I manoscritti di Qumrān 9788841892688 [PDF]


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I manoscritti di Qumrān
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CLASSICI DELLE RELIGIONI Sezione prima, diretta da O SCAR BOTTO Le religioni orientali Sezione seconda, fondata da PIERO ROSSANO La religione ebraica Sezione terza, diretta da F RANCESCO GABRIELI La religione islamica Sezione quarta, fondata da PIERO ROSSANO La religione cattolica Sezione quinta, fondata da LUIGI F IRPO Le altre confessioni cristiane

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CLASSICI DELLE RELIGIONI SEZIONE SECONDA FONDATA DA PIERO ROSSANO

La religione ebraica

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I MANOSCRITTI DI QUMRĀN A cura di

LUIGI MORALDI

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

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© De Agostini Libri S.p.A. — Novara 2013 U TET www.utetlibri.it www.deagostinilibri.it

ISBN: 978-88-418-9268-8 Prima edizione eBook: Marzo 2013 © 1986 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello, 28 - 10125 Torino

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, elettronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da clearedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i diritti d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto.

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INDICE DEL VOLUME

Nota introduttiva alla seconda edizione Introduzione Nota bibliografica Nota storica TESTI NORMATIVI Regola della comunità Regola dell’assemblea Raccolta di benedizioni Documento di Damasco Regola della guerra INNI Gli inni Frammenti di inni Dal rotolo dei Salmi COMMENTI BIBLICI Commento al Salmo 37 Commento a Isaia Commento a Osea Commento a Michea Commento a Sofonia Commento a Nahum Commento a Abacuc Benedizioni patriarcali Florilegio Melchisedec figura escatologica Visione di Samuele Catena A Catena B Consolazioni o Tanhumîn Testimonia Parole di Mosè

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TESTI DIVERSI Apocrifo della Genesi Libro dei misteri Raccolta di preghiere liturgiche Parole dei luminari Ordinanze Olocausto del sabato Preghiera di Nabunai Oroscopo I Oroscopo II Età del creato Lamentazioni La sapienza e l’uomo Donna follia Rotolo di rame La nuova Gerusalemme Il «rotolo del tempio» Targum di Giobbe Indice delle abbreviazioni dei Manoscritti Indice delle abbreviazioni di riviste e collezioni Indice degli autori citati Indice delle citazioni bibliche Indice degli argomenti principali Indice delle tavole

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NOTA INTRODUTTIVA ALLA SECONDA EDIZIONE Uscita nel 1971 l’opera ebbe una prima ristampa nel 1974. La presente è una nuova edizione che rivede, corregge, e aggiorna la prima. Revisione e correzione di leggere sviste; aggiornamento nel testo in alcuni punti ove gli studi apportarono chiarificazioni, ma soprattutto aggiornamento nel rinvio a eventuali studi nuovi e di notevole interesse. La novità più sostanziosa di questa edizione è rappresentata da due nuovi testi: il famoso Rotolo del tempio e il Targum di Giobbe la cui «editio princeps» risale rispettivamente al 1977 e al 1971. La responsabilità di questi due testi è di un giovane studioso ricercatore che da anni lavora nel mio Istituto Universitario. Dall’anno 1971 a oggi gli studi sui testi di Qumrân subirono un notevole rallentamento dovuto, in parte, alla scoraggiante lentezza con cui i vari ricercatori pubblicano gli scritti loro affidati da anni, ed al fatto che l’attenzione degli studiosi fu attratta in gran parte dai testi gnostici di Nag Hammadi per i quali — a differenza dei manoscritti di Qumrân — dal 1972 al 1977 fu approntata una soddisfacente edizione in Facsimile in dieci grandi volumi. Il rallentamento degli studi sui manoscritti esseni è, naturalmente, visibile dalla bibliografia uscita dal 1971 ad oggi. Occorre comunque tenere presente che le scoperte di Qumrân hanno vivacizzato e arricchito notevolmente un campo di studi piuttosto anemico, e che solo oggi si cerca di inserirle in modo organico nella cornice del quadro pressoché immobile da anni: inserimento non facile. Non si può trascurare che — pur deprecando la lentezza della pubblicazione di tutti i testi scoperti — si è ormai ragionevolmente convinti che il materiale non ancora reso pubblico non contiene grandi novità, e che quanto si poteva attendere dai manoscritti ci è ormai ben noto e, in certi settori, delineato con sufficiente chiarezza. Sicché la presente opera — tuttora unica nel suo genere — costituisce quanto di meglio si può trarre, come strumento di lavoro, dalle grandi scoperte iniziate nel 1947. LUIGI MORALDI

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INTRODUZIONE

Dalle lettere di Tell el-Amarna scoperte da beduini nel 1887, all’iscrizione di Shilo scoperta da fanciulli che marinavano la scuola nel 1880, alla stele di Mesha scoperta da beduini nel 1868, e la lista potrebbe proseguire fino alla scoperta nel 1929 dell’antica Ugarit, oggi Ras esh-Shamra, e ai recentissimi papiri greci di Nag Hamadi, pare un destino che le più sorprendenti scoperte siano state fatte fuori della cerchia degli studiosi competenti. Fatto questo che, se da una parte arricchisce enormemente e in modo inaspettato il campo delle conoscenze del mondo antico, dall’altra ne ritarda e complica non solo la diffusione tra le persone colte interessate, ma anche e soprattutto la ricerca da parte degli studiosi competenti per tanti e complicati motivi: la politica e il commercio da una parte, il deterioramento dei ritrovati dall’altra, perché trattati da incompetenti che a volte danneggiano irreparabilmente i tesori che la fortuna ha messo nelle loro mani. La scoperta dei manoscritti di Qumrân e la storia che ne seguì, la quale non è ancora finita, sono un esempio classico di questo genere. Nella primavera del 1947 il pastore giordano Mohammed ed-Di’b, stanco di inseguire una capra ribelle sulla parete rocciosa a occidente del Mar Morto e poco lungi da esso, si siede all’ombra di una roccia e si diverte a gettare sassi nella ridotta apertura di una grotta. Ha l’impressione, a un certo punto, di avere colpito un vaso di terracotta. Da solo non osa entrare a vedere di che si tratta, ma ritorna il giorno appresso con un cugino ed entrano per l’angusta apertura: la grotta è stretta, il pavimento è coperto di cocci, ma in fondo scorgono otto giare intatte, ognuna con il suo coperchio; erano tutte vuote, eccetto una. Con una certa disillusione estrassero da questa tre rotoli, uno grande e due piccoli; ma non sapevano che farsene e dopo alcune settimane intervenne un loro zio che portò tutto a Betlemme, la città che rappresenta il mercato della tribù Ta’âmireh alla quale appartengono gli scopritori. Il mercante d’antichità di Betlemme Ḥalîl Iskandar Shalîm, detto più brevemente Kando (che inizia così una parte importantissima in tutta la storia dei manoscritti di Qumrân), dopo uno sguardo sommario pensò che si trattasse di testi siriaci e li portò al superiore del convento monofisita siriaco di San Marco in Gerusalemme, Mar Athanasius Jeshue Samuel, il quale li acquistò. Intanto gli scopritori della grotta, intuita la fonte di guadagno, ripresero segretamente a frequentarla e a rovistare tra le giare rotte e tra i cocci, sicché nell’autunno del 1947 beduini e antiquari giravano per le istituzioni 9

culturali di Gerusalemme offrendo a prezzi convenienti rotoli e pugni di frammenti. Mar Athanasius ne acquistò ancora uno, il così detto Apocrifo della Genesi. Ci si guardava, naturalmente dal fare trapelare qualcosa all’autorità competente e cioè al Governement Department of Antiquities o al Palestine Archaeological Museum (la Palestina era ancora sotto il Mandato Britannico); i ricercatori clandestini seppero sottrarsi anche al grande centro di studi domenicano, l’École Biblique et Archéologique Française de Jérusalem, e allo Studium Biblicum dei Francescani. Nel febbraio del 1949 Mar Athanasius fece vedere tre rotoli a due studiosi americani J. C. Trever e W. H. Brownlee, dell’American School of Oriental Research for American School of Archaeology, che ottennero il permesso di fotografarli (si trattava del primo rotolo di Isaia, della Regola della comunità e del Commento ad Abacuc che gli stessi pubblicarono poi nel 1950-1951). Il primo studioso che ne venne al corrente e comprese la grande portata delle scoperte fu E. L. Sukenik il quale acquistò subito (nel dicembre del 1947) quello che poté per conto dell’Università ebraica di Gerusalemme (e cioè un secondo rotolo di Isaia, la Regola della guerra, il rotolo degli Inni). Non fu certo soltanto per motivi di carattere scientifico se tutto restò segreto tra le persone direttamente interessate a questa ricerca e vendita abusiva. Intanto le condizioni politiche erano tutt’altro che favorevoli a un sereno e aperto incontro tra studiosi: nel 14 maggio del 1948 cessa il Mandato Britannico, parte l’alto commissario, è proclamato lo Stato di Israele, truppe giordane occupano militarmente una parte della Palestina che con la Transgiordania costituisce ormai il così detto regno hashemita di Giordania. E la Palestina è spaccata in due dopo l’esplosione della belligeranza tra gli stati arabi e il nuovo stato di Israele, terminata con l’armistizio di Rodi (gennaio-aprile 1949) che sancisce la divisione della Palestina tra lo stato di Israele e il regno hashemita della Giordania; la stessa città di Gerusalemme rimane divisa: una parte, l’antica Gerusalemme, al regno hashemita, l’altra a Israele. Questo stato di cose durerà fino alla guerra del giugno (5-10) del 1967 quando l’esercito israeliano conquistò anche la seconda parte della Città e tutto il settore occidentale del regno hashemita. La regione delle esplorazioni clandestine dei beduini in tutto questo periodo, dal 1948 al 1967, era in territorio giordano che, per quanto riguardava gli scavi e le ricerche archeologiche, aveva ereditato le istituzioni scientifiche precedenti, cioè del Mandato Britannico, compreso il celebre Palestine Archaeological Museum. Le due personalità scientifiche erano: G. Lankester Herding che da Chief 10

Curator of Antiquities to the Amirate of Trans-Jordan passò a presiedere il Jordan Department of Antiquities, e il domenicano P. Roland de Vaux, direttore dell’École Biblique et Archéologique Française, ambedue notissimi, soprattutto il secondo, nel campo degli studi dell’archeologia e della storia della Palestina e Transgiordania; attorno a essi si formò prestissimo, come si vedrà, una competentissima équipe internazionale. Con gli uomini, è responsabile anche questo stato di cose, se la notizia delle ricerche e dei ritrovamenti clandestini esplose nel mondo scientifico solo nel 1948 in seguito a una breve comunicazione del «Bulletin of the American Schools of Oriental Research» (n. 110 dell’aprile 1948) ripresa a Gerusalemme (di qui in poi intendo sempre il settore arabo) solo nel novembre. Per l’intervento di un ufficiale belga dell’ONU e di ufficiali della legione araba alla fine del gennaio 1949 fu finalmente scoperta la grotta dei ritrovamenti clandestini, e dal 15 febbraio al 5 marzo dello stesso anno le tre menzionate istituzioni ne curarono l’esplorazione scientifica: fu denominata grotta 1, e cioè 1Q. Nell’estate del 1951 beduini della solita tribù Ta‘âmireh scoprirono ed esplorarono clandestinamente delle grotte in una regione nuova; ma la cosa fu conosciuta solo nel dicembre, allorché gli archeologi erano intenti a scavare il sito degli edifici di Qumrân, e un lotto di manoscritti fu portato in vendita a Gerusalemme. Si riuscì presto a scoprire questa nuova regione: si tratta del wadi Murabba‘ât che dalla zona di Betlemme discende al Mar Morto a poca distanza da questo e a pochi chilometri da ‘Ain Ghedi (o Engaddi). La regione fu subito esplorata (21 gennaio- 3 marzo 1952): si tratta di quattro grotte; due di esse sono soprattutto interessanti per testi riguardanti la seconda rivolta ebraica contro i Romani (132-135 d. C.). Ma questi lavori erano ancora in corso allorché esplose la notizia che i beduini avevano trovato manoscritti in una nuova grotta di Qumrân: il pronto intervento della École Biblique, del Palestine Arch. Mus. e dell’American School fa ritrovare (10-22 marzo 1952) la grotta (è 2Q) e un’altra ancora non esplorata (la 3Q con l’enigmatico rotolo di rame): ambedue saranno poi annoverate tra le così dette «piccole grotte». Nello stesso anno (nei mesi di luglio-agosto) beduini della tribù Ta‘âmireh portano nel mercato di Gerusalemme altri lotti, piccoli ma interessanti, di manoscritti tra i quali un papiro in scrittura nabatea e frammenti di una versione greca dei dodici profeti minori che risalgono all’incirca all’epoca della seconda rivolta; ma per il momento non si riesce a sapere il luogo di provenienza; solo nel 1961, dopo le scoperte di studiosi israeliani, si verrà a sapere che provengono dal naḥal Ḥever (o Ḥeber) in 11

territorio limitrofo tra i due Stati, sempre sulla riva occidentale del Mar Morto. Ormai la psicosi dei manoscritti, con i tangibili frutti economici che se ne potevano ricavare, si era fatta strada anche negli anziani della tribù. Uno di questi, in una di quelle evocatrici notti di luna orientali tanto distensive, partecipò ad alcuni giovani un suo lontano ricordo: erano passati tanti anni! Proprio nella regione di Qumrân, vicinissimo alle rovine che gli archeologi stavano mettendo in luce, al lato sud occidentale del piano degli edifici, in uno dei quattro speroni che discendono verso il wadi Qumrân, che lì sotto è ormai quasi pianeggiante, tanti anni addietro, quando era giovane, aveva inseguito una pernice ferita che gli era sfuggita e che vide poi cadere in una cavità nella parte scoscesa dello sperone: la raggiunse con molta difficoltà e ricordava di avere preso anche un’antica lampada di terra cotta e qualche coccio: ce n’erano tanti. Fu un allarme. I giovani uditori fecero un sopraluogo: l’esplorazione vista dall’alto pareva facile, ma dal basso si constatava quanto fosse pericoloso passare per quei ripidi speroni senza precipitare. Si equipaggiarono di corde, sacchi e lampade, e passarono all’attacco. La grotta fu presto individuata e raggiunta: molto ristretta, non era come le precedenti e non c’era traccia di vasi e terra cotta, ma solo detriti marnosi staccati dalle pareti e dall’alto. Un po’ disillusi iniziarono a riempire un sacco con le mani per liberarla dai detriti: fu un lavoro duro, tolsero vari metri cubi di terra, ma finalmente la sorpresa: apparvero a migliaia i frammenti di manoscritti: era l’inizio del mese di settembre del 1952. La notizia destò un’enorme impressione nel mondo degli studiosi interessati. Il P. R. de Vaux e lo studioso sacerdote polacco J. T. Milik riuscirono a riscoprire la grotta, ne fecero uno studio accurato e ne trassero ancora qualche centinaio di frammenti; con l’aiuto di altri esplorarono la zona, scoprendo nelle immediate vicinanze altre due grotte: la grotta 5Q (non ancora esplorata dai beduini, ma poco ricca) e la grotta 6Q che i beduini avevano ripulito quasi integralmente; la precedente ebbe la designazione 4Q essendo stata cronologicamente la quarta a essere trovata ed esplorata. La ricchezza di questa grotta, «la grotta della pernice», era tale che per acquistare i manoscritti posti più o meno clandestinamente sul mercato, e impedirne così la dispersione, le autorità interessate di Gerusalemme ricorsero a varie istituzioni che fornirono le grandi somme richieste dai beduini. Fu così che contribuirono all’acquisto il governo giordano, la McGill University di Montreal, le Università di Manchester e di Heidelberg, il McCormick Theological Seminary, la Biblioteca Vaticana e altre istituzioni. 12

Ancora, per le migliaia di manoscritti frammentari della grotta 4 si pensò giustamente a una équipe internazionale e interconfessionale di giovani studiosi che si recassero a Gerusalemme e studiassero in loco i testi loro assegnati avendo la possibilità di prendere conoscenza anche di tutto l’altro materiale scoperto a Qumrân e che si trovava nel settore giordano di Gerusalemme, nel Palestine Archaeological Museum. Tali studiosi furono: J. T. Milik; P. W. Skehan, dell’Università Cattolica di Washington; F. M. Cross, Jr. della Harward Divinity School; J. M. Allegro, dell’Università di Manchester; J. Starcky, del CNRS; J. Strugnell, del Jesus College, Oxford; C. H. Hunzinger, dell’Università di Göttingen. Nella primavera del 1955, durante il proseguimento degli scavi nella regione delle costruzioni sulla terrazza marnosa, una piccola squadra ebbe il compito di esplorare tutta la regione adiacente: trovò altre quattro grotte, numerate da 7Q a 10Q, molto povere quanto a manoscritti. Il de Vaux scrisse: «Un risultato negativo, ma importante, fu quello di rassicurarci che nell’area esplorata non ci era sfuggito un tesoro paragonabile a quello della grotta 4» (DJD, III, 1962, p. 27). Ma le sorprese da parte dei beduini non erano finite. Ritornati alla ricerca nel wadi Murabba‘ât, in una piccola grotta trovarono un rotolo ebraico, molto danneggiato, dei dodici profeti minori dalla fine di Gioele all’inizio di Zaccaria, risalente, grosso modo, al periodo della seconda rivolta, come gli altri manoscritti di quella regione. Evidentemente i beduini dimostrarono fino in fondo di possedere un maggior intuito e di avere anche maggiore dose di fortuna degli studiosi. All’inizio del 1956 scoprirono una nuova grotta che come ricchezza di manoscritti, e quindi come importanza, sta tra la grotta 1 e la grotta 4: fu denominata 11Q. Ufficialmente è l’ultima e una parte notevole del suo deposito prese diverse direzioni tuttora non bene chiare. Gli studiosi organizzarono una spedizione per esaminare ogni metro della zona: ma ormai pare proprio tutto esaurito. Quel lembo settentrionale del deserto di Giuda che degrada verso il Mar Morto, conosciuto come la regione di Qumrân, pare non riservi più grandi sorprese. Ci si potrebbe domandare se siano in mano agli studiosi tutti i manoscritti scoperti e se siano stati resi ufficialmente noti, ma su di questo ritornerò appresso, trattando di essi: l’ultimo manoscritto acquistato dallo Stato di Israele nel 1967 (vedi Appendice) è una chiara dimostrazione che anche testi di gran mole possono ancora essere sottratti all’attenzione degli studiosi. Con il de Vaux, direttore principale degli scavi degli edifici sulla terrazza marnosa e delle ricognizioni archeologiche nelle grotte, che con Harding e 13

alcune personalità giordane sovrintendette a tutta l’organizzazione provvedendo che fossero studiati e pubblicati, presento alcune osservazioni preziose. Nella regione di Qumrân le grotte esplorate e giudicate abitate o abitabili sono più di una trentina; salvo qualche eccezione l’occupazione e l’utilizzazione delle grotte era contemporanea agli edifici della terrazza marnosa di Qumrân ai quali era legata in modo organico: comincia e termina nello stesso arco di tempo; ben sette grotte con manoscritti furono trovate sui lati della stessa terrazza, nelle immediate vicinanze degli edifici: sono le grotte 4Q; 5Q; 6Q; e da 7Q a 10Q; la ceramica delle grotte è la stessa delle rovine degli edifici; nelle grotte, in fine, non fu trovata alcuna moneta, mentre tra le rovine degli edifici se ne trovarono centinaia. I manoscritti trovati nelle grotte di wadi Murabba‘ât tanto dall’esame archeologico quanto da quello paleografico appartengono a un periodo cronologico diverso; allo stesso periodo appartiene l’ampio frammento dei profeti minori nella versione greca proveniente dal naḥal Ḥever. Un problema che si posero gli studiosi fu la provenienza e lo scopo originario della singolare giara nella quale i beduini trovarono i primi manoscritti e di quelle vuote, che furono ulteriormente testimoniate a Qumrân; ma le giare e i loro caratteristici coperchi furono poi attestate complessivamente dalle ricerche archeologiche di Qumrân e si trovò anche qualche analogia altrove in Palestina; i paralleli più vicini si trovano in Italia, nel Museo Egizio di Torino e il riscontro fu provato per la prima volta dal Milik1: sono due giare (Suppl. 6121 e Suppl. 6122) che contenevano papiri demotici e greci risalenti al periodo tra il 171 e il 104 a. C. pubblicati da G. Vitelli2. Tra le giare qumraniche e le egizie non c‘è una derivazione diretta, in quanto sia la pasta sia la cottura differiscono profondamente; la convergenza era certo nello scopo comune. La ricerca storica di questa unione tra scritti e giare, o vasi, portò gli studiosi alla scoperta che l’uso non era poi così raro come inizialmente si poteva pensare: il profeta Geremia ordinò al suo segretario, Baruc, di prendere gli atti del contratto d’acquisto di un terreno e di porli «in un vaso di terra affinché si conservino a lungo» (Ger., 32, 14); il libro apocrifo Assunzione di Mosè (1, 17) afferma che Giosuè ricevette l’ordine di mettere in un vaso il testamento di Mosè; lo stesso uso è ancora attestato dal Talmûd (Meghilla, 26 b) 3. V’era di più: nelle sue Esapla Origene riferisce che, all’epoca di Caracalla, presso Gerico, fu trovata in una giara una traduzione dei salmi ed altri manoscritti greci ed ebraici; il patriarca nestoriano Timoteo I, morto verso 14

l’anno 819, informa con una lettera il Metropolita Sergio di Elam che a quanto venne a sapere una decina di anni prima, verso il 785, un cacciatore arabo, seguendo un cane che inseguiva una bestia, nelle vicinanze di Gerico, entrò in una grotta contentente libri dell’Antico Testamento, non solo, ma anche altri libri in lingua ebraica. A queste testimonianze che ormai gli studiosi giudicano, pur con una certa esitazione, come riferentisi probabilmente proprio alla regione di Qumrân così vicina a Gerico, il de Vaux aggiunge la notizia di uno scrittore arabo, Qirqisâni, che, trattando delle sette ebraiche, parla ripetutamente dei magâriti, perché i loro libri erano stati trovati in una grotta (magâr). S. Segert apporta un’altra testimonianza proveniente da una tradizione degli ebrei spagnoli, ma il suo possibile riferimento al nostro problema non è generalmente accettato4. Di fronte a questa convergenza di ritrovamenti nella stessa regione qualche studioso ha ricordato, e probabilmente a ragione, la tragica fine dell’antiquario gerosolimitano ebreo cristiano Shapira: negli anni 1880-1884 gli studiosi non riconobbero la genuinità di un manoscritto da lui acquistato, e che gli era stato detto provenire da una grotta presso Gerico, denominato poi impropriamente il Deuteronomio di Shapira, mentre pare si trattasse di un’opera del tipo «Parole di Mosè» (vedi appresso, 1Q22); oggi è impossibile controllare quello scritto su pelle perché non si sa bene dove sia, ma c’è chi avanza l’ipotesi che non fosse affatto un falso e provenisse sempre dalla stessa regione di Qumràn5.

Gli scavi archeologici. Prima del ritrovamento dei manoscritti, le rovine ché ora, dopo gli scavi, troneggiano con solenne maestà sulla terrazza marnosa verso il Mar Morto e verso la catena montuosa del monte Nebo, al di là del Mar Morto, nella Transgiordania, pur essendo già abbastanza visibili non avevano attirato l’attenzione degli archeologi e dei viaggiatori: qualcuno vi scorse le probabili rovine della famosa Gomorra, indotto in errore anche dalla pronuncia del nome da parte degli arabi; altri le considerarono i resti di un fortino romano; le tombe del vasto cimitero vicino ben visibili dai tumuli furono ancora da F. M. Abel, a motivo dell’insolito orientamento, considerate vestigia di un’antica setta musulmana6. Il nome «Qumrân» con il quale si designa sia la stretta e rigida valle solcata dal torrente (wadi) Qumrân, sia le rovine sovrastanti la terrazza marnosa Khirbet Qumrân («rovina di Qumrân»), e ormai tutta la regione circostante, non si sa con precisione d’onde derivi; né v’è alcuna memoria 15

sicura di un altro nome; dai risultati degli scavi, dall’esplorazione archeologica della zona fatta dal Milik e dal Cross, e dalla storia dell’antico Israele, il Noth ha proposto di vedere qui il sito della «città del sale» (in ebr. ‘Ir-ha-meleḥ) menzionata in Gios., 15, 61-62: l’identificazione è giudicata probabile7. Sotto la direzione di R. de Vaux e di G. L. Harding, gli scavi di Khirbet Qumrân iniziarono con sondaggi nel dicembre del 1951 e proseguirono poi con quattro campagne nel periodo 1953-1956, giungendo alle seguenti conclusioni generali. Periodo israelita. Non v’è dubbio che il sito fu occupato forse da un fortino in un periodo che va dall’VIII al VII secolo a. C., in séguito distrutto. È il così detto periodo israelita e qualche studioso ha suggerito di vedere qui una di quelle torri nel deserto fatte costruire da Ozia, re di Giuda (2 Cron., 26, 10), il che può avere una conferma anche nelle menzionate esplorazioni del Cross e del Milik. Periodo I a. Sullo stesso luogo, occupando però un’area assai più ampia, si installò molto più tardi un nuovo gruppo umano; il modesto carattere delle costruzioni e la scarsità del materiale archeologico attestano, secondo il de Vaux, che gli edifici furono presto sostituiti da quelli del periodo seguente, ma non è facile stabilire quando iniziò questa prima installazione; la data più probabile sembra il regno di Giovanni Ircano (135-104 a. C.) o poco prima. Periodo I b. La seconda parte del primo periodo segna la massima estensione degli edifici fino a raggiungere un complesso relativamente imponente, di almeno due piani, circondato da un buon muro di cinta e da casematte. Fu costruito un acquedotto che raccoglieva l’acqua piovana dal wadi Qumrân, incanalato parte nella roccia e parte nella terrazza marnosa fino agli edifici, tra i quali si trasformava in un canale impermeabilizzato per portare l’acqua alle cisterne, ognuna delle quali era preceduta da un bacino di decantazione; il complesso degli edifici e la disposizione dei locali non appare costruito per una abitazione comunitaria, e tanto meno per famiglie diverse, bensì per l’esercizio di certe pratiche in comune. Gli archeologi hanno così individuato locali ai quali diedero nomi come «sala di riunione», «refettorio», «sala da scrivere», «cucina»: si tratta di denominazioni discusse. Questo periodo terminò con un terremoto e un incendio, ambedue chiaramente visibili; la data del primo è presa dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, e cioè la primavera del 31 a. C.; se anche l’incendio fu contemporaneo, è discutibile; il de Vaux li considera contemporanei, altri, per es. il Milik, ritiene che sia stato distrutto dai Parti o dall’asmoneo 16

Antigono loro alleato nel 40-39 a. C. e che il terremoto sia giunto quando i locali erano già rovinati. Periodo II. Il sito fu dunque abbandonato nel 31 a. C. ma gli antichi abitatori ritornarono presto, cioè all’inizio del regno di Erode Archelao, tra il 4 e l’1 a. C. La maggior parte degli ambienti del periodo precedente furono riattivati, le destinazioni principali restarono uguali e le modifiche apportate appaiono ridotte: certi locali troppo danneggiati, ad es. la cisterna più grande, non furono riattivati, le strutture fondamentali furono rese più solide, le poche strutture nuove non modificarono la pianta degli edifici precedenti. La fine di questo secondo periodo ebbe luogo nel terzo anno della prima rivolta ebraica e cioè nel 68-69 d. C. ad opera dell’esercito romano che dopo avere occupato Gerico assoggettò tutta la regione del M. Morto, come confermano anche le monete. Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70 d. C., agli ebrei insorti non restavano che tre fortezze: il Macheronte, nella Transgiordania, l’Herodium nella piana di Betlemme, ambedue conquistate poi da Lucilio Basso, e Masada, assediata da Flavio Silva e caduta nel 73; non v’è alcun motivo di connettere la caduta degli edifici di Qumrân con queste operazioni belliche. Periodo III. È il periodo dello stazionamento di un piccolo contingente romano: dalla conquista del luogo l’occupazione si protrae fino a poco dopo la caduta di Gerusalemme e non vi sono argomenti per ritenere che sia stato prolungato oltre l’anno della caduta di Masada (73 d. C.). Periodo IV. Anche questa occupazione, se così si può dire, è puramente episodica, in quanto il luogo fu uno dei nascondigli sporadici degli ebrei insorti durante la seconda rivolta (132-135 d. C.), e non lasciò traccia negli edifici, all’infuori di qualche moneta. Questa successione archeologica, largamente accolta dagli studiosi, è discussa solo su due punti fondamentali: la data dell’inizio del periodo Ia e l’epoca di interruzione dal 31 al 4 a. C. Si tratta evidentemente di elementi di estremo interesse per la storia della comunità di Qumrân che vale la pena di considerare. Del periodo Ia furono individuate almeno cinque monete dei Seleucidi e cioè di Antioco III, di Antioco IV e di Antioco VII: sono i pezzi più antichi e la loro interpretazione è delicata come riconosce il de Vaux8; ma se si tiene presente che gli inizi furono piuttosto modesti e poveri, se si valuta attentamente la relazione sia pure formale delle caratteristiche giare con quelle egizie (l’ultima delle quali è datata nel 104 a. C.), se, in fine, si tiene conto dell’attività che la comunità esercitò anche a ‘Ain Feshkha (vedi appresso), ritengo che si abbia motivo per datare gli inizi dell’insediamento 17

durante il regno di Antioco IV o subito dopo9. A proposito del periodo di abbandono, sia i motivi proposti dal de Vaux sia quelli avanzati dal Milik, non sembrano affatto probabili. Sappiamo da Giuseppe Flavio che Erode il Grande era favorevole agli esseni (Antichità, XV, 371) e non è verosimile che proprio durante il suo regno essi abbiano dovuto abbandonare, sia pure per motivi di forza maggiore, il loro centro, a meno che si supponga che li abbia aiutati a fondarne un altro e che poi alla sua morte i tradizionalisti siano ritornati all’antico insediamento; ma questo è fantastico. È certo che furono trovate dieci monete di Erode il Grande (37-4 a. C.) ed è praticamente certo che la maggior parte della comunità non abitava negli edifici fatti crollare e incendiati dal terremoto, ma in tende, capanne e grotte; non solo, ma è fuori dubbio che la stessa comunità operava a ‘Ain Feshkha, ove aveva interessi agricoli e pastorizi, ed è inverosimile che abbia abbandonato tutto proprio in un periodo favorevole, come fu quello di Erode il Grande; si sa inoltre quanto sia stato difficile lo studio delle monete che nella stratigrafia dell’epoca sono ben rappresentate. Si può dunque ritenere, senza forzare affatto gli altri dati archeologici, si abbia da contare sul fatto che i membri della comunità non abbandonarono il centro e che la ricostruzione degli edifici fu completata già durante il regno di Erode il Grande. La storia umana non cambia: non desta meraviglia che in questo periodo della riedificazione il denaro sia scarso nelle casse come lo è per il periodo della prima edificazione. La cronologia sulla quale possiamo contare e che modifica parzialmente quella del de Vaux, proprio in due punti ove l’illustre archeologo fu molto cauto e possibilista, è dunque: periodo I a: dagli ultimi anni di Antioco IV, che regnò dal 175 al 164, fino all’asmoneo Giovanni Ircano I (134-104); periodo I b: dalla morte di G. Ircano I al 31 a. C.; il periodo II, che si potrebbe dividere in due come il precedente, va dal 31 a. C. al 68 d. C. Alcuni dati di particolare interesse, chiaramente individuati dagli scavi archeologici, e che non si possono qui tralasciare in quanto hanno un valore notevole per l’individuazione, almeno nelle sue linee fondamentali, della comunità che viveva nella zona studiata, sono i seguenti. Fu trovata una quantità piuttosto impressionante di cisterne collegate, come s’è visto, all’installazione idraulica centrale che poteva ben soddisfare i bisogni di una comunità relativamente numerosa. Siccome, ad eccezione di due, tutte sono provviste di gradini, e i primi sono provvisti di piccole linee divisorie allo scopo, almeno apparentemente, di regolare l’ingresso e l’uscita simultanea di più persone, fu suggerito di considerarle cisterne per 18

bagni rituali. Ma cisterne del genere furono scoperte anche altrove, ad es. a Gerusalemme, ove difficilmente si può pensare a bagni rituali. Due cisterne tuttavia, più curate delle altre e relativamente piccole, erano certamente adibite a bagni, se rituali o meno l’archeologia non lo può asserire; d’altra parte alcuni studiosi ritengono che il semplice uso comune non giustifica l’esistenza e la forma di tutte queste cisterne10. In una delle camere gli archeologi si trovarono davanti a uno spettacolo piuttosto insolito: ammassate in buon ordine 38 zuppiere, 210 piatti, 11 anfore, 31 giare piccole, da una parte, 708 ciotole e 75 tazze da un’altra, e le singole unità erano sempre tutte uguali; si è potuto accertare che non si tratta né di un magazzino di terra cotta, perché mancano molte forme di uso corrente tra quelle constatate nello stesso periodo (ad es. i coperchi, le lampade, le marmitte, piccole brocche, ecc.), né dell’officina del vasaio, in quanto essa si trova in un altro locale: si pensa dunque al servizio da tavola della comunità. In un’altra sala, ove era probabilmente caduto il piano superiore, furono trovate tavole di terra cotta piuttosto strane, in quanto mai scoperte altrove, e due calamai, uno di bronzo e l’altro di terra cotta, uno dei quali aveva ancora inchiostro secco: gli archeologi hanno pensato all’attrezzatura di una sala per scrivere, suggerendo evidentemente che la comunità era, probabilmente, fornita di uno scriptorium del tipo di quelli dei monasteri medievali. L’idea fu senz’altro accolta da alcuni studiosi (sono così numerosi i manoscritti di Qumrân!), ma ci si domanda ancora in quale maniera gli amanuensi si servissero di queste «tavole» e cioè in quale posizione scrivessero11. Un problema assai complesso e tuttora insoluto è posto da un grande numero di depositi di ossa di animali messe o in grandi cocci di giare e marmitte o in giare integre coperte e deposte nel terreno a poca profondità; con densità variabile se ne trovavano in quasi tutte le aree non coperte di Khirbet Qumrân. Il numero maggiore è al livello del periodo Ib, ma l’uso proseguì anche nel periodo seguente; gli animali rappresentati sono: montoni, capre, agnelli e capretti, vitelli, vacche e buoi; anche quando un recipiente contiene le ossa di un solo animale non v’è mai lo scheletro completo; le ossa non sono più unite ed è evidente che furono riposte nelle giare quando erano già spolpate; gli animali furono generalmente bolliti, e qualche volta arrostiti. Il de Vaux ha concluso che si tratta certamente di resti di pasti e che la cura con cui venivano messe da parte tradisce un’intenzione religiosa. È chiaro dunque che certi pasti avevano carattere religioso; ma qui gli studiosi non sono d’accordo. Qualcuno suppone che si tratti di resti di sacrifici (mi gli scavi non hanno messo in luce né un altare 19

né un luogo adatto per l’immolazione rituale delle vittime), altri di una fede nella risurrezione degli animali, di sepoltura di primogeniti, o addirittura della visione messianica di Ezechiele; ma non si tratta che di fantasie. La realtà è che anche questo è un costume che finora non si conosceva e del quale non si sa nulla di preciso. A me piace pensare con il Milik, Bardtke e altri12 che si possa trattare o di cene pasquali, ove le ossa avevano un significato simbolico, o di resti di pasti consumati nell’annuale festa del rinnovamento del patto. Attorno agli edifici di Khirbet Qumrân furono scoperti tre cimiteri: uno è leggermente a settentrione della terrazza con una dozzina di tombe ove i cadaveri sono sistemati come nel cimitero maggiore; un secondo immediatamente a meridione della terrazza, con una trentina di tombe non orientate in modo uniforme; il terzo è il grande cimitero di Qumrân: immediatamente a oriente delle rovine (ne dista solo 50 metri) con circa 1100 tombe che occupano tutto il resto della terrazza, prolungandosi sulle colline degradanti a oriente; le tombe sono qui disposte in file regolari, ripartite in quattro riquadri divisi da passaggi. E già questa regolarità contrasta con lo stato in cui sono trovati gli antichi cimiteri della Palestina; ogni tomba è segnata da un tumulo di pietre e spesso anche da due più grosse, una alla testa e l’altra ai piedi; il morto disposto sul dorso è orientato da nord a sud e cioè il volto è diretto verso sud; generalmente il loculo ha una profondità variabile da 1,20 a 2 m. e qui si prolunga alquanto verso oriente; i cadaveri erano anzitutto coperti di pietre (o mattoni) e poi di terra. Nella parte più regolare, in una tomba di un tipo differente, fu trovato un corpo femminile; tutti gli altri erano maschili, mentre nei prolungamenti sulle colline furono trovati corpi di donne e bambini. Purtroppo non tutti i corpi furono esumati: furono trovati ornamenti (perle e orecchini) solo in scheletri di donne; tra il materiale riempitivo di una tomba si trovò una lampada intatta. Tutto è troppo accurato, sistematico, regolare. È fuori dubbio che tutti i tre cimiteri sono contemporanei ai periodi I e II, cioè all’occupazione comunitaria di Khirbet Qumrân. Gli archeologi che eseguirono gli scavi sono giustamente convinti che gli edifici servissero di abitazione solo per un numero assai ristretto di persone, e rappresentassero il centro amministrativo e di vigilanza per tutta la comunità. E tutti gli altri dove abitavano? La sproporzione, ad esempio, tra il numero delle tombe e quello dei possibili abitanti degli edifici è enorme. Si pensa a tende e capanne, parzialmente anche alle stesse grotte, principalmente come retro tende e depositi; non pare vi sia altra soluzione; d’altronde l’esplorazione delle grotte della regione ha dimostrato che alcune 20

furono abitate, nell’epoca che ci interessa, e che altre potevano esserlo. Di fronte a una popolazione proporzionalmente numerosa in una zona oggi così desolata, deserta e lambita dal Mar Morto, a una altitudine media di 340 m. sotto il livello del mare, ci si è domandato come potesse vivere. È certo umoristica la sentenza di qualcuno13 che affermò l’impossibilità di vita anche per gli animali più comuni: basta andarvi e si constata subito che non è così. Gli scavi a ‘Ain Feshkha, 2 chilometri e mezzo a sud di Khirbet Qumrân scoperta nel 1956 e oggetto di sistematici scavi archeologici soltanto nel 1958, hanno rivelato che a settentrione della grande sorgente vi è un insieme di rovine abbastanza grande comprendente tra l’altro un chiuso per il bestiame e un complesso di bacini che dovette servire a qualche industria; il tutto è contemporaneo a Khirbet Qumrân; le uniche differenze sono che mancano i segni del terremoto e non offre alcun indizio di interruzione di continuità tra il I e il II periodo; oggi ’Ain Feshkha è a ragione considerata la fattoria di Khirbet Qumrân nella quale erano certamente praticati sia l’agricoltura sia l’allevamento del bestiame. Ed è appunto da Ras Feshkha, mezzo chilometro a sud di ‘A. Feshkha, fino a qualche chilometro a nord di Khirbet Qumrân che, per gli studiosi, si estende la regione che oggi porta il nome di Qumrân. Né negli stessi edifici di Khirbet Qumrân mancavano attività artigianali, tra le quali si deve annoverare, probabilmente, anche la scrittura di manoscritti da vendere. Che poi tutta questa regione, per povera che fosse, potesse alimentare una agricoltura più che sufficiente per la comunità che vi abitava è dimostrato da vari studi accurati sia antichi14 sia recenti15.

I manoscritti. Dopo la scoperta dei primi manoscritti della grotta 1, il Sukenik, avanzò l’ipotesi che la grotta fosse una ghenizâh, un ripostiglio, cioè, ove gli ebrei riponevano quei manoscritti dei libri sacri riscontrati difettosi o fuori uso, testi non accettati tra i libri sacri, scritti eterodossi, e anche documenti profani nella cui redazione non erano state seguite certe norme16. Questa ipotesi è ancor oggi sostenuta da H. Del Medico il quale nega l’identità della ceramica tra gli edifici e le grotte e qualsiasi relazione tra le grotte e gli edifici, e ammette che in un’area così ristretta abbiano potuto esservi anche una trentina di ripostigli del genere17; ma è negare l’evidenza dei dati archeologici. Una ipotesi molto vicina fu avanzata da K. H. Rengstorf, proponendo di vedere nelle grotte di Qumrân la biblioteca del tempio di Gerusalemme 21

trasportata qui per toglierla dai pericoli che correva a Gerusalemme all’epoca della prima rivolta ebraica18; ma qui ci si trova di fronte a difficoltà anche maggiori, come ad es. il problema dei manoscritti posti in grotte senza alcuna protezione, senza la custodia di giare, cioè, o altri mezzi di difesa, come ad es. nella grotta 4 che conteneva certamente il più grande numero di manoscritti. Le conclusioni accolte dalla grande maggioranza dei qumranisti sono esposte sostanzialmente dal Milik. Non esiste una soluzione uniforme, ed è più in armonia con i dati oggettivi distinguere almeno tre diverse possibilità. La grotta 4 è artificiale e i moltissimi manoscritti vi furono posti senza ordine: la mancanza di giare o di altri indizi di una sistemazione danno l’impressione che vi siano stati gettati alla rinfusa e in fretta; forse fu scelta perché vicinissima all’edificio centrale, e molto verosimilmente all’improvviso approssimarsi delle truppe romane; lo stato frammentario dei manoscritti, certe lacerazioni giudicate come indubbiamente antiche, certe strisce che sembrano intenzionalmente strappate dai rotoli, danno la netta impressione di un’antica violazione della grotta, probabilmente molto vicina all’epoca in cui furono nascosti i testi, giacché tutto il deposito fu presto coperto da uno spesso strato di polvere che li custodì. La grotta 1 stretta e di difficile accesso e nella quale la ricognizione archeologica ha trovato le tracce di circa una cinquantina di giare per manoscritti, non fu probabilmente abitata e serviva in pratica come nascondiglio dei manoscritti della comunità; così era, forse, della grotta 3. Tutte le altre grotte appartengono a una terza categoria: sia le grotte di Murabba‘ât e sia altre del deserto di Giuda (ad es. quelle di naḥal Ḥever); non v’è dubbio ormai che in certe circostanze uomini abitarono in esse e quivi riponevano i loro libri e i loro documenti; come si è accennato precedentemente, lo stesso costume si può considerare accertato anche per gli abitanti della regione di Qumrân. Esempi tipici sono al riguardo le grotte 5 e 11, di facile accesso e ben sistemate, nelle quali i manoscritti furono trovati in ordine e ben disposti. I manoscritti hanno dunque una relazione diretta con gli edifici come le stesse grotte e la loro storia è sostanzialmente uguale; non si possono separare né dalle grotte, né dall’edificio centrale, né dalle tombe e cioè dalla regione nella quale furono trovati, la cui storia archeologica è palesemente uniforme. Ad eccezione della storia dei popoli della Mesopotamia, degli Etei (o Ittiti), dei Fenici di Ugarit e degli antichi Egiziani, i cui documenti letterari 22

sono giunti fino a noi esclusivamente, o in gran parte, su tavolette d’argilla o su pietra, e la cui antichità è molto superiore, ma la cui lingua è morta da secoli e il cui influsso è naturalmente limitato, mai si era avuta una scoperta così sensazionale e mai i semitisti si erano trovati di fronte ai documenti così antichi di una lingua tuttora viva, appartenenti a un periodo pressoché totalmente oscuro della sua storia, appunto per mancanza di documenti, a un’epoca gravida di eventi di portata si direbbe universale, come la perdita dell’indipendenza nazionale e la dispersione forzata del popolo ebraico, da una parte, e la nascita del cristianesimo dall’altra. Si comprendono le prime esitazioni di alcuni studiosi sia a proposito dell’antichità dei documenti sia della loro autenticità. Oggi tali esitazioni, anche se qua e là persistono, sono ingiustificate. È certo che i manoscritti sono stati trovati nelle grotte di Qumrân, è certo che sono antichi e che la loro storia è quella documentata dall’archeologia, è certo che sono anteriori alla seconda rivolta ebraica, cioè agli anni 132-135 d. C., come dimostra anche il confronto con i testi scoperti a Murabba‘ât, e che coprono, in misura diversa, un periodo che va dal IV secolo a. C. al I secolo d. C., è certo infine che nelle grotte non furono posti dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70 d. C., e cioè non dopo l’epoca della distruzione dell’edificio centrale, e non v’è dubbio che appartennero alle persone che, con alterne vicende, abitarono in questa regione più di due secoli. Purtroppo i manoscritti di Qumrân non sono ancora stati pubblicati tutti e non avrebbe scopo dare qui un elenco di quelli che già si conoscono, essendo necessariamente parziale. I testi su papiro sono scarsissimi; questo materiale scrittorio poteva provenire sia dall’Egitto, ed era certo il migliore, sia dal lago Hule nella Galilea settentrionale, o da qualche altra località; il materiale comunemente usato per tutti i manoscritti è il cuoio: si tratta di cuoio ordinario di pelli di capra o di pecora preparato secondo le norme che molto più tardi saranno poste per scritto nel Talmûd. La conciatura era fatta quasi certamente (dagli indizi archeologici) o a Khirbet Qumrân o a ‘Ain Feshkha: l’acquisto di un così rilevante numero di pelli conciate avrebbe rappresentato una spesa molto considerevole anche per l’epoca più felice degli abitatori di Qumrân; la scrittura era fatta dalla parte dei peli, «sicché si trattava tecnicamente di pergamene»19, e si usava un inchiostro vegetale, almeno d’abitudine; il motivo per cui la forma comune è il rotolo sta nel fatto che sebbene già in uso nel I secolo a. C. per atti legali e testi scolastici, la forma «libro» fu diffusa soltanto dalla Chiesa primitiva nei primi anni della predicazione cristiana; le dimensioni dei, fogli di cuoio cuciti insieme per formare il rotolo erano diverse: da un rotolo di Isaia che è lungo 7 metri e largo 30 cm. 23

e dal Rotolo del tempio lungo 8 metri e 60 cm. si poteva andare a un rotolo dalle dimensioni di un sigaro; nella parte interna del rotolo, cioè all’inizio, era attaccata una canna o un’asta di legno attorno alla quale si rotolava; prima di iniziare a scrivere, l’amanuense tracciava i margini e le righe con uno stilo (non con l’inchiostro); per scrivere usava una canna (queste penne provenivano quasi certamente dalla stessa regione di Qumrân) che intingeva in un calamaio del tipo di quelli trovati a Qumrân. Il testo ebraico è scritto da destra a sinistra in una serie di colonne segnate da margini (ogni pelle ha di regola da tre a quattro colonne) e appena giunge a talì margini l’amanuense va a capo, senza alcun segno, in qualunque punto della parola si trovi, anche se ha scritto una sola lettera. Un testo può essere dettato o copiato: l’esame attento degli specialisti ha dato il risultato che probabilmente erano seguiti ambedue i metodi. Il Milik, nelle mani del quale è passato un grandissimo numero di manoscritti, osserva: «Vi è una certa attestazione che gli amanuensi erano preparati nella stessa comunità». In un coccio fu trovato un alfabeto con caratteri rozzi che tradiscono una prova di scrittura qumranica, e può ben essere interpretato come l’esercizio di un allievo: il che concorderebbe con l’indipendenza economica della comunità essena e con la educazione dei giovani di cui parlano autori classici. Le opere che fanno parte della Bibbia ebraica sono rappresentate tutte da vari manoscritti frammentari ad eccezione del libro di Ester del quale finora non si hanno testimonianze; di libri completi ci giunse unicamente Isaia di cui una copia è integra (detta 1QIsa) l’altra quasi (1QIsb); dopo Isaia i libri dei quali ci giunsero porzioni più ampie sono i Salmi, i libri dei dodici profeti minori (di questi ultimi un testo molto ampio fu scoperto nelle grotte di Murabba‘ât e un altro, in versione greca, nelle grotte di naḥal Ḥever) e i libri di Samuele; di molti testi biblici furono trovate diverse copie, ad es. del Deuteronomio, dei Salmi e di Isaia. Per certi libri della Bibbia, i frammenti trovati sono molto vicini all’originale, come ad es. quelli di Daniele e dell’Ecclesiastico; quest’ultimo, assente dalla Bibbia ebraica, ma facente parte del canone cattolico, fu scritto verso gli anni 170-190 e fino al 1896 se ne conosceva solo il testo greco. A proposito di libri non presenti nella Bibbia ebraica, ma facenti parte di quella cattolica, dei quali furono trovati esemplari frammentari a Qumrân, sono ancora da ricordare due frammenti aramaici di Tobia, e un frammento ebraico, e un probabile frammento greco della Lettera di Geremia. Sul valore di questi testi biblici ritornerò in séguito, ma lo si intravede subito se si pensa che l’unico testo biblico in ebraico anteriore all’era cristiana che finora si possedeva era il papiro di Nash, contenente il 24

decalogo e un brevissimo tratto del Deuteronomio, mentre tutti gli altri manoscritti del testo ebraico sono del IX secolo d. C.! Ma oltre ai testi biblici ufficiali, i qumraniani ne avevano anche altri: alcuni li caratterizzano più spiccatamente in quanto contengono le norme fondamentali della loro condotta, della vita in comune e delle loro aspirazioni, la loro visione del presente e i loro sogni per il futuro, testimoniano il modo con cui leggevano e interpretavano la loro Bibbia, il giudizio che portavano sui loro connazionali ebrei da una parte e sui non ebrei, su tutto il resto cioè dell’umanità, dall’altra, la loro visione sull’universo e della loro vita in esso, i punti sostanziali del loro dissenso dalla classe ebraica allora dominante; ma ci permettono anche uno sguardo più profondo nel loro animo di uomini religiosi, di solitari che non amavano la solitudine e il deserto per se stessi, ma per mantenere la loro indipendenza di fronte a particolari eventi politici, sociali e religiosi del tempo, per manifestare il loro estremo dissenso e preparare un’era nuova. Tra le opere di questo genere che ci sono giunte le più importanti sono certamente la Regola della comunità con la Raccolta di benedizioni e la Regola dell’assemblea, la Regola della guerra, gli Inni, il Commento al libro di Abacuc e al Salmo 37, tutte opere delle quali prima delle scoperte di Qumrân non si aveva alcuna conoscenza, alle quali sono da aggiungere molteplici frammenti di un’opera, scoperta in una ghenizâh caraita del Cairo nel 1896, della quale si è potuto finalmente conoscere l’ambiente, gli sviluppi le finalità e, in gran parte, la storia (è il cosí detto Documento di Damasco); in fine, il testo delle scoperte più recenti: il Rotolo del tempio e il Targum di Giobbe. Ma con queste opere prevalentemente organizzative ne vennero alla luce altre assai meno voluminose, spesso anzi rappresentate da soli frammenti; la cui importanza è preziosissima per la conoscenza dei qumraniani; così ad esempio il loro salterio con cinque nuovi salmi, nella grotta 11, il libro dei misteri, nella grotta 1, le parole dei grandi luminari, nella grotta 4, le parole di Mosè, nella grotta 1, la preghiera per l’olocausto del sabato, nella grotta 4, la raccolta di preghiere liturgiche, nella grotta 1, la composizione sulla nuova Gerusalemme, nella grotta 5, il florilegio e le testimonianze, nella grotta 4, certe composizioni particolari, frammentarie, nella grotta 4, il poemetto sulla donna, e gli oroscopi, nella grotta 4, il testo su Melchisedec, nella grotta 11, i commenti a Isaia e a profeti minori, nelle grotte 1 e 4, ed altri testi per i quali basta scorrere l’indice del presente volume. Vi è in fine una quarta categoria di scritti venuti alla luce nelle grotte di Qumrân, purtroppo in stato molto frammentario, sufficiente comunque per 25

scorgere sia l’esistenza, tra i qumraniani, di composizioni andate praticamente perdute, sia di altre opere già ben note agli studiosi e facenti parte dei così detti «apocrifi», o anche «pseudepigrafi», dell’Antico Testamento, di quegli scritti, cioè, che, pur godendo di una certa antichità, considerazione e diffusione, non furono accolti né nella Bibbia ebraica né in quella cristiana, ma sulla cui origine, se ebraica o cristiana, ed epoca di composizione si è molto discusso e per la verità si discuterà ancora, anche perché il materiale pubblicato in questo caso è ancora troppo scarso. Comunque, dalle anticipazioni e pubblicazioni parziali si può ben scorgere quale sia la via per la soluzione degli interrogativi che per secoli accompagnarono questi scritti. Si tratta in particolare di tre scritti notissimi: il libro dei Giubilei, il libro di Enoc, i Testamenti dei dodici Patriarchi. Del primo si possedeva finora soltanto una traduzione etiopica completa e una latina incompleta: ora a Qumrân nelle grotte 1, 2, 4 sono stati scoperti più di una decina di frammenti che corrispondono fedelmente con il testo sul quale furono fatte le versioni e inducono a credere che la composizione dell’opera risalga verso il 100 a. C.; questo testo, che era particolarmente caro ai qumraniani per tanti motivi, non è quindi certamente opera di un cristiano, e non è da escludere che la sua origine sia proprio qumranica. Per il secondo scritto, anch’esso rappresentato da una decina di frammenti della grotta 4 (parte in ebraico e parte in aramaico), la questione è alquanto più complessa: l’opera ci era nota dalle traduzioni, una etiopica, completa, e altre greche parziali (da distinguere nettamente dalla versione slava, che nella forma in cui ci è giunta è certamente cristiana); una parte, cioè Le similitudini (cc. 37-71), era da molti critici attribuita a un autore cristiano, o ebreo cristiano, e almeno finora non ha alcun riscontro nei manoscritti di Qumrân, il che sembra confermare l’opinione di questi critici; il resto, un complesso di testi di natura piuttosto diversa accentrati sulla persona di Enoc, e che ebbero molto probabilmente un’esistenza indipendente, è testimoniato dai detti frammenti, ma il testo dei passi che si possono controllare non è tale, a giudizio del Milik che ne è l’editore, da attestare che l’opera, così come la conosciamo, esistesse a Qumrân; senza scalzare dunque totalmente i giudizi finora correnti tra gli studiosi (si attende ancora la pubblicazione di tutti i frammenti), le scoperte di Qumrân danno al problema un nuovo indirizzo. Secondo il Milik, un ebreo cristiano del II secolo d. C. raccolse il materiale ebraico e aramaico preesistente (scaglionato in un periodo che va dal II secolo a. C. in poi), quello cioè attestato a Qumrân, lo ripartì in quattro parti alle quali aggiunse in proprio una quinta, Le similitudini ottenendo così un’opera in cinque libri come il Pentateuco mosaico (i primi cinque libri della Bibbia) e il Pentateuco 26

davidico (il Salterio), ma altri qumranisti vedono nelle «similitudini» una composizione asidea del I secolo a. C.20. Anche il libro che raccoglie le ultime parole dei dodici patriarchi, figli di Giacobbe ed eponimi delle dodici tribù di Israele, noto come Testamenti dei dodici Patriarchi, che già si conosceva da una decina di manoscritti greci, da una traduzione armena e da una slava (fatta sul greco), ha evidenti somiglianze con il pensiero cristiano. Nella grotta 1 e nella grotta 4 di Qumrân furono trovati frammenti aramaici di un testamento, quello di Levi, e frammenti ebraici del testamento di Neftali, ambedue più estesi delle versioni che abbiamo, mentre il testo del testamento di Levi concorda con un frammento aramaico trovato nella ghenizâh del Cairo: secondo alcuni studiosi, tra i quali E. Bickerman e A. Dupont-Sommer, questo prova che (a parte alcune interpolazioni evidentemente cristiane) tutta l’opera è di origine precristiana e le somiglianze con il cristianesimo sono da valutare nel vasto complesso di quelle esistenti tra cristianesimo ed essenismo; mentre secondo altri (tra i quali M. de Jonge e J. T. Milik) un attento esame dei frammenti di Qumrân porta piuttosto alla conclusione che il testo dei Testamenti è opera di un ebreo cristiano che li compose sull’esempio di due o tre testamenti in lingua ebraica o aramaica attestati a Qumrân. Queste, evidentemente, non sono le uniche opere del genere, ma solo quelle che più hanno attratto l’attenzione degli studiosi in quanto già note, o discusse e di attestata ampia diffusione. Ad esse se ne devono aggiungere altre come i Salmi di Giosuè (dei quali però si ha una sola citazione), la preghiera di Nabunai e molti frammenti non appartenenti a opere note e troppo brevi per dare loro un titolo. Quanto s’è detto è sufficiente per illustrare sommariamente l’enorme ricchezza letteraria introdotta nel campo di questi studi con la scoperta dei manoscritti di Qumrân. Ci si domanda come la più che benemerita équipe di Qumrân abbia potuto identificare da semplici frammenti opere così diverse. Anzitutto si deve rendere omaggio all’istinto, alle doti naturali e alla preparazione dei singoli, perché solo chi ebbe la fortuna di trovarsi tra loro conosce i sacrifici richiesti da un lavoro del genere. Si deve poi riconoscere che per i frammenti di testi biblici furono aiutati dalle concordanze ebraiche; per i testi non biblici, soprattutto per la letteratura apocrifa, ebbero un aiuto notevole nella fraseologia caratteristica di quelle opere con certe parole chiavi familiari a ogni conoscitore; in fine, ed è qui proprio il caso di dirlo, last but not least, furono aiutati dalla organizzazione che si seppero dare; apparve abbastanza presto (nel 1960) la concordanza di K. G. Kuhn comprendente buona parte dei manoscritti allora pubblicati e che poteva 27

rendere preziosi servizi, ma l’équipe aveva già una sua propria concordanza a schede che teneva sempre aggiornata: questa rese certamente servizi incommensurabili. Quando apparve la ricchezza delle scoperte, si presentò anche il problema di una formula breve e chiara per designare ogni manoscritto, ogni frammento. Il metodo fu congegnato felicemente dal Milik al quale tanto devono tutti i qumranisti: è quello che ormai seguono tutti ed è seguito anche qui. Sommariamente consiste in questo: le grotte di Qumrân sono numerate da 1 a 11; il primo dato da segnalare è dunque in quale grotta si trova un manoscritto: 1Q equivale a grotta 1 di Qumrân e così via; poi segue il contenuto indicato generalmente con un termine ebraico e con uno equivalente: 1QIsa equivale a 1 grotta di Qumrân primo (a) grande testo di Isaia, 1QS il testo della Regola (in ebr. serek), 1QM il testo della Guerra (in ebr. milḥamah) ; dopo la grotta vi può anche essere un semplice numero corrispondente a quello che un dato testo ha nell’edizione: 4Q184 è un testo della quarta grotta sulla donna; ogni testo è dunque numerato e a sua volta può essere stato ricostruito, dall’editore, con altri frammenti, ad es.: 4Q184 framm. 1. Per facilitare il riscontro si cita sempre la colonna e la riga del testo originale, a meno, evidentemente, che si tratti di piccoli frammenti. Così una citazione completa 1QM, V, 6 significa: prima grotta di Qumrân, Regola della guerra, col. V, riga 6. Come si vede il sistema è molto semplice e sufficientemente preciso. Si deduce senza esitazione che tutti questi scritti appartenevano a un gruppo, a una comunità ascetico religiosa; alcuni ne regolavano la vita, come la Regola della comunità e il Documento di Damasco, altri ne indirizzavano la spiritualità, ad es. gli Inni e i commenti biblici, o rivelano il metodo di interpretare i testi, la visione del mondo, le attese escatologiche, i principi che la reggevano e la sua organizzazione. È importante dunque domandarci se è possibile individuare questo gruppo religioso; sia chiaro tuttavia che, qualunque sia la risposta, essa non può mutare o modificare minimamente i dati oggettivi dei testi, ci permette però di inquadrarli meglio nel loro naturale contesto e di averne una meno incompleta visione storica.

L’ambiente religioso e politico. Constatato il periodo al quale si estendono i nostri manoscritti e il grande interesse che hanno, è utile, prima di procedere oltre, arrestarsi un istante per dare uno sguardo sommario a quello che già sapevamo di questo periodo, prima della scoperta di Qumrân; crearsi infatti un ambiente 28

immaginario sarebbe il miglior mezzo per precludersi la strada alla comprensione dei manoscritti.

Gli accessi alle grotte dei manoscritti, a picco sull’uadi Qumrān.

Una convinzione basilare dell’ebraismo è che il Dio dei suoi padri ha rivelato la vera religione a Mosè, che egli l’abbia incorporata integralmente nei primi capitoli della Bibbia, il Pentateuco, o la Tôrāh, cioè la Legge, che essa sia stata trasmessa da una catena ininterrotta di persone scelte fino all’inizio dell’epoca postesilica, cioè a Esdra e Neemia, quando cessò l’ispirazione divina sui profeti e fu codificata tutta quella letteratura sacra che siamo soliti chiamare «Bibbia». I critici non accettano questa semplificazione, convengono invece nel ritenere che quella fu l’epoca (verso 29

il 400 a. C.) nella quale il Pentateuco fu codificato e ricevette praticamente la sua forma definitiva, che ci è familiare. Un famoso detto sintetizza questa fede dell’ebraismo: «Mosè ricevette la Legge dal Sinai e la trasmise a Giosuè: e Giosuè agli anziani: e gli anziani ai profeti; e i profeti la trasmisero agli uomini della grande congregazione» (Abôt, I, 1). Ad ogni modo, dal 400 in poi si diffuse e divenne fede comune tra gli ebrei la ferma credenza che la vera religione era tutta nel Pentateuco: il libro che meditavano notte e giorno, la Legge del loro Dio, l’opera che mentre li distingueva da tutti gli altri popoli, li manteneva uniti anche dopo la perdita dell’indipendenza e faceva di loro una confederazione divina, una congregazione santa, dominata unicamente dal loro Dio, sicché, pur camminando in una «valle tenebrosa», erano convinti che essa li guida come un pastore il suo gregge (cfr. Sal., 23) e che il mondo sussiste per tre cose: «per la Legge, il culto e per la misericordia» (Pirkê ’abôt, I, 2). La religione, che era stata prevalentemente nazionale, si sviluppa in due direzioni: una universalistica, l’altra personale, sotto la spinta di due principali fattori, la fine, cioè, della monarchia e la trasformazione della nazione in una congregazione santa; la perdita dell’indipendenza politica, ebbe soprattutto un significato religioso e culturale. Universalismo e individualismo rimasero però sempre inserite nell’antica religione nazionale, formando così tre direttive che caratterizzeranno l’ebraismo dal 500-400 a. C. in poi. La relazione tra il singolo e la divinità dei padri è sempre meno considerata inevitabile per ognuno, in quanto era sempre più intesa come moralmente condizionata. Il Dio dei padri aveva fatto di Israele una nazione sua particolare attraverso un fatto che esigeva da parte di Israele l’osservanza della Legge. Il servizio cultuale nel tempio di Gerusalemme era dalla grande maggioranza considerato essenziale e faceva parte dell’osservanza della Legge, come dimostra lo zelo per il pagamento delle decime al tempio (cfr. Tob., 1, 4-8 e Giudit., 11, 13), l’entusiasmo che suscitano le ufficiature nel tempio (cfr. Eccli c. 50), gli inni che strappa al cuore Gerusalemme e il suo tempio (cfr. Tob., c. 13), i sogni di una futura restaurazione e i maggiori onori tributati a Levi tra tutti i patriarchi (cfr. Tob., 14, 4-7 e il Test. di Levi). D’altra parte si scorge nettamente la tendenza a considerare i riti del tempio come qualcosa di sopravvissuto che a poco a poco perde il suo significato: la Legge e il suo studio appaiono sempre più centrali, con la tendenza a trasferire i riti in opere buone: studio e opere buone sottolineano sempre più la religione personale e anche i vincoli tra gli ebrei che si trovano sempre più circondati da altri popoli e da culture tanto diverse dalla loro. 30

Da tutti questi movimenti o tendenze emergono gradatamente tre interessanti direttive. Prima di tutto la necessità di specificare chiaramente tutte quelle pratiche che, oltre i riti del tempio, caratterizzano gli ebrei, come ad es. la circoncisione, l’osservanza del sabato, l’orrore dell’idolatria, del sangue e della carne suina; a queste si aggiungono altre prescrizioni legali e tradizionali che regolano la condotta dei singoli, e in particolare le norme sulla purità della stirpe che vietano i matrimoni misti, contribuendo così a sottolineare tanto l’autocoscienza quanto la separazione. Ma la convinzione che, nella Legge e negli altri scritti, Dio avesse manifestato la sua volontà e la certezza che egli non avrebbe realizzato le speranze individuali e nazionali fino a quando tutto il popolo non fosse vissuto in pieno accordo con la Legge, creò l’imperativo delle scuole e delle sinagoghe. Molto più tardi, tutta la somma di discussioni, insegnamenti di costume e religiosi di ogni genere, che nacquero e si svilupparono nelle scuole, furono ordinati in quelle nostre opere di sintesi che sono la Mishnah e il Talmûd di Gerusalemme e di Babilonia, mentre ad es. i Targumîm e i Midrashîm raccolsero parte degli insegnamenti sinagogali. Da questo assiduo e profondo contatto con la Legge e gli altri scritti e dalla naturalmente connessa tensione verso il passato, sorge sempre più chiara la coscienza del presente e una forte tensione verso il futuro. Tutto ciò doveva alimentare ognor più le speranze di una rinascita nazionale che Dio avrebbe realizzato in un prossimo futuro e cioè di una gloriosa e definitiva rivendicazione degli ebrei, per mezzo della restaurazione del regno di David (come in alcuni celebri testi biblici) o, più generalmente, per opera di quello che si suole chiamare genericamente messianismo, con o senza la figura di uno o più messia al quale o ai quali è assegnata una parte più o meno rilevante, a esclusivo beneficio degli ebrei, oppure anche per i popoli non ebrei, salvati con la mediazione di Israele, vittorioso definitivamente su tutti, purché si convertano alla sua religione. Intanto, le persecuzioni religiose scatenate dai Seleucidi, l’influsso positivo di certe correnti proprie dell’ellenismo, le defezioni sempre più numerose e impressionanti di ebrei dall’ebraismo ortodosso in favore di usi e costumi ellenistici e una più attenta riflessione su molti dati biblici e in particolare sulla stessa personalità del Dio della rivelazione mosaica e dei profeti, diresse alla discussione sull’al di là: risurrezione, giudizio, felicità. Ma per chi e come? D’altra parte le tristissime condizioni, che dal 200 a. C. in poi andarono sempre più aggravandosi, aumentavano negli animi dei più fedeli e ortodossi la tensione verso il futuro, con utopie apocalittiche ed escatologiche. 31

Gli eventi storici di maggiore importanza nel periodo che ci interessa si possono riassumere brevemente come segue, tralasciando certe complesse questioni particolari. Nel 198 a. C., dopo le vittoriose campagne di Gaza e di Pania, i Seleucidi della Siria (era allora re Antioco III) tolsero ai Tolomei d’Egitto il dominio della Palestina; poco dopo il suo avvento al trono, Antioco IV Epifane (175164 a. C.), avendo bisogno di denaro e non essendo riuscito a ottenerlo dai sacerdoti di Gerusalemme con la missione di un certo Eliodoro, depose il sommo sacerdote Onia III esiliandolo ad Antiochia e offrì la carica al fratello Giosuè, che ellenizzò il proprio nome in Giasone, sostenuto dalla potente famiglia ebraica dei Tobiadi; questi abbracciò subito la causa dell’ellenizzazione, fece costruire anche un ginnasio con tutti i giochi ginnici comuni nelle regioni dell’ellenismo; ma quei giovani ebrei nudi nella palestra, alcuni dei quali non avevano esitato a ricorrere a pratiche poco oneste per celare la circoncisione, suscitarono l’indignazione degli ebrei conservatori e dopo solo tre anni Giasone fu deposto e gli succedette un certo Menaḥen, ellenizzato in Menelao. Nonostante i suoi pochi scrupoli nel depredare il tesoro del tempio per pagare il debito contratto con il re per la sua elezione, fu forse per aprirsi maggiori possibilità che fece assassinare il vecchio Onia III, che aveva cercato rifugio nel tempio di Apollo a Dafne, e permise che Antioco (nel 169) saccheggiasse il tempio; poco più tardi, durante la seconda campagna contro l’Egitto, sparsasi la notizia della morte di Antioco, ritornò improvvisamente Giasone e fece uccidere a tradimento tanti suoi vecchi nemici, allontanandosi poi tra i tumulti e un terribile fermento popolare, che il re farà quietare con una dura repressione e con l’erezione di una torre fortificata nell’area del tempio. Dopo avere constatato che l’opposizione ebraica all’ellenizzazione era radicata nella religione, il re decise di proscriverla: il tempio dei samaritani (sul monte Garizim) fu dedicato a Zeus Xenio e quello di Gerusalemme a Zeus Olimpio: sul suo altare furono offerte carni suine, e Menelao e il suo clero cessarono di officiare. Nello stesso tempo furono proibite (in Palestina, non fuori) tutte le osservanze religiose (la circoncisione, il riposo sabatico, le feste ecc.) sotto pena di morte, fu distrutto ogni rotolo della Legge e il semplice possesso di un testo sacro era passibile di pena capitale, tutti i cittadini erano invitati ai riti pagani, e ovunque furono eretti altari agli dèi. La reazione ebraica fu di tre specie. Alcuni, una minoranza, si adattarono alle nuove misure e rinnegarono la loro fede; altri offrirono una resistenza passiva, almeno all’inizio e, segretamente, in casa loro o, pubblicamente, in luoghi deserti, ove si ritiravano, seguitavano a osservare le loro leggi, 32

preferendo morire piuttosto che trasgredirne una sola; la loro determinazione è espressa molto chiaramente in 1 Macc., 2, 36-38 e in Dan., 3, 17-18 (che molto verosimilmente si riferisce proprio a questi eventi): costoro erano gli ḥasidîm («asidaioi», asidei 1 Macc., 2, 42; 7, 13 e segg.; 2 Macc., 14, 6) cioè i «pii», molti dei quali furono martirizzati; la loro condotta era sostenuta da una illimitata fiducia in Dio. Una terza reazione fu la resistenza attiva, la sfida all’editto regio con le armi in pugno; la fuga in montagna, la coordinazione dei movimenti e la lotta aperta; la scintilla, per costoro, scoppiò allorché Mattatia, nel villaggio di Modin, ribellandosi all’invito di compiere un culto pagano, uccise l’ufficiale regio e un ebreo passato dall’altra parte, e poi fuggì sui monti assieme ai suoi figli (Giovanni, Simone, Giuda, Eleazaro, Gionata), quelli appunto che prenderanno in mano il movimento e che ebbero il soprannome di «Maccabei». Sebbene distinti fin dall’inizio da differenti atteggiamenti, asidei e Maccabei furono, in un certo qual senso, alleati e dimostrarono il loro attivismo particolarmente nella campagna, e in regioni desertiche. «Molti del popolo… si uniformarono a essi e commisero del male nel paese. Costoro costrinsero il popolo di Israele a vivere in nascondigli… Molti che ricercavano la giustizia e il diritto si rifugiarono nel deserto, essi e i loro figli, le loro mogli e i loro greggi… Allora si associò a loro (ai Maccabei) un gruppo di asidei, tra i più forti in Israele, ognuno pronto alla difesa della Legge. Tutti coloro che sfuggivano alla sciagura si aggiunsero a loro… Allestirono così un esercito e cominciarono a colpire con collera i peccatori e gli iniqui… Mattatia e i suoi andavano in giro ad abbattere le are. Essi circoncidevano a forza i fanciulli incirconcisi che trovavano entro i confini di Israele, davano la caccia agli insolenti… (1 Macc., 1, 52-53; 2, 2947). Ma presto iniziarono le prime lotte aperte e nel 165 a. C. sotto la direzione di Giuda, ebbero il sopravvento, riconquistarono Gerusalemme e purificarono il tempio. La lotta proseguì anche dopo la conquista della libertà religiosa; in tal modo si accentuò sempre più la distanza e poi il dissidio divenuto acuto tra i Maccabei e gli asidei; questi ultimi, infatti combattevano esclusivamente per la libertà religiosa, ottenuta nel 164. Osserva acutamente R. H. Pfeiffer: «Il libro di Daniele riflette la lotta per la libertà religiosa prima del 164 a. C., il libro di Giuditta sia questa lotta sia quella per l’indipendenza politica che ebbe fine nel 141, in fine il libro di Ester riflette le campagne per la vendetta contro i nemici degli ebrei che ebbero luogo dopo il 141»21. 33

Allorché il sommo sacerdote Menelao fu ucciso, Demetrio I (re dal 162 al 150) elesse Eliakim (o Jakim), che ellenizzò il nome in Alcimo; a Gerusalemme costui fece subito uccidere una sessantina di asidei che avevano favorito il movimento dei Maccabei. In uno scontro con Bacchide, generale di Demetrio I, morì nel 161 a. C. Giuda Maccabeo; Alcimo avuto il controllo del movimento di ellenizzazione fece abbattere anche il muro del cortile del tempio che divideva gli ebrei dai non ebrei. La resistenza armata il cui comando era passato a Gionata, si rifugiò nuovamente nella campagna e nelle regioni desertiche, ma presto riprese le sue azioni vittoriose e nel 153 Gionata indossò a Gerusalemme le vesti di sommo sacerdote per celebrare la festa dei tabernacoli; nel 143, caduto in un tranello tesogli da Trifone, fu preso e imprigionato a Tolemaide. Al suo posto i sostenitori del movimento elessero il fratello Simone, il quale inutilmente cercò di liberare il fratello, che verrà poi ucciso; Simone proseguì invece con fortuna le conquiste: nel 142 liberò totalmente Gerusalemme e rese un ampio territorio indipendente dai Seleucidi. Nello stesso anno il popolo conferì a Simone e ai suoi legittimi dipendenti, in perpetuo, l’autorità di sommi sacerdoti (1 Macc., 14, 25-41): iniziò così la dinastia degli Asmonei, come per primo la chiamò Giuseppe Flavio (Antich., XII, 265), che durerà fino al 37 a. C. Siccome gli Asmonei non erano di stirpe sacerdotale, qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che il Salmo 110 ove si legge l’espressione: «Tu sei sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedec» fosse proprio stato scritto in occasione dell’insediamento di Simone; ma dopo la scoperta a Qumrân del celebre testo su Melchisedec una tale ipotesi è semplicemente impossibile. Come i suoi fratelli, anche Simone ebbe una morte violenta: fu ucciso con due suoi figli, dal genero, governatore di Gerico, nel 135; scampò solo il figlio Giovanni Ircano, che si trovava a Gazara, il quale riuscì a venire a Gerusalemme per succedere al padre come sovrano e sommo sacerdote (dal 135 al 104). Giovanni Ircano seppe abilmente avvantaggiarsi dei dissensi tra i Seleucidi e concepì il grandioso disegno di restaurare un regno che eguagliasse quello di David: ebbe successo e fu spietato. Assoggettò i Samaritani con crudeltà e distrusse il loro tempio; vinti gli Idumei li obbligò con la forza ad adottare l’ebraismo, rase al suolo la città greca di Samaria. Alla sua morte, gli succedette il figlio Aristobulo (104-103) come sommo sacerdote, e fu il primo degli asmonei che prese il titolo di «re»; ma appena salito in trono fece imprigionare la madre e i propri fratelli ad eccezione di uno, Antigono, che poi involontariamente uccise. Alla sua morte, la moglie Salome Alessandra liberò i fratelli di lui e sposò il più vecchio, che aveva 34

tredici anni meno di lei, Alessandro Janneo (103-76 a. C.): sommo sacerdote e re straordinariamente bellicoso. Tanto che i farisei, solitamente pacifisti, chiesero l’intervento di Demetrio III Eucherio, che venne e lo vinse (nell’88 a. C.), ma dopo la partenza di quest’ultimo ci fu una sollevazione popolare in favore di Alessandro Janneo che si prese la rivincita con una terribile e sanguinosa repressione contro i farisei (4QpNah, II, 1 e segg. e nota). Morì durante l’assedio a una città della Perea, e lasciò agli ebrei un regno che era quasi ampio come quello di Salomone. Gli succedette al trono la moglie (dal 76 al 67 a. C.) e nel sommo pontificato il figlio primogenito, Ircano II. La regina (lei stessa era sorella di un fariseo) mutò totalmente politica con i farisei tanto che Giuseppe Flavio, pur facendone un grande elogio, scrive: «Parlando in generale, i vantaggi della regalità erano per loro (i farisei), mentre le spese e le noie erano per Alessandra… Essa comandava sugli altri, e i farisei su di essa» (Guerra, I, 111-112). Alla morte della madre, il figlio Aristobulo II (67-63) ebbe presto il sopravvento sul fratello sommo sacerdote che finì per ritirarsi a vita privata. Ma un intervento di Antipatro, un idumeo governatore militare della sua terra e padre di Erode il Grande, ridiede pontificato e regno a Ircano II; e i due fratelli ricorsero ai Romani. Nella primavera del 63 Pompeo a Damasco udì le loro ragioni e anche quelle del popolo. Ma i dissensi e le trame continuarono profondi, sicché, prima Gabinio e poi Pompeo nel 63, allorché giunsero a Gerusalemme trovarono una situazione diversa da come pensavano, e dovettero assediare la città: dopo un assedio di tre mesi, Pompeo entrò anche nel tempio, ma non vi fece alcun bottino. Tolse agli ebrei tutte le città non ebree conquistate dagli asmonei, portò a Roma Aristobulo insieme a vari altri ebrei (che costituiranno poi il primo nucleo della comunità ebraica di Roma), lasciò Ircano II nella carica di sommo sacerdote ed etnarca del ridotto stato ebraico (dal 63 al 40 a. C.). La fine degli asmonei si avvicinava rapidamente: prima un figlio di Aristobulo II, Alessandro, che fuggì dal seguito di Pompeo, in fine lo stesso Aristobulo con un altro figlio, Antigono, intorbidarono sempre più le vicende a detrimento di Ircano e del popolo; l’invasione dei Parti, accolti dagli ebrei come i liberatori dal giogo romano, portò Antigono sul trono del sommo sacerdozio e del regno (dal 40 al 37 a. C.): fu l’ultimo re asmoneo; Ircano, al quale egli fece tagliare le orecchie, rendendolo così inadatto al sommo sacerdozio, fu condotto dai Parti in Babilonia; il suo governo preparò l’ascesa di Erode il Grande (37-4 a. C.). I procuratori romani non riuscirono a riconciliare gli ebrei con le leggi 35

romane; anche i più saggi e ben intenzionati offendevano, talvolta involontariamente, gli scrupoli religiosi degli ebrei, mentre i più decisi contribuirono al precipitare degli eventi. La scintilla partì da un fatto piuttosto insignificante accaduto a Cesarea, che fece scattare a Gerusalemme una reazione bellicosa. Il partito favorevole alla guerra contro Roma, diretto da Eleazaro, fece sospendere (nel 66 d. C.) i sacrifici in favore dell’imperatore Nerone e scatenò la rivolta: la fortezza di Masada cadde in mano ai ribelli che massacrarono i soldati romani, la stessa sorte capitò ai soldati della fortezza Antonia, nella superficie del tempio, attaccati dagli insorti, aiutati da Menaḥem (figlio di Giuda il galileo) con la sua banda di zeloti. Vi fu poi lo scontro tra gli insorti di Gerusalemme, guidati da Eleazaro, e quelli della campagna, sotto la guida di Menaḥem, che uccise anche il sommo sacerdote padre di Eleazaro: quelli di Menaḥem furono cacciati ed egli stesso ucciso su di una collina della città (GIUSEPPE FLAVIO, Guerra, II, 310). La stessa cosa accadde in ogni città: ove gli ebrei erano in maggioranza ebbero il sopravvento, ove erano in minoranza ebbero sopravvento gli altri. Un primo, tragico, epilogo si ebbe nel 70 con la caduta di Gerusalemme dopo che era già stata dilaniata dai tirannici capi di due diverse bande di zeloti, quella di Giovanni di Ghiscala (ironia del nome «massa di latte») e quella di Simone Bar Ghiora. Un passo drammatico di Giuseppe Flavio elenca i molti segni premonitori che avrebbero dovuto mettere in guardia «i ciarlatani» e quanti «parlavano falsamente in nome di Dio» e il popolo che dava loro ascolto (Guerra, VI, 288-299). Il più impressionante è sotto molti aspetti l’ultimo. «Un certo Gesù, figlio di Anania, rozzo campagnolo, quattro anni prima della guerra (cioè nel 62 d. C.) allorché la città godeva di somma pace e prosperità, venne alla festa in cui c’è l’uso che tutti costruiscano tabernacoli a onore di Dio e a un tratto cominciò a gridare nel tempio: “Voce da oriente! Voce da occidente! Voce dei quattro venti! Voce contro Gerusalemme e contro il santuario! Voce contro sposi e contro spose! Voce contro tutto il popolo!”. Gridando tutto ciò di giorno e di notte, s’aggirava egli per tutti i vicoli» (loc. cit., 300-301). E certo mai profezia ebbe più tragico e celere avveramento. Una nuova violenta ribellione contro Roma ebbe luogo sotto l’imperatore Traiano (117-138) che, a quanto sembra, aveva proibito la circoncisione e sul luogo dell’antico tempio ebraico aveva permesso la costruzione di un tempio a Giove Capitolino; in realtà tale ribellione può essere stata originata da un grande sussulto messianico con conseguenti sogni apocalittici. Questa rivolta (132-135) fu diretta da «Simone, principe di 36

Israele» (secondo l’iscrizione sulle monete) o, secondo la sua stessa firma, «Simone, Bar Kosba», che dall’autorevolissimo rabbi Akiba fu salutato «la stella di Giacobbe» (Num., 24, 17) additandolo così come l’atteso messia, donde il soprannome Bar Kokebà (o Bar Kokbà) «figlio della stella». Ma dopo tre anni e mezzo fu sconfitto e ucciso nel suo ultimo rifugio di Beitar presso Gerusalemme. Quest’ultima ribellione segnò, da una parte, la separazione definitiva tra la Chiesa e la Sinagoga: ciò fu una tragedia anche per quegli ebreo-cristiani che vedevano in Gesù il vero Messia, pur seguendo ancora il culto sinagogale, i quali si ridussero a una setta respinta tanto dai vescovi quanto dai rabbini; dall’altra parte, segnò il passaggio degli ebrei e della sinagoga sotto la guida dei maestri della Legge, scribi, farisei, Tannaim, Amoraim, Gheonim, che divennero i capi dell’Israele disperso. Tali erano le caratteristiche linee fondamentali religiose, sociali e politiche dell’epoca nella quale si inseriscono i manoscritti di Qumrân come attestano i dati archeologici e paleografici; è dunque in questo tormentato e fecondo periodo della Palestina e della storia ebraica che si ambientano gli scritti e gli avvenimenti di Qumrân. La scoperta chiarifica vari eventi particolari e molte tensioni spirituali solo sommariamente note in precedenza, e a lor volta i manoscritti vengono inquadrati realisticamente in quello che fu il loro ambiente naturale, suscitando, come ogni scoperta, nuovi problemi, ma gettando anche molta luce su un periodo per tanti versi prima molto oscuro, pur essendo sempre stata considerata indubbia la sua straordinaria carica di energia intellettuale, morale e religiosa. Sorprende assai meno ormai che un gruppo di persone si sia ritirato sdegnoso nel deserto di Giuda (cfr. 1 Macc., 1, 53; 2, 29-30). Ma da chi era formato? Chi erano costoro che scelsero la vita e gli ideali descritti nei manoscritti?

«Gens sola… socia palmarum». Subito dopo la scoperta ci si è domandato d’onde provenissero questi scritti e la domanda si fece sempre più insistente e precisa a mano a mano che le scoperte si succedevano. Non è questa sicuramente la questione più importante tra le molte suscitate dai manoscritti, è però una di quelle che più furono dibattute e a tutt’oggi non si può dire che sia risolta in un modo assoluto; gli studi sono tuttavia giunti a conclusioni non solo largamente accettate, ma divenute comuni alla stragrande maggioranza dei qumranisti e si constata come ogni pubblicazione notevole di nuovi testi apporti una 37

conferma indiretta all’opinione che, criticamente parlando, resta pur sempre un’ipotesi di lavoro: i qumraniani, ai quali risalgono i manoscritti trovati nelle grotte della regione di Qumrân, sono esseni. Come s’è visto si ha da fare con un gruppo di persone, una setta o, meglio, una comunità avente ideali determinati e una regola di vita. Nella storia dell’ebraismo, questo è un periodo effervescente, agitato da controversie e da visioni molto contrastanti sia in questioni religiose, sia in quelle politiche, sociali ed è soltanto dopo il 200 d. C. che si raggiunse una certa uniformità. Nel Nuovo Testamento sono menzionati gli scribi, i farisei, i sadducei, i samaritani, gli erodiani, gli zeloti, i sicari, i discepoli di Giovanni Battista; ma qui non erano certo citate tutte le sette o movimenti ascetici, religiosi e politici: mancano ad es. gli esseni menzionati tanto da Giuseppe Flavio quanto da Filone di Alessandria e altri ancora menzionati dai primi scrittori ecclesiastici. Uno sguardo ad altre ipotesi è tuttavia utile, oltreché giusto. Fin dall’inizio delle scoperte, S. Zeitlin si dichiarò sempre decisamente contrario a una così remota antichità dei manoscritti, negò la validità dei risultati archeologici e paleografici, e sostenne che i manoscritti risalgono al medioevo, all’epoca dell’occupazione persiana della Palestina (611-629); i tanto menzionati Kittîm sono gli eserciti dell’impero romano d’oriente; come il Documento di Damasco anche i manoscritti di Qumrân sono d’origine caraita e con essi questa setta ebraica volle dimostrare la sua antichità. Non v’è dubbio che tra i caraiti e i qumraniani vi sono elementi comuni come, ad esempio, il metodo di sepoltura e la preghiera tuttora da essi recitata: «Che Dio ci mandi il maestro di giustizia…»22. Ma tutto ciò non sembra ancora sufficiente per trarre conclusioni come quelle dello Zeitlin23. Secondo K. H. Rengstorf al tempio, come santuario regio non meno che nazionale, provvedeva la corona assegnandogli, tra l’altro, propri beni; così fu nel periodo del regno ebraico e così seguitò ad essere sotto i Persiani, sotto i Seleucidi e sotto Erode; la regione di Qumrân era una delle terre assegnate all’amministrazione del tempio. Di qui traggono la loro ragione d’essere gli edifici di Qumrân e di ‘Ain Feshkha, gli impianti e labcratori scoperti, e il carattere singolare di certi locali, anche tenendo presente che c’era un personale inferiore e uno superiore come al tempio. Quindi nell’ultimo periodo dell’insediamento indicato dalla archeologia, data anche la natura del luogo, fu trasportata la biblioteca del tempio. È un’ipotesi che ha vari elementi in suo favore, ma tutta l’inquadratura è pressoché gratuita mancando di ogni elemento probativo, e d’altra parte moltiplica inutilmente i non pochi problemi che già ci sono24. 38

Riprendendo un’ipotesi avanzata da qualche studioso a proposito del Documento di Damasco, C. Roth è convinto assertore dell’origine zelota dei manoscritti. Gli zeloti costituivano un partito di gelosi e feroci custodi della legge e dell’indipendenza politica degli ebrei; anche tra i discepoli di Gesù c’era uno zelota, Simone (Lc., 6, 15; At., 1, 13), detto anche «cananeo» che in ebraico e in aramaico equivale appunto a zelota (Mt., 10, 4; Mc., 3, 18). Nella enumerazione delle correnti del pensiero ebraico, presentate da Giuseppe Flavio come correnti filosofiche, gli zeloti vengono al quarto posto (dopo i sadducei, i farisei e gli esseni) e perciò la loro dottrina spesso è detta «la quarta filosofia»; divennero presto inquieti e aggressivi e non avrebbero mai accettato una pace con i Romani, ai quali si rifiutavano con ogni mezzo di pagare le tasse, e furono loro, probabilmente, che si fecero assertori del diritto di uccidere chiunque non ebreo osasse oltrepassare i limiti dei cortili del tempio riservati ai non ebrei. Scrive ad esempio Giuseppe Flavio: «Certo che Giuda e Sadoc iniziarono tra noi un’intrusa quarta scuola filosofica… La quarta delle filosofie era guidata da Giuda il Galileo. Questa scuola concorda in tutto con le opinioni dei farisei ad eccezione di una quasi invincibile passione per la libertà, essendo convinti che solo Dio può essere la loro guida e il loro sovrano» (Antichità, XVIII, 9 e 23). Le loro file si ingrossarono soprattutto nella rivolta del 66 d. C. ed essi acquistarono un’autorità sempre maggiore con la prepotenza e il terrore, fino a dar fuoco ai magazzini di Gerusalemme per costringere i ricchi a combattere contro Roma e a deporre un sommo sacerdote; cacciati da Gerusalemme dai loro concittadini a motivo dei disordini che causavano, riuscirono a impadronirsi nuovamente della città con l’aiuto degli Idumei, abbandonandosi poi ad atti di terrore. Uno dei loro capi, Menahem, figlio di Giuda di Gamala, nella rivolta del 66 pare che si sia arrogato carattere messianico e si sia presentato nel tempio per essere incoronato, ma fu ucciso dai rivali del suo stesso partito (vedi p. 40). Una parte degli zeloti si rifugiò a Masada dove poi si uccise (nel 73) piuttosto di arrendersi. L’ala di estrema sinistra di questo partito era costituita dai così detti sicari (dalla sica o pugnale che portavano sempre sotto i vestiti) o assassini, fanatici: i maggiori esponenti di costoro erano Menaḥem ben Jair, Eleazar ben Jair e Bar Ghiora che furono tra i suicidi di Masada. Ma additare in costoro una setta mistica, dedita essenzialmente alla penitenza, alla povertà, alla dolcezza come era la comunità di Qumrân è inverosimile. È vero che a Qumrân c’era una Regola della guerra, ma il tipo di guerra che qui si intendeva non era proprio quella degli zeloti; è vero pure che a Masada furono trovati frammenti di scritti noti anche a Qumrân, 39

ma ciò non prova affatto che i qumraniani fossero zeloti (sono così tanti i manoscritti scoperti a Qumrân che sarebbe ingenuo pensare fossero tutti di origine qumranica), bensì, come già si sapeva da Giuseppe Flavio che, se i Romani torturavano gli esseni (Guerra, II, 10), era per qualche motivo ben preciso: non perché erano ebrei né perché tutti pacifisti a oltranza!; agli ordini di Giuseppe Flavio vi era pure un generale detto «Giovanni l’esseno» morto in combattimento (Guerra, II, 4; III, 1-2). Lo stesso Y. Yadin che diresse gli scavi di Masada, assertore dell’ipotesi essena, non mutò idea allorché si trovò tra le mani quei frammenti. È molto probabile che nell’ultima fase della lotta contro Roma, molti che facevano parte di altri gruppi abbiano aderito alla rivolta fanatica degli zeloti; ma per confondere zeloti e qumraniani non vi sono sufficienti motivi; questi ultimi credevano probabilmente giunta l’ora prevista dalla Regola della guerra. Secondo il Roth, Qumrân fu sì fondata dagli esseni, ma dopo il 31 a. C., anno del terremoto, l’abbandonarono e non vi fecero più ritorno; nel 4-6 d. C. vi si insediarono invece gli zeloti e vi rimasero fino al 73 d. C.; il maestro di Giustizia è Menahem, figlio di Giuda (figlio del ribelle Ezechia ucciso da Erode il Grande), il capo degli zeloti ucciso a Gerusalemme nel 66; gli esseni non lasciarono traccia alcuna della loro permanenza e tutti i manoscritti trovati erano degli zeloti e furono scritti nel periodo di circa 70 anni, quanto durò la loro occupazione della regione; la Regola della comunità e gli Inni furono scritti nella prima metà del I secolo d. C.25. Circa alle stesse conclusioni giunse il grande semitista inglese G. R. Driver nel volume dedicato a questo problema. I manoscritti, afferma, si estendono, dal punto di vista cronologico, dalla metà del I sec. d. C. agli inizi del II sec. d. C.; il movimento al quale risalgono ebbe inizio allorché con Menelao e Alcimo fu interrotta la successione dei sommi sacerdoti discendenti da Sadoc (si osservi che, come si vedrà appresso, i qumraniani si dicono spesso «figli di Sadoc»), con la fuga in Egitto di Onia IV, figlio di Onia III, e l’erezione di un nuovo tempio nella città di On: di qui prende vita il partito dei sadociti in Egitto; ma alcuni sostenitori della discendenza sadocita rimasero in Palestina e allorché le circostanze li condussero a separarsi dai farisei (durante il periodo di G. Ircano I, 135-104 a. C.), si ritirarono a Qumrân ove eressero il «monastero» e vissero al riparo da persecuzioni: questi sono i sadociti della Palestina. Quando il potere dei Seleucidi e degli asmonei cadde sotto i Romani (nel 63 a. C.), Erode soppresse l’abusiva linea sacerdotale asmonea, ritornò dall’Egitto un sacerdote della linea di Sadoc, di nome Baeto, il cui figlio, Simone, fu eletto sommo sacerdote a Gerusalemme (24 a. C.), ed Erode 40

sposò Mariamne, probabilmente, figlia di Simone. Intorno a questo periodo si formò il partito della così detta «quarta filosofia» sotto l’impulso di Giuda figlio di Ezechia e di un laico suo amico di nome Saduc o Sadoc: in esso confluivano i boetusiani o sadociti ritornati dall’Egitto e i confederati («Covenanters» come li chiama il Driver) o sadociti di Palestina che si erano rifugiati a Qumrân. Si spiega così la denominazione di «figli di Sadoc» che si legge nei manoscritti; erano sadociti a triplice titolo: perché sostenevano i diritti dei discendenti di Sadoc; perché in essi erano confluiti tutti e due i gruppi che sostenevano tali diritti; e perché uno dei fondatori, un laico, era Sadoc. Giuda, capeggiate due rivoluzioni dopo la morte di Erode il Grande, fu preso e ucciso; i seguaci fuggirono a Qumrân (abbandonata nel 31 a. C.), riedificarono gli edifici e si prepararono alla lotta contro Roma; la guida fu presa da Menahem, terzogenito di Giuda. Allorché scoppiò la rivolta del 66 d. C., i qumraniani, sotto la guida di Menaḥem, occuparono Masada, si impadronirono delle armi del presidio romano e vennero a Gerusalemme ove Menaḥem volle assumere il comando della rivolta, ma fu preso e ucciso da Eleazaro (il «sacerdote empio»), figlio del sommo sacerdote: era il «maestro di giustizia». Eleazaro ben Jair, nipote di Menaḥem, riuscito a fuggire, diresse poi la guarnigione ebraica di Masada fino al suicidio del 73 d. C. I manoscritti di Qumrân si devono dunque agli zeloti, anzi proprio alla corrente più fanaticamente nazionalista e furono scritti nello stesso periodo approssimativamente assegnato agli scritti del Nuovo Testamento, e cioè: la Regola della comunità dopo il 46 d. C., il rotolo di rame tra il 66 e il 63 d. C., il Commento ad Abacuc tra il 70 e il 73, gli Inni tra il 73 e l’81, la Regola della guerra verso l’85, il Documento di Damasco verso il 106-115; e furono nascosti nelle grotte , probabilmente, dopo la seconda rivolta ebraica (132135 d. C.) a motivo della crescente difesa dell’ortodossia da parte dei rabbini, della standardizzazione del testo biblico, della eliminazione delle opere che violavano i canoni rabbinici, e della graduale diminuzione dei «confederati» ormai impotenti a difendersi26. Il Driver non intende evidentemente confondere questi sadociti con il noto partito dei saducei perciò, essendo in ebraico e aramaico i due nomi uguali, per non creare altre confusioni si parla di «sadociti» e di «saducei». Anche F. Michelini-Tocci, astenendosi da un giudizio definitivo in merito, sebbene sia piuttosto favorevole agli zeloti, si attiene alla denominazione dei qumraniani come «sadociti» 27, come aveva proposto, con scarso séguito, R. North28. Dopo la pubblicazione del Documento di Damasco (1910) alcuni studiosi rilevarono vari punti di contatto tra questo scritto e la setta dei farisei, e ne 41

sostennero l’origine farisaica29; è dunque abbastanza normale che gli scritti di Qumrân, fra i quali, tra l’altro, furono trovati frammenti dello stesso Documento, siano attribuiti ai farisei. I primi studi in questo senso sono dovuti a S. Lieberman, il quale però non giunse a identificare i qumraniani con i farisei accontentandosi di rilevarne i punti di contatto e di concludere che la comunità di Qumrân costituiva una ḥabûrāh («confraternita») di tipo farisaico. Lo studioso che approfondì e allargò lo studio dei punti d’incontro tra qumraniani e farisei e sostenne l’origine farisaica della comunità di Qumrân è C. Rabin, la cui tesi rappresenta anche una reazione all’opinione dell’origine essena: era senza dubbio alcuno più che opportuno che una persona di così indiscussa competenza tentasse anche questa via. La ḥabûrāh farisaica sorta nel I secolo a. C., pura espressione del farisaismo, fu progressivamente annacquata dal giudaismo rabbinico che, allo scopo di estendere a un numero sempre maggiore la possibilità di entrare a far parte della ḥabûrāh, largheggiò in concessioni per adattare la primitiva severa legislazione a un vasto reclutamento di nuovi aderenti; fu appunto questa tendenza largheggiante che a mano a mano creò un solco tra i seguaci delle norme e dello spirito della primitiva confraternita e i fautori delle concessioni e degli adattamenti che nel I secolo d. C. portò alla definitiva spaccatura del movimento farisaico. Da una parte i sostenitori dell’antica organizzazione e delle primitive norme di vita, cioè del farisaismo puro, originario, dall’altra il giudaismo rabbinico o farisaismo comune; ambedue rivendicavano la diretta connessione con l’antica e pura tradizione farisaica: il futuro fu del secondo e la sopravvivenza del primo fu di breve durata. I manoscritti di Qumrân sono, secondo il Rabin, la testimonianza di questa epoca di transizione e di resistenza, della lotta tra la più antica forma della confraternita farisaica e il vasto movimento che trasformò il farisaismo in giudaismo rabbinico. Ch. Rabin non si preoccupa di identificare le persone alle quali alludono i manoscritti e per la cronologia preferisce il I secolo d. C. come l’epoca più adatta per il conflitto e la scissione del movimento, e quindi per la datazione dei manoscritti. Le due maggiori difficoltà contro l’identificazione dei qumraniani con gli esseni sono, secondo Ch. Rabin, il non completo accordo tra quanto afferma Giuseppe Flavio a proposito del giuramento degli esseni e quello che si legge nella Regola della comunità e nel Documento di Damasco, e la constatazione, a suo giudizio, del riconoscimento, a Qumrân, della proprietà privata, ciò che è contrario al rigoroso comunismo degli esseni. 42

Le affinità tra farisei e qumraniani se anche non hanno convinto i qumranisti, hanno posto tuttavia in evidenza, e con successo, l’ampio raggio di convergenza tra farisaismo e manoscritti di Qumrân; e non è certo questo un piccolo merito dello studio di Ch. Rabin. Tra le numerose asseverazioni che si possono fare a questa sentenza è il non avere sufficientemente valutato il fatto che a Qumrân si seguiva il calendario solare, mentre quello ufficiale seguito dai farisei era lunare: per una setta religiosa è evidente che ci si trova di fronte a una differenza essenziale. Il Ginzberg, trattando del Documento di Damasco, additò nell’adozione del calendario solare una interpolazione tardiva, ma dopo le scoperte di Qumrân questa opinione è impossibile: a Qumrân questo calendario non solo era seguito e giudicato importante e unico autentico, ma la sua conoscenza era una delle grandi rivelazioni di cui i qumraniani si ritenevano depositari30. Che i manoscritti di Qumrân siano di origine cristiana, o meglio ebreocristiana, siano cioè opera di ebrei palestinesi convertiti al cristianesimo e rimasti in gran parte fedeli alla legge mosaica, è senza dubbio un’opinione seducente, particolarmente oggi che da più parti si nota un interesse nuovo, per questi cristiani, o per la «chiesa della circoncisione», in séguito alle scoperte archeologiche e agli studi di testi e documenti letterari. L’idea era già stata avanzata da G. Margoliouth, negli anni 1911-1912, a proposito del Documento di Damasco, ma fu ripresa e sostenuta con ragioni nuove e su di una base molto più ampia da J. L. Teicher in una lunga serie di articoli. I manoscritti risalgono grosso modo al periodo che va dal 70 d. C. al 303 anno in cui furono nascosti nelle grotte sotto la pressione della persecuzione di Diocleziano. Il «maestro di giustizia» è Gesù e il «sacerdote empio» è Paolo. Inizialmente il Teicher pensava alla setta degli ebioniti (‘ ebiônîm «poveri» è uno dei nomi che si davano i qumraniani), ma ora (da una corrispondenza privata) preferisce parlare semplicemente di cristiani del periodo post-apostolico; il testo più antico sarebbe il Commento ad Abacuc, risalente all’età apostolica. Il Teicher si rifiuta di accogliere le conclusioni degli scavi archeologici degli edifici di Qumrân e di ‘Ain Feshkha, della ricognizione delle grotte, dell’esame della ceramica, e le conclusioni della paleografia. Interessanti, a tal proposito, le parole: «Essi (quanti sono contrari alla sua interpretazione) sostengono che l’interpretazione cristiana deve essere respinta perché contraddetta dall’ «archeologia», quasi che non possa essere ugualmente vero il contrario: che l’«archeologia» non può essere vera perché contraddetta dall’interpretazione cristiana»31. Che tra i manoscritti e il cristianesimo vi siano molte affinità e 43

somiglianze e che la loro scoperta abbia posto problemi insospettati alla storia del cristianesimo primitivo, come d’altronde a quella dell’ebraismo, e abbia aperto un campo di ricerche fecondo, è un dato di fatto, ma la loro attribuzione ai cristiani non ha convinto alcun studioso32. Nel disorientamento che seguì alla scoperta dei manoscritti di Qumrân in forza di un innaturale cupio dissolvi si giunse anche a dichiarare che gli esseni dei quali parlano Giuseppe Flavio, Filone di Alessandria e Plinio non sono mai esistiti, sono un mito. Nell’agosto del 1954 J. L. Teicher al XXIII Congresso degli Orientalisti a Cambridge concludeva una sua comunicazione con queste parole: «uno studio delle fonti storiche sugli esseni da me iniziato e non ancora finito mi ha portato alla conclusione che la setta giudaica degli esseni, quale è descritta da Giuseppe Flavio, non è mai esistita. La descrizione che Giuseppe fa degli esseni è un quadro composito, i cui tratti fondamentali derivano dall’osservazione delle primitive comunità cristiane fatte da un estraneo. Di qui le innegabili somiglianze tra gli esseni, i primi cristiani e i rotoli del Mar Morto»33. Le «prove» definitive in questo importante assunto che pone fine per sempre all’inquietante problema degli esseni spettavano a H. E. Del Medico, secondo il quale le grotte di Qumrân erano delle ghenizôt o ripostigli per scritti fuori uso ed eretici, come traspare anche dai segni di bruciature; tra i manoscritti trovati ve ne sono di zeloti, farisei, saducei, ecc.; la regione di Qumrân è assolutamente inabitabile e nessuno vi ha mai dimorato; gli edifici e le cisterne erano in funzione del cimitero (negli edifici abitavano le persone addette al cimitero, le cisterne servivano per lavare i cadaveri e purificare sia gli addetti sia i visitatori) e servirono successivamente agli ebrei, ai pagani e ai cristiani, e furono questi ultimi che, per soddisfare la curiosità e alimentare la pietà dei pellegrini, aggiunsero qualche elemento atto a ricreare parzialmente un ambiente evangelico; così ad esempio l’officina del vasaio e il tesoro di monete nascosto. Ma il punto centrale della tesi di Del Medico è costituito dalla sua «dimostrazione» che gli esseni non sono mai esistiti, non sono che un mito, un parto della fantasia di Filone, della credulità di Plinio e della mancanza di fedeltà di certi copisti che interpolarono le opere di Giuseppe Flavio con le narrazioni che oggi vi leggiamo. Certo era opportuno rilevare alcune difficoltà a proposito dell’individuazione degli esseni come abitatori di Qumrân e autori di gran parte dei manoscritti, ma Del Medico ha trascurato spesso lo studio dei manoscritti, dei reperti archeologici abbandonandosi forse troppo ad una fantasia sbrigliata, tanto che gli studiosi si sono rifiutati di avallarne le 44

conclusioni34. Dalla pubblicazione del Documento di Damasco (nel 1910) in avanti non mancarono mai studiosi che pensassero alla setta degli esseni e nel 1934 J. Bonsirven scriveva: «Setta aberrante e scismatica, che richiama per certi tratti l’essenismo, tale ci appare la setta del “ nuovo patto di Damasco ” fattaci conoscere dal documento sadocita, scoperto e pubblicato nel 1910 da Schechter»35. Dovevano venire le scoperte di Qumrân per inquadrare interamente la questione. E di fatti, subito dopo le primissime scoperte, E. L. Sukenik pensò agli esseni, ma è ad André Dupont-Sommer, professore alla Sorbona e già ben noto agli studiosi nel campo degli studi semitici, che spetta il merito di avere compreso, sostenuto, approfondito e diffuso decisamente fin dall’inizio (nel 1949) l’identificazione degli esseni con i qumraniani, additando in essi gli autori di gran parte almeno dei manoscritti e gli abitatori della regione di Qumrân. E questa appunto è l’opinione oggi accolta non solo da tutti i membri dell’ équipe dei manoscritti e dell’archeologia di Qumrân, ma anche dalla stragrande maggioranza di tutti i qumranisti. La nostra conoscenza degli esseni era basata finora su alcuni testi del filosofo ebreo alessandrino Filone, dello storico ebreo Giuseppe Flavio e su di un testo di Plinio il Vecchio: data la loro grande importanza ne dò qui la traduzione integrale.

FILONE Filone (13 a. C. -45 d. C. circa), nell’opera Quod omnis probus sit liber, ove illustra il «paradosso» stoico che solo il saggio è libero, dopo avere esposto la teoria e affermato che i saggi, i virtuosi e i giusti esistono, sebbene il loro numero sia ridotto, passa ad illustrare le sue affermazioni con esempi tratti dalla Grecia, dalla Persia, dall’India e dalla Palestina. [75] Anche la Siria Palestina, ove si trova una parte importante della molto numerosa nazione degli Ebrei, non è sterile quanto all’eccellenza della virtù morale. Alcuni di essi, a quanto si dice, più di quattro mila, sono chiamati esseni (ἐσσαῖοι): sebbene strettamente parlando questo nome non sia greco, può essere avvicinato a «santità» (ὁσιóτης), giacché si sono votati specialmente al servizio di Dio, non sacrificando animali, ma risolvendosi a santificare i loro pensieri. [76] La prima cosa su costoro è che abitano in villaggi, fuggendo dalle città a motivo delle empietà che abitualmente in esse si commettono dagli abitanti, ben sapendo che la loro compagnia avrebbe un effetto deleterio sulle loro anime come una malattia portata da una atmosfera pestilenziale.

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Tra loro, alcuni lavorano la terra, altri esercitano mestieri diversi che cooperano alla pace rendendosi utili a se stessi e al loro prossimo. Non accumulano argento e oro, né si appropriano di vaste tenute con il desiderio di trarne vantaggi, ma semplicemente per procurarsi il fabbisogno essenziale per la vita. [77] Mentre in tutta l’umanità sono pressoché gli unici a vivere senza beni e senza possedimenti, per la libera elezione e non per un rovescio di fortuna, si giudicano straordinariamente ricchi, giacché ritengono che la frugalità con la gioia sia, come in realtà è, un sovrabbondante benessere. [78] Tra di loro invano si cercherebbe un fabbricante di frecce, di giavellotti, di spade, di elmi, di corazze, di scudi, di armi, di macchine militari o di un qualsiasi strumento di guerra o di oggetti pacifici che potrebbero essere usati per fare del male. Neppure in sogno hanno la ben che minima idea del commercio grande o piccolo o della navigazione: respingono, infatti, quanto potrebbe eccitare in loro la cupidità. [79] Fra di loro non v’è neppure uno schiavo: tutti sono liberi e si aiutano l’un l’altro. Non solo condannano i padroni come ingiusti in quanto ledono l’uguaglianza, ma anche come empi poiché violano la legge naturale che ha generato e nutrito tutti gli uomini allo stesso modo, come una madre, facendone veramente dei fratelli, non di nome, ma in realtà. Questa parentela fu lesa dall’astuta cupidità che le ha inferto dei colpi mortali, installando l’inimicizia in luogo dell’affinità, l’odio in luogo dell’amore. [80] A proposito della filosofia, essi lasciano anzi tutto la logica ai giocolieri di parole, dato che è inutile per l’acquisizione della virtù, la fisica ai visionari ciarlatani, dato che supera le capacità dell’umana natura, salvo però quanto essa insegna sulla essenza divina e sulla natura dell’universo; studiano invece con grande ingegno l’etica servendosi costantemente delle leggi dei loro padri, che l’anima umana non avrebbe potuto concepire senza la divina ispirazione. [81] In queste leggi si istruiscono in ogni tempo, ma soprattutto nel settimo giorno. Il settimo giorno è, infatti, giudicato sacro e in esso si astengono da tutte le altre occupazioni per radunarsi in luoghi sacri che chiamano sinagoghe. Quivi, sistemati in file secondo l’età, i giovani sotto gli anziani, si siedono in modo conveniente con le orecchie pronte ad ascoltare. [82] Uno di loro prende poi i libri e legge a voce alta, mentre un altro, tra i più istruiti, si fa avanti e spiega ciò che non è di facile comprensione. Generalmente, tra loro l’insegnamento è impartito per mezzo di simboli (διὰ σνμβóλων) secondo un’antica tradizione. [83] Imparano la pietà, la santità, la giustizia, le virtù domestiche e le civiche, la conoscenza di ciò che è veramente bene o male o indifferente, la scelta di ciò che si deve fare e di ciò che si deve evitare. In questo si servono di queste tre norme basilari: l’amore di Dio, l’amore della virtù, l’amore degli uomini. [84] Il loro amore verso Dio è dimostrato da una quantità di prove: dalla purezza costante e durevole per tutta l’esistenza, dall’astensione dai giuramenti, dal rifiuto della menzogna, dal pensiero che la divinità è la causa di ogni bene, ma non del

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male. Il loro amore verso la virtù è dimostrato dal disprezzo delle ricchezze, dal disprezzo della gloria, dal disprezzo dei piaceri, dalla continenza, dalla frugalità, dalla semplicità, dalla gioia, dalla modestia, dall’obbedienza alla regola, dall’equilibrio del carattere e da tutte le virtù di questo genere. Il loro amore verso gli uomini è dimostrato dalla benevolenza, dall’uguaglianza, dalla vita comunitaria; è questa superiore a ogni elogio, e non è fuori posto parlarne qui brevemente. [85] Prima di tutto non v’è alcuna casa che sia proprietà di una persona: ogni casa è di tutti. Giacché oltre al fatto che abitano insieme in confraternite, la loro casa è aperta a tutti i visitatori, da qualsiasi parte giungano, che condividono le loro convinzioni. [86] In secondo luogo, hanno un’unica cassa per tutti e le spese sono comuni: in comune sono i vestiti, in comune è preso il vitto, avendo essi adottato l’uso dei pasti in comune. Una maggiore realizzazione dello stesso tetto, dello stesso genere di vita e della stessa mensa invano la si cercherebbe altrove. Giacché tutto ciò che ricevono come salario giornaliero del lavoro non lo conservano in proprio, ma lo depongono nel fondo comune, affinché sia impiegato a beneficio di tutti quanti desiderano servirsene. [87] Non sono trascurati i malati per il fatto che non possono più produrre nulla. Infatti, quanto occorre per curarli è a loro disposizione grazie ai fondi comuni e non temono di fare larghe spese attingendo a ricchezze sicure. I vecchi sono circondati di rispetto e cure come genitori assistiti nella loro vecchiaia da veri figli con larghezza generosa, aiutandoli con innumerevoli mani e circondandoli di premurosa attenzione. [88] Questi sono gli atleti prodotti da questa filosofia che ignora le finezze dell’eloquenza greca, ma che propone quali esercizi ginnici il compimento di azioni encomiabili grazie alle quali si raggiunge un’assoluta libertà. [89] Eccone una prova. In diverse occasioni si elevarono su questo paese numerosi sovrani, diversi di carattere e di tendenze. Gli uni rivaleggiarono per la crudeltà con le bestie più feroci, non risparmiando alcun genere di atrocità, immolando come un gregge i loro sudditi e tagliandoli a pezzi e smembrandoli, ancora vivi, come se fossero dei macellai, né cessarono fino a quando la giustizia, che veglia sui destini umani, non fece subire loro gli stessi flagelli; [90] altri evitarono l’eccitazione e la rabbia con un altro genere di malignità, colmi da una indicibile crudeltà, parlavano sereni velando con l’ipocrisia di parole dolci un’anima profondamente odiosa, carezzevoli come cani dai denti avvelenati, furono autori di mali incurabili, lasciarono di città in città i disastri indimenticabili di quanti dovettero soffrire, quali monumenti della loro empietà e del loro odio per gli uomini. [91] Ma nessuno di costoro anche i più crudeli, i più astuti e i più falsi riuscì ad addurre accuse contro la società detta degli esseni, o dei santi. Al contrario, tutti furono convinti della virtù di questi uomini e li trattarono come persone indipendenti e libere per natura, celebrando i loro pasti in comune e la loro vita comunitaria superiore a ogni elogio, chiara dimostrazione di un’esistenza perfetta e

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di una vita supremamente facile36.

Dall’ ’Apologia degli Ebrei, opera di Filone andata perduta, Eusebio di Cesarea stralciò questo secondo testo sugli esseni. [1] Il nostro legislatore incitò una moltitudine di discepoli a vivere in comune; costoro sono detti esseni (ἐσσαῖοι), e hanno meritato questo titolo, a quanto penso, a motivo della loro santità. Abitano in varie città della Giudea, in un certo numero di borgate e in raggruppamenti di molti membri. [2] La loro vocazione non è basata sulla nascita, la nascita non è infatti un segno di associazioni volontarie, ma sul loro zelo per la virtù e sul desiderio di promuovere l’amore fraterno. [3] Tra gli esseni dunque non vi sono fanciulli, né adolescenti, né giovani, poiché il carattere di questa età è incostante e portato verso le novità a motivo della mancanza di maturità. Ci sono invece uomini maturi, già sulla china della vecchiaia, non più dominati dai cambiamenti del corpo né trascinati dalle passioni, in pieno possesso invece della vera e unica reale libertà. [4] La loro vita testimonia questa libertà. Nessuno sopporta di possedere qualcosa in proprietà privata, né casa, né schiavo, né campo, né gregge, né alcuna cosa che alimenti e procuri la ricchezza; mettono ogni cosa insieme nel tesoro comune, e usufruiscono in comune delle risorse di tutti. [5] Abitano in uno stesso luogo in confraternite, avendo adottato la forma associativa e l’uso dei pasti in comune, e svolgono ogni loro attività nel lavoro a utilità di tutti. [6] Ognuno tuttavia svolge un’attività diversa, alla quale si dedica con zelo, come un atleta, senza mai protestare né per il caldo né per il freddo né per altre mutazioni atmosferiche. Sono dediti ai loro compiti abituali dal sorgere del sole e non li abbandonano che al tramonto, e vi si applicano con una gioia non minore di quanti si esercitano nelle competizioni ginniche. [7] Ritengono, infatti, che gli esercizi ai quali si dedicano siano più utili alla vita, più giovevoli al corpo e all’anima, e più durevoli di quelli degli atleti, tenuto conto del fatto che questi possono seguitare anche quando il corpo non è più nel suo primo vigore. [8] Tra di loro vi sono agricoltori versati nell’arte di seminare e di lavorare la terra, pastori che guardano ogni specie di greggi, né mancano gli apicoltori. [9] Altri sono artigiani in diversi mestieri, sicché non hanno da soffrire della mancanza delle cose indispensabili ai bisogni essenziali e non indietreggiano davanti ad alcun mezzo che può procurare loro innocentemente delle risorse. [10] Ognuno di loro allorché riceve il salario per tutte queste attività, lo rimette a un’unica persona, all’intendente eletto da loro. Ricevuti i fondi, costui compra il necessario e distribuisce largamente il cibo e tutte le altre cose di cui abbisogna la

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vita umana. [11] Quotidianamente condividono lo stesso genere di vita e la stessa mensa: hanno gli stessi gusti, visto, che tutti sono frugali e aborriscono il lusso come una peste dell’anima e del corpo. [12] Presso di loro, è comune non solo la mensa, ma anche il vestiario. Hanno a disposizione mantelli spessi per l’inverno e tuniche di poco prezzo per l’estate, e a ciascuno è concesso e facile prendere il vestito che desidera, dato che ciò che appartiene a ognuno è di tutti e ciò che è di tutti appartiene a ciascuno. [13] Se qualcuno di loro si ammala è curato a spese della comunità, circondato di cure e di attenzioni da parte di tutti. I vecchi poi, anche se non hanno figli, sono come padri di molti figli, e figli molto buoni: generalmente lasciano la vita in una felice e bella vecchiaia, onorati dai privilegi e dai riguardi di tanti figli, che sono decisi a curarli mossi da una volontà spontanea più che da una naturale necessità. [14] D’altra parte avendo previsto con perspicacia quale ostacolo avrebbe creato sia al singolo che, in modo assai più grave, alla vita comunitaria, hanno eliminato il matrimonio e hanno deliberato di praticare una continenza perfetta. Nessun esseno perciò prende moglie, giacché la donna è egoista, eccessivamente gelosa, astuta nel tendere inganni ai costumi di suo marito e a sedurlo con continui sortilegi. [15] La donna pone ogni cura a servirsi di parole ingannevoli e di maschere, come gli attori che si trovano sulla scena; quando poi ha fascinato gli occhi e cattivato le orecchie, e cioè ingannato i sensi come si usa con i subalterni, fa smarrire anche l’intelligenza sovrana. [16] Qualora poi nascano dei figli, gonfia d’orgoglio e di sfrontatezza, con audace arroganza e senza ritegno si serve della violenza per compiere atti ognuno dei quali è contrario al bene della vita comunitaria, manifestando così ciò che prima si accontentava di insinuare in modo ipocrito e allusivo. [17] Il marito, incatenato dai filtri di sua moglie o, per una naturale necessità, molto preoccupato dei suoi figli, non è più la stessa persona per gli altri e inconsciamente diventa un altro uomo, uno schiavo in luogo di un uomo libero. [18] E invero la vita degli esseni è così altamente stimata che non solo le persone comuni, ma anche i re sono pieni di ammirazione davanti a questi uomini e si compiaciono di rendere omaggio al loro venerabile carattere colmandoli di favori e di onori.

GIUSEPPE FLAVIO Giuseppe Flavio (37-38 d. C. - verso la fine del I secolo d. C.) parla degli esseni soprattutto nelle due opere Guerra giudaica e Antichità giudaiche. Nella Guerra giudaica37, scritta tra il 75 e il 79, trattando delle sette giudaiche, così parla degli esseni che presenta prima dei farisei e dei saducei 49

(II, 119-161): [119] Presso gli ebrei la filosofia è coltivata sotto tre forme: i seguaci della prima forma sono detti farisei, quelli della seconda saducei, e quelli della terza esseni. Gli esseni in particolare hanno fama di praticare la santità. Ebrei di nascita, sono più degli altri legati da mutuo affetto. [120] Costoro respingono i piaceri come un male, mentre guardano come virtù la temperanza e il non cedere alle passioni. Per se stessi disdegnano il matrimonio, ma adottano i figli altrui, mentre sono ancora arrendevoli ai loro ammaestramenti: li considerano come parenti e li modellano secondo i loro costumi. [121] Essi però non aboliscono il matrimonio e la propagazione della specie che ne deriva, ma si guardano dalle donne lascive e sono persuasi che nessuna serbi fedeltà a un solo uomo. [122] Dispregiatori della ricchezza, presso di loro è ammirevole la vita comunitaria: invano si cercherebbe tra di loro qualcuno che possegga più degli altri. C’è infatti una legge che quelli che entrano nella setta cedano il patrimonio alla corporazione, cosicché in tutti loro non appare né l’umiliazione della miseria né l’alterigia della ricchezza, bensì, essendo fusi insieme gli averi di ciascuno, hanno tutti, come fratelli, un solo patrimonio. [123] Considerano l’olio come una sozzura, e se alcuno involontariamente ne è rimasto unto, ne deterge il corpo: essi, infatti, si fanno un dovere di avere la pelle secca e di vestire sempre di bianco. Gli amministratori dei beni comuni vengono eletti, e i singoli vengono designati da tutti alle varie incombenze. [124] Essi non abitano in una sola città, ma in varie città prendono domicilio in molti. Ai membri della setta che giungono da fuori, concedono libero uso di tutte le cose loro come se fossero proprie di coloro i quali entrano in casa di quelli che in precedenza non hanno mai visti come in casa di persone familiarissime. [125] Perciò anche quando compiono viaggi non portano con sé assolutamente nulla, sono però armati a motivo dei briganti. Del resto in ogni città viene designato espressamente un commissario della corporazione per gli ospiti e provvede ai vestiti e ai viveri. [126] Quanto al vestire e all’aspetto della persona essi rassomigliano a giovani educati sotto rigorosa disciplina: non cambiano né indumenti né sandali, se prima non sono del tutto lacerati e consumati dal tempo. [127] Fra di loro non comprano né vendono alcunché, bensì ciascuno cede il suo a chi ne ha bisogno, e ne riporta in cambio qualcosa che gli serve; del resto anche senza contraccambio possono ricevere liberamente da chiunque vogliano. [128] La loro pietà verso la Divinità ha una forma particolare: prima del sorgere del sole non proferiscono alcunché di profano, ma recitano certe preghiere verso di esso, quasi a supplicarlo di spuntare38.

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[129] Dopo di ciò ognuno è invitato dai sovrintendenti al mestiere che sa. Dopo avere lavorato energicamente fino all’ora quinta, si radunano nuovamente in un solo posto, e cintisi di un indumento di lino si lavano il corpo con acqua fredda. Dopo questa purificazione, vanno insieme in un edificio particolare dove a nessuno d’altra fede è concesso d’entrare: loro stessi non entrano nel refettorio che dopo essersi purificati, come in un recinto sacro. [130] Dopo che, in silenzio, si sono seduti, il panettiere serve i pani per ordine, e il cuciniere serve a ciascuno una sola scodella con una sola vivanda. [131] Il sacerdote premette al pasto una preghiera, e nessuno può gustare alcunché prima della preghiera; dopo che hanno mangiato egli aggiunge una nuova preghiera; cosicché sia al principio che alla fine venerano Dio come dispensatore della vita. Dopo, deposte le vesti indossate per il pasto, dato che esse sono sacre, tornano nuovamente ai lavori fino alla sera. [132] Allora ritornano e cenano nella stessa maniera in compagnia degli ospiti, se per caso ve ne sono di passaggio tra loro. Né clamore né tumulto contamina la casa: per parlare si cedono la parola, gli uni agli altri, ordinatamente. [133] A quelli che sono fuori il silenzio di quelli che sono dentro appare come uno spaventoso mistero, mentre è motivato dalla loro continua sobrietà e dal fatto che il cibo e la bevanda sono loro misurati in modo che siano soddisfatti, ma non più. [134] Quanto alle altre cose non v’è nulla che essi facciano senza il comando dei sovrintendenti; tuttavia ve ne sono due lasciate al loro arbitrio: l’assistenza e la compassione. È lecito, infatti, prestare aiuto secondo il parere di ciascuno a coloro che ne sono degni, quando siano in necessità, e fornire alimenti ai bisognosi; ma non è lecito fare donativi ai parenti senza l’autorizzazione dei direttori. [135] Sono equi dispensatori dell’ira, moderatori delle passioni, patroni della fedeltà, promotori della pace. Ogni loro detto ha più forza di un giuramento; ma s’astengono dal giurare considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non è creduto se non prende Dio a testimone. [136] Hanno una cura straordinaria degli scritti degli antichi, scegliendo specialmente quelli che riguardano il profitto dell’anima e del corpo. E qui studiano come guarire le malattie, le radici che preservano da esse e le proprietà delle pietre. [137] Coloro che desiderano entrare nella loro setta non ne ottengono l’accesso immediato. Al postulante impongono per un anno la stessa norma di vita, benché ne rimanga fuori: gli consegnano una piccola scure, la cintura sopra menzionata, e una veste bianca. [138] Dopoché egli in questo tempo avrà dato prova di temperanza, s’inoltra più addentro nella norma di vita ed è fatto partecipe di acque di purificazione ancora più pure, ma non è ancora accolto nella vita comune. E infatti, dopo la dimostrazione di costanza, per altri due anni se ne mette a prova il carattere; e

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allora se appare degno è accolto nella società. [139] Tuttavia, prima che possa toccare il cibo comune, deve pronunciare davanti ai suoi fratelli giuramenti terribili: in primo luogo di essere pio verso la Divinità, poi di osservare la giustizia verso gli uomini, e di non recare danno ad alcuno né spontaneamente né per un ordine, di odiare sempre gli ingiusti e di venire in aiuto dei giusti, [140] di mantenere sempre fedeltà verso tutti, e specialmente verso coloro che sono investiti di potere, giacché l’autorità non si posa mai su di uno senza il volere di Dio, di non insolentire nel potere, qualora egli stesso giunga a comandare, né di distinguersi pomposamente dai sudditi per il vestito o per altri speciali ornamenti, [141] di amare sempre la verità e di confondere i menzogneri, di custodire le mani dal furto e l’anima dal guadagno empio, di non nascondere nulla a quelli della setta, e di non rivelare alcunché di loro a estranei quand’anche venga torturato fino alla morte. [142] Oltre a questi, presta il giuramento di non trasmettere ad alcuno dottrine della setta diverse da quelle che egli stesso ha ricevuto, di astenersi dal brigantaggio39, di custodire ugualmente sia i libri della setta che i nomi degli angeli. Con siffatti giuramenti si assicurano la fedeltà di coloro che entrano. [143] Quelli che sono colti in mancanze gravi sono espulsi dalla corporazione: e lo scacciato spesso termina i suoi giorni con una sorte miserabile. Astretto, infatti, dai giuramenti e dalle abitudini, non può neppure prendere parte al vitto degli altri: ridotto a mangiare erbe, consuma il suo corpo con la fame, e finisce col morire. [144] Perciò, mossi da compassione, al loro ultimo sospiro, hanno riammesso molti, giudicando sufficiente per le loro mancanze questa tortura che li aveva condotti fin presso la morte. [145] Nelle questioni giudiziarie sono accuratissimi e giusti. Giudicano in riunioni ove non sono meno di cento, e la loro sentenza è irrevocabile. Dopo Dio, hanno in grande venerazione il nome del legislatore, e se alcuno lo bestemmia ne è punito di morte. [146] Si fanno un dovere di obbedire agli anziani e alla maggioranza: così ad esempio in un consesso di dieci, uno non parla se nove non lo vogliono. [147] Si guardano anche dallo sputare in mezzo ad altri o alla parte destra, come pure, più rigorosamente di tutti gli ebrei, si guardano dal mettere mano a lavori nel settimo giorno: non solo, infatti, si preparano il cibo il giorno avanti per non accendere il fuoco in quel giorno, ma neppure ardiscono rimuovere un utensile né andare alla latrina. [148] Negli altri giorni essi scavano una buca, profonda un piede, con la zappetta (di tale forma è, infatti, la piccola scure consegnata da loro ai nuovi aggregati), e fatto un riparo attorno col mantello per non offendere i raggi di Dio, si reggono su di essa; [149] quindi rimettono nella fossa la terra scavata. Essi fanno ciò, scegliendo i posti più solitari. Sebbene questa espulsione delle corporali immondezze sia

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naturale, è loro norma lavarsi dopo di essa come se ne fossero rimasti contaminati. [150] Si dividono in quattro classi, a seconda del tempo trascorso sotto la disciplina, e i più recenti sono talmente inferiori a quelli che sono più anziani che questi se toccati da quelli si lavano come se fossero venuti a contatto con un alienigena. [151] Sono anche longevi, tanto che i più di essi oltrepassano i cento anni, a motivo della semplicità del genere di vita, a quanto mi sembra, e della regolarità. Disprezzano i pericoli. Superano i dolori con la riflessione. Quando giunge con gloria, giudicano la morte come migliore della conservazione della vita. [152] I loro spiriti, del resto, furono sottoposti a ogni genere di prove dalla guerra contro i Romani, nella quale furono stirati e contorti, bruciati e fratturati, fatti passare sotto ogni strumento di tortura, affinché bestemmiassero il legislatore oppure mangiassero alcunché di illecito, ma rifiutarono ambedue le cose: neppure adularono mai i loro tormentatori né mai piansero. [153] Sorridendo, anzi, tra gli spasimi e trattando ironicamente coloro che eseguivano le torture, rendevano serenamente lo spirito come persone che stiano per riceverlo nuovamente. [154] Infatti, è ben salda fra loro l’opinione che i corpi sono corruttibili e instabile la loro materia, mentre le anime permangono per sempre. Venute dall’etere più sottile, restano implicate nei corpi come dentro carceri, attratte da un certo incantesimo naturale; [155] ma quando sono liberate dai vincoli della carne, come affrancate da una lunga schiavitù, gioiscono e s’innalzano verso il mondo celeste. A quelle buone, essi sostengono d’accordo con i figli dei Greci, è riservato un soggiorno di là dall’oceano, un posto che non è molestato né da piogge né da nevi né da ardori, bensì lo refrigera lo zefiro che spira sempre dolce dall’oceano. A quelle malvagie, invece, essi assegnano una caverna buia e tempestosa, ricolma d’incessanti supplizi. [156] Sembra, pertanto, che secondo lo stesso concetto i Greci abbiano assegnato le isole dei beati ai loro prodi, ch’essi chiamano eroi o semidei, e invece alle anime dei malvagi il posto degli empi giù nell’Ade, dove anche secondo la loro mitologia sono puniti taluni, i Sisifi, i Tantali, gli Issioni e i Tityi. Con ciò essi affermano in primo luogo che le anime sono eterne, e oltre a ciò invitano alla virtù e distolgono dal vizio. [157] I buoni, infatti, diventano migliori durante la vita con la speranza d’un premio anche dopo la morte, e gli eccessi dei malvagi sono raffrenati dalla paura, aspettandosi essi, quand’anche rimangono occulti in vita, di sottostare dopo la morte a una punizione senza fine. [158] Queste sono le idee teologiche degli esseni riguardo all’anima, le quali costituiscono un’esca irresistibile per coloro che hanno gustato una volta la loro sapienza. [159] Vi sono poi tra di loro di quelli che asseriscono di prevedere il futuro, esercitandosi fin dalla fanciullezza nello studio dei libri sacri, degli scritti sacri40 e

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delle sentenze dei profeti: ed è raro che le loro predizioni falliscano. [160] Esiste pure un altro gruppo di esseni che per genere di vita, per costumanze e per legislazione s’accordano con gli altri, ma ne dissentono sulla questione del matrimonio. Ritengono, infatti, che coloro che non si sposano amputino una parte importantissima della vita, e cioè la propagazione della specie, tanto che se tutti adottassero la stessa opinione ben presto scomparirebbe il genere umano. [161] Tuttavia sperimentano le loro donne per un trimestre41 e dopo che hanno superato una triplice purgazione, dando prova che possono partorire, allora le sposano. Quando sono incinte, non hanno più rapporti con esse, dimostrando così che non si sposano per il piacere, ma perché sono necessari i figli. Le donne prendono il bagno con una veste addosso, mentre gli uomini indossano un perizoma. Tali sono le costumanze di questo gruppo.

Nelle Antichità giudaiche, XVIII, 18-22 scritte negli anni 93-94 Giuseppe Flavio offre ancora notizie sugli esseni, ma molto brevemente e sempre trattando delle tre classiche correnti di pensiero o di vita del popolo ebraico, farisei, saducei, esseni; parla qui anche di quella che chiama «un’intrusa quarta scuola filosofica» introdotta da Giuda e da Sadoc. L’autore inizia, affermando: Gli Ebrei, dai tempi più antichi, hanno tre filosofie radicate nelle loro tradizioni, e cioè, quella degli esseni, quella dei saducei e la terza del gruppo detto dei farisei. Certo, ho parlato di esse nel secondo libro della Guerra giudaica, ma ne tratterò brevemente anche qui (XIII, II).

Dopo avere parlato dei farisei e dei saducei, prosegue: [18] Gli esseni insegnano di preferenza a rimettere ogni cosa nelle mani di Dio. Essi giudicano le anime immortali e credono di dovere lottare per avvicinarsi42 alla giustizia. [19] Mandano offerte al tempio, ma compiono i loro sacrifici secondo un diverso rituale di purificazione. Perciò sono esclusi da quei recinti del tempio frequentati da tutta l’altra gente ed eseguono i loro sacrifici tra di loro43. Per altro sono uomini eccellenti, dediti interamente ai lavori dell’agricoltura. [20] Paragonati a tutti gli altri seguaci della virtù, in loro bisogna ammirare la pratica di una giustizia che non è mai esistita presso alcun Greco o barbaro, neppure per breve tempo, mentre presso di loro si trova dai tempi più remoti senza alcuna interruzione. Mettono i loro beni in comune e il ricco non gode della sua fortuna più di colui che non possiede assolutamente nulla. Gli uomini che si comportano così sono più

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di quattro mila. [21] Essi né prendono moglie44 né posseggono schiavi: ritengono, infatti, che ciò costituirebbe un’ingiustizia e sarebbe fonte di discordia. Vivono dunque tra di loro e compiono i servizi l’un l’altro. [22] Per accogliere i proventi e i diversi prodotti del suolo, eleggono uomini virtuosi, e sacerdoti per preparare il pane e gli alimenti. Il loro modo di vivere non differisce in nulla, è anzi il più possibile conforme a quello dei saducei detti «i molti»45.

Altri passi nei quali Giuseppe Flavio parla degli esseni, sono: Guerra, I, 78-80; 113; 117-161; 567; II, 113; 567; III, 11-21; V, 145; Antichità, XIII, 171173; 298; 311-313; XV, 371-379; XVII, 344-348; XVIII, 1-2; 5; Vita, 7-12; 322323. Giuseppe Flavio concorda dunque sostanzialmente con Filone, ma offre maggiori particolari: ci informa ad esempio sul procedimento dell’ammissione nella comunità, sulle purificazioni, sul vestito, sull’olio, sull’osservanza del sabato, sulle preghiere al sorgere del sole, sulle predizioni del futuro, sulle divergenze a proposito del matrimonio ed è assai più preciso sia quanto alla vita sia quanto alle dottrine degli esseni. Nella valutazione di queste due fondamentali testimonianze occorre tenere presenti alcuni aspetti essenziali. Sia Filone sia Giuseppe scrivono per i non ebrei, cioè per i pagani e coltivano nettamente tendenze apologetiche, magnificando da una parte l’ideale umano e religioso degli esseni, e dall’altra sottaciono, per quanto possibile, ogni aspetto troppo giudaico e particolaristico; rilevano invece con compiacenza quei tratti che li possono avvicinare agli ideali dei migliori rappresentanti del mondo ellenista. In particolare, Filone è filosofo, attinge il suo vocabolario dalle scuole alessandrine del tempo, ha un suo proprio ideale umano ed ebraico che evidentemente l’ispira nella descrizione degli esseni, soprattutto nei suoi commenti, nelle digressioni e nelle amplificazioni oratorie.

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L’area delle grotte di Qumrān.

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Anche Giuseppe trasfonde spontaneamente una parte di sé e della cultura ellenista nella sua relazione. Così quando avvicina gli esseni ai pitagorici (ad esempio, Antichità, XV, 371), quando parla della misogenia e dell’infedeltà delle donne, nella descrizione dell’al di là, e nell’attenzione costante di attenersi al vocabolario corrente tra i dotti. Non è facile sostenere che Filone sia un teste oculare. Per quanto si sa, il libro Quod omnis probus liber sit è un’opera giovanile ed egli non aveva ancora compiuto il suo breve soggiorno in Palestina; è probabile che abbia avuto delle fonti scritte, ma è più verosimile che abbia seguito delle testimonianze orali; in via generale non è prudente preferirlo ad altre fonti allorché ne differisce, ed è indispensabile prescindere dai suoi commenti almeno per quanto è possibile. Il Daniélou non esclude neppure un influsso cristiano46. Una eventuale dipendenza di Giuseppe da Filone è da escludere, come prova anche un semplice accostamento tra le loro testimonianze; e con un sano ed equilibrato metodo critico si possono certo valorizzare le sue parole per spiegare molti passi degli scritti di Qumrân e valorizzarne altri.

PLINIO IL VECCHIO Importantissima è la testimonianza di Plinio il Vecchio morto nel 79 d. C. Il passo che ci interessa fa parte di una descrizione della depressione giordanica, meglio, del Giordano che scende «tortuoso» e di «mala voglia» (invitus) verso il Mar Morto e perciò, appena la configurazione del terreno glielo permette, si arresta in un lago. Dopo avere accennato alla fonte termale di Calliroe, che è all’incirca di fronte a Qumrân, sulla sponda orientale del Mar Morto, prosegue: A occidente gli esseni si tengono lungi dalle rive per quanto sono nocive. È un popolo unico nel suo genere e ammirevole nel mondo intero più di tutti gli altri: non ha donne, ha rinunziato interamente all’amore, è senza denaro, amico delle palme. Di giorno in giorno rinasce in ugual numero, grazie alla folla dei nuovi venuti. Affluiscono, infatti, in gran numero coloro che stanchi delle vicissitudini della fortuna, la vita indirizza all’adozione dei loro costumi. E così, per migliaia di secoli, incredibile a dirsi, vi è un popolo eterno e nel quale nessuno nasce: talmente è fecondo per essi il pentimento che hanno gli altri della vita passata! Al di sotto47 di essi vi era la città di Engaddi che per fertilità e palmizi non era seconda a Gerusalemme48, e oggi è un secondo cumulo di macerie. Più oltre vi è la fortezza di Masada, posta su di una rupe, anch’essa non lungi dal Mar Morto49.

Queste sono le testimonianze fondamentali a noi giunte sugli esseni. Le 57

principali fonti secondarie sono quelle del grammatico Solino, di Dione Crisostomo, di Porfirio, di Eusebio di Cesarea, di Egesippo, di Epifanio, di Ippolito, un testo di Isidoro di Siviglia e uno di Filastro (330-390 circa): quest’ultimo afferma che gli esseni non riconoscono Gesù Cristo e «aspettano un uomo profeta e giusto»50.

IPPOLITO ROMANO Una menzione particolare spetta ancora a Ippolito romano che qui dipende da Giuseppe Flavio, ma contiene pure alcune particolarità interessanti. Ecco le principali51. L’espressione finale della Guerra, II, 139 suona in Ippolito: non odiare alcuno, sia egli ingiusto o nemico, ma di pregare per essi e di combattere insieme ai giusti (Refutatio, IX, 23).

Il paragrafo 150 è assai diverso e molto interessante per la connessione tra esseni e zeloti. Sono divisi fin dalla antichità e non seguono le pratiche nella stessa maniera essendo ripartiti in quattro categorie. Alcuni spingono le regole fino all’estremo: si rifiutano di prendere in mano una moneta asserendo che non è lecito portare, guardare e fabbricare alcuna effige; nessuno di costoro osa perciò entrare in una città per tema di attraversare una porta sormontata da statue, essendo sacrilego passare sotto le statue. Altri udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si lascia circoncidere; qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è appunto da questo che hanno preso il nome di zeloti, e da altri quello di sicari. Altri ancora si rifiutano di dare il nome di padrone a qualsiasi persona, eccetto che a Dio solo, anche se fossero minacciati di maltrattamenti e di morte. Quelli che sono venuti più tardi sono talmente inferiori, per le pratiche, che quelli che seguono le antiche usanze non li toccano neppure; e se accade loro di toccarli, si lavano subito come se fossero venuti a contatto di qualcosa di estraneo (Refutatio, IX, 26).

La preoccupazione di rilevare le somiglianze con lo spiritualismo greco e in particolare con i pitagorici è, forse, ancora più palese che in Giuseppe Flavio nei paragrafi 154-158 come appare dal testo parallelo. Presso di loro è saldamente stabilita la dottrina della risurrezione. Affermano che la carne risusciterà e sarà immortale, come è immortale l’anima; questa dopo la

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morte va a riposarsi in un luogo gradevole, ventilato e luminoso; è il luogo del quale avevano sentito parlare i Greci e chiamarono Isole dei beati. Ma vi sono ancora dottrine degli esseni che i Greci presero e fecero proprie. Infatti, le pratiche essene riguardo la Divinità sono più antiche di quelle di tutte le nazioni; il che dimostra come tutti coloro che parlarono di Dio o della creazione non ebbero insegnamenti da altra fonte all’infuori della Legge ebraica. Tra loro v’è soprattutto Pitagora e gli stoici d’Egitto che si posero a scuola degli esseni. Questi affermano ancora che vi sarà un giudizio e una conflagrazione dell’universo, e che gli ingiusti saranno puniti per sempre (Refutatio, IX, 27).

SOLINO Un nuovo testo sugli esseni fu studiato e posto in evidenza da C. Burchard52. Nel bel mezzo di un passo derivante certamente da Plinio si inserisce una notizia che non ha alcun riscontro in altri scrittori e se ne ignora quindi la fonte; ma da quanto è detto si ha una nuova prova che l’esistenza di Qumrân non era sfuggita ai contemporanei e che a proposito di questo luogo circolavano racconti favolosi che, come possiamo oggi constatare dai manoscritti scoperti, hanno un reale fondamento nella vita e credenze essene. Prendendo anche le due espressioni che lo inquadrano e che derivano da Plinio, il testo del Solino (il passo non è riportato dall’Adam nell’opera dedicata alle citazioni sugli esseni, accontentandosi d’un semplice rinvio) dice53: Quivi nessuno nasce eppure non vien meno la moltitudine degli uomini. Il luogo stesso è soggetto a purità: benché vi accorrano molte genti vicine, nessuno tuttavia vi è ammesso se non è accompagnato dalla certezza della castità e dal merito dell’innocenza: infatti, colui che è reo anche di una lieve colpa, per quanto si industri di entrarvi ne è divinamente allontanato. E così, incredibile a dirsi, da tanti secoli v’è una gente eterna sebbene non vi siano parti.

Su questi testi e sulle molteplici questioni connesse si è sviluppata ormai tutta un’ampia bibliografia particolare54.

ESSENI E QUMRANIANI. Il nome «esseni» non si trova mai nei manoscritti di Qumrân, ma è probabile che vi abbia riscontro l’equivalente «santi». La stessa forma del nome non è costante: Filone usa sempre ἐσσαῖοι, Giuseppe Flavio usa questo termine raramente, servendosi in genere di ἐσσηνοί; è probabile che 59

derivi da hesên, hasajjā «santo»,» venerabile», ma ogni etimologia è quanto mai incerta55; dai testi di Filone e di Giuseppe Flavio si constata che erano ammirati per la loro santità. Sulla loro origine le fonti non dicono nulla di preciso: favolosa è l’antichità menzionata da Plinio, ma gli altri tacciono; e tanto meno accennano al fondatore. Sul loro numero si accordano invece Filone e Giuseppe: 4.000. Filone afferma che abitano in villaggi ed evitano le città, Giuseppe che non hanno una loro città, ma che sono sparsi un po’ ovunque e ove si trovano formano una comunità; il più chiaro è Plinio: si trovano sulla sponda occidentale e settentrionale del Mar Morto. Tutti concordano nell’affermare che lavorano nell’agricoltura, nella pastorizia e in altri mestieri, ma evitano il commercio vero e proprio. Anche sull’organizzazione comunitaria vi è un ampio accordo, così sull’importanza degli anziani, sulla centralizzazione dell’autorità e su di una certa divisione; non vi è una uguaglianza assoluta: la prima e fondamentale distinzione concerne il grado di iniziazione. Il più particolareggiato è Giuseppe Flavio ma anche da Ippolito si hanno notizie interessanti tutt’altro che secondarie. Ciò che colpisce tutti questi scrittori è la loro santità, il loro genere di vita morale e religiosa singolarmente elevato e diverso da quello delle altre sette ebraiche del tempo, la strettissima osservanza delle leggi mosaiche e di quelle loro proprie, e il fervore nella lettura e studio degli scritti sacri, la loro abilità nelle interpretazioni simboliche o allegoriche, nella astrologia e nell’arte o dono di predire gli eventi. Quanto ai sacrifici, si trovano in una situazione particolare; verso l’osservanza del sabato hanno un rigorismo che li distingue da tutti e così nella pratica delle purificazioni. Non hanno schiavi, hanno rinunciato alla proprietà dei loro beni e dei proventi del lavoro, conducono una vita frugale, vivono in comunità e hanno un loro tribunale. Si impegnano con solenni giuramenti sia verso Dio sia verso la comunità; rinunciano anche al matrimonio: ma qui si manifesta nuovamente una certa diversità. Dalla Regola della comunità sappiamo che i membri erano divisi in tre fondamentali categorie: sacerdoti, leviti, laici (II, 19 e segg.). Che non tutti i membri abitassero a Qumrân è evidente tra l’altro dal fatto che è stabilito come, ovunque se ne trovassero dieci, si poteva stabilire un gruppo sotto la direzione di un sacerdote; i membri erano inoltre divisi in gruppi di mille, di cento, di cinquanta e di dieci (VI, 3; II, 21-22). Nelle riunioni comunitarie ognuno aveva il suo posto, prendeva parte alle discussioni in base alla sua posizione e non poteva interrompere un 60

altro (VI, 8 e segg.). Le questioni della comunità erano trattate da un consiglio di dodici membri e tre sacerdoti (VIII, 1). I sacerdoti avevano sempre la precedenza e si sedevano anche prima degli altri (VI, 8-9). Vi era un ispettore (paqid), un sovrintendente (mebaqqer) e un saggio (maśkîl): la loro personalità e funzione è discussa tra i qumranisti (VI, 12. 14. 20 ecc.). Allorché uno desiderava entrare nella comunità veniva esaminato dall ’ispettore che aveva il potere di ammetterlo nella comunità se lo trovava idoneo (VI, 14 seg.); ma non era accolto subito come membro effettivo: dopo un periodo di prova, il suo caso veniva esaminato dai «molti» (VI, 1516) che decidevano se farlo proseguire al secondo stadio, della durata di un anno; se ammesso, non gli era ancora concesso di accedere «alla purificazione dei molti» (VI, 16-17); al termine di questo anno, il suo caso era nuovamente esaminato per vedere se l’interessato aveva una sufficiente comprensione della Legge e se la sua vita era stata conforme alle norme della setta (VI, 18-19); se approvato, era ammesso all’ultime anno di probazione e tutta la sua proprietà e attività passava alla comunità, ma non era ancora posto nel tesoro della setta, e durante quest’anno non gli era ancora concesso prendere il cibo con gli altri membri della comunità; l’approvazione al termine dell’anno equivaleva alla incorporazione nella setta: i suoi beni erano messi nel tesoro e con una solenne cerimonia di iniziazione durante la quale riconosceva pubblicamente la benevolenza divina e confessava i propri peccati, riceveva la benedizione dei sacerdoti e prestava il suo solenne giuramento. Dopo di ciò gli veniva assegnato il posto nella comunità (I, 16 e segg.; VI, 22). La comunità era retta da una rigida disciplina. Ogni anno, in occasione del rinnovamento del patto, vi era la rivista di tutti i membri: ogni membro poteva allora essere elevato a un grado superiore o abbassato a uno inferiore (V, 23-24); colui che mancava alle regole era punito fino a un anno, anche nel cibo, e, se la mancanza era grave, veniva espulso dalla setta (VI, 14-VII, 3). Uno degli impegni era vivere fraternamente in umiltà, nella tensione verso la giustizia (VI, 1 e segg.); ovunque si trovavano almeno dieci membri v’era l’obbligo dello studio della Legge giorno e notte: ognuno doveva passare un terzo della notte in tale studio (VI, 6 e segg.). Avevano il dovere di mangiare insieme, di benedire insieme, di prendere consiglio insieme: la loro intelligenza, la loro forza, i loro beni erano tutti al servizio della comunità (VI, 2-3; I, 11-12). Il così detto Documento di Damasco apporta delle varianti di un certo interesse. Implica anzi tutto il matrimonic (VII, 6 e segg.); parla di quattro categorie: i sacerdoti, i leviti, i figli di Israele, i proseliti (XIV, 3 e segg.); le 61

regole di ammissione sono più semplici e non è specificata la durata del periodo di probazione: quelli che vogliono entrare nella comunità, è detto, saranno esaminati dal sovrintendente in merito alle loro azioni, alla loro intelligenza, alla loro forza, al loro coraggio, ai loro beni; se trovati soddisfacenti, sono ammessi al giuramento e arruolati come membri effettivi (XIII, 11 e segg.; XV, 1 e segg.). Non si parla dell’esame dei «molti» né del passaggio dei beni alla comunità; è detto invece che tutti, ogni mese, dovono dare un tanto alla cassa comune per i poveri e i bisognosi (XIV, 12 e segg.); non si parla di vitto in comune. All’abluzione rituale vi è solo un breve accenno (X, 11 e segg.). La setta appare organizzata in accampamenti (XIV, 3 e segg.). Si parla della legittimità del tempio, ma solo se vi sono sacerdoti legittimi che eseguono i riti secondo le norme della setta (IV, 2 e segg.; VI, 11 e segg.; XI, 17); nella Regola della comunità non si parla né di sacrifici, eccetto in senso figurato, né del tempio (1QS VIII, 9; IX, 4-5). Se ritorniamo ai testi di Filone, Giuseppe Flavio, Plinio, Ippolito e Solino osserviamo che le somiglianze tra le narrazioni sono molte e profonde, ma vi sono anche delle reali divergenze. Non v’è dubbio che se tutte queste narrazioni fossero contemporanee, difficilmente si potrebbero comporre; si dovrebbe concludere che si riferiscono almeno a tre sette. D’altra parte è ormai accertato che la Regola e il Documento di Damasco hanno un’unica origine; è dunque indispensabile tenere conto di sviluppi e cambiamenti, e del naturale dinamismo della setta. Le tre ragioni più appariscenti che creano una certa difficoltà per l’identificazione con gli esseni sono le seguenti: il carattere pacifico di costoro, tanto che secondo Filone essi non si interessavano affatto alle armi, mentre secondo Giuseppe Flavio portavano un’arma di difesa solo in viaggio (ma s’è visto che tutto ciò è molto relativo e non si può sottolineare troppo, essendo certo che non tutti gli esseni erano ugualmente pacifici); il matrimonio, il celibato e i sacrifici al tempio di Gerusalemme: sono due tratti fondamentali, ma ugualmente divergenti nelle stesse fonti qumraniche. Ritengo perciò che si possa oggettivamente sottoscrivere l’opinione, intesa ancora sempre come ipotesi di lavoro, che vede gli esseni, o, se si vuole, una categoria di essi, nella comunità di Qumrân e attribuisce loro sia le regole di vita sia la maggior parte, se non tutti, dei manoscritti trovati nelle grotte della regione. La setta di Qumrân era formata sostanzialmente dagli stessi esseni dei quali scrissero Filone, Giuseppe Flavio, Ippolito, Plinio e Solino. Occorre tuttavia aggiungere che tutte le nostre fonti, comprese quelle di Qumrân 62

(come rivelano i frammenti sia della Regola sia del Documento), non sono dello stesso periodo, parlano perciò di stadi diversi e attestano, indirettamente, gli sviluppi della setta; possiamo quindi confrontare queste diverse fonti per avere un’idea più precisa e degli sviluppi e della setta, a patto che all’osservazione precedente aggiungiamo che parlando degli esseni Filone, Giuseppe Flavio e gli altri, avevano anche degli intenti particolari; tutti avevano conosciuto la setta solo dall’esterno, e quindi in modo non sufficientemente preciso dato che questa setta evitava di fare conoscere la sua vita reale e le sue tendenze interiormente più caratterizzanti; mentre i manoscritti di Qumrân ci offrono per la prima volta un’informazione interna e ufficiale56. Rinviando alle Introduzioni ai singoli testi per informazioni particolari, le caratteristiche fondamentali quanto alla vita e alla dottrina degli esseni si possono riassumere come segue. La loro vita era essenzialmente comunitaria, divisa in classi; le cellule più piccole comprendevano dieci membri; i sacerdoti avevano un posto preponderante, tanto che si può parlare di una setta a carattere sacerdotale; e l’organizzazione era strettamente piramidale: non erano eremiti o monaci solitari stretti da un vincolo piuttosto largo e lasciati ampiamente alle tendenze e ispirazioni di ognuno. Beni, doti naturali, frutto dei loro lavori, erano in comune e posti sotto la direzione di un potere centrale che assegnava ad ognuno il suo posto. La loro era una formazione nettamente comunitaria. Condividevano in larga misura la fede e la speranza dell’ebraismo contemporaneo e cioè dal II secolo a. C. al I secolo d. C. Il comune denominatore è l’oltranzismo e in questo senso è da prendere nel suo significato più stretto il termine «setta» essendo dominante il separatismo e l’intransigenza; la purità legale è spinta fino a limiti estremi: non solo è contaminante il contatto con pagani e con ebrei non appartenenti alla comunità, ma anche con persone di classe inferiore nell’interno della stessa comunità; questi esseni intendono restare fedeli in tutto e per tutto al giudaismo tradizionale che vogliono rinnovare da un certo decadimento e vivere nella sua purezza: a questo scopo si sono date norme particolari nella stessa lettura e interpretazione dei testi biblici. Un esasperato nazionalismo e antipaganesimo, nonché una opposizione netta alla classe ebraica allora dominante caratterizza i qumraniani: giudicano i capi politici e religiosi ebraici alla luce della collaborazione con i pagani, e il sacerdozio in base all’unica legittima discendenza di Sadoc; per questi esseni la vita quotidiana ebraica dell’epoca è talmente corrotta, che non v’è altro rimedio all’infuori del ritiro nel deserto nell’incontro con Dio e 63

nell’attesa del suo intervento; è indispensabile un ritorno alla Legge e a certi ideali di purezza che solo qui si possono alimentare e raggiungere. Il dualismo e il predeterminismo caratterizzano non solo l’elezione, l’ingresso e la perseveranza nella comunità, ma tutto l’andamento della vita e della storia; la lotta tra Dio e Belial è nell’interno dell’uomo, oltreché attorno a lui e nell’universo. Ad essa partecipa anche l’esseno, non solo vincendo in se stesso le tendenze di Belial ma, come membro di una comunità, espellendo quanti rifiutano la lotta o non sono in essa abbastanza decisi. Ognuno deve praticare la verità, l’unione, l’umiltà, l’amore benevolo, non smarrirsi nell’ostinazione del proprio cuore, nell’inclinazione del suo istinto. «Nella comunità, circoncideranno il prepuzio dell’istinto e l’inflessibilità del collo ponendo un fondamento di verità per Israele» (1QS, V, 3-5). Alla vena di pessimismo sull’umanità e di fatalismo, si sovrappone per gli esseni una illimitata fiducia in Dio, ma solo per loro; tutti gli altri sono figli delle tenebre votati allo sterminio e a fare risplendere maggiormente i figli della luce. Al di là delle persone e delle circostanze storiche, vi sono dei cardini che sostengono il movimento esseno. 1) Il senso profondo, o piuttosto l’intima convinzione, dei misteri divini, della loro rivelazione alla comunità per mezzo di lumi speciali, dello studio continuo delle Scritture sacre e della interpretazione spirituale attualizzatrice da essa ricavata: vi sono qui aspetti nuovi e profondi che caratterizzano la comunità essena. 2) L’atteggiamento problematico verso il culto ufficiale del tempio di Gerusalemme, che nelle condizioni in cui si trovava non poteva essere accolto e seguito da essi, ha accentuato gli approfondimenti e le caratterizzazioni morali e religiose del movimento esseno: con la santità e la verità si espia il peccato e si attira la benevolenza divina più che con la carne degli olocausti e il grasso dei sacrifici; il tributo delle labbra è come un gradito odore di giustizia e la vita perfetta è come l’offerta spontanea di una gradevole oblazione (1QS, IX, 3-5); separati dal tempio si sentono più uniti agli angeli e a Dio (un po’ come gli ebrei prigionieri a Babilonia rispetto a quelli che erano rimasti in patria). «Sulla polvere hai effuso il tuo spirito di santità… affinché siano in comunione con i figli del cielo» (1QH, fram. 2, 9-10); «Hai purificato uno spirito perverso affinché se ne stesse in servizio… con l’esercito dei santi ed entrasse in comunione con l’assemblea dei figli del cielo» (1QH, III, 21-22). 3) Le febbrili attese escatologiche comuni a tutta l’apocalittica dell’epoca, acquistano per gli esseni aspetti particolari: la vittoria di Dio su Belial sarà 64

preceduta da lotte tremende e avrà come epilogo la definitiva consunzione del male, cioè di tutto quanto non è esseno; i membri della comunità prenderanno parte alla lotta, ma nella fase finale saranno aiutati dagli angeli: fantasia ed esaltazione sono congiunte in uno scritto come la Regola della guerra; gli esseni sono convinti della prossimità della fine, di vivere cioè le ultime fasi che precedono la lotta finale dopo la quale vi sarà per loro la paradisiaca felicità. In questo contesto si inserisce il loro complesso messianismo, accentuato soprattutto negli ultimi periodi di vita della comunità; e nello stesso contesto escatologico si comprende assai meglio la problematica matrimonio-celibato che dovette avere un notevole influsso sotto ogni punto di vista, anche perché non si conosce alcuna setta ebraica che praticasse il celibato. 4) È lecito, in fine, domandarsi perché questi esseni pii ortodossi andarono proprio a stabilirsi nella regione di Qumrân. Sono state fatte in proposito alcune osservazioni. La località si trova di fronte al Monte Nebo, così strettamente connesso con la morte di Mosè: certo, si sente un fascino particolare nell’osservare da Qumrân la catena montuosa del Nebo che si erge maestosa sulla sponda orientale del Mar Morto e dalla quale Mosè contemplò la Terra promessa prima di morire. Inoltre, a questi solitari che si ritenevano il vero Israele, quella dimora, in una zona desertica e rocciosa alle porte della Terra, doveva ricordare la peregrinazione desertica dei loro padri e accentuare il significato della loro attesa preparatoria del ritorno; li manteneva, o li ristorava, nel pieno clima spirituale dello jahvismo, cioè il deserto, come i Recabiti (cfr. Ger., 35, 2-10 e 2 Re, 10, 15 e segg.). Pensando alle vicine acque di ’Ain Feshkha qualche studioso ha visto una certa connessione con il fiume e le acque straordinarie di cui parla Ezechiele (47, 4 e segg.); d’altra parte gli stessi qumraniani si consideravano forse come una sorgente nel deserto dell’ebraico mondo circostante con il compito di farlo rivivere. Mi pare che il punto di partenza fondamentale sia il testo di Isaia, 40, 3 citato appunto nella Regola: «Saranno separati di mezzo al soggiorno degli uomini dell’ingiustizia per andare nel deserto a prepararvi la vita di lui, come sta scritto: “Nel deserto preparate la via di …. appianate nella steppa una strada per il nostro Dio ”» (1QS, VIII, 13-14). Nella storia dell’ebraismo il futuro non arrise agli esseni, ma restò in mano alle altre due correnti ben note e menzionate sempre da Giuseppe assieme agli esseni, soprattutto ai farisei e quindi ai rabbini. Si rinvia alle Introduzioni ai singoli testi e alle note la discussione delle varie opinioni e le identificazioni dei due personaggi che, forse a torto, 65

hanno occupato un po’ troppo molti studiosi, cioè il «maestro di giustizia» e il «sacerdote empio». La loro figura è notevole e così la loro importanza, ma purtroppo i qumraniani seguendo l’ermetico metodo esegetico non ce ne tramandano il nome. Vi sono perciò molte ipotesi, poiché ogni studioso identifica l’uno e l’altro in base alla cronologia che giudica opportuno seguire, o sceglie una cronologia adeguata alla identificazione preferita.

Importanza dei manoscritti. Fu una distorsione della facile divulgazione e della propaganda giornalistica, la presentazione della scoperta dei manoscritti del Mar Morto come interessante esclusivamente, o quasi, le origini del cristianesimo. Distorsione comprensibile e più che giustificata dato che per sensibilizzare il grande pubblico non v’era via più semplice e sicura che sottolineare in modo più o meno chiaro, più o meno prudente, secondo la sensibilità dello scrittore, la relazione esistente tra i manoscritti e una religione a tutti ben nota qual è il cristianesimo. Altri risultati di questa grande e fantastica scoperta non si prestano facilmente a tale divulgazione: ne risultò così che la relazione con le origini del cristianesimo fu esagerata a volte in modo addirittura grottesco, mentre ogni altro grande apporto fu ignorato e lasciato alla letteratura dotta o specializzata. In questo paragrafo introduttivo si intende appunto cercare di correggere questo stato di cose così largamente diffuso rilevando semplicemente i principali apporti offerti da questi manoscritti a quel complesso di campi di specializzazione compresi genericamente nel così detto periodo intertestamentario, quello cioè che si estende approssimativamente dal secondo secolo prima dell’era cristiana fino al termine della seconda rivolta ebraica contro i romani (135 d. C.). Queste pagine non hanno altra pretesa che presentare al lettore un quadro abbastanza completo di tali apporti, rilevando, per quanto è possibile nella straordinariamene ricca produzione scientifica odierna, la fase in cui si trovano gli studi specifici del ramo del sapere interessato. La storia del giudaismo e delle sue complesse componenti politiche, sociali e religiose in un periodo dei più travagliati e fecondi della sua storia, è certo la prima ad essere stata avvantaggiata dalle scoperte. Le fonti su di essa erano finora straordinariamente scarse, riducendosi in pratica ai libri dei Maccabei, agli scritti di Giuseppe Flavio ed a qualche passo della letteratura rabbinica; ora abbiamo testi di prima mano ed in alcuni casi gli autografi di qualche protagonista, e ci si trova di fronte a una realtà assai 66

più complessa e ricca di quanto si sapesse e si potesse immaginare, la quale ci obbliga a modificare e completare lo schema tradizionale: compito straordinariamente difficile sia per lo studio e l’inquadramento dei nuovi testi sia per la naturale tendenza, molto facile in questo campo, di qualche studioso a restare tenacemente attaccato a schemi ormai vecchi e sorpassati. Dalle grotte di Murabba‘ât, a parte qualche frammento anteriore al 73 d. C., sono stati estratti testi datati con certezza negli anni della seconda rivolta (132-135 d. C.) dai quali emergono dati estremamente vivi, importanti e nuovi sia sull’amministrazione romana sia sulle condizioni della rivolta e di quegli ebrei che in esse si erano rifugiati57. Così l’atto datato, probabilmente, nell’anno 111 d. C., con il quale un marito, residente a Masada, un certo Josef, figlio di Naqsan, ripudia la moglie e redige in aramaico la lettera di ripudio alla presenza di tre testimoni che si firmano dopo di lui; o l’atto di matrimonio, ancora in aramaico, di un certo Menaḥem, sottoscritto dai due interessati, da uno scriba e da quattro testimoni, nel quale è stabilito tra l’altro: Se tu te ne andrai alla casa di eternità prima di me, i figli che tu avrai da me erediteranno il denaro della tua dote e tutto quanto legalmente ti appartiene… Se sono io che andrò in detta casa prima di te e tu resterai, sarai nutrita dalle mie sostanze per tutti i giorni nella casa dei nostri figli, che sarà la casa della tua vedovanza…

Un numero notevole di contratti di matrimonio della grotta 4 sono pubblicati da M. BAILLET, Discoveries in the Judean Desert, VII. Qumrân Grotte 4 III (4Q482-4Q520), Oxford, 1982, pp. 81105 (ma, purtroppo, sono molto frammentari). Ancora nelle grotte di Murabba‘ât furono trovati contratti di affitto, in ebraico, di diversi terreni datati nel 20 del mese di Shebat, gennaiofebbraio, dell’anno 133: Il venti di Shebat, l’anno secondo della libertà di Israele, per autorità di Simone figlio di Kosba, principe di Israele in campagna, presso Herodium, Giuda figlio di Rabba ha detto a Hillel, figlio di Garis: «Di mia spontanea volontà oggi ho preso in affitto da te il terreno che è ormai mio per diritto di affitto e che si trova… e che ho preso in affitto da parte di Simone figlio di Kosba, principe di Israele… da oggi fino alla vigilia della remissione e cioè per cinque anni fiscali completi…».

Tutti questi atti di affitto sono firmati dall’affittuario «in persona» e da Simone figlio di Kosba «per suo ordine» e cioè, probabilmente, dal proprietario per ordine del principe di Israele. 67

La portata sociale, economica e politica di testi del genere non sfugge ad alcuno soprattutto se si tiene presente la carestia che all’epoca della seconda rivolta minacciava il paese, anche a motivo delle terre lasciate incolte. O quel certificato attestante che Giuseppe, figlio di Ariston, ha acquistato una vacca da un abitante di Bet-Mashko, Giacobbe, figlio di Giuda, certificato che deve essere sottoposto all’approvazione di Giosuè figlio di Galgula ( Jeshua‘ ben Galgula) «capo dell’accampamento» (nell’autunno del 134 o primavera del 135): Dagli amministratori di Bet-Mashko [o B.-Mashîko, come propone il Milik], Giosuè ed Eleazaro, a Giosuè figlio di Galgula, capo dell’accampamento, pace! Ti sia noto che Giuseppe figlio di Ariston ha acquistato la vacca di Giacobbe, figlio di Giuda, residente a Bet-Mashko, e che quindi gli appartiene. Se non fosse che i goîm [i pagani] si avvicinano a noi, io sarei salito e ti avrei reso noto l’acquisto. Non pensare dunque che sia per mancanza di rispetto ch’io non sono salito da te. Sia pace a te e a tutta la casa di Israele!

Seguono le firme di ben sei persone, tra le quali i due interessati e il notaio58. Ed in questo contesto sono da menzionare anche le due lettere dello stesso Simeone figlio di Kosba59, «principe di Israele», e capo della rivolta, una delle quali è probabilmente autografa. Quest’ultima attesta l’interesse del capo supremo a favore di certi galilei, maltrattati a torto da un suo subalterno, quel Giosuè figlio di Galgula, comandante di un accampamento: si tratta forse di civili fuggiti dalla Galilea e rifugiatisi nella Giudea, ma vi fu qualche studioso che propose di vedere in costoro degli ebreo-cristiani. La lettera dice: Simone, figlio di Kosba, a Giosuè figlio di Galgula e agli abitanti di Ha-Baruk, pace! Prendo i cieli in testimonianza contro di te che se sarà maltrattato qualcuno dei galilei che si trovano presso di vol, metterò ai ferri i vostri piedi, come ho fatto a Ben ‘Aflul. Simone, figlio di Kosba, di persona.

L’altra lettera tratta della richiesta della consegna di una notevole quantità di grano fatta dal «principe di Israele» a Giosuè, figlio di Galgula al quale il richiedente manda gli uomini incaricati del trasporto; si noti, tra l’altro, la stretta osservanza del sabato che riporta i combattenti alle severe norme degli asidei e degli esseni, differenziandoli nettamente dal 68

comportamento dei Maccabei. Simeone a Giosuè figlio di Galgula, pace! Sappi che devi provvedere a rimettere cinque Kor60 di grano da farmi avere per mezzo di miei subalterni. Prepara ad ognuno il suo posto di ospite e restino presso di te nel sabato. Provvedete che il cuore di ognuno sia soddisfatto. Sii coraggioso e sostieni quelli del luogo. Sia pace! A chiunque ti porta il suo grano ho ordinato: lo portino dopo il sabato61.

Altri testi di questo stesso periodo e altre lettere sono state trovate da una missione archeologica israeliana in caverne del torrente Ḥever presso Wadi Murabbat‘ât, ma finora (1969) non sono ancora state pubblicate: si sa che sono simili a quelli di Murabba‘ât62. Tutto ciò non interessa direttamente i manoscritti di Qumrân ma, come s’è visto, rappresenta un materiale preziosissimo, sia per l’inquadramento limite sia per l’insostituibile e irrefutabile apporto paleografico. Il problema del messianismo nel periodo intertestamentario era quanto mai oscuro: a parte qualche testo discusso nella cosí detta letteratura ufficiale e nei pochi eventi storici noti, si aveva a che fare o con figure messianiche militari come ad esempio Simeone ben Kosba o, assai più comunemente, con un messianismo senza messia; ora le cose sono mutate completamente sia per le esplicite dichiarazioni dei testi qumranici sia per le attestazioni della letteratura apocrifa, già nota, ma che come ormai si sa è d’origine asidea ed essena, e che su questo argomento è assai più diffusa, complessa e profonda della letteratura ufficiale: onde risulta che l’idea ha avuto un suo sviluppo, anche una sua involuzione, ed era ben lungi dall’essere svilita o diluita in un militarismo e nazionalismo oltranzista. Il problema degli eventuali influssi esterni sul pensiero ebraico, in particolare gnostici e iraniani, sembrava decisamente risolto per la negativa, ma i nostri manoscritti hanno riproposto la questione e su basi assai più vaste e concrete. È più che mai importante definire ciò che si intende per «gnosi» e «gnosticismo» da una parte, e certi atteggiamenti qumranici dall’altra; è interessante rilevare l’estremo interesse che le regole essene di Qumrân pongono sulle doti intellettuali dei membri, sullo studio continuo delle Scritture, sulla conoscenza dei misteri divini ecc.; nonché la loro enorme produzione letteraria: anche se tutto quanto fu trovato a Qumrân non si può dire con certezza di origine essena. La presenza di due calendari, uno lunare e l’altro solare, il primo ufficiale seguito anche al tempio di Gerusalemme, il secondo seguito dagli esseni, apre un ulteriore spiraglio di luce sulle correnti di profondo dissenso nel 69

giudaismo. Al vastissimo campo linguistico e paleografico aperto agli studiosi interessati dai manoscritti di Qumrân non posso che accennare a motivo dell’alta specializzazione che richiede per essere degnamente valutato. Se si tiene conto che nei manoscritti scoperti a Murabba‘ât e a Qumrân sono rappresentate ben sette lingue (l’ebraico biblico, l’ebraico mishnico, l’aramaico palestinese, il nabateo, il greco, il latino, l’arabo) si intuisce il vasto interesse anche in questo settore. Ci offrono ad esempio la prima prova che la lingua ebraica scritta stava vivendo un periodo neoclassico, imitando la lingua e lo stile dei testi biblici più antichi che ben si accorda con la forte rinascita religiosa e nazionale, e si può datare dalla decisa presa di coscienza all’epoca della persecuzione di Antioco IV Epirane e della rivolta maccabaica. Vi sono scritti in ebraico mishnico che attestano non solo quanto fosse diffuso, ma permettono di constatare l’avvicinamento del neoclassico al mishnico, i molti punti di contatto che ha la lingua ebraica dei libri ebraici più tardivi della Bibbia ebraica con, ad esempio, quella dell’Ecclesiaste, e ci danno la certezza che almeno all’epoca della seconda rivolta l’ebraico mishnico era parlato correntemente. Ma in Palestina era parlato anche l’aramaico palestinese del quale si possedeva finora un unico documento letterario del tempio, cioè le sezioni aramaiche di Daniele che a loro volta seguitano l’aramaico imperiale dell’epoca persiana: di questa lingua si hanno ora molti documenti che arricchiscono enormemente la conoscenza che finora se ne aveva. L’importanza di tutto questo è vastissima per i nuovi apporti alla nostra conoscenza di queste lingue, ma oltrepassa i limiti della specializzazione linguistica se si tiene conto che sia dell’ebraismo neoclassico sia del mishnico e dell’aramaico i manoscritti ci apportano una conoscenza nuova e che, ad esempio, ci offrono gli unici documenti palestinesi contemporanei, in parte, al sorgere e alla prima diffusione del cristianesimo e ripropongono questioni linguistiche che si credevano risolte: ad esempio la prima scrittura della catechesi cristiana (il primitivo vangelo di Matteo) fu in ebraico o in aramaico? È tutto un ambiente linguistico nuovo che ci ricreano i documenti di Qumrân, sia letterario sia parlato. In una lingua, come l’ebraico, ove le vocali, all’epoca che ci interessa, non si scrivevano affatto e ove la pronuncia non sempre era uguale, i testi di Qumrân ci danno per la prima volta tutto un complesso di informazioni preziosissime sull’evoluzione e le varianti tanto nelle scritture quanto nella pronuncia, ortografia e morfologia. Ed è evidente che alcune norme delle grammatiche tradizionali sono da rivedere, altre da correggere e altre nuove da aggiungere; qualcosa 70

in questo senso fu già fatto nella II edizione della grammatica di G. Beer edita a cura di R. Meyer63, ma non è che un timido inizio. Ben pochi poi erano gli studiosi che si aspettavano proprio da un centro ebraico (e precisamente da Murabba‘ât) nuova luce sulla storia antica della scrittura greca con una notevole varietà di grafie risalenti per lo più alla prima metà del II secolo d. C., e due esempi di tachigrafia greca cosí poco conosciuta. Nonostante la diffidenza dei rabbini verso la lingua greca, «veicolo del paganesimo», non vi può essere dubbio ormai che nei primi secoli della nostra éra era conosciuta e usata non solo dalla classe superiore ma anche dalla massa del popolo. È naturale che la ricchezza del lessico ebraico e aramaico ha avuto un considerevole aumento, sia con termini nuovi sia con nuovi significati. Un ramo del tutto nuovo di studi sulla lingua ebraica si può dire che è nato dalle scoperte di Qumrân: la paleografia ebraica. Questa scienza, che studia gli sviluppi delle più antiche forme di scrittura, praticamente non esisteva semplicemente per mancanza di scritti! In Italia, è vero, abbiamo da tempo il privilegio di possedere due opere classiche per tutti i semitisti una del Diringer e l’altra del Moscati, che segue e completa la precedente, ma trattano esclusivamente le iscrizioni (vedi la Bibliografia). Per il periodo medievale c’erano le scoperte nella sinagoga del Cairo, ma per l’antichità vi erano dati tanto vaghi e imprecisi che, senza l’apporto di nuovi elementi, sembrava praticamente impossibile datare un documento col solo ausilio della paleografia. Non è certo un caso che la prima personalità che ha riconosciuto l’alta antichità dei manoscritti di Qumrân sia stato W. F. Albright: è infatti a questo grande studioso che si suole fare risalire, e giustamente, la paleografia ebraica, allorché nel 1937 pubblicò uno studio esauriente del papiro di Nash64. La battaglia combattuta da certi studiosi per rivendicare i diritti della paleografia, affermatasi così improvvisamente e divenuta subito importantissima, è indissolubilmente legata con la storia delle scoperte: celebri fra tali studiosi sono J. T. Milik, A. S. Birnbaum, J. C. Trever, F. M. Cross jr., M. Martin e St. Segert, N. Avigad. Sappiamo così che certi manoscritti biblici di Qumrân risalgono almeno al III secolo, a. C.; si è giunti anche a uno schema dello sviluppo della grafia sicché si possono datare pressoché tutti i documenti con uno scarto massimo di 50 anni. Un simile risultato non si sarebbe mai sognato prima del 1948. I manoscritti delle grotte di Murabba‘ât hanno dato in questo campo un apporto importantissimo poiché la loro datazione è certa. Alcune precisazioni sia linguistiche sia paleografiche sono state date nelle Introduzioni e nelle note ai manoscritti relativi. L’elenco dei libri della Bibbia ebraica, o canone ebraico, iniziò a essere 71

definitivamente stabilito in modo ufficiale verso l’anno 80 d. C. nel così detto «concilio» di Jamnia (nell’omonima cittadina che fu un centro intellettuale ebraico dal 70 al 135 d. C. circa); il lavoro avente lo scopo di determinare, secondo una tradizione ebraica palestinese, quali libri si dovevano ritenere come sacri tra la grande produzione letteraria allora circolante, dovette durare a lungo; vi fu poi, a opera di altre scuole, la determinazione definitiva del testo ebraico, al quale in un periodo posteriore, ma facente parte dello stesso processo iniziato a Jamnia, furono apposte le vocali (create appositamente per fissare una lettura uguale per tutti) e in fine la masora cioè tutto un complesso di osservazioni e di norme dirette a impedire definitivamente qualsiasi mutazione testuale nei libri del canone biblico. È così che la tradizione ebraica giunse al textus receptus, a quel testo cioè che fu imposto come ufficiale ed esclusivo per tutti gli ebrei, e a mano a mano che il lungo lavoro progrediva furono distrutti tutti quei testi non conformi al nuovo archetipo. Il testo ufficiale ebraico della Bibbia, detto «masoretico», contrariamente a quanto si potrebbe a prima vista pensare, è relativamente tardivo, non solo, ma il manoscritto ebraico più antico di tutta la Bibbia non è anteriore al x cecolo d. C. e i codici parziali più antichi vanno dall’820-850 d. C. (Cod. Or. 4445 del British Museum) all’895 d. C. (Cod. Cairensis). Di anteriore a queste date si possedeva soltanto il breve papiro di Nash, già menzionato. Questa digressione era necessaria per comprendere al vivo la straordinaria importanza delle scoperte di Qumrân per il testo della Bibbia e per il canone biblico. Pare innanzitutto fuori dubbio che, per gli esseni di Qumrân, i libri ritenuti ispirati da Dio fossero più numerosi di quelli che, posteriormente, furono ufficialmente accolti dalla scuola di Jamnia, e quindi dal giudaismo rabbinico. E questo è già un grande dato che, per la verità, si attendeva dalla Palestina anche perché lo stesso fatto ci era noto dagli ebrei della diaspora egiziana. Ma v’è molto di più. Tra i manoscritti di Qumrân, come s’è visto, sono rappresentati tutti i libri della Bibbia ebraica con la sola eccezione, sembra, del libro di Ester: orbene, questi testi biblici di Qumrân sono gli unici testi non «conformisti» di tutta la tradizione testuale della Bibbia ebraica. Cioè, noi conoscevamo solo un unico testo della Bibbia rivisto e conformato da dotti ebrei, ma addirittura posteriore a tutti i nostri grandi papiri e codici del Nuovo Testamento, e a quelli dell’Antico Testamento in greco, tanto mal visto e forse appena sopportato dai rabbini, tenaci assertori del testo ebraico ad oltranza. I primi e più clamorosi risultati di tutto questo sono: per la prima volta si 72

può veramente istituire una autentica critica testuale dei testi biblici, per la prima volta si può tracciare a grandi linee la storia del testo ebraico nel suo complesso e di alcuni libri in un modo più particolare, per la prima volta alla spesso conclamata hebraica veritas (intendendo con l’espressione la volontà di attenersi al testo ebraico dei Masoreti, a meno di qualche rarissimo caso di errore o imperfezione) si può criticamente contrapporre un’altra hebraica veritas indipendente. Senza scendere a particolari, che qui sarebbero fuori posto, sono state trovate tracce sicure del testo del Pentateuco samaritano, certamente fuori dall’ambiente samaritano, un considerevole numero di testi identici a quelli tradotti in greco nella versione dei Settanta, spesso comunque assai più vicini ad essa di quanto sia il testo masoretico: sicché si può avanzare con ottime ragioni l’ipotesi di almeno tre forme del testo biblico, più altre, meno uniformi o aberranti. Non solo, ma in una grotta del torrente Ḥever, nel materiale databile con precisione negli anni della seconda rivolta ebraica, fu scoperto un papiro frammentario contenente una traduzione greca dei Dodici profeti (manoscritto siglato dagli studiosi Ḥev XII gr) che apre prospettive nuove per lo studio delle versioni greche, mentre conferma inaspettatamente una notizia in proposito tramandata dall’apologeta e martire cristiano Giustino (m. 165 circa). Inoltre, qualche studioso crede di potere avanzare l’ipotesi di un’origine essena o asidea del libro biblico della Sapienza (per esempio A. Dupont-Sommer e A. M. Dubarle), del libro di Daniele e delle similitudini di Enoc (ad esempio J. Starcky); e lo scritto apocrifo Ascensione di Isaia non solo è ritenuto di origine essena, ma si pensa che l’autore intendesse trattare dell’ascensione del maestro di giustizia e dei suoi discepoli (così ad esempio D. Flusser). E l’influsso di questa ricca letteratura, il cui studio comparativo è tuttora solo agli inizi, lo si constata ad esempio nella Didaché, nel Pastore di Erma, nelle Ps.Clementine, ecc. Questi non sono che pochi spunti, qualcosa di più si troverà nelle Introduzioni e nelle note ai singoli testi; d’altra parte in questo come in altri settori gli studi sono raramente più avanti della semplice fase iniziale. In conferenze radiodiffuse, J. M. Allegro, uno degli studiosi dell’équipe internazionale al quale fu affidato un lotto di manoscritti per lo studio e la pubblicazione (vedi 4Q156-186), aveva asserito che, in testi non ancora pubblicati, egli stesso aveva potuto leggere che il maestro di giustizia era stato crocifisso, che il suo corpo era stato custodito dai suoi discepoli in attesa della sua risurrezione nel giorno del giudizio, e altre cose del genere. Ma non tardò ad apparire sul quotidiano londinese The Times la smentita 73

più categorica a tutte queste pretese letture, smentita sottoscritta dai grandi nomi di R. de Vaux, J. T. Milik, P. W. Skehan, J. Starcky, J. Strugnell che avevano sotto mano tutti i manoscritti, compresi naturalmente quelli ai quali alludeva l’Allegro. Questo non è che uno dei tanti tentativi, più o meno fantasiosi, di istituire rapporti diretti tra i manoscritti di Qumrân, Gesù e il Nuovo Testamento. Cosí l’Allegro ha anche sostenuto che Gesù sarebbe vissuto verso l’epoca di Alessandro Janneo (103-76 a. C.): le narrazioni dei Vangeli sarebbero reminiscenze d’una reale storia essena, la storia di Gesù una mitizzazione. A questo livello sono, sostanzialmente, parecchi altri divulgatori come E. Wilson e M. A. Larson. Notevole scalpore suscitò la posizione di A. Dupont-Sommer, i cui studi precedettero quelli degli autori nominati precedentemente; essa fu esposta prima (nel 1950) in una comunicazione all’ Académie des Inscriptions et Belles-hettres e nelle Aperçus préliminaires…, e in séguito in studi sul commento ad Abacuc, in un articolo sulla rivista «Vetus Testamentum» (del 1951) e infine su «Nouveaux aperçus» (nel 1953): il maestro di giustizia, fondatore degli esseni di Qumrân, sarebbe stato un sacerdote riformatore, in lotta con l’autorità ufficiale, che fondò la comunità del nuovo patto (o nuova alleanza, cioè del Nuovo Testamento); dotato di personalità mistica superiore, si presentò e fu creduto, quale mediatore del nuovo patto, profeta come Mosè, uomo dei dolori e servo di Jahweh descritto da Isaia, subì il martirio per ragioni molto simili a quelle addotte per la crocifissione di Gesù, dopo la morte apparve glorioso ai suoi seguaci, che da allora ne aspettano il ritorno per l’eterna condanna dei loro nemici. Nell’opera Les écrits esséniens… lo stesso studioso ha attenuato, e in qualche punto modificato, tali osservazioni restando fondamentalmente fedele alla loro sostanza, e cioè all’origine essena del cristianesimo. A nostro avviso è immaturo dato che ancora non si conoscono tutti i testi, entrare in un campo così vasto e complesso qual è quello delle relazioni tra l’essenismo e il cristianesimo, campo che, oltre alle congenite difficoltà delle fonti, è stato reso più intricato sia da parte di un certo razionalismo sia da gravi deficenze nella conoscenza del Nuovo Testamento e soprattutto dei Vangeli; a questi due elementi si sono ora aggiunte più o meno apertamente rivalità confessionali e purtroppo anche personali, per cui si è giunti ad affermare l’esistenza di manoscritti segreti (la cui pubblicazione sarebbe impedita o, quanto meno, ritardata) che comprometterebbero l’originalità del cristianesimo e del suo fondatore, e così via. Si tratta di affermazioni per lo più gratuite, che ottengono l’unico risultato di complicare inutilmente una questione già di per sé complessa. 74

Cito in proposito le parole di uno studioso israeliano docente di storia delle religioni all’Università di Gerusalemme e grande esperto nei manoscritti di Qumrân: «Fa parte di una campagna di certi Gentili non credenti e di certi circoli ebraici il volere provare che Gesù non è affatto esistito proprio come certi altri circoli vorrebbero provare che Gesù è tutto… I manoscritti del Mar Morto non possono né provare né contraddire l’esistenza di Gesù perché, a quanto ritengo, non parlano per nulla del cristianesimo» (The Jerusalem Post Weekly, 16 gennaio 1967, p. 12). Al di là dunque di queste querele di parte che non hanno nulla di scientifico e rinviando alla Bibliografia ogni lettore interessato nella questione, non v’è dubbio che i nostri manoscritti hanno un’importanza enorme anche per il sorgere del cristianesimo. Qualche accenno particolare il lettore lo troverà nelle note e nelle Introduzioni a singoli testi. Mi limito qui ad alcune riflessioni. Nei Vangeli sono menzionate praticamente tutte le sètte e circoli giudaici del tempo, ma stranamente mancano gli esseni. Giovanni Battista predicava nel deserto di Giuda, dove la gente accorreva dalla Giudea, da Gerusalemme e da tutta la valle del Giordano, a confessare i propri peccati e venir battezzata nel fiume, e il messaggio fondamentale di Giovanni Battista riecheggia quello della Regola della comunità: la regione non poteva essere quella di Qumrân, essendo più a settentrione, nella regione di Gerico ove scorre il Giordano, ma non è lontana dalla prima. Anche Gesù, dopo il battesimo, si ritira nel deserto di Giuda. Giovanni aveva dei discepoli, alcuni dei quali seguirono Gesù fin dalla prima ora. Si sa che a Qumrân si seguiva il calendario solare, diverso da quello ufficiale lunare; è noto ugualmente quanto sia difficile accordare la cronologia della passione quale è narrata dal Quarto Vangelo con quella dei Sinottici ed entrambe le narrazioni con gli eventi accaduti: ora è stata proposta e accolta anche da studiosi cattolici, la opinione che Gesù almeno per l’ultima Cena abbia seguíto il calendario esseno. Nello stesso messaggio evangelico certe coincidenze con gli scritti esseni sembrano sicure. Nella figura del maestro di giustizia sono sottolineati certi tratti che parrebbero concordare con alcuni di Gesù. Se si passa al Quarto Vangelo in particolare e al resto del Nuovo Testamento, le coincidenze sembrano farsi più nette ancora, soprattutto con gli scritti giovannei e con quelli paolini, in specie con le Lettere pastorali e La Lettera agli Ebrei. Ma nonostante tutte queste e ben altre convergenze ipotetiche e reali più di uno studioso (così ad esempio M. Burrows) non si è deciso ad ammettere 75

un influsso diretto di Qumrân sugli autori del Nuovo Testamento. Le posizioni di alcuni studiosi furono collezionate ed edite (nel 1957) da K. Stendhal in un’opera nella quale collaborarono vari autori e, più recentemente (nel 1968), un’altra opera in collaborazione, dedicata questa esclusivamente agli scritti paolini, fu edita da J. Murphy-O’Connor: sono posizioni piuttosto varie e interessanti, aliene da ogni facile fantasia e da soluzioni estreme. Questo campo di studi è solo agli inizi, ed è indispensabile l’approfondimento sereno, oggettivo, di molti problemi particolari prima che si possano avanzare ipotesi generali; si deve inoltre attendere la pubblicazione di tutti i testi prima che tali esami siano completi; non bisogna dimenticare che anche lo studio critico del Nuovo Testamento non può essere perso di vista ed è anzi di prima necessità. L’opera imponente di analisi e di sintesi compiuta da H. Braun sarà per parecchio tempo non solo indispensabile per la consultazione, ma anche per la metodologia. Non v’è dubbio che ormai non si può compiere uno studio critico e una sana esegesi del Nuovo Testamento prescindendo dai manoscritti di Qumrân, che si rivelano indispensabili per inquadrare pienamente nell’ambiente del tempo la figura e l’opera del Battista, di Gesù e degli apostoli, e la stessa organizzazione della Chiesa primitiva: dalle parole di Maria «non conosco uomo», al canto degli angeli «pace in terra agli uomini di buona volontà» (cioè «del beneplacito divino»), all’invito al banchetto messianico degli storpi, ciechi, zoppi, ecc., alla stessa figura di Melchisedec nella Lettera agli Ebrei, moltissimi sono i testi che acquistano nuova vitalità e concretezza, ma non mi pare che alcuno abbia perso qualcosa della sua freschezza e unicità. Ogni lettore è in grado di leggere da solo i testi di Qumrân, paragonabili a quelli dei Vangeli e sperimentarne l’enorme differenza: là manca Gesù, la sua personalità, la sua missione. E per terminare queste brevi riflessioni, ancora una sorpresa dei manoscritti di Qumrân: il vasto arricchimento apportato alla letteratura ebraica di un tempo del quale ignoravamo praticamente tutto, e con essa una inaspettata ricchezza di generi letterari nuovi: dai commenti biblici agli inni, dai florilegi di testi alle varie regole, dagli oroscopi a composizioni liturgiche diverse, dalle preghiere alle filatterie e ai criptogrammi, per non accennare che ad alcuni. Una singolare sorpresa è rappresentata dalla scoperta del filone di quella letteratura che oggi chiamiamo «apocrifa»: per la prima volta sappiamo finalmente con certezza in quale ambiente è sorta, e si è sviluppata. Già questa testimonianza dimostra quanto essa fosse diffusa e spiega molto bene la spiritualità e le tendenze così diverse da quell’altra letteratura, 76

l’ufficiale o rabbinica, a noi nota soltanto da fonti tardive e che si supponeva fosse pressoché l’unica rappresentante della letteratura ebraica intertestamentaria. Ci si trova quindi di fronte a un ambiente intellettuale e spirituale assai più vario, dinamico e creativo di quanto si supponeva. Di qui, sia detto per inciso, l’opportunità o meglio la necessità ormai di considerare, con più attenzione di quanto non si sia fatto finora, tutta questa letteratura per lo studio dell’ambiente delle origini del cristianesimo, comprese alcune forme letterarie della sua espressione.

1. J. T. M ILIK, Le giare dei manoscritti della grotta del Mar Morto e dell’Egitto Tolemaico, in Bibl., 31, 1950, 504-508 e tav. III. 2. In «P S I», vol. IX, I, pp. 15-35, nn. 1014-1025. 3. Ma si veda in proposito B. C OUROYER, À propos des dépots de manuscrits dans les jarres, in RB, 62, 1955, 76-81; e R. D E VAUX, in DJD, 1, 1955, 11-12 e opere ivi citate. 4. Cfr. G. M ERCATI, Note di letteratura biblica e cristiana, in «Studi e Testi», V, Roma 1901, pp. 28-29; E USEBIO, Hist. eccles., VI, 16; O. BRAUN, in «Oriens Christianus», I, 1901, 301-311; R. J. BIDAWID, Les lettres du Patriarche nestorien Timothée 1, in «Studi e Testi», CLXXXVII, 1956, p. 71; R. DE VAUX, À propos des manuscrits de la Mer Morte, in RB, 57, 1950, 417-429; S. S EGERT, Ein alter Bericht über den Fund hebräischer Handschriften in einer Höhle, in Ar Or, 21, 1953, 263-269; H. N IBLEY, Qumrân and «the Companion of the Cave», in RQ, 5, 1965, 177-198. 5. Cfr. ad es. M. M ANSOOR, The Case of Shapira’s Dead Sea (Deuteronomy) Scroll of 1883, «Visconsin Academy of Sciences, Arts and Letters», X LVII, 1959, 183-229; O. K. RABINOWICZ, The Shapira Forgery Mystery, in JQR, 47, 1956, 426-437; H. BARDTKE, Zur Frage der Schapira - Handschript, in ThRd, 30, 1964, 283-295; J. M. A LLEGRO, The Shapira Affair, London, 1969. 6. Su queste e altre antiche ricognizioni si veda R. DE VAUX, in RB, 60, 1953-83 e seg. 7. M. N OTH, Der alttestamentliche Name der Siedlung auf chirbet Kumrân, in ZDPV, 71, 1955, 111-123; cfr. F. M. C ROSS, A Footnote to Biblical History, in BA, 19, 1956, 12-17; F. M. C ROSS and J. T. M ILIK, Explorations in the Judaean Beqê‘ah, in BASOR, 142, 1956, 5-17; R. DE VAUX, L’Archéologie… cit., p. 72. 8. L’Archéologie…, p. 15. 9. Cfr. anche H. BARDTKE, in ThRd, 29, 1963, 268 e segg. e la Bibliografia ivi citata. 10. Cfr. lo studio specifico di R. N ORTH, The Qumrân Reservoirs, in The Bible in Current Catholic Thought, Gruenthaner Memorial Volume, edit. by J. L. Mc Kenzie, New York, 1962, 100-132. 11. Si vedano ad es. gli studi particolari di K. GREENLEAF PEDLEY, The Library at Qumrân, in RQ, 5, 1959, 21-42 e K. W. C LARK, The Posture of the Ancient Scribe, in BA, 26, 1963, 63-72.

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12. Art. cit., in ThRd, 29, 1963, 279. 13. Ad es. H. E. D EL M EDICO, L’énigme des manuscrits… cit., pp. 101-102; 107-108. 14. Ad. es. E. W. G. M ASTERMAN, in vari articoli apparsi nel «PEF Quarterly Statement» negli anni 1911-1913. 15. Cfr. W. R. F ARMER, The Economic Basis of the Qumrân Community, in ThZ, 11, 1955, 295-308 e in ThZ, 12, 1956, 56-58; H. BARDTKE, Zwishen chirbet Qumrân und ‘en feschcha, in ThLz, 85, 1960, 263-274. 16. Cfr. The Jewish Encyclopedia, V, 1903, p. 612. 17. Cfr. L’énigme des manuscrits…, Paris, 1957, 23-31 e le osservazioni critiche su RB, 67, 1959, 92-94. 18. K. H. RENGSTORF, Hirbet Qumrân und die Bibliothek von Toten Meer. «Studia Delitzschiana» V, Stuttgart, 1960. 19. G. R. D RIVER op. cit., 23. 20. Cfr. J. S TARCKY, Les quatte étapes du messianisme à Qumrân, in RB, 60, 1963, 501502. 21. History of New Testament Times with Introduction to the Apocrypha, New York, 1949, p. 15. 22. Si veda in proposito O. C ALDERINI, Il problema caraitico alla luce delle scoperte di Qumrân. (Tesi sostenuta all’Università Cattolica di Milano, 1969). 23. Cfr. le parole di R. de Vaux in RB, 1957, 636-637. Cfr. inoltre S. Z EITLIN, The Antiquity of the Hebrew Scrolls and the Piltdown Hoax: A Parallel, in JQR, 45, 1954, 1-29; ID., The Propaganda of the Hebrew Scrolls and the Falsification of History, in JQR, 46, 19551956, 1-39; 116-180; 209-258; ID., The DSS: A Traversy on Scholarship, in JQR, 47, 19561957, 1-36; ID., The Dead Sea Scrolls and Modern Scholarship, Philadelphia, 1956. Lo Zeitlin è oggi, praticamente, l’unico studioso su questa posizione totalmente negativa: si veda ad esempio H. BARDTKE, in OLZ, 1957, 521-525; e in ThLZ, 1962, 813-826. N. W IEDER., The Judean Scrolls and Karaism, London, 1962, nega che si possa trattare dei caraiti. 24. Cfr. K. H. RENGSTORF, Hirbert Qumrân und die Bibliothek vom Totem Meer, «Studia Delitzschiana», V, 1960; ID., Erwägungen zur Frage des Landbesitzes des zweiten Tempels in Judäa und seiner Verwaltung (in Bibel und Qumrân. H. Bardtke-Festschrift), Berlin, 1968. 25. Cfr. C. ROTH, Le point de vue de l’historien sur les manuscrits de la Mer Morte, «Evidences», LXV, 1957, 37-43; ID., Les rouleaux de la Mer Morte et l’insurrection juive de l’an 66, «Evidences», LXX, 1958, 13-18; ID., The Historical Background of the Dead Sea Scrolls, Oxford, 1958. Per un’ipotesi contraria vedi ad esempio: A. D UPONT-S OMMER, Les Esséniens (XII). Les rouleaux de Qumrân sont-ils d’origine zélote?, «Evidences», LXVIII, 1957, 23-36; H. H. ROWLEY, Qumrân, the Essences and the Zealots. Von Ugarit nach Qumrân, in BZAW, 77, 1961, 184-192; ID., The History of the Qumrân Sect, in BJRL, 79, 1966, 203-232; e gli studi qui appresso citati. 26. Cfr. G. R. D RIVER, The Judaean Scrolls. The Problem and the Solution, New York, 1965; in contrario si veda ad esempio R. DE VAUX, Esséniens ou Zélotes? A’ propos d’un livre récent, in RB, 73, 1966, 212-235; ID., Essens or Zealots?, in NTS, 13, 1966, 87-104; R. LE D ÉAUT, Qumrân: une synthèse et une solution, in Bibl., 47, 1966, 445-456; H. BARDTKE, Qumrân und seine Probleme, in ThRd, 33, 1968, 105-119. E in particolare la monografia

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sugli zeloti di M. H ENGEL, Die Zeloten. Untersuchungen zur jüdischen Freiheitsbewegung in der Zeit Herods I bis 70 n. Chr., Leiden, 1961; e S. G. F. BRANDON, Jesus and the Zealots. A Study of the Political Factor in Primitive Christianity, Manchester, 1967. 27. Op. cit., 39-41. 28. The Qumrân «Sadducees», in CBQ, 17, 1955, 164-188. 29. Così ad esempio W. H. W ARD, The Zadokite Documents, in «The Bibliotheca Sacra», LXVIII, 1911, 429-456; L. GINZBBERG, Eine Unbekannte jüdische Sekte, New York, 1922. 30. Cfr. S. LIEBERMAN, Light on the Cave Scrolls front Rabbinic Sources, «Proceed. of the American Academy for Jewish Research», XX, 1951, 395-404; ID., The Discipline in the socalled Dead Sea Manual of Discipline, in JBL, 71, 1952, 199-206; C H. RABIN, Qumrân Studies, Oxford, 1957; in contrario si veda ad esempio J. M. BAUMGARTEN, Qumrân Studies, in JBL, 77, 1958, 249-257; A. D UPONT-S OMMER, Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, 2 édit., Paris, 1960, 415-420; anche R. G. D RIVER, op. cit., 80-100; e in particolare A. F INKEL, The Pharisees and the Teacher of Nazareth. A Study of their Background, their Halachic and Midrashic Teachings, the Similarities and Differences, Leiden, 1964. 31. The Sinagogue Review, 40, 1966, 177. 32. Cfr. G. M ARGOLIOUTH, The Sadducean Christians of Damascus, «The Expositor», XXXVII, 1911, 499-517; 38, 1912, 213-235; ID., The two Zadokite Messiahs, in JThS, 12, 1911, 446-450. Tra i numerosi articoli di J. L. TEICHER SU «The Journal of Jewish Studies» dal 1951 in poi si veda in particolare: Jesus in the Habakkuk Scrolls, in JJS, 3, 1952, 53-55; Material Evidence of the Christian Origin of the Dead Sea Scrolls, in JJS, 3, 128-132; The Teaching of the Pre-Pauline Church in the Dead Sea Scrolls, in JJS, 3, 111-118; 139-150, 4, 1953, 1-13; 49-58; 93-103; 139-153: Puzzling Passages in the Damascus Fragments, in JJS, 5, 1954, 139-147; The Christian Interpretation of the Sign X in the Isaiah Scroll, in VT, 5, 1955, 189-198; Spurious Texts from Qumrân?, in PEQ, 1958, 61-64; Archaeology and the Dead Sea Scrolls, «Antiquity», XXXVII, 1963, 25-30; The Dead Sea Scrolls… Facts and Myths, «The Sinagogue Review», X L, 1966, 146-150; 176-177. Per opinioni contrarie si può vedere: A. D UPONT-S OMMER, op. cit., pp. 406-408; I S ONNE, The x-Sign in the Isaiah Scroll, in VT, 4, 1954, 90-94; J. A. F ITZMYER, The Qumrân Scrolls, the Ebionites and their Literature, «Theological Studies», XVI, 1955, 335-372 (lo stesso articolo fu ristampato nell’opera The Scrolls and the New Testament, edita da K. Stendhal, New York, 1957, 208-231); e G. R. D RIVER, op. cit., pp. 158-167 e 570-584. 33. Priest and Sacrifices in the Dead Sea Scrolls, in JJS, 5, 1954, 99. 34. Cfr. H. E. D EL M EDICO, L’énigme des manuscrits de la Mer Morte, Paris, 1957; ID., Le mythe des essénien. Des origines à la fin du Moyen âge, Paris, 1958; si veda in contrario: R. DE VAUX, Les manuscrits de Qumrân et l’archéologie, in RB, 66, 1959, 87-110; ID., L’archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961; A. D UPONT-S OMMER, op. cit., pp. 420-424; H. BARDIKE, Qumrân und seine Probleme, in ThRd, 33, 1968, 99-100. 35. Le Judaïsme palestinien au temps de Jésus-Christ, I, Paris, 1934, p. 67. 36. L. C OHN S. REITER, Philonis Opera, VI, Berlin, 1915, pp. 21-26; lo stesso testo fu ripreso da Eusebio di Cesarea in Praeparatio evangelica, X II, 1-19; cfr. K. M RAS, Eusebius Werke, VIII, I: Die Praeparatio evangelica, in GCS, Leipzig, 1954, pp. 457-461. 37. B. N IESE, Josephi Fl. Opera, VI, Berlin, 1895; H. S T. J. THACKERAY, Josephus, II,

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Loeb’s Classical Library, London, 1927. 38. Su questo passo così contestato, cfr. J. S TRUGNELL, art. cit. Certamente Giuseppe non afferma che gli esseni pregavano il sole. 39. A. Dupont-Sommer giudica il termine corrotto e lo corregge con «alterazione». La difficoltà è reale, ma finora non sono state proposte correzioni accettabili. Cfr. anche G. RICCIOTTI, op. cit., p. 213, n. 142. 40. Seguo una correzione del Dupont-Sommer che attinge a sua volta da Isidore Lévy; in luogo di «scritti sacri», il testo ha, infatti, «e purificazioni di vario genere», espressione che pare assolutamente fuori posto. Secondo la correzione seguita, è probabile che Giuseppe Flavio citi la triplice divisione dei testi biblici: la Legge = i libri sacri, gli Scritti = scritti sacri, i Profeti = le sentenze dei profeti. A proposito delle predizioni degli esseni, Giuseppe Flavio riferisce tre casi: Guerra, I, 78; II, 113; Antichità, X III, 373 e segg. 41. Il testo ha «per un triennio» ma è giudicato corrotto cfr. H. St. J. Thackeray e G. Ricciotti: l’esperimento consiste, infatti, nel constatare se la donna, che in questo caso è la fidanzata, ha raggiunto la maturità fisica, se ha dunque le sue regole mensili ed è così atta alla procreazione dato che per questa classe di esseni è questo l’unico scopo del matrimonio. 42. Il testo dice «per ottenere la ricompensa della…», ma è ben difficile che questa lezione sia giusta dato che un motivo del genere per la condotta degli esseni è piuttosto strano; ho seguito perciò, con L. H. Feldman, la correzione proposta da J. Strugnell (art. cit.). 43. L’interpretazione di questo paragrafo è molto contestata. Il Dupont-Sommer traduce: «Mandano offerte al tempio, ma essi non compiono sacrifici, dato che le purificazioni da loro seguite sono differenti; perciò si astengono dall’entrare in quei recinti…». Qui la negazione è introdotta unicamente sulla testimonianza di Filone (vedi § 75): la questione dei sacrifici tra gli esseni di Qumrân è complessa e non si può risolvere in questo modo; il participio greco εἰργóμευoι in Giuseppe Flavio è sempre passivo e non è lecito quindi prenderlo come medio e tradurre «si asteńgono»: sono esclusi dagli altri, non sono essi che si astengono. Cfr. L. H. F ELDMAN e R. M ARCUS, Pharisees, Essenes… (vedi Bibl.) e J. S TRUGNELL (art. cit.). 44. Il Feldman traduce: «Essi né introducono le mogli nella comunità…» e cita argutamente il testo dei Prov., 25, 24: «Meglio è abitare nell’angolo di una soffitta, che in un palazzo con una donna litigiosa»; la traduzione è comunque possibile. Come s’è visto, la condotta degli esseni a proposito del matrimonio non era uniforme. 45. Periodo difficile, confuso e certamente corrotto; parla di «Daci» e di «Cristi». Ho seguito le correzioni proposte dal Dupont-Sommer (On a Passage of Josephus…, vedi Bibl.). 46. Cfr. Philon d’Alexandre, Paris, 1958, pp. 50-52. 47. Sul significato preciso di infra hos e soprattutto sulle discussioni che ne sono sorte per l’identificazione della regione alla quale qui allude Plinio con Qumrân si vedano in particolare gli articoli di J. P. Audet, C. Burchard e P. Sacchi citati nella Bibl. Della difficoltà che si può sentire leggendo questo testo redatto al presente, mentre, nell’ipotesi della loro identificazione con i qumraniani, allorché Plinio scriveva gli esseni non abitavano certamente più in quella regione, si era già interessato (ed evidentemente senza alcuna preoccupazione a proposito di Qumrân)

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P. E. Lucius (Der Essenismus in seinem Verhältniss zum Judenthum, Strasbourg, 1881, p. 33): il tatto non presuppone che la comunità esistesse ancora; Solino, epitomatore di Plinio (nel III secolo), è ancora più esplicito e così Giuseppe Flavio e i rabbini suppongono che la Palestina si trovi ancora nella stessa situazione che aveva prima del 7c. Cfr. A. D UPONT-S OMMER, op. cit., p. 414. 48. Vi è qui un’evidente confusione con Gerico della quale poco prima, all’inizio del c. 15, 70, aveva appunto ricordato i palmizi e l’abbondanza delle acque. 49. Naturalis historia, V, 15, 73 (ediz. di H. Rackham, Loeb’s Classical Library, London, 1947, p. 276). 50. Tutti i testi antichi sugli esseni furono raccolti da A. Adam (vedi Bibl.). 51. Da: P. W ENDLAND, Hippolytus Werke, III Bnd., in GCS, 22, Leipzig, 1916, 256-261. 52. Solin et les esséniens… (vedi la Bibl. nella seguente nota 54). 53. Collectan, rerum mirab., XXXV, 10-11. 54. Gli studi essenziali sono: A. A DAM, Antike Berichte über die Essener (Kl. Texte, 182), Berlin, 1961; J.-P. A UDET, Qumrân et la notice de Pline sur les esséniens, in RB, 68, 1961, 346-387; M. BLACK, The Account of the Essenes in Hippolytus and Joseph, in The Background of the New Testament and its Eschatology, Studies in Honor of C. H. Dodd, London, 1956, 172-175; C. BURCHARD, Pline (Hist. nat. V, 17, 73) et les esséniens. A propos d’un article récent, in RB, 69, 1962, 533-569; ID., Solin et les esséniens. Remarques à propos d’une source negligée, in RB, 74, 1967, 392-407; F. C UMONT, Esséniens et Pythagoriciens, d’après un passage de Josèph, in «Comptes Rendus de l’Acad. des Inscr. et Belleslettres», 1930, 99-112; H. E. D EL M EDICO, Les esséniens dans l’oeuvre de Flavius Josèph, in «Byzantinoslavica», X III, 1952-1953, 1-45; 189-226; A. D UPONT-S OMMER, On a Passage of Josephus Relating to the Essenes (Antiq. XVIII, 22), in JSS, 1, 1956, 361-366; Z. F RANKEL, Die Essäner: eine Skizze, in «Zeitsch. f. d. relig. Interessen d. Judentums», III, 1846, specialmente 441-461; H. KRUSE, Noch einmal zur Josephus-Stelle Antiq. 18, 1, 5, in VT, 9, 1959; 31-39; E. M. LEPERROUSAZ, «Infra hos Engadda». Notes à propos d’un article récent, in RB, 69, 1962, 369-380; R. M ARCUS, Pharisees, Essenes, and Gnostics, in JBL, 73, 1954, 157161; ID., Philo, Josephus, and the Dead Sea Yahad, in JBL, 71, 1952, 207-209; H. R. M OCHRING, Josephus and the Marriage Customs of the Essenes: Jewish War II, 119-166 and Antiquties XVIII, 11-25, in Early Christian Origins (A. Wikgren edit.), 1961, 120-127; M. PHILONENKO, La notice du Josèph Flave sur les esséniens, in «Semitica», VI, 1956, 69-73; P. S ACCHI, Ancora su Plinio e gli esseni, in La parola del passato, XVIII, 1963, 251-455; M. S MITH, The Description of the Essenes in Josephus and the Philosophumena, in HUCA, 39, 1958, 273-313; J. S TRUGNELL, Flavius Josephus and the Essenes: Antiquities XVIII, 18-22, in JBL, 77, 1958, 106-115; S. W AGNER, Die Essener forschung im 19. Jahrhundert. Die Essener in der wissenschaftlichen Diskussion vom Ausgang des 18. bis zum Beginn des 20. Jahrhunderts. Eine wissenschaftsgeschichtliche Studie, in BZAW, 79, Berlin, 1960; S. Z EITLIN, The Essenes and Messianic Expectation. A Historical Study of the Sects and Ideas during the Second Jewish Commonwealth, in JQR, 45, 1954, 83-119. 55. G. VERMES, The Etymology of «Essenes», in RQ, 2, 1960, 440-443. 56. Nel 1953 scriveva il De Vaux: «Io ritiro dunque volentieri l’etichetta farisaica che avevo applicato alla setta di Qumrân, ma prevedo che lo studio dei testi usciti dalle diverse grotte darà di questi esseni un’immagine molto diversa da quella che si intravvedeva attraverso Filone e Giuseppe, e li associerà più strettamente agli

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ḥasidim dell’epoca maccabaica» (RB, 60, 1953, 105). Un utile confronto tra quanto qui espongo e le obbiezioni in contrario si può ancora avere nell’articolo di M. H. GOSCHEN-GOTTSTEIN, Anti-Essene Traits in the Dead Sea Scrolls, in VT, 4, 1954, 141-147. 57. Si veda R. DE VAUX, L’archéologie des manuscrits de la Mer Morte, London, 1961; Discoveries in the Judaean Desert. II. Les grottes de Murabba‘ât, edito da P. Benoit (per i testi greci e latini), J. T. M ILIK (per tutti i testi ebraici e aramaici) e R. DE VAUX (per le questioni archeologiche), Oxford, 1961 dà l’edizione ufficiale dei testi trovati nelle grotte di Murabba‘ât; e l’opera di E. KOFFMAHN citata nella Bibl. 58. Per tutti i testi si veda J. T. M ILIK, op. cit., nell’ordine, Mur 19 (pp. 104 e segg.), Mur 21 (pp. 114 e segg.), Mur 24 (pp. 122 e segg.), Mur 42 (pp. 155 e segg.). 59. Questo celebre personaggio, capo della seconda rivolta guidaica contro i Romani, si chiama Shim‘ôn (italianizzato in Simeone) bar o ben (e cioè figlio rispettivamente in aramaico e in ebraico) di Kosbā; dagli ebrei avversari fu denominato per disprezzo «bar Kozbā» cioè «figlio di menzogna» e dai suoi sostenitori «bar Kokba» cioè «figlio della stella» (appellazione messianica, vedi Num., 24, 17 e 4Q Test, 9-13). La delusione ebraica causata dalla sua rivolta e sconfitta è tramandata ad esempio dal seguente testo che riferisce le parole di due rabbini: «Quando Rabbi Akiba vide bar Kosbā, citò: «È uscita la stella di Giacobbe! E spiegò: Kosbā da Giacobbe: egli è il Re-messia”. Ma Rabbi Johanan ben Torta, rispose: “Akiba, l’erba spunterà sulle tue mascelle e ancora non sarà venuto il Figlio di David!”». Cfr. «RB», IX, 1953, 289-292 (Ekhā rabbâ, II, 2). 60. Circa 1800 Kg. 61. Per i testi delle due lettere vedi J. T. M ILIK, op. cit., Mur 43 (pp. 159 e segg.) e Mur 44 (pp. 161 e segg.). 62. Dopo varie comunicazioni parziali apparse nel 1961 in IEJ e in BA, è uscito per ora (1969) solo il primo volume della pubblicazione ufficiale contenente soltanto la storia dell’esplorazione archeologica e i reperti materiali, ma nessun testo: Y. YADIN, The Finds from the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters, Jerusalem, 1963. 63. Sammlung Göschen, 763-763 b e 764-764 b, Berlin, 1966 e 1969; e il Textbuch (769769 a), Berlin, 1960. 64. W. F. A LBRIGHT, A Biblical Fragment from the Maccabean Age: the Nash Papyrus, in JBL, 56, 1937, 145-176.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Tutte le bibliografie e note bibliografiche che darò nel corso della trattazione sono selettive. Per una bibliografia completa ogni studioso deve ormai ricorrere a sussidi bibliografici particolari qui appresso citati. Gli studi su manoscritti, su argomenti ad essi attinenti e su singoli soggetti e temi sono dati nella trattazione dei singoli testi e argomenti particolari. Sono ugualmente escluse tutte le pubblicazioni di testi ebraici e originali segnalate anch’esse al loro posto. Vi sono ormai varie riviste che seguono le pubblicazioni dei manoscritti dando una presentazione critica dei singoli studi e dei problemi e sono sorti aggiornamenti bibliografici periodici. Tra le prime si veda ad esempio: K. G. KUHN, H. BARDTKE, A. STROBEL, R. MEYER nella «Theologische Zeitschrift». H. BARDTKE e H. BRAUN, nella «Theologische Rundschau». J. VAN DER PLOEG nella «Jahrbericht ex Oriente Lux» e in «Bibliotheca Orientalis». J. CARMIGNAC nella «Revue de Qumrân». Tra i secondi si veda. C. BURCHARD, Bibliographie zu den Handschriften vom Toten Meer, I. in BZAW, 76, Berlin, 1957; II. in BZAW, 89, Berlin, 1965; e l’ulteriore supplemento di H. STEGEMANN, in ZDPV, 83, 1967, 95-101. P. NOBER nell’ Elenchus Bibliographicus Biblicus, di «Biblica». M. Yizhar ha radunato in un fascicolo tutte le pubblicazioni ebraiche sui nostri manoscritti: si tratta di studi (complessivamente 703 titoli) scritti in ebraico moderno passati per lo più inosservati in Occidente: Bibliography of 83

Hebrew Publications on the Dead Sea Scroll 1948-1964, «Harvard Theological Studies», XXIII, Cambridge, Harvard University Press, London, Oxford Univ. Press, 1967; per la ricchissima grotta 4 il Fitzmyer ha pubblicato un’indispensabile sintesi bibliografica: J. A. FITZMYER, A Bibliographical Aid to the Study of the Qumrân Cave IV Texts, in CBQ, 1969, 158-186; la rivista bibliografica «Internationale Zeitschriftenschau für Bibelwissenschaft und Grenzgebiete»; la «Revue de Qumrân», unica rivista che tratta (dal 1958) unicamente argomenti qumranici. J. A. FITZMYER, The Dead Sea Scrolls. Major Publications and Tools of Study, Missoula, 1975. K. G. Kuhn ha curato una concordanza ebraica (Konkordanz zu den Qumrantexten, Göttingen, 1960 e Nachträge zur Konkordanz zu den Qumrantexten, in RQ, 4, 1963, 163-234), ma purtroppo è divenuta presto assai limitata, mancando i testi pubblicati dopo la sua stampa. Per i dati pubblicati nell’edizione ufficiale ogni studioso trova una concordanza al termine di ogni volume. Del Kuhn può essere pure utile per la ricostruzione di qualche passo, l’opera Rückläufiges Hebräisches Wörterbuch, Göttingen, 1958. Nella vasta bibliografia generale ho scelto le seguenti opere: J. M. ALLEGRO, The Dead Sea Scrolls: A Reappraisal, 2 edit., Middlesex, 1964. H. BARDTKE, Die Handschiftenfunde am Toten Meer, 1961. M. BURROWS, The Dead Sea Scrolls, New York, 1955. ID., More Light on the Dead Sea Scrolls, New York, 1958. J. CARMIGNAC (e altri), Les Textes de Qumrân traduits et commentés, I, Paris, 1961; II, Paris, 1963. F. M. CROSS Jr., The Ancient Library of Qumrân and Modern Biblical Studies, New York, 1958. J. DANIÉLOU, Études d’exégèse judéo-chrétienne (les Testimonia), Paris, 1966. M. DELCOR, Le vocabulaire juridique, cultuel et mystique de l’initiation dans la secte de Qumrân, in Qumrân-Problème (herausg. H. Bardtke), Berlin, 1963, 109-134. R. DE VAUX, L’archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961. ID., Bible et Orient, IV: Les manuscrits de la Mer Morte, Paris, 1967, 319-375. Dictionaire de la Bible, Supplém. fasc. 51, Paris, 1978. (Studiosi diversi trattano della storia e archeologia, della setta, degli scritti e della dottrina, e delle ultime ricerche israeliane. Di particolare interesse la trattazione: «Qumrân e il N. T.»). 84

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Per la prima parte si può vedere: J. BONSIRVEN, Le judaïsme palestinien au temps de Jésus-Christ, 2 voll., Paris, 1935. W. BOUSSET, Die Religion des Judentums im Späthellenistischen Zeitalter, 3a ediz. curata da H. Gressmann, Tübingen, 1926. C. GUIGNEBERT, Le monde juif vers le temps de Jésus, Paris, 1935. G. KITTEL, Urchristentum, Spätjudentum, Hellenismus, Stuttgart, 1926. M. J. LAGRANGE, Le Judaïsme avant Jésus Christ, Paris, 1931. G. F. MOORE, Judaism in the First Centuries of the Christian Era. The Age of 86

Tannaim, 3 voll., Cambridge (U.S.A.), 1927-1930. P. VOLZ, Die Eschatologie der Jüdischen Gemeinde im neutestamentlichen Zeitalter, Tübingen, 1934. Per la seconda parte ove la bibliografia è ancora più vasta e complessa, rinvio ai commenti sui libri dei Maccabei, e in particolare all’opera di GIUSEPPE FLAVIO, Bellum judaicum (che cito Guerra) nell’edizione di B. Niese, ristampata nel 1955, o nella ediz. della Loeb’s Classical Library curata da R. Marcus: seguo in genere la versione di G. RICCIOTTI, La Guerra giudaica, 3 voll., 2a ediz., Torino, 1949. In particolare per sviluppi e precisazioni si veda ad esempio: G. ALLON, The Attitude of the Pharisees to the Roman Government and the House of Herod, «Scripta Hierosolymitana», VII, 1961, 53-78. E. BAMMEL, Die Neuordnung des Pompeius und das römischjüdische Bündnis, in ZDPV, 75, 1959, 76-82. E. BICKERMANN, Die Makkabäer, Berlin, 1935. ID., Der Gott der Makkabäer, Berlin, 1937. ID., From Ezra to the Last Maccabees: Foundations of Post-Biblical Judaism, New York, 1962. S. G. F. BRANDON, Jesus and the Zealots. A Study of the Political Factor in Primitive Christianity, Manchester, 1967. W. FOERSTER, Neutestamentliche Zeitgeschichte, Hamburg, 1968. H. JEPSEN - R. HANHART, Untersuchungen zur israelitischjüdischen Chronologie, in BZAW, 88, Berlin, 1964. J. JEREMIAS, Jerusalem zur Zeit Jesu, 3. Aufl., Göttingen, 1962. J. JUSTER, Les Juifs dans l’empire romain. Leur condition juridique, économique et sociale, 2 voll., Paris, 1914. M. HENGEL, Die Zeloten. Untersuchungen zur jüdischen Freiheitsbewegung in der Zeit von Herodes I. bis 70 n. Chr., Leiden, 1961. H. KREISSIG, Der Makkabäeraufstand. Zur Frage seiner sozialäkonomischen Zusammenfänge und Wirkungen, «Studi Classici», IV, 1962, 143-175. B. MAZAR, The Tobiads, in IEJ, 7, 1957, 137-145 e 229-238. E. MEYER, Ursprung und Anfänge des Christentums, II, Stuttgart-Berlin, 1921. A. MOMIGLIANO, Prime linee di storia della tradizione maccabaica, Roma, 1930. 87

E. SCHÜRER, Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi, 4 voll., 4a ediz. Leipzig, 1901-1911. S. ZEITLIN, The Tobias Family and the Hasmoneans, in «Proceed. of the American Academy for Jewish Research», IV, 1932-1933, 169-223. Eccellenti sintesi di bibliografia scelta anche per un periodo alquanto più vasto di quello che qui ci interessa che proseguono quella esauriente dello Schürer si devono a: A. T. OLMSTEAD in «Journal of the American Orient. Society», LVI, 1936, 242-257; due studi: uno di R. MARCUS (The Future of Intertestamental Studies) e l’altro di J. COERT RYLAARSDAM (Intertestamental Studies since Charles’ Apocrypha and Pseudepigrapha), nell’opera edita da H. R. WILLOUGHBY, The Study of the Bible Today and Tomorrow, Chicago, 1947; R. MARCUS, Selected Bibliography (1920-1945) of the Jews in the Hellenistic-Roman Period, in «Proceed. of the American Academy for Jewish Research», XVI, 1946-1947, 97-181; si veda anche la Bibliografia che il Marcus pose nelle appendici ai voll. VI e VII dell’opera di Giuseppe Flavio da lui curati nella collana Loeb’s Classical Library. 2. Questioni storiche particolari.

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Nelle pagine seguenti presento tutti i manoscritti di Qumrán finora pubblicati, siano essi integri o frammentari, purché la lettura dia un senso intellegibile. Non vi sono invece i testi esclusivamente biblici, dato che la loro presenza sarebbe qui fuori posto e soprattutto non avrebbe alcuna utilità, sebbene siano di enorme importanza per la critica testuale, per la paleografia, per le questioni d’ortografia e morfologia ebraica, per la storia del testo biblico. Per facilitare la lettura, ho evitato le parentesi quadre con le quali si suole designare le integrazioni a testi monchi apportate dai traduttori o comunque dai critici: in luogo di queste parentesi ho adottato il corsivo. Il corsivo nei testi rivela dunque termini o passi non sicuri in quanto, nei testi originali, ad essi corrisponde una lacuna dovuta al cattivo stato di conservazione del manoscritto. Naturalmente alla ricostruzione da me accettata e proposta può 98

corrispondere, per un altro studioso, una ricostruzione totalmente diversa o un rifiuto di ricostruire, per mancanza di basi sicure. Le parole tra parentesi sono aggiunte all’originale per rendere più chiara la versione italiana. Nei passi, purtroppo molto numerosi, per i quali ogni integrazione è impossibile o troppo arbitraria, seguo l’uso di mettere i puntini. Qua e là, nei passi di maggiore interesse, ho posto in nota, con una certa abbondanza, ricostruzioni proposte da altri qumranisti, affinché ogni lettore possa esercitare le sue doti critiche e operare le sue preferenze. Con i numeri romani designo le colonne del testo originale e con i numeri arabi le righe dello stesso testo, sicché ogni lettore che ne ha la possibilità può riscontrare sull’originale ogni mia traduzione: la designazione delle colonne e delle righe è quella ufficiale, determinata dagli editori dei singoli testi; solo in alcuni punti vi può essere lo scarto di una riga, anche perché nella versione italiana non fu sempre possibile mantenere la divisione nel luogo preciso dell’originale. Tutti i testi sono designati secondo le sigle adottate internazionalmente dai qumranisti e dall’edizione principe della Oxford University Press.

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NOTA STORICA

Un ipotetico quadro schematico dello sviluppo del movimento esseno si può sintetizzare come segue.

Periodo I: dal 168 circa al 134 a. C. circa. Il movimento degli esseni, e, a quanto pare, anche quello dei farisei, si connette cronologicamente e spiritualmente con quello assai più vasto degli asidei (ḥasîdîm) all’epoca dell’inizio della persecuzione di Antiochio IV Epifane, all’allontanamento del sommo sacerdote Onia III, al susseguirsi, in quella carica, di sacerdoti usurpatori come Giasone, Menelao e, infine, lo stesso Gionata Maccabeo dal quale il sacerdozio passerà poi alla famiglia degli asmonei: è appunto per il suo comportamento secolarizzatore dopo la purificazione del tempio santo, dimentico della politica di isolamento e. indipendenza sotto la sovranità di Dio e per avere accettato la carica di sommo sacerdote da Alessandro Bala, che in lui gli esseni videro l’origine di ogni male. Gionata è dunque il «sacerdote empio»; così propose per primo G. Vermes seguito da J. T. Milik. Contro Gionata e la sua politica si levò il malcontento di molti asidei e una parte formata principalmente da sacerdoti: tra costoro, subito o, verosimilmente, alquanto più tardi vi fu il «maestro di giustizia» (non si sa con quale persona storica, a noi nota, si possa individuare), il maggiore fautore del ritiro nel deserto per separarsi dagli apostati e iniqui, e attendere l’avvento del piano divino; a questo maestro risalgono certamente, in una forma difficilmente precisabile, la Regola della comunità e una parte degli Inni; forse anche altri scritti; ma soprattutto è a lui che risale sostanzialmente il carattere quasi monastico del più antico periodo della storia essena, con la mistica del deserto, l’acuto senso del bisogno di Dio, la familiarità con gli angeli, la necessità di prepararsi piamente all’avvento della fine.

Periodo II: dal 134 circa al 31 a. C. circa. Il movimento acquista molte simpatie, i torbidi sociali, politici e religiosi lo favoriscono e la regione di Qumrân non solo vede aumentare la sua popolazione, ma anche la sua sistemazione e organizzazione materiale. In particolare, giovò al movimento la lotta di Giovanni Ircano I (134-104) 100

contro i farisei; è verosimilmente in questo periodo che la comunità accentua certi aspetti farisaici e si vedono sorgere vari gruppi esseni che, condividendo in pieno le idee fondamentali del primo movimento, se ne discostano per certi aspetti piuttosto secondari, come il matrimonio, la vita nel deserto, la disciplina più libera, una minore accentuazione comunitaria, maggiore ascetismo1. Così sorge forse la comunità pilota (1QS, VIII, 1-X, Ia) e l’una o l’altra forma del Documento di Damasco, e probabilmente anche i terapeuti d’Egitto (cfr. FILONE, De vita contemplativa, 21-90 e EUSEBIO, Storia eccles., II, 17). Giovanni Ircano I è «l’uomo di menzogna» e «l’uomo di arroganza» (1QpHab, II, 2; V, 11; CD, I, 14; XX, 11-15) e Alessandro Janneo «il leoncello furioso» (4QpNah, II, 5).

Periodo III: dal 31 circa al 4 a. C. circa. Nonostante questo periodo sia stato contrassegnato da un terremoto e da un violento incendio, non conobbe, come s’è visto, un abbandono della regione di Qumrân; è l’epoca del regno di Erode e un certo Menaḥem, esseno, che gli aveva predetto il regno allorché era ancora giovane, gli fu consigliere; questo re fu sempre benevolo verso gli esseni (Antich., XV, 378). L’attività seppure ridotta rispetto al periodo precedente, non deve essere scemata di molto, se ci sono giunti così tanti manoscritti del periodo erodiano, anche se l’osservazione deve estendersi ugualmente al regno di Archelao. A questo periodo risalgono, verosimilmente, celebri commentari come le Benedizioni patriarcali, il Florilegio, il Commento a Isaia, il Commento al Salmo 37; e vari altri scritti. Passati piuttosto serenamente questi anni, alla fine del regno di Erode il Grande la Palestina è pervasa da un’ondata antiromana diffusa soprattutto tra i giovani e cioè tra le nuove reclute essene.

Periodo IV: dalla morte di Erode il Grande alla distruzione degli edifici di Qumrân (4 a. C. - 68 d. C.). È il tempo del Nuovo Testamento, della vita e attività di Gesù, del sorgere e diffondersi della Chiesa per opera degli apostoli. Gli esseni, tanto a Qumrân quanto altrove, hanno molti postulanti, le loro file aumentano e la setta acquista, a quanto pare, un aspetto ibrido, con una certa dose di tensione zelota e oltranzista contro i Romani e tutti gli altri che non condividevano le loro idee, e una accentuazione del nazionalismo, delle attese escatologiche e apocalittiche. È l’epoca, ad esempio, del Rotolo di 101

rame, della Regola della guerra e del Commento ad Abacuc.

1. Cfr. le prudenti parole del de Vaux: «Certi aspetti dei testi (esistenza di più regole disciplinari, tra le quali il Documento di Damasco attestato da vari esemplari) si spiegherebbero bene se l’insieme della comunità non comprendeva soltanto diversi “ordini” in corrispondenza dei gradi di iniziazione, ma se comprendesse molti gruppi che concordavano sull’essenziale pur seguendo regole alquanto diverse» (Discoveries in the Judaean Desert. III. Les «Petites grottes» de Qumrân, Oxford, 1962, p. 35).

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TESTI NORMATIVI

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REGOLA DELLA COMUNITÀ (1QS)

Il testo. Questo rotolo fa parte del primo lotto di manoscritti ebraici trovati nel 1947 in quella che sarà poi denominata la prima grotta di Qumrân (1Q); con il primo rotolo completo di Isaia (1QIsa) e il commento ad Abacuc (1QpHab) fu acquistato dai beduini da Mar Atanasius Jeshue Samuel, arcivescovo siriaco della chiesa di S. Marco di Gerusalemme nel febbraio del 1948; in questo stesso anno fu studiato da M. Burrows e J. C. Trever che con W. H. Brownlee ne curarono l’edizione principe (soltanto con la fotografia e trascrizione del testo) uscita nel 1951. Nel 1953 (nel 1958 la 3a ediz.) P. Boccaccio e G. Berardi curarono un’edizione del testo ebraico con la versione latina. Nel 1954 il rotolo insieme agli altri due fu acquistato dall’Università ebraica di Gerusalemme, e nello stesso anno ne pubblicò una nuova edizione H. Bardtke. Nel 1959 apparve a Gerusalemme la seconda edizione (la prima apparve nel 1952) di A. M. Habermann del testo ebraico vocalizzato (com’è noto i manoscritti di Qumrân, anche quelli biblici, sono anteriori di alcuni secoli all’introduzione nella scrittura delle vocali ebraiche). Intanto, ulteriori ricerche degli studiosi nella stessa prima grotta nonché la scoperta di altre grotte, soprattutto della quarta, portarono alla luce altri testi alquanto frammentari appartenenti, almeno in un dato periodo, alla stessa Regola pubblicati da I. Barthélemy e J. T. Milik (vedi l’Introduzione a 1QSa e 1QSb) e un buon numero di frammenti identificati e resi noti da J. T. Milik, che li designò con le sigle 4QS a, b, c, d, e, f, g, h, i, j; 5Q11 e 5Q13, che cita 1QS, III, 4-5 (cfr. RB, 67, 1960, 410-416). Tenendo conto di questi nuovi testi frammentari E. Lohse curò una nuova edizione del testo ebraico, apparsa nel 1964. Di fronte a questo stato di cose era naturale che la presente traduzione non poteva essere fatta soltanto sull’edizione principe, ma doveva tenere presente anche tutto ciò che a essa venne a mano a mano ad aggiungersi sia dalle nuove scoperte sia dalle diverse letture del testo originale proposte da altri studiosi. D’altronde questo è uno dei manoscritti che giunsero a noi meglio conservati: il rotolo, pervenuto in mano agli studiosi diviso in due, ha una lunghezza di 186 cm., una larghezza di cm. 24, e consta di undici colonne contenenti una media di ventisei righe ognuna; l’undicesima colonna ha i segni che la caratterizzano come ultima della raccolta. Come si è accennato, 104

del rotolo facevano certamente parte anche altre colonne (1QSa e 1QSb) che da esso si staccarono all’epoca del rinvenimento da parte dei beduini (nel 1947) e furono vendute più tardi (nel 1950) al Museo Palestinese di Gerusalemme1.

Titolo. Il titolo datogli nell’edizione principe «Manual of Discipline», sebbene ancor oggi assai comune nella letteratura anglo-americana, non è accettato dalla grande maggioranza degli studiosi sia perché con le ripetizioni e i tratti oratori che lo distinguono non si vede come lo si possa considerare un sunto, un «manuale», sia perché pur contenendo le regole disciplinari della setta di Qumrân, queste tuttavia non caratterizzano il contenuto del rotolo. Perciò il titolo oggi più diffuso è «Regola» ed è ispirato tanto dalla analogia tra il contenuto del rotolo e le regole degli ordini monastici e congregazioni religiose, quanto dal fatto che il termine ricorre più volte nel nostro scritto e, probabilmente, anche all’inizio: di qui la sigla distintiva del rotolo «S», Serek (che in ebraico corrisponde all’ital. «Regola»), preceduta, come al solito, dal numero della grotta e dalla sigla di Qumrân (Q), luogo del rinvenimento. A motivo del carattere e della grande importanza e diffusione che lo scritto doveva avere tra gli esseni di Qumrân, come attestano i molti frammenti finora trovati e gli accrescimenti e sviluppi attraverso ai quali passò, è possibile che sia identificabile con il «libro della meditazione» menzionato nel Documento di Damasco (CD, X, 6; XIII, 2; XIV, 8) e nella Regola dell’assemblea (1QSa, I, 7), come ha proposto, con tutte le riserve del caso, A. Dupont-Sommer: «Il rotolo detto della Regola non sarà puramente e semplicemente questo “libro della meditazione”? Non v’è dubbio che si presenta come una raccolta di testi fondamentali destinati a essere costantemente letti, riletti e meditati… d’altra parte non sembra che le grotte abbiano fornito qualche altro vestigio del famoso “libro della meditazione”, a meno che questo si debba proprio identificare con il rotolo della “Regola”. Concluderemo dunque, almeno provvisoriamente, che tale identificazione è una delle più probabili» (A. DUPONT-SOMMER, Les écrits esséniens… (p. 86, n. 3: ma vedi appresso, CD, X, 6 e nota ivi).

Analisi. Sulle grandi linee dell’analisi gli studiosi sono generalmente d’accordo poiché esse emergono con sufficiente chiarezza dallo stesso testo: 105

1) I, 1-15: introduzione generale e definizione dello scopo e degli ideali che la comunità propone ai suoi membri; 2) I, 16-III, 12: ingresso nella comunità del patto: il rituale dell’ingresso, la regolamentazione del rinnovamento del patto, denuncia di quanti rifiutano d’entrare nella comunità; 3) III, 13-IV, 26: dottrina che ispira tutta la spiritualità della comunità: i due spiriti, come si manifestano e come operano negli uomini, loro destino finale stabilito da Dio; 4) V, 1-VI, 23: regole per la vita interna della comunità: princìpi generali, regolamentazione interna (conversione alla legge di Mosè, separazione da ogni altra, esami interni da subire, unità gerarchica e unione fraterna dei membri, norme per una comunità di dieci persone), disposizioni per le sessioni dei «molti» e loro deliberazioni per l’ammissione di nuovi membri, il compito dell’ispettore dei «molti», i due anni del primo periodo di prova e gli altri due anni del secondo periodo di prova; 5) VI, 24-VII, 25: codice penale della comunità: lungo elenco delle varie mancanze che possono essere commesse dai membri e assegnazione delle pene, che vanno fino all’espulsione definitiva dalla comunità; 6) VIII, 1-X, 1a: la comunità pilota nel deserto: costituzione della comunità pioniera, norme per il «saggio» (maśkîl) della comunità a proposito del reclutamento, della scelta di nuovi membri, delle tappe della formazione e degli elementi essenziali dell’istruzione; 7) X, 1b-XI, 22: inno finale: in prima persona, il fedele enuncia i momenti essenziali della preghiera conformemente alle norme della comunità, i tratti fondamentali del suo comportamento verso Dio, verso il prossimo e verso sé stesso, loda la benevolenza divina verso i suoi fedeli, e termina con un ringraziamento, o benedizione.

Aspetto letterario. Che il rotolo della Regola non rappresenti il testo veramente originale, ma una copia con mende e glosse che qua e là ne rendono difficile l’interpretazione, è un fatto che si può constatare dai frammenti della quarta grotta, «che sembrano conservare il testo più puro» ( J. T. MILIK, Dieci anni…, p. 29); un aspetto vistoso della composizione letteraria è rappresentato dalla Regola dell’assemblea (1QSa) e dalla Raccolta di benedizioni (1QSb) che costituivano in origine due sezioni finali del nostro rotolo (vedi appresso); il Documento di Damasco (CD) è una ulteriore testimonianza del progressivo sviluppo, accrescimento e variazione del testo 106

della Regola in un momento storico particolare (vedi l’Introduzione a CD). Un testo frammentario della quarta grotta contiene passi identici al Documento di Damasco, altri ispirati al Levitico e al libro dei Giubilei, altri identici alla Regola e altri ancora che dipendono da essa e dal Documento di Damasco; in fine un frammento assai antico, della quarta grotta ha una lacuna corrispondente a 1QS, VIII, 15-IX, 11 ed è molto probabile che questo testo non facesse parte della più antica stesura della Regola2. Tutto questo stato di cose, oltre ad attestare la grande diffusione e importanza della Regola, è anche un dato in favore degli studiosi, e sono la maggioranza, che la considerano un’opera composita, sprovvista di unità e di ordine logico, risultato, in gran parte, del lavoro di un compilatore assai più che di uno scrittore unico, più che l’opera di getto di un autore un libro composto con ritagli da uno o più compilatori e rispecchiante un determinato momento della storia degli esseni di Qumrân (vedi le note a V, 1; VIII, 1). Nelle tre prime sezioni (I, 1-15; I, 16-III, 12; III, 13-IV, 26) l’unità e la sequenza logica sono palesi, non così nelle altre quattro; qui i singoli passi, più o meno ampi, godono di una chiara unità interna, ma il legame tra loro si rivela molto tenue e spesso nullo; né mancano i testi paralleli; d’altra parte alcune prescrizioni, ad esempio quelle disciplinari, presuppongono un periodo di vita vissuta. Tuttavia l’opera, nel suo complesso, rivela un progressivo sviluppo che, partendo dagli elementi più generici formali ed esteriori, s’addentra sempre più negli aspetti spiritualmente più profondi della dottrina e della vita qumraniana: a testi giuridici o costituzionali sono affiancate esortazioni morali o mistiche, riti, esposizioni dottrinali ed elevazioni liriche. Se da una parte appare esagerata la difesa del piano unitario, dell’unicità d’autore e di una concezione unitaria di primo getto, quale è sostenuta, ad esempio, da J. Carmignac e da P. Guilbert (vedi Bibliografia), dall’altra si ritiene ingiustificata la posizione di J. Maier che sostiene la assoluta mancanza di un piano. Della evoluzione, d’altronde molto naturale per un testo che doveva regolare concretamente la vita quotidiana di persone che si trovavano in un ambiente soggetto a continui e rapidi mutamenti, ai quali era sottoposta la Regola, sono una chiara testimonianza le correzioni, tendenti a chiarire espressioni difficili e insolite o ad armonizzare un testo con un altro, che si riscontrano nel nostro rotolo soprattutto nelle colonne VII e VIII. Lo stile non presenta differenze notevoli ad eccezione di quelle varianti che sono richieste dalla varietà dei generi letterari e dei soggetti trattati; lo stesso giudizio vale anche per l’accostamento tra la Regola e altri scritti di 107

Qumrân ad esempio il Commento ad Abacuc (1QpHab.) e gli Inni (1QH): sarebbe dunque molto rischioso da questa certa uniformità stilistica volere inferire l’unità d’autore. Il nostro rotolo, come ad esempio il Commento ad Abacuc (1QpHab.) e il Documento di Damasco (CD), evita sempre di menzionare Dio con il tetragramma sacro, cioè Jhwh ( Jahweh) (cfr. V, 5; VIII, 13-14 e note).

Organizzazione e idee fondamentali. Lo sviluppo del testo e la sua natura composita invitano alla prudenza allorché in base a questa Regola si vuole tracciare un quadro della comunità per la quale fu redatta e che su di essa modellò la propria vita e organizzazione. Occorre cioè evitare di vedere nella Regola una norma fissata una volta per sempre che, magari con qualche secondario ritocco, si sia mantenuta inalterata, e che quindi la comunità abbia sempre avuto un unico aspetto: questo, infatti, non corrisponde allo stato del testo. Il confronto tra il testo del presente rotolo e quello dei vari frammenti manifesta senza alcun dubbio la maggiore antichità di questi ultimi, ma, nel contempo, attesta che le trasformazioni sono sostanzialmente limitate alla disciplina e all’organizzazione senza alterare la dottrina fondamentale. Prima di essere ammessi nella comunità gli aspiranti dovevano trascorrere un periodo di iniziazione e di prova: in un primo tempo l’aspirante veniva introdotto nello spirito e nelle pratiche della setta ed era esaminata la sincerità e la decisione della sua volontà, la sua intelligenza e la sua condotta; al termine di questo periodo, dopo il parere favorevole dei «molti», veniva aggregato alla comunità ma in un modo solo parziale; l’aggregazione era completa, con la purificazione e la mensa comune, soltanto dopo un secondo periodo di prova e un secondo giudizio positivo (VI, 13b-23). Dopo il tempo di prova ogni aspirante era aggregato per mezzo di una cerimonia di iniziazione, accompagnata probabilmente da un rito purificatorio con l’acqua (cfr. III, 9), durante la quale si realizzava il suo ingresso nel patto: sacerdoti e leviti benedicevano prima il «Dio della salvezza», poi i sacerdoti narravano le gesta divine e i leviti i peccati di Israele; i candidati facevano confessione generica dei loro peccati, i sacerdoti rispondevano benedicendo quanti facevano parte «della sorte di Dio» e i leviti maledicevano «gli uomini della sorte di Belial» (I, 16-II, 10). A chi era entrato a fare parte pienamente della comunità veniva assegnato un posto nell’interno della graduatoria delle tre classi: sacerdoti, leviti, popolo, cioè laici; ognuna delle tre classi era a sua volta suddivisa in 108

gradi diversi secondo una graduatoria di qualità naturali e di merito (II, 20 segg.; V, 23 segg. e Filone, Quod omnis probus sit liber, 81). Ogni anno aveva luogo una riunione generale nella quale era discussa la situazione della comunità e a ogni membro era confermato, avanzato o tolto il posto fino allora occupato. Tutti i membri si obbligavano a separarsi dalla comunione con i peccatori, ad amare tutti i figli della luce e a odiare tutti i figli delle tenebre, a vivere nella comunità con «umiltà fruttuosa», fedeltà, «amore benigno» e costanza, a una rigorosa osservanza della legge mosaica (cfr. II, 23-24; V, 3-5), ad apportare il loro sapere, il loro lavoro e i loro beni nella comunità (cfr. I, 11-12; V, 1-2) a profitto di tutti (vedi anche i testi di Filone e Giuseppe Flavio citati nelle pp. 52 e segg.). L’idea della comunità e della subordinazione rappresentavano l’anima della setta: «l’inferiore obbedirà al superiore per quanto concerne il lavoro e il denaro; mangeranno in comune, benediranno in comune e delibereranno in comune» (VI, 2-3). Il celibato non è prescritto espressamente, ma appare sottinteso (vedi l’Introduzione al CD). Gran parte del tempo era riservato allo studio della legge mosaica e degli scritti sacri, o altri testi importanti per la comunità, «per conoscere le cose nascoste» (V, 11): in ogni gruppo di dieci «non mancherà un uomo che scruti la legge giorno e notte» (VI, 6-7a); un terzo di ogni notte «si doveva passare a leggere nel libro, a scrutare il diritto e a benedire in comune» (VI, 7b-8). Lo slancio verso il deserto, la separazione da tutti gli altri e la realizzazione dell’anelito del rinnovamento escatologico trovano rispettivamente il loro mezzo efficace nello studio della legge (VIII, 15). E i risultati di questo studio non dovevano essere svelati al di fuori della comunità, ma dovevano restare segreti (IV, 6; V, 11; VIII, 1-2 e 11; IX, 1316); dal modo con il quale è citata la scrittura, è evidente che si faceva uso tanto della interpretazione allegorica quanto della attualizzazione dei testi biblici (vedi l’Introduzione ai commentari). In accordo con il desiderio del compimento scrupoloso della legge, si insisteva sulla rigida osservanza delle purificazioni rituali come è attestato anche dal grande numero di cisterne trovate nella costruzione di Qumrân e da menzioni espresse (cfr. VII, 21); tuttavia ci si guardava bene dal dare a esse un valore magico (III, 4 e segg.; V, 3-6). I dati finora conosciuti non permettono, purtroppo, una precisa conoscenza dei riti di purificazione e delle abituali abluzioni degli esseni di Qumrân, né la distinzione tra i riti iniziatori dei nuovi membri e quelli abituali o annuali dei fedeli della comunità; anche dal grande numero di cisterne, al di là della necessità di conservare l’acqua necessaria per la vita 109

quotidiana, non si può trarre finora alcuna conclusione sicura per i riti purificatori (vedi pp. 20-21). La comunità costituiva la cornice naturale nella quale si svolgeva tutta l’attività dei membri (VI, 1 e segg.) e ogni assidua relazione con gli estranei era vietata (V, 13-14; IX, 6-7). La vita d’ogni giorno era scandita dal lavoro, dallo studio, dalla preghiera, con una chiara accentuazione comunitaria; un banchetto sacro, prefigurativo del banchetto escatologico, coronava probabilmente la giornata e manteneva alta la tensione spirituale verso il rinnovamento con la vittoria divina sul male, il trionfo dei buoni, cioè dei membri della comunità, e la eliminazione dei cattivi. I membri erano tutti ebrei che si consideravano come il vero Israele nel deserto (come l’Israele descritto nel libro di Numeri) e in via verso la terra promessa, eredi spirituali delle promesse a lui fatte, che solo in loro avevano la piena realizzazione. La Regola rivela una chiara tendenza spiritualizzatrice; la comunità è un tempio spirituale (VIII, 1 e segg.), per ottenere il perdono dei peccati è indispensabile il pentimento e una vita retta (III, 4-6; VIII, 3-4; IX, 5); si consideravano estranei al mondo presente (VI, 2) e la loro vita comunitaria nel deserto come una preparazione a una nuova vita (II, 24-25; III, 14-15; IV, 20-22; VIII, 4-6; XI, 7-9); perciò attendevano il giorno della divina vendetta (I, 11; II, 9 · 15; IV, 12; V, 12; IX, 23) allorché Dio avrebbe distrutto il mondo presente dominato dal male (I, 18; II, 19; IV, 25; VIII, 6-7); aspettavano perciò due messia (IX, 11) e si ritenevano «figli della luce» (I, 9; III, 13 · 25), «figli della giustizia» (III, 20 · 22; IX, 14), «figli della verità», «uomini di santità» (V, 18) «partecipi della sorte dei santi» (XI, 8). Consideravano se stessi congiunti ai «figli del cielo» (XI, 8) e la loro comunità destinata a divenire una «pianta eterna» (VIII, 5; XI, 8) e a godere della conoscenza dei segreti divini (XI, 5-7). Ma al di là di queste denominazioni non traspare quale fosse il nome proprio della comunità per la quale fu scritta la «Regola». La comunità aveva una palese impronta intellettualistica come traspare da molti passi e dal frequente uso del termine «intelligenza» (in ebr. da’at: cfr. I, 11; II, 3; III, 2; IV, 3-4.22; IX, 13 ecc.). La mensa in comune (VI, 4-5) tendeva probabilmente a prefigurare e anticipare la futura cena messianica (cfr. la Regola dell’assemblea) e in essa si può scorgere un carattere sacramentale (P. Wernberg-Møller, op. cit., p. 14). L’inno conclusivo parla della preghiera al sorgere, al tramontare del sole e in ben determinate festività, ma non è detto espressamente se trattavasi di una preghiera privata oppure comunitaria (X, 1-10). Ogni anno, nel giorno della Pentecoste, aveva luogo il rito del 110

rinnovamento del patto da parte di tutti i membri della comunità, che ripeteva quello avvenuto nel momento del primo ingresso dopo il periodo di probandato, con la ripetizione della generica confessione dei peccati e degli impegni fondamentali della vita comunitaria in conformità del volere divino (col. I-II). Patto questo che, richiamandosi ai profeti Geremia ed Ezechiele, intendeva fondarsi più sulla circoncisione del cuore che su quella della carne (cfr. V, 5 e Ger., 4, 4; 9, 24-25; 31, 31-34; Ez. cc. 18 e 23, e anche Deut., 10, 16); tenendo tacitamente presenti esempi di grande interesse nella storia biblica (dopo l’ingresso in Canaan, Deut., cc. 28-30 e Gios., 8, 32-35; c. 24; sotto il re Asa, 2 Cron., 15, 9-15, sotto Esdra, Neh., 8, 1-9; 9; 1-37) questa comunità si riteneva come il vero Israele. Nella Regola si legge uno dei testi più chiari ed essenziali sul dualismo e sulla predestinazione che guidavano lo spirito della gente di Qumrân (III, 13 - IV, 26): la predestinazione al bene o al male era considerata fatta da Dio in modo assoluto e immutabile; il dualismo, conseguenza della predestinazione, ha radici profonde nella valutazione semitica della condotta umana e in alcuni testi biblici (vedi gli studi citati nella Bibl.). L’organizzazione della comunità, anche nelle piccole unità, dipendeva dalla guida dei sacerdoti figli di Sadoc o di Aronne (V, 1-3.21; IX, 7); le autorità espressamente menzionate sono il mebaqqer e il paqîd, dopo di esse c’erano gli anziani, ma in specie per le mansioni amministrative il maśkîl, e il dôresh ha-tôrāh per le mansioni formative (cfr. III, 13; VI, 13; IX, 12.21 ecc.). Un codice disciplinare assai rigoroso puniva proporzionalmente ogni membro che mancava (VI, 24-VIII, 25). La Regola non menziona mai il «maestro di giustizia» (vedi 1QpHab). Tra i manoscritti di Qumrân quelli che sono più strettamente connessi con il rotolo della Regola, oltre 1QSa e 1QSb, sono il Commento ad Abacuc e il Documento di Damasco (per il libro dei Giubilei, vedi CD, XVI, 3). Particolare interesse hanno destato i punti di contatto con il libro dell’Ecclesiastico: come ad esempio l’insistenza sullo studio della legge mosaica, su certe virtù come l’umiltà, la pazienza, il controllo di sé, sulla maggiore importanza della sincera pietà rispetto agli atti cultuali e dei sacrifici rispetto all’osservanza della legge, sull’interesse per i sacerdoti discendenti di Sadoc, ecc. (cfr. P. Wernberg-Møller e gli articoli di I. Levi, J. Trinquet, P. Winter e J. Carmignac, citati nella Bibliografia). I contatti con l’Ecclesiastico3 posti in relazione al frammento ebraico di Qumrân identificato da M. Baillet (cfr. RB, 63, 1956, 54) e a quelli trovati da Y. Yadin (1965) negli scavi di Masada permettono di concludere che il testo 111

ebraico di quest’opera, noto a noi solo nella versione greca fino agli anni 1896-1897 (allorché furono trovati numerosi frammenti ebraici seguiti poi da altri) era ben conosciuto e ricopiato dagli esseni di Qumrân. Gli strettissimi contatti tra la Regola e il Documento di Damasco portano alla conclusione che questa opera, della quale a Qumrân, nella grotta quarta, furono individuati frammenti di almeno sette copie era quivi di casa come scrive R. de Vaux (L’archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961, p. 87): vedi appresso. Riferimenti più o meno palesi ai libri della Bibbia si incontrano un po’ ovunque, ma i testi citati espressamente sono assai scarsi; Es., 23, 7 in V, 15; Is., 2, 22 in V, 17; Is., 40, 3 in VIII, 14. La datazione della Regola si può collocare con una ben motivata fiducia verso l’ultimo periodo dei Maccabei a patto però di tenere presenti alcuni fatti. Prima di tutto, come osserva P. Wernberg-Møller (op. cit., pp. 17-18), le affinità tra il nostro testo e l’Ecclesiastico, il libro dei Giubilei, le parti più antiche del libro di Enoc e dei Testamenti dei dodici patriarchi che sono datati con buona approssimazione dal 180 circa a. C. al primo periodo maccabaico (167-160 a. C.) inducono a pensare a una data di poco posteriore. È ammesso generalmente che il Documento di Damasco è posteriore alla Regola e si può ragionevolmente datare nell’epoca di Aristobulo I (104-103 a. C.) o di Alessandro Janneo (103-76 a. C.); la Regola si può datare negli anni 150-140 a. C. Ma la sua composizione, si è visto, è complessa e non è quindi suscettibile di una datazione unica, occorre invece tenere conto di un periodo piuttosto ampio; comunque in nessuna parte è posteriore al 68 d. C. Si comprende come un’opera di questo genere che intende regolare la vita di una comunità abbia verosimilmente avuto un inizio puramente orale: ciò porta a credere che il «maestro di giustizia» non fu necessariamente l’iniziatore del movimento qumranico, né colui che per ultimo pose mano alla Regola; la sua personalità e la sua azione diedero verosimilmente gli aspetti e la forma fondamentale a un movimento già iniziato e in qualche modo caratterizzato. In conclusione, le parti più antiche della Regola possono essere sostanzialmente anteriori al «maestro di giustizia» il quale ne curò la fissazione scritta aggiungendo molte ulteriori determinazioni dettate dall’esperienza della vita comunitaria, dagli ideali prefissi e dalla sua profonda spiritualità. Non è probabile tuttavia che anche le parti più antiche risalgano direttamente a lui: assai più che un legislatore egli era un esegeta e un mistico (a lui direttamente si può senz’altro fare risalire, integralmente 112

o in gran parte l’inno finale); per le parti più recenti si può discendere fino ad Alessandro Janneo (103-76 a. C.) e alla di lui moglie Alessandra (76-67 a. C.). Si giunge così per una via diversa, alla stessa datazione che la paleografia assegna al nostro rotolo, e cioè il primo quarto del I secolo a. C.4 La Regola è dunque anteriore alla Regola della Guerra, a una parte degli Inni, ed è pressoché contemporanea al Commento ad Abacuc, al Florilegio, ai Testimonia, ecc. ed è anzi, forse, uno dei più antichi testi non biblici scoperti a Qumrân. Assai difficile distinguere quei passi che furono semplicemente assunti da più antiche tradizioni da quelli che rappresentano l’apporto proprio del movimento comunitario, nonché individuare le norme e i testi che contraddistinguono gli stadi dell’evoluzione storica della comunità (vedi Introduzione generale).

1. Cfr. D. BARTHÉLEMEY-J. T. M ILIK, Qumrân Cave 1, Oxford, 1955, p. 107. 2. Cfr. J. T. M ILIK, Ten Years…, pp. 37 e 80 e segg. 3. Cfr. ad es. Eccli., 6, 37; 24, 23-25 con 1QS V, 11; Eccli., 2, 1-3; 3, 17-19 con II, 2425; Eccli., 31 [34], 12-13 con VII, 13-15; Eccli., 34 [31], 18-20 con III, 10-11 e IX, 4-5; Eccli., 3, 19-21 con IV, 5-6 e X I, 3-5. 4. F. M. C ROSS, The Ancient Library…, p. 89.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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I [1] Per tutta la comunità e per tutti gli uomini affinché vivano secondo la regola della comunità cercando [2] Dio nei suoi statuti e giudizi e facendo ciò che è bene e retto dinanzi a lui, come [3] ha ordinato per mezzo di Mosè e per mezzo di tutti i suoi servi i profeti; affinché amino [4] quanto egli ha scelto e odino quanto egli ha respinto; affinché si tengano lungi da ogni male [5] e si applichino a tutte le opere buone; affinché pratichino [6] sulla terra la verità, la giustizia e il diritto; affinché non vivano più nella ostinazione del loro cuore colpevole e degli occhi adulteri, [7] commettendo ogni male; affinché introducano nel patto di grazia tutti coloro che sono volenterosi nell’adempimento degli statuti divini; [8] affinché si uniscano nel consiglio di Dio e camminino davanti a lui nella perfezione di tutte [9] le cose rivelate nei tempi stabiliti delle testimonianze per loro; affinché amino tutti i figli della luce, ognuno [10] secondo il posto che ha nel consiglio di Dio, e odino tutti i figli delle tenebre, secondo la colpevolezza che ha [11] di fronte alla vendetta di Dio. Tutti coloro che sono generosi verso la sua volontà, apportino tutto il loro sapere, il loro lavoro [12] e i loro beni nella comunità di Dio, affinché nella fedeltà agli statuti di Dio sia purificato il loro sapere, il loro lavoro sia regolato [13] nella perfezione delle sue vie, e i loro beni siano utilizzati secondo il disegno della sua giustizia; né venga trasgredita anche una sola [14] di tutte le parole di Dio nel tempo loro: non antecedendo e non ritardando [15] alcun tempo stabilito per loro, né deviando dagli statuti della sua verità, con l’andare a destra e a sinistra. [16] Tutti coloro che entrano nella regola della comunità passeranno nel patto dinanzi a Dio (impegnandosi) a compiere [17] tutto quello che egli ha ordinato, a non ritirarsi dalla sua sequela per alcun timore e terrore e prova [18] e tentazioni da parte di coloro che si trovano sotto l’impero di Belial. Mentre essi passano nel patto, i sacerdoti [19] e i leviti benedicano il Dio della salvezza per tutte le opere della sua verità, e tutti [20] coloro che passano nel patto rispondano: — Così sia, così sia! [21] I sacerdoti narrino la giustizia di Dio nelle opere della sua potenza, [22] proclamino tutte le benevolenze misericordiose verso Israele; e i leviti narrino [23] le iniquità dei figli di Israele, tutte le loro colpevoli trasgressioni e i loro peccati compiuti sotto l’impero di [24] Belial. Dopo di loro, tutti coloro che passano nel patto faranno la confessione, dicendo: — Siamo stati perversi, [25] ci siamo ribellati, abbiamo peccato, abbiamo agito iniquamente sia noi che i padri nostri prima di noi, poiché abbiamo camminato [26] nell’ingiustizia e non nella verità. Ma il Dio della salvezza compì il suo giudizio verso di noi e verso i padri nostri II [1] e da eternità in eternità elargisce sopra di noi le misericordie della 119

sua benevolenza. I sacerdoti benediranno tutti [2] gli uomini della sorte di Dio che camminano integralmente in tutte le sue vie, dicendo: — Ti benedica in ogni [3] bene e ti custodisca da ogni male. Illumini il tuo cuore con la salvezza della vita, ti usi misericordia accordandoti la conoscenza eterna, [4] e volga su di te benigno il suo volto per la pace eterna. I leviti malediranno tutti gli uomini [5] della sorte di Belial, e risponderanno dicendo: — Sii tu maledetto per tutte le tue opere cattive delle quali sei colpevole. Dio ti dia [6] il terrore per mezzo di tutti coloro che compiono la vendetta, e si accanisca a tua rovina per mezzo di tutti coloro che rendono eque [7] ricompense. Sii tu maledetto senza alcuna misericordia, in conformità delle tue opere tenebrose! Sii tu detestabile [8] nelle tenebre del fuoco eterno! Quando innalzi le tue grida, Dio non abbia misericordia di te, né ti perdoni cancellando le tue iniquità. [9] Volga su di te il suo volto adirato vendicandosi contro di te, né per te vi sia pace sulle labbra di tutti coloro che aderiscono (alla tradizione) dei padri! [10] Dopo coloro che benedicono e dopo coloro che maledicono, tutti quelli che passano nel patto, dicano: — Così sia, così sia! [11] I sacerdoti e i leviti proseguiranno dicendo: — Sia maledetto colui che passa con gli idoli del suo cuore, [12] colui che entra in questo patto ma pone innanzi a sé l’inciampo della sua iniquità, venendo poi meno a causa di essa. Se [13] udendo le parole di questo patto si consolerà in cuor suo pensando: «avrò pace, [14] anche se cammino nella ostinazione del mio cuore»; il suo spirito, sia esso assetato o abbeverato, perisca [15] senza remissione. La collera di Dio e lā vendetta dei suoi giudizi lo consumino in eterna rovina. Aderiscano a lui tutte [16] le maledizioni di questo patto! Dio lo separi per il suo danno, sia reciso di mezzo a tutti i figli della luce essendo venuto meno [17] alla sequela di Dio a causa della sua iniquità. Egli gli dia la sua sorte tra gli eterni maledetti! [18] E tutti coloro che entrano nel patto, rispondano dicendo: — Così sia, così sia. [19] Così si farà ogni anno fino a che prosegue l’impero di Belial. I sacerdoti passeranno in primo luogo [20] nella regola, in base (al grado di perfezione) dei loro spiriti, questo dopo di quello; i leviti passeranno dopo di loro; [21] in terzo luogo passerà nella regola tutto il popolo, questo dopo di quello, per le migliaia, le centinaia [22] le cinquantine e le decine affinché ogni uomo di Israele, ognuno della casa, conosca il suo posto nella comunità di Dio, [23] per il consiglio eterno. Di modo che nessuno della casa discenda al di sotto del suo posto né s’innalzi al di sopra della sua sorte, [24] tutti siano invece in comunione di fedeltà, di umiltà fruttuosa, di amore benigno 120

e di intenzione giusta, [25] ognuno verso il suo prossimo nel consiglio santo, quali figli dell’associazione eterna. Ma chiunque rifiuta di entrare [26] nel patto di Dio per camminare nell’ostinazione del suo cuore non passerà nella sua fedele comunità: giacché respinse [III, 1] la sua anima le istituzioni della conoscenza dei giusti giudizi, non ebbe la costanza di rinnovare la sua vita, e quindi non sarà annoverato tra le persone rette, [2] non apporterà il suo sapere, il suo lavoro e i suoi beni nel consiglio della comunità poiché in un sandalo malvagio è la sua macchinazione e contaminazioni [3] sono nel suo riposo. Non sarà giustificato fino a quando dissimula l’ostinazione del suo cuore e, tenebra, considera le vie della luce; tra i perfetti [4] non sarà annoverato; non sarà mondato con la espiazione; non sarà purificato con le acque lustrali: non sarà santificato con l’acqua del mare [5] e dei fiumi; non sarà purificato con alcuna acqua di abluzione. Immondo, immondo sarà per tutti i giorni del suo disprezzo verso i giudizi [6] di Dio rifiutando di correggersi nella comunità del suo consiglio. Giacché dallo spirito del vero consiglio di Dio sono espiate le vie dell’uomo, tutte [7] le sue iniquità, affinché possa contemplare la luce della vita; dallo spirito santo della comunità, dalla sua verità, è purificato da tutte [8] le sue iniquità; dallo spirito di rettitudine e di umiltà è espiato il suo peccato; nell’umiltà della sua anima verso tutti gli statuti di Dio è purificata [9] la sua carne, aspersa con acque lustrali e santificata con acque pure. Rinfranchi i suoi passi camminando in modo perfetto [10] in tutte le vie di Dio come ha ordinato nel tempo stabilito delle sue testimonianze, senza distogliersene a destra o a sinistra e senza [11] trasgredire neppure una di tutte le sue parole. Allora egli sarà accetto per mezzo di espiazioni gradevoli davanti a Dio, e ciò varrà per lui qual patto [12] della comunità eterna. [13] Per il saggio affinché istruisca e ammaestri tutti i figli della luce sulla storia di tutti i figli dell’uomo [14] su tutti i generi dei loro spiriti con i loro caratteri, secondo le loro opere, e sulle loro genealogie, sulla visita nella quale saranno colpiti e sul [15] tempo della loro retribuzione. Dal Dio sapientissimo procede tutto ciò che è e sarà: prima che essi siano egli stabilisce tutto il loro piano, [16] ed allorché esistono compiono le loro azioni in base a quanto è stato per essi determinato conformemente al piano della sua gloria, senza alcun mutamento. [17] Nella sua mano vi sono le norme per tutti ed è lui che li sostiene in tutti i loro bisogni, è lui che ha creato l’uomo per il dominio [18] sul mondo; e ha disposto per lui due spiriti affinché cammini con essi fino al tempo stabilito della sua visita. Questi sono gli spiriti [19] della verità e della ingiustizia. 121

In una sorgente di luce sono le origini della verità e da una fonte di tenebra le origini dell’ingiustizia. [20] In mano al principe delle luci è l’impero su tutti i figli della giustizia: essi camminano sulle vie della luce. Ed in mano all’angelo [21] della tenebra è tutto l’impero sui figli dell’ingiustizia: essi camminano sulle vie della tenebra. Dall’angelo della tenebra (derivano) le aberrazioni [22] di tutti i figli della giustizia, tutti i loro peccati, le loro iniquità, la loro colpa, e le loro azioni perverse sono l’effetto del suo impero [23] in conformità dei misteri di Dio fino al tempo da lui stabilito; tutti i loro flagelli e i periodi delle loro avversità sono sotto l’impero della sua ostilità; [24] e tutti gli spiriti della sua sorte sono intenti a fare incespicare i figli della luce. Ma il Dio di Israele e l’angelo della sua verità soccorrono tutti [25] i figli della luce. È lui che ha creato gli spiriti della luce e della tenebra e su di essi ha fondato ogni azione, [26] e sulle loro vie ogni servizio. IV Dio ama l’uno da tutta [1] l’eternità delle eternità e si compiace eternamente in tutte le sue azioni; l’altro l’ha in abominio e detesta per sempre la sua comunione e tutte le sue vie. [2] Nel mondo, queste sono le loro vie. (Lo spirito di verità) illumina il cuore dell’uomo, appiana davanti a lui tutte le vie della vera giustizia, infonde nel suo cuore il timore dei giudizi [3] di Dio, lo spirito di umiltà e longanimità, abbondante misericordia ed eterna bontà, prudenza e intelligenza, solida saggezza fiduciosa in tutte [4] le opere di Dio e basata sull’abbondanza della sua grazia. Spirito di conoscenza in ogni piano d’azione, zelo dei giudizi giusti, proposito [5] santo con un carattere deciso, grande misericordia verso tutti i figli di verità, una purezza splendente che detesti tutti gli idoli impuri, condotta modesta [6] con prudenza (in) tutto, e nascondere fedelmente i misteri della conoscenza: questi sono gli elementi fondamentali dello spirito per i figli della verità (che sono) nel mondo. La visita di tutti coloro che camminano in lui consiste nella salute, [7] nell’abbondanza di pace per lunghi giorni, posterità feconda insieme a tutte le benedizioni perpetue, gioia eterna nella vita continua, una corona gloriosa [8] con un abito magnifico nella luce eterna. [9] Ma lo spirito di ingiustizia è superbia, svogliatezza nel servizio della giustizia, empietà e menzogna, orgoglio ed esaltazione del cuore, simulazione e ignavia, violenza [10] e abbondante contaminazione, iracondia e abbondante follia, gelosia insolente, opere abominevoli in spirito adultero, vie impure al servizio della torpitudine [11] e lingua blasfema, cecità degli occhi e durezza di udito, collo rigido e gravezza di cuore, sicché cammina su tutte le vie delle tenebre e dell’astuzia malvagia. 122

La visita [12] di tutti coloro che camminano in lui consiste nell’abbondanza di flagelli per mano di tutti gli angeli di perdizione, distruzione eterna nella vampante collera del Dio delle vendette, terrore perpetuo, ignominia [13] continua e confusione sterminatrice nel fuoco di regioni tenebrose; tutti i loro tempi determinati nelle loro generazioni, saranno pianto triste e acerbo malanno in calamità tenebrose, fino [14] al loro sterminio senza che tra di essi vi sia alcun resto né scampato. [15] In questi (due spiriti) c’è la storia di tutti i figli dell’uomo, e in base alle loro categorie ereditano tutte le loro schiere nelle loro generazioni, camminano nelle loro vie e ogni azione [16] della loro attività, nelle loro categorie, è in relazione all’eredità di ognuno, poca o molta, per tutti i determinati tempi eterni. Dio, infatti, li ha disposti in parti uguali fino al termine [17] ultimo, ha posto odio eterno tra le (due) categorie: per la verità sono abominio le opere dell’ingiustizia, per l’ingiustizia sono abominio tutte le vie della verità. Un ardore [18] litigioso è in tutti i loro giudizi, giacché non camminano d’accordo. Ma Dio, negli arcani della sua intelligenza e nella sapienza della sua gloria, ha concesso un tempo determinato all’esistenza dell’ingiustizia: nel tempo stabilito [19] per la visita egli la sterminerà per sempre. Allora la verità apparirà per sempre nel mondo che si era contaminato sulle vie dell’empietà sotto l’impero dell’ingiustizia fino al [20] tempo stabilito, che fu assegnato per il giudizio. Con la sua vaglierà, Dio allora vagherà tutte le azioni dell’uomo e monderà alcuni figli dell’uomo eliminando ogni spirito di ingiustizia dalle viscere [21] della loro carne e purificandoli nello spirito santo da tutte le opere empie, aspergerà su di essi lo spirito di verità come acqua lustrale (a purificazione) da ogni abominio menzognero (nel quale) si erano contaminati [22] a opera dello spirito impuro. Così ammaestrerà i giusti nella conoscenza dell’Altissimo e insegnerà la sapienza dei figli del cielo, la cui via è perfetta. Poiché Dio li ha scelti per un patto eterno, [23] e sarà loro tutta la gloria di Adamo. Non vi sarà più ingiustizia, ogni opera fallace diverrà una vergogna. Fino ad ora si contendono gli spiriti di verità e di ingiustizia: nel cuore dell’uomo [24] camminano con la saggezza e con la stoltezza. In proporzione dell’eredità di verità e di giustizia che ha avuto, l’uomo odia l’ingiustizia; e in proporzione della parte d’ingiustizia avuta in sorte, a opera di essa agisce iniquamente e così [25] ha in abominio la verità. Poiché è in uguale misura che Dio li ha posti fino al tempo assegnato e alla nuova creazione. Egli conosce l’attività delle loro opere in tutti i tempi determinati, [26] i tempi stabiliti per essi, e li ha dati in eredità ai figli dell’uomo affinché conoscano il bene e il male. Egli assegnò la sorte a ogni 123

vivente affinché viva in conformità dello spirito che è in lui, fino al tempo della visita. V [1] Questa è la regola per gli uomini della comunità che sono generosi nella conversione da ogni male, nel rimanere saldamente in tutto ciò che egli ha prescritto secondo il suo beneplacito e nella separazione dall’assemblea [2] degli uomini ingiusti per costituire una comunità (nello studio) della legge e nei beni, sottomessi al parere dei figli di Sadoc, i sacerdoti che osservano il patto, e al parere della maggioranza degli uomini [3] della comunità che stanno saldi nel patto. Dal loro parere dipenderà la determinazione della sorte riguardo a ogni cosa: dallo studio della legge, ai beni, al diritto, affinché sia praticata la verità, l’unione, l’umiltà, [4] la giustizia, il diritto, l’amore benevolo, la condotta umile in tutte le loro vie, e nessuno cammini nell’ostinazione del suo cuore, smarrendosi dietro il suo cuore, [5] dietro i suoi occhi e l’inclinazione del suo istinto. Al contrario, nella comunità, circoncideranno il prepuzio dell’istinto e l’inflessibilità del collo ponendo un fondamento di verità per Israele, per la comunità del patto [6] eterno, facendo espiazione per tutti coloro che sono generosi verso la santità (che si trova) in Aronne, verso la casa della verità (che si trova) in Israele, e verso coloro che aderiscono ad essi nella comunità. Nella controversia e nel giudizio [7] condanneranno tutti coloro che trasgrediscono uno statuto. Questa è la norma delle loro vie su tutti questi statuti allorché aderiscono alla comunità: chiunque entra nel consiglio della comunità, [8] entra nel patto di Dio sotto gli occhi di tutti i generosi e con giuramento obbligatorio s’impegna sulla sua vita a convertirsi alla legge di Mosè, secondo tutto ciò che egli ha prescritto, con tutto [9] il cuore e con tutta l’anima, in base a tutto quanto di essa è stato rivelato ai figli di Sadoc, i sacerdoti, che osservano il patto e indagano il suo beneplacito, e in base alla maggioranza degli uomini del loro patto, [10] che sono concordemente generosi verso la sua verità camminando nel suo beneplacito. Colui che, sulla sua vita, si impegna nel patto deve separarsi da tutti gli uomini dell’ingiustizia, da coloro che camminano [11] sulla via dell’empietà. Costoro, infatti, non saranno annoverati nel suo patto, poiché non hanno anelato ai suoi statuti né li hanno indagati per conoscere le cose nascoste, nelle quali si erano smarriti [12] colpevolmente, e hanno agito con mano alzata verso le cose rivelate, suscitando così l’ira per il giudizio, portando a compimento la vendetta per mezzo delle maledizioni del patto e attirando su di se stessi condanne [13] grandi di sterminio eterno, senza alcun resto! (Costui) non entri nelle acque per accedere alla purificazione degli 124

uomini di santità, poiché non saranno puri [14] se non coloro che si convertono dalla loro malizia: sono infatti interamente impuri i trasgressori della sua parola! Nessuno si associ a lui nel suo servizio e nei suoi beni affinché non gli faccia portare [15] l’iniquità della (sua) colpa; ci si tenga invece lontano da lui in ogni cosa, poiché così sta scritto: «Da una cosa menzognera ti terrai lontano». E nessuno degli uomini [16] della comunità risponderà qualora venga da loro interrogato su una qualsiasi legge e giudizio. Nessuno mangi o beva dei loro beni, né prenda assolutamente alcunché dalle loro mani [17] senza pagarne il prezzo, secondo quanto sta scritto: «Tenetevi lontani dall’uomo che respira con le narici; poiché qual è il suo pregio?». Infatti [18] tutti coloro che non sono stati annoverati nel suo patto saranno separati e così tutto ciò che appartiene loro. Un uomo di santità non si appoggerà su alcuna opera [19] vana. È infatti vano chiunque non conosce il suo patto; tutti coloro che vilipendono la sua parola saranno eliminati dal mondo; tutte le loro opere diverranno una contaminazione [20] davanti a lui, impurità tutti i loro beni. Quando uno entra nel patto per agire in conformità di tutti questi statuti e per unirsi all’assemblea santa, esamineranno [21] il suo spirito nella comunità (distinguendo) l’uno dall’altro in base all’intelligenza e alle opere nella legge, secondo il parere dei figli di Aronne, che nella comunità sono generosi nel mantenere [22] il suo patto e nel porre mente a tutti i suoi statuti che ha ordinato di eseguire, e secondo il parere della maggioranza di Israele, di coloro cioè che, nella comunità, sono generosi a convertirsi al suo patto. [23] Si iscriveranno nella regola l’uno prima dell’altro in base all’intelligenza e alle opere, affinché tutti obbediscano l’uno all’altro, l’inferiore al superiore. Esamineranno [24] di anno in anno il loro spirito e le loro opere promuovendo ognuno in base alla sua intelligenza e alla perfezione della sua via, o retrocedendolo in base alle sue mancanze. Si ammoniranno [25] l’un l’altro con verità, umiltà, e amore benevolo verso ognuno. Nessuno parli al suo fratello con ira, con brontolamenti, [26] col collo inflessibile o con cuore duro o con spirito malvagio. Non lo deve odiare nell’incirconcisione del suo cuore, bensì nello stesso giorno lo riprenda, e così non [VI, 1] addosserà su di sé una colpa, per causa sua. Inoltre nessuno introduca una causa contro il suo prossimo davanti ai molti se prima non v’è stata una riprensione davanti a testimoni. Su queste (norme) [2] cammineranno in tutti i loro soggiorni, a proposito di ogni cosa che accade in relazione al loro prossimo: l’inferiore obbedirà al superiore per quanto concerne il lavoro e il denaro; mangeranno in comune, 125

[3] benediranno in comune e delibereranno in comune. In ogni luogo in cui saranno dieci uomini del consiglio della comunità, tra di essi non mancherà [4] un sacerdote: si siederanno davanti a lui, ognuno secondo il proprio grado, e così (nello stesso ordine) sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce [5] per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce (per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce). [6] Nel luogo in cui vi saranno dieci non mancherà un uomo che scruti la legge giorno e notte, [7] costantemente, allo scopo di migliorare il suo prossimo. I molti veglieranno in comune un terzo di ogni notte dell’anno a leggere nel libro, a scrutare il diritto [8] e a benedire in comune. Questa è la regola per la seduta dei molti, ognuno secondo il proprio grado. Per primi siederanno i sacerdoti, poi gli anziani, indi il resto [9] di tutto il popolo che siederà ognuno secondo il proprio grado; e in quest’ordine saranno interrogati per il diritto, per ogni consiglio e per ogni cosa che sarà deferita ai molti, affinché ognuno apporti il suo sapere [10] al consiglio della comunità. Nessuno parli in mezzo alle parole del suo prossimo, prima cioè che il suo fratello abbia finito di parlare. Inoltre nessuno parli prima del suo grado, prima di colui che è scritto [11] avanti a lui. Chi è interrogato, parli al suo turno. Nella seduta dei molti nessuno proferisca alcuna parola senza il gradimento dei molti. Allorché l’uomo [12] che fa da ispettore dei molti, o chiunque altro che ha qualcosa da dire ai molti, ma non appartiene al posto dell’uomo che interroga il consiglio [13] della comunità, quest’uomo starà diritto sui suoi piedi e dirà: «Io ho una cosa da dire ai molti». Se essi gli diranno («parla!») egli parlerà. Ognuno che da Israele (si mostrerà) volenteroso [14] di aggregarsi al consiglio della comunità, costui sarà esaminato da colui che presiede, da colui che è alla testa dei molti, in merito alla sua intelligenza e alle sue azioni: se è capace di disciplina l’introdurrà [15] nel patto affinché si converta alla verità e si allontani da ogni ingiustizia, e poi l’istruirà in tutti i giudizi della comunità. In seguito, allorché verrà a presentarsi davanti ai molti, saranno interrogati [16] tutti sul suo caso; e in conformità della sorte che uscirà dal consiglio dei molti, egli sarà fatto avvicinare o allontanare. Allorché è fatto avvicinare al consiglio della comunità non avrà accesso alla purificazione [17] dei molti fino a quando non l’avranno esaminato sul suo spirito e sulle sue azioni per la durata di un intero anno; né potrà partecipare ai beni dei molti. 126

[18] Ma quando avrà compiuto un anno in mezzo alla comunità, i molti saranno interrogati sul suo caso, sulla sua intelligenza e sulle sue azioni nella legge: e se gli uscirà la sorte [19] favorevole affinché sia avvicinato al convegno della comunità, secondo il parere dei sacerdoti e della maggioranza degli uomini del loro patto, faranno avvicinare anche i suoi beni e il suo lavoro alla mano di colui [20] che è ispettore sul lavoro dei molti, ma glieli scriveranno in credito sul suo conto e non saranno spesi a profitto dei molti. Non si accosterà alla bevanda dei molti fino a quando non [21] avrà compiuto il suo secondo anno in mezzo agli uomini della comunità. Al compimento del suo secondo anno lo vaglieranno in base al parere dei molti: se gli uscirà [22] la sorte favorevole affinché sia avvicinato alla comunità, lo scriveranno nella regola in conformità del suo grado in mezzo ai suoi fratelli per la legge, il giudizio, la purificazione e la messa in comune dei suoi beni. Il suo parere [23] e il suo giudizio apparterranno alla comunità. [24] Questi sono i giudizi con i quali giudicheranno nell’esame comunitario in base alle parole. Se tra di loro si trova un uomo che mente [25] a proposito dei beni, ed egli ne è conscio, lo escluderanno di mezzo alla purificazione dei molti per un anno e sarà privato di un quarto del suo pane. Chi risponde [26] al suo prossimo con collo rigido o gli parla con collera impaziente spezzando il fondamento della comunione con lui, o (si comporta) con insubordinazione verso un ordine del suo prossimo scritto prima di lui, [27] o si fa giustizia da sé, costui sarà punito per un anno con l’esclusione dalla comunità. Chi menziona qualcosa nel nome venerato al di sopra di ogni… VII [1] Se uno maledice sia per paura di una calamità che per qualsiasi ragione personale mentre sta leggendo il libro o benedicendo, lo escluderanno [2] e non farà più ritorno al consiglio della comunità. Se uno parla con collera contro uno dei sacerdoti scritti nel libro, sarà punito [3] per un anno ed escluso per la sua anima dalla purificazione dei molti; ma se avrà parlato per inavvertenza, sarà punito per sei mesi. Chi mentisce coscientemente, [4] sarà punito con sei mesi. L’uomo che senza motivo oltraggia coscientemente il suo prossimo, sarà punito per un anno, [5] ed escluso. Chi parla al suo prossimo con arroganza o compie coscientemente una frode, sarà punito per sei mesi. Se uno è negligente [6] verso il suo prossimo sarà punito per tre mesi. Se uno è negligente verso i beni della comunità rovinandoli, li risarcirà 127

[7] integralmente; [8] se la sua mano non arriva al risarcimento sarà punito per sessanta giorni. Chi, senza motivo, mantiene rancore verso il suo prossimo, sarà punito per sei mesi. Per un anno. [9] Così sarà per colui che si vendica, di suo arbitrio, qualunque sia l’argomento. Chi di sua bocca proferisce una parola insensata, avrà tre mesi. A colui che parla in mezzo alle parole di un altro (saranno inflitti), [10] dieci giorni. Chi si stende e dorme durante la sessione dei molti, avrà trenta giorni. Così pure l’uomo che si assenta durante la sessione dei molti, [11] senza permesso, o che si addormenta fino a tre volte nel corso di una sessione, sarà punito con dieci giorni; ma se lo si fa alzare [12] ed egli si allontana, sarà punito per trenta giorni. Chi cammina nudo davanti al suo prossimo, senza essere malato, sarà punito per sei mesi. [13] L’uomo che sputa nel mezzo di una sessione dei molti, sarà punito per trenta giorni. Chi fa uscire la sua mano di sotto il suo vestito o esso [14] è stracciato ed appare la sua nudità, sarà punito per trenta giorni. Chi riderà scioccamente facendo udire la sua voce, sarà punito per trenta [15] giorni. Chi fa uscire la sua mano sinistra per appoggiarsi su di essa, sarà punito per dieci giorni. L’uomo che va calunniando il suo prossimo, [16] sarà escluso per un anno dalla purificazione dei molti e sarà punito. L’uomo che va calunniando i molti, sarà cacciato lungi da essi [17] e non ritornerà mai più. L’uomo che mormora contro il fondamento della comunità, sarà mandato via e non ritornerà più. Se uno mormora contro il suo prossimo, [18] senza alcun motivo, sarà punito per sei mesi. L’uomo il cui spirito vacilla davanti al fondamento della comunità fino a tradire la verità [19] e camminare nell’ostinazione del suo cuore, se si converte sarà punito per tre anni: durante il primo non si appresserà alla purificazione dei molti, [20] durante il secondo non si appresserà alla bevanda dei molti, siederà inoltre dopo tutti gli uomini della comunità; al compimento [21] dei suoi due anni, giorno per giorno, i molti saranno interrogati sulle cose sue: se lo faranno avvicinare, sarà scritto nel suo grado e dopo sarà (nuovamente) interrogato sul diritto. [22] Ogni uomo, il cui spirito, dopo avere compiuto dieci anni nel consiglio della comunità, [23] se ne torna indietro, tradendo la comunità, ed esce dalla presenza [24] dei molti per camminare nella ostinazione del suo 128

cuore, non ritornerà mai più nel consiglio della comunità. Se uno degli uomini della comunità solidarizza [25] con lui nella sua purificazione o nei suoi beni, che egli aveva posto con i beni dei molti, la sua sentenza sarà uguale: costui sarà mandato via. VIII [1] Nel consiglio della comunità ci saranno dodici uomini e tre sacerdoti perfetti in ogni cosa manifestata da tutta [2] la legge, per praticare la verità, la giustizia, il giudizio, l’amore benigno e un camminare modesto, ognuno verso il suo prossimo, [3] per custodire sulla terra la fede con carattere deciso e spirito contrito per scontare l’iniquità praticando il giudizio [4] e (sopportando) le angustie del crogiolo, e per camminare con tutti secondo la misura della verità e secondo la norma del tempo. Quando in Israele si realizzerà questo, [5] allora il consiglio della comunità sarà ben stabilito nella verità quale pianta di eternità, casa santa per Israele e convegno del santo [6] dei santi per Aronne: essi sono i testimoni di verità per il giudizio e gli eletti del suo beneplacito, per espiare la terra e dare [7] agli empi la loro retribuzione. Questo è il muro provato, la pietra d’angolo inestimabile! Non [8] vacilleranno le sue fondamenta né saranno mosse dal loro posto. È un’abitazione del santo dei santi [9] per Aronne nella conoscenza di tutti loro, per un patto di giustizia e per offrire un profumo gradevole, e una casa di perfezione e di verità in Israele, [10] per stabilire il patto secondo gli statuti eterni. E saranno graditi per compiere l’espiazione della terra e per accelerare il giudizio sull’empietà, affinché non vi sia più alcuna ingiustizia. Quando questi saranno rassodati sulle fondamenta della comunità per due anni, giorno per giorno sulla via perfetta, [11] saranno separati, come una cosa sacra, in mezzo al consiglio degli uomini della comunità, e ogni cosa che era nascosta ad Israele, ma fu trovata dall’uomo [12] che ha indagato, non sia loro nascosta per timore dello spirito di apostasia. Quando in Israele si realizzeranno queste cose per la comunità, [13] in base a queste norme saranno separati di mezzo al soggiorno degli uomini dell’ingiustizia per andare nel deserto a prepararvi la via di lui, [14] come sta scritto: «Nel deserto, preparate la via …. appianate nella steppa una strada per il nostro Dio». [15] Questa (via) è appunto lo studio della legge che egli ha promulgato per mezzo di Mosè affinché si compia tutto ciò che è stato rivelato di tempo in tempo, [16] come hanno rivelato i profeti per mezzo del suo spirito santo.

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Regola dell’assemblea (1Q S a I, 1-29).

Tipico esempio di un manoscritto in complesso ben conservato e nel quale la ricostruzione ipotetica dei tratti difettosi non nuoce alla comprensione. Perfettamente leggibile all’inizio: wezek ha-serek lekôl ’ădat Jsrāēl…

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(Da Discoveries in the Judaean Desert, I. Qumran Cave 1, by D. Barthélemy, J. T. Milik…, Oxford, At the Clarendon Press, 1955, Pl. XXIII).

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Ognuno degli uomini della comunità, del patto [17] della comunità, che con mano alzata vien meno ad una qualsiasi prescrizione, non si accosterà alla purificazione degli uomini di santità, [18] né sarà portato a conoscenza di alcuno dei loro consigli fino a quando le sue azioni non saranno purificate da ogni ingiustizia per camminare su di una via perfetta. Allora lo avvicineranno [19] al consiglio, secondo il giudizio dei molti, e poi sarà scritto nel suo grado. Questa prescrizione sarà seguita per ognuno che viene aggregato alla comunità. [20] Queste sono le prescrizioni secondo le quali cammineranno gli uomini di perfetta santità, ognuno verso il suo prossimo [21]: Tutti coloro che entrano nel consiglio della santità, coloro che camminano sulla via della perfezione secondo ciò che egli ha prescritto. Ognuno di costoro [22] se trasgredirà una parola della legge di Mosè con mano alzata o per negligenza, lo manderanno via dal consiglio della comunità [23] e non tornerà mai più; e nessuno degli uomini di santità sarà solidale con i suoi beni o con il suo consiglio, in qualsiasi [24] occasione. Ma se avrà agito per inavvertenza, sarà separato dalla purificazione e dal consiglio, poi esamineranno la decisione; [25] egli non giudicherà alcuno e non gli sarà domandato il parere su alcun argomento per due anni, giorno per giorno. (Si esaminerà) se la sua via è perfetta, [26] nella sessione, nello studio e nel consiglio, secondo il parere dei molti, se non ha più mancato per inavvertenza fino al compimento dei suoi due anni, [27] giorno per giorno. IX [1] Giacché per inavvertenza uno è punito per due anni; ma se uno agisce con mano alzata, non ritornerà mai più. Soltanto colui che manca per inavvertenza, [2] sarà messo alla prova per due anni, giorno per giorno, quanto alla perfezione della sua via e del suo consiglio, secondo il parere dei molti, e dopo sarà scritto nel suo grado nella comunità santa. [3] Quando in Israele si realizzeranno queste cose secondo tutte le disposizioni, fondando lo spirito di santità e la verità [4] eterna, espiando la ribellione colpevole e l’infedeltà peccaminosa, attirando il beneplacito (di Dio) sulla terra più che la carne degli olocausti e del grasso dei sacrifici; quando il tributo [5] delle labbra, secondo la disposizione, sarà come un gradito odore di giustizia e la sua via perfetta sarà come l’offerta spontanea di una gradevole oblazione; in quel tempo gli uomini della comunità separeranno [6] una casa di santità per Aronne affinché sia congiunta al santo dei santi, e una casa della comunità per Israele, per coloro cioè che camminano nella perfezione. [7] In fatto di giudizio e di beni, comanderanno soltanto i figli di Aronne: dal loro parere dipenderà la sorte per tutti gli uomini della comunità, [8] e i beni degli uomini di santità che camminano nella perfezione. I loro beni 132

non saranno posti insieme ai beni degli uomini dell’inganno, che [9] non hanno purificato la loro via separandosi dall’ingiustizia e camminando sulla via perfetta. Non usciranno da alcun consiglio della legge per camminare [10] nell’ostinazione del loro cuore, saranno invece retti in base alle prime disposizioni nelle quali incominciarono ad essere formati gli uomini della comunità, [11] fino alla venuta del profeta e dei messia di Aronne e di Israele. [12] Questi sono gli statuti per il saggio affinché cammini in essi con ogni vivente secondo la norma propria di ogni tempo e il peso di ogni uomo: [13] per compiere il beneplacito di Dio secondo tutto ciò che è stato rivelato di tempo in tempo e per imparare ogni saggezza trovata in relazione ai tempi, e [14] lo statuto del tempo; per separare e pesare i figli della giustizia in base ai loro spiriti e per aderire fortemente agli eletti del tempo e secondo [15] il suo beneplacito, come ha ordinato; per fare su di ognuno il suo giudizio secondo il suo spirito; per accogliere ognuno secondo la purezza del palmo delle sue mani, [16] e per farlo avanzare in base alla sua intelligenza. Così (manifesterà) tanto il suo amore quanto il suo odio. Non riprenda gli uomini della fossa né disputi con essi; [17] tra gli uomini dell’ingiustizia nasconda il consiglio della legge; riprenda invece con vera sapienza, e con un giudizio giusto coloro che scelgono [18] la via, ognuno secondo il suo spirito, secondo la disposizione del tempo, guidandoli con sapienza; e in tal modo li istruisca nei misteri meravigliosi e veridici in mezzo [19] agli uomini della comunità affinché camminino nella perfezione, ognuno con il suo prossimo, in tutto ciò che è stato loro rivelato. Questo è il tempo di preparare la via [20] verso il deserto, di istruirli in tutto ciò che è stato trovato da compiere in questo tempo, e di separarsi da ogni uomo che non ha distolto la propria via [21] da qualsiasi ingiustizia. Queste sono le norme della via per il saggio, in questi tempi, tanto per il suo amore quanto per il suo odio. Odio eterno [22] verso gli uomini della fossa, nello spirito del segreto, abbandonando loro i beni e le entrate delle loro mani, come (fa) un servo verso il suo padrone (dimostrando), umiltà davanti [23] a colui che lo comanda. Sarà una persona piena di zelo per lo statuto e per il suo tempo, per il giorno della vendetta e per compiere il beneplacito (di Dio) in ogni opera delle sue mani [24] e in ogni sua attività, come egli ha ordinato; troverà spontaneamente la sua compiacenza in tutto ciò che è fatto (da Dio) e non desidererà altro all’infuori del peneplacito divino; [25] si compiacerà in tutte le parole della sua bocca, non bramerà nulla che non sia da lui ordinato, e rifletterà continuamente sul giudizio di Dio. [26] Nella afflizione e nel bisogno benedirà il suo fattore ed in ogni evenienza 133

celebrerà le sue gesta; lo benedirà con il tributo delle sue labbra, [X, 1] in conformità dei tempi stabiliti da lui.

All’inizio della dominazione della luce, durante il suo giro, e allorché si ritira nel soggiorno assegnatole, all’inizio [2] delle veglie delle tenebre, quando egli apre il suo tesoro e lo pone sulla terra, e nel loro giro, allorché si ritirano davanti alla luce, quando risplendono [3] i luminari uscendo dall’eccelsa dimora di santità, allorché convergono verso il soggiorno di gloria; all’ingresso dei tempi stabiliti per i giorni della luna nuova, unitamente al loro giro, durante [4] la loro successione da questo a quello; allorché si rinnovano sarà un gran giorno per il santo dei santi e un segno per l’apertura delle sue eterne benevolenze; agli inizi [5] dei tempi stabiliti, in ogni momento determinato; all’inizio dei mesi con i loro tempi stabiliti e i giorni santi nel loro ordine. Qual memoriale nei loro tempi stabiliti [6] (qual) tributo delle labbra, voglio benedirlo secondo lo statuto scolpito per sempre. All’inizio degli anni e nel giro dei loro tempi stabiliti, quando giunge a compimento lo statuto [7] del loro ordine, nel giorno da lui determinato per questo e per quello: al tempo stabilito per la mietitura nell’estate, al tempo stabilito per la semina nell’epoca dell’erba verde, ai tempi stabiliti per gli anni nelle loro settimane (di anni) [8] e, in principio delle loro settimane (di anni), al tempo stabilito per la liberazione. Durante tutta la mia esistenza 134

uno statuto è scolpito sulla mia lingua: qual frutto di lode e compito delle mie labbra, [9] voglio cantare con sapienza! Tutto il mio canto sarà per la gloria di Dio, la mia lira e la mia arpa saranno per il suo santo ordinamento, e il flauto delle mie labbra sarà la voce dei suoi giudizi. [10] All’ingresso del giorno e della notte voglio entrare nel patto di Dio e all’uscita della sera e del mattino, pronunciare i suoi statuti e ovunque si trovano porrò [11] la mia sede senza ritorno. Ritengo il suo giudizio conforme alle mie iniquità, e la mia iniquità è davanti ai miei occhi, come uno statuto scolpito.

A Dio dico: «Mia giustizia!» [12] e all’Altissimo: «Sostegno del mio-bene, fonte della conoscenza e sorgente della santità, gloria sublime e onnipotenza con una maestà eterna!» Scelgo ciò che [13] mi insegna e mi compiaccio di come mi giudica. All’inizio di un’impresa delle mie mani e dei miei piedi benedico il tuo nome. All’inizio dell’uscita e dell’entrata, [14] quando mi siedo e quando mi alzo e quando giaccio sul mio letto, voglio gioire per lui e benedirlo: un tributo esce dalle mie labbra, dalla fila degli uomini. [15] E prima d’innalzare la mia mano per saziarmi con i deliziosi prodotti del mondo, all’inizio del timore e del terrore, 135

nel luogo dell’angustia e della desolazione, [16] lo benedirò per le sue straordinarie meraviglie, mediterò sulla sua potenza, e sulle sue benignità mi appoggerò tutto il giorno. Testifico, infatti, che nella sua mano vi è il giudizio [17] su ogni vivente e che tutte le sue azioni sono verità. Ugualmente lo loderò allorché si manifesterà l’angustia, e gioirò nella sua salvezza. A nessuno restituirò la ricompensa [18] del male, ma perseguirò l’uomo con il bene; giacché è a Dio che spetta il giudizio su ogni vivente ed egli ripagherà ognuno con la sua ricompensa. Non sono geloso con spirito [19] maligno e la mia anima non anela le ricchezze della violenza. Della moltitudine degli uomini della fossa non mi interesso fino al giorno della vendetta, ma la mia collera non [20] distolgo dagli uomini dell’ingiustizia e non sono soddisfatto fino a quando avrà stabilito il giudizio. Non conservo rancore verso i convertiti dall’empietà, ma non ho misericordia [21] verso tutti coloro che si discostano dalla via e non consolo i colpiti fino a quando la loro via non è perfetta. Non custodisco Belial nel mio cuore e dalla mia bocca non si odono [22] oscenità. Inganno colpevole, falsità e menzogne non si trovano sulle mie labbra; ma frutto di santità è sulla mia lingua, e abominazioni [23] non si trovano su di essa. Con lodi apro la mia bocca e la mia lingua narra costantemente le giustizie di Dio e l’infedeltà degli uomini fino al colmo 136

[24] della loro trasgressione. Respingo dalle mie labbra le parole vuote, le impurità e perfidie dalla conoscenza del mio cuore. Con un consiglio accorto nascondo la conoscenza, [25] e con astuta conoscenza la circondo di una siepe (come) solida frontiera per custodire la fedeltà e un robusto giudizio verso la giustizia di Dio. Suddivido [26] lo statuto secondo la misura dei tempi, …giustizia, amore benigno verso gli scoraggiati e mani forti verso quelli dal cuore timido, per insegnare [XI, 1] l’intelligenza agli spiriti smarriti, per rendere saggi coloro che mormorano contro la dottrina, per rispondere umilmente al cospetto di quanti hanno spirito superbo, e con uno spirito contrito agli uomini [2] del bastone, che puntano il dito e pronunciano parole vuote e possiedono dei beni.

Quanto a me, infatti, il mio giudizio è presso Dio e nella sua mano è la perfezione della mia via; con lui è la rettitudine del mio cuore, [3] e nelle sue giustizie cancella la mia trasgressione. Giacché dalla fonte della sua conoscenza scaturì la sua luce, sicché il mio occhio contemplò le sue meraviglie, e la luce del mio cuore (penetrò) nel mistero [4] del futuro e del presente per sempre. Il sostegno della mia destra è su di una solida rupe; la via dei miei passi, non vacillerà davanti a nulla. Giacché proprio la verità di Dio è [5] la rupe dei miei passi, e la sua potenza è il sostegno della mia destra. 137

Dalla fonte della sua giustizia derivano giudizi di luce nel mio cuore; dai suoi meravigliosi misteri sul presente eterno [6] il mio occhio contempla una saggezza nascosta all’uomo, scienza e pensieri prudenti (celati) ai figli di Adamo, una fonte di giustizia e un serbatoio [7] di potenza, sorgente di gloria (nascosta) al consiglio della carne. A quelli che ha scelto Dio ha dato una possessione eterna, li ha resi partecipi della sorte [8] dei santi, con i figli del cielo ha congiunto il loro convegno al consiglio della comunità; e il convegno dell’edificio santo è una pianta eterna per tutto [9] il futuro tempo determinato.

Ma io (appartengo) all’empio Adamo al consiglio della carne di ingiustizia! Le mie iniquità le mie trasgressioni, i miei peccati, [10] con le perversioni del mio cuore, (mi associano) al consiglio dei vermi, e di coloro che camminano nelle tenebre. Giacché Adamo (non è padrone) della sua via e un uomo non può stabilizzare il suo incedere; il giudizio, infatti, spetta a Dio e nella sua mano [11] è la perfezione della via. Dalla sua scienza tutto deriva, egli stabilizza ogni essere secondo il suo piano e nulla accade senza di lui. Quanto a me, se [12] vacillo le benevolenze di Dio sono la mia salvezza per sempre; e se inciampo a causa dell’iniquità della carne, il mio giudizio è nella giustizia di Dio (e vi) resterà continuamente. [13] Se scaturisce la mia angustia, 138

egli estrarrà dalla fossa la mia anima e stabilizzerà i miei passi sulla via. Mi ha fatto avvicinare per mezzo delle sue misericordie e con le sue benevolenze egli introdurrà [14] il mio giudizio. Con la giustizia della sua verità egli mi ha giudicato, con l’abbondanza della sua bontà espierà tutte le mie iniquità [15] e nella sua giustizia mi purificherà dalle impurità umane e (dal) peccato dei figli di Adamo, per lodare Dio per la sua giustizia e l’Altissimo per la sua maestà. Sii tu benedetto, o mio Dio, che hai aperto alla conoscenza [16] il cuore del tuo servo! Stabilizza nella giustizia tutte le sue azioni e concedi al figlio della tua verità, come è tuo beneplacito per gli eletti di Adamo, di presentarsi [17] davanti a te per sempre. Poiché senza di te non c’è via perfetta e senza il tuo beneplacito non accade nulla. Sei tu che hai insegnato [18] ogni conoscenza e tutto ciò che sarà fu nel tuo beneplacito. All’infuori di te non c’è alcun altro al quale tu abbia da rispondere sul tuo consiglio, che comprenda [19] tutto il tuo santo disegno, che contempli la profondità dei tuoi misteri e penetri tutte le tue meraviglie con la forza [20] della tua potenza. Chi può afferrare la tua gloria? E che cos’è poi un figlio di Adamo tra le tue opere meravigliose? [21] Colui che è nato da donna come potrà abitare al tuo cospetto? 139

Di polvere è il suo tessuto, cibo di vermi è la sua abitazione! Egli è un muro difensivo [22] di argilla compressa e verso la polvere è il suo ardente desiderio! Che risponderà l’argilla, ciò che fu plasmato da una mano? Qual consiglio può comprendere?

Introduzione generale e difinizione dello scope e degli ideali che la comunità propone ai suoi membri: I, 1-15. I, 1. La frase iniziale è andata perduta, perciò il ristabilimento del testo è ipotetico. W. H. Brownlee legge: «Questi sono gli statuti per tutta la comunità compresi i bambini e le donne, per vivere secondo la regola della comunità, per cercare Dio in tutti i suoi statuti dedicandosi, nella comunità, a compiere tutto ciò che è buono e giusto…»; A. Dupont-Sommer: «Per l’uomo intelligente (maśkîl) affinché istruisca i santi a vivere secondo le regole della comunità, a cercare Dio con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima, e a fare ciò che è bene…»; J. Carmignac: «Del maestro di saggezza (maśkîl)… per tutti gli uomini suoi fratelli, il libro della regola della comunità. Il loro scopo è cercare Dio con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima, fare ciò che è bene…»; A. R. C. Leaney: «Per l’istruttore (maśkîl) e per gli uomini suoi fratelli, il libro della regola della comunità. Per cercare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, per fare ciò che è bene…»; A. M. Habermann (che alla Regola della comunità premette la Regola dell’assemblea): «Per onorare Dio e perché gli uomini vivano in conformità della regola della comunità per cercare Dio, il Dio dei loro padri, e per fare ciò che è bene…». Alcuni autori lasciano la lacuna iniziale astenendosi da ogni tentativo di ricostruzione, così ad esempio P. Wernberg – Møller, J. Maier; altri la colmano solo in parte, così E. Lohse: «… libro della regola della comunità: per cercare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima per fare ciò che è bene…». La lettura del Brownlee, condivisa sostanzialmente anche da H. Bardtke, ha ben poche probabilità in suo favore; è vero che la Regola dell’assemblea parla di donne e bambini, ma la Regola della comunità non presuppone mai la vita in famiglia; è vero che l’assenza di matrimonio fu sempre qualcosa di estraneo alla mentalità e alla pratica ebraica dell’epoca antica e, forse, di quella contemporanea ai nostri manoscritti e in essi non è mai richiesto il celibato né lasciano mai trasparire una ragione in suo favore; ed è anche vero che le motivazioni addotte da Giuseppe Flavio e da Filone per cui un ramo degli esseni non si sposava, vedendo nel matrimonio una causa di discordie, sono marginali e non definitive. Ma v’è il fatto che tutto il rotolo della Regola non contiene alcun accenno alla famiglia; e questo pone un problema pratico e uno di principio. Secondo l’uso allora comune nell’ebraismo palestinese il matrimonio aveva luogo assai presto tra i giovani e il senso della famiglia era profondo; per cui l’abbandono della famiglia e la rinuncia al matrimonio doveva porre i «novizi» in condizioni particolari per le quali, almeno

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finora, non si vede una giustificazione che non sia collegata a motivi spirituali; la forte tensione escatologica della comunità, dalla quale sorse tra l’altro la Regola della guerra, non era affatto condizionata dal celibato, come dimostra la Regola dell’assemblea che parla di donne e bambini, né v’è dubbio che la comunità fosse convinta del ritorno, o conversione, ai suoi ideali, di gran parte degli ebrei, ma non v’è dubbio che chi si ritira nel deserto con tale attesa e ideali, non pensa alla famiglia. Il problema di principio scaturisce dalla probabilità che i membri della comunità si considerassero in pieno esercizio delle funzioni sacerdotali nel tempio che, per motivi contingenti, era costituito dalla stessa comunità: in queste condizioni era evidentemente esclusa ogni relazione sessuale; e in tale caso non si può parlare di vero e proprio celibato, ma di continenza per ragioni cultuali. Per le tombe di donne e bambini trovate nel cimitero di Qumrân per la relazione tra la questione del celibato e la storia degli esseni di Qumrân vedi CD. 3. Questo sentimento della rivelazione continua della legge iniziata da Dio con Mosè e seguitata con i profeti fu molto più tardi sintetizzato nella Mishna con l’espressione: «Mosè ricevette la legge nel Sinai e la trasmise a Giosuè; e Giosuè agli anziani; e gli anziani ai profeti; e i profeti la trasmisero agli uomini della grande congregazione» (Pirkê ’abôt, I, 1). 6. verità: o fedeltà secondo la natura e il significato del termine ebraico ’emet, che può designare tanto lo stato soggettivo del fedele quanto una qualità oggettiva contrapposta alla menzogna e alla inanità; cfr. I, 19, V, 3; VI, 15; VIII, 2; X, 17.25; la stessa espressione si legge spesso anche in altri scritti di Qumrân e ha destato interesse il fatto che ha riscontro negli scritti giovannei (Gv., 3, 21; 1 Gv., I, 6); in 1QpHab VII, 10 è detto che i membri della setta sono «uomini della verità» perché praticano la legge. 7. patto: o alleanza, vedi nota 16; volenterosi e generosi (r. 11): l’ingresso nella comunità doveva essere il risultato della libera scelta e decisione di praticare la legge e di entrare nella comunità fuori della quale la pratica della legge mosaica era considerata impossibile; per gli stessi termini, vedi V, 1.6.8.10.21-22; VI, 13 e 1QpHab VII, 11. 9. tempi stabiliti… per loro: il pronome plurale si può riferire tanto ai membri della comunità quanto, più comprensibilmente, alle «cose rivelate». Era dottrina fondamentale degli esseni di Qumrân che importanti interpretazioni della Bibbia e certi modi di vivere venivano da Dio rivelati in particolari momenti da lui stabiliti; queste rivelazioni, «testimonianze», che richiedevano meditazione e studio approfondito dei testi sacri, erano fatte ai figli di Sadoc ma dovevano servire a tutti e restare riservate ai membri della comunità (cfr. IV, 6; VIII, 18). Questa credenza in una approfondita e graduale manifestazione dei disegni divini derivata dallo studio e dalla meditazione ebbe un grande inf lusso nella vita e nella storia della setta (vedi 1, 13-15; III, 10; VIII, 11-12; IX, 12-13.20-21; ecc.) ed è tangibilmente attestata dai commenti biblici trovati nelle grotte di Qumrân. In questa interpretazione della frase concorda la maggioranza degli studiosi (P. Wernberg-Møller, W. Foerster, J. Carmignac, ed altri si veda in specie l’ampio studio di O. BETZ, Offenbarung und Schriftforschung…) mentre un significato affine è sostenuto da M. Weise (Kultzeiten…, pp. 64-66). 9-10. Per i figli della luce e i figli delle tenebre vedi 1QM. A proposito dell’odio e dell’amore si può ricordare che in termini così espliciti non ricorre alcuna

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espressione simile nell’Antico Testamento, sebbene sia inculcato l’odio verso i peccatori e verso i nemici; la comunità di Qumrân ha notevolmente acutizzato questo stato di cose; per gli ebrei di quel tempo il prossimo era normalmente un connazionale, cioè un altro ebreo, perciò il precetto: «Ama il tuo prossimo come te stesso» era giustamente inquadrato nelle parole che lo precedono: «non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo» (Lev., 19, 18). In una simile atmosfera era veramente sconvolgente affermare, come fece Gesù: «Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori…» (Mt., 5, 43-44); negli scritti di Qumrân non v’è mai alcuna espressione di amore verso quanti erano fuori della ristretta cerchia della comunità. Cfr. anche X, 17-21 e la Regola della guerra. 10. posto: traduce qui il termine ebraico gôrāl tradotto più stesso «sorte» o «partito» (vedi III, 13 IV, 26, e 1QM…); Giuseppe Flavio (Guerra, II, 150) afferma che tra gli esseni vi erano quattro gradi (o posti); consiglio di Dio (in ebr. ’esâh ’el): espressione alquanto ambigua che ricorre spesso negli scritti di Qumrân (cfr. I, 10; III, 6; X I, 18; 1QSa I, 3; 1QSb IV, 24; 1QH IV, 13; VI, 10-11.13 ecc.; nei pochi testi biblici nei quali ricorre ha sempre il senso di «consiglio», «deliberazione», «piano» (cfr. Is., 19, 17; Ger., 49, 20; 50, 45; Mic., 4, 12; Sal., 73, 24 ecc.); ma spesso nei nostri testi equivale a consiglio nel senso di «adunanza», «assemblea»; così ad esempio, il «consiglio della comunità»; è preferibile dunque lasciargli quella ambivalenza che è propria anche della nostra lingua. Quando una comunità di questo genere si univa per prendere in consiglio una qualche deliberazione era evidentemente convinta che questa corrispondesse al piano di Dio e si poteva così parlare di un «consiglio di Dio» d’altra parte l’ingresso nella comunità, secondo l’autore, corrispondeva senza alcun dubbio al volere divino, era cioè un «consiglio di Dio». Con A.R.C. Leaney si può osservare che l’idea non è totalmente aliena al Nuovo Testamento come appare dalla elezione di Mattia al posto di Giuda (At., 1, 23-26) e dalle parole del concilio gerosolimitano: «Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso…» (At., 15, 28); una decisione collegiale presa in consiglio dopo la preghiera è considerata corrispondente tanto al piano, «consiglio», divino, quanto al volere dell’assemblea, cioè del «consiglio». 11-15. Affermare che nella comunanza dei beni non v’era alcun ideale di povertà, ma ragioni cultuali e rituali in quanto ogni proprietà è fonte di contaminazione (come fa J. Maier), è dimenticare che oltre alla comunanza dei beni v’era pure quella del sapere e del lavoro, e trascurare quegli ideali di povertà così magnificati in altri scritti di Qumrân, anche se non sono menzionati nel presente rotolo. Un parallelo neotestamentario molto vicino al presente testo è nella descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme fatta da Luca (At., 2, 44 e segg; 4, 34 e segg.); la differenza sta nel fatto che per i cristiani si trattava di un comportamento assolutamente libero, in quanto, non richiesto dalla loro fede, come dimostra il fatto di Anania e Saffira (At., 5, 1-11). Cfr. anche F ILONE, GIUSEPPE F L. e PLINIO: vedi pp. 54-55; 57-58 e 63 e segg. Rituale d’ingresso nel patto e del rinnovamento del patto: I, 16 III, 12. 16. Il patto, o alleanza, era sostanzialmente un vincolo confermato da un rito di passaggio tra le carni di vittime squartate o dallo scambio del sangue tra le due parti contraenti (alleanza di sangue) e da uno o più sacrifici cruenti alla divinità invocata a testimoniare e sancire il patto; per cui non vi era patto senza sacrificio e

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senza sangue, ma soprattutto, non vi era patto senza un reciproco impegno su qualcosa di concreto e senza implicite o, più comunemente, esplicite sanzioni e maledizioni contro i fedifraghi (di qui ad es. il significato del passaggio tra le vittime squartate: «la divinità mi squarti così se non sarò fedele al patto!»). Di tutti questi elementi si hanno tracce sufficientemente chiare nell’Antico Testamento; con il rito di passaggio tra animali squartati fu sancito il patto tra Dio e Abramo: «Ecco… una fiaccola infuocata passare in mezzo a quelle parti divise. In quel giorno Jahweh concluse un’alleanza con Abramo…» (Gen., 15, 7, 19); e il profeta Geremia fa parlare la divinità in questi termini: «Consegnerò a loro gli uomini che hanno trasgredito la mia alleanza, perché non hanno eseguito le parole dell’alleanza che avevano concluso in mia presenza con il vitello, che avevano spaccato in due e fra i cui pezzi essi erano passati» (Ger., 34, 18); questo rito era così fondamentale nell’antichità che da esso sorsero due termini essenziali: sancire un patto si diceva alla lettera «tagliare» (kārat) il patto (ad es. in 2 Re, 23, 3) oppure, come nel nostro testo, «passare attraverso» il patto (’âbar bab-berît). L’evento centrale che contrassegnò e plasmò integralmente tutta la storia e il pensiero religioso anticotestamentario è il patto sancito al Sinai dopo la promulgazione della legge mosaica (Es., 24, 4-8): Mosè fa innalzare un altare e dodici stele per le dodici tribù di Israele; alcuni giovani offrono olocausti e sacrifici pacifici; Mosè versa sull’altare una parte del sangue delle vittime, poi legge «il libro dell’alleanza» e cioè le leggi alle quali il popolo si sta per obbligare davanti al suo Dio; il popolo promette di essere fedele a tutte le parole di Jahweh, suo Dio; Mosè allora prese il resto del sangue e lo sparse sul popolo, dicendo: «Questo è il sangue dell’alleanza che Jahweh ha stretto con voi in base a tutte queste parole». Ad esso si richiamò il popolo in ogni momento decisivo e drammatico della sua storia, da esso, dal suo rinnovamento, ebbe inizio ogni ripresa della coscienza ebraica nell’epoca biblica (si veda ad es.: Gios., 8, 30-35; e cc. 23-24; 2 Re, 23, 3; Neem., cc. 9-10; inoltre Dan., 9, 4 e segg; e i Salmi 78, 105, 106). Il fatto che nella comunità si entri con il rito del patto (per il quale oltre ai testi sopra citati si veda in particolare i cc. 27-29 del Deut. sui quali è visibilmente ricalcato tutto il rituale del presente rotolo) e che l’impegno dei membri sia specificatamente mosaico, da una parte pone in evidenza l’idea che la comunità costituiva il vero Israele (non una corrente qualsiasi di pensiero e di vita), dall’altra sottolinea la distanza che separava l’impostazione dell’ebraismo ufficiale (giudicata evidentemente eretica, decaduta e avulsa dal patto dei padri) dalle idee ispiratrici della comunità. L’espressione «patto di grazia» (Berît ḥesed), almeno per ora, si legge solo alla precedente r. 7 e sottolinea la divina gratuità sia del patto che dell’ingresso nella comunità costituita soltanto con il divino favore. Oltre alle opere fondamentali come W. E ICHRODT, Theologie des Alten Testaments, Teil 1 (6 durchges, Auf lage), Stuttgart, 1959, 9-109; O. PROCKSCH, Theologie des Alten Testaments, Gütersloh, 1950; 503-530; G. VON RAD., Theologie des Alten Testaments, Bnd. I., München, 1961, 135-140; si veda H. J. KRAUS, Das Gottesdienst in Israel, München, 1954, pp. 49-66; K. BALTZER, Das Bundesformular, Sein Ursprung und seine Verwendung, Neukirchen, 1960; F. BAUMGÄRTEL, art. cit.; M. W EISE, Kultezeiten…; e l’ampio e acuto studio di A. J AUBERT (vedi Bibl.). L’espressione «nuovo patto» non ricorre mai nel nostro rotolo; si legge una volta in 1QpHab e varie volte nel CD vedi quivi VI, 19 e note.

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La festa annuale del rinnovamento del patto per tutti coloro che già facevano parte della comunità coincideva con l’ammissione di nuovi membri e non è improbabile che in tale occasione si recassero a Qumrân anche gli esseni che ne vivevano lontani. La festa, della quale sono qui ricordati i momenti essenziali (le preghiere di lode e ringraziamento, la confessione pubblica, la formula di benedizione e la duplice maledizione), pare che avesse luogo nel giorno della Pentecoste; data questa suggerita da un testo del libro dei Giubilei (VI, 17) e confermata da un frammento ancora inedito del Documento di Damasco (4QDb) che pone la festa nel terzo mese dell’anno, nel mese cioè nel quale cadeva la Pentecoste (cfr. J. T. M ILIK, Dieci anni…, 59). 17. prova: equivale letteralmente a «fornace» nella quale sono purificati dalle scorie l’oro e l’argento (cfr. Prov., 17, 3 e 27, 21) d’onde per una facile metafora designa le prove alle quali Dio assoggetta i fedeli per provarli e purificarli (si veda 1QM XVI, 15; XVII, 1. 9; nel presente rotolo anche in III, 13 -IV, 26;VIII, 4; e CD XX, 27 ecc.); D. Flusser (art. cit., nella Bibl.) ha approfondito questo significato rilevandone non solo l’aspetto escatologico (aspetto questo che permea tutta la Regola), ma l’affinità con la predicazione di Giovanni Battista e soprattuto l’equivalenza con il termine greco πειρασμóζ che nel Nuovo Testamento è ugualmente carico di significato escatologico (cfr. Mt., 6, 13; Lc., 8, 13; 11, 4; 1 Piet., 4, 12 ecc.): questo accostamento è oggi ancora più interessante e pertinente dopo la proposta (di K. G. Kuhn), accettata da molti studiosi, di leggere «tentazioni» (ebr. nissûjîm) la prima parola della riga 18 (cfr. Eccli., 6, 7; 33, 1. 44. 20). Al nostro testo e particolarmente a quanto segue è molto vicino e apporta una luce singolare il seguente passo dell’ Ecclesiastico ove ricorre ancora lo stesso termine; scrive il Siracide a proposito della sapienza divina: «… Agirà con lui sotto mentite spoglie, lo metterà alla prova con tentazioni; ma, quando il suo cuore se ne sarà riempito, svelerà a lui i suoi segreti» (Eccli., 4, 18-19). Vedi III, 1-6 e nota. 18. Belial: vedi 1QM, I, 5 e nota. II, 2. sorte di Dio e sorte di Belial (r. 5): vedi 1QM I, 1.5.11; IV, 2; X III, 2. 4.9.12 ecc.). Per l’alternanza tra sacerdoti e leviti vedi Deut., cc. 27-29, d’onde dipende il nostro testo. 2-4. La formula di benedizione estende la classica formula di benedizione sacerdotale (Num., 6, 24-26) espressione limpida e profonda del pensiero religioso anticotestamentario; il Sal. 67 è una eco della stessa benedizione. Una variante importante in quanto sottolinea una delle caratteristiche della Regola (vedi Introduzione) è la constatazione che mentre la formula originale ripete per ben tre volte il nome sacro di Dio, Jahweh, il nostro testo lo evita accuratamente. 8. fuoco eterno: vedi 1QH VI, 18; e per il perdono e cancellamento delle colpe vedi 1QH IV, 37 e note ivi. 9. In luogo di tutti coloro che aderiscono (alla tradizione) dei padri altri leggono: «di alcun intercessore» intendendo gli angeli (P. Wernberg-Møller); «di tutti coloro che mantengono ostilità» (W. H. Brownlee); «di tutti gli adepti dei padri» (P. Guilbert); la nostra lettura fu proposta da R. Marcus (vedi art. cit. nella Bibl.): quelli che aderiscono alla tradizione dei padri sono, verosimilmente, i membri fedeli della setta. 10-26. Si osservano in queste righe alcuni riscontri biblici utili per la valutazione

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del testo, i più interessanti sono: Num., 5, 22 e Neem., 8, 6 per così sia, così sia! (amen, amen); Deut., 29, 18-19; Deut., 27, 15.17-18 ed Ez., 14, 3-7 per gli idoli del cuore e l’inciampo; Deut., 29, 19 per «assetato o abbeverato» (espressione d’incerto significato); Es., 18, 21 e Num., 31, 14.48.52 ecc. per la divisione in migliaia, centinaia, ecc. tuttora in uso all’epoca dei Maccabei e posteriormente (cfr. 1 Macc., 3, 55 e GIUSEPPE FL., Guerra, II, 20, 7) e alla quale era dato un grande significato rif lettendo, forse, la struttura dell’universo cfr. 1QM X II, 23 X III, 1 e certamente una graduazione diversa nella perfezione della vita e quindi, nella conoscenza della legge e dei segreti divini. Oltre al concreto bisogno di disciplina e di ordine in una qualsiasi comunità, le puntigliose prescrizioni della Regola, sia qui che altrove, dovevano rif lettere concezioni che andavano al di là della semplice disciplina comunitaria. Su queste maledizioni si vedano le parole di Giuseppe Flavio a pp. 59 e seg. III, 1-6. La lettura dolorose correzioni non è certa, altri leggono: «le fondamenta» (A. M. Habermann), «le istruzioni» (W. H. Brownlee, A. Dupont-Sommer, E. Lohse e altri), «l’impegnativa» conoscenza (J. Maier); nella lettura qui seguita concordano sostanzialmente P. Wernberg-Møller e P. Guilbert, A. R. C. Leaney. Si tratta, a mio giudizio, degli jissurîm, correzioni, discipline inf litte da Dio per mezzo di sofferenze di vario genere, per provare e purificare i fedeli; correzioni dolorose ben note ai giusti… della conoscenza dei giusti, delle quali parla la letteratura biblica (cfr. Deut., 8, 5) e in particolare i Salmi (cfr. Sal., 39, 12; 94, 12), molto apprezzate dalla letteratura posteriore come segni dell’amore di Dio verso una persona (Sap., 12, 20-27) e dalla letteratura rabbinica (cfr. J. BONSIRVEN, Le Judaïsme palestinien au temps de Jesus-Christ, II, Paris 1935, pp. 67 e 97 con molte citazioni). Gli esseni di Qumrân ritenevano che queste «dolorose correzioni» fossero indispensabili tanto per la purificazione di sé stessi quanto per mantenersi il vero popolo di Dio. Lo stesso termine si legge in 1QH XVII, 22 e probabilmente in CD VII, 5.8; X, 6; X IX, 4. Le righe seguenti attestano eloquentemente un tratto importante della dottrina della Regola: per il perdono dei peccati e la purificazione non bastano le purificazioni rituali ma è necessaria anche la penitenza. Nella Mishnah si legge: «Con l’offerta di un sacrificio di aspersione o di pentimento si ottiene certamente il perdono. La morte e il giorno dell’espiazione recano il perdono se vi si accompagna la penitenza. La sola penitenza ottiene il perdono per le colpe leggere… per le colpe più gravi l’effetto della penitenza rimane sospeso fino alla venuta del giorno dell’espiazione, che apporta il perdono. Se uno dice: Farò un peccato e poi tornerò in penitenza; farò di nuovo quel peccato e poi tornerò in penitenza, non gli riesce di fare una vera penitenza. Così pure se uno dice: Commetterò peccato e il giorno dell’espiazione mi apporterà il perdono; il giorno dell’espiazione non gli apporta il perdono… Rabbi Aqiba dice: Beati voi, Israeliti! Davanti a chi volete voi apparire puri e chi è che vi purifica? Il vostro padre celeste; conforme al testo che dice: E io verserò sopra di voi acque pure e diverrete puri (Ez., 37, 25). Dio, inoltre, è chiamato: Miqvè Israel (Ger., 13, 13); come il miqvè purifica gli impuri, così Dio purifica Israele» (Jomà, VIII, 8-9, traduz. di V. C ASTIGLIONI, Mishnaiot, vol. I, parte II, 182, Roma, 1962) (notare il gioco sul termine miqvè che equivale a «speranza», ma anche a «quantità di acqua» e «bagno rituale»). La necessità del pentimento per ottenere il perdono dei peccati oltre che dalla ben

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nota dottrina dei profeti e dei Salmi (cfr. per tutti Is., 1, 10-17; Am., 5, 21-26; Sal., 50, 8-15) è ripetutamente sottolineata dallo stesso rituale per il gran giorno dell’espiazione (Lev., 16, 29-31). Vedi anche I, 17 e nota. Su questo argomento cfr. L. M ORALDI, Espiazione nell’Antico e nel Nuovo Testamento, in RBit, 9, 1961, 289-304; ibid., 10, 1962, 3-17; e J. A. S ANDERS, Suffering as Divine Discipline in the Old Testament and Post-Biblical Judaism, in Colgate Rochester Divinity School Bulletin, 28, 1955); M. R. LEHMANN, Yom Kippur (vedi Bibl.); R. J. THOMPSON, Penitence and Sacrifice in Early Israel Outside the Levitical Law, Leiden, 1963; P. GARNET, Salvation and Atonement in the Qumrân Scrolls, Tübingen, 1977. 9. Per le acque lustrali e per il rituale con cui si facevano (se tuttavia era seguito a Qumrân!) vedi Num., c. 19. Tutto fa credere che le purificazioni e i bagni rituali avessero una parte notevole nella vita della comunità essena, come attesta Giuseppe Fl. (Guerra, II, 129-130) e confermano le molte vasche messe in luce dagli scavi archeologici di Qumrân, ma è difficile, se non impossibile, additare quali di tali vasche erano semplici cisterne e quali servivano per i bagni; il P. R. de Vaux con tutte le riserve che impone l’archeologia ne addita due in modo particolare (L’Archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961, pp. 98-99); anche uno studio di R. North, con un materiale comparativo assai ampio, giunge alla stessa conclusione, e cioè un uso esclusivamente non cultuale non spiegherebbe lo stato di fatto posto in luce dagli scavi (R. N ORTH, The Qumrân Reservoirs, in The Bible in Current Catholic Thought, Gruenthaner Memorial Volume edited by J. L. Mc Kenzie, New York, 1962, 100-132). La scoperta di una vasca per bagni rituali a Masada e la relazione pressoché sicura tra quegli occupanti e l’ultima fase dell’occupazione di Qumrân sottolinea ancor più questa opinione (per Masada cfr. Y. YADIN, Masada. La fortezza di Erode e l’ultima difesa degli Zeloti (trad. ital. di C. Valenziano), Milano, 1968, pp. 164-167. Questo testo che richiama categoricamente l’inefficacia delle purificazioni rituali se non sono accompagnate dal pentimento (vedi anche V, 13-14; VIII, 16-19) e la purificazione per opera dello spirito (righe 6-8 e IV, 21): si veda la citazione dello stesso testo di Isaia (Is., 40, 3 citato in VIII, 13-14 e IX, 19 e in Mt., 3, 3; Mc., 1, 2; Lc., 3, 4 e GV., 1, 23); la menzione del fuoco purificatore e del giudizio (IV, 20 e I, 17) hanno proposto agli studiosi l’eventualità di una dipendenza del messaggio e della condotta del Battista (vedi Mt., 3, 7-12 e Lc., 3, 3-17) dalla dottrina e dalla vita degli esseni di Qumrân: cfr. ad es. i segg. studi citati nella Bibliografia: W. H. BROWNLEE, John the Baptist…; J. D ANIÉLOU, Eschatologie sadocite…;ID., Les Manuscrits de la Mer Morte…, pp. 11-47; O. BETZ, Die Proselytentaufe…; J. A. T. ROBINSON, The Baptism of John…; H. H. ROWLEY, The Baptism of John…; D. F LUSSER, The Baptism of John…; e H. BRAUN, «Umkehr» in spätjudisch-häretischer…, vedi Bibl. Dottrina dei due spiriti il dualismo e il determinismo della comunità: III, 13 - IV, 26. 13. saggio (ebr. maśkîl): vedi IX, 12 e note. Inizia qui l’imposizione di un insegnamento fondamentale per tutta la comunità: il dualismo luce e tenebre, e la dottrina dei due spiriti; è un aspetto primordiale della natura e della condizione umana che si esplica interamente tra queste due forze contrapposte: appunto per questo la vita dell’uomo è una lotta e un dramma interiore prima che esteriore «fino al tempo stabilito della sua visita» (r. 18); in ogni uomo vi è, infatti, in dose diversa, luce e tenebre, spirito di verità e spirito di

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ingiustizia. In tal modo ognuna di queste due forze ha l’impero su di una parte dell’umanità; lo spirito di verità e la luce sui figli della luce, lo spirito di ingiustizia e le tenebre sui figli delle tenebre; anche i figli della luce non possono sfuggire al combattimento, al peccato, ai f lagelli delle tenebre e del suo spirito; i due spiriti che coabitano in ogni uomo e ne caratterizzano l’esistenza, non solo si combattono intimamente, ma anche esternamente con lotte sovrumane per la coalizione dei due schieramenti dei figli delle tenebre e della luce, e questi soccomberebbero se in loro soccorso non intervenisse Dio che ha creato e domina gli uni e gli altri. La varietà delle tendenze umane, buone o cattive, si riassume dunque nella diversità dello spirito informatore di ogni uomo; e la qualità di ogni spirito ha segni e caratteri distintivi: le virtù (IV, 2-6) e i vizi (IV, 9-11). L’arte del discernimento degli spiriti aveva perciò una considerevole importanza; per questo il saggio deve istruire e ammaestrare su questa dottrina i membri della comunità; quando uno entrava nel patto veniva esaminato il suo spirito, si doveva distinguere «l’uno dall’altro in base all’intelligenza e alle opere della legge» (V, 2021) e dopo l’ammissione, anno per anno si doveva ancora esaminare «il loro spirito e le loro opere…» (V, 23-24). Il testo, dopo una breve introduzione, presenta le sorti dei due spiriti e i segni con i quali si manifestano (III, 18-IV, 1), le opere per le quali i due spiriti si rivelano (IV, 2-17), e la visita divina che fissa il destino dei due spiriti e degli uomini dominati da essi (IV, 18-26). Per una approfondita analisi di tutto il passo vedi A. D UPONT-S OMMER, L’instruction sur les deux Esprits dans le «Manuel de Discipline», in RHR, 142, 1952, 5-35; J. LICHT, An Analysis of the Treatise on the Two Spirits in DSD, in Scripta Hierosolymitana, IV, 1958, 8899. Un attento esame di questa parte e l’accostamento con altri testi, suggerisce la probabilità di una sua primitiva esistenza indipendente (vedi l’Introduzione), e pone anche il problema di eventuali inf lussi iraniani (cfr. per una risposta affermativa: A. D UPONT-S OMMER, Le problème des influences étrangeres sur la secte juive de Qumrân, in RHPhR, 35, 1955, 75-94; M. M ICHAUD, Un mythe zervanite dans un des manuscrits de Qumrân, in VT, 5, 1955, 137, 147; A. VööBUS, A History of Ascetisme in the Syrian Orient, Louvain, 1958, 20-22; per una risposta negativa: H. W ILDBERGER, Der Dualismus in den Qumranschriften, in Asiat. Stud., 1-4, 1955, 163-177; G. BAUMBACH, Qumrân und das Johannesevangelium, Berlin, 1957; S. A ALEN, Die Begriffe Licht und Finsternis in Altem Testament, Spätjudentum und Neuem Testament, Oslo (in Abh. d. Norw. Ak. d. Wiss.), 1951; H. W. H UPPENBAUER, Der Mensch zwischen zwei Welten. Der Dualismus der Texte von Qumrân (Höhle, 1) und der Damaskusfragmente. Ein Beitrag zur Vorgeschichte des Evangeliums, Zürich, 1959; F. N ÖTSCHER, Zur theologischen Terminologie der QumrânTexte, Bonn, 1956, pp. 174-178; ID., Schicksalsglaube in Qumrân, in BZ, 3, 1959, 205-234; ID., Himmlische Bücher und Schicksalsglaube in Qumrân, in RQ, 1, 1958, 405-411. A proposito del nostro testo fu posto ugualmente il problema di una gnosi precristiana e del suo eventuale inf lusso sulla dottrina qui esposta e quella di altri testi qumranici fondamentalmente paralleli; si veda in particolare B. REICKE, Traces of Gnosticism in the DSS?, in NTSt, 1, 1954, 1955, 137-141; H. J. S CHOEPS, Urgemeinde, Judenchristentum. Gnosis, Tübingen, 1956; e gli articoli (Das gnostische Judentum…, e DSS und Pseudoklementinen…) citati nella Bibl.; R. M ARCUS, Judaism and Gnosticism, in

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Judaism, 4, 1955, 360-364; ID., The Qumrân Scrolls and Early Judaism, in BR, 1, 1957, 947; H. BRAUN, Spätjudisch-häretischer und frühchristlicher Radikalismus…, vedi Bibliografia e 1QH. Una valutazione d’insieme molto preziosa anche per gli accostamenti biblici e la letteratura ebraica più o meno contemporanea (libro dei Giubilei, libro di Enoc, Testamenti dei patriarchi) e la prima letteratura ebreo-cristiana (Didachè, Lettera di Barnaba, Pastore di Erma e le Pseudoclementine, si ha negli articoli di F. M. Braun e J. Audet, di P. Winter (Ben Sira and the Teaching…), di O. Cullmann (Die neuentdeckten Qumrantexte und das Judenchristentum der Pseudoklementinen…) e nell’opera di A. R. C. Leaney (The Rule of Qumrân and its Meaning…, pp. 34-56); e ancora i tre studi nell’opera curata da U. Bianchi (cfr. Bibl. gener.) sullo gnosticismo e Qumrân. Un’esposizione così lapidaria e chiara dello stretto dualismo luce-tenebre, della dottrina dei due spiriti, della loro via e della determinazione del tempo della loro attività non ha alcun completo parallelo nella letteratura ebraica dell’epoca, ma è inquadrata assai bene in altri testi di Qumrân. Al di là dei termini molto forti si ha ragione di ritenere che questo determinismo non fosse fisico e assoluto, ma etico e relativo, almeno per quanto si riferisce agli ebrei; per quanto riguardava i non ebrei, tutto il resto del mondo, questa dottrina degli esseni di Qumrân era probabilmente assai pessimista (cfr. 1QM); storia (in ebr. tôledôt): preso alla lettera equivale a «generazioni» ma questo senso genealogico è praticamente svanito, come d’altronde nei testi biblici, dai quali dipende più o meno consciamente l’autore (e cioè Gen., 2, 4; 5, 1; 6, 9; 10, 1; 11, 10; ecc.), e ha quello di «storia» intesa soprattutto come descrizione del carattere, della natura, di certi esseri (non necessariamente degli uomini) constatabile da una successione di fatti o eventi. Così è pure nei testi III, 19 «le origini», IV, 15 (mentre altrove, ad es. IV, 13, il termine ebr. usato è diverso) e CD IV, 5; 1QM III, 14; V, 1; X, 14; e, nel Nuovo Testamento; Mt., 1, 17; Lc., 1, 48 ecc. ma non in 1 Tim., 1, 4. L’appartenenza all’uno o all’altro dei due spiriti si manifesta: 1) da segni particolari che rivelano l’inf lusso di questo o di quello e che la Regola esamina dettagliatamente (III, 18 - IV, 1); 2) dalle azioni che rivelano quale spirito domini il cuore di questa o quella persona (IV, 2-18), 3) in fine, dalla «visita» divina che assegna a ognuno il suo destino (IV, 18-26). 20-21. principe delle luci (cfr. anche in CD, V, 18) e angelo della tenebra (ricorre solo qui, due volte) cfr. 1QM, X II, 8-9 e nota. IV. Per i due elenchi di virtù e di vizi (righe 2-8 e 9-14) cfr. S. W IBBING, Die Tugend und Lasterkataloge im Neuen Testament und in ihrer Traditionsgeschichte unter besonder Berücksichtigung der Qumrân-Texte, Berlin, 1959, pp. 104-105 e S. V. Mc C ASLAND, The Way, in JBL, 77, 1958, 222-230. 6. nascondere… i misteri: sulla conoscenza esoterica degli esseni cfr. VIII, 10-12; IX, 16-17.22; X, 24-25 e Giuseppe Fl. (Guerra, II, 142): cfr. l’art. di B. Rigaux citato nella Bibl. 19. Simili personificazioni, verità, ingiustizia ecc. si incontrano anche in 1Q27, I, 6-7 e 1QH, IV, 25. 20. Il testo ebraico usa due termini diversi per designare «uomo»: le azioni dell’uomo (ebr. gheber che può significare anche «eroe, forte») e figli dell’uomo (ebr.

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’îsh: uomo nel senso più vasto del termine), perciò qualche interprete (G. VERMES, in Scripture and Tradition in Judaism, Leiden, 1961, pp. 56 e segg.) propone di vedere in gheber il messia e in ’îsh gli uomini: il messia sarà purificato e, in tal modo, abilitato ad ammaestrare «i giusti nella conoscenza dell’Altissimo» (r. 22); il Vermes fonda questa interpretazione sul testo III, 7-10 degli Inni, su alcuni passi scritturali ove il termine è da alcuni esegeti e da qualche antica versione interpretato come sinonimo di «messia», e su di un articolo di W. H. Brownlee (The Servant of the Lord in the Qumrân Scrolls, in BASOR, 132, 1953, 8-15 e spec. ibid., 135, 1954, 33-38. Tuttavia l’interpretazione più seguita e in maggiore armonia con il testo e il contesto è la seguente: una parte della setta di Qumrân sarà da Dio purificata in conformità delle sue concezioni sull’attesa escatologica; ad esempio, in II, 25 III, 12 si insiste sulla necessità di entrare nella comunità per avere la salvezza e si promette la purificazione a tutti quanti entrano nel patto e si sottomettono alle divine prescrizioni; dalle viscere…: secondo J. Licht (art. cit.) il testo afferma che Dio purificherà il corpo umano distruggendo ogni spirito cattivo dai tessuti della sua carne; questo senso rileva la totalità e la profondità della purificazione (la nozione di contaminazione morale non era nettamente distinta dalla contaminazione fisica) e come lo spirito divino debba purificare tanto il corpo quanto lo spirito dell’uomo; l’interpretazione può essere valida purché questa azione purificatrice sia intesa e limitata alla comunità dopo la distruzione dei cattivi (cioè di tutti gli altri uomini) in quanto, rappresentante della nuova creazione dopo la distruzione di tutto ciò che era fuori della comunità (cfr. anche i testi 1QH, V, 28; VII, 4; XVII, 25, e 1Q36, 14, 2. Sulla forza purificatrice dello spirito di Dio, spirito santo e spirito di verità vedi 1QH, VII, 6-7; XVI, 11-12 e sulla relazione tra questa purificazione e quella del fuoco, vedi Lc., 12, 49; At., 2, 3; 1 Piet., 1, 7; 2 Piet., 3, 7; Giuda, 7 oltre ai testi già citati sulla predicazione del Battista (Mt., 3, 10 segg.; Lc., 3, 16-17). 23. gloria di Adamo: si legge ancora la stessa espressione in CD, III, 20; 1QH, XVII, 15 e nel testo ebraico dell’ Eccli., 49, 16. «Le tradizioni ebraiche attribuiscono ai giusti, come ricompensa eterna, tutto ciò di cui fu privato Adamo con il peccato», così P. Guilbert che cita B. O TZEN, Some Textual Problems in 1QS, in Studia Theologica, 11, 1957, 89-98. Regole per la vita interna della comunità: V, 1 -VI, 23. 2. Traduco l’ebraico rôb (vedi anche rr. 9 e 22) con maggioranza conformemente alla proposta di Ch. Rabin (Qumrân Studies, Oxford, 1957, p. 105) secondo la quale mentre nella Bibbia significa «moltitudine» nell’ebr. mishnico equivale a «maggioranza»; conclusione questa che trova perfettamente consenziente M. Jastrow (A Dictionary on the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic Literature, II, New York, 1950, a. v.). Non vedo alcuna ragione che possa avallare la sentenza di J. Maier secondo la quale rób equivale qui a «laicato»; invece di che osservano il patto (r. 2) si può anche tradurre «custodi del patto»; in 2 Re, 12, 10 si parla di «sacerdoti custodi» della regola del tempio. 5. istinto (in ebr. jeṣer): vedi 1QH, V, 6 e note; al contrario: il testo ebr. ha qui un punto oscuro sebbene qualche studioso (ad es. P. Guilbert) non lo noti neppure; la mia lettura «al contrario», proposta da E. L. Sukenik e seguita dalla stragrande maggioranza degli studiosi, è basata su di una correzione del testo che ha w alef alef mem (che leggo invece kî’ ’im). Secondo W. H. Brownlee (che traduce but EAM «ma

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EAM») abbiamo qui un criptogramma del nome divino (Jahweh), sempre evitato tanto nella Regola quanto nel Documento di Damasco (cfr. VIII, 14 e nota), e l’abbreviazione equivale a «Dio degli dèi e Signore dei signori» sciogliendo il criptogramma sarebbe dunque da leggere: «Ma Dio circonciderà, nella comunità…» con riferimento a Deut., 10, 16-17 e 30, 6. Secondo altri invece il primo alef sta per Aronne, il secondo per «verità» e mem sta per Mosè (V, 6.8) dando così le parole chiavi di tutto il testo. Altri ancora propongono di leggere: «Uomini di verità» (designazione dei membri della comunità o addirittura: Assalonne, Eleazaro, Menahem (che sarebbero i tre capi della comunità). Cfr. per le ultime interpretazioni G. R. D RIVER, op. cit. nella Bibliogr., pp, 336-337. 13-17. uomini di santità: (cfr. anche la r. 18; VIII, 17.20.23; IX, 8) suggerisce, secondo Ch. Rabin il probabile nome della setta di Qumrân, e cioè: «Assemblea degli uomini della perfetta santità» (cfr. CD, VII, 5; XX, 5.7), abbreviato più ordinariamente con «assemblea santa» (r. 20 e 1QSa I, 9.12; 1QSb I, 5). 15. L’espressione poiché così sta scritto (in ebr. kî kēn katûb) non ricorre altrove nei manoscritti di Qumrân; appresso (r. 17), si legge una formula simile (in ebr. ka’asher katûb); i due testi biblici citati sono rispettivamente Es., 23, 7 e Is., 2, 22: l’interpretazione data è evidentemente midrashica e manifesta quanto i membri della setta si reputassero diversi e superiori agli stessi altri ebrei. Cfr. in proposito GIUSEPPE F LAVIO, Guerra, II, 143. La Regola cita molto raramente in modo espresso testi dell’Antico Testamento. 20-21. Tutto il testo richiama l’organizzazione giudiziaria d’Israele nel deserto raccomandata da Ietro a Mosè (Es., c. 18). Il tema dell’esame, o discernimento, degli spiriti aveva molta importanza anche nel cristianesimo primitivo; «Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: Chi non opera la giustizia non è da Dio, e non lo è chi non ama il suo fratello» (1 Gv., 3, 10; cfr. anche 4, 6); e giustamente fu citato in proposito, da P. Rossano, il testo di S. Agostino: «Solo l’amore distingue dunque i figli di Dio dai figli del diavolo. Si facciano pure il segno della croce di Cristo; rispondano pure tutti insieme: amen; cantino pure tutti: alleluia; siano pure tutti battezzati, entrino pure nelle chiese e gremiscano le basiliche: ma i figli di Dio non si distinguono dai figli del diavolo che dall’amore. Chi ha amore è nato da Dio; chi non ha amore non è nato da Dio» (La Sacra Bibbia, vol. III, Torino [U TET], 2 a ediz., 1964, P. 335). VI, 1. segg. Sulla correzione fraterna e sulle modalità qui prescritte, si veda Eccli., 19, 13-17; Mt., 18, 15-16; CD, IX, 2-3, e K. S TENDAHL, The School of St. Matthew, Uppsala, 1954, pp. 23 e 138-139. Il termine molti (in ebr. rabbîm) ha qui un senso tecnico designando i membri, di pieno diritto, della comunità, quelli che costituiscono il consiglio della comunità; esso dunque non comprende postulanti e novizi essendo ancora in prova, e sono esclusi anche penitenti temporaneamente privati dei privilegi dei «molti»; in questo senso il termine ricorre molto spesso nella Regola (più di dodici volte nel presente capitolo, inoltre otto volte nel capitolo seguente, e ancora in VIII, 19; IX, 2; CD, X III, 7; X IV, 7.12; XV, 8); non mi pare che vi siano elementi sufficienti per affermare che il termine designa a volte l’assemblea generale avente democraticamente poteri giudiziari, e a volte i membri laici della comunità in quanto distinti dalla gerarchia dei sacerdoti e leviti (come propone J. T. M ILIK, Dieci

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anni…, pp. 51-52); tanto meno è probabile che «rabbîm» designi i grandi nel senso di «venerabili» in quanto membri del consiglio della comunità (quello composto da quindici persone: VIII, 1 e segg.). La corrispondenza di questo termine con «i molti» dei quali parla il Nuovo Testamento (ad es. in Mt., 26, 28; Mc., 14, 24; Rom., 5, 15.19 ecc.) è puramente esteriore a motivo della prospettiva diversa. Cfr. sulla questione: E. F. S UTCLIFFE, The First Fifteen Members…, in JSS, 4, 1951., 134-138; A. D UPONTS OMMER, On a passage of Josephus…, in JSS, 1, 1956, 361-366; M. D ELCOR, Contribution à l’étude de la legislation…, in RB, 61, 1954, 550; R. M ARCUS, «Mebaqqer» and «Rabbîm»…, in JBL, 75, 1956, 298-302. 2. denaro: l’ebraico ha qui il termine mamôn che si legge anche nel Vangelo (cfr. Mt., 6, 24, Lc., 16, 9.11.13) e nei manoscritti di Qumrân ricorre raramente (cfr. CD, X IV, 20; 1Q27, 1, 2.5); più comune è la parola ḥôn che ricorre appunto anche nel nostro testo in un frammento della quarta grotta (4QSi, cfr. J. T. M ILIK, recensione citata nella Bibl.). 4. La prescrizione della tavola comune e il carattere religioso di questa mensa comunitaria, hanno indotto qualche commentatore a istituire confronti con la Cena Eucaristica del vangelo e della prima comunità cristiana, qui totalmente fuori posto; una presa di posizione piuttosto spinta, a mio parere insostenibile, è rappresentata dallo studio, d’altronde eccellente, di K. G. Kuhn, (The Lord’s Supper and the Communal Meal at Qumrân, vedi Bibl.), una più realistica è quella di E. F. Sutcliffe (Sacred Meals at Qumrân?, vedi Bibl.). Una presentazione diversa dalla presente è quella di 1QSa, II, 17-22. 5-6. Come si vede il copista è caduto in palese errore di dittografia ripetendo la stessa frase, qui posta tra parentesi. È strano tuttavia osservare che anche il testo di un frammento corrispondente trovato nella quarta grotta ha la stessa ripetizione (4QSd, cfr. J. T. M ILIK, recensione cit. nella Bibl.) il che induce a vedere qui una chiara espressione polemica, oppure la dipendenza di un manoscritto dall’altro. Il termine ebraico (tirôsh) tradotto con «vino dolce» significa propriamente «mosto» ed è completamente diverso dalla parola ebraica per «vino» (jaîn), da esso, dunque, si può dedurre che i membri della setta non bevevano vino fermentato cfr. GIUSEPPE F LAVIO, Guerra, II, 136); lo stesso termine si legge in 1QSa, II, 17-21 e CD, X III, 2-3. Siccome gli esseni di Qumrân lo bevevano lungo tutto il corso dell’anno, e non solo nel tempo della vendemmia, la traduzione «vino dolce» poco fermentato, è più aderente al testo che non il termine «mosto». Sull’uso di vino dolce tra i nazirei, nel banchetto escatologico degli esseni e nelle riunioni liturgiche dei primi cristiani, vedi 1QSa, II, 22 e nota. 7. L’espressione un terzo di ogni notte… potrebbe a rigore indicare un numero di notti equivalente a un terzo di tutte le notti dell’anno, cioè una intera su tre; ma non è verosimile; il senso è dunque: un terzo di ogni notte dell’anno era dedicato allo studio e alla preghiera in comune. Il libro equivale ai libri sacri della comunità; diritto equivale a «legge» (cfr. V, 6). La divisione della notte in tre vigilie concorda con X, 2 e con la sentenza di alcuni maestri, divenuta poi ufficiale nell’ebraismo: R. Eliezer diceva: «La notte si divide in tre vigilie, e a ogni vigilia il Santo, egli sia benedetto, siede e ruggisce come un leone, perché è detto: il Signore dall’alto ruggisce e dalla sua sacra dimora fa udire la sua voce; egli ruggisce per la sua abitazione (Ger., 25, 30). C’è un segno

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che ci aiuta a ricordare: Alla prima vigilia raglia l’asino, alla seconda abbaiano i cani, alla terza il fanciullo viene allattato al seno della madre, e la donna parla col marito» (Talmud Babil., Berakhot, 3 a: versione ital. di S. Cavalletti, Torino, 1968, pp. 70-71). Secondo I. Rabinowitz (Sequence and Dates…, cfr. Bibl.) la divisione della notte in tre vigilie testimonia che la Regola fu composta prima del 70 d. C. Su tutto il testo, vedi S. TALMON, The Order of Prayer…, in Tarbiz, 29, 1959-60, 1-20 e The Manual…, in RQ, 3, 1960 (cfr. Bibl.). 8-9. Alle tre classi, sacerdoti, anziani, il resto del popolo, e cioè tutti gli altri membri della comunità, corrisponde in II, 19-23 la distinzione, sacerdoti, leviti, popolo: la differenza si può spiegare sia dalla funzione particolare riservata ai leviti nel rinnovamento del patto (col. II), mentre non ne avevano alcuna gli anziani, che dal fatto che qui il testo tratta della seduta dei molti e cioè del consiglio, o sessione, della comunità nel quale è concepibile che gli anziani abbiano un posto particolare in conformità, almeno in parte, alle loro funzioni giuridiche (cfr. Num., 11, 16-29), tanto più che anche nella Regola dell’assemblea ai leviti sono assegnati compiti subalterni (1QSa, I, 22-25). Nel Documento di Damasco (X IV, 3-6) le classi sono quattro: sacerdotali, leviti, popolo, proseliti; la differenza molto probabile rif lette uno stadio posteriore del Documento rispetto alla Regola (vedi Introduzione). Sugli anziani vedi l’ampio studio di G. Bornkamm nel ThWb, VI, 1959, 651-683. All’epoca di Giuseppe Flavio vi erano quattro classi, ma egli non le menziona distintamente (Guerra, II, 150): vedi p. 61. Nella frase evangelica: «i primi diventeranno gli ultimi e gli ultimi i primi» (Mt., 20, 16) F. M. Cross e J. T. Milik suggeriscono di vedere un probabile accostamento polemico. 11-13 a. Il testo è piuttosto difficile e la versione e l’interpretazione non sono quindi totalmente sicure. Della disciplina degli esseni parla anche Giuseppe Flavio (Guerra, II, 137-138). Sull’ispettore (in ebr. mebaqqer) vedi CD, X III, 6 e nota, così anche per il paqîd o colui che presiede (r. 14). Secondo Giuseppe Flavio (Guerra, II, 137-139) la persona che manifestava il desiderio di entrare nella comunità era sottoposto a un periodo di probandato fuori di essa e, dopo il risultato positivo, passavano altri due anni: al termine del primo anno il candidato era ammesso alle acque della purificazione, e dopo il secondo anno e dopo un nuovo esame, entrava a fare parte integralmente della comunità. La prima fase è compresa verosimilmente nelle righe 14-16 a, la seconda nelle righe 16 b-21 a e la terza nelle righe 21 b-23. (Vedi i testi a pp. 59-60). Per un confronto tra le norme della Regola e quelle di Giuseppe Flavio si può vedere A. R. C. Leaney (pp. 191-195). 16-17. La purificazione dei molti designa le speciali purificazioni rituali praticate dai membri della comunità; la bevanda dei molti (r. 20) designa probabilmente la mensa comune, ma non necessariamente i «banchetti sacri o come propose invece J. T. Milik (Dieci anni…, p. 53). Vedi 1QSa, II, 17-22 e nota ivi. 20. O. Betz (Offenbarung…, p. 114) propone una ingegnosa interpretazione della bevanda dei molti suggerendo di intendere bevanda in senso metaforico: Dio è una fonte eterna (1QH, X, 31), una sorgente di potenza (1QK, I, 5: X II, 13) e di giustizia (1QS, X I, 5) e di conoscenza che riempiono l’anima del giusto (cfr. la tua verità

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riempie di delizia l’anima mia, 1QH, X, 31); perciò la partecipazione alla «bevanda» non è solo comunanza di mensa, ma anche vita comune in ogni altro momento significativo della vita comunitaria, e in particolare nello studio, nella lettura, nell’ammaestramento e preghiera, in quei momenti cioè nei quali all’anima assetata è proposta la conoscenza divina. L’interpretazione è basata evidentemente sul celebre testo del pozzo (Num., 21, 18) e sull’interpretazione che ne è data in CD, VI, 2-11. Codice penale della comunità: VI, 24-VII, 25. 24. Il termine ebraico dābār (che ho tradotto con causa in VI, 1) lo traduco qui alla lettera parole (ebr.: debārîm) per sottolineare maggiormente (cfr. ad es. Gen., 43, 7; Es., 18, 16.22) non tanto il senso giuridico, quanto il fatto che l’esame comunitario doveva essere fatto in base alle parole della legge mosaica e all’antica interpretazione data nella comunità; si tratta cioè delle «parole di Dio» (cfr. I, 14; III, 11) all’osservanza delle quali si obbligava ogni membro della comunità (così anche A. R. C. Leaney). A. M. Habermann vede in questo plurale una abbreviazione del titolo ebraico del Deuteronomio (’elleh ha debārîm «queste sono le parole») ma per giustificare ciò è necessario provare che tutti questi giudizi sono stati dedotti da spiegazioni midrashiche di quel libro. Mi pare meno buona la versione «secondo i casi» o «in base ai (diversi) casi». 25. La menzogna a proposito dei beni è menzionata anche nel CD, IX, 11-12 e X IV, 20. Viene spontaneo il confronto con il caso di Anania e Saffira (At., 5, 1-9), ma il parallelismo non è completo; essi non avevano alcun obbligo di mettere in comune i loro beni, e la loro mancanza è la bugia verso lo Spirito Santo. 27. chi giura (in ebr. jazkîr da zākar ricordare, rendere cultualmente o religiosamente presente la divinità, cfr. anche Eccli., 23, 7-11 e CD, XV, 1-5). Dalla proibizione di giurare il falso in nome di Dio (Lev., 19, 12; Es., 20, 7) derivò tanto l’obbligo di non giurare per alcun motivo (cfr. Mt., 5, 33-37) quanto l’uso di non pronunciare mai il nome sacro di Dio, espresso con il tetragramma; l’unica eccezione era rappresentata dal giorno dell’espiazione (cfr. Mishnah, Sanh., 7, 5 e Jomà, 6, 2). VII-VIII. In questi capitoli il testo del rotolo presenta un numero notevole di correzioni apportate in secondo tempo da una mano diversa, che spesso cambia il senso primitivo: uno studio completo fu fatto da P. Guilbert (nell’art. Deux écritures…, in RQ, 1, 1958, 199-212) e ripreso, in parte, nella sua traduzione (vedi Bibl.). 2. I sacerdoti scritti nel libro sono forse quelli appartenenti alla Regola (cfr. I, 16; II, 20; V, 23; VI, 22) o scritti in una lista della comunità, oppure quelli i cui antenati sono espressamente menzionati nella legge mosaica. 6-9. Il testo generale è basato sul Lev., 19,18, e la versione sul testo completato dal secondo amanuense; che il senso di prossimo fosse ben lungi da ogni universalismo appare anche dalla celebre domanda di un dottore della legge a Gesù: «Ma chi è il mio prossimo?» e dalla risposta per mezzo della parabola del samaritano (Lc., 10, 25-37). 9. Sulla vendetta personale vedi CD, IX, 2-5. 12-15. Righe particolarmente difficili: il testo non è sicuro e l’interpretazione dei commentatori è spesso divergente.

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È probabile che oltre alla ripugnanza che i semiti, e gli ebrei in particolare, avevano per la nudità (cfr. Gen., 2, 25; 3, 7) si possa scorgere qui (r. 12 b) una posizione polemica contro gli usi dei greci nei giochi ginnici (cfr. 2 Macc., 4, 13 e segg.). L’attenzione degli esseni di non sputare (r. 13) tra la gente è menzionata anche da Giuseppe Flavio (Guerra, II, 147-149). Probabilmente mano (r. 13) ha un senso eufemistico per designare l’organo maschile; è stracciato (r. 14) prendendo il termine ebraico pôḥeh in senso rabbinico, con A. Dupont-Sommer e J. Licht; in genere questo testo è tradotto «o esso (il membro virile) si gonfia ed…»; alla riga 15b la versione «esprimersi con essa» non è certa: si può anche tradurre «appoggiandosi su di essa»: forse la proibizione di usare la sinistra era dovuta alla consuetudine che la riservava per usi meno nobili: un testo di Filone, dice degli esseni: «Essi manifestano la loro incertezza con una lenta mossa del capo e alzando un dito della mano destra» (De vita contemplat., X, 77 citato da G. Vermes nell’art. Essenes-Therapeutai-Qumrân, in Durham University Journal, 1960, 111). Per Y. Yadin (The Scroll of the War of the Sons of Light the Sons of Darkness, versione inglese di B. Ch. Rabin, Oxford, 1962, pp. 74-75) dalla riga 13 b alla 15 a il testo parla della regolamentazione dei bisogni corporali nella quale, come rileva Giuseppe Flavio (luogo sopra citato), erano particolarmente fedeli nell’osservanza delle prescrizioni del Deut., 23, 12-14. 19-24. Versione fatta sul testo corretto dal secondo amanuense. La comunità, pilota nel deserto: VIII, 1-X, 1 a: costituzione della comunità (VIII, 1-IX, 11), norme per il saggio o istruttore (IX, 12-X, Ia). Questa sezione, di notevole importanza per comprendere il movimento di Qumrân, presenta alcuni interrogativi la cui soluzione è tuttora oggetto di studio. 1) consiglio della comunità: può designare tanto un ristretto numero di persone a capo di essa, quanto la stessa comunità nel suo insieme, essere cioè un equivalente di «comunità»; quest’ultimo è il significato che l’espressione ha sicuramente nella maggioranza dei testi nei quali ricorre (cfr. III, 2; V, 7; VI, 3.12-14 ecc.) e tale è pure qui appresso VIII, 11 e in 1QpHab X II, 4 (non si legge mai nel Documento di Damasco): intendo dunque l’espressione iniziale come equivalente a: «nella comunità ci saranno…»; 2) ci si è domandato se i membri di questo piccolo gruppo direttivo erano dodici o quindici, l’espressione ebraica del nostro rotolo è infatti ambigua, e suscettibile tanto dell’uno quanto dell’altro significato: il dubbio fu sciolto da un frammento della quarta grotta reso noto da J. T. Milik che parla di quindici (Dieci anni…, p. 51 e lo stesso studioso in RB, 54, 1957, 589); come si può dedurre da quanto segue il potere di queste quindici persone era legislativo e giudiziario; 3) troppo affrettatamente questo consiglio ristretto di 15 fu posto in relazione (allorché si discuteva ancora la sua interpretazione) con i dodici apostoli; certo non si può addurre il testo di Gal., 2, 9 che parla di Giacomo, Cefa e Giovanni (come ad es. M. W EISE, in ZNW, 49, 1958, vedi Bibl.) giacché manca in essi la componente cultuale in quanto non sono sacerdoti della tribù di Levi, cioè nel senso ebraico, e si aggiungono agli altri nove apostoli non a dodici; 4) il fondamento comune tra i dodici apostoli e i quindici del consiglio ristretto della comunità di Qumrân consiste nel fatto che sia gli uni che gli altri rappresentano, da

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qualsiasi tribù provengano, le dodici tribù d’Israele (cfr. Mc., 3, 14; Mt., 10, 2; Lc., 6, 13 e specialmente Mt., 19, 28 e Lc., 22, 30; dall’Apocalisse risulta evidente quanto, nella mente dell’autore, fosse molteplice il simbolismo del numero dodici: dodici tribù, dodici apostoli, dodici porte, dodici fondamenta ecc.); il nostro testo parla dunque di dodici laici rappresentanti ognuno una delle dodici tribù (se Levi fa parte di questo numero oppure no, e se Efraim e Manasse si devono contare per una tribù o per due, non ha molta importanza, giacché il numero delle tribù è sempre dodici) e di tre sacerdoti rappresentanti ognuno una delle tre famiglie sacerdotali discendenti da Levi: Ghershon, Kehat, Merari (cfr. Num., 3, 17-35 e 1QM, IV, 1 e nota); non è probabile l’opinione di A. M. Habermann secondo la quale i tre sacerdoti rappresenterebbero i tre patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe; 5) negli altri testi della Regola questo collegio di 15 persone non è mai espressamente menzionato e da VIII, 1 come da altri testi simili si ha motivo di credere che ad esso il presente testo affidi compiti che altrove spettano all’intera comunità; il Documento di Damasco (CD, X, 4-10 a e X IV, 13) parla di dieci giudici, sei laici e quattro sacerdoti, ma non pare che tra i due testi vi sia una relazione diretta: i princìpi ispiratori e lo stato di cose sono diversi; 6) la difficoltà maggiore sta nel vedere quale sia il significato di questa sezione considerata sia nell’insieme della Regola che in se stessa: secondo alcuni studiosi (A. D UPONT-S OMMER, G. VERMES, W. H. BROWNLEE e altri) si ha qui un séguito di norme costituzionali della comunità di Qumrân, mentre secondo altri (ad es. E. F. S UTCLIFFE, The First Fifteen…, The General Council…, e The Monks…, pp. 58-59 e 254-255, cfr. Bibl.) si tratta di un corpo scelto, costituito da membri di comunità locali delle stesso movimento esseno (cfr. VIII, 3) sottoposti precedentemente a severo vaglic (righe 10 b-11), oppure si tratta della legislazione di una ideale comunità futura (ad es. P. Guilbert) o di una comunità simbolica (ad es. J. Maier). Tra le varie possibilità non vi è, per ora, una soluzione sicura. Un complesso di dati come ad es. il collegio dei 15, il ricorrere della frase «quando si realizzerà…», (VIII, 4 b.12; IX, 3 e cfr. IX, 5), l’ideale religioso e morale particolarmente alto (sebbene sostanzialmente uguale a quello delle colonne precedenti), la notevolissima accentuazione culturale (cfr. r. 5-10 e IX, 3-6), la menzione di due messia (IX, 11), l’abbozzo di un codice penale (VIII, 20-IX, 2 ecc.), la singolare disposizione sul potere assoluto dei sacerdoti sia in materia giudiziaria che amministrativa (vedi IX, 7-8), la molteplicità di correzioni apportate posteriormente al testo, nonché il fatto singolare che un frammento della Regola proveniente dalla quarta grotta (4QS e, del 150-130 circa a. C. secondo L. Starcky, vedi Bibl.) del nostro rotolo, manchi di tutto il passo che va da VIII, 15 a fino a IX, 11, inducono a ritenere che abbiamo qui i tratti fondamentali di uno stadio del movimento esseno nel quale si è manifestato il bisogno di un rinnovamento e della creazione di una comunità-pilota costituita, forse, da una élite delle varie comunità sparse per il paese (cfr. GIUSEPPE F LAVIO, Guerra, II, 124) che rif lettesse in una maniera più pura gli antichi ideali (vedi IX, 10-11), separandosi anche fisicamente dagli altri e sottolineasse più integralmente la separazione totale dalla classe dominante (gli ultimi asmonei, da Aristobulo I in pòi, prima dell’arrivo di Pompeo nel 63) e quindi la loro assimilazione al vero Israele, al tempio, al sacerdozio incontaminato, e la loro vita rivolta al culto puro. Si sente qua e là uno spirito molto vicino a

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quello di alcuni testi della Regola della guerra. È un periodo questo in cui l’archeologia segnala a Qumrân un ingrandimento degli edifici (vedi Introduzione generale, p. 18 e p. 107). Si veda J. M URPHY-O’C ONNOR, The Essenes and their History, in RB, 81, 1974, 215-244; e I. POUILLY, La Règle de la Communauté de Qumrân. Son Évolution littéraire, Paris, 1976. VIII, 2-4. verisà… giustizia…: cfr. I, 5; amore benigno: cfr. II, 24; V, 4.25; X 26; custodire… la fede: cioè la fedeltà a Dio e al suo patto (Is., 26, 1-3; Ger., 5, 3 e 1QH, VI, 15.26); crogiolo: cfr. I, 17-18; norma del tempo: cfr. I, 9. 5-10. Uno dei passi più belli tra i manoscritti di Qumrân a proposito del sacerdozio spirituale e dell’assimiliazione della comunità al tempio. I principali riferimenti biblici e qumranici, sono: pianta eterna: cioè la comunità, cfr. X I, 8; CD, I, 7; 1QH, VI, 15; VIII, 6 e segg. e l’allegoria del cedro in Ezechiele (c. 17 e c. 31); casa santa: cfr. IX, 6; X, 4; 1QSb, IV, 28; 1QH, VI, 26 e segg.; santo dei santi: la comunità prende il posto dello stesso luogo più santo del tempio dove poteva entrare solo il sommo sacerdote (cfr. V, 6.21; VIII, 9; IX, 6 e segg. X I, 8; CD, I, 7; VI, 2); per espiare la terra: cioè il paese d’Israele contaminato dalla cattiva condotta degli abitanti, cfr. Num., 35, 33-34 (cfr. L. M ORALDI, Espiazione sacrificale e riti espiatori, Roma, 1956, 232 e segg.); muro provato…: dipende dal testo di Is., 28, 16: «Guardate! Pongo in Sion una pietra, / una pietra scelta, angolare, preziosa, / quale fondamento: / chi vi crederà non vacillerà»; (cfr. anche S. H. H OOKE, The Siege Perilous, London, 1965, 235 e segg.); abitazione…: è detto, nella Bibbia, tanto del santuario (1 Sam., 2, 29; Sal., 26, 8), quanto del cielo (Deut., 26, 15; Ger., 25, 30): si osservi qui, da una parte, un probabile gioco di parole tra mā‘ôn, «abitazione» e mā‘în, «fonte» (dalla scrittura quasi identica a Qumrân), dall’altra il fatto che 4QSe in luogo di «abitazione» ha mā‘ûz, «rifugio». E saranno graditi…: espressione tipicamente cultuale, detta dei sacrifici, qui invece dei membri della comunità. Il tempio di Gerusalemme sotto la dominazione di sacerdoti empi era considerato profanato (cfr. CD, VI, 11-20 e 1QpHab, X II, 7-9); la Regola della guerra (1QM, II, 1-7) stabilisce il momento in cui sarà purificato e instaurato il culto legittimo, nella prima fase della guerra escatologica (alla quale si riferisce, forse, l’espressione «… accelerare il giudizio dell’empietà (r. 10), nell’intervallo, l’unico vero santuario è la stessa comunità. Cfr. su tutto questo tratto G. VERMES, Scripture and Tradition…, pp. 32 e segg.; O. BETZ, Offenbarung…. pp. 158 e segg.). Uno studio interamente dedicato all’aspetto comunità-tempio a Qumrân e nel Nuovo Testamento è quello di B. GÄRTNER, The Temple… (vedi Bibl.). La riga 10 è più lunga del solito perché ho seguito il testo rielaborato dal secondo amanuense, testo che non ha riscontro in 4QSd, ma che forse si trovava in 4QSe. 12. Vedi appresso IX, 20 e nota. 13-14. La tensione verso il deserto, da intendere alla lettera qui come appresso, designa senza dubbio Qumrân e la sua ragione, come separazione dal dominio del male, ma anche come ritorno a un luogo di purificazione pieno di ricordi della storia salvifica, cfr. 1QM, I, 3; 4QpPS37, II, 1: vedi U. W. M AUSER, Christ in the Wilderness, London, 1963, pp. 15-58; O. BETZ, Der Paraklet…. pp. 57 e segg. e l’lntroduz. generale, pp. 75-76.

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di lui: cioè di Jahweh, nome sacro di Dio (vedi pp. 117-118); qui il nostro rotolo non ha propriamente un pronome personale, ma un criptogramma, HÛ’HA’, che è forse l’abbreviazione dell’espressione biblica: (Jahweh) «egli è il Dio» (cfr. Deut., 4, 35·39; 7, 9· 1 Re, 18, 39); è curioso osservare che in luogo di questo criptogramma, il frammento 4QSe ha «della verità» (ha-’emet), mentre un altro frammento della stessa grotta tralascia l’ultima parte della frase fermandosi a «nel deserto», evitando anche la citazione della riga seguente. I quattro punti del testo ebraico confermano ancora una volta la cura di evitare il nome sacro di Dio, Jahweh: l’estensore del testo sostituì con un puntino ognuna delle quattro lettere del tetragramma Jhwh (vedi anche 4Q176). La citazione è presa da Is., 40, 3 (cfr. anche Mt., 3, 3; Mc., 1, 3; Lc., 3, 4-6 e Gv., 1, 23). 20. La sezione legislativa VIII, 20 IX, 2 è più severa di quella corrispondente (VI, 24 - VII, 25). IX, 11. Per la venuta del projeta (cfr. Deut., 18, 18-19; Num., 24, 15-17 e Deut., 33, 811) vedi 4QTest, 5-8; e per i messia di Aronne… (ebr. meshîḥê ’Aharôn…), i due messia di una fase delle sviluppo della dottrina escatologica degli esseni di Qumrân, vedi 1QSa, II, 11 e nota. 12. Il saggio (ebr. maśkîl da śekel, «prudenza», giusta valutazione delle cose», «saggezza», equivalente di ḥokmāh, termine pochissimo usato a Qumrân) è colui che possiede la saggezza pratica e quindi la può impartire agli altri; si legge in III, 13; IX, 12 e 21. Sulla base di alcuni testi biblici (soprattutto Dan., 11, 33.35; 12, 3), G. Vermes (The Dead Sea Scroils…, pp. 23 e segg.) conclude che nell’ebraismo postesilico i leviti erano gli istruttori del popolo e quindi i maśkilîm; l’uso passò a Qumrân e sarebbe testimoniato da CD, X III, 1-4: a capo di tutta la setta e a capo di ogni comunità da essa dipendente vi era un sacerdote e un mebaqqer; ma queste identificazioni non sono così fatilmente accettabili. Il mebaqqer, «ispettore» (vedi CD, X III, 5 e nota) si identificava secondo il Vermès, con ha-’ish ha-peqîd berô’sh harabbîm, «colui che presiede, colui che è alla testa dei molti» (VI, 14, vedi CD, X III, 5 e note), con il dôresh ha-tôrāh, «colui che scruta (indaga, studia, interpreta) la legge» (cfr. VI, 6-8; VIII, 1.15; X I, 1) e con il maśkîl; ma queste identificazioni non sono facilmente accettabili. (Su questo problema vedi anche gli ampi studi di O. BETZ, Offenbarung…, vedi Bibi.; e B. GERHARDSSON, Memory and Manuscript, Uppsala, 1961, pp. 235 e segg.). Una delle attività centrali della setta era la ricerca approfondita, lo studio diuturno della legge mosaica e degli scritti che considerava sacri (cfr. VI, 6-8 e VIII, 15-16) realizzando l’ideale descritto dal Sal., 1, 1-2: «Beato l’uomo che / non si muove nel consiglio degli empi,… / ma ha invece il suo diletto nella legge di Jahweh / e nella sua legge medita di giorno e di notte». Tuttavia nonostante l’esame dell’intelligenza dei candidati (cfr. VI, 14.17 ecc.) non è verosimile pensare che tutti i membri possedessero le stesse doti per un tale studio tutt’altro che facile (vedi Introduzione ai commenti biblici) ed è quindi molto probabile che in ogni raggruppamento, o cellula essena, vi fosse una persona un sacerdote o un levita (cfr. Deut., 17, 9-13; 31, 9-13; Neem., 8, 7-9) che aveva particolarmente questo compito: si comprende così la disposizione di manifestare a tutti i membri effettivi della comunità quanto scopriva l’uomo che scrutava la legge, il dôresh ha-tôrāh (cfr. V, 9; VI. 6; VIII, 12; IX, 17) essendo senz’altro ritenuto degno di tale insegnamento

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esoterico (cfr. anche 1QH, II, 15.32.34; IV, 14 e segg.); l’uomo che indaga è altrove identificato con il «bastone» (ebr.: meḥôqeq) dei prìncipi che scavarono il pozzo (Num., 21, 18 e CD, VI, 7), con la «stella» di Giacobbe (Num., 24, 17; e CD, VII, 18) e quindi indicato come una personalità futura che verrà, con il «virgulto» (ebr. ṣemaḥ) di David (2 Sam., 7, 11-14 e 4QFlor, I, 11). Di fronte a questo stato di cose non mi pare giustificata l’identificazione del maśkîl con il dôresh ha-tôrāh: il primo aveva compiti diversi del secondo: a lui sono dirette molte norme sulla formazione e direzione dei membri della comunità (vedi ad es. III, 18; IX, 12-26; e 1QSb, V, 11-12) e il suo ufficio doveva, a quanto pare, essere quello di guida ed esaminatore dei singoli, un padre spirituale nel senso più vasto del termine, l’istruttore e il formatore soprattutto dei nuovi membri, contraddistinto, come dice il suo nome ḍa saggezza e da prudenza. Si può anche ritenere, a motivo del loro compito, che in ogni comunità del movimento esseno l’interprete o studioso della legge, (dôresh ha tôrāh) e il saggio (maśkîl) fossero i veri detentori della scienza esoterica e che appartenessero alla classe dei leviti e dei sacerdoti. Il peso: cioè il valore; immagine familiare anche nell’antico Egitto come ad es.: nella rappresentazione della dea Maat che pesa il cuore dei defunti: cfr. Prov., 16, 2; Sal., 62, 9; Dan., 5, 27. Tutte le raccomandazioni che seguono (fino a X, 1 a) sono rivolte al saggio. 16. uomini della fossa: o perdizione, vedi 1QH, II, 21. 18. la via: cioè le norme di vita e le idee della comunità; il termine in questo senso doveva essere assai comune almeno in certi ambienti, se lo si legge più volte nel libro degli Atti degli apostoli (At., 9, 2; 22, 4; 24, 22; e cioè due volte nel racconto della persecuzione di Paolo contro la chiesa nascente, e una volta in riferimento al procuratore romano Felice); in 4QSd si legge, invece di coloro che scelgono la via, «gli eletti della via». Questa metafora della via deriva dalla concezione prettamente semitica della vita come un viaggio (cfr. le espressioni «camminare con Dio». e «camminare alla presenza di Dio», dette rispettivamente di Enoc e di Abramo, Gen., 5, 24; 17, 1). 20. Questo è il tempo…: cfr. VIII, 13-14. Inno finale: X, 1 b-X I, 22. Quest’ultima sezione comprende il calendario religioso o i momenti essenziali della preghiera secondo le norme della comunità (righe 1 b-9 a): le due ore quotidiane (aurora e crepuscolo) e i tempi sacri del ciclo annuale (inizio delle stagioni, dei mesi, i sabbati); l’inizio dell’anno, gli anni sabbatici, gli anni giubilari. Segue in forma innologica, con una certa ispirazione lirica, l’espressione dei tratti fondamentali dei sentimenti verso Dio e verso il prossimo del vero fedele esseno (righe 9 b-X I, 15 a). In fine un ringraziamento, o benedizione finale, sui temi dell’onnipotenza di Dio e della pochezza dell’uomo (X I, 15 b-22). Sul calendario degli esseni di Qumrân vedi A. R. C. Leaney (pp. 80-107), J. van Goudoever, A. Jaubert, J. Morgenstern (Bibliografia). Le prime righe, che parlano della divisione del ritmo giornaliero della preghiera e delle feste stagionali, presentano molte difficoltà e la traduzione non è quindi sicura.

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Un aspetto dei più enigmatici e che diede quindi luogo a molte supposizioni è costituito da tre consonanti ebraiche in una posizione alquanto anormale, una nella r. 1 e due nella r. 4. La prima, una alef, è unita, come desinenza, al verbo «stabilire» (che ho preso come iniziale del pronome personale riferentesi a Dio in analogia a VIII, 13, e si può intendere anche come la prima lettera di «Dio» in ebraico); la seconda è una mem (= m o, per la precisione, hm) dopo «allorché si rinnovano»: seguendo due frammenti della grotta quarta, 4QSb e 5QSd (vedi J. T. M ILIK, in RB, 67 1960, 410 e segg.) l’ho intesa come un’abbreviazione di «giorno»; la terza è una nun = n, della quale, con gli stessi due frammenti, non tenni conto mancando in essi qualsiasi traccia di questa lettera, seguita da uno spazio vuoto corrispondente a circa due lettere (sicché si potrebbe tradurre «e un segno nun…») e un buon numero di studiosi (ad es. J. T. M ILIK, loc. cit.) la considera un falso inizio di parola da parte dell’amanuense. Anche a titolo di curiosità ecco alcune delle più interessanti e fantasiose interpretazioni: W. H. Brownlee (nel commento e in modo più particolareggiato nell’appendice E di pp. 50-51) dopo aver tradotto «durante i periodi stabiliti da alef… allorché si rinnovano, il mem è grande per il santo dei santi e il segno nun è per l’apertura (o chiave)…» ritiene che si tratti dell’acrostico della parola amen (composta da alef mem nun) e osserva: 1) in ebr. le parole «luce», «veglia», «tesoro» iniziano tutte con alef; si potrebbe anche tradurre: «egli ha stabilito Adamo (alef) sotto la dominazione della luce…»; 2) «il mem è grande…» si può riferire al mem finale (che in ebraico può essere più grande di quello iniziale e mediano), o essere una reminiscenza dell’espressione «il luminare grande» (Gen., 1, 16) o avere valore esoterico; 3) il segno nun può riferirsi all’espressione biblica nella quale si parla dei luminari del firmamento come «segni per le feste per i giorni per gli anni» (Gen., 1, 14) o essere considerato come simbolo di una chiave (primitiva) della quale all’inizio e in mezzo alla parola la lettera ebraica ne ha vagamente la forma, o essere l’iniziale di una qualche parola (come nabî, «profeta» naśi, «principe» nes, «insegna». ecc.) o anche avere valore esoterico. A. Dupont-Sommer nel suo commento non ha alcun accenno alle due prime consonanti, nota invece l’ultima (vedi anche dello stesso autore: Manuel de Discipline, X, 1-4…, in Nouv. Clio, 5, 1953, 215-216; Le probleme des influences…, in RHPhR, 35, 1955, 75-94, cfr. Bibl.) e traduce (per la verità in modo assai libero): «secondo la suprema santità del segno N, secondo la chiave delle sue grazie»: vede nella lettera n (che nell’alfabeto ebraico ha il valore numerico di 50) una convergenza con i pitagorici per i quali questo numero è il più sacro, rappresentando il principio della generazione dell’universo, e ritiene che il calendario degli esseni, fondato sulla divisione dell’anno in quattro stagioni, abbia qualche rapporto con questo numero (cfr. anche F ILONE, De vita contemplativa, 65). A. M. Habermann non dà di alef alcuna spiegazione particolare; in luogo di hm (o m) legge ziwam, «loro gloria» (dal termine ziw, «gloria» nell’ebraico della Mishnah) e prende n come un’abbreviazione di ne’emān, «stabile», «perenne». Per E. Ettisch (Eschatologisch - astrl,.., “in RQ, 2, 1959, vedi Bibl.), alef designa la costellazione del toro (in ebr. ’elef); mem la costellazione dell’acquario (in ebr. maîm); nun, la costellazione del pesce (in ebr. nûn).

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6. statuto scolpito…: l’espressione ha una storia molto antica, che dalle tavolette celesti ove è scolpito il destino stabilito dagli dèi va fino al decalogo mosaico (Es., 32, 16), alla legge posta e scritta nel cuore (Ger., 31, 33-34), allo spirito e al cuore nuovo per praticare i precetti (Ez., 36, 26-27). Cfr. anche Eccl., 45, 11; CD, VI, 18-19, XVI, 3. Vedi W. N AUCK, Lex insculpta…, in ZNW, 46, 1955, 138-140 (cfr. Bibl.). 7-8. Le settimane di anni sono gli anni sabatici (cfr. Lev, 25, 1-7; 1QM); e settimane di anni… per la liberazione è l’anno giubilare, sette settimane di anni, e cioè il cinquantesimo anno (cfr. Lev., 25, 8-55). 13. uscita… entrata: vedi 1QSa, I, 23. 20. L’ordine di non mantenere rancore si legge nel Lev., 19, 18. 24. nascondo: uno scriba posteriore, contrario (o ignaro), forse, della tendenza esoterica della setta scrisse nell’interlinea «manifesto». 26. La prima parte della riga l’ho completata con i testi paralleli II, 24; V, 25; VIII, 2; e la seconda parte con Is., 35, 4 e 1QH, II, 9. X I, 3. la luce…: oppure «e l’illuminazione del mio cuore (deriva) dal segreto…». 8. Sui figli del cielo vedi Gen., 6, 2.4; Giob., 1, 6; Sal., 29, 1; 89, 7 ecc.; D. BARTHÉLEMY, La sainteté selon…, (Bibl.) e 1QH, III, 22 e nota. 10-15. Sulla pochezza dell’uomo e sulla «teologia dei poveri» (rr. 21-22) si hanno vasti e profondi sviluppi negli Inni: vedi ad es. 1QH I, 21-22 e nota. 21. nato da donna: cfr. Giob., 14, 1; 1QH, X III, 14; XVIII, 12-13.16. 23-24; cibo di vermi: (cfr. anche r. 10); l’espressione ricorda: «…mandando fuoco e vermi nelle loro carni» (Giudt., 16, 17); «… il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà…» (Is., 66, 24), e in particolare il lamento del salmista: «Io sono un verme e non un uomo» (Sal., 22, 7): cfr. anche Giob., 4, 19. Tutto l’inno finale si distingue per alcuni aspetti tipici del lessico e della spiritualità degli Inni di Qumrân. Per la concezione dell’al di là negli scritti di Qumrân vedi 1QH, IV, 21 e nota ivi.

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REGOLA DELL’ASSEMBLEA 1QSa

Come è noto (vedi pp. 113 e segg.) il rotolo della Regola della com. proseguiva con il presente scritto (1QSa = 1Q28a) il quale era a sua volta seguito da un terzo (1QSb = 1Q28b); ognuno però di questi due testi è preceduto da uno spazio conveniente e da un segno caratteristico indicante la fine di uno scritto o un nuovo paragrafo; un foglio acquistato dal Museo Palestinese nel 1950, insieme ai frammenti 1Q20 (dell’Apocrifo della Genesi) e 1Q8 (del testo di 1QIsb) e ai nostri due testi (1QSa e 1QSb), ha rivelato all’attento esame del Milik che era cucito alla prima colonna della Regola della com. («rivolto dal lato verso in modo da essere leggibile quando il rotolo era arrotolato normalmente») e conteneva il titolo, purtroppo mutilo, di tutto il rotolo, cioè: Regola della comunità ed (estratti) da… e qui dovevano seguire il titolo delle altre due opere (vedi DJD, I, 1955, 107-108 e tavola XXII). Pare dunque che non vi possano essere dubbi sul fatto che il rotolo conteneva, nell’ordine, 1QS, 1QSa, 1QSb, come tre scritti distinti e che i due ultimi abbiano fatto parte delle scoperte dei beduini (nel 1947) che li vendettero al commerciante di Betlemme dal quale li acquistò (nel 1950) il Museo Palestinese, mentre il primo ebbe una sorte diversa. Il testo di 1QSa fu pubblicato da D. Barthélemy: fotocopia delle due colonne (tavole XXIII-XXIV), trascrizione, versione francese e note (DJD, I, 1955, 108-118). Lo stato di conservazione è discreto per la prima colonna, ma molto lacunoso per la seconda. Il titolo è tratto dalle prime parole: qui il termine «assemblea» (ebr. ‘edah) ha verosimilmente un senso tecnico; mentre, infatti, si legge solo due volte in 1QS, nelle sole due colonne del presente scritto, ricorre ben diciannove volte. Questa «assemblea di Israele» designa così un’entità diversa dalla «comunità» di cui parla 1QS. Per provare ciò il Barthélemy fa notare che l’assemblea è comandata da un capo militare, «il principe di tutta l’assemblea» (cfr. 1QSb V, 20 e CD, VII, 20), carattere guerriero sottolineato anche da alcune espressioni (1QSa, I, 21); la comunità invece è improntata alla non violenza (1QS, IX, 16; X, 17-18; IX, 22-23) ed ha come capo il mebaqqer (1QS, VI, 11.19; CD, IX; XIII-XV); l’assemblea comprende uomini, donne e bambini, mentre la comunità è strutturata in modo quasi monastico, i suoi membri hanno verosimilmente tutti un’età adulta e passano attraverso un periodo di probandato (1QS, V, 13-22). Il DupontSommer1 non accetta queste conclusioni e ritiene che «assemblea» e 161

«comunità» siano due termini sinonimi dai quali non si può dedurre nulla all’infuori di una semplice preferenza dei redattori o di una evoluzione della terminologia. Alle ragioni addotte dal Barthélemy se ne potrebbero aggiungere altre, mentre le difficoltà del Dupont-Sommer non sono convincenti. Il Vermes2 in considerazione del fatto che questo scritto è diretto a tutta l’assemblea per la «fine dei giorni», che è una regola per una comunità configurata per la guerra messianica contro tutti i popoli, e che si riferisce alla presenza del messia sacerdote e del messia di Israele al consiglio e alla mensa, preferisce il titolo «Regola messianica».

Aspetto letterario. Le due colonne sono caratterizzate dal secco stile giuridico, dall’affiancamento di disposizioni diverse, spesso disarticolate, da regole e norme che non indulgono né alla paranetica, né a ragionamenti persuasivi. Con altri scritti di Qumrân, e in primo luogo con la Regola della com. e quella della guerra, questa ha in comune il procedimento antologico che trae termini ed espressioni dall’uno e dall’altro dei testi biblici. Lo scritto fa parte delle quattro opere giuridiche scoperte a Qumrân (1QS, 1QM, CD, 1QSa), ma sorpassa le altre tre per la laconicità e il tono deciso. Questo aspetto e il titolo di tutto il rotolo hanno indotto qualche studioso a ritenere che questa regola sia un estratto da una più ampia (ad es. A. Dupont-Sommer, J. Carmignac). Si tratta di una pura possibilità teorica senza alcuna ragione all’infuori del titolo e della straordinaria laconicità: elementi troppo esigui e incerti per una tale conclusione. Oltre alle disposizioni che la caratterizzano, anche lo stile coopera notevolmente a rilevarne l’aspetto speciale che da una parte l’avvicina alla Regola della com. e dall’altra alla Regola della guerra. Alla prima in quanto si tratta di una regola il cui sviluppo e la cui esecuzione, le si attribuisca un valore puramente ideale o meno, non è intelligibile senza 1QS in quanto in essa tutto ruota attorno alla comunità ivi descritta; perciò apparteneva allo stesso rotolo; gli editori le diedero inizialmente la stessa sigla e qualche studioso parla di 1QSa come di una «regola annessa» rispetto a 1QS. Tuttavia questi evidenti elementi comuni non possono certo oscurare la palese affinità di ispirazione e di ideale con la Regola della guerra (cfr. I, 2021.26); ben difficilmente è casuale la denominazione di questo grande assembramento di uomini, donne e bambini come ‘edah «assemblea», che è appunto così comune in 1QM, e il fatto che il supremo capo laico, il quale 162

guiderà l’attesa rinascita escatologica, sia comunemente indicato come «principe dell’assemblea» o «dell’assemblea di tutto Israele» o «di tutta l’assemblea» (cfr. CD, VII, 20; 1QSb, V, 20; 1QM, V, 1; 4QpIsa, 2). La contrapposizione tra l’attitudine alla non violenza che caratterizza la Regola della com. e il carattere guerriero della Regola dell’assemblea (vedi D. Barthélemy) mi pare che non esista, per il motivo che la non violenza di 1QS è solo apparente e i princìpi che l’ispirano sono tutt’altro che irenici.

Contenuto. Avendo davanti agli occhi la realtà delle comunità essene così caratterizzate sia da 1QS sia dal CD, l’autore vede bene che non possono essere aperte a una grande massa eterogenea; soprattutto sa che quando questa massa si rivolgerà alle comunità essene per unirsi ai loro ideali e staccarsi da quell’ambiente religioso, cultuale e morale che la circonda, e che gli esseni da tempo avevano abbandonato, sarà segno che inizia l’avveramento delle loro speranze, sarà la prima realizzazione degli ideali che avevano plasmato il movimento esseno e il principio della nuova era che doveva vedere il ritorno di Israele in un’unica grande assemblea. Mossa in gran parte dalle stesse aspirazioni essene, l’assemblea doveva acquistare una fisionomia, per molti aspetti, nuova ed essere indirizzata verso quella formazione che aveva lo scopo di prepararla a compiti ormai imminenti, cioè la guerra santa contro tutti i rinnegati e contro tutti i popoli, per il definitivo trionfo dei buoni sui cattivi, cioè degli ebrei dagli ideali esseni su tutti gli altri ebrei e su tutti gli altri popoli, e per l’instaurazione dell’èra escatologica. Il ritorno o la conversione di Israele come segno dell’imminente fine dell’èra presente e l’inizio della futura è un pensiero fondamentale di san Paolo a proposito del suo popolo (Rom., cc. 9-11), ma le condizioni, il carattere, il tempo, il giudizio su questo ritorno sono profondamente diversi; restano comuni due elementi: Israele ritornerà; il suo ritorno sarà l’indice della fine dell’èra presente. Su di uno sfondo generale di questo genere l’autore traccia velocemente e con decisione le scarse norme essenziali che dovranno regolare, per un periodo previsto molto breve, l’accoglienza, la formazione, la divisione dell’assemblea di Israele e l’incontro con i due messia nel consiglio della comunità e nella mensa escatologica. Le due colonne si possono dividere nel seguente modo: 1) l’Israele che ritorna: I, 1-5; 163

2) le classi di età e l’accessione ai diversi uffici: I, 6-18; 3) i vecchi, gli invalidi, i leviti: I, 19-25a; 4) preparazione per le convocazioni: gli ammessi e gli esclusi: I, 25b- II, 11a; 5) incontro con i due messia: nel consiglio della comunità e nella mensa escatologica: II, 11b-22. Oltre a quelli rilevati precedentemente questo scritto ha ancora due aspetti particolari sui quali molto si è scritto. Il primo è la mensa escatologica (II, 17-22) che alcuni studiosi giudicano molto vicina all’ultima Cena di Gesù narrata dai vangeli e da san Paolo nell’epistola ai Corinzi (1 Cor., 11, 17-34); ma in questo confronto spesso si dimentica che ci si trova di fronte a un pasto comunitario piuttosto ordinario tra gli ebrei religiosi; la procedura seguita era fondamentalmente comune anche nei particolari, e le variazioni rituali derivavano dall’evento, passato, presente o futuro, al quale i presenti intendevano partecipare, rievocare o festeggiare. Considerare quindi l’ultima Cena come «un sacramento esseno» con qualche variante cristiana, oppure la mensa essena come «la cornice dell’ultima Cena», è un nonsenso. «I Confederati non avevano alcun sacramento, e la sola somiglianza del sacramento cristiano con la “ mensa messianica ” dei Confederati è che ambedue erano adattamenti di comuni pasti ebraici; molti altri pasti comunitari ebraici derivarono dalla stessa fonte» (G. R. DRIVER, op. cit., pp. 515-516; nello stesso senso cfr. anche H. BRAUN, op. cit., pp. 29 e segg.). Il secondo aspetto, anche questo molto caratteristico (II, 11-21), è la distinzione netta dei due messia e la chiara preoccupazione dell’autore di sottolineare la subordinazione del messia di Israele, il guerriero laico avente il compito di organizzare e guidare tutte le forze dell’assemblea alla sconfitta di tutte le nazioni con la guerra di liberazione (cfr. anche 1QSb, V, 20-29; Comment. a Is. a II, 21-28), al messia di Aronne, cioè al messia sacerdote: preoccupazione che corrisponde molto bene alla riorganizzazione della comunità postesilica preconizzata da Ezechiele, alla duplice figura presentata da Zaccaria (Zerobbabel, capo laico; Giosuè, capo sacerdote: Zacc, 3, 1-4, 14) e a tutta la configurazione del movimento esseno di Qumrân. Il tempo di composizione, per le ragioni su esposte, è generalmente valutato in base alla Regola della guerra. L’editore di 1QSa scorgendovi le caratteristiche del movimento asideo ed esseno dell’epoca maccabaica ne 164

segna la composizione in questo relativamente remoto periodo e la considera perciò anteriore alla Regola della com., ma questa sentenza non fu accolta favorevolmente da altri studiosi. A. Dupont-Sommer (Les écrits esséniennes…, pp. 87 e 119) la considera posteriore a 1QS, così J. Maier (op. cit., II, p. 154) e molti altri. J. Carmignac (op. cit., p. 12), assegnando a 1QM l’anno 110 come data approssimativa di composizione, mantiene la stessa anche per 1QSa; allo stesso modo pensa G. Vermes (op. cit., p. 118) per il quale però 1QM è datata negli ultimi anni del I secolo a. C. o all’inizio del I secolo d. C. Siccome, oltre a quanto ho rilevato precedentemente, si ha ragione di ritenere come un dato di fatto l’accordo tra 1QM e 1QSa su alcune norme caratteristiche, sull’ispirazione generale e sulla concezione messianica, mancando ogni altro elemento cronologico sicuro, si può ragionevolmente assegnare a questa Regola la stessa data approssimativa di 1QM, e cioè dopo l’anno 63 a. C. e più precisamente sotto il segno di Erode il Grande o poco dopo.

1. Les écrits esséniennes…, p. 119. 2. Op. cit., p. 118.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1. Testo ebraico.

(D. BARTHÉLEMY), in Discoveries in the Judaean Desert. 1. Qumrân Cave I, by D. Barthélemy - J. T. Milik with contributions by R. de Vaux, M. Crowfoot, H. J. Plenderleith, G. L. Harding, Oxford, 1955, 108-118 (tavole XXIII-XXIV). G. BERARDI - P. BOCCACCIO, Regula congregationis. Fac simile, transcriptio et versio latina, Fano, 1959. A. M. HABERMANN, Meghîllôt midbar Jehûdāh, Jerushalaim, 1959, 59-60. E. LOHSE, Die Texte aus Qumrân, ebräisch und deutsch, München, 1964, 4651. H. N. RICHARDSON, vedi appresso. 2. Traduzioni e commenti.

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I [1] E questa è la regola per tutta l’assemblea di Israele, alla fine dei giorni, quando si uniranno alla comunità per camminare [2] in conformità al giudizio dei figli di Sadoc, i sacerdoti, e degli uomini del loro patto che hanno rifiutato di camminare sulla via [3] del popolo: sono questi gli uomini del suo consiglio i quali hanno custodito il suo patto in mezzo all’empietà per espiare la terra. [4] Allorché giungeranno, raduneranno tutti gli arrivati, dai bambini alle donne, e leggeranno alle loro orecchie [5] tutti gli statuti del patto e li istruiranno in tutte le loro disposizioni, affinché non sbaglino commettendo inavvertenze. [6] E questa è pure la regola per tutte le milizie dell’assemblea per ognuno che è nato in Israele. Fin dalla sua giovinezza [7] lo si istruirà sul libro della meditazione e, secondo la sua età, lo ammaestreranno sugli statuti del patto, ed egli riceverà [8] la sua educazione nelle loro disposizioni per dieci anni, dall’ingresso nella categoria dei ragazzi. All’età di vent’anni passerà [9] tra gli arruolati, entrando, in base alla sorte, in mezzo alla sua famiglia, in comunione con l’assemblea santa; e non si accosterà [10] a una donna per conoscerla, per giacere da maschio, se non quando egli avrà compiuti i venti anni, allorché conoscerà il bene [11] e il male. Allora lei sarà accettata per testimoniare, su di lui, le ordinanze della legge e per partecipare all’udienza delle decisioni [12] con pieno diritto. All’età di venticinque anni entrerà a partecipare alle strutture fondamentali dell’assemblea [13] santa, per compiere il servizio dell’assemblea. All’età di tretta anni potrà essere promosso ad arbitrare una lite [14] e un giudizio, a prendere posto tra i capi delle migliaia di Israele, tra i comandanti delle centurie e i comandanti delle cinquantine, [15] tra i comandanti delle decurie, tra i giudici e i funzionari secondo le loro tribù e in tutte le loro famiglie, in obbedienza ai figli [16] di Aronne, i sacerdoti, e a tutti i capi famiglia dell’assemblea che la sorte ha designato a partecipare ai servizi [17] e ad uscire ed entrare davanti all’assemblea. E secondo la sua istruzione, congiunta alla perfezione della sua via, rinsaldi i suoi fianchi per il posto (assegnatogli) nell’esercizio [18] del servizio, della sua opera in mezzo ai suoi fratelli. Sia molto o poco ciò per cui questo è al di sopra di quello, ognuno onorerà il suo prossimo. [19] Con l’aumentare degli anni di ognuno, il compito in servizio dell’assemblea gli sarà affidato proporzionalmente alle sue forze. Ma nessun uomo poco dotato [20] entrerà nel sorteggio per accedere a 170

un posto sopra l’assemblea di Israele per emettere una sentenza o per assumere una carica dell’assemblea [21] o per accedere ad un posto nella guerra destinata ad abbattere le nazioni. La sua famiglia lo iscriverà soltanto nell’elenco della milizia [22] e farà il suo servizio nel servizio da operaio secondo il suo mestiere. I figli di Levi staranno, ciascuno al suo posto, [23] agli ordini dei figli di Aronne, per fare entrare e fare uscire tutta l’assemblea, ognuno al suo posto, sotto il comando dei capi [24] famiglia dell’assemblea — capi, giudici e funzionari secondo il numero di tutte le loro milizie — al comando dei figli di Sadoc, i sacerdoti, [25] e di tutti i capi famiglia dell’assemblea. E quando vi sarà la convocazione di tutta la congregazione per un giudizio o [26] per un consiglio della comunità o per una convocazione militare, li santificheranno per tre giorni, affinché ognuno che viene sia [27] preparato per la data fissata. Questi sono gli uomini da chiamare al consiglio della comunità, a partire dall’età di vent’anni…: tutti [28] i sapienti dell’assemblea, gli intelligenti e gli istruiti, quelli la cui via è perfetta e gli uomini coraggiosi unitamente [29] ai capi tribù a tutti i loro giudici ai funzionari ai capi delle migliaia e ai capi delle centurie [II, 1] delle cinquantine e delle decurie, e ai Leviti, ognuno nella sua divisione di servizio. Questi [2] sono i notabili chiamati al convegno, coloro che sono convocati al consiglio della comunità, in Israele, [3] alla presenza dei figli di Sadoc, i sacerdoti. Chiunque sia colpito da una qualsiasi impurità [4] umana, non entrerà nella congregazione di Dio. Chiunque è colpito da queste (impurità) sicché non [5] possa tenere un posto nell’assemblea e chiunque è colpito nella sua carne, paralizzato ai piedi o [6] alle mani, zoppo o cieco o sordo o muto, colui che è colpito nella sua carne da una tara [7] visibile agli occhi, o un uomo vecchio, vacillante, da non potere reggere in mezzo all’assemblea, [8] costoro non entreranno a partecipare in seno all’assemblea dei notabili, giacché angeli [9] santi sono nella loro assemblea. Se qualcuno di costoro ha qualcosa da dire al consiglio di santità, [10] lo interrogheranno; ma questa persona non entrerà in seno all’assemblea, poiché è colpita. [11] Questa sarà la seduta dei notabili, chiamati al convegno per il consiglio della comunità, quando Dio avrà fatto nascere [12] il messia in mezzo a loro. Entrerà il sacerdote capo di tutta l’assemblea di Israele e poi tutti [13] i suoi fratelli, i figli di Aronne, i sacerdoti, i chiamati a convegno, i notabili, e siederanno [14] davanti a lui, ognuno secondo la sua dignità. Dopo entrerà il messia di Israele e davanti a lui siederanno i capi [15] delle tribù di Israele, ognuno secondo la sua dignità, in base al suo posto nei loro 171

accampamenti e secondo le loro disposizioni di marcia. Tutti [16] i capi famiglia dell’assemblea, con i sapienti dell’assemblea santa, siederanno davanti ad essi, ognuno secondo [17] la sua dignità. E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta [18] e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia [19] del pane e del vino prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane [20] e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane. Dopo, il messia di Israele stenderà le sue mani [21] sul pane e poi benediranno tutti quelli dell’assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. In conformità di questo statuto essi si comporteranno [22] in ogni refezione, allorché converranno insieme almeno dieci uomini.

I. 1. Con assemblea traduco l’ebraico: ‘edah (vedi l’ Introduzione). La regola si riferisce a una situazione futura, la fine dei giorni, che precederà la fine del mondo, anteriore alla guerra di liberazione dai pagani e quindi all’èra di prosperità attesa dopo la distruzione delle nazioni; legifera così su di un periodo che, secondo l’escatologia corrente a Qumrân e in un settore del giudaismo ufficiale, era il primo atto del grande rinnovamento escatologico, della fine del mondo presente e dell’inizio di una nuova èra. Quelli che si uniranno sono tutti gli Israeliti (l’assemblea di Israele) che l’autore, come appare dal testo, vede giungere quasi in massa, con donne e bambini, per aggregarsi al movimento di Qumrân, alla comunità. 2. L’insistenza sul sacerdozio sadocita (cfr. anche I, 24; II, 3) fa supporre che il movimento qumranico non solo fosse diretto da autentici discendenti della stirpe sacerdotale di Sadoc, ma che si mantenesse contrario al sacerdozio maccabaico o degli asmonei, inaugurato da Gionata (nel 152 a. C.). Gli ultimi sommi sacerdoti sadociti furono Onia III (185-174 a. C.) e Giasone (174-172 a. C.). uomini del loro patto: può significare tanto «loro alleati» quanto «che partecipano della stessa concezione del patto» cioè sono «loro confratelli». 3. suo consiglio: cioè uomini scelti da Dio per realizzare i suoi propositi: tali appunto si consideravano gli asceti di Qumrân. 4. All’arrivo dei singoli gruppi di Israeliti, i membri della comunità li raduneranno come viene descritto, in attesa degli eventi che seguiranno. Forse l’autore ha presente il Deut., 31, 11-13 (parole poste sulle labbra di Mosè per la festa delle capanne): «Radunerai il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà entro le tue porte, affinché ascoltino, imparino a temere Jahweh, vostro Dio, si preoccupino di mettere in pratica tutte le parole di questa legge. E i loro figli, che non avranno ancora avuto conoscenza, l’udranno e impareranno a temere Jahweh, vostro Dio…». 6. La regola riguarda dunque esclusivamente coloro che sono nati in Israele: espressione tecnica che designa colui che è di razza ebraica in opposizione a chi

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non lo è (cfr. Lev., 23, 42). Anche Giuseppe Flavio afferma che gli Esseni «sono di razza ebraica» (Guerra, II, 119). Il CD parla però anche dei proseliti (X IV, 4). Nonostante l’organizzazione disciplinata come quella di un esercito, il compito dell’assemblea non era soltanto militare; è verosimile comunque che l’autore avesse presente sia la Regola della guerra, che la preparazione e organizzazione di Israele nel deserto, alla partenza dal Sinai, allorché si dirigeva alla conquista della terra promessa ai padri (cfr. Num., cc. 1-10). 7. Giuseppe Flavio (Guerra, II, 20) scrive che tra i celibi esseni vi erano pure dei ragazzi da loro adottati per allevarli secondo la loro regola. Qui però, trattandosi di una norma che è stata redatta proprio per il periodo dell’arrivo in massa di intere famiglie con donne e bambini, i ragazzi di cui si parla sono sopra tutto questi nuovi arrivati e quelli nati dalle famiglie che avevano aderito alla comunità. Sul libro della meditazione, vedi pp. 115 e seg.; CD, X, 6 e nota. 9. Gli arruolati sono gli uomini recensiti per il pagamento dell’imposta e per il servizio militare (vedi Num., cc. 1-3). Il presente versetto ha suscitato molti quesiti; su di essi si vedano: J. M. BAUMGARTEN, On the Testimony of Women in 1QSa, in JBL, 76, 1957, 266-269; S. B. H OENIG, On the Age of Mature Responsability in 1QSa, in JQR, 48, 1958, 371-375; J. M. BAUMGARTEN, 1QSa, I, 11. Age of Testimony of Responsability, in JQR, 48, 1958, 157-160; S. B. H OENIG, The Age of Twenty in Rabbinic Tradition and 1QSa, in JQR, 49, 1959, 209-214; su tutta la questione si veda anche P. BORGEN, «At the Age of Twenty» in 1QSa, in RQ, 4, 1961, 267-277. 10. conoscere il bene e il male: è un’espressione assai comune nella Bibbia per designare la maturità morale, l’uso della ragione. Per la consumazione del matrimonio l’autore pone due condizioni, che il giovane abbia raggiunto i venti anni e che abbia il discernimento (conoscenza del bene e del male); non pare proprio che la seconda condizione sia così semplice, giacché l’uso della ragione si possiede assai prima dei venti anni, qui dunque ci si domanda se non abbia un altro senso: un eufemismo per designare la pubertà? Secondo il Talmud Babilonese (Qiddushîn, 29b) un giovane doveva sposarsi prima dei venti anni; secondo Giuseppe Flavio (Guerra, II, 161), prima di sposarsi gli esseni dovevano assicurarsi che le future spose potessero avere figli. Si vedano gli articoli: R. GORDIS, The Knowledge of Good and Evil in the Old Testament and the Qumrân Scrolls, in JBL, 76, 1957, 123-138; H. S. S TERN, The Knowledge of Good and Evil, in VT, 1958, 405-418 (e qui p. 62). 11. Anche questa interpretazione è controversa. Secondo quella qui seguita (con A. Dupont-Sommer, che però traduce ‘ljw [‘alāu] «contro di lui») la moglie, dopo il matrimonio, potrà valersi della legge anche contro suo marito (nel caso per esempio che egli, volesse prendere un’altra moglie, il che era forse interdetto, come attesta il CD, IV, 21) e partecipare, come uditrice, alle riunioni della comunità ove erano prese le decisioni. Secondo G. Rinaldi, J. Carmignac e altri invece di «su di lui» (o «contro di lui») bisogna tradurre «oltre a lui» e il testo afferma che dopo il matrimonio la moglie sarà ammessa a partecipare dei diritti civili del marito: testimoniare in tribunale e dare il parere nelle adunanze; altri (J. Baumgarten, J. Maier, ecc.) ritoccano il testo (sebbene sia qui molto leggibile) e intendono: «… egli (il marito) sarà accettato per testimoniare in accordo alle disposizioni della legge…».

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12. Anche l’inizio di questa riga è alquanto contestato: secondo gli uni, che sono qui seguiti, appartiene alla r. 11 ed è tradotto anche con pieno (diritto); secondo altri è il principio di una espressione lacunosa (così ad esempio J. Maier); altri ancora vedono in questa parola l’inizio della frase, e traducono: «Quando compirà i venticinque»…; ma si può anche trattare di un errore del copista, vedi r. 27 e nota. 16. Prima l’autore ha parlato dei figli di Sadoc per designare l’autorità suprema dell’assemblea, qui invece dei figli di Aronne (cioè di tutti i sacerdoti) probabilmente perché intende riferirsi all’insieme delle autorità alle quali devono obbedire i membri dell’assemblea. I capi famiglia dovevano costituire una specie di senato strettamente congiunto all’autorità dei sacerdoti: così è pure in Num., 31, 26 d’onde l’autore attinge anche la terminologia (così è pure I, 23-25; II, 1.3.7; III 4). 17. uscire ed entrare…: è una espressione biblica equivalente ad «avere una posizione direttiva» (cfr. Deut., 31, 2; Gv., 10, 9). 18. Secondo la Regola dell’assemblea un giovane poteva dunque avere funzioni che comportavano una responsabilità speciale soltanto a partire dai venticinque anni, mentre le funzioni superiori non gli potevano essere affidate che a partire dai trent’anni. Per altre indicazioni sull’età in relazione alle funzioni esercitate nella comunità, si veda: CD, X, 6-7; X IV, 8-9); Regola della guerra, VI, 14 - VII, 3. Il fondamento morale di questa stretta gerarchizzazione ha un’eco nella Regola della Comunità, IV, 16.24. 21. Si tratta, senza dubbio, della guerra finale, o escatologica, per la quale fu scritta la Regola della guerra (vedi appresso). 25. congregazione traduce il termine ebr. qāhāl. 27. Il copista ha iniziato a scrivere dall’età di ven… e poi ha lasciato uno spazio vuoto che gli editori hanno proposto di riempire con la lettura qui seguìta. Qualche critico propone di leggere trent’anni basandosi sul CD, X IV, 6-9. Non è improbabile che la sospensione sia intenzionale, dato che fatti del genere si notano in scritti antichi sia nella Bibbia che fuori. Può anche darsi che qui, come all’inizio della riga 12, il copista, accortosi di avere sbagliato, abbia stroncato l’espressione errata per riprendere la giusta: in tal caso, in ambedue i testi, le parole che creano difficoltà sarebbero semplicemente da tralasciare, e si leggerebbe: «…consiglio della comunità: tutti i sapienti…»; e alla r. 12: «… delle decisioni. All’età di venticinque anni…». II, 5-10. Secondo la legislazione mosaica, le persone vittime di qualche tara fisica dovevano essere escluse dalle funzioni sacerdotali (cfr. Lev., 21, 17-21): queste disposizioni sono generalizzate ed estese a tutti i membri della assemblea deliberante, come nella Regola della guerra sono estese ai soldati della guerra escatologica (IQM, VII, 4-6); cfr. anche il CD, XV, 15-17 e nota. Per giustificare una esortazione simile alla presente, nel Deut., 23, 15 è fatto appello alla presenza di Jahweh in mezzo all’accampamento; il nostro testo si appella alla presenza degli angeli per salvaguardare la trascendenza di Dio. Un richiamo analogo è fatto da san Paolo (1 Cor., 11, 10): «… la donna (nelle adunanze sacre) deve portare sul capo un segno di dipendenza a motivo degli angeli» (cfr. IQM, VII, 6 e nota). Sugli angeli santi o angeli di santità, vedi IQM, IX, 15-16 e nota. lo interrogheranno: alla lettera l’ebraico dice «la cercheranno dalla sua bocca».

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11-16. L’interpretazione di questa e della seguente sezione (rr. 17-22) dà luogo ad alcune difficoltà; la loro importanza è, infatti, incontestabilmente grande, ma il testo è purtroppo lacunoso. La lettura qui seguita, che è quella proposta dall’editore, D. Barthélemy, nell’edizione principe e alla quale stanno, con qualche leggera variante, A. DupontSommer, J. Carmignac, J. Maier, E. Lohse, F. Michelini-Tocci e altri, ha dalla sua parte ottime ragioni e si può senz’altro ritenere a buon diritto comune. Senza scendere a particolari, qui fuori posto, è doveroso notare che non è completamente sicura; Y. Yadin (nell’art. A Crucial Passage…, vedi Bibl.) propone di leggere: «La seduta dei notabili chiamati al convegno del consiglio della comunità in occasione del loro convegno. Il sacerdote unto andrà con essi e recensirà (alla lett. “conterà le teste”) tutta l’assemblea di Israele, e tutti i suoi fratelli…»; A. M. Habermann: «E questa è la seduta dei notabili chiamati al convegno per il consiglio della comunità. Allorché i molti veglieranno ed è con loro il messia, entrerà il sacerdote…»; G. Vermes: «Questa sarà l’assemblea dei notabili chiamati al convegno dal consiglio della comunità quando il Sacerdote-Messia li radunerà. Egli entrerà a capo di tutta l’assemblea di Israele con tutti i suoi fratelli…». I principali studi particolari su queste righe, sono: A. S. VAN DER W OUDE, Die messianischen Vorstellungen der Gemeinde von Qumrân, Assen, 1957 (pp. 96-106); M. BLACK, Messianic Doctrine in the Qumrân Scrolls, in Studia Patristica, edito da K. Aland e F. L. Cross, Berlin, 1957, I, 441-459; K. G. KUHN, Die beiden Messias Aarons und Israels, in NTSt, 1, 1955, 170-171; R. E. BROWN, The Messianism of Qumrân, in CBQ, 19, 1957, 5382; Y. YADIN, A Crucial Passage in the Dead Sea Scrolls, in JBL, 78, 1959, 238-241; R. GORDIS, The «begotten» Messiah in the Qumrân Scrolls, in VT, 7, 1957, 191-194; K. S CHUBERT, Die Messiaslehre in den Texten von Chirbet Qumrân, in BZ, 1, 1957, 177-197; M. S MITH, God’s Begetting the Messiah in 1QSa, in NTSt, 5, 1959, 218-224; E. F. S UTCLIFFE, The Rule of the Congregation (1QSa) II, 11-12. Text and Meaning, in RQ, 3, 1960, 541-547; N. W IEDER, The Judean Scrolls and Karaism, London, 1962, pp. 95-127; J. S TARCKY, Les quatre étapes du messianisme à Qumrân, in RB, 70, 1963, 481-505; e gli altri studi citati nella Bibl. I punti fondamentali da chiarire sono due: 1) come si deve intendere la generazione divina? L’espressione «quando Dio» (o, secondo un’altra lettura, «quando Adonai») «avrà fatto nascere» (o «generato»: A. Dupont-Sommer; «farà venire»: M. Tocci) si può intendere in molti modi prima di giungere a quel senso pieno che la teologia cattolica riferisce esclusivamente a Gesù e che non ha riscontro alcuno nell’Antico Testamento e nella letteratura giudaica e rabbinica; secondo il linguaggio biblico può essere riferita a Dio la nascita di ogni uomo (cfr. Gen., 4, 1; 16, 2; 17, 2; 1 Sam., 1, 5.11.19. ecc.) ed in particolare delle personalità che hanno un compito preminente in Israele; così l’oracolo dell’investitura divina, al quale si è ispirato l’autore della nostra Regola, afferma: «Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato» (Sal., 2, 7); anche il contesto non favorisce un’interpretazione superiore a quella contenuta nel senso ordinario del termine, anzi la nega; 2) si può usare il termine messia, e quale significato gli si attribuisce? Non v’è dubbio che il termine ebraico ha-mashîaḥ («il messia») si possa tradurre con «unto, consacrato» ed anche con «cristo» (che è la traduzione letterale greca del termine ebraico) e che così si traduca normalmente nell’Antico Testamento; a parte l’ultimo termine

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(«cristo») ormai troppo caratterizzato e pregnante di implicazioni, qui fuori posto, le altre traduzioni restano tutte possibili; ma la più opportuna è senz’altro quella di «messia» a causa appunto del contesto (ed è così che anche nelle pagine seguenti si tradurrà generalmente il termine ebr. in tutta la letteratura di Qumrân, a meno che il contesto suggerisca «unto»); naturalmente questo «messia» è da interpretare in senso ebraico e, soprattutto, qumranico, non in senso cristiano. Nel nostro testo il messia delle righe 11-12 parrebbe quello laico, ma un complesso di considerazioni (tutto dipende dalla sua comparsa, è più importante dell’altro, si pensava, a quanto pare, che sarebbe stato uno dei sacerdoti sadociti di Qumrân, ecc.), inducono a ritenere che si tratti del messia di Aronne; il messia laico è introdotto solo più tardi (righe 14 e 20). Brevemente, le concezioni messianiche, degli esseni di Qumrân si possono ridurre a questi punti fondamentali: 1) aspettano il profeta preannunciato (cfr. Deut., 18, 15) come precursore del messia e probabilmente l’avevano personificato nel maestro di giustizia (cfr. 1QS, IX, 11; CD, X II, 23; X IV, 19; XX, 1); 2) dopo l’intuizione del Milik (cfr. VD, 29, 1951, 152) è oggi sentenza comune che l’attesa fosse rivolta a due messia (cfr. 1QS, IX, 11; CD, X II, 23; X IV, 19; X IX, 10-11; XX, 1) sebbene non manchino studiosi che insistono sull’attesa di un solo messia (vedi la Bibl.); 3) uno è il messia laico, o messia di Israele, il principe di tutta l’assemblea (1QM, V, 1; 1QSb, V, 20), il rampollo di David (Comment. a Is. 4Q161, 18; Floril., I, 11; Benediz. patr., 3-4 ecc.), capo della guerra santa contro le nazioni, colui al quale sono riferite le profezie messianiche sul futuro re davidico e l’oracolo di Balaam sullo scetro (cfr. Num., 24, 17 e CD, VII, 19-20); è forse sotto l’inf lusso delle parole di Samuele (1 Sam., 8, 7-9), secondo le quali Dio solo è re di Israele, che pur essendo di stirpe davidica, il messia laico non è mai detto «re»; 4) l’altro è il messia di Aronne, o messia sacerdote, detto anche scrutatore della legge (CD, VII, 18), stella di Giacobbe (CD, VII, 19), colui che insegnerà la giustizia alla fine dei giorni (CD, VI, 11), e avrà una parte preminente nella guerra escatologica; non sono mai menzionati i suoi compiti propriamente sacrificali, né quelli che gli erano riservati nei banchetti sacri al di là del breve cenno contenuto nel nostro testo (righe 19-20); 5) ma, come si sa, gli esseni non hanno avuto né una vita breve né uno sviluppo dottrinale sempre uniforme. Volendo chiarificare e tratteggiare cronologicamente questo sviluppo a proposito del messianismo si possono seguire le grandi linee tratteggiate da J. Starcky (art. cit.) e corrispondenti, grosso modo, ai quattro periodi della vita degli esseni di Qumrân (vedi l’ Introduzione generale, p. 107-109): nel periodo ellenistico il messianismo è aclissato dal moralismo; nell’epoca degli asmonei il messia è sdoppiato nella due figure del sacerdote e del principe; all’inizio dell’epoca romana il futuro messia sacerdote eclissa il messia principe; l’attesa di quest’ultimo messia, quello laico, ha il sopravvento sulla precedente dall’epoca erodiana in avanti. Sebbene qualche corrente essena, verosimilmente la principale, abbia approfondito e spiritualizzato la concezione del futuro messia, non giunse, forse, mai a identificarlo con la personalità celeste di cui parla il profeta Daniele, né a vedere in lui il Servo di Jahweh che con le sue sofferenze redime il popolo. È comunque necessario non sistematizzare troppo non solo nello sviluppo ma anche nell’ambito di uno stesso periodo: soltanto a questa condizione lo schema mantiene tutto il suo valore indicativo; 6) come si deduce senza alcun dubbio dalla Regola della guerra e da altri testi (cfr. CD, VII, 20; X I, 1820) il culto sacrificale nel tempio era sospeso per gli esseni di Qumrân, non abolito

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(si veda in particolare il Rotolo del tempio qui in Appendice): è molto probabile dunque che nell’èra escatologica o messianica la direzione del culto dovesse spettare al messia di Aronne. Vedi CD, X II, 23 e nota. 17. Sul vino dolce vedi 1QS, VI, 5-6 e nota. 18-22. Anche questi ultimi versetti hanno suscitato molte questioni. È certo infatti che l’autore non intese semplicemente regolare la quotidiana mensa comunitaria (cfr. Regola della Com., VI, 1-6), bensì ha davanti «la fine dei giorni», l’avvento dell’èra messianica che fa parte di quella escatologica. Stabilito il principio della precedenza assoluta della classe sacerdotale sul messia di Israele quando si convocherà il consiglio (vedi J. H EMPEL, Die Stellung der Laien in Qumrân, [Qumrân-Probleme: Vorträge des Leipziger Symposions über Qumrân-Probleme, 9-14 Okt. 1961, Herausg. H. Bardtke], Berlin 1963, pp. 193-209), l’autore passa ora a dare norme per il banchetto dell’inaugurazione dell’èra messianica. Difficile è stabilire se queste norme si riferiscano solo alle ripetizioni del banchetto durante il prolungamento dell’èra escatologica, come è probabile e naturale (si veda lo studio di J. F. PRIEST, The Messiah and the Meal in 1QSa, in JBL, 82, 1963, 95-100), oppure anche ai pranzi comunitari dell’assemblea, nell’imminenza della «fine dei giorni» (quando i messia ancora non sono apparsi), e ad essi ci si debba ispirare come rif lesso e anticipazione ideale della cena messianica dell’èra escatologica. Certo che la frase conclusiva (righe 21 b-22) deve essere attentamente esaminata prima di dare un giudizio risolutivo sul testo che la precede. Sul carattere messianicoescatologico di questa descrizione, non tutti sono d’accordo. Alcuni (L. ROST, Die Anhänge der Ordensregel 1QSa-1QSb, in in ThLZ, 82, 1957; 667-670; W. E ISS, Qumrân und die Anfänge der cristilchen Gemeinde, Stuttgart, 1959; J. M AIER, II, p. 159) vedono qui le disposizioni rituali del banchetto in comune presentato come una sostituzione temporanea del banchetto sacro che aveva luogo tra i sacerdoti del tempio divenuto allora impossibile data la posizione presa dagli asceti di Qumrân verso il sacerdozio ufficiale dell’epoca. Tenendo presente la natura di tutto lo scritto, e non soltanto questa breve sezione, pare che sia assai problematico negare o attenuare il suo carattere messianico-escatologico. D’altra parte la questione che pone il presente testo è da valutare tenendo presenti altri tre problemi molto discussi e per i quali non esiste ancora una soluzione fondata su ragioni probanti: 1) i pasti comunitari degli asceti di Qumrân avevano un carattere sacro o semplicemente comunitario e religioso in senso piuttosto ampio come ad esempio quello delle comunità monastiche cristiane attestato ampiamente anche in ogni famiglia religiosa osservante ebraica? 2) i vasti depositi di ossa di animali domestici scoperti a Qumrân (vedi p. 21-22) sono certo dei resti di pasti; avevano questi un carattere speciale, ad es. resti di vittime sacrificali offerte a Qumrân, oppure si riferiscono ai semplici pasti comunitari? 3) esistevano veramente a Qumrân dei pasti sacri? a questo proposito si è certamente esagerato partendo, una volta, dai testi di Filone e di Giuseppe Flavio (ed una autorevole reazione di W. Braun si legge in PAULY-W ISSOWA, Supplementsband, IV, 1924, Essener, 386-430), ma bisogna non eccedere nel senso contrario. A questi punti occorre, in particolare per il nostro testo, aggiungere uno studio più approfondito sul significato della cosiddetta «cena messianica» o «banchetto messianico». Un’ultima questione, connessa con le precedenti, è rappresentata dalla possibilità o meno di un accostamento con la Cena eucaristica.

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Su tutta questa problematica, si veda: F. BAMMEL, Das heilige Mahl im Glauben der Völker, Gütersloh, 1950; K. G. KUHN, The Lord’s Supper and the Communal Meal at Qumrân, in The Scrolls and the New Testament, edited by K. Stendahl, New York, 1957, pp. 6593; J. VAN DER PLOEG, The Meals of the Essenes, in JSSt, 2, 1957, 163-175; E. F. S UTCLIFFE, Sacred Meals at Qumrân?, in Heythrop Journal, 1960, 48-65; R. D E VAUX, L’archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961, 9-11; J. GNILKA, Das Gemeinschaftsmahl der Essener, in BZ, 1961, 39-55; F. N ÖTSCHER, Sackrale Mahlzeiten von Qumrân?, in Lex tua Veritas (Festschr. für H. Junker), Trier, 1961, pp. 145-174; M. BLACK, The Qumrân CultMeal, in The Scrolls and the Christian Origins, London, 1961, 102-115; H. BRAUN, Qumrân und das Neue Testament, Bd. II, Tübingen, 1966, 29-54; L. C IRILLO, Qumrân e le origini dell’Eucarestia nel Nuovo Testamento, Napoli, 1965. Sugli usi e costumi ebraici dell’epoca si veda H. L. S TRACK P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, IV, München, 1928, 611-639.

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RACCOLTA DI BENEDIZIONI 1QSb

Il secondo testo che quasi certamente era contenuto nel rotolo della Regola della com. e seguiva 1QSa (Regola dell’assemblea), era il presente rotolo 1QSb, siglato anche 1Q28b, studiato ed edito da J. T. Milik nel 19551; di qui il motivo della sigla iniziale, tuttora più comune, che non intende designare l’unità dei tre scritti, bensì il fatto che si trovavano in un unico rotolo. Dopo la sua scoperta da parte di beduini nel 1947 seguì la stessa sorte del precedente, ma purtroppo, forse perché era arrotolato nella parte più esterna del rotolo ed esposto quindi a un progressivo deterioramento, il suo stato di conservazione è miserevole: delle almeno sei colonne, che originariamente aveva, sono giunti a noi quattro grandi frammenti e molti altri minuti la cui collocazione è incerta; il Milik ha dimostrato qui le sue doti straordinarie di epigrafista e la ricostruzione che ne diede è seguita da tutti gli studiosi; nello studio e nella lettura è tuttavia indispensabile tenere sempre presente l’aspetto ipotetico di tale ricostruzione: è la migliore che si possa fare, ma non è completamente sicura. Anche nelle pagine seguenti la ricostruzione del testo è quella del Milik pur non seguendone tutte le letture. Il genere letterario di questo scritto è quello caratteristico delle benedizioni anticotestamentarie e la sua articolazione è quella tipica del metodo antologico, attingendo il materiale (intere espressioni, argomenti, termini, ecc.) da un notevole numero di testi biblici, dal Pentateuco agli ultimi Profeti, ben familiari all’autore; nelle note è fatto qui rimando soltanto ad alcuni tra i più significativi e utili per i confronti e la comprensione del testo. Il carattere generale è liturgico; le benedizioni erano dunque destinate, almeno dal punto di vista della composizione letteraria, ad essere pronunciate in occasione di una qualche funzione comunitaria, senza, naturalmente, escluderne l’uso anche privato, come preghiera. Quale fosse questa occasione non si sa, non offrendo il testo elementi sufficienti per la sua identificazione. Il Milik2, seguito da altri (cfr. ad es. E. Lohse), propone di considerarlo una composizione letteraria che, forse, non fu mai utilizzato nelle adunanze liturgiche della comunità. Pare che vi siano ragioni sufficienti per formulare l’ipotesi che queste benedizioni erano recitate nella festa annuale del rinnovamento del patto, cioè nella Pentecoste, o in qualche altra festività, e che in esse l’autore abbia accentuato molto il carattere di attesa; che non si trattasse cioè di invocare 179

l’aiuto divino e beneaugurare a persone presenti, fisiche o morali che fossero, ma a persone attese, desiderate: a questa ipotesi indirizzano ad es. i notevoli contatti letterari con la Regola della com. e con gli Inni. Ma anche l’ipotesi che le benedizioni mirassero alla fine dei tempi cioè all’epoca contraddistinta dai due messia, dall’assemblea di Israele e dalla guerra santa, che fossero recitate in qualche circostanza particolare proprio per acuire il desiderio di quel tempo e accelerarne l’avveramento, non pare che si possa scartare: a questa ipotesi indirizzano indizi come, l’affiancamento quasi sicuro di questi frammenti con la Regola dell’assemblea, le somiglianze che hanno con essa e con la Regola della guerra. Le due ipotesi sono, in ultima analisi, complementari.

Contenuto. Lo stato deplorevole nel quale ci è giunto il testo non permette un quadro completo e organico del suo contenuto. Una divisione ragionevole e più di altre aliena da soggettivismi e ricostruzioni rischiose, è la seguente: 1) benedizione per i membri dell’assemblea (e della comunità) I, 1-7; 2) benedizione per il sommo sacerdote messia di Aronne: II, 22-III, 21; 3) benedizione per i sacerdoti discendenti dalla famiglia sacerdotale di Sadoc: III, 22-V, 19; 4) benedizione per il principe dell’assemblea, messia di Israele: V, 20-29. Oltre ad avere una solida base nel testo, questa divisione ha il vantaggio di rilevare la chiara connessione tra 1QSa e 1QSb da una parte, tra 1QSb e 1QM, e a sottolineare la presentazione delle stesse persone benedette nello stesso ordine di comparizione riscontrato in 1QSa. Si potrebbe pensare che ci fosse anche una benedizione per il profeta escatologico, precursore dei due messia, per i leviti, e per i sacerdoti che non erano della stirpe sadocita o discendenti di Sadoc, ma siamo in un campo di pure ipotesi. Ogni benedizione è in forma poetica ed è enunciata con un tratto in prosa nel quale è indicato il destinatario e lo scopo, come si constata da I, 1-3a; III, 22-25a; V, 20-23a. Lo stato frammentario del testo non permette di ricostruirne l’originale divisione strofica. La data della scrittura del rotolo è la stessa degli altri due testi, 1QS e 1QSa, ma la composizione può essere evidentemente anteriore. Lo scritto non offre alcun riferimento valido per la sua datazione all’infuori del contenuto e questo, come s’è visto, lo avvicina palesemente a 1QSa e a 180

1QM: per tutti e tre questi scritti la data di composizione pare dunque si abbia da porre in un periodo nel quale l’attesa messianica era molto acuta, cioè di forte tensione escatologica, e questo ben difficilmente è pensabile in tempi sereni, sia pure relativamente. L’epoca di composizione di 1QM e l’ultima fase di 1QS è forse la più propizia. J. Carmignac3 insistendo su di alcune convergenze avanzò l’ipotesi che il maestro di giustizia sia l’autore del presente scritto e di 1QS, 1QSa, 1QM e 1QH datandoli all’incirca dal 110 al 100 a. C. Le ragioni particolari addotte sono: le doti e le attività di animatore spirituale richiedono che il maestro abbia redatto le regole essenziali della comunità; lo stesso titolo «maestro di giustizia» suppone un’attività dottrinale che si esplicita facilmente nella composizione di opere letterarie; la venerazione di cui fu oggetto «ha potuto e dovuto estendersi ai suoi scritti» è alla loro diffusione; nella quantità di scritti non biblici trovati a Qumrân la presenza di cinque opere del maestro di giustizia non costituisce una proporzione anormale. Senza scendere ai particolari, è doveroso sottolineare come tutto ciò sia puramente ipotetico in quanto mancano gli elementi sicuri per una impostazione di questo genere.

1. Vedi DJD, I, 1955, 118-130. 2. Op. cit., p. 120. 3. Op. cit., p. 32.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Testo ebraico.

( J. T. MILIK) in Discoveries in the Judaean Desert. I. Qumrân Cave 1, by D. Barthélemy - J. T. Milik with contributions by R. de Vaux, G. M. Crowfoot, H. J. Plenderleith, G. L. Harding, Oxford, 1955, 118-130. A. M. HABERMANN, Meghîllôt midbar Jehûdāh, Jerushalaim, 1959, 160-163. E. LOHSE, Die Texte aus Qumrân hebräisch und deutsch, München, 1964, 5460. Per le traduzioni e gli studi particolari si vedano le opere e gli articoli citati per la Regola dell’assemblea.

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I [1] Parole di benedizione del saggio per benedire coloro che temono Dio e compiono la sua volontà, che osservano i suoi precetti, [2] sono fermamente uniti al suo sacro patto e camminano rettamente su tutte le vie della sua verità, e li ha scelti per un patto [3] eterno che avrà vigore per sempre. [4] Adonai ti benedica dalla sua santa dimora e la sorgente eterna, che non si secca mai, apra per te dall’alto dei cieli… [5] nella tua mano… e ti favorisca con tutte le benedizioni del cielo e ti istruisca nella conoscenza dei santi… [6] … poiché presso di lui c’è una sorgente eterna che non fa mancare l’acqua viva agli assetati… [7] Egli ti scampi da ogni… la sua ira senza fine… ………………

II ………….. [22] Adonai ti favorisca con… e con tutte [23] le opere buone ti rallegri e ti favorisca… [24] ti favorisca con lo spirito santo e misericordia, [25] e un patto eterno ti favorisca e ti rallegri… [26] ti favorisca con un giusto giudizio… affinché non abbia a vacillare… [27] ti favorisca in tutte le tue azioni… e in ogni… ti favorisca [28] nella verità eterna… sopra tutti i tuoi discendenti… III [1] Adonai rivolga il suo volto verso di te e aspiri il profumo soave dei tuoi sacrifici, scelga tutti coloro che dimorano [2] al tuo cospetto nell’ufficio sacerdotale e guardi benevolmente a tutte le tue sacre offerte e alle feste… tutta la tua discendenza. Rivolga [3] il suo volto verso tutta la tua assemblea. Ponga sul tuo capo un diadema… [4] … santifichi la tua discendenza con una gloria eterna… [5] … dia a te pace eterna e regalità… [6] … insieme al messaggero di gioia e insieme agli angeli santi… [7] Combatta davanti alle tue migliaia contro la stirpe del male… ………………

[18] … Per assoggettare a te molti popoli, ed egli non… [19] …tutte le ricchezze del mondo… affinché tu dalla fonte [20] eterna… Con tutto il tuo cuore lo cercherai, poiché Dio ha posto solidamente tutte le fondamenta [21] eterne; egli ha stabilito la tua pace per i secoli eterni. [22] Parole di benedizione del saggio per benedire i figli di Sadoc, i sacerdoti, che [23] Dio ha eletto per rafforzare il suo patto in eterno, per mettere alla prova tutti i suoi giudizi in mezzo al suo popolo e per istruirli [24] come egli ha ordinato; essi hanno mantenuto il suo patto, nella verità e 183

nella giustizia hanno avuto cura di tutti i suoi statuti, ed hanno camminato come [25] egli ha prescelto. Adonai ti benedica dalla sua santa dimora e ti ponga, pieno di splendore, in mezzo [26] ai santi. Rinnovi per te il patto del sacerdozio eterno e ti dia un posto nella dimora [27] santa. Per mezzo delle tue opere egli giudichi tutti i nobili, e per mezzo di quanto esce dalle tue labbra tutti i capi [28] dei popoli. Ti dia in eredità la primizia di tutti i beni più preziosi, e per mezzo della tua mano benedica il consiglio di ogni carne. ………………

IV [22] … perdoni i tuoi peccati e ti dichiari giusto da ogni iniquità… poiché ti ha eletto… [23] e mettendoti in testa ai santi per benedire il tuo popolo… con la tua mano [24] gli uomini del consiglio di Dio, e non con la mano di un principe… reciprocamente. Tu sarai [25] come un angelo della presenza nella dimora santa, per la gloria del Dio degli eserciti, servirai in eterno e sarai ministro nell’ambito del palazzo [26] reale, determinando la sorte con angeli della presenza e il consiglio della comunità, insieme ai santi, per il tempo eterno e per tutti i periodi, perennemente, giacché [27] tutti i suoi giudizi sono verità. Egli ti ponga tra il suo popolo come una persona santa, un luminare grande per fare risplendere il mondo con la conoscenza e per fare risplendere i volti di molti [28] con la saggezza della vita. Faccia di te un consacrato al santo dei santi, giacché tu sei consacrato a lui e glorificherai il suo nome e la sua santità. ……………..

V [20] Del saggio, per benedire il principe dell’assemblea, che… [21] rinnovi per lui il patto per stabilire la regalità del suo popolo in eterno e per giudicare i poveri con giustizia, [22] per ammonire con equità gli umili della terra e per camminare perfettamente davanti a lui in tutte le vie… [23] e per stabilire il suo patto sacro durante il tormento di coloro che lo cercano. Adonai ti elevi ad altezze eterne, come una torre fortificata, innalzata su di un bastione. [24] Tu colpirai i popoli con la forza della tua bocca, con il tuo scettro devasterai la terra, con lo spirito delle tue labbra [25] ucciderai gli empi, con lo spirito del consiglio e con la forza eterna, con lo spirito della conoscenza e del timore di Dio. Sarà cintura dei tuoi lombi [26] la giustizia, e la fede cintura dei tuoi fianchi. Faccia di ferro le tue corna e di bronzo i tuoi zoccoli. [27] Incornerai come un torello, e calpesterai i popoli come fango delle strade; poiché Dio ti ha posto quale scettro [28] sopra i 184

dominatori: ti verranno incontro e si prostreranno. Tutti i popoli ti serviranno, ed egli ti fortificherà con il suo santo nome. [29] Tu sarai come un leone… tua è la preda, e nessuno te la riprenderà…

Dato lo stato molto lacunoso del testo è qui tradotto tutto quanto ha un margine di sicurezza e di intelligibilità, ed è quindi meno soggetto all’arbitrio. Nelle note sono presentate altre lezioni, sempre assai dubbie e di poco interesse. Benedizione per i fedeli membri dell’assemblea e della comunità: I, 1-7. I, 1-3. La formula biblica sulla quale è foggiata più da vicino sia questa benedizione che le seguenti è il testo di Num., 6, 24: «Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro: Jahweh ti benedica e ti custodisca! Jahweh faccia risplendere su di te il suo volto e ti sia propizio! Jahweh rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!». L’espressone ebraica le maśkîl che traduco del saggio si può intendere come designazione dell’autore della benedizione o dello scritto; ma potrebbe anche tradursi «al saggio» o «per il saggio» e designare il destinatario. La stessa espressione si legge anche qui appresso (III, 22; V, 20) e in altri scritti di Qumrân (1QS, III, 13; IX, 12; IX, 21; 1QH, VIII, 10, CD, X II, 21; X III, 22). J. Carmignac traduce «maestro di giustizia», traduzione per sé possibile, ma qui pare fuori posto: il termine ha, infatti, un significato tecnico ben preciso derivato, probabilmente, da Dan., 11, 33; 12, 3 (vedi 1QS, IX, 12). 4. Adonai: uno dei nomi divini che ricorre spesso nell’Antico Testamento e che negli scritti di Qumrân s’incontra in un modo caratteristico all’inizio degli Inni (cfr. 1QH, I, 4 e segg. e nota). In luogo di e la sorgente, c’è chi legge «e dalla sorgente… ed apra…» (ad es. A. M. Habermann). 5. In luogo di conoscenza c’è chi preferisce leggere «assemblea» o «congregazione» (ad es. E. Lohse, F. Michelini-Tocci). Benedizione per il sommo sacerdote, messia di Aronne: II, 1 III, 21. II. Di questa benedizione non ci è giunta l’introduzione con il nome del destinatario; l’editore suppone, giustamente, che sia rivolta al sommo sacerdote, che qui equivale, verosimilmente, al messia di Aronne, cioè il messia sacerdotale. Nelle prime righe della colonna, prima del vuoto che va dalla riga 6 fino alla 21, si può leggere: «… dei tuoi padri… te… Rivolga a te il suo volto… ti favorisca. Rivolga a te il suo volto…». Sul significato di spirito santo vedi 1QH, X I, 10 e nota. III, 1. aspiri il profumo…: classica formula biblica, dalle risonanze antichissime come traspare anche dalla concezione molto antropomorfica dei sacrifici che

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suppone; nell’Antico Testamento ricorre quasi esclusivamente in riferimento ai sacrifici; nei nostri manoscritti, e nello stesso senso di qui, si legge ancora ad es. in 1QS, VIII, 9 e 1QM, II, 5. 2. al tuo cospetto… sacerdotale: oppure «si compiaccia in tutti coloro che partecipano al tuo sacerdozio» (J. T. Milik); e, teoricamente, è anche possibile leggere: «coloro che abitano nelle grotte» scorgendo qui una chiara allusione ai fedeli già ritiratisi a Qumrân (cfr. 1QH, III, 28; IV, 8-9; V, 5-8.25-26 ed Ebr., 11, 38), ma questa lettura proposta da J. Carmignac, mi pare inverosimile. Invece di tutte le tue sacre offerte si potrebbe leggere «tutti i tuoi santi», cioè tutti i membri della comunità. 4. Qui, come alla riga 1, discendenza è da intendere verosimilmente in senso metaforico, come designazione dei figli di Aronne e cioè degli altri sacerdoti (cfr. anche Eccli., 50, 12-13). Negli scritti di Qumrân i termini «re», «regalità» ecc. non sono mai riferiti al sommo sacerdote o al principe dell’assemblea, bensì a Dio, a David, ad altri antichi re, o al popolo, nel senso che si incontra nell’espressione: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti…» (Es., 19, 6). 6. messaggero di gioia (cfr. A. M. Habermann): si può leggere «fuori della carne», «dalla carne» (J. T. Milik, J. Carmignac, J. Maier, F. Michelini-Tocci, ecc.). 7. Combatta…: si veda la grande parte che aveva il sommo sacerdote nella guerra escatologica (1QM, XV, 4 e nota ivi). Benedizione per i sacerdoti discendenti dalla famiglia sacerdotale di Sadoc: III, 22-V, 19. Il testo non si riferisce a tutti i sacerdoti, ma solo ai discendenti dalla famiglia del sommo sacerdote Sadoc. 23. mettere alla prova oppure «ammannire» dispensare con liberalità (leggendo lḥwn con J. Carmignac) «autentificare» (leggendo lbḥwn con J. T. Milik). In queste righe introduttive sono enunciate le funzioni essenziali dei sacerdoti secondo la vita di Qumrân; cfr. anche 1QS, IX, 2; CD, XVI, 3-4; 1QS, III, 13; VI, 15; CD, X III, 56; 1QS, IX, 18.20. 25. ti ponga… splendore: oppure «faccia di te un ornamento splendido» (J. T. Milik); la frase iniziale «Adonai…» nei due luoghi anticotestamentari ove si legge suona: «Adonai ti benedica da Sion» (Sal., 128, 5; 134, 3). 26. Sul patto di un sacerdozio eterno cfr. Es., 40, 15; Num., 25, 13; Neem., 13, 29; Eccli., 45, 15.24. 27. nobili ha qui un senso deteriore come in alcuni passi biblici (es. Sal., 107, 40; 118, 9; 146, 3; Giob., 12, 21; Eccli., 8, 2.4), e non quello che ha generalmente (cfr. ad es. Num., 21, 18 e CD, VI, 8). IV, 1-3. In queste righe si può leggere quanto l’editore ha pazientemente cercato di ricostruire: «Si compiaccia nei passi dei tuoi piedi… uomo, e santi… sia annoverato con lui e sia in comunione con lui… e nelle delizie dei figli di Adamo… Le benedizioni eterne siano la corona del tuo capo, e la santità…»; tutto il resto, piccoli frammenti, fino alla riga 22 è illeggibile. 24. uomini del consiglio…: cfr. 1QS a, I, 3. 25. angelo e angeli della presenza (o della faccia cfr. r. 26): nell’Antico Testamento se ne parla soltanto in Is., 63, 9 ma è una categoria angelica nota da altri testi di

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Qumrân (vedi 1QH, VI, 13 e nota), menzionata nel libro dei Giubilei (1, 27.29; 2, 2.18; 31, 14), in quello di Enoc (40, 2) e nei Testamenti dei dodici patriarchi: si tratta di una categoria di esseri celesti occupati al servizio di Dio, che stanno perciò alla sua presenza, davanti alla sua faccia, identificati, qualche volta, con gli angeli della visione di Ezechiele. Nell’Antico Testamento si parla invece molto dei «pani della presenza» cioè dei così detti «pani della proposizione» (cfr. Es., 25, 30). Sugli angeli nei Mss. di Qumrân vedi 1QM, X II, 7-9 e nota; IX, 15-16 e nota. 25-26. palazzo reale: è il cielo; l’espressione interessante gioca sul significato dell’ebraico ḥêkal che equivale a «tempio» e a «palazzo»; l’autore allude molto probabilmente alla nuova Gerusalemme, la Gerusalemme celeste di 4 Esd., 7, 26 e 10, 25 e segg. (cfr. anche Apoc., c. 21), che faceva certamente parte delle meditazioni degli esseni di Qumrân come attestano vari scritti frammentari. 26. determinando la sorte: oppure «per estrarre la sorte insieme agli…»; ci si può riferire alla Regola della com., IV, 26 e vedere qui un’allusione al compito giudiziario dei sacerdoti sugli altri uomini, in comunione con gli angeli. Ma non si può escludere la lettura: «partecipando alla sorte degli angeli della presenza in stretta comunione con i santi…». Sul sacerdote come luce (r. 27) vedi Eccli., 45, 17; 1QS, II, 3; IV, 2.22; 1QH, IX, 1.23 e anche in Mt., 5, 14-16 l’espressione di Gesù agli apostoli: «voi siete la luce del mondo». Le prime 19 righe della colonna V appartengono ancora alla benedizione dei sacerdoti figli di Sadoc. Nei frammenti pazientemente ricomposti dal Milik si può leggere: Tu hai separato… coloro che ti vedono da… Rinnovi per te… In comunione con te… colui che riempì le tue mani… per un tempo eterno e per tutti i periodi imperituri la tua gloria non darà a un altro… Dio porrà la paura di te su tutti coloro che udranno parlare di te, e la tua fama su tutti coloro che… Benedizione per il principe dell’assemblea, messia di Israele: V, 20-29. Si tratta di un testo prezioso per gli attributi dati alla personalità escatologica di questo principe. A lui sono applicati importanti e celebri testi, come: Deut., 8, 18; Is., 11, 1-5; Mich., 4, 13; 7, 10; con Is., 14, 5, ed ancora Gen., 27, 29, dai quali appare chiaramente come egli si identifichi con il messia di Israele (vedi Regola dell’ass.), Messia davidico e re, non ancora venuto, e atteso con fervore (su questa attesa vedi anche Salmi di Salom., XVII, 25-51; XVIII, 6-14) perché abbatterà definitivamente le nazioni e gli empi, inaugurerà pienamente l’èra messianica, restaurerà il regno del suo popolo e proteggerà i sacerdoti nel loro compito di restaurare il patto su solide basi; i suoi compiti sono tratteggiati nelle prime righe della benedizione. 21 b-23. Echi e citazioni del celebre testo isaiano sul rampollo davidico (Is., 11, 15); camminare perfettamente… echeggia un’espressione divina ad Abramo (Gen., 17, 1); stabilire il… patto: cfr. Deut., 8, 18 ove il soggetto è Dio come qui. 26-29. Per queste righe l’autore si serve dei seguenti testi che, con quello di Isaia, accentuano il carattere messianico della persona del principe: Mich., 4, 13 (faccia di ferro…) e 7, 10 (calpestare…), Num. 24, 17-19 e Is. 14, 5 (incoronare… scettro… dominatori…»), Gen., 27, 29 (tutti i popoli…) , Gen., 49, 9 (leone… preda…). Ma al di là di questi incontri ve ne sono molti altri che scaturiscono da un esame più approfondito e manifestano l’interesse dell’autore su questa persona e la grande importanza che aveva per l’attesa messianica dei qumraniani; ad es. colpire i popoli

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con la forza della bocca è detto in genere solo di Dio, così è dell’uccisione degli empi con il fiato, o spirito, delle labbra. Il testo non è finito, ma quanto resta, forse ancora una decina di righe, è irricostruibile.

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DOCUMENTO DI DAMASCO (CD)

Negli anni 1896-1897 nella ghenîzah, o ripostiglio, della sinagoga di Ezra nella parte vecchia del Cairo, lo studioso Salomon Schechter scoprì, tra molti altri frammenti, anche i nove fogli pergamenacei che pubblicò nel 1910 con il titolo: Documents of Jewish Sectaries. Vol. I: Fragments of a Zadokite Work…; otto di questi fogli scritti da ambo le parti e formanti così sedici colonne, risalgono circa al X secolo d. C. e sono scritti da una stessa mano; il nono foglio, scritto anch’esso da ambo le parti, è dovuto a un’altra mano, è più tardivo ed è assegnato approssimativamente al X I-X II secolo d. C. I primi otto fogli, numerati da I a XVI, sono anche contraddistinti con la sigla «A»; e il nono, numerato da XIX a XX, con la sigla «B», in quanto si tratta di due recensioni incomplete di una stessa opera. La numerazione di S. Schechter manifesta l’incongruenza della divisione, sia perché l’ultimo foglio, il nono, non è la continuazione di quelli che immediatamente lo precedono sia perché mancano le colonne XVII-XVIII. Per motivi pratici e per non generare confusione, con la maggioranza degli studiosi si mantiene qui l’enumerazione e il sistema di citazione entrati ormai nell’uso comune. Gli esperimenti in contrario fatti da qualche altro studioso non hanno ovviato a questo, d’altronde molto esiguo, inconveniente. Il testo ebraico di questi fogli fu nuovamente esaminato ed edito da L. Rost nel 1933, da S. Zeitlin nel 1952 e da Ch. Rabin (con uno studio diretto degli originali conservati a Cambridge) nel 1954 e, in una nuova edizione riveduta, nel 1958; da queste edizioni dipendono tutte le altre del testo ebraico (ad es. quella di A. M. Habermann [1959], di E. Lohse [1964], ecc.). La pubblicazione di Schechter suscitò un buon numero di studi alcuni dei quali, per motivi diversi, conservano tuttora notevole importanza1. Il titolo dato a questi manoscritti da Schechter (Frammenti di un’opera sadocita) manifesta la parte notevole in essi accordata ai sacerdoti figli di Sadoc, ma introduce l’equivoco del termine «sadocita» o «saduceo» che può designare tanto la ben nota setta dei saducei, della quale parlano ad es. sia il Nuovo Testamento che Giuseppe Flavio, quanto la setta di Damasco, e di Qumrân, che pur appellandosi alla discendenza di Sadoc era nemica dei saducei propriamente detti (vedi Introduzione generale); perciò mentre gli scrittori anglo-americani seguitano in genere a parlare di «frammenti sadociti» o «frammenti saducei» gli scrittori italiani, francesi e tedeschi preferiscono giustamente il titolo «regola di Damasco», «scritto di Damasco» o «documento di Damasco» giacché si tratta di una setta ebraica 189

che, almeno apparentemente, fu costretta a fuggire dalla Giudea e a riparare nella regione di Damasco ove rimase nell’attesa del ritorno, nel gran giorno, al tempo della «visita» del loro Dio. La sigla una volta corrente per la designazione di quest’opera era CDC, Cairo Damascus Covenant (patto di Cairo e Damasco) è oggi semplificata in CD, Cairo Document, e cioè frammenti del documento di Damasco provenienti dalla sinagoga di Ezra del Cairo. Il titolo originale dell’opera non si sa; ma siccome gli aderenti alla setta si ritenevano membri del «nuovo patto nella terra di Damasco» (VI, 19) è verosimile, come suggerisce A. Dupont-Sommer, che esso suonasse all’incirca: «Libro (o regola) del nuovo patto nella terra di Damasco». Gli studi a proposito del CD subirono una svolta nuova e inattesa allorché avvennero le scoperte dei manoscritti di Qumrân e in particolare la pubblicazione della Regola della comunità (nel 1951) e della Regola della guerra (nel 1954) dopo circa quarant’anni dalla pubblicazione di S. Schechter. Subito fu osservata la stretta parentela tra queste opere e ci si domandò se anche CD non risalisse in qualche modo agli esseni di Qumrân; purtroppo dalla grotta 1 non si ebbe alcun frammento del CD, ma la convergenza degli scritti appariva sempre più evidente e si ricordava la felice intuizione di Israel Lévi che in uno studio del 1912 (cfr. Bibl.) aveva sottolineato (forse anche sotto il suggerimento del suo maestro Isidore Lévy, come ricorda A. Dupont-Sommer) le affinità tra il CD e la setta degli esseni descritta da Giuseppe Flavio; l’interrogativo era tanto più inquietante in quanto nel CD sono citate, tra l’altro, opere apocrife, come ad es. il libro dei Giubilei e i Testamenti dei patriarchi, testimoniate tra i manoscritti di Qumrân. Dal 1956 (ma la scoperta risale al 1952) tutto divenne più chiaro e le ipotesi formulate da qualche studioso divennero realtà: nel 1956 M. Baillet pubblicò cinque frammenti di uno stesso manoscritto del CD provenienti dalla grotta 6 di Qumrân; nello stesso anno e poco appresso (prima nel 1957 in Dieci anni… e poi nel 1959 in Ten Years…) J. T. Milik comunicò che nella grotta 4 il CD era rappresentato da ben sette frammenti di manoscritti diversi e da due nella grotta 52; l’edizione definitiva dei frammenti della grotta 6 e di uno della grotta 5 fu fatta rispettivamente dal Baillet e dal Milik nel vol. III delle Discoveries in the Judaean Desert (1962), pp. 128-131 e 181 e corrispondono alle sigle 6Q15 1; 6Q15 2; 6Q15 3; 6Q15 4; 6Q15 5; e 5Q12; ma per ora, i frammenti più importanti, quelli della grotta 4, non sono ancora stati pubblicati, pur avendone anticipato il Milik alcuni dati fondamentali. 190

Ormai dunque non v’è dubbio che il CD fa parte della letteratura giuridica della comunità di Qumrân e deve essere trattato con essa tanto per la cronologia quanto per l’ambiente geografico e spirituale dal quale emanò, ed il suo studio deve correre parallelo a quello degli altri manoscritti di Qumrân in primo luogo alla Regola della comunità (1QS) con 1QSa e 1QSb, e alla Regola della guerra (1QM). I manoscritti del CD, seppure frammentari, hanno raggiunto a Qumrân il ragguardevole numero di dieci e cioè quasi quanti ne ha la Regola della com. (dodici manoscritti) e i libri più letti della Bibbia (Isaia, Salmi, Profeti minori) e più di qualsiasi libro del Pentateuco, ad eccezione del Deuteronomio; e perciò non v’è alcun dubbio: «il Documento di Damasco a Qumrân è certamente di casa», come scrive R. de Vaux3. È questo il motivo per cui il testo scoperto e pubblicato da S. Schechter è ormai parte integrante di ogni pubblicazione dei manoscritti di Qumrân. Oltre alle fondamentali anticipazioni del Milik, sulle quali si ritornerà, e ai Commenti ai manoscritti di Qumrân che ormai includono anche lo scritto di Damasco, alcuni studi particolari di grande interesse per gli accostamenti tra il CD e 1QS sono dovuti a B. Reicke (in StTh del 1949-50), a P. Wernberg-Moller (in JSS del 1956), a M. Delcor (in RB del 1954 e del 1955) e a M. Baillet (in RB del 1956 e nell’opera sopra citata).

Composizione. La recensione A del CD consta di due parti nettamente distinte: la prima, di quattro fogli, e cioè le colonne I-VIII, contiene una serie di esortazioni ai membri della comunità, in buona parte nella forma letteraria di meditazione storica; i vari passi si susseguono in modo molto disarticolato, tenuti insieme non da concatenazione logica, ma dalla forma e dall’argomento generale trattato; la seconda, anch’essa di quattro fogli, cioè le colonne IX-XVI, contiene una serie di ordinamenti, o leggi, per i membri della comunità; le singole norme sono spesso provviste di un titolo che ne preannuncia l’argomento. La recensione B, cioè il nono foglio, le colonne XIX-XX, ha inizialmente un testo in gran parte parallelo a VII, 6-VIII, 4 (= XIX, 1-17) e seguita poi da sola, in modo autonomo, dando quella che è, forse, la conclusione della prima parte, cioè delle esortazioni. Questo stato di cose rivela come, non diversamente dal testo della Regola della com., anche il CD non sia un’opera letterariamente unitaria ma un complesso di materiale incompleto, per la cui coordinazione mancano 191

criteri sicuri e che ha dietro di sé una storia e una elaborazione lunga e oscura. In parte tutto questo era già stato constatato da S. Schechter che all’ultimo foglio diede la numerazione col. XIX e XX mentre con i fogli precedenti era giunto solo alla col. XVI; L. Rost e Ch. Rabin hanno seguito la stessa numerazione e così quasi tutti i traduttori, mentre S. Zeitlin numerò la colonna XIX con i numeri XVII e XVIII e la XX con i numeri XIX e XX. Ch. Rabin pensa addirittura che le esortazioni e gli ordinamenti rappresentino «due scritti completamente diversi» copiati casualmente dallo scriba in un unico libro. Ma ormai non v’è dubbio che si tratti di un’unica opera che subì un certo numero di elaborazioni come attestano i frammenti a noi pervenuti e le anticipazioni del Milik sui frammenti della grotta 4. Secondo queste anticipazioni, il testo dei frammenti della quarta grotta concorda sostanzialmente con quello della recensione «A» del Cairo, ma è alquanto più esteso; in base a esso si può ricostruire, con una verosimiglianza molto probabile, lo stato primitivo del testo, nel quale le due parti «presentano già un testo unitario» ( J. T. MILIK, Dieci anni…, p. 30): l’inizio della prima parte è costituito da un testo particolare scoperto nella grotta 4; dopo di essi vengono le colonne I-VIII del CD e un testo sostanzialmente identico a quello delle colonne XIX-XX; anche l’inizio della seconda parte è costituito da un testo nuovo al quale seguono, nell’ordine, le colonne XV-XVI, IX-XIV; segue un testo finale nuovo comprendente, tra l’altro, un codice penale, e il rito per la cerimonia del rinnovamento del patto che aveva luogo nella festa della Pentecoste. Oltre alle aggiunte più vistose finora menzionate, il Milik ha rivelato che ve ne sono molte altre contenenti prescrizioni particolari da inserire nel corpo del testo nel quale attualmente non hanno alcun riscontro.

Analisi. La prima parte del CD, le esortazioni, consta di riflessioni e meditazioni sul corso della storia di Israele dai primi giorni all’epoca della composizione, dalle quali sono poi tratti argomenti di riflessione e di guida per il presente. Le idee principali sono: obbedienza alle disposizioni della comunità, santità ed elezione di tutti i membri del nuovo patto, autorità del maestro di giustizia, empietà di quanti non sono entrati nel patto, o lo hanno abbandonato, e imminenti castighi che li sovrastano. Nelle parole parenetiche dell’autore si sente il riflesso di un certo smarrimento, di una certa ansietà tra i seguaci, vecchi e nuovi; di qui 192

l’insistenza sulla perseveranza e sul confronto tra la sorte dei fedeli e dei rinnegati (VII, 9 - VIII, 20 e XIX, 1 - XX; 34). A proposito della storia del suo tempo l’autore usa termini ed espressioni volutamente allusive e sibilline, conformemente allo stile abituale della letteratura apocalittica, dalle quali si può avere la chiave per ricostruire, con molta probabilità, l’ambiente storico nel quale sorse il CD, come si vedrà appresso. 1) Dopo l’invito a meditare sulla storia (I, 1-4a), l’autore ne offre un primo saggio insistendo soprattutto sugli eventi contemporanei che videro il sorgere della setta, le sue prime grandi difficoltà e quelle del suo fondatore o rianimatore, il maestro di giustizia (I, 4b - II, 1). 2) Predestinazione dei giusti e degli empi: coloro che sono entrati nel nuovo patto e gli sono rimasti fedeli, e coloro che hanno invece deviato dalle sue norme sono le due palesi testimonianze della predestinazione dei giusti e degli empi: «Prima che fossero formati egli conobbe le loro opere… nascose il suo volto fino, alla loro distruzione… Ma in tutti questi (tempi) si è suscitato uomini notabili… li istruì… determinò i loro nomi» (II, 2-13). 3) Nuova meditazione sulla storia, con l’esortazione alla vita perfetta cioè conforme ai voleri di Dio, non alla propria volontà, ha presente la storia biblica della prima umanità, la storia dei patriarchi e dei loro discendenti: non si deve seguire l’esempio di quanti si lasciarono trascinare «dall’ostinazione del loro cuore» e abbandonarono il patto, bensì l’esempio di «coloro che perseverarono negli ordini di Dio» e ai quali egli svelò «le cose nascoste»; i convertiti si uniscono ai figli di Sadoc e vengono da Dio perdonati e separati dagli altri (II, 14 - IV, 12a). 4) Le tre reti di Belial che Dio ha scatenato contro Israele: la lussuria, le ricchezze, la contaminazione del santuario (IV, 12b VI, 1). 5) La comunità del nuovo patto: il nuovo legislatore e le nuove norme fondamentali. «Dio si è ricordato del patto con gli antenati e ha suscitato da Aronne uomini intelligenti, e da Israele persone sagge»; costoro escono dalla terra di Giuda, vanno nella terra di Damasco, entrano nel patto nuovo, ne osservano le norme e si tengono lontani dal santuario; norme per coloro che sono ammogliati (VI, 2 - VII, 9a). 6) La sorte opposta dei fedeli al patto e dei fedifraghi «allorché Dio visiterà la terra». «Tutti gli uomini che sono entrati nel nuovo patto, nella terra di Damasco, ma se ne sono poi ritornati e hanno tradito, si sono allontanati dal pozzo delle acque vive»; «quelli che gli prestano attenzione sono i poveri del gregge. Questi saranno risparmiati nell’epoca della visita, mentre i restanti saranno dati alla spada» (VII, 9b - VIII, 21 e XIX, 1 - XX, 34). 193

La seconda parte, gli ordinamenti, ha le caratteristiche di ogni corpo legale, cioè è molto frazionata; l’autore offre però spesso il titolo dei paragrafi con le espressioni: «A proposito di…»; «questa è la regola per…»; il copista medievale, allo stesso scopo, lascia qua e là spazi bianchi, specie da X, 14 a XII, 23. Questa parte comprende le colonne IX-XVI che contengono quelle che si possono considerare come le norme fondamentali della comunità del nuovo patto nella terra di Damasco. Secondo l’ordine tradizionale del CD il testo procede nel seguente modo: 1) Sezione giuridica: norme per la correzione fraterna, per il giuramento giudiziario, per i testimoni e per i giudici (IX, 1 - X, 10a). 2) Norme per la purificazione, per il sabato, per i sacrifici, per la vita quotidiana e per la purità rituale (X, 10b - XII, 18). 3) Organizzazione delle varie comunità decentrate nelle città e negli accampamenti: l’ispettore dell’accampamento, la distribuzione dei compiti e le opere della comunità (XII, 19 - XIV, 19). 4) Divieto di ogni giuramento; ammissione nelle comunità, giuramento impegnativo dei membri, norme per la graduale assimilazione in essa, qualità fisiche e morali che debbono avere, la assoluta obbligatorietà dei doveri assunti; altre norme particolari, i doni spontanei (XIV, 20 - XVI, 19). Come s’è visto in base alle anticipazioni di J. T. Milik, la recensione della quarta grotta di Qumrân è più estesa, ha un ordine diverso, e termina con una liturgia per il rinnovamento del patto nella festività della Pentecoste che, come si legge nel libro dei Giubilei, da una parte era la festa del giuramento di Dio ai patriarchi e dall’altra del giuramento del popolo con la promessa di fedeltà. Fino alla pubblicazione dei testi della quarta grotta anticipati molto sommariamente dal Milik, ogni analisi del CD non può che sottolineare la frammentarietà di questa recensione del Cairo; e questo giudizio incide sulla questione dell’epoca di composizione, come si vedrà appresso.

Aspetti letterari. Tanto le esortazioni quanto gli ordinamenti hanno un buon riscontro nel libro biblico del Deuteronomio, che è d’altronde citato molto spesso4; il principio è identico in ambedue i testi, e cioè il ricorso alla storia per comprendere il presente; ma mentre nel Deuteronomio gli eventi e le persone sono rievocati in modo assai chiaro, nel CD gli eventi recenti e contemporanei all’autore, come si è già accennato, sono solitamente molto oscuri e difficilmente precisabili, a differenza di altri, riferentisi a eventi 194

antichi, (ad es. II, 18; III, 24a; III, 4b-8) ove i riferimenti sono chiari. A proposito del genere letterario, del confronto del nostro testo con la forma del Deuteronomio e anche dello sviluppo delle regole essene si può ricordare un testo purtroppo assai frammentario pubblicato dal Milik5 e denominato 5Q13: la sua fraseologia è quella degli scritti legali, contiene almeno due citazioni della Regola della com., inizia con una meditazione sulla storia nella seconda persona singolare (il fedele si rivolge a Dio), pare che si ispiri a 1QS e a CD, ma non si identifica né con l’una né con l’altro; in esso si parla della creazione, dei figli di Dio, di Enoc, di Noè, di Abramo, di Giacobbe, di Levi, dei leviti e dei figli di Israele. Si possono leggere ad es. le seguenti frasi: «Tu hai distrutto… la generazione contemporanea di Noè, tuo eletto, tu gli hai ordinato di essere puro. A Giacobbe hai fatto conoscere (i misteri) a Betel… Tu hai (santificato) Levi e gli hai dato il potere di legare e di sciogliere e hai scelto (i figli di) Levi affinché escano ed entrino… affinché servano in spirito davanti a te…». Anche le meditazioni sulla storia del Deuteronomio sono redatte alla seconda persona, ma con essa l’oratore si rivolge al popolo idealmente presente davanti a lui. La prospettiva dinamica con la quale sono rappresentati gli eventi richiama spontaneamente l’idea che la setta fosse convinta di vivere nel deserto i quarant’anni che, nella cronologia biblica, passarono tra l’esodo dall’Egitto e l’ingresso nella terra promessa (cfr. XIII, 1-2 e Es., 18, 25); può essere che l’autore attinga anche alla seconda parte di Isaia ove la liberazione dalla schiavitù è raffigurata con le immagini di un nuovo e trionfale esodo (cfr. Is., 41, 17-20; 43, 16-21; 48, 20-22); ma per la setta questi quarant’anni sono quelli dell’ardente attesa del ritorno trionfale nella terra promessa, della visione della salvezza (XX, 15.34), dell’annientamento del male e dei cattivi, dell’attesa escatologica, dell’avvento messianico secondo la concezione di Qumrân (vedi 1QSa, II, 11-16 e nota). Il CD a differenza di 1QS cita spesso libri dell’Antico Testamento rivelando una certa predilezione per lo stile antologico che ricerca nella Scrittura testi valevoli per il presente con la netta intenzione di determinare il tenore preciso di certe norme (cfr. VI, 14.18; IX, 2-8; X, 14-XI, 23; XVI, 612 ecc.), di svelare integralmente il significato allegorico di alcuni testi (cfr. III, 21 - IV, 4; IV, 14-18; IV, 19-20; VI, 3-11; VII, 14-20; VIII, 9-11 ecc.) scandagliandoli con l’intento di ricercare il valore di ogni singola parola; l’unica eccezione è costituita da XII, 2-4. Dall’espressione «entrare» nel patto che ricorre con frequenza insieme alla messa in guardia dall’apostasia e dai gravi danni ad essa connessi (cfr. 195

VI, 11.19; VIII, 1; XIX, 16; XX, 25) si possono avanzare alcune possibilità interessanti il nostro presente argomento: l’espressione si accorda molto bene con il rituale dell’annuale rinnovamento del patto con il quale termina, come s’è visto, il testo originale del CD e permette di ritenere che, almeno in parte, il testo poteva essere parte fondamentale della liturgia della festa, ad es. come discorso preparatorio e come codice di preciso impegno; l’espressione sottolinea l’accordo letterario del CD con alcuni testi dell’Antico Testamento facenti parte della liturgia del patto, comprendenti come momenti essenziali una meditazione sulla storia di Israele e gli ordinamenti ai quali si obbligavano quanti entravano nel patto (così ad es. nell’Esodo e nel Deuteronomio in modo più vistoso, in Gios., cc. 23-24; in 2 Re, c. 23; in 2 Cron., c. 34: si veda in particolare l’opera di K. Baltzer citata nella Bibl.). Senza alcuna possibilità di alternativa cade così l’ipotesi, avanzata anche recentemente da Ch. Rabin, dell’originaria netta divisione delle due grandi parti del CD e dell’indipendenza dell’uno dall’altra. Anche le cosiddette somiglianze tra gli ordinamenti del CD e le prescrizioni rabbiniche (sottolineate dal Rabin) non sono impressionanti e probative: si possono spiegare con un particolare fondo comune e con reciproci influssi. Per lo stile e il genere letterario non meno che per il contenuto il nostro testo è indiscutibilmente qumranico.

Relazione tra il Documento di Damasco e la Regola della comunità. La relazione tra i due testi è un dato di fatto riconosciuto da tutti ed è importante sia dal punto di vista letterario sia per la cronologia dei due scritti. Tutta la sezione III, 21 - IV, 12 ha numerosi punti di contatto con la Regola, V, 1-7; così in XX, 29-32 vi sono espressioni che ricalcano quelle della Regola, I, 24-26 e IX, 10. Nel CD, XIII, 2 vi è un breve accenno al sacerdote nella comunità o gruppo di dieci persone, ed il testo suppone il passo più chiaro della Regola, VI, 3-8; così nel riferimento alla purificazione (IX, 21), all’ammissione di nuovi membri nella comunità (XIII, 11-13) e alla procedura da seguire nell’adunanza dei «molti» (XIV, 10-11) si comprende poco o nulla se non ci si rivolge ai testi corrispondenti della Regola e cioè, nell’ordine: VI, 25; VII, 3.16; VIII, 24 (per la purificazione), VI, 13-23 (per l’ammissione), VI, 11-13 e VII, 9-12 (per l’adunanza); ugualmente interessante è il caso degli «statuti per il saggio» enunziati in XII, 20-21, ma non riportati: il testo visibilmente si riferisce alla Regola, IX, 12-18. Un problema di particolare interesse e importanza è rappresentato da alcune osservazioni, tra le quali le più evidenti sono: il CD suppone che gli 196

aderenti godano della proprietà privata e del matrimonio (cfr. VII, 6 e segg.; XI, 12; XII, 10; XIV, 13), mentre 1QS è negativa sia per l’uno che per l’altro; il CD parla di abitazioni dei membri nella «città» e in «accampamenti» (cfr. VI, 6; XII, 19.23) che non hanno riscontro in 1QS; alcune disposizioni del CD emergono per il rigorismo che le distingue: così la «santificazione» del sabato (cfr. ad es. X, 18; e XI, 11.16-17) e l’importanza data ai precetti sulla purità legale (cfr. ad es. XII, 11-15 e le ultime righe della col. XV); il CD menziona il «maestro di giustizia» (I, 11; VI, 11; XX, 32), il «maestro unico» (XX, 1.14), «l’uomo di menzogna» (XX, 15) il vaticinatore menzognero (VIII, 13; XIX, 26; XX, 11), l’«uomo dell’arroganza» (I, 14), mai menzionati in 1QS. A queste constatazioni se ne aggiungono altre che in parte sono rilevate nelle note e in parte saranno menzionate qui appresso. Ci si domanda ora quale tra i due scritti sia il più antico e quale aspetto fondamentale li caratterizzi: ci sono state e ci sono tuttora le più diverse e contrastanti risposte per le quali il lettore interessato può consultare gli studi citati nella Bibliografia giacché sarebbe troppo lungo stenderne anche soltanto le linee essenziali. Prima di esporre brevemente le linee generali della sentenza che si giudica più probabile, riassumo alcuni dati che si possono considerare sicuri, e cioè: sia 1QS che CD sono due scritti compositi, non di getto, e ognuno riflette sfumature e tendenze non completamente uniformi, ognuno ha una sua storia, una sua evoluzione; le relazioni che si notano tra i due scritti sono profonde e indubbiamente non si spiegano da semplici circostanze o elementi esterni; ambedue gli scritti, è fuori dubbio, appartengono al movimento esseno di Qumrân e rivelano le ispirazioni e la vita di persone viventi in vita comune (almeno in un certo grado), separati dal resto dell’ambiente che li circonda. Molti studiosi considerano il CD posteriore a 1QS, ma non mancano autorevoli sostenitori della sentenza contraria6, tuttavia presentemente la questione non si può porre in questi termini. Fin dal suo sorgere, o non molto dopo (già nell’epoca maccabaica), il movimento esseno, che ebbe poi come centro Qumrân, manifestò due tendenze: una che potremmo denominare «comunitaria» comportante una totale vita in comune, periodi di prova particolarmente severi e lunghi, assenza di proprietà privata e anche il celibato (almeno dopo l’ingresso nella comunità); l’altra (sostanzialmente più conforme alla tradizione di vita ebraica) che esigeva un certo grado di vita in comune vissuta però in un modo alquanto diverso: anzitutto perché non era necessariamente «comunitaria» ma poteva essere vissuta tanto in «accampamenti» quanto in città ove gli aderenti potevano 197

ad es. «sostenere la mano del povero, dell’indigente e dello straniero» (VI, 21); qui vivevano con le loro famiglie una vita normale, ma di stretta osservanza sia verso la legge mosaica che verso le ulteriori determinazioni del CD (e in parte del 1QS: «se abitano negli accampamenti…, prendano moglie e generino figli, camminino in conformità della legge…» (VII, 6-7), «la balia non sollevi il lattante andando e venendo di sabato» (XI, 11; cfr. anche le rr. 14-15); l’assenza della proprietà privata era molto attenuata rispetto a 1QS: «Nessuno venda un animale domestico… ai gentili… Non venderà loro il suo schiavo e la sua schiava…» (XII, 9-10), «il salario di almeno due giorni ogni mese lo rimetteranno nella mano dell’ispettore…» per gli orfani, i poveri, gli indigenti, i vecchi ecc. (XIV, 13-15). Si trattava di una specie di «terz’ordine» che non solo era collegato strettamente con Qumrân, ma, probabilmente, da esso dipendeva. È opportuno osservare che lo stesso Giuseppe Flavio (vedi p. 62 [Guerra, II, 160]) riferisce come tra gli esseni vi fosse un certo disaccordo a proposito del celibato, e che la prospettiva di un «terz’ordine» non solo è vista bene da alcuni studiosi7, ma spiega assai meglio che non la sola comunità di Qumrân le associazioni essene che vivevano in patria o fuori e delle quali parlano Filone e Giuseppe Flavio. Di qui si può dedurre, probabilmente, anche il motivo per cui alla periferia del grande cimitero siano state trovate delle tombe di donne (vedi p. 22 e seg.): nulla impedisce di credere che per motivi per ora a noi ignoti nella stessa vasta zona di Qumrân vi si fosse installato, nell’ultimo periodo dell’esistenza della comunità, anche uno o più «accampamenti». L’ipotesi del «terz’ordine» fa anche rilevare con maggiore chiarezza il significato e l’importanza della prima parte del CD; queste considerazioni sulla storia, in uno scritto rivolto a un uditorio certo più ampio e più vario di quello ristretto dei «solitari» di Qumrân sono, infatti, al loro posto in quanto più popolari e adatte a un uditorio più vasto. All’inizio della prima parte del CD si legge uno schema della storia di tutto il movimento esseno se non addirittura asideo-esseno: ad esso non pare che si possa attribuire un preciso valore cronologico ma non v’è dubbio che ha almeno un significato indicativo. È detto che 390 anni dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor (nel 587 a. C.), Dio visitò «un resto» di Israele (cioè verso l’anno 197 a. C.) il quale andò «a tastoni» alla ricerca della sua strada per circa vent’anni, dopo dei quali Dio suscitò il «maestro di giustizia per guidarli» (I, 4-11); siamo verso l’anno 177 cioè all’inizio dell’epoca maccabaica; un testo di XX, 13-15 afferma: dal giorno della morte del «maestro di giustizia» (già avvenuta) fino alla scomparsa «di tutti gli uomini di guerra» ci saranno circa 40 anni; dando al 198

maestro dai 50 ai 60 anni di vita ci