo invocava e in cima al promontorio del Sunio, nella cui rada trovava rifugio, cercava di propiziarselo con sacrifici e doni votivi. Lassù furono erette gigantesche statue di giovinetti prima ancora che vi fosse costruito un tempio, il che

avvenne nel VI secolo. Sembra che questo sia stato distrutto dai persiani nel 48o. Il tempio che ne prese

il posto fu eseguito in marmo lucente al tempo di Pericle; poiché dal Sunio lo sguardo può spaziare fino alle isole Cicladi e alla costa del Peloponneso, lo si vedeva splendere a grande distanza sul mare, alto sulle mura

del sacro recinto. Dal tempo di Lord Byron, che incise il suo nome su una delle colonne che ancor oggi restano in piedi, l'accordo fra il meraviglioso scenario naturale e la nobile arte architettonica ha incantato i visitatori che vi si sono succeduti; ma qui come in altri simili casi bisognerebbe tener presente, dimenti­ cando le sensazioni che affascinano e commuovono l'uomo moderno, che il tempio non fu edificato in questo

luogo, né vi furono profuse tante bellezze, in grazia della eccezionale posizione, ma solo perché il domina­

tore del mare, il dio Poseidone, manifestava la sua potenza divina intorno a quelle rocce sferzate dalla risacca. Quando ragioni religiose lo esigevano, i greci hanno eretto templi di non minore bellezza anche in luoghi privi di attrattive naturali, o all'interno di una città.

XII

Capo Sunio e tempio di Poseidone

XIII

Atene. L'Acropoli veduta dall'Areopago

III. SANTUARI CITTADINI

I SANTUARI DELLE ACROPOLI È evidente che la parola polis ha indicato in origine l'abitato racchiuso

m

una cittadella fortificata

che è sede caratteristica della classe signorile greca nel II millennio. Solo in seguito la cittadella, in­

torno alla quale nel frattempo si era sviluppata una città, fu chiamata Acropolis (città alta). Naturalmente i più antichi santuari, assai spesso risalenti all'età micenea, si trovavano sull'Acropoli. Ciò non significa che già allora vi si edificassero veri e propri templi (le dimore degli dèi mancano sia fra i greci micenei che fra i cretesi minoici) ma soltanto che per antica tradizione vi si compivano riti e sacrifici in cappelle do­ mestiche, su altari e in luoghi sacri. Quando poi, dopo gli sconvolgimenti dell'invasione dorica, la vita

si ritirò sempre più nella città bassa, e definitivamente tra l'vm e il VII secolo quando la mo­ ' narchia scomparve in molti centri, sull'Acropoli non rimasero che gli antichi dèi della comunità. !n una epoca in cui le guerre fra gli elleni si combattevano di solitO' in campo aperto e per lo più non davano luogo ad assedi, la cittadella murata rivestiva raramente una certa importanza ; tutt'al più quando un membro dell'aristocrazia locale assurgeva a tiranno della città, occupava l'Acropoli con le sue schiere e vi si stabiliva. Ma la tirannide era un fenomeno passeggero e i tiranni stessi del resto si sforzavano non di rado di guada­ gnarsi i favori degli dèi cittadini accrescendo o ingrandendo i santuari. Questi avevano la loro sede lassù, molto al di sopra delle dimore degli uomini, e la cittadella diveniva naturalmente il più grande centro di culto

della polis, tanto che le sue mura di cinta, edificate a scopo di difesa, finivano per figurare come mura di cinta dell'area sacra. In nessun luogo questo fatto risalta con tanta evidenza e grandiosità come sull'Acropoli di Atene.

L'ACROPOLI DI ATENE O tu splendente, coronata di 'fJiole, cantata da poeti,

gloriosa Atene, baluardo dell'El/ade, città cara agli Dèi l

II

PINDARO

Sull'altura rocciosa che si erge a picco a sud della città di Atene c'era già nella seconda metà del millennio una rocca potente, simile a quelle di Micene e di Tirinto. È probabile che già allora vi

fossero adorati la • dea del Palazzo • Atena, che diede nome al luogo, l'enosigeo Poseidone che era ricor­ dato da un segno nella roccia, e nelle vicinanze il dio della terra Eretteo. Quest'ultimo, che certo abba­

stanza presto fu identificato con Poseidone, già al tempo in cui fu composta I'Odissea aveva una • casa

salda • ; si trattava forse dell'antica sala dei signori nella rocca • micenea o, forse di un tempio costruito

sull'area di questa. Accanto a lui abitava Atena. La leggenda ci racconta della rivalità fra le due divi­ nità, e della loro contesa per il dominio sull'Attica : Poseidone-Eretteo, per impadronirsene, piantò nella roccia il suo tridente e ne fece scaturire una polla d'acqua salata, ma Atena piantò l'olivo e lo vinse. Per conciliare il dio vinto col paese, gli abitanti lo adorarono accanto ad Atena, in quella casa di cui abbiamo detto e anche nel tempio lungo cento piedi (Ecatompcdos) che fu costruito al suo posto probabil-

mente dai Pisistratidi (s6o-sto), o comunque da loro munito di pcristilio. Ma, come nei gruppi plastici dei frontoni marmorei, Atena dominava anche qui sull'Acropoli ; anzi la dea virginea (Parthenos) aveva già ottenuto lassù un secondo tempio delle stesse dimensioni ; dedicato a lei sola : il più antico Partenone. In suo onore era anche la solennità più grande dell'Acropoli, le Panatenee, che dal

566

furono celebrate

ogni quattro anni con pompa speciale, col nome di • Grandi Panatenee •· Ad Atena appartenevano le statue

di Korai e gli altri doni votivi che dall'inizio del VI secolo si affollarono in numero crescente sulla Ter­

razza, intorno ai due templi. Ma non basta. Come incarnazione della vittoria (Nike) la dea ebbe un terzo sacello su uno sperone della roccia, lungo la salita che conduce alla vetta. Cosi la patrona della città (Atena Polias) regnb su Atene con il padre, Zeus Polieo, anch'egli suo protettore, che possedeva un altare sul punto più alto della Acropoli. Accanto a queste due divinità e a Poseidone-Eretteo, appare straniera Arte­ mide, che era invece indigena della regione attica di Brauron. Fu il tiranno Pisistrato, originario di quella

regione, a far edificare sull'Acropoli, sua residenza, un recinto sacro per la t Brauronia •, che la dea

conservb definitivamente. Sembra che la vittoria di Maratona all'ingresso dell'Acropoli, che dalla

(490) abbia dato occasione sia alla costruzione dell'arco di fine della tirannide (510) tornb ad appartenere soltanto agli dèi,

trionfo sia alla

sostituzione del tempio di Atena Parthenos con un possente edificio in marmo. Entrambe le opere erano in lavorazione quando nel ,.SO arrivarono i persiani e la misero a ferro e fuoco insieme con l'intera Acropoli.

Negli anni che seguirono sembra che alcuni edifici, soprattutto il c tempio antico • di Atena e l'Eretteo con la statua di Atena Polias, fossero ripristinati alla meglio. Opere più vaste furono tuttavia messe in cantiere

solo tre decenni più tardi, dopo che Cimone ebbe fatto circondare l'Acropoli con un muro di cinta di blocchi rettangolari accuratamente connessi, nel quale, per ricordo, furono inseriti i basamenti di antiche colonne, ed ebbe fatto allargare la terrazza dell'Acropoli, colmando alcuni spazi all'interno di queste mura. Im­ piegando a tale scopo ruderi di costruzioni precedenti e doni votivi distrutti o deteriorati, si ottempe­ rava contemporaneamente al precetto religioso di non asportare dal recinto del dio nemmeno i frammenti di cib che gli apparteneva. L'Acropoli risorse più splendida che mai solo nei decenni tra il Nel

447

450

e il

430,

sotto l'egida di Pericle.

fu cominciato sotto la direzione degli architetti letino e Callicrate il miracolo del nuovo Partenone,

cui Fidia e i suoi aiuti aggiunsero l'inimitabile fregio, gli altorilievi delle metope e delle sculture frontonali. Nel

432

fu compiuta la grande opera, ma già molto prima si era avviata la costruzione del magnifico arco

di trionfo dei Propilei, progettato da Mnesicle, ancora più costoso di quello del Partenone per la difficoltà del terreno e ad esso non inferiore per bellezza e perfezione tecnica. La guerra del Peloponneso (dal

431) e

le obbiezioni che furono sollevate a difesa dei luoghi vicini, considerati intangibili, impedirono l'ese­

cuzione delle grandi ali previste dal progetto. Ma l'arco di trionfo, il più solenne e suggestivo che mai toc­ casse in sorte a un santuario, fu portato a termine. Con questi due edifici Atene ha dato forma nella pietra, proprio al culmine della sua vita storica, a cib

che essa volle essere idealmente e per un breve periodo riuscl ad essere. Gli aspri e fecondi contrasti

che animarono per generazioni il popolo attico s'incontrano qui in naturale armonia. La forza e la

gravità dei greci della madrepatria, espressa nei moduli formali dorici, è congiunta alla leggerezza e alla grazia ionica; il singolo membro architettonico, che riposa in se stesso, si inserisce con naturalezza spontanea nell'organismo unitario del tutto cosi come il cittadino attico, nonostante la sua marcata individualità, si subordina alla polis, senza la quale non potrebbe sussistere. Insomma, nell'equilibrio delle forze, delle strut­ ture portanti e dei carichi, del fine pratico e del senso ideale, le tensioni umane trovano una soluzione felice. E tutto questo nel segno della divinità ; schiere innumeri di ateniesi hanno eseguito in suo onore la-

68

XIV

Atene, Acropoli. I Propilei da oriente, sullo sfondo Salamina

XV Atene, Acropoli. Il Partenone da nord-ovest

vori faticosi e mal retribuiti, gomito a gomito con gli schiavi; grandi artisti hanno dato il meglio delle loro possibilità, tagliapietre hanno profuso meraviglie della loro arte in opere che nessun occhio, tranne quello della dea, avrebbe mai visto. Ma lei, Pallade Atena, è divenuta la incarnazione della città da lei pro­ tetta ed amata, partecipe della sua egemonia sulle città della costa e delle isole egee. Dal

454

eUa custodisce

nel Partenone il tesoro della Lega marittima, che fino ad allora era depositato nel santuario di Apollo a Delo, e in cambio della protezione riceve una quota dei tributi affluenti ogni anno ad Atene. Oltre a ciò, dal tesoro federale vengono attinti fondi per finanziare i costosissimi edifici a lei dedicati.

A questa Atena non poteva bastare la semplice statua dell' • antico tempio •· Perciò Fidia creò per il

Partenone una statua della dea fatta d'oro e di pietre preziose e di impressionanti proporzioni. Ella vi appare in tutta la sua maestà, con l'elmo sul capo, lo scudo a un lato, la Nike alata sulla mano. Era opera di Fidia anche la statua di Atena Promachos, alta oltre sette metri, che saltava per prima agli occhi a chi entrava dai Propilei. La punta d'oro della sua lancia splendeva al sole sulla vasta distesa del mare.

Ma l' • antico tempio o fu abbattuto per far posto a una nuova costruzione, che non solo potesse accogliere

il venerando simulacro dell'Atena Polias e quello di Poseidone-Eretteo, ma anche abbracciare gli antichis­ simi luoghi sacri di quest'area. Cosi in mezzo alle tempeste della guerra del Peloponneso e con grandi spese, a partire dal

420

fu edificato il cosiddetto • Eretteion e, probabilmente già progettato da Pericle ; tuttavia il lato

occidentale, a quanto sembra già programmato, non fu condotto a termine. L'edificio, nella forma in cui ci è pervenuto, conteneva i locali per il culto di Atena e di Poseidone-Eretteo, con la famosa loggetta delle Cariatidi ricopriva la tomba di Cecrope, l'antico dio della terra attico, col portico settentrionale il segno del colpo di tridente di Poseidone; al di sopra di questo però, perché stesse sotto il cielo aperto, il soffitto presentava un orifizio. Non sappiamo in che modo si pensasse di includere nel tratto occidentale l'olivo piantato da Atena e l'antico santuario della dea della rugiada Pandroso, nel cui recinto esso si trovava. Come l'Eretteo, la cui grazia e delicatezza fa un singolare contrasto con la sublime dignità del Partenone, è in stile ionico anche il tempietto di Atena Nike, situato sull'orlo estremo di un bastione accanto all'en­ trata dell'Acropoli. La sua costruzione era già decisa nel

449•

ma fu finito solo durante la grande guerra.

Di altri edifici dell'età di Pericle e posteriori, per esempio della Ca!coteca - che era destinata alla conser­ vazione di doni votivi specialmente di bronzo - non abbiamo oggi che vaghe tracce, e altrettanto si può dire delle molte statue - fra le quali famosissima l'Atena Lemnia dedicata dagli abitanti dell'isola di Lemno e opera di Fidia - che sono testimoniate solo dagli incavi scavati nella roccia per il basamento. Non basta la fantasia a figurarsi il bosco di statue e la magnificenza degli edifici - rilucenti non solo per la

bianchezza dei marmi ma anche per gli intonachi a vivi colori - che dalla metà del v secolo attor­ niavano gli ateniesi all'entrata dell'Acropoli sacra, o nelle feste Panatenee, quando ascendevano in proces­ sione la ripida st1 ada dalla città ai Propilei. Fidia e i suoi aiuti hanno descritto con arte incomparabile, sul fregio della cella del Partenone, questo corteo festoso dei cittadini in onore di Atena. Era il meglio che

la città potesse offrirle, e ancor oggi questa visione delle Panatenee, la festa grande della dea, ci trasmette un'impressione profonda della commossa adorazione di cui era oggetto la Signora dell'Acropoli. Il

z8

del mese Ecatombeone (fine luglio) era considerato il giorno di nascita di Atena, quello in cui

la dea era uscita in armi dalla testa di Zeus. Sul frontone orientale del Partenone questo evento che aveva commosso gli dèi stava davanti agli occhi di tutti. Ogni anno si celebrava quel giorno con una festa, per il cui allestimento veniva formato un apposito comitato. Dopo un · preludio notturno, al mattino una processione muoveva dalla città verso i santuari situati sull'Acropoli. Avevano luogo sacrifici, banchetti

sacrificali, una danza in armi (pirrica) e si cantavano a gara cori di gloria alla dea. Oltre a queste mani­ festazioni sull'Acropoli, si svolgevano .speciali agoni ippici nello stadio, situato a notevole distanza ad

occidente di quella. Su ognuno dei cocchi che correvano sulla pista c'era, oltre all'auriga, un uomo che poco prima del traguardo saltava al volo fuori del cocchio e ripercorreva lo stadio in direzione inversa. Chi arrivava primo alla linea di partenza, otteneva il premio per sé e per il suo auriga. Se, a parte questo, noi non sappiamo niente altro della festa annuale, la cosa è abbastanza comprensibile ; essa infatti fu messa completamente in ombra dalle • Grandi Panatenee • istituite nel 566, con le quali si festeggiava ogni quattro anni il genetliaco della dea. Questa, che era la più splendida fra le molte feste religiose di Atene, occupava quasi un'intera settimana. La sua prima parte, fino alla vigilia del genetliaco, consisteva di numerosi agoni musicali, ginnici ed ippici. Non soltanto i cori, ma, dal tempo di Pisistrato, anche i rapsodi si cimentavano in onore di Atena nella declamazione di episodi omerici, e da Pericle in poi si aggiunsero citaredi e flautisti. I cinque cori mi­ gliori, o i cinque migliori artisti della rispettiva specialità, ricevevano un premio in danaro, mentre ai vinci­ tori assoluti toccava una corona d'oro o d'argento. Ma per quanto la dea si rallegrasse di queste pre­ stazioni, ancora più cari le erano quegli agoni in cui il popolo dimostrava la sua forza, la sua sanità e la sua capacità guerriera. Negli agoni ginnici, sorvegliati da dieci giudici di gara, ragazzi, giovinetti e uomini si disputavano separatamente il premio nella corsa, nella lotta, nel pugilato, nel pentatlo e nel pancrazio. Il premio consisteva in belle e grandi anfore piene d'olio, tratto dagli ulivi sacri ad Atena ; quelle che toc­ cavano al primo erano quattro volte più alte di quelle del secondo. Un ragazzo poteva vincere fino a cin­ quanta anfore, un giovinetto fino a sessanta , gli uomini a quanto sembra più ancora, sicché il solo va­ lore materiale delle anfore e dell'olio era già notevole. Numerose anfore panatenaiche (ogni quattro anni ne venivano assegnate a centinaia) si sono conservate fino ad oggi. Esse portano l'immagine della dea armata che va all'assalto, con la scritta : e Dalle gare di Atene •· Anche gli agoni ippici, nella grande festa, erano molto più vari che nella festa annua. Carri da guerra e da parata, cavalieri armati di tutto punto correvano la pista, altri passavano a cavallo davanti a uno scudo che dovevano trafiggere con la lancia. Anche qui il premio per il primo e il secondo era costituito da anfore colme di olio. Invece la squadra che aveva riportato la vittoria nella danza armata riceveva un bue di buona razza, che era destinato al sacrificio e al banchetto comune. Infine il gruppo che si era dimostrato il migliore nell'e Agone della virilità • otteneva uno scudo. Ognuna delle « filai • in cui si ripartiva la cittadinanza attica, aveva scelto una squadra di uomini eccellenti per statura, forza e bel­ lezza. La armonica proporzione delle membra e la capacità bellica dei cittadini veniva offerta in regalo alla dea, che non ne provava minor piacere di suo padre Zeus allo spettacolo della fiorente virilità di Olimpia. Se il ciclo quadriennale delle Grandi Panatenee ricorda i giochi olimpici, anche il gran numero e la va­ rietà delle gare ginniche e ippiche e il fatto che anche i non ateniesi vi erano ammessi suscitano l'im­ pressione che con queste solennità la città attica abbia voluto far concorrenza alla città deii'Aifeo. E in effetti, come il carattere panellenico dei Misteri eleusini veniva messo volutamente in evidenza, cosl anche le Pa­ natenee intendevano manifestare a tutti i greci che Atene era • I'EIIade deii'EIIade •· L'ultimo giorno delle gare, alla vigilia del genetliaco della dea, quando il buio scendeva sulla città cominciava la festa notturna (Pannychis) ; dal .po ne segnava l'acme una corsa con la fiaccola che partiva dal bosco deii'Academos, situato fuori le mura, attraversava il quartiere dei vasai (Kerameikos) e il mer­ cato, e sfociava sull'Acropoli. Le dieci filai formavano le loro squadre, e durante la corsa i membri di ogni squadra si passavano di mano in mano la fiaccola, finché questa giungeva all'ultimo uomo. Chi di questi dicci ultimi giungeva per primo all'altare di Atena Polias, davanti all' • antico tempio •, e dava fuoco al ceppo poggiato sull'altare, riceveva in premio un'anfora artistica; ma naturalmente il vincitore non era 72

XVI

Atene, Acropoli. L'Eretteo da sud-est

XVII

Atene, Acropoli.

L'Eretteo da sud·ovest al tramonto

lui, bensi la sua squadra e con essa la file che l'aveva scelta. Ai primi albori della giornata campale della festa, il popolo si radunava nel Kerameikos per la processione solenne che doveva portare un nuovo peplo all'antica statua della dea. Già nell'autunno dell'anno precedente le autorità si erano riunite a consulto per scegliere il disegno del peplo, che doveva rappresentare Atena e Zeus nella battaglia contro

i

giganti. Due vergini accura­

tamente scelte cominciavano allora a tesserlo. Il giorno della grande festa il peplo color zafferano veniva fissato come una vela alle antenne di una nave, capace effettivamente di navigare, come simbolo del do­ mini sul mare esercitato dalla patrona della città. Il compito di sospingere la nave per le strade della

città fino all'Acropoli spettava alla vasta schiera dei magistrati di quell'anno : i nove arconti, i tesorieri deUa dea, il collegio dei dieci strateghi, i comandanti dei reparti minori delle leve cittadine e molti altri,

tutti adornati in onore di Atena. Altri gruppi di rappresentanza si affollavano attorno alla nave : i cento buoi per l'ecatombe erano guidati dal corpo sacerdotale coi suoi aiutanti ; come testimonia tuttora il fregio del Partenone, prendeva parte al corteo una schiera di vecchi, scelti per la loro bellezza, con un ramo d'olivo in mano, e fanciulle con gli oggetti del culto nei canestri. Seguivano carri e giovani ca­ valieri sui loro focosi cavalli, soprattutto naturalmente i vincitori degli agoni ippici e tutti coloro che avevano riportato un premio nelle gare dei giorni precedenti. Ma la partecipazione non era limitata ai cittadini dell'Attica ; anche gli stranieri residenti ad Atene (Meteci) e le delegazioni inviate dalle città della Lega marittima e dalle comunità amiche offrivano alla dea doni per il sacrificio, arnesi o vasi. Rendendole omaggio, rendevano contemporaneamente omaggio alla polis egemone. Cosi, tra la folla giubilante del popolo attico, tenuta a segno dagli araldi, il corteo ascendeva lentamente verso l'Acropoli. Lassù, davanti agli occhi degli dèi, che dall'alto del fregio assistevano all'azione sacra, l'antica statua di Atena veniva ri­ vestita del nuovo peplo. Poi, consumata l'immensa ecatombe sull'altare di Atena Polias, la cittadinanza si cibava delle carni dei buoi uccisi. Con questa scena aveva termine la giornata culminante della festa. Sembra che, a conclusione delle Grandi Panatenee, il

29

del mese di Ecatombeone avesse luogo una regata,

cui partecipavano le navi delle singole filai ; il premio era una somma di danaro o un banchetto sacrificate. Si comprende come gli ateniesi mantenessero in vita per secoli questa festa che faceva risplendere vivi­ damente il prestigio della loro città insieme con quello della dea, anche se dopo il crollo della potenza attica, alla fine delle guerre del Peloponneso, l'afflusso dall'area egea si era ridotto e non di rado le difficoltà finanziarie imponevano di limitare il fasto delle manifestazioni. Nell'Acropoli non furono costruiti edifici nuovi, né ce n'era bisogno, fino all'età imperiale romana. Il Partenone non custodiva più i pingui tesori federali, né grandi ambizioni politiche animavano più l'assemblea cittadina. Al tempo di Demostene, dalla sua sede sulla Pnice, essa guardava ormai con u n misto di malinconia e di romantiche illusioni alle testimonianze marmoree della sua passata grandezza. A onta di qualche bollore patriottico, ci si andava mano a mano adattando ai nuovi rapporti di forza ; alla fine del IV secolo la devozione verso il dia­

doco Antigone e suo figlio Demetrio era giunta a tal punto, che le loro immagini furono intessute nel peplo sacro di Atena, che fin 'allora aveva figurato soltanto Atena e suo padre Zeus. Nei secoli seguenti Atene subi non poche traversie, ma l'Acropoli rimase sostanzialmente intatta fino a quella famigerata rapina degli ex-voto perpetrata dopo

il

JOO dal tiranno Lacare. Riverenza e

ammirazione per un luogo reso sacro non solo da ragioni religiose ma anche da una gloriosa tradizione

e dalle più eccelse creazioni dell'arte trattennero dal saccheggio persino Sulla, il conquistatore di Atene,

che aveva fatto scempio di altri santuari greci.

In seguito, in omaggio al culto imperiale, si dovette

costruire davanti all'ingresso del Partenone un altare dedicato ad Augusto e a Roma, ma l'afflusso di nuovi ex-voto e la erezione di una larga scala marmorca che conducc\'a ai Propilci testimoniano anche per

75

i primi secoli dell'èra volgare la riverenza di cui continuavano ad essere oggetto Atene e la sua dea. Solo nel 430 circa Teodosio Il fece trasferire a Costantinopoli l'ammiratissima statua di Fidia. I due templi dell'Acropoli, anzi, sono rimasti in complesso intatti per più di un millennio ancora, e sono stati sfigurati solo da trasformazioni interne, per esempio quando il Partenone è stato adattato dai cristiani a chiesa, dai turchi a moschea, e l'Eretteo anch'esso a chiesa e in un secondo momento ad harem. La stessa sorte toccò ai Propilei, nei quali alla fine del XIV secolo fu sistemato un palazzo. Gli stessi Propilei, insieme col Partenone, accolsero nel XVII secolo un deposito di polveri, e questa circostanza fu loro fatale, poiché un fulmine incendiò il deposito dei Propilei nel 1 645, e quello del Partenone s'incendiò sotto il bombardamento delle artiglierie veneziane nel 1687, cosi che la parte centrale del tempio crollò. Allora fu anche demolito il piccolo santuario della Nike, che è stato ricostruito di recente col vecchio materiale. Meglio di tutti si conservò I'Eretteo, ma l'interno rimase completamente vuoto. Eppure, anche nelle rovine che oggi vediamo sull'Acropoli, sopravvive lo spirito dell'età d'oro di Atene, quando una cittadinanza animata dalla fede offriva ai suoi dèi non soltanto sacrifici e feste, ma opere di tale perfe­ zione tecnica ed artistica, che ancor oggi non hanno l'eguale. ALTRI SANTUARI DELLE ACROPOLI O grande Zeu.s e Voi. numi patroni delle città ! EsCHILO

Sulle acropoli di innumerevoli città greche sono state adorate le divinità protettrici della polia, ma soprattutto Zeus e Atena. Secondo ogni apparenza, il duomo posto nel punto più alto del territorio di Akragas (l'odierna Agrigento, in Sicilia) ha preso il posto di un tempio che era dedicato a Zeus Polieo. Anche nell'isola di Rodi, dalla quale i coloni greci vennero un tempo ad Agrigento, vigeva il suo culto. Qui esistevano anticamente tre comunità indipendenti, che nel 408 si saldarono in uno stato unitario insieme con la capitale Rodi di nuova fondazione, ma conservarono le loro rocche e i relativi santuari. Infatti non solo sulla collina sovrastante la città di Rodi sono state ritro­ vate fondamenta e basi di colonne dei templi di Zeus Polieo e di Atena Polias dell'età ellenistica, ma anche sulle acropoli delle tre località sunnominate, Lindos, Kameiros e lalysos, s'incontrano tracce simili. Anzi, la roccia di Lindos, che si erge alta sulla baia e sul mare aperto, offre accanto all'Acropoli di Atene il più suggestivo esempio di santuario cittadino edificato sulla rocca. Qui come altrove, Atena aveva preso il posto di una divinità locale, Lindia, cui probabilmente apparteneva un tempio del VI secolo. Il nuovo edificio costruito al suo posto nel nome di Atena Lindia (330 circa) dopo un incendio, fu dotato secondo il modello del Partenonc di una statua del culto in oro ed avorio, ma non era tanto grande quanto avrebbe fatto supporre il prestigio che la signora di Lindos godeva anche molto oltre i confini di Rodi. Una cronaca del tempio, redatta nel 99 a.C. secondo i dati degli storici locali, enumerava i più importanti ex-voto che da tempo antichissimo sarebbero stati dedicati (nella realtà o nell'immaginazione) da adoratori vicini e lontani, e narra i miracoli compiuti dalla dea per la sua città. Come il resto del­ l'isola, anche Lindos ha avuto la sua massima fioritura nella prima età ellenistica. Negli anni fra il m e il n secolo la salita alla più alta terrazza dell'Acropoli, dove era il tempio, fu munita di una sca­ linata ; questa si dipartiva dal centro di un porticato disposto obliquamente ; dalla estremità superiore della scalinata si accedeva al vestibolo del tempio passando attraverso gli splendidi Propilei. L'altura che domina la città di Pergamo, le cui falde in epoca preromana erano occupate dall'abitato, ha più l'apparenza di una sede signorile che di un'acropoli cittadina, sebbene fosse tale un tempo. Poco prima

XVIII

Rodi. L'Acropoli di Lindos

del 28o se ne impadronl Filetero. D'allora, essa fu per un secolo e mezzo residenza della dinastia degli At­ talidi, da lui fondata. Come molti tiranni greci di epoche precedenti, questi vennero ad abitare sull'Acropoli insieme con gli dèi della città, e ai loro santuari dedicarono cure particolari. Già Filetero costrui un tempio ad Atena patrona; il suo secondo successore, Attalo l (241-197) adorò in lei l'apportatrice di vittoria (Nice­ fora) e per ringraziarla di averlo aiutato a vincere i galati in una grande battaglia alle sorgenti del Kai­ kos, le dedicò alcuni monumenti a ricordo della gesta gloriosa e istitui una festa speciale in suo onore, la Niceforia. Suo figlio Eumene II (197-1 59), grazie al quale il regno di Pergamo raggiunse l'acme della sua potenza e del suo splendore sotto l'egida di Roma, circondò da tre lati con portici a due piani il sacro recinto, al cui margine il tempio troneggiava sull'orlo del dirupo. Ne derivò un vasto cortile, al cui centro si trovavano i monumenti trionfali di suo padre. L'insieme era certo dedicato alla dea Atena ; ma la col­ locazione centrale di quei monumenti, le riproduzioni delle armi predate visibili sulle balaustre dei piani superiori, il senso di museo che spirava dalla collocazione di opere d'arte antiche nei portici, e la pre­ senza dell'annessa biblioteca davano al tutto il carattere di una grandiosa autoesibizione, tipica delle mo­ narchie ellenistiche; nessuno vi avrebbe riconosciuto la gratitudine e la pia adorazione della divinità. Lo stesso spirito infonna il riordinamento della festa Niceforia intrapreso da Eumene nel 182 dopo alcune vittoriose gesta guerresche, e la costruzione del celebre altare di Zeus. La festa era biennale e con­ sisteva di agoni musicali, esemplati sui giochi pitici, e di gare ginniche e ippiche, che intendevano emulare i giochi olimpici nei procedimenti e nel significato. Il re si pavoneggiava in mezzo a tanto splendore e le numerose delegazioni che prendevano parte alla festa rendevano omaggio alla sua persona non meno che alla dea. Anche il poderoso altare di Zeus, modellato sul tipo dei grandi altari della Ionia antica, con ampia scala e peristilio attorno al podio su cui sorgeva, col suo patetico fregio che in forma di lotta degli dèi contro i giganti glorificava le \'ittorie del re sui galati, sembrava piuttosto un monumento ad esaltazione dello stesso principe, tanto più che egli fece collocare nell'interno dei portici, su lunghi basamenti, gruppi statuari che direttamente o dietro il velo della mitologia ricordavano le sue gesta galate. Comunque, le due divinità greche dell'Acropoli, Zeus signore e la sua figlia guerriera, avevano sede l'uno accanto all'altra nell'Acropoli principesca di Pergamo, e il legame tra loro divenne ancora più stretto quando Zeus, sotto il fratello e successore di Eumene, Attalo II (159-139) fu accompagnato ad Atena nel suo tempio. Durante la lunga dominazione romana, che nel IJJ si sostitui al regno degli Attalidi, nell'Acropoli, appartenente ormai solo agli dèi, fu costruito soltanto un nuovo, splendido santuario : il tempio dell'im­ peratore Traiano, che coronava la cima del monte. Tuttavia, anche per gli uomini di questa età, l'impres­ sione più grande era quella suscitata dall'altare di Zeus. Per i credenti nella religione greca, esso era il luogo più meraviglioso per offrire sacrifici al dio del cielo, per i dotti un'opera d'arte di prim'ordine, anzi una delle meraviglie del mondo; ma per i numerosi cristiani dell'Asia Minore il trono di Satana, come lo definisce l'Apocalisse di Giovanni. Non sempre il più antico centro abitato e cinto di mura, poi divenuto acropoli cittadina, si trovava su un'altura dominante il paesaggio circostante. Siracusa, con l'isola di Ortigia posta vicino alla terraferma e ad essa collegata artificialmente, offre l'esempio di una cittadella bassa e difesa dal mare, dalla quale ti­ ranni come Dionisio o Gerone II dominavano la città, dislocata da gran tempo sulla pianura costiera fino alle colline che la chiudevano a nord. Anche qui, e già da epoche lontane, il santuario principale era dedicato ad Atena protettrice. Un tempio erettole nel v secolo fu trasformato dopo più di un millennio in una cattedrale cristiana, e i restauri operati non molti anni fa hanno riportato alla luce le colonne antiche, ancora intatte sotto il rivestimento barocco.

{IX Pergamo. Veduta dall'antica strada per il tempio di Demetra del teatro e del piccolo tempio ionico. A sinistra, sull'altura, il luogo del tempio di Atena. All'estrema destra della tavola presso i grandi pini stava l'altare di Zeus

Ad Akragas, come abbiamo già detto, Zeus Polieo troneggiava sul punto più alto dell'Acropoli, mentre Atena era probabilmente adorata in un tempio situato un po' più in basso, anch'esso trasformato in seguito in una chiesa cristiana. Sulla bassa pianura di Ortigia non si sono trovate tracce di edifici dedicati al culto di Zeus ; invece, oltre ad Atena, vi possedeva un tempio antichissimo Apollo, il divino condottiero delle spedizioni coloniali, al quale anche Siracusa doveva certamente la sua fondazione. Ai santuari delle acropoli ascriveremo infine il gruppo di templi che sorge sul colle di Selinunte. Questa località, situata presso la costa sudoccidentale della Sicilia, e quindi nelle vicinanze immediate del territorio controllato da Cartagine, era stato popolata da gente di Megara Iblea, una colonia greca della Si­ cilia orientale. Essi recinsero il colle, che dominava dall'alto due baie naturali, in modo da farne un borgo fortificato ; ma questo si dimostrò ben presto troppo piccolo. Perciò i quartieri di abitazione si spostarono sempre più sull'altipiano immediatamente a nord del colle, mentre la città originaria assu­ meva il carattere di un'acropoli, la cui area era coperta per un terzo da santuari. Nel v secolo non meno di quattro templi si elevavano sul fianco della collina più vicino al mare, due in un recinto, due in un altro, ai quali si accedeva per un'arcata. Poiché è purtroppo incerto a quali dèi appartenessero questi tem­ pli - Eracle, la cui figura è anche impressa sulle monete della città, Atena, Apollo, ma altresl Demetra e Core sono i titolari più probabili - sono stati contrassegnati da lettere dell'alfabeto. Il tempio C, che occupa la sommità della collina, e che oggi è stato in parte ricostruito, è il più antico; come il suo vicino di poco più recente, il tempio D, risale al VI secolo. Gli elementi che lo contraddistinguono, insieme con una serie di confratelli della Sicilia e dell'Italia meridionale, sono : la eccezionale strettezza della lunga cella, che il colonnato recinge a distanza, la insolita profondità del porticato d'accesso, il pronaos chiuso, nel quale si entra per una grande porta, e il fatto che alla cella (contenente un'ara sacrificale) segue un terzo vano, l'adyton, contenente la statua del culto (solitamente nella cella). Manca invece l'opisthodomos. Inoltre, mentre i templi della madrepatria sono apposite dimore per la statua del culto che ne occupa il centro, e perciò generalmente simmetriche, qui la disposizione è longitudinale, cioè segue una linea dritta dall'ampia scala di accesso fino all'adyton. Solo dopo aver attraversato tutte le altri parti del tempio si giungeva là dove abitava la divinità, in un ambiente chiuso e probabilmente accessibile solo ai sacerdoti. È stato già osservato molto tempo fa, che tale disposizione ricorda quella dei templi orientali, dove una serie di gallerie o di corti si interpone fra l'ingresso e il centro sacrale, che è precluso alla moltitudine. È stato anche notato che in santuari come il tempio C di Selinunte il dio viene sottratto alla comunione con gli uomini e relegato in una solitudine mistica, il che presuppone un rapporto fra uomo e dio ben diverso da quello prevalente in Grecia. Semmai, qualcosa di simile si riscontra negli oracoli o nei sacrari misterici della madrepatria. Certo, sorge spontanea l'idea di spiegare il fenomeno, per la Sicilia con l'influsso della fenicia Cartagine, per l'Italia meridionale (e la stessa Sicilia) col perdurare di tradizioni religiose delle popolazioni originarie. Non va tuttavia trascurato il fatto che i coloni, su quel fertile suolo, diedero particolare risalto al culto di Demetra e di sua figlia Core (Persefone) rapita da Ade-Plutone. È ben probabile che il culto di queste dee, legate per loro natura a idee mistiche e ai riti corrispondenti, abbia contribuito a plasmare la sensibilità religiosa in modo che anche altre divinità finirono per apparire più mi­ steriose c inavvicinabili di come erano sentite in Grecia. A sud dei templi C e D, ai quali al principio dell'età ellenistica se ne aggiunse un terzo assai più piccolo, sorge, al di là di una strada traversa, una seconda area sacra contenente il tempio A e il tempio Q, costruiti nel v secolo. Qui come nella prima area, si elevano attorno ai templi altri edifici sacri, e un gran numero di ex-voto monumcntali. La distruzione della città ad opera dei cartaginesi (409) risparmiò la zona sacra dell'Acropoli, che

Bo

XX Selinunte, Acropoli. Tempio C da nord-ovest

non aveva l'eguale per

il

numero dei suoi templi grandiosi. Mentre la polis non si riebbe mai com­

pletamente del terribile eolpo, e, dopo che i cartaginesi ne ebbero evacuato la popolazione durante la prima guerra punica, nella parte settentrionale dell'Acropoli non sopravvisse che un modesto villaggio, i templi restarono in piedi ancora per un millennio. Solo all'inizio del Medio Evo crollarono a causa di un terremoto.

SANTUARI NEL TERRITORIO DELLE CITTÀ Ma gli abitanti, porlando fronde di lrmro, onorino sempre gli dèi del paese con sacrifici di buoi. EsCHILO

Non solo in cima al colle dove sorgeva l'Acropoli, ma anche sulle pendici sorgevano spesso santuari, sia che una divinità fosse anticamente operante in quei luoghi, sia che eol tempo, estesasi la città nella pianura, si preferisse insediare i nuovi dèi nelle vicinanze dell'Acropoli. Così gli ateniesi adorarono Apollo e Pan nelle grotte del dirupo che si apriva a settentrione dell'Acropoli ; sul fianco sud nel 4Zo un privato

donò ad Asclepio un'area sacra ; più ad est, già nel VI secolo

fu

eretto un tempio a Dioniso ai piedi

del monte. La stessa cosa accadde, per citare un seeondo esempio, a Pergamo ; qui su una terrazza situata

a mezz'altezza sulla via dell'Acropoli, si trovavano i santuari di Demetra c di Era; sul versante nord, alla stessa altezza, c'era invece un tempietto di Dioniso al termine di un colonnato che si estendeva parallela­ mente al teatro, a valle di questo. All'interno delle città basse sono soprattutto le piazze del mercato, come centri della vita pubblica, che invitano a costruire nelle vicinanze una dimora per gli dèi ; lo stesso fenomeno, del resto, si riscontra nel Medio Evo cristiano. Ad Atene, solo il recente restauro che ha liberato l'intera agorà ha reso palese fino a che punto questa fosse dominata dal cosiddetto Teseion, situato più in alto e accessibile mediante una scala. Questo tem­ pio, il meglio conservato dell'antichità greca, in verità non era dedicato all'eroe Teseo ma ad Efesto e ad Atena nella sua qualità di protettrice dell'artigianato. Già in Omero ella figura con questa funzione e anche il suo legame con Efesto,

il dio

delle arti produttive, è antico. Posto fra i quartieri dei lavoratori del metallo

e l'agorà, che verso la metà del v secolo era già divenuta

il

mercato rappresentativo della polis, que­

sto tempio, le eui statue del eulto erano state create dalla mano maestra di Alcamene, aveva un doppio significato. Per gli artigiani esso era il sacrario delle loro divinità, ma per la massa degli ateniesi qualcosa di più : la sede degli dèi a protezione degli edifici pubblici, stesi ai piedi dell'Acropoli. Anche i motivi svolti dalle metope e dal fregio, che circondava le pareti esterne della cella, come al Partenone, cioè le gesta glo­ riose dell'c eroe nazionale • Teseo, avevano un senso politico. Certo questo tempio, costruito pressoché contemporaneamente al Partenone, non poteva reggere al confronto con esso né artisticamente né per il valore suggestivo del contenuto: a paragone con il sublime edificio che coronava l'Acropoli, la dimora dei protettori delle arti manuali appare piuttosto povera e asciutta. In posizione simile a quella del Teseion, dominante sulla piazza, era già all'inizio dell'età arcaica

il

tempio di Apollo a Corinto, mentre Mrodite possedeva un grande e famoso santuario sulla roccia poderosa di Acrocorinto. Intorno al 540 esso

fu

sostituito da un pesante edificio dorico che sopravvisse alla distru­

zione di Corinto del 146. Anzi, alcune delle sue massicce colonne monolitiche stanno in piedi ancor oggi. Non sapremmo tuttavia dire perché proprio Apollo e non Poseidone, signore dell'Istmo e generatore del

S:z

XXI Pergamo. Tempio di Demetra

XXII

Corinto. Tempio di Apollo da sud-ovest

Pegaso, la bestia araldica di Corinto, ha conservato la sua sede sopra la tradizionale agorà, della quale sopra­ vanzano solo i resti

di

una fontana, sotto quella costruita dai romani.

Anche in altra località, nella remota Italia del sud, si nota la mancanza di un santuario del possente iddio. Fino a venti anni fa si riteneva con certezza che il tempio principale di Poseidonia (Paestum) fosse dedicato alla divinità dalla quale prendeva nome la colonia stessa e la cui testa barbuta figurava sulle sue monete. Perciò la più grande e più bella delle tre rovine famose fu senz'altro identificata con un tempio

di Nettuno; ma poi gli scavi recenti misero in chiaro che né questo edificio (eretto intorno al 450) né la • Basilica •• di un secolo anteriore, appartenevano a Poseidone ; entrambi sono probabilmente da attribuire ad

Era. Poiché inoltre il cosiddetto tempio di Cerere (edificato non molto prima del 500 al posto di un altro più piccolo) può essere ascritto con sicurezza ad Atena e nei settori meno esplorati dell'area di Paestum non sembra prevedibile il ritrovamento di un santuario rappresentativo della divinità principale, ci troviamo di fronte al singolare fenomeno, che la città di Poseidonia non ebbe mai fra le sue mura un tempio di Po­ seidone. E ancora un fatto è motivo di meraviglia : manca un'acropoli. Difatti, anche se il nome della citta­ dina

di

Agropoli, situata su un'altura a due ore

di

cammino più a sud, dovesse segnalare la presenza di

un'antica acropoli greca, difficilmente si potrebbe ricol!egarla a una città cosi lontana.

Ora, sta di fatto che un muro di cinta univa i tre templi citati in un grande recinto sacro, nel cui mezzo

era l'agorà. Pertanto si è congetturato a ragione che, in sostituzione dell'acropoli mancante, si fosse ricavata nel centro dell'abitato un'area sacra votata alle divinità principali, sicché l'agorà avrebbe assolto in qualche modo la funzione politica di acropoli. Anche la circostanza che il tempio di Atena era collocato su un mo­ desto rialzo del terreno e che la dea era adorata in veste

di

protettrice armata, fa pensare ad una pseudo­

acropoli. D'altra parte è ben comprensibile che Era appaia come patrona a Poseidonia al posto di Zeus. Sia perché in tempi più antichi questa dea presentava anche qui caratteristiche guerriere (a onta della sua funzione di patrona del parto, che più tardi finirà per prevalere) sia perché il suo culto era generalmente in grande onore nell'Occidente, specie presso i coloni provenienti dall'Acaia, che avevano preso parte alla fondazione di Poseidonia. Già i primi coloni le avevano dedicato un santuario (recentemente tornato alla

luce) un po' più a nord, alla foce del Silaro (Sele). Un Tesoro del VI secolo con splendide metope e un tempio dorico altrettanto finemente decorato, eretto intorno al 500, testimoniano la pia sollecitudine che anche le generazioni successive tributarono a questo luogo. Non c'è dubbio : Era era la grande dea della

città e del suo territorio. Ella possedeva due templi nel solo • recinto-Acropoli • di Poseidonia, circondati, qui come alla foce del Silaro, da altari, Tesori e cappelle

di

divinità minori, comunque a lei legate.

La inclinazione dei coloni greci d'occidente a riunire in un recinto templi

di

deità diverse, o almeno

a formare una specie di zona sacra, ha avuto in Sicilia un'espressione grandiosa non solo a Selinunte, ma anche ad Akragas (Agrigento). Pindaro la defini la più bella città dei mortali; ancor oggi appare al visi­ tatore come una delle più ricche di templi. Sebbene fondata appena nel 580, questa città cosi alta sul li­ vello del mare si è arricchita già prima del 500, a prescindere dai sacrari posti sull'Acropoli dei quali si è detto, di un certo numero di edifici di culto ; due di essi erano probabilmente dedicati a Demetra e a Core, che erano oggetto di particolare venerazione nell'isola ; un altro, costruito alla fine di quest'epoca e oggi parzialmente restaurato, era dedicato a Eracle. Esso si erge al di sopra delle mura, su un rialzo naturale nella parte sud della città antica, che degrada dall'Acropoli verso la valle, ed è il più antico della serie

di templi che furono qui edificati a partire dal v secolo, l'età d'oro di Akragas.

A quali divinità siano da attribuire le singole costruzioni di questa zona sacra, fatta eccezione del tem­ pio di Zeus, non siamo in grado di stabilire, dal momento che le denominazioni usuali sono non solo con­ getturali, ma per la maggior parte sicuramente inesatte.

È

lecito tuttavia pensare ad Apollo, Poseidone,

Bs

XXIII

Paestum. Tempio I di Era, la cosiddetta , da sud-ovest ; dietro il tempio II di Era, il cosiddetto tempio di Poseidone

XXIV Paestum. Tempio I di Era, la cosiddetta It'ra, i l'rnpiki o:d il tm1pin di A tm:1-Nik.:.

Al n·n tro: l' Ertra i n pri111o piann: la hast· ddb st;Hua nisJJ�'Ii. l'an,·nun•·· Fn·�io uri•·•uak ddl.1 fdb

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24

Ori)!inak drlla �crond.t Cort·. Dalb lio di Anemici doveva essere divisa in due navate. Forse ancora nell'VIII secolo questo tempio fu circondato da una corona ovale di 36 colonne lignee, su cui poggiava una trabea­ zione parimenti !ignea e un tetto fortemente aggettante sulle pareti. (È difficile che sulle lastre di pietra che ci sono pervenute fosse disposto un recinto vegetale come ha recentemente supposto in maniera molto laconica e senza giustificazione alcuna A. v. Gerkan). È difficile che l'>, la . In realtà il deambulatorio è una forma sacra che viene sempre mantenuta nel tempio, anche se tutti i suoi elementi pos­ sono essere trasferiti a piacere in edifici di altro tipo. Mi sembra che il periptero esprima, nel linguaggio .. architettonico, quello che la statua della divinità che ne sta al centro rappresenta riel linguaggio figurativo della scultura : non solo abitacolo della statua ma fortissima dilatazione, visibilissimo potenziamento del­ l'immagine del culto. Il tempio sarebbe cosi un'ulteriore forma della divinità cosi realmente evocata ; la sua idea un'idea religiosa o addirittura cosmica in quanto dèi, essere e universo coincidono nel pensiero greco. Deriva di qui la forza inesauribile, sia concreta e corporea che intellettuale del tempio che, quale simbolo, rappresenta il canone dei canoni. Fertile in un senso più che formale si rivela l'idea della peri­ stasi attraverso il suo rapporto antitetico con la cella : nucleo chiuso e squadrato e corona di colonne chiara e trasparente ; corpo e veste, centro statico e danza ritmica. La ponderazione e l'accordo più puro di queste antitesi sarà da ora in poi il tema vero e proprio dell'architettura dorica. Ma non dobbiamo trascurare la forma concreta a fav� del puro unilaterale, è l'introduzione anche nella parte posteriore di un atrio esatta­ mente corrispondente al pronaos della facciata orientale con le sue ante e le sue colonne (Thermos, Mi­ cene, Heraion). Questo ; e gli scavi hanno confermato la sua profezia. Nel tempio di Era si sono rivelate le forme

iniziali del tempio monumentale dorico, nel tempio di Zeus riconosciamo la sua forma più alta e compiuta.

I gruppi frontonali e le metope di questo tempio, fin dalla _hro scoperta, hanno mutato il nostro concetto

dell'arte greca e continueranno a mutarlo : una eredità inesauribile del severo stile classico arcaico, che stato definito il Cantico dei Cantici dell'antichità.

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Olirnpia. L'AJtis visto da sud-ovest. Dal modello

di A.

Mallwitz, 1959·

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Olimpia . Pianta generale. Da A. Mallwitz, in E. Kunze, 1959· .

L'Altis, il bosco sacro di platani e di olivi selvatici, era il centro di una vasta area dedicata

al dio. IL temenos, come a Delfi, aveva parecchie entrate ed era aperto a tutti i visitatori. La delimitazione primitiva, attribuita dalla tradizione allo stesso Eracle, probabilmente si riduceva a uno steccato di legno

o a una serie di pietre di confine. Solo nel IV secolo l' Altis fu cinto di un muro con diverse porte (proba­ bilmente cinque), che correva su tre lati rettilinei delimitando un'area di circa m

200

x

175,

mentre il

quarto lato, quello settentrionale, era chiuso dalle pendici di una collina boscosa, dedicata a Crono, il dio pregreco spodestato da Zeus. La cellula originaria del santuario, intorno alla quale si raccolsero i primi altari e il tempio di Era,

era la tomba dell'eroe Pelope che rischiò la vita in una gara sul cocchio donatogli da un dio ; inizialmente i giochi facevano parte della sua festa funebre. La tomba era recinta strettamente da un apposito muro

con propylon, e costituiva una specie di temenos nel temenos : vuoti di una fila di colonne.

È vero che

a Tegea le colonne si presentano ancora come corpi saldi, che al­

l'esterno la cella serba la sua forma chiusa, che la ricca ornamentazione è ancora piena di senso tettonico ; tuttavia la compattezza classica delle strutture si incrina. Nell'ampliamento immaginario dell'interno si manifesta la forza e il temperamento che animano questo tempio ; la peristasi, costruita con la massima

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coscienziosità, emana invece una fredda e accademica impassibilità.

Se ora si considera uno dei pochi testimoni delle sculture frontonali di Scopa, la testa di guerriero, si noterà qualcosa di simile nello sguardo appassionato rivolto a un punto immaginario, nella luce scivo­ lante ed evasiva della testa, del resto cubica e saldamente modellata. Anche qui Scopa ha plasmato un

interno, ma senza discrepanza con l'esterno, con la sostanza plastica. Possiamo concludere che nell'archi­

tettura si annuncia una crisi, cui la scultura

in

certa misura si sottrae ?

. Quanto ai gruppi frontonali interamente perduti, nel gruppo est era figurata la caccia al cinghiale calidonio, in quello ovest una scena di battaglia tra Achille e Telefo. Anche le dodici metope che orna­ vano il pronaos e l'opistodomo erano scolpite, come· ad Olimpia e a Basse. Accenneremo infine a un'ultima particolarità che il tempio di Tegea ha in comune con Basse : nella parete laterale nord della cella, esattamente nell'asse trasversale del tempio, si apre una porta. Che questo motivo architettonicamente ingrato e anzi molesto sia imitato dal tempio di Basse, è difficile ammettere. Da quando il lato spettacolare del culto dei misteri eleusini aveva cominciato ad esercitare un effetto cre­ scente, forse anche altri culti cercarono di usurparne i procedimenti e consentirono ai credenti, che fino · allora erano stati esclusi da tutti i riti svolgentisi nel tempio, di parteciparvi sempre più assistendo da spet­ tatori all'azione sacra. In ogni caso, nella vicina città di Licosura si

è

conservato un tempio del primo el­

lenismo munito di una analoga porta laterale, dirimpetto alla quale si elava una gradinata : insomma un piccolo teatro per il culto. Vedere anche negli ingressi laterali di Basse e di Tegea il tramite per la parteci­ pazione al credente dell'azione sacra, sembra l'interpretazione meno forzata.

NEMEA, TEMPIO DI ZEUS

TatJfl. 82, 83, Fig. 53

Nel santuario di Zeus Nemeo, verso ls fine del IV secolo, fu eretto sui resti di un tempio arcaico, un

nuovo edificio. Questo tempio periptero ripete su scala un po' maggiore ma con tanta precisione le misure

'' ;. •'•• e le proporzioni del tempio di Tegea, e ne copia i particolari architettonici (per esempio le teste di leone

e i viticci di acanto della sima) con tale fedeltà, che gli si è attribuito lo stesso architetto, Scopa. Comunque la peristasi di (m

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12

colonne

42, 5 5 ; Tegea :

19,19

è

un poco più larga e di due interassi più corta di quella di Tegea

x 47·55)· Come appare dal confronto fra le due piante, l'accorciamento

nasce dal fatto che l'opistodomo, presente a Tegea,

è

stato senz'altro omesso e il portico ovest, che là era

profondo due interassi, qui ne misura uno solo. Davanti all'ingresso, invece,

è

mantenuta l'ampia e gran­

diosa concezione di Tegea. Con cib si pone per la prima volta consapevolmente in risalto una facciata rappresentativa, mentre la facciata posteriore

è

immiserita.

Scopa col suo progetto di Tegea aveva compiuto un grande passo avanti dischiudendo nuove dimen­ sioni allo spazio interno, anche se queste non si armonizzavano col solido ordine dorico imperante al-

166

53 Nemea, tempio di Zeus. Pianta (r : 400). Nuovo disegno.





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l'esterno; ma non aveva intaccato questo ordine ; ciò avviene invece a Nemea, dove l'edificio non obbe­ disce più tanto, come organismo architettonico, alle proprie intrinseche leggi formali, ma cerca contem­ poraneamente di fare impressione sull'osservatore, il che naturalmente comporta che la fronte est passi in primo piano e il tergo sia letteralmente sacrificato. t la fine dell'opistodomo, dell'equilibrio delle fronti, della corposa « onnilateralità •> del tempio dorico. Con la scomparsa dell'antica monumentalità va di pari passo un irrigidimento delle forme. Le colonne si allungano fino a raggiungere una snellezza senza precedenti, una esilità da matita (altezza delle colonne di Olimpia : 4,7 X diam. inf. ; Tegea : 6,1 X diam. inf. ; Nemea : 6,35 X diam. inf.). La trabeazione -che esse reggono è proporzionalmente gracile (altezza : I/4 altezza della colonna ; Basse : I/3 altezza della colonna). Il attico sembra qui decisamente degenerato in una delicata, esangue eleganza. Poco ormai sopravvive degli antichi contenuti, della forma, della pregnante espressività delle strutture portate e portanti. I dettagli tagliati secondo astrazioni stereometriche - il basso tronco di cono dei ca­ pitelli per esempio, o le gocce dei mutuli ridotte a piccoli dischi schiacciati - le proporzioni ridotte a uno scheletro razionalmente fissato, accentuano ulteriormente l'anemica nobiltà, l'accademica rigidità del­ l'edificio. Chi sperasse in un arricchimento e differenziazione dell'interno come compenso alla disgregazione e all'irrigidimento dell'esterno, rimarrebbe deluso dalla cella. Qui il progetto di Tegea non è ripetuto, e meno che mai sviluppato. L'architetto si rifà invece timidamente al colonnato continuo del Theseion (6 X + colonne), accostato strettamente alle pareti e munito di capitelli corinzi, che già altrove aveva fatto buona prova. Dietro la fila di colonne posteriore si apre anche qui, sulla falsariga di Basse, un retrocella, conte­ nente un singolare, profondo avvallamento ; si tratta forse di un adyton sotterraneo ? Il materiale usato è un calcare locale con rivestimento di stucco, lavorato con mediocre perizia. In marmo era solo la sima. Non sembra che vi fosse decorazione plastica. Come ben si comprende, quest'opera non può essere di Scopa, ma può avervi avuto parte la mano­ dopera del tempio di Tegea, privata dopo il compimento di quel tempio del suo illustre capo e delle sue forze migliori e costretta a cercar lavoro altrove. Naturalmente i difetti da noi rilevati in questo edificio non sono da imputare a quelle abili maestranze e nemmeno alla personalità del loro capo ; esse portano piuttosto l'impronta di un'epoca di crisi. L'età classica era ormai giunta alla fine. Nell'irrigidirsi delle forme si annuncia una nuova alba, nella morte una rinascita : l'ellenismo.

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EPIDAURO, SANTUARIO DI ASCLEPIO TaV'lJ. 97-99, Figg. 54-57

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Il santuario di Asclepio (Esculapio) prese forma nei secoli IV e m. Non rientra solo nel particolare ca­ rattere di questo sanatorio sacro, ma anche nelle tendenze di quei secoli il fatto che templi e altri edifici di culto, preziosamente adornati ma di modeste dimensioni, scompaiono quasi nella massa delle grandiose co­ struzioni utilitarie disposte tutt'intorno al centro del culto : ampi portici, in parte a due piani, nei quali i pazienti si sdraiavano per il sonno terapeutico, delimitavano il luogo verso nord. Vi si aggiungevano una fontana salutare, una gigantesca palestra, il teatro celebrato come il più bello della Grecia, uno stadio e uno stupendo albergo a due piani con non meno di x6o camere disposte simmetricamente intor­ no a quattro peristili : il monumento più grande del santuario. Il vasto temenos non era recinto da muri, ma solo in qualche modo delimitato da pietre di confine. Tuttavia non poteva mancare un ingresso monumentale sul tipo dei Propilei ateniesi con fronte esastila su ambo i lati (ma di colonne corinzie e ioniche). Persino la palestra aveva i suoi « Propilei 1)1 la cui fronte anch'essa esastila era di un terzo più larga di quella del tempio di Asclepio. Il tempio di Asclepio, cominciato intorno al 380, è uno dei più piccoli peri'pteri della Grecia, misu­ rando appena m n,76 x 23,o6, e nondimeno aveva spazio sufficiente per ospitare una enorme statua cri­ selefantina del dio guaritore in trono, un'opera con cui Trasimede di Paro tentò di emulare lo Zeus di

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54 Epidauro, santuario di Asclepio. Pianta generale. Da Kirsten/Kraiker, 1957 10, tempio di Asclepio; 9, altare di Asclepio ; JZ, tholos; 8, antico portico per gli ammalati; u, fonte salutare; 7, tempio di Artemide; s. portico più recente ( ?); z, palestra con propylon (4) e odeion (3) aggiunto in seguito.

1 68

ORDINE CORINZIO IN MARMO

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Spaccato.

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ss/s6 Epidauro, tholos. Da A. Defrasse e H. Lechat, I895· 56 Particolare della pianta con veduta speculare del soffitto

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cassettoni.

Fidia. Anche la cella era una specie di scrigno; non aveva né colonnato interno né opistodomo; la splen­ dente decorazione compensava la mancanza di mo­ numentalità. Il pavimento, come ad Olimpia, era composto di marmi bianchi e neri a contrasto. Dal resoconto della spesa apprendiamo l'esistenza di una preziosa porta di legno ed avorio con chiodi aurei, anch'essa modellata da Trasimede. La peristasi dorica che circondava questo « scri­ gno 1), esastila con 1 r colonne sui lati lunghi, risulta particolarmente accorciata per l'assenza di opistodomo, il che rispecchia una crescente tendenza del rv secolo a creare corpi architettonici più corti (cfr. Argo e Nemea). Importanti avanzi di sculture sono attribuiti ai frontoni. Il tema del frontone est non è riconoscibile; forse una Iliupersis ? Sul frontone ovest una Amazzonomachia. Lo scultore locale Timoteo, che poco dopo ritroveremo attivo al Mausoleo di Alicarnasso accanto ai massimi maestri dell'epoca, a quanto risulta dal resoconto della spesa, ricevette 900 dracme in conto modelli ; si tratta dei modelli di queste sculture fron­ tonali ? Inoltre sono di sua mano gli acroteri, almeno di uno dei lati. Si sono salvati principalmente quelli della fronte ovest : sciolte, aeree, affascinanti figure di donne a cavallo, nelle quali hanno preso corpo le

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Epidauro, tholos. Modello di capitello connzao di Policleto il giovane. Da A. Defrasse e H. Lechat, r8gs.

lievi aure, le , si fondono in un complesso monumentale unitario ; nell'Eretteo tre corpi limati con estrema cura sono accostati come ad arbitrio. Per attuare il piano dei Propilei dovevano essere senz'altro eliminati antichi santuari e pertanto il piano fini per insabbiarsi contro la resistenza dei sacerdoti e del partito conservatore ; nel caso dell'Eretteo fu proprio il partito della tradizione ad appog­ giare e dirigere l'opera (Nicia, l'uomo di stato più eminente di quegli anni, era devoto fino alla supersti­ zione). Ogni stranezza dei Propilei ci autorizza a domandarci quali fossero le intenzioni architettonico­ estetiche dell'autore, la stravaganza dell'Eretteo richiede invece un'indagine sulle ragioni del culto. Mentre

in

quelli le facciate doriche, tra le loro ali simmetriche, irradiano il loro effetto in lontananza e la succes­

sione degli spazi si sviluppa in crescendo, in questo prevale la cura riverente di dare una cornice preziosa .. o

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Atene, Acropoli. L'Eretteo. In primo piano l'antico tempio di Atena. Pianta (1

:

300). Nuovo disegno.

1 99

a luoghi sacri e dunque l'architettura

ha

una funzione decisamente subordinata. Pure, i due monumenti

hanno in comune un aspetto, e proprio questo

è

tipicamente attico : che nell'uno e nell'altro caso l'archi­

tettura assolve il suo compito con la stessa agilità e magistrale disinvoltura; là nasce

il

più solenne degli

edifici, qua il più prezioso, ognuno perfetto proprio nella sua singolarità.

Il luogo ove sorse l'Eretteo era da età remotissima il più venerando dell'Acropoli. L'antico tempio

di Atena, sebbene mutilato dai persiani della sua peristasi, e riparato alla meglio, costituiva ancora il centro

religioso di Atene. Qui, e non nel Partenone, era custodito il leggendario simulacro ligneo di Atens, caduto dal cielo, in onore del quale si svolgeva il corteo delle feste panatenee.

Le fondamenta del tempio poggiavano (Odissea, VII, 8 1 ) ; al suo

sul palazzo miceneo dei primitivi re attici, sulla o splendida dimora di Eretteo •

lato nord avevano sede santuari antichissimi. Là erano sepolti i mitici re dell'Attica, nei quali sopravviveva il ricordo di divinità pregreche : Cecrope dal piede di serpente ed Eretteo, che Poseidone uccise nell'ira

e con ciò in qualche modo si fuse con lui.

È difficile distinguere da Eretteo un altro

personaggio, Erittonio,

il figlio divino di forze ctonie, che in seguito saranno chiamate Efesto e Gea, dato in cusa ad Atens che

a sua volta lo affidò, avvolto misteriosamente in uns cesta, alle tre figlie di Cecrope. Due di esse, trasgre­ dendo al divieto, guardarono il fanciullo dal piede di serpente e subito, prese da pazzia, si precipitarono

dai muri dell'Acropoli.

La

terza, Pandroso, « Colei che tutto irrora di rugiada t, ottenne un piccolo sacrario

all'aperto vicino alla tomba di suo padre.

Ma Erittonio d'allora in poi abitò in forma di serpente in uns

vicina fessura della roccia e vegliò sulle fortune della città. Quando questo t serpente dell'Acropoli t scom­

parve all'arrivo dei persiani, gli ateniesi seppero che anch'essi avrebbero dovuto abbandonare la loro città. Da questi miti traspare un oscuro sottofondo della luminosa religione apollinea, demoni ctoni della

morte e della fecondità ereditati dagli avi pregreci che, come a Delfi e ad Epidauro, la terra custodisce in sepolcri e in cavità popolate da serpenti.

Vi si ricollega un secondo mito della contesa tra Poseidone­

Eretteo e Atens per il dominio dell'Attica, raffigurato nel frontone ovest del Partenone. Poseidone colpi la roccia col tridente e ne fece zampillare una sorgente salata. Atens donò l'ulivo. Cosi la dea dell'intel­ ligenza industriosa riportò la vittoria sulle potenze sotterranee e al tempo stesso accolse il vinto nel suo ampio regno ; persino la raggiante Atens Parthenos di Fidia è accompagnata dal serpente-Eretteo. Anche I'Eretteo unisce sotto il suo tetto due stanze destinate a culti antitetici. La sua parte est do­ veva sostituire l'antico tempio di Atena e accoglierne il simulacro !igneo ; perciò essa presenta la forma

normale della cella di un tempio. La parte ovest, l'c Eretteo t vero e proprio, conteneva in sé tutti gli og­

getti sacri a culti ctoni e perciò si compone di diversi tipi architettonici legati a tradizioni diverse, di megaron, tomba e monoptero. Questo singolare monumento non si limitava dunque a rinnovare l'antico tempio di Atena, di cui del resto ricalcava la planimetria a quattro vani, ma doveva accumunare architet­ tonicamente in un nuovo tempio tutti quei luoghi sacri . .,

Sotto il pavimento del portico settentrionale si trova, visibile attraverso un altare a forma di fontana, il segno lasciato dal tridente di Poseidone. Sopra di esso si apre una fessura nel soffitto, perché il segno do­ veva rimanere sotto il cielo aperto. Ciò vale a spiegare l'insolita profondità (due interassi), la forma ampia e ariosa, l'accentuata indipendenza di questo portico dal corpo centrale : esso è concepito come un baldac­ chino a colonne aperto, come un • monopteros • del genere di quelli costruiti anche altrove, per esempio a Samo e ad Olimpia, per proteggere uns reliquia.

Il dono di Atens, l'olivo, si ergeva nell'attigua area dedicata a Pandroso ; vi si accedeva attraverso una

porticins aperta nella parete posteriore del portico nord, che qui fungeva per cosi dire da propylon. Questo spiega per qual ragione il portico nord sporgesse in modo cosi inorganico oltre la fronte ovest del corpo principale. Invece a metà della parete posteriore c'era una porta assai più ampia (m 2,43 X 4,88), la più splendida dell'antichità. Di là si entrava nel vano occidentale deii'Eretteo, che nelle iscrizioni è denomi­ nato « Prostomiaion •, parola che probabilmente designa il vestibolo di una tomba. Sotto il pavimento del prostomiaion, in una specie di cripta che una porticins sotterranea metteva in comunicazione col segno del tridente nel portico settentrionale, si apriva la fossa del serpente-Eretteo, con un laghetto salato alimen­ tato dalla sorgente di Poseidone. Nelle due stanze (divise da pareti a mezza altezza) in cui si ripartiva il vano ad est del vestibolo (cosiddetta cella di Eretteo) si trovavano secondo la tradizione gli altari di Efesto, di Bute (anche questo un re primitivo i cui discendenti si trasmettevano in eredità la carica di sacerdote di Atena) e di Poseidone-Eretteo.

200

L'ultimo dei monumenti sacri, la tomba di Cecrope, era nascosto sotto l'angolo sud-ovest dell'edificio. In questo punto non erano state gettate le fondamenta e lo spazio vuoto era coperto da robuste travi. In- ,

tomo, si apriva un piccolo temenos, che si appoggiava alle fondamenta dell'antico tempio e alla parete ovest

dell'Eretteo. Una parte della tomba veniva a trovarsi sotto la loggetta delle Korai, singolare costruzione in cui rivive un'antica forma di monumento sepolcrale, che meno di un secolo dopo avrà

il suo

capolavoro

nel Mausoleo di Alicamasso : sull'alto zoccolo della camera sepolcrale un mezzo giro di colonne regge '' il tetto a baldacchino.

La trabeazione, anziché da

colonne, è portata da calme e dignitose fanciulle. In questi

capolavori attinge la perfezione una delle invenzioni più graziose dell'architettura ionica, già apparsa nei

tesori di Delfi (p. •Hl· Incarnano esse le figlie di Cecrope l E

il

capitello che posa sulle loro teste - un

echino adorno di fogliame ionico e un abaco quadrangolare - rappresenta la cesta coperta in cui giaceva

il

bimbo Erittonio l In ogni caso ci è stato tramandato il ricordo di culti mistici che alludono a questo

(Paus., I, 27). Due vergini, chiamate Arrefore, ogni anno dovevano portare sul capo un recipiente misterioso fino al santuario di Mrodite, situato sul pendio settentrionale dell'Acropoli. Cosi certo anche le altre an­ tiche leggende di Atena, Poseidone ed Eretteo rivivevano in una rappresentazione sacra. Recentemente

è stato scoperto lungo il lato nord dell'Eretteo un piccolo teatro rettangolare, le cui gradinate chiudono su F;.. •• due lati uno spazio con altare ; sembra che tale teatro fosse sovrapposto a un altro molto più antico, di forma

simile. La sua disposizione ricorda il Telesterion di Eleusi (p. 2 1 1 sg.) o la scala (destinata agli spettatori) presso

il

tempio di Despoina a Licosura (p. 166), che servivano anch'essi per le sacre rappresentazioni.

All'Eretteo, nato com'era dalle esigenze della pietas, era negata a priori la semplice grandezza menu­ mentale del Partenone ; in compenso i costruttori vi profusero tutta la ricchezza, tutta la delicatezza raf­ finata di cui il decorativismo ionico era capace, sicché esso dovette apparire come un prezioso reliquiario nelle dimensioni di un tempio. Il corpo centrale fu coronato da un architrave articolato in tre fasce che

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- interrotto solo dal tetto del portico settentrionale - si svolgeva anche attorno alle pareti longitudinali chiuse. Esso era ornato da un fregio lungo 6o m e alto 62 cm, incorniciato da fogliame a rilievo, che intro­

duceva nell'architettura le delizie preziose ma un po' anguste dell'artigianato artistico. Qui, con una tecnica fin'allora applicata soltanto a materiali pregiati come ebano e avorio - per esempio sulle basi delle statue del culto - le figure di marmo bianco sono lavorate separatamente e poi collocate su uno sfondo di pietra scura eleusina. Dai frammenti di figure ritrovati, più di cento, non si ricava con sicurezza il tema del fregio. Essi presentano affinitA stilistiche con i rilievi della balaustrata del tempio di Atena Ni.ke - lo stesso vir­ tuosismo dei giochi di luce, lo stesso contrasto di corpo e linea - ma sembrano meno drammaticamente mossi, condotti in modi più lirici e dolci, conformi alla natura del complesso architettonico.

Il cornicione sovrastante, di forma normale come quello del tempio di Ni.ke, è coronato da una sima

ornata di teste di leone e su queste s'innalzano a loro volta antefisse a palmette (ce ne sono pervenute solo copie d'etA romana). Con ciò, si mescolano due elementi che finora si escludevano nettamente ; per la prima volta la logica, caratteristicamente greca, della forma, viene intaccata da una tendenza più decorativa. La trabeazione, insieme con la chiara superficie del tetto a due spioventi, è l'unico legame che salda in unitA i lati dell'edificio, cosi diversi l'uno dall'altro, dal momento che i tre ordini di colonne differiscono sia nelle proporzioni che nei particolari.

Le

sei colonne della peristasi est sono le più snelle non solo del- ''

l'Eretteo ma dell'intera Attica (altezza m 6,59, cioè 9,52 volte il diametro di o,69 m); di qui la fragile delicatezza di questo portico. Certe finezze, come la lieve inclinazione delle colonne verso l'interno (di soli 2 cm) sono imitate dal Partenone, ma conformemente alla tradizione ionica mancano sia entasi che curvatura.

Le colonne del portico nord sono più distanti fra loro (interasse J,85-3·76 volte il diam. inf. ; portico " inf.). In cambio lo sviluppo verticale è leggermente minore (9,35 diam. inf.). La base attica è giunta a completa maturi!A nell'Eretteo; la proporzione dei membri - la forte rien­

est 3,05 diam.

tranza del trochilo tra due tori elasticamente espansi - è accuratamente calcolata. Il toro superiore delle

culonne est è ancora scanalato (come nel tempio di Atena Nike) e la stessa modanatura circonda in basso' l'intero edificio, a guisa di zoccolo. Nel portico nord il toro superiore è decorato a treccia (di tre c

nastri)

un toro a treccia dello stesso tipo si ritrova sotto le volute del capitello, che arricchisce di un motivo ori­

ginalissimo. Un effetto favoloso nasce dal fatto che tutte le maglie della treccia erano riempite di perline di vetro policrome, e che le volute dei capitelli, piene di elastico slancio, erano orlate di strisce di bronzo dorato ; queste, dipartendosi da una rosa centrale, terminavano in una fine palmetta metallica che riem-

201

piva lo spazio tra toro e voluta. Ci si domanda se quest'opera sia stata eseguita da tagliapietra ordinari o da orefici. L'ipotrachelio delle colonne è circondato da un fregio floreale a rilievo, nel quale la spinta ascensio­

P;,.

nale della colonna assume forma organica. Un fregio simile corona le pareti e i pilastri ad anta. Qui un "'

antico motivo ornamentale - l'alternanza di fiori di loto stilizzati e di palmette su viticci intrecciati -

'' grazie all'innesto c naturalistico t di foglioline di acanto, agli incavi ombrosi, alla vibrazione nervosa delle linee, è rinnovato in un senso che si avvicina allo o stile ricco 1. Al di sopra, una doppia fila di foglie sta a segnare la o connessione • tra parete portante e architrave portato, alla

cui

pressione si contrappongono

le foglie. Come si vede si tratta di qualcosa di più di un'aggiunta ornamentale, e tuttavia lo schema statico dell'edificio diventa percepibile soprattutto per tramite di questi ornamenti. Nel portico nord i costruttori profusero più che altrove le loro finezze, e non solo per la decorazione, che tocca il culmine nella intelaiatura della porta, ricca eppure dosata con grande

misura, e spesso oggetto

di imitazione in seguito ; le colonne sono anche qui inclinate di circa 2 cm verso l'interno e contempora­ neamente in direzione dell'asse medio, e l'entasi di soli 6 mm è cosi tenue che neanche un occhio esercitato pub percepirla.

Su questo colonnato sembra librarsi il soffitto marmoreo a cassettoni, retto da travi basse. Esso mi­

sura 5,70 m di larghezza, superando dunque il soffitto dei Propilei.

Della facciata ovest, con la sua strana fusione di colonna e pilastro, abbiamo già parlato. Questa forma fu largamente imitata soprattutto nelle facciate di teatri del IV secolo. Gli intercolunni erano chiusi origi­

nariamente da basse barriere e da una cancellata di legno ; solo l'ultimo a sud, posto sopra la tomba di Cecrope, rimase interamente aperto, forse per ragioni inerenti al culto (le pareti che oggi li riempiono, come •s

anche le finestre, risalgono all'epoca romana).

Quanto alla loggetta delle Korai, il pezzo più deli2ioso deii'Eretteo, noi moderni vi riconosciamo ben poco del suo sottofondo demonico, del suo significato originario di sepolcro del mitico re dal piede di ser­ pente. Forse gli ateniesi lo vedevano con altri occhi, oppure hanno innalzato coscientemente l'oscuro

sostrato della tradizione alla sfera imperturbabile della forma classica. Si crede che le sei Korai siano opera

di Alcamene e di un suo allievo. Fedeli alla tradizione fidiaco essi hanno dato un impianto decisamente architettonico alle fanciulle erette e calme nella chiara simmetria dei loro assi, al che probabilmente con­ tribuisce il panneggio verticale del peplo, in

cui

sembrano trasparire le scanalature di colonna. Tuttavia

le leggi formali della scultura si dimostrarono abbastanza forti da avere il sopravvento su una regola ar­

chitettonica : perché le due Korai laterali potessero volgersi un poco verso l'esterno, dall'uno e dall'altro

fianco della loggetta, la loro gamba libera doveva sporgere in dentro, la gamba che regge il maggior peso

all'infuori. Lo spostamento del peso causa in tal modo una strana inclinuione delle figure verso l'esterno anziché, come suole avvenire alle colonne, verso l'interno.

La trabeazione che poggia sulle teste delle Korai non doveva essere opprimente ; percib l'architrave è particolarmente basso e alleggerito da una fila di rosette sovrapposte (incompiute) ; inoltre, al posto del­ l'alto e pesante fregio vi è adottato il più leggero motivo della dentellatura (fig. orientale.

1 13), originario della Ionio

Speciale interesse presentano i rendiconti finanziari, che ci sono pervenuti in condizioni di comple­

tezza insolita. Vi sono calcolate

fin le infime minuzie con una pedanteria burocratica davvero c classica &,

di fronte alla quale i conti sommari della generosa età di Pericle decisamente sfigurano. Nel solo anno 408-407 furono incise su tavolette di marmo oltre 26oo righe, a testimonianza eterna dell'opera. Dapprima nell'anno 409 una commissione fece l'inventario dell'edificio, da anni interrotto causa lo sfavorevole an­

damento della guerra. Di ogni pietra incompiuta sono registrate le misure. Ne risulta che il tempio era costruito fino all'altezza della trabeuione, che il portico delle Korai e quello occidentale erano compiuti,

il portico nord vicino al compimento. Le colonne del portico est mancavano di scanalature, le pareti non

erano ancora rifinite. Fregio, geison, soffitti e tetto non erano ancora cominciati. Nei rendiconti seguenti è annotato nome, patria, lavoro e paga di ogni singolo artigiano ; tutti, dall'architetto (che fungeva anche da direttore dei lavori) all'indoratore, dal carpentiere all'ultimo tagliapietra percepivano la stessa paga gior­

naliera : una dracma. Dai dati particolareggiati si poterono persino ricostruire i soffitti a cassettoni !ignei del vano est e del vano ovest ; essi erano riccamente indorati e decorati con motivi di acanto a rilievi e rosette.

202

Un esempio pub dare un'idea della accuratezza e precisione tecnica con cui si lavorava la pietra : alle scanalature delle sei colonne del portico est lavorarono gruppi composti di +·7 tagliapietra, in qualche caso un maestro con numerosi suoi figli. Per ogni colonna sono registrate 3SO giornate lavorative, oppure due mesi di lavoro di un gruppo, che si suddividono in quattro procedimenti : dapprima arrotondamento della colonna grezza (so giornate); poi sfaccettamento della stessa fino ad ottenere un numero di poligoni corrispondenti alle scanalature e ai listelli (90 giornate) ; escavazione delle scanalature con scalpello e ferri dentati (roo giornate) ; infine con uno scalpello più fine si dava la forma definitiva alla colonna e se ne le­ vigava la superficie (uo giornate). Le figure del fregio sono sempre designate secondo il motivo e non con i loro nomi mitologici; per esempio c Agatanore di Alopeke (ha ricevuto) per le due donne vicino al cocchio e per i due muli 24-0 (dracme) •· Esse sono opera di diversi maestri (probabilmente gli stessi che hanno collaborato al progetto e alla esecuzione della decorazione) che naturalmente si sono serviti di modelli. Considerata la libertà che era riconosciuta ad ogni singolo operatore, che non lavorava mai secondo schemi fissi, non si loderanno mai abbastanza le doti artistiche di questi semplici artigiani. Ed ora riconsideriamo il Partenone. È possibile concepire due opere che, a onta della grande diver­ sità, si accordino in modo più armonico 1 Là l'eroica tensione, la grandiosa e severa forma del Partenone, qui l'agile grazia, la forma ricca e sciolta, ma complessa, dell'Eretteo. Non occorre il suggerimento che ci viene dalle Korai della loggetta per aderire al giudizio di Vitruvio, il quale paragona l'ordine dorico alla robusta bellezza del corpo virile, l'ordine ionico alla figura femminile, più esile e ornata (IV, l, 6-8).

ATENE (CITTA) IL c THESEION •

(EFESTEO)

Taoo. 32-35. Fi{f. 70

Su un colle al margine ovest dell'agorà, un tempo centro della città, tra il +SO e il f+O fu eretto un periptero dorico in onore di una coppia divina : Atena ed Efesto, il fabbro divino zoppo di una gamba; entrambi protettori delle arti, secondo una versione mitica anzi uniti in matrimonio non molto armonico. Nella decorazione scultoria di questo tempio occupano un posto speciale Eracle e Teseo ; percib è stato at­ tribuito per lungo tempo a questi due eroi (la denominazione corrente è ancor oggi « Theseion »); tuttavia le iscrizioni, e soprattutto l'accertata esistenza nei dintorni di botteghe di calderai, che si erano stabilite in quei luoghi sotto la protezione del loro patrono, testimoniano in favore della più recente attribuzione. Da due millenni e mezzo questo periptero dorico troneggia sul mercato, nel quale sono stati eseguiti nuovi scavi. Sotto i bizantini, esso venne trasformato in chiesa di San Giorgio, ma senza importanti mu­ tamenti. Da questa trasformazione deriva tuttavia la volta che altera l'armonia della cella. Il tempio fu costruito quasi contemporaneamente al Partenone, e aveva anche molti aspetti in co­ mune con esso, pur rimanendo nettamente al di sotto. E ciò non sembra dipendere soltanto dalle sue mo­ deste dimensioni (l'intero Theseion potrebbe essere contenuto nella cella del Partenone l) ; tra i due monumenti corre anche una differenza di livello formale e sostanziale, che serve a renderei più consape­ voli dello spirito veramente incomparabile che animava gli artefici dell'Acropoli. Il c Theseion • rispec­ chia la linea di svolgimento c normale t dell'architettura attica (nella misura in cui è lecito parlare di c nor­ malità • a proposito di questa architettura sempre atraordinaria) cosi come essa decorre senza un letino o un Fidia; i loro influssi infatti agirono soprattutto esteriormente sul Theseion, per quanto fossero ab­ bastanza forti da imporre una modifica del progetto nella seconda fase costruttiva. Il materiale, come già per il Partenone prepericleo, fu ricavato dalle cave del Pentelico, allora di recente aperte allo sfruttamento ; inoltre, per le sculture e per alcuni membri architettonici, fu adoperato marmo pario d'importazione. Sorprende invece che si sia voluto risparmiare sul gradino più basso del basamento, che è in calcare comune e pertanto si accorda più alla natura del suolo che all'alzato. Ci si spiega forse col fatto che le misure della peristasi sono state riferite dal progetto al più basso gradino di marmo, cioè a quello mediano (invece che allo stilobate). Questo gradino rettangolare non soltanto misura roo piedi esatti, ma, come lo stilobate del Partenone, presenta un rapporto di + : 9 tra larghezza e lunghezza 203

Fil. ,.

(m 14,45 : 32,51). Poco convin­ cente è invece il fatto che questo rapporto si ripete in alto, nella testata del geison, l l • • • • • • • l l ma non ha riscontro nel vero • � fil • l..l e proprio « corpo architetto­ l l l l l l • nico >>, i cui contorni sono di­ • ..l segnati da stilobate, colonne e • . ' • • • l trabeazione, sicché lo sforzo di stabilire una proporzione resta campato in aria. Esattamente come nel Par­ tenone, l'alzato fu disegnato o secondo la proporzione di 4 : 9, 5 10 15 2.0 M ma anche in questo caso in 70 Atene, il cosiddetto Theseion (Hephaisteion). Pianta (I : 300). Nuovo disegno. modo non perspicuo. La larghezza- del tempio (al livello del gradino medio) sta all'altezza delle colonne + l'altezza dei due gradini di marmo come 9 : 4 (m 14,45 : 5,71 + 0,71). I lati minori di questo rettangolo non partecipano a queste proporzioni. Più felicemente invece, tra altezza delle colonne e distanza da asse ad asse è applicato il rapporto canonico di 9 : 4 (m 5,71 : 2,58 � 9 : 4). Può essere casuale l'uguaglianza della proporzione fondamentale con quella del Partenone e, ciò che più conta, la sua triplice applicazione alla pianta, all'alzato e alle colonne ? Non è invece ragionevole vedere in ciò l'influsso dei progetti e delle teorie dei costruttori del Partenone, che certo erano state discusse ap­ passionatamente, già prima che si iniziassero i lavori, da una cittadinanza cosi naturalmente loquace come quella ateniese ? Comunque l'applicazione incerta e in qualche punto persino contraddittoria delle propor­ zioni tra i rettangoli, di cui si è detto, sembra confermare la tesi di un'imitazione non ben meditata. Come si è visto, l'elemento sostanzialmente nuovo nella peristasi del Partenone era la tensione risul­ tante dal compenetrarsi di densità (nella disposizione delle colonne) e leggerezza (nell'al2ato). Nel The­ seion la conformazione dell'ordine dorico è determinata esclusivamente dalla tendenza dell'epoca a diradare e alleggerire sempre più le forme. Le colonne più distanziate e più snelle che in passato (altezza pari al diam. inf. moltiplicato per 5,61 ; Partenone 5,48. Distanza 2,54 diam. inf. ; Partenone 2,25 diam. inf.) continua la tradizione di Egina e del tesoro degli Ateniesi di Del.fi. All'esempio di Delfi è da ricon­ durre anche la trabeazione alta e pesante (altezza 1,98 diam. ; Egina 1,99 diam.; Partenone invece 1,73 diam.). L'originaria severità, la grevità tettonica dell'ordine dorico è qui dissolta, e proprio perciò questo tempio è tanto inferiore all'intima grandezza del suo vicino, che non ha rivali. Le stesse tendenze informano la pianta. Esteriormente, questa presenta un aspetto normale : 6 X 13 colonne, semplice contrazione d'angolo, linee prospettiche delle pareti della cella rispettivamente sugli assi della seconda e della quinta colonna del portico frontale ; cella con pronaos e opistodomo, l'uno e l'altro con due colonne tra le ante ; portico ovest profondo un interasse e mezzo. Necessariamente, data la par­ ticolare ampiezza degli intercolunni, il portico ovest e i portici laterali risultano insolitamente spaziosi. In ciò è da vedere senza dubbio una intenzione artistica, come conferma una trovata originale (e piena di conseguenze per il futuro) dell'architetto : egli diede al portico ovest, aperto sull'agorà, l'ampiezza di due intercolunni, cosi che le colonne del pronaos vengono a trovarsi alla stessa altezza delle terze colonne dei lati lunghi. Ma non si fermò qui : prolungando la trabeazione del pronaos (che normalmente dovrebbe ter­ minare sulle ante) attraverso i portici laterali fino a congiungerla con la trabeazione esterna, egli conferi un volto nuovo al portico antistante ; questo si trasformò in un vano separato, con confini molto netti (al­ meno all'altezza della trabeazione), disposto trasversalmente al pronaos che anch'esso era portato alla pro­ fondità di due intercolunni. Sicché, chi entrava nella cella si trovava ad attraversare una successione di tre vani, uno dopo l'altro, il che significa che il nuovo senso spaziale dell'età classica (formulato in modo cosi fondamentale nella cella del Partenone) viene applicato nel Theseion anche alla struttura esterna del tempio,

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che invece nel Partenone era rimasta rigorosamente chiusa. Finora, una pianta simile era stata realizzata

solo in lonia e nella Magna Grecia. Dall'architettura peloponnesiaca, fedele sempre al motivo della • cor­ posità t, siamo ormai molto lontani.

Il portico est è posto ancor più in risalto, come vano a Bé stante, dalla decorazione plastica : ester­

namente, esso è adornato da metope scolpite e policromate che, come nel tesoro degli Ateniesi a Delfi, sono dedicate alle gesta dell'eroe nazionale Eracle e dell'ateniese Teseo. Sulle dieci metope della fronte est sono effigiate le fatiche di Eracle, sulle metope scolpite dei lati lunghi, che si estendono per due soli intercolunni (quattro metope per lato) il giovane principe Teseo vince il Minotauro e i )adroni.

Le

re­

stanti metope sono semplici lastre lisce di marmo bianco. All'interno, l'architrave prolungato del pronaos è ornato di un fregio ionico effigiante gruppi di divinità in atto di assistere a combattimenti milici; sulle altre tre facce interne del portico est il fregio si continua in forma di semplice nastro liscio dipinto in azZWTO.

Sull'opistodomo corre un secondo fregio, nel quale infuria una drammatica centauromachia ; esso

però, come l'architrave, copre soltanto la larghezza della fronte ovest della cella, da anta ad anta.

La

nuova concezione • spaziale • del portico est del Theseion la ritroveremo a Capo Sunio - in un

tempio dello stesso architetto - ma ancora più progredita, tanto che poté influire sullo stesso letino e, dopo di lui, su Scopa. A Basse (p.

16o)

e a Tegea riappaiono portici frontali della profondità di due inter­

colunni, se non che in questi casi, con maggiore sensibilità per l'economia del complesso monumentale, manca il discutibile prolungamento della trabeazione fino ai colonnati dei portici laterali, che rompeva la continuità della perislasi. Più recenti ricerche mettono in _relazione l'ampliamento del portico est con una modifica del progetto che avrebbe avuto luogo durante la costruzione, e che sarebbe stata suggerita dal progetto del Partenone, nel frattempo iniziato ; questa modifica consisterebbe nella sostituzione della cella precedente, più allun­ gata, con una più corta. Ma con ciò il fenomeno non si spiega ; infatti qui (nel Theseion) la perislasi attua un'idea esattamente opposta a quella del Partenone ; qui la vastità,là la compattezza. Ed è naturale che fosse cosl, che l'architetto del Theseion, geloso della sua indipendenza, non volendo scivolare nella scia del Par­ tenone, non scorgesse altra via che la contraddizione per affermare la sua originalità contro la schiacciante superiorità del gruppo fidiaco. Ad ogni modo, per ciò che riguarda la concezione del vano interno della cella, egli non poté a meno di far proprio, in un secondo momento, il persuasivo progetto di letino : il co­ lonnato interno a due piani che corre su tre lati è stato senza dubbio aggiunto a uno stadio assai avanzato della costruzione della cella (che ha 4

X7

colonne). Essendo però lo spazio alquanto più ristretto che nel

Partenone, l'insieme risultò un po' angusto e meschino, tanto che il maestro si vide costretto ad addossare

il più possibile alle pareti i colonnati laterali onde ricavare una navata media in qualche modo idonea ad ospitare le due statue del culto, di Efeso e di Atena, che vi furono insediate soltanto verso il

420.

Le pareti della cella furono arricciate e intonacate per accogliere grandi affreschi. Se gli affreschi cosl preparati furono eseguiti, senza dubbio essi devono aver tenuto conto dell'architettura, cioè delle colonne che sorgevano a breve distanza, ai fini della composizione ; ed è possibile che il caratteristico amalgama di elementi architettonici e di elementi pittorici, che si va sempre più imponendo nella pittura del tardo ellenismo, prenda le mosse da esperienze simili a questa.

La

lavorazione della pietra non la cede in qualità a quella del Partenone, anche se alcune differenze

teeniche rivelano chiaramente la presenza di una maestranza diversa.

Le

curvature sono riscontrabili su

tutti e quattro i lati, dal basamento fino alla trabeazione (curvatura delle fronti

3 cm circa; lati lunghi circa 4•5 cm) e le colonne (inclinate verso l'interno di circa 4•5 cm) presentano una lieve entasi. Dal momento che qui - nella snellezza delle colonne, nella vastità e luminosità dei portici - prin­

cipi formali ionici si infiltrano largamente nella struttura architettonica dorica, non può sorprendere il fatto che anche nell'ornato, e in modo assai più sensibile che nel Partenone, prendano il sopravvento elementi ionici. Nel Partenone il fregio della cella era stato assimilato al contesto architettonico dorico grazie al mantenimento della taenia dorica; qui il fogliame ionico lussureggia liberamente sopra e sotto il fregio e trabocca persino sullo zoccolo della parete. Una vivace policromia doveva accentuare ancor più la gaiezza e luminosità di questo tempio. Il tri­ glifo, secondo l'uso, era impostato sull'alternanza di rosso e azzurro ; la sima, che correva tutt'intorno al­ l'edificio, con teste di leoni sputanti acqua sulle linee di gronda, era coronata da palmette policromate.

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La decorazione più ricca spettava ai soffitti a cassettoni dei portici esterni ; meandri variamente intrecciati, kyma ionico e dorico, stelle e palmette fonnavano una stilizzazione policroma stupenda. Scavi recenti hanno portato finalmente alla luce avanzi dei gruppi frontonali che si credevano per­ duti. Sembra che nel frontone orientale una figura centrale in trono (Zeus) fosse incorniciata da figure stanti, cocchi e figure giacenti. negli angoli. Questo rientra ancora nel gusto compositivo dell'età classica arcaica, che conosciamo dal frontone orientale di Olimpia. Del resto, finché un'interpretazione più convin­ cente non verrà a scalzare quella fin qui prevalsa, che vede nella scena l'introduzione di Eracle nell'Oiimpo (e non assegna parte alcuna ad Efesto, il titolare del tempio) l'attribuzione del tempio ad Efesto (tutt'oggi oggetto di dubbi) resterà assai precaria. Nell'autore delle sculture, concepite in modo decisamente unitario, si crede di riconoscere uno sco­ laro di Mirone per via dei suoi motivi ricchi di movimento drammatico, dei suoi corpi modellati con rude severità. Sembra che egli abbia terminato il suo lavoro prima che fossero compiuti i frontoni del Partenone; ma a quel livello non si innalzano nemmeno le sue creazioni più agili, le Esperidi che si librano sull'acroterio centrale. A questo proposito si può dire, come dell'architettura : • Forse nulla esprime più chiaramente la differenza di rango spirituale esistente fra i due maestri come il possente simbolismo cosmico che corre per tutto il Partenone; di ciò il maestro del Theseion non ha la più remota intuizione t (H. Koch). L'OLYMPIEION J'

Taflf). :J6, XXX, Fig. 7I

In un vasto recinto rettangolare murato, a sud-est dell'Acropoli, si ergono ancor oggi IS gigantesche colonne corinzie. Esse appartengono a un tempio di Zeus Olimpio la cui peristasi un tempo ne contava Io4; si tratta di un'opera colossale che i romani entusiasti della civiltà greca consideravano una meraviglia, ma che sul suolo dell'Attica fa l'impressione di un corpo estraneo ed è messo in ombra dall'Acropoli. Il culto di Zeus è qui antico ; lo si faceva risalire a Deucalione, cioè, tradotto nel nostro linguaggio, a Adamo. Il più antico tempio di cui conosciamo l'esistenza da resti di muri trovati sotto l'attuale costru­ zione, era un periptero di circa 30 X 6o m ( IOO X 200 piedi) probabilmente edificato ancora prima della metà del VI secolo a. C., forse sotto il tiranno Pisistrato, che fu al governo dal 56I. Se si pensa che allora il re degli dèi non possedeva ancora un proprio tempio nel suo grande santuario panellenico di Olimpia, è il caso di vedere in questa mole, notevolmente maggiore per dimensioni del tempio di Atena sull'Acro­ poli, più l'orgoglio di un principe che l'espressione della pietà popolare. E certo tutta la magnificenza lar­ gita al re dell'Oiimpo si rilletteva sul despota terreno. I due figli di Pisistrato conoscevano i templi giganteschi della Ionia ; proprio allora il tiranno Poli­ crate aveva fatto cominciare nel santuario di Era a Samo un colossale diptero (p. 269) ; anche Atene do­ veva possedeme uno simile l Ora, è chiaro che il progetto del diptero iniziato dai Pisistratidi è eaemplato su quello di Samo : una doppia fila di colonne circondava la cella alquanto allungata; davanti alla fronte di questa anzi, tre file parallele di otto colonne ciascuna formavano un vero bosco di colonne (8 X 2I, in tutto Io8; stilobate m 4I X IO"J,7S)· Anche le caratteristiche specificamente ioniche della pianta sono mutuate da Samo : cosi l'evidente allargamento dei portici frontali, che aveva come conseguenza un allargamento dei tre interassi angolari dei lati lunghi della misura di circa 30 cm; cosi il ritmico decrescere dei sette interassi frontali, che divengono sempre più stretti dal centro agli angoli. Tali irregolarità non sono compatibili con un fregio dorico a triglifo ; sembra dunque che fosse previsto l'ordine ionico, sebbene ciò sia contraddetto dal diametro eccezionalmente grosso dei rocchi di colonna a noi pervenuti (m _2,40; per confronto Samo : m I,6s-2,os). Effettivamente le colonne erano ammassate con una densità che solitamente si riscontra solo nei templi dorici. (L'interasse medio sulla fronte è di circa s.so, sui lati lunghi di circa 5,25 m ; il rapporto tra interasse e diam. inf. è dunque di circa I : 2,3; si deve ritenere invece che le colonne dei lati lunghi, come a Samo, fossero un po' più snelle. Si confronti : Corinto I : 2,3 I ; antico tempio di Atena I : 2,48 ; tempio di Zeus ad Olimpia I : 2,32. Nei templi ionici le colonne sono più distanziate ; Samo I : 4 max, I : 2,5 rnin). Si deve supporre che gli architetti deli'Olympieion - Vitruvio ne cita quattro - abbiano voluto dare alle colonne ioniche le proporzioni doriche, che erano loro familiari, onde conferire all'edificio la severa monumentalità dello stile dorico, tanto più che esso doveva imporsi all'ammirazione soprattutto per le sue possenti dimensioni 1 Oppure si volevano far risaltare contro la labirintica planimetria ionica le chiare e

206

rigorose forme dell'architettura dorica ? Comunque stiano le cose, questo astruso esperimento nato dalla fantasia di un tiranno fu risparmiato ad Atene. L'opera non si era ancora innalzata oltre lo stilobate quando, nel 510, Ippia fu scacciato dalla città. La neocostituita democrazia fece interrompere subito i lavori. Nel 479 Temistocle poté permettersi di adoperare per la costruzione di una vicina porta della città i rocchi di colonna preparati per l'Olympieion; questo evidentemente era sentito piuttosto come espressione del­ l'ibridismo stilistico promosso dalla tirannide che come proprietà sacra di Zeus ; anche Aristotile lo porta ad esempio del modo in cui i tiranni costringono il popolo al lavoro servite perché non sia distratto dal pensiero della libertà (Poi.

V,

II,

4). Le

vere ragioni del rifiuto, tuttavia, saranno probabilmente più pro­

fonde; l'Oiympieion violava il senso della misura, cosl sentito nell'Attica. L'essenza dell'architettura at­ tica è sempre stata nella compiutezza formale, non nell'imponenza delle misure o dei numeri. Dopo una pausa di 300 anni, il tempio ne assunse l'iniziativa

fu un principe,

fu

ricominciato, e lo stimolo venne di nuovo dall'esterno ; chi

Antioco IV di Siria. Intorno al 175 a. C. egli diede incarico all'archi­

tetto romano Cossuzio di costruire sulle antiche fondamenta un tempio diptero, ma questa volta di ordine corinzio. Dobbiamo pensare che Antioco non trovasse un maestro capace di tale impresa proprio ad Atene, la città che era l'accademia deli'Ellade, come aveva detto Pericle ? Evidentemente Atene aveva perduto, insieme con la libertà, anche il suo impulso creativo. Il suo patrimonio spirituale era divenuto bene co­

mune del mondo ellenistico ; e vi è un senso di tragica ironia nel fatto che l'antico centro di cultura e di civiltà, ormai impotente e ridotto a vivere dei riflessi della sua gloria passata, dovesse ora accettare in dono da principi stranieri ciò che essa stessa aveva donato

al

mondo.

Il capitello corinzio era creazione puramente attica, nata come prodotto prezioso dell'artigianato ar­ tistico e trasformata da letino in una forma architettonicamente vitale e nello stesso tempo portante (fig. 47), che era come fatta apposta per soppiantare il capitello ionico, troppo costretto dalla unidireziona­

lità della voluta. Egualmente sviluppato in ogni direzione, il capitello corinzio si adattava docilmente per­

sino agli angoli della peristasi, finora cosl problematici. Solo l'effetto monumentale sembrava mancare

a questo capitello rotondo, inghirlandato da foglie frastagliate di acanto, avvolto da elastici steli spiraliformi e coronato da un abaco finemente sagomato a curva rientrante nei quattro lati. A Basse, a Tegea (p. 165), a Nemea, nelle rotonde di Delfi, Epidauro e Olimpia esso è sempre assegnato all'interno, dove può libera­ mente mettere a frutto le sue virtù di ricchezza e levità, la sua fluidità connettiva. E quando per la prima volta - di nuovo su suolo attico - questo capitello apparve all'esterno di un edificio, fu in un monumen-

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111 � - � - tl] - tl] r. • • · · · · · · ·

10

71

o

2.0

Atene, Olympieion. Pianta (1 : 6oo). In nero le parti ancora esistenti, in grigio quelle accertate; in bianco quelle ipotetiche. Nuovo disegno. ·

207

tino sperimentale al confine tra architettura e artigianato artistico, un tempietto rotondo in miniatura eretto per servire da basamento a un tripode che Lisicrate aveva ricevuto in premio nelle feste dionisiache del 334Per l'ellenismo le regole formali classiche non contavano più. Una sfrenata tendenza alla grandiosità,

ai contrasti drammatici, alla retorica dell'effetto in lontananza , aveva abbattuto tutte le barriere dell'ordine

classico, soprattutto nei regni orientali di recente fondazione. Quest'epoca non mirava più alla calma, alla bellezza, all'armonia, ma alla magnificenza delle poderose facciate che con accorta disposizione prospet­

tica incorniciano spazi vasti e distanti. La corsa al gigantesco andava di pari passo con

una decorazione

strabocchevole, volta ad alleggerire l'enormità delle masse. Il capitello corinzio era addirittura predesti­ nato a divenire il beniamino di questi artisti ; con la sua forma sfruttabile da ogni lato, con la sua molte­ plicità insieme movimentata e decorativa, soddisfaceva appieno al gusto di magnificenza dei tempi.

Un ufficiale di cavalleria di Alessandro, Seleuco I, che dopo la sua morte regnò su un immenso do­

minio dall'Egeo all'lndo, fece

il

primo passo con la costruzione di un periptero in ordine corinzio a Dio­

cesarea ; con ciò egli liberò il capitello a foglie dalla cornice intima dell'interno, al quale l'età classica lo

aveva assegnato. n suo successore sul trono siriaco, Antioco IV, fece il secondo passo, e cioè diede all'or­ dine corinzio le dimensioni che si addicevano allo spirito del tempo e cominciò un edificio, il tempio di

Zeus ad Olimpia, che rimarrà per tutta l'èra antica modello ammiratissimo. Questo Antioco, una delle più splendide peraonalità di despota assetato di potere, nella sua qualità di principe era stato educato ad Atene. Quando fu re ed ebbe conseguito alcuni successi bellici - avrebbe conquistato l'Egitto se i ro­ mani non fossero intervenuti ad impedirglielo - concepl l'ambizioso progetto di unificare l'intero Oriente,

religiosamente diviso, nel culto di Zeus Olimpio. Zeus doveva assorbire Baal e lo Jahwe dell'Antico

Testamento e l'incarnazione terrena di questo super-dio era lui stesso, Antioco. Una copia della statua fidiaca di Zeus, che egli fece eseguire ad Antiochia, aveva i suoi lineamenti; e persino il tempio di Geru­

salemme dovette rassegnarsi ad accogliere nei suoi penetrali una statua di Zeus. Le sue monete recano la testa di Zeus-Antioco con la scritta : c Re Antioco, incarnazione del Dio, portatore della Vittoria t. Atene

gli parve il luogo adatto per esibire davanti agli occhi del mondo civile la sua folle idea di grandezza, perciò

il

tempio che egli fece iniziare in questa città per se stesso e per il suo alter ego celeste, doveva essere

a tutti i costi il più grande e il più sontuoso che si potesse pensare. Dopo l'improvvisa morte del de­ spota, avvenuta nel 16+ a. C., l'edificio rimase incompiuto per secoli. Intorno aii'Ss Silla fece imbarcare per Roma alcune colonne per adornarne il tempio di Giove capitolino. L'esempio di queste colonne apri

la strada all'incontrastato trionfo dello stile corinzio a Roma. Verso la fine dell'età augustea alcuni despoti di piccoli stati sorti dalla dissoluzione del regno siriaco, vassalli di Roma, si accordarono per condurre a

termine il tempio e per ingraziarsi i dominatori decisero di dedicarlo al • Genio • dell'imperatore.

Ma al

massimo fecero costruire un paio di colonne. n completamento della gigantesca opera doveva toccare a

un imperatore che più di un altro aveva a cuore le sorti di Atene : Adriano. Egli stesso era architetto di­ lettante e animato da una passione architettonica senza uguali aveva studiato da intenditore i capolavori del passato. Fu lui che intorno al 130 d. C. fece eseguire senza alterazioni il progetto di Cossuzio. I suoi capitelli sono copie fedeli di quelli ellenistici, distinguibili come tali solo da alcune involontarie deforma­

''

zioni degli stampi, che si erano allentati col tempo.

Le dodici colonne dell'angolo sud-est rimaste insieme spettano alla fase costruttiva di Cossuzio, le

tre isolate del portico sud alle due fasi costruttive romane. Il tempio nel complesso può essere senz'altro considerato come progetto unitario di Cossuzio. Non vi si riscontrano tratti specificamente romani ; evi­ dentemente l'architetto, benché romano, si era fonnato alla migliore tradizione ellenistica. La pianta è ricalcata sul diptero dei Pisistratidi,

il

che non deve stupire, dal momento che l'ellenismo sentiva natu­

ralmente affine lo smisurato e il gigantesco e proprio in quest'epoca furono ricostruiti anche i dipteri ar­

caici di Efeso e di Didime (pp. 275 e 279). L'unica variante apportata al vecchio progetto è assai significa­

tiva. Gli interassi che prima erano differenziati, furono ridotti a Inisure pressoché uniformi (fronte : m s,so;

lati lunghi : 5.54), sicché tutte le IO+ colonne venivano a trovarsi sugli incroci di un reticolato quadrango­ lare. (Per conseguenza, restando invariate le dimensioni dello stilobate nella misura di +I,II

X

107,89 m,

le colonne dei lati lunghi, distanziandosi maggiormente rispetto allo schema dei Pisistratidi, si ridussero da 21 a 20). La potenza che deriva dalla ripetizione di uno schema all'infinito - a noi anche troppo nota dagli esempi moderni - cominciava ad imporsi.

208

Inoltre, mentre i Pisistratidi intendevano erigere il loro tempio in poros, per questa costruzione ve­ ramente principesca solo la pietra più preziosa, il marmo pentelico, era un degno materiale. Le sole co­ lonne inghiottirono una massa inaudita di marmo, ben 15.soo tonnellate, quasi il quadruplo delle co­ lonne del Partenone. E tuttavia l'atmosfera della città • classica • per eccellenza, e insieme la tradizione delle maestranze, certamente attiche, col loro richiamo alla chiarezza e al rigore delle proporzioni riuscirono a preservare l'edificio da quegli eccessi di gonfiezza e di decorativismo intemperante che prendevano sempre più piede in Oriente. Le colonne, a prescindere dai capitelli, hanno la classica forma • ionico-attica t. Solo che alla base attica si è aggiunto un basamento quadrato detto plinto, già usato nell'arcaico Artemision. D fusto a scanalature ioniche, con le sue proporzioni relativamente robuste (8 3/4 diametri inf. e cioè : altezza 16,89; diam. inf. 1 ,9z m) denota ancora un senso classico della forma; infatti in seguito la colonna corinzia su­ pererà di solito l'altezza di 10 diametri inferiori. I capitelli si rifanno ai modelli più illustri del IV secolo e sono sormontati da un architrave di semplice fattura, articolato in tre fasce. Fregio, dentelli e cornicione non ci sono pervenuti, sembra però che siano stati messi in opera soltanto all'epoca di Adriano. Cosi, in questo tempio, che fu concepito come monumento a un principe e poi a un imperatore alle porte della democratica Atene, si intrecciano due epoche : lo slancio vitale dell'ellenismo che mira ad ab­ bracciare ogni estremo con la sua potenza e grandiosità di mezzi, e la serena ed equilibrata • grandezza intima • della forma classica. Ciò �onostante l'Olympieion restò un corpo estraneo ad Atene, come tutti i monumenti che le età postclassiche hanno donato a questa città - per esempio gli immensi peristili della • Biblioteca di Adriano » e del • Mercato romano t - e ancor oggi non suscita un interesse pari al suo va­ lore. Le sue rovine non sono ancora state studiate a fondo, sicché non sappiamo nulla di sicuro sulla con­ formazione della cella che pure costituiva in più di un senso il fulcro spaziale di questo compleaso. Se Silla, invece di qualche colonna, avesse fatto trasportare a Roma l'intero tempio, se questo domi­ nasse oggi la città eterna dall'alto del Campidoglio, in un ambiente assai più omogeneo al suo stile sarebbe considerato il massimo capolavoro architettonico accanto al Partenone, ed Atene non avrebbe perduto che una piccola parte del suo patrimonio.

IL TEMPIO DI POSEIDONE A CAPO SUNIO TaflV.

4o-4I,

XII, Fig. 7Z

Passata la punta più meridionale, rotta e scoscesa, che l'Attica protende nel Mare Egeo, i venti del nord investono la nave con incontrastata violenza. Nessun altro luogo si prestava più di questo a tentare di placare con sacrifici il Signore dei venti e delle onde ; è perciò comprensibile che fin dai tempi omerici la roccia troneggiante su questo mare fosse consacrata a Poseidone : • Ma sulle sponde attiche, presso la punta sacra del Sunio .. • (Odusea, III, z78). Qui in età protoarcaica, cinto da un muretto che segnava i confini del temenos, doveva sorgere un semplice altare ; verso il principio del VI secolo, quando il gusto artistico si andava rapidamente volgendo al monumentale, furono erette davanti a questo altare, in onore del dio, enormi statue di giovinetti di dimensioni doppie del naturale. Per quasi un secolo esse annunciarono il luogo sacro ai naviganti lontani. Solo all'inizio del VIsecolo ci si accinse a costruirvi un tempio ; furono gettate terrazze, fu delimitato il temenos - come si faceva pressoché contemporaneamente ad Egina (p. 156) - con muri di sostegno di­ ritti, piegati ad angolo retto, vi si aggiunse un propylon a forma di tempietto in antis e con ciò la tenace forza dell'uomo impose un ordine estetico alla selvaggia natusa del luogo. Il tempio in poros era ancora in costruzione, quando i persiani invasori devastarono i santuari dell'At­ tica. Il suo stilobate fu usato come basamento del tempio in marmo costruito in seguito ; anche altri ele­ menti architettonici sono stati trovati nelle fondamenta. L'immagine che se ne ricava è interessant e; infatti questo periptero dorico prepara da vicino la planimetria classica, a tal punto che l'edificio eretto in sua sostituzione in età periclea ne poté adottare la pianta della peristasi quasi senza varianti. Qui non solo è stata adottata una proporzione ragionevole tra colonne dei lati lunghi e colonne dei lati brevi (6 X 13), ma .

.s.

anche la pianta (a quanto sembra per la prima volta nella madre­ patria) è calcolata sulla unità fondamentale di un interasse (di l l : l l l 7 1/2 piedi dorici = m 2,45); lei questo rimane costante nei quat­ : l l l l l tro lati, ed è nella proporzione IO, l l � l l fissa di 5 : 2 con il diametro inf. l ' l l (di 3 piedi = m 0,98). Anche le l l dimensioni dello stilobate (4o X L _. • • • 92 1/2 piedi = m 13,06 X 30,20) rispondono a una regola, vicina a quella del Partenone, che è di 1&1 l l l. l l 4 : 9· Purtroppo non sappiamo o 20 M 5 10 15 niente di sicuro circa la forma 72 Capo Sunio, tempio di Po3eidone. Pianta (1 : 300). Nuovo disegno. della cella. Dopo la distruzione del tempio ad opera dei persiani la statua di Poseidone, che evidentemente era stata salvata, trovò una sistemazione provvisoria in un tabernacolo messo insieme alla meglio con frammenti ; finché Pericle decise la ricostruzione dei santuari distrutti e cosi anche il Capo Sunio ebbe la sua parte nella rin­ novata magnificenza dello stato :attico. Il nuòvo tempio, questa volta tutto in marmo, fu iniziato subito dopo il 449· Il progetto, grazie alla « modernità J) dell'antico tempio, poté imitare da questo la pianta della peristasi, ingrandendola di poco (6 X 13 colonne; stilobate m 13,47 X 31,12; interasse 2,42, diam. inf. 1 ,04, semplice contrazione d'angolo di m o,15). Questo ingrandimento permise in qualche modo di rivestire il vecchio basamento col nuovo, marmoreo. E tuttavia una stupefacente variazione ha trasformato radicalmente l'aspetto della nuova peristasi : le colonne sono a tal punto sottili (la loro altezza è pari a 5,78 diam. inf., misura raggiunta e superata per la prima volta solo da costruzioni del IV secolo, come Delfi, Tegea e Nemea) che si ha quasi l'impressione di trovarsi davanti a un tempio ionico. Altre caratteristiche, come per esempio la tecnica muraria « pseudoisodoma », cioè di bassi e alti strati alternati (cfr. tesoro di Cnido, p. 142) che qui viene applicata alle pareti della cella mentre a quel tempo non era più in uso nell'Attica, ma soprattutto lo stile della decorazione plastica e il lussereggiante acroterio a pal­ mette, tradiscono la provenienza ionico-insulare delle maestranze. E viene naturale pensare, a questo pro­ posito, che in conseguenza della febbre edilizia di Pericle in Attica non si trovassero più tagliapietre a nessun costo, tanto che si era costretti ad attingere non solo i fondi ma anche gli artigiani dagli alleati orientali. Quanto all'architetto, doveva naturalmente_ trattarsi di un ateniese, anzi, dallo stile crediamo per­ sino di riconoscere in lui l'autore del Theseion. Qui però i caratteristici principi « spaziali » del progetto del Theseion hanno compiuto - e con coe­ renza - un passo avanti : non solo il portico est è stato portato alla profondità di due interassi, come là, ma la delimitazione spaziale ne è stata messa in risalto in modo ancora più pregnante; l'architrave del pronaos, come nel Theseion, si prolunga nei due deambulatori laterali fino a congiungersi con la faccia interna dell'architrave della peristasi, sicché il deambulatorio che si allarga davanti al pronaos è circon­ dato tutt'intorno da una propria trabeazione interna. Anche questo c'era già nel Theseion. Se però ora un fregio ionico figurato (con i soliti gruppi dei giganti e degli dèi in lotta, dei Lapiti e dei Cen­ tauri e delle avventure di Teseo) corre al di sopra dell'architrave su tutte e quattro le pareti interne del portico frontale, ecco che una rivoluzione segreta ha mutato il volto del tempio dorico. Ma mentre la tra­ sformazione del portico frontale in un interno indipendente, iniziatasi nel Theseion, trova qui la sua con­ clusione, ne nasce una stridente dissonanza fra interno ed esterno che addirittura incide nel tessuto vivo dell'edificio: una stridente dissonanza tra la concretezza della peristasi che circonda ed unifica, e il vano che vi si introduce violentemente, pur restando sottoposto a leggi diverse e ne interrompe il flusso tranquillo. Que­ sta discordia delle strutture si fa sentire fin nella decorazione ; la peristasi è un Giano bifronte : la sua tra­ beazione porta all'esterno il triglifo, all'interno un fregio ionico ; la concordia fra l'interno e l'esterno è rotta.



_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _______ _ _ _ _ _

F�. 1•

40

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210

Ma non basta ; la decorazione plastica, che fin'allora era stata concepita come un elemento del tempio

agente verso l'esterno - nel Partenone il fregio ionico orna le pareti esterne del naos e nel Theseion ai limita ancora a ricoprire entrambe le sue fronti - qui viene in certo senso rovesciata ed assunta a orna­ mento dell'interno. Per intendere con quanta consapevolezza strano esperimento, si consideri

il

il

nostro architetto abbia elaborato il suo

fatto che egli ha rinunciato completamente alla omamentazione pla­

stica delle metope della peristasi; queste sono semplici lastre lisce di marmo bianco. Si. noti a questo punto, che solo un architetto di eccezione come letino riuscl a portare fino in fondo

la concezione spaziale qui delineata, facendo quel deciso passo avanti in cui era la soluzione dell'enigma :

egli trasferl il fregio interno, coerentemente accompagnato da colonne ioniche, nel vero interno del tempio, la cella, e restitul alla peristasi (pur conservando la profonditA di due interassi ai portici frontali) la sua originaria compattezza. Sembra invece che l'architetto di Capo Sunio abbia avuto una particolare inclinazione per gli espe­ rimenti, non sempre felici. Nel portico ovest, per esempio, egli ci presenta una nuova variante; trat­ tandosi del retro del tempio, non -;.vrebbe avuto senso un ambiente « da ricevimento t cosi evidente come nel portico est ; perciò mancano

prolungamento della trabeazione sui due lati e il fregio. Ma anche

questo deambulatorio

profonditA di due interassi; e poiché qui le testate delle ante sono al­

il è portato alla

lineate con gli assi delle terze colonne cominciando da ovest (e non, come ad est, col filo delle colonne)

il

portico ovest risulta di un mezzo diametro più profondo del portico est. Questo

timo, un caso unico nella storia del tempio greco.

Se qui, come abbiamo visto, un tempio dorico

è

è,

e rimane fino all'ul­

talmente imbevuto di influssi ionici da rinunciare

ai suoi connotati essenziali di tettonicitA e di compattezza corporea, pure, la ri­

vela il punto di contatto con la patria : due file di piccole colonne doriche, ambedue collegate da un ar­ chitrave sovrapposto, suddividono anche qui la cella in tre navate. Questo >, si snodava una peristasi insolitamente profonda di 6 x 1 5 colonne che manteneva, rispetto

alla cella, la medesima distanza sia nella parte posteriore che nei fianchi (8 braccia ovvero 4, 1 6 m

+

4

braccia ovvero z,o8 m ampiezza dello stilobate) ma che nella facciata veniva ampliata a due interassi. Per con­ ferire alla facciata l'incondizionato predominio si innalzò poi dinanzi ad essa un secondo atrio di 6 x z

colonne - forse dietro suggerimento del più antico tempio di Apollo di Siracusa (p. 230) - si che da­ vanti alla facciata si ergeva una peristasi doppia con due vani larghi ciascuno due interassi. Come se non bastasse fu disposta .una vera e propria scalinata di otto gradini, la prima del genere nell'ambito greco, per

tutta l'ampiezza del tempio davanti alla facciata. Gli interassi della peristasi furono suddivisi con un ar­ bitrio addirittura ingenuo. Sia gli interassi che il diametro delle colonne oscillano in maniera considere­ vole già in un medesimo lato del tempio con differenze che variano da 23 a 17 cm; accanto a colonne con zo scanalature ve ne sono alcune con 1 6 senza una ragione apparente. Tra gli interassi della facciata (4,40

89

Selinunte, Acropoli. Tempio C. Pianta (1 : 400). Da R. Koldewey, 1899.

2 37 l'·

· ·· � .... ... , .. .

90

-.. - -

Selinunte, Acropoli. Tempio C. Facciata orientale (r : zoo). La curvatura dell'angolo del frontone Da R. Koldewey, 1 899·

91 /92 9Z

- ...... .

Selinunte, Acropoli. Tempio C. Da E. Gabrici, Mon. Ant., 35 (1933). 91 (sotto) Rivestimento in terracotta del frontone. (a destra) Testa di Gorgone del centro del frontone (rilievo in terracotta).

è

errata.

media) e quelli dei fianchi (m 3,86) sussiste addirittura una differenza del 1 3 %1 L'oscillazione dei dia­ metri deUe colonne, di m 1,91 in media nella facciata e m 1,81 nei fianchi, corrisponde all'oscillazione del­ l'ampiezza degli interassi. Quanto assomiglia nella pianta il tempio C al tempio di Apollo a Siracusa, altrettanto dissimili sono i due alzati. Non domina qui quella massività rigida delle articolazioni ; le colonne sono molto più snelle (4,53 volte il diametro inferiore contro 4) e disposte meno fitte (interasse laterale 2,13 volte il diametro inferiore contro 1,81). Poiché come a Siracusa gli interassi angolari non erano contratti, siamo indotti a chiedersi quale soluzione fosse stata trovata per il • conflitto angolare • che a Siracusa era ancora completamente ignorato. La risposta è che non sussisteva conflitto alcuno. Infatti, poiché l'architrave, a causa del minore diametro delle colonne che si rastremavano considerevolmente verso l'alto, era molto stretto e d'altra parte poiché i triglifi a causa dell'interasse più ampio erano di forma molto larga, il triglifo d'angolo cadeva quasi nell'asse delle colonne e la poca differenza che ancora sussisteva era molto facilmente compensata da un ampliamento del triglifo angolare stesso (1o-15 cm circa). l triglifi e le metope si susseguono cosi quasi della medesima ampiezza e sono quindi press'a poco anche del medesimo valore, privi della tensione ritmica dei fregi più recenti. Tanto più evidente salta quindi agli occhi la larghezza alternata dei mutuli : poiché i mutuli che si trovavano sopra ai triglifi occupavano tutta la larghezza dei triglifi stessi, quelli che si trovavano sulle metope di uguale larghezza dovevano disporsi molto più stretti per lasciar posto ancora ad una membratura intermedia (• via •). Si costruiva qui con una sovrana indifferenza, senza alcun riguardo all'esattezza e alla regolarità. Cosi anche l'essenza e l'effetto del tempio antico non era dovuta all'equilibrio delle parti e al puro accordo del­ l'insieme, ma all'espressione immediata e all'esuberanza delle due articolazioni, ad una vitalità selvaggia ancora indomita che si può calcolare e immaginare solo se si immaginano i rivestimenti e i coronamenti di terracotta, ricchissimi e policromi, che rivestivano tutto il frontone e il margine del tetto. Le parti frontali del geison erano ornate con lastre di argilla rivestite di ornamenti ; sopra si piegava una sima anch'essa dipinta a molti colori, nei Iati di scolo con intrecci di viticci e di fiori traforati, sopra al frontone con grevi festoni di foglie sopra un fregio dipinto di antemie. E questa sima poteva anche non mancare sul geison sotto al triangolo frontonale, come nel tesoro di Gela, dove queste forme cadono del tutto a sproposito. La facciata - in questi templi • frontali • dell'Occidente ve ne è solo una, queUa del lato d'ingresso era messa particolarmente in evidenza dalle celebri metope scolpite. Si tratta di rafligurazioni a rilievo di un tono crudamente favolistico - Perseo che decapita la Gorgone, Eracle che si trascina via i Cercopi in cui l'audace tentativo di creare profondità spaziale - una quadriga viene presentata in veduta frontale - illumina da un altro lato la singolare tendenza dell'architetto per la spazialità. Un rilievo in argilla veramente singolare, alto m 2,75, riempiva il triangolo frontonale, una gigantesca testa di Gorgone policroma di cupa forza espressiva. Non manca molto che tutto il tempio, con le sue colonne mosse da una energia vitale, con la sua testa demoniaca digrignante, si trasformasse in uno sfrenato essere favoloso. Il periodo successivo intervenne in questo selvaggio arcaismo moderando e « modernizzando • secondo il suo gusto più sensibile. La decorazione del tetto fu in parte sostituita da un'ornamentazione più tenera. Le profonde gole che dividevano il cuscinetto schiacciato del capitello dal fusto furono riempite di stucco. Cosi il tempio continuò a dominare sulla città sempre più in declino finché nel periodo palco­ cristiano un violento terremoto lo fece crollare sulle capanne del povero villaggio sorto intorno a lui. Nel 1926 fu rimessa in piedi la parte settentrionale della peristasi. in

SELINUNTE, IL GRUPPO ORIENTALE DEI TEMPLI Separati dalla città da una piccola valle che sfocia nel porto oggi insabbiato di Selinunte, spiccano al margine di una pianura leggermente digradante i ruderi di altri tre grandi templi peripteri. Ci si è spesso domandati perché fosse stato fondato davanti ai templi della città un secondo recinto per una trinità di­ vina ; generalmente i santuari al di fuori della città erano dedicati ad una divinità singola. Era forse diven­ tato troppo stretto lo spazio sull'altipiano cittadino ? Forse che un popoloso sobborgo cittadino era diventato

ZJ 9

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Fig. ''

Fili. ••

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talmente ricco ed indipendente che, in gara con la città, aveva costruito templi più grandi in cont:rasto con quelli della città ? Sia come sia, la smisurata ansia costruttiva di questa piccola città commerciale non de­ rivava unicamente

può spiegare senza lo stimolo all'emulazione innato in

ogni greco. La

dalla sua devozione, e non si o concorrente & era forse la molto

più potente Siracusa.

IL TEMPIO F

Fw.

Taf!v. IJ4, IJS, Figg.

93-95

Il tempio più antico del gruppo che si erge in mezzo agli altri due e che fu innalzato verso il 530 rap-

u presenta, se si considera la sua cella, il successore immediato, anzi il pendant del tempio

C : lo stesso al­

lungamento eccessivo del naos, addirittura ancora più stretto e quasi altrettanto lungo (circa m 9,20 x 40)

la cui parte orientale era chiusa anch'essa da tratti di muro e da grandi porte bronzee, questa volta a due battenti, la stessa successione spaziale di pronaos, cella e adyton. Anche questo tempio è un megaron mo­ numentalizzato. Diverso è invece il peristilio il cui sviluppo è entrato in un nuovo stadio grazie a quell'ansia speri­ mentatrice tipica del cantiere di Selinunte. Fu conservato è vero il doppio colonnato della facciata con i

suoi atri profondi due interassi, tuttavia si cercò di portare il rapporto delle colonne delle facciate e dei fian­ chi, fino allora fissato in 6 x 17, al calcolato rapporto di 6 x 14 (misura che rimase valida per una serie intera

di templi classici dell'Occidente) forse dietro un suggerimento che proveniva dall'architettura della madre­ patria; un'impresa invero difficile considerando la forma allungatissima della cella e dell'atrio orientale posto davanti alla cella stessa, risolvibile solo con i mezzi più drastici : anzitutto allargando il tempio, cioè ampliando i deambulatori laterali che con i loro m 5·90 raggiungono quasi l'ampiezza spaziale della cella

stessa ; in secondo luogo spostando la parte orientale del naos cosi vicino alla fila interna delle colonne del­

l'atrio frontale che i battenti della porta quasi urtano contro le colonne stesse ; in terzo luogo invertendo

senza esitazione una legge formale inviolabile per tutto il mondo greco, che cioè se doveva esistere dif­

ferenza negli interassi, quelli maggiori dovevano essere sempre quelli delle facciate (interasse della fac­ ciata m 4•47• dei fianchi m 4,6o). Risulta cosi una peristasi arcaicamente allungata che poco differisce nelle sue misure da quella del tempio C (24,37 x 6r,88 m in confronto a 23,94 x 63,72 m) ma con un rap­

porto di colonne che si avvicina a quello • classico t. Si può osservare di passaggio che

il

tempio D del­

l'acropoli, di poco più antico, tralasciato nella nostra descrizione rappresenta un esperimento simile ma

risolto in altro modo. In questo caso furono tralasciate le colonne interne della facciata orientale sostituite però in un certo senso

dalla facciata

della cella le cui ante furono t:rasformate in colonne. Anche in questo

caso gli interassi della facciata sono più stretti di quelli dei fianchi. Il rapporto • canonico • di 6

X

13 co­

lonne non si presenterà più in Occidente. Anche nell'alzato

il tempio

F rivela la sua oscillazione tra due estremi per la esagerata snellezza delle

sue colonne e la leggerezza del suo architrave. E se di fronte ai templi grevi e fieri di Siracusa la tradi-

Fil:r. "· " zione architettonica di Selinunte rivela anche nell'insieme una chiara predilezione per i rapporti semplici

e distesi, tuttavia la stravagante snellezza con cui le colonne del tempio F scattano dal suolo (la loro altezza di m 9, 1 1 corrisponde a 5,1 volta

• ionizzante t

il

diametro inferiore di m '•79), non si presenterà nemmeno nell'Attica

fino alla costruzione del tesoro degli Ateniesi. In Occidente perfino i templi classici manten­

nero rapporti più ridotti (tempio della Concordia : 4,6 volte il diametro inferiore).

La

tendenza verso un'ampia spazialità viene sottolineata dai grandi intercolunni (le colonne sono

in rapporto di

z:5

con lo spazio intermedio) e dalla peristasi incredibilmente ampia nella cui profondità

doveva quasi scomparire il nucleo dell'edificio. Si deve aggiungere infine un'ultima caratteristica di questo tempio veramente insolito rispetto a tutti gli altri. Gli spazi tra colonna e colonna erano chiusi da lastre di pietra alte m 4,50 si che

il

deambulatorio

era completamente separato dal mondo esterno. Se già la severa fonna a megaron che si ritrova nel

tempio C fa pensare al culto mistico di Demetra, questo deambulatorio creato per una processione segreta parla un linguaggio ancora più chiaro. Non si potevano forse dedicare ad una stessa divinità diversi luoghi

di culto in una stessa città 1

La

stessa Megara possedeva tre santuari di Demetra e la città di Poseidonia

eresse ugualmente tre grandi templi ad Era.

93 :k;

93-95 93

94

Pianta

(1 : 400).

--

Selinunte, tempio F. Da J. Hulot e G. Fougères,

1910. 1910. 1899.

Facciata orientale. Da J. Hulot e G. Fougères,

95

Interasse del fianco. Da R. Koldewey,

9S Il fregio e la forma del tetto si avvicinano allo schema canonico, i triglifi tuttavia sono ancora cosl

larghi che fu possibile risolvere il « conflitto degli angoli >> ampliando le metope angolari ; in ogni caso le colonne angolari non erano contratte. I mutuli del geison ebbero, al contrario che nel tempio C, la stessa larghezza, scomparve anche l'aspra policromia dei rivestimenti in terracotta dell'orlo del tetto e al suo posto subentrò, sembra, una sima in pietra leggera, dipinta con sottili ornamenti a palmette. La facciata

orientale era messa in evidenza, come nel tempio

C,

da metope scolpite delle quali sono state trovate due

lastre con figure di divinità - Atena e Dioniso ? - che atterrano i giganti.

3:1.

Tavv. IJ4, IJ5, Figg. 96-99

IL TEMPIO DI APOLLO (TEMPIO G)

134.

z3s

Le rovine del più settentrionale dei tre templi, che secondo un'iscrizione trovata in loco era dedicato ad Apollo, sembrano già da lontano una vera montagna di frammenti da cui emerge come torre un unico

tronco di colonna rimesso in piedi. Il tempio G con il suo stilobate che misura m 50,07 X I IO,I2 può es­

sere affiancato ai giganteschi dipteri dell'Oriente (la cui fama penetrata fino in Sicilia forse fu di stimolo

































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...

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96-99 96

Selinunte, tempio G.

Pianta ( 1 : 667). Da J. Hulot G. Fougères, 1910.

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97/98 Interasse del fianco orientale, c. sro a. C. (a sinistra) e del fianco occidentale, c. 470 a. C. (a destra, r : 250). Da R. Koldewey, r899. 99 I tre tipi di capitelli (da destra a sinistra : c. 510, c. 490, c. 470 a. C.). Da R. Koldewey, 1899.

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99

ai suoi costruttori) e al tempio di Zeus nella vicina Akragas che l'opera dei selinuntini era destinata a su­ perare. Forse un tiranno megalomane voleva erigere con questo tempio un monumento eterno alla sua memoria; non mancarono certo a Selinunte signori orgogliosi : Erodoto (V, 48) narra di un tiranno Pi­ tagora contro il quale i selinuntini, alla fine del VI secolo, chiamarono in aiuto un avventuroso condottiero spartano che a sua volta si impadroni del potere finché egli stesso fu assassinato sull'altare di Zeus nel mercato. D'altra parte i selinuntini proseguirono attivamente anche sotto il governo democratico la co­ struzione dell'edificio le cui immani dimensioni si adeguavano in pieno al loro carattere appassionato, al contrario degli ateniesi che non volevano sentir nemmeno parlare deii'Oiympieion dei figli di Pisistrato che oltrepassava la « giusta misura • (p. 207). Bisogna osservare a questo proposito che l'ordine ionico, grazie alle sue proporzioni più leggere, sop­ porta meglio un potenziamento delle dimensioni - viene messo in tal modo in chiara evidenza il suo libero slancio - che non quello dorico, che, potenziato fino a raggiungere una pesantezza elefantino, opprimente, perde ogni rapporto umano con le sue colonne il cui diametro raggiunge i 3 e i 4 m. Il tempio dorico, con­ forme alla sua idea, doveva anche essere compreso e sentito da ogni punto di vista come un corpo plastico e questo invece non è più il caso di questo colosso che si poteva comprendere chiaramente solo a distanza. Bisogna ammirare tuttavia il modo in cui il cantiere di Selinunte, che attraverso tutti gli esperimenti compiuti fino a quel momento aveva raggiunto una sicurezza e una padronanza notevole, si dimostrasse maturo per affrontare quei problemi proposti da un edificio gigantesco, senza esempi nell'ambito dorico. La pianta è nuova ed originale e tuttavia di sorprendente chiarezza. Gli elementi del progetto apparten­ gono in pieno alla tradizione locale, solo che sono fusi in maniera sorprendentemente nuova e sono risolti in piena coerenza quei particolari che risultavano ancora incerti. L'edificio fu iniziato evidentemente subito dopo il completamento del tempio F, verso il 520. La co­ struzione di questo edificio colossale si protrasse tanto a lungo che l'ondata dell'inftusso greco che si può notare in tutta la Sicilia a partire dal primo classicismo, cioè dal 490 circa, raggiunse l'edificio ancora in via di costruzione imponendo il mutamento delle forme dei capitelli, l'accordo delle proporzioni delle colonne, e perfino i mutamenti della pianta in obbedienza al nuovo stile. Ma occupiamoci anzitutto della FiJI. •• pianta. Intorno al naos rettangolare di circa m 22,50 x 69, IO che con la sua proporzione di I : 3 comincia a superare l'allungamento arcaico, fu disposta una peristasi di 8 X I7 colonne che stanno in un chiaro rapporto assiale con il naos (le assi delle pareti ed ante corrispondono con le relative colonne della peristasi). E se nel tempio F vi era una peristasi profonda un interasse e mezzo e un atrio frontale profondo due interassi, qui l'ampiezza spaziale degli atri, tipica di Selinunte, viene ancora rafforzata e tutta la peristasi è condotta intorno al naos con la profondità di due interassi : tutto questo vuoi dire che, date la gi­ gantesche misure del tempio, un vastissimo atrio largo quasi I2 m doveva essere coperto con travature di legno ; si tenga presente che qui è stata superata di quasi 2 m l'ampiezza della navata centrale del Par­ tenone. La copertura di questa peristasi, che doveva essere risolta soltanto con travature di raccordo, pre­ suppone una tecnica molto sviluppata. Poiché nella facciata due interassi corrispondono agli atri laterali e altri tre interassi alla larghezza della cella, ne deriva inevitabilmente una facciata di 8 colonne che tuttavia non imita affatto i dipteri ad 8 co­ lonne della Ionia, e tanto meno questa peristasi larga due interassi ha qualcosa in comune, nonostante certe somiglianze formali, con gli « pseudo dipteri • cosi amati in Oriente a partire dal 111 secolo (Sardi, p. z88) : questi son derivati dal diptero in cui è stata tralasciata la cerchia interna delle colonne, quella si è sviluppata per un considerevole ampliamento della semplice peristasi. Una serie interna di colonne davanti alla facciata della cella come presentano i templi C ed F avrebbe avuto come conseguenza che la seconda e la settima colonna che cadevano nelle peristasi laterali avrebbero disturbato la sua imponente fuga spaziale. Si scelse cosi una disposizione già sperimentata nel tempio D dell'acropoli cioè si antepose alle ante, come parte della cella, un atrio • prostilo • di 4 X 2 colonne su cui fu condotto logicamente l'ar­ chitrave e si ottenne in tal modo una peristasi larga 12 m. Tra le ante del pronaos si attenderebbero però altre due colonne che tuttavia non si possono né identificare né escludere a priori tra le rovine riportate alla luce finora solo in parte. Se questi sostegni mancavano, come suppongono i più pur senza una contro­ prova, il rettangolo del pronaos e dell'atrio doveva essere senza copertura in quanto con i suoi m I6,90 X I9,8o era troppo gyande per essere coperto da un'antica struttura lignea.

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equilibrio apparente si dovette escogitare un sistema con inte­

rassi, metope e triglifi di tre diverse larghezze. E si confronti

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con

106 Agrigento, tempio F (il cosiddetto tempio della Concordia). Capitello e tra­ beazione (1 : 75). Da R. Koldewey, 1 899.

questa soluzione il principio esattamente opposto della

contrazione angolare del Partenone (p. 1 86) ! Là vi domina un senso formale plastico, qui una razionalità trasferita nella forma. Dopo che la cerchia delle colonne, incerta sulla forma valida da assumere, ebbe finalmente raggiunta una soluzione definitiva

con l'elaborazione di un ordine pensato conforme alle leggi, dopo che ogni parte fu posta in rapporto con le altre parti e tutte queste con l'insieme in maniera cosi significativa e necessaria tanto che una sola intromissione avrebbe alterato il tutto, solo allora si poté condurre un'ultima limatura, un sottilissimo accordo. Il vertice finalmente raggiunto rappresenta al tempo stesso un momento di passaggio. Con ogni passo ulteriore la fresca chiarezza della (c ratio &, l'essenza astratta del numero dovette cominciare ad ina­

ridire la vitalità del tempio dorico, dapprima, nel tempio C dell'acropoli di Selinunte, cosi sfrenata e selvaggia, più tardi, nel tempio E di Era, coscientemente dominata.

Goethe, che davanti al tempio della Concordia osservò che « la sua snella struttura architettonica Io

avvicina già al nostro concetto del bello e del gradevole e di fronte a quelli di Paestum esso appare come una figura di divinità rispetto ad un'immagine di giganti &, quando per la seconda volta si trovò di fronte al tempio di Poseidone di Paestum, passando al di sopra dei pregiudizi classicistici del suo secolo, dovette sentire proprio questa differenza tra due diversi gradi di vitalità : « ... Paestum : è l'ultima immagine e

vorrei dire la più solenne che io porto con me nel nord. Ed il tempio centrale è preferibile,

il

secondo

mio punto di vista, a tutto quanto si vede anche in Sicilia &.

n tempio della Concordia, con quello di Segesta, fu l'ultimo periptero dorico della Magna Grecia. Cosi

questa architettura, quasi avesse stabilito da sé la sua fine precoce, si chiude con un limpido accordo.

SEGESTA

Tavv. I54, I55, XXXVI, Fig. I07

Le rovine di Segesta nella punta nord-ovest della Sicilia, su una collina abbandonata a due ore di

strada dal mare, non appartengono ad una città greca ma ad una città « barbarica >>. Gli elimi, qui stabiliti ...

già prima della colonizzazione ellenica, guardavano con meraviglia e sospetto alle vicine città greche, a loro superiori, e soprattutto alla fiorente Selinunte. Essi accolsero di buon grado tutti i doni della cultura ellenica e ne furono grati, pur rimanendo sempre uniti ai nemici delle città doriche, ai fenici e ai carta­ ginesi. Nel fi6 indussero gli ateniesi, dietro il miraggio di inesauribili ricchezze, alla loro infausta spe­ dizione siciliana ; e dopo che l'esercito attico fu annientato davanti a Siracusa, Segesta chiamò in Sicilia la nemica giurata dei greci, Cartagine. Selinunte e Akragas furono distrutte nel f09 e nel f06, e solo Si­ racusa poté mantenere la sua posizione. Quando Segesta, un secolo dopo, stanca del dominio cartaginese, si volle mettere dalla parte di Siracusa subl lo stesso destino. Il tiranno Agatocle uccise nel 307 tutti i cittadini e dette per scherno alle rovine il nome di « Dikaiopolis >>, cioè Città della giustizia.

2 57 34·

6

C

qui già risolta nella maniera si­

stematica quale abbiamo visto nel tempio della Concordia (p. 257), senza che tuttavia il fregio sia accordato,

come nel primo caso, alla seconda colonna spostata. Le commettiture dello stereobate di quattro gradini si

accordano rigorosamente come c'era da aspettarsi da quanto è stato detto in precedenza.

Ma la cosa che più ci sorprende è di incontrare qui, al di fuori del mondo greco, il più sottile rag­

giungimento dell'architettura classica, cioè la curvatura. Lo stilobate è piegato all'infuori di circa 4- cm

nelle facciate e di circa 8 cm nelle parti laterali, che corrisponde quasi esattamente alla curva dei gradini

del Partenone. Un altro piccolo dettaglio, che ci ricorda i templi dei « confederati 1> ateniesi, ci fa imma-

ginare quanto accurata avrebbe dovuto essere la decorazione della peristasi, arrestatasi alla forma appena digrossata; ritroviamo a Segesta risolte in forma plastica le fini palmette dipinte che decoravano la parte inferiore degli angoli del geison.

2 58

III. GLI IONI

Già per Erodoto (l, 142 sgg.) non era sempre facile distinguere cosa fosse ionico e cosa non lo fosse, e per gli studi attuali è ancor più difficile definire univocamente questo concetto proprio per le cognizioni più approfondite di cui disponiamo. Durante le grandi migrazioni dei popoli verso la metà del II millennio, sembra che penetrassero dal nord, nell'allora Peloponneso Miceneo, delle stirpi migranti che si sentivano già autoctone nei confronti della successiva ondata della renitenti, cosicché anche qui fu soffocato, in maniera solo un po' meno drastica che nelle città distrutte della costa ionica, uno sviluppo che aveva preso un inizio cosi vivace al volgere dell'epoca classica. Samo ci ha lasciato solo poche ma preziose opere del v e del IV secolo, ma l'arte e l'architettura tipica di Samo è quella dei secoli arcaici, anzi sembra che l'isola sia stata - come Argo e Corinto nell'ambito dorico - la culla dell'archi­ tettura ionica. Il centro di quest'arte non era la città di Samo posta nel lato sud-est dell'isola e circondata ancor oggi da solide mura ellenistiche, ma il celeberrimo santuario di Era ad un'ora di distanza dalla città verso ovest. Gli scavi di Ernst Buschor hanno rivelato, attraverso l'esame accuratissimo dei pochi resti celati nel terreno, un quadro singolare dell'origine e dello sviluppo organico di un santuario greco. Già dal III millennio alla foce del piccolo fiume Imbrasos, impetuoso però nei periodi di pioggia, si trovava una vastissima colonia fortificata degli aborigeni che rimase in piedi fino al periodo miceneo. Evidentemente si è qui mantenuta anche attraverso le catastrofi del periodo delle migrazioni la continuità di un culto molto antico. Secondo leggende locali i nuovi immigrati trovarono nella valle un tronco di forma strana circondato dai rami di un cespuglio di lygos in cui essi riconobbero, pieni di venerazione, la grande Era di cui avevano forse portato con sé il culto dall'antichissimo santuario di Era presso Argo ; un'altra leggenda narra invece che furono gli Argonauti a portare a Samo l'immagine lignea (Pausania, VII, 4, 4). Figg II7-II9

GLI ALTARI

.

Già all'inizio del I millennio vtcmo a quel .cespuglio di lygos fu collocato su una piccola ter­ razza nel delta del fiume un semplice altare di pietra (m 2,50 X 1,20 circa) che fu in un certo senso il fulcro degli altari sempre più grandiosi .II 7 -1 1 8

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Samo, Heraion. Altare di Rhoikos. Da H. Schleif, 1933·

17 . Pianta (x

TENTATIVO

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che nel corso del tempo, dall'VIII fino al VI secolo, cir­ condarono questo nucleo originario. Il settimo, « l'altare di Rhoikos », innalzato verso il 550, per la sua gran­ dezza eccezionale (con i suoi m 36,57 x I6, s8 copre circa zoo volte la superficie dell'altare I) e per lo splen­ dore della sua decorazione plastica ed ornamentale resta il monumento più significativo del suo genere, posto in ombra solo dall'ellenistico altare di Pergamo (p. 303). La semplice forma dell'altare per olocausti, una tavola chiusa da pareti da tre lati per difenderla dai venti, con un ripiano per i sacerdoti di fronte alla parte oc­ cidentale aperta, è qui potenziata fino ad assumere di­ mensioni colossali, le ali laterali ricoperte con fregi di animali a rilievo, con festoni di foglie e con intrecci 1 1 9 Samo, Heraion. Altare di Rhoikos. Par­ di fiori policromi. Sulla gigantesca « tavola dei sacrifici l) ticolare della parte occidentale ( 1 : 125). Da H. Schleif, 1933· si ammucchiava la polvere di secoli fino a raggiungere la forma di un grande cono. L'altezza di questa « tavola •, un metro e mezzo circa, era adeguata alla statura del sacerdote sacrificante. Tutto l'altare era circondato da uno zoccolo e da una grande scalinata nel suo lato occidentale.

GLI HEKATOMPEDOI (TEMPLI I E II DI ERA) E IL PORTICO MERIDIONALE Figg. I20-I24

Fil. uo

Fi11. hr, z u

Il simulacro cosi miracolosamente rinvenuto dovette essere esposto dapprima in una cappella aperta presso il primo altare ; dai resti di mura si può dedurre la presenza di tre « naiskoi l) di tal genere intorno all'altare. Il culto di Era era forse accompagnato all'inizio 'da quello di Mrodite e di Ermes del cui culto si hanno testimonianze nel IV secolo ? Il simulacro, che questi tempi antichi non sapevano ancora distin­ guere dalla personalità della dea - la statua veniva cibata, vestita, lavata e implorata come un essere vivo e presente (Iliade, VI, '297 sgg.) - esigeva una casa bella e grande oltre misura. Come i 100 tori sacrifi­ cati nell'ecatombe rappresentavano il numero perfetto, cosi i 100 piedi erano considerati la misura per eccellenza. Nella prima metà dell'vm secolo fu costruito nella valle, davanti all'antico altare nel frattempo ingrandito, il più antico tempio greco a noi noto con una lunghezza di 100 piedi e una larghezza di 20 (m 6,50 x 32,86) : di fronte alle minuscole cappelle e alle modeste abitazioni di quell'epoca si era fatto un gran passo in avanti, pur mancando tutte le premesse tecniche e formali. Tutte le grandezze di cui erano capaci i costruttori le posero nella lunghezza. Lo spazio stretto e allungato è per cosi dire concepito in un'unica direzione e per coprire questo spazio erano necessari dei sostegni che sorreggessero la trave maestra nell'asse spaziale. Questa serie di sostegni difficilmente si poteva conciliare con il simulacro del culto che troneggiava all'estremità del vano come nel suo palazzo e che perciò era spostato un po' verso destra, come si può chiaramente notare dalla base ancora esistente. Non si può né affermare né escludere la presenza di una parete in cui s'aprisse una porta ; probabilmente la cella era completamente aperta alla maniera delle cappelle più antiche. I resti superstiti delle pareti, spesse solo m o, s s , formate da pietre piccole ma accuratamente squadrate, servivano forse come zoccolo ad un muro di mattoni rafforzato da sostegni. Ancora nell'vm secolo fu aggiunta a questo edificio una leggera peristasi formata da 7 X 17 ( ?) sostegni che lo circondavano formando un porticato. Il significativo esempio di Thermos (p. 1 15, tempio B) si presenta per la seconda volta in una concezione più chiara, fondata sulla commettitura orto­ gonale di travi. Verso il 670 un'inondazione distrusse il primo tempio di Era sopra i cui resti fu elevato subito dopo un nuovo edificio con una pianta simile ma di forma più progredita (6 X 18 colonne, stilobate m I 1,70 X 37,70 circa, cella m 6,8o x 30,66 circa). Si osò rinunciare anzitutto ai sostegni centrali della cella e coprire liberamente il vano di m s.so. I sostegni, a forma di asse, che, fusi dapprima con le pareti

in mattone, sostenevano le travature del tetto, si presentano ora, impostati su una bassa soglia, come ar­ ticolazioni ben visibili davanti alla parete. (In questa disposizione vi è già in germe la successiva tripar­ tizione dello spazio : questi sostegni rimasero al loro posto quando la cella fu ampliata). Le pareti erano

formate, in tutta la loro altezza, da piccole pietre calcaree no.n legate la cui superficie per cosi dire pieghet­

tata da segni verticali di: scalpello preannuncia già la morbida vitalità delle forme architettoniche ioniche più tarde. Le fronti in pietra delle pareti, le ante, poterono fare a meno del rivestimento di tavole dei con­ temporanei templi dorici e cosi da ora in poi mancheranno negli edifici ionici le ante aggettanti doriche nelle quali sopravvive quella intavolatura. Nel lato interno delle ante si addossavano, collegati alla parete con chiodi di ferro, i due sostegni interni posti all'estremità orientale. Altri due sostegni di legno isolati

dovevano affiancare la porta del tempio la cui soglia è stata ritrovata vicino. Le due aperture laterali erano forse chiuse da una cancellata.

Il nuovo progetto non si occupò più della cella ma della peristasi i cui sostegni furono allineati in­

torno quasi alla medesima distanza (m 2,14 e 2,16 rispettivamente) destinando ai fianchi, certo non a caso, un numero di colonne che è tre volte quello della facciata (sei). Una decisiva innovazione che prelude

al doppio giro di colonne dei « dipteri l) più tardi,

è il doppio colonnato della facciata. Le membrature ar­

chitettoniche presentano ancora le semplicissime forme che usa ancor oggi un qualsiasi carpentiere : so­ stegni rettangolari posti su basi rotonde di pietra per difenderli dall'umidità. La superficie di pietra dello stilobate si innalzava poco dal suolo. Anche il tetto doveva essere eseguito in una tecnica semplicissima

e si cerca di desumere ancora qualcosa della sua struttura di travi e travicelli dall'organizzazione « costrut­

tiva 1> della pianta (fig. 1 22). Non sono stati trovati invece i tegoli del tetto ; si può cosi supporre sia un tetto

a

spioventi ripidi, coperto di canne e sollevato alle estremità, come si nota nel modello della casa samia,

sia un tetto di argilla piatto. In questo edificio trabeato si può cogliere ancora ben poco della logica struttura delle articolazioni architettoniche, dell'espressione della loro funzione attraverso la forma artistica. E tuttavia esso non ri-

mase del tutto privo di decorazione : su una lastra del tempio sono incise le teste di tre guerrieri portatori Fi�. a3

di lancia nello stile naturalistico del tempo.

Si può ricostruire cosi un fregio parietale di non più di 30 cm di altezza, un formato quindi che su­

pera di poco le analoghe raffigurazioni vascolari. Questo corteo di guerrieri, forse un tempo colorato, è la forma primigenia di tutti i ricchi fregi policromi con cui gli ioni decorarono d'allora in poi i loro templi e i loro altari. Circa una generazione dopo il santuario fu tutto circondato da un peribolo. Un propylon, rivolto verso

l'altare ingrandito, accoglieva la processione che proveniva dalla città di Samo. Il lato sud-ovest, fino allora

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120-IZJ Samo. Nuovi disegni. 1 2 1/xzz Hekatompedos II. Pianta completata e spaccato medesima scala (1 : 400). 123 • Fregio dei guerrieri •.

trasversale ;

tutti e

124 Samo. Portico meridionale. Tentativo di ricostruzione. Da G. Gruben, 1957.

delimitato da un braccio del fiume, fu ora delimitato architettonicamente da wi portico - forse il primo

che i greci costruirono, - una soluzione architettonica di una grandezza fino allora mai raggiunta.

Fig. r24 TI portico, lungo m

69,95

(ovvero

200 piedi)

e profondo m

5,91, fu

desunto senz'altro dalla nuova forma

deUa peristasi che acquista ora un'essenza ( principale del portico del cortile, quello ad oriente, era risolto in forma scenografica. Nell'asse mediana della piazza si apriva una vasta nicchia per il culto ai cui due lati, in solenne sim­ metria, erano disposte due facciate di tempio, ognuna con quattro colonne corinzie ed un frontone, erette su scalinate di tredici gradini. Sono soltanto due facciate isolate di templi greci cui non fa più seguito un corpo architettonico corrispondente. Dietro la maschera classica dell'antica forma sacra si cela qual-

cosa di assolutamente nuovo, profondamente romano: lo spazio. Attraversando la facciata del propy- F;c. ''' > lon settentrionale si raggiungeva un cortile quadrato circondato da colonne in cui sboccava la • strada

sacra & che univa la città con l' Asklepieion. Non solo il cortile - e questo non sarebbe stato nulla di strano - ma la strada stessa era risolta spazialmente : la prima parte era fiancheggiata da un portico a colonne che sorreggevano volte a botte che poi si risolveva improvvisamente, nella struttura opposta, in un corridoio ad arcate coperto con volte a crociera, lungo circa 8zo m che conduceva nel cuore della città pas-

sando sotto, a forma di tunnel, agli enormi blocchi di un teatro dell'età imperiale. La seconda • facciata

di tempio &, quella a sud, nascondeva effettivamente un tempio (già il fatto stesso che le facciate del tempio F:,. ' ' ' e del propylon siano state risolte in maniera analoga per amore di simmetria fa meditare) - e quale

tempio l Attraverso l'atrio si entrava in una sala rettangolare, si oltrepassava la grande porta nella parete di fondo, e ci si trovava, pieni di sorpresa, in un vano circolare dal diametro di m 23,85 su cui si stendeva un'ampia cupola di forma emisferica. Il ritmo spaziale non fu raggiunto più per mezzo di articolazioni architettoniche ma per mezzo di un'amplificazione spaziale, di forme vuote. Sette nicchie, alternativamente concave e rettangolari, si affondano nelle massicce pareti profonde tre metri ; esse accoglievano le statue delle divinità, inserite anch'esse nella sfera spaziale delle pareti : Asclepio nell'asse, di fronte all'ingresso, tutt'intorno il suo sacro corteggio, concepito come parte integrante del suo essere. Un ultimo, immateriale riflesso dell'edificio articolato greco sopravvive nello splendido rivestimento delle pareti : lesene e lastre marmoree policrome, quali articolazioni decorative, erano distese come una pelle sulle pareti, ma non avevano più nulla a che fare con la struttura massiccia delle mura dell'edificio che esse velavano. Di conseguenza l'aspetto esterno del tempio è solo una scadente positiva dell'interno ; sopra un semplice cilindro si pro-

fila, piatta e senza forma (in contrasto con l'incomparabile forma plastica delle cupole del rinascimento), la cupola. Questo corpo architettonico amorfo fu nascosto a ragione veduta dietro la facciata a colonne. E tuttavia avvertiamo proprio in quest'opera architettonica il rigore del messaggio di Roma : si

è

supe­

rata ormai una cesura ben più profonda di quella che intercorre tra classicismo ed ellenismo. l concetti

riferibili alle strutture massicce e articolate greche - e soprattutto quelli negativi - non reggono nei confronti della nuova grandezza che

è molto

di più che bella apparenza, opera cieca, pura facciata. Per comprenderla

dobbiamo configurarci il profondo mutamento che avviene tra l'Ellade e Roma. Uno spazio di questo genere, al cui centro non vi erano né la statua della divinità né l'altare ma solo l'uomo che osservava quanto lo circondava, doveva afferrare l'animo producendo un effetto potente e profondo. La luce penetrava da un'unica apertura al vertice della cupola, scorreva sopra i variopinti mosaici della grandiosa emisfera, era accolta mutevolmente dalle sette nicchie delle pareti, aleggiava nel vano della cupola come un elemento nuovo. L'impero romano unificò il mondo antico non solo esteriormente. L'architettura romana destinata ad avere l'indiscutibile primato dello spazio, sfruttando l'eredità formale greca travisata da una trasforma­ zione classicistica come articolazione incorporea legata agli effetti di luce, ma non per questo meno priva di effetto, per nascondere le sue enormi masse murarie che abbracciavano lo spazio, restitul all'archi-

311

tettura che si andava

scindendo la sua perduta unità ma in un senso antitetico a quello greco. Va detto su­

bito però che l'edificio a volta di destinazione profana, e soprattutto le grandi terme romane, si era svi­ luppato da premesse ellenistiche. Quando questa struttura, portata ad altissima maturità tecnica,

fu

tra­

sferita negli edifici sacri, questo avvenne sotto il segno di un movimento religioso. La più significativa crea­ zione spaziale del mondo antico, il Pantheon, era dedicato alle sette divinità dei pianeti. luce che vi penetra perpendicolarmente,

è

La

cupola, con la

immagine dell'universo, il grandioso vano a pianta centrale ri­

specchia l'unità del mondo terreno e di quello celeste, concepita più filosoficamente che religiosamente.

TI tempio di Asclepio patrocinato

dal

console romano Rutino nel 140 circa d. C.

è una

replica in for­

mato minore del Pantheon costruito circa una ventina d'anni prima (diametro della cupola m 43•5; Per­

F;z. ••• .•tu; 't'W'V •A&J;vWv, 196o W. H. Plommer, JHS, 8o (196o), p. 127 sgg.

B. Schweitzer, p. u6 sgg. A. Bundgaard,

ATENE, PROPILEI In generale :

R. Bohn, Di4 Propyliim dn Akropolis .nt Athen, (Per ulteriore bibliografia cfr. sotto : Acropoli)

Festschrift fUr W. Schubart •,

1950,

Mnesikles, p. 1 17 sgg., 1957

,as.

In particolare :

Dinsmoor, p. 359 A. Bunclgaard, Mnesiklu, 1 957. A. Hodge, The Woodwork of Gre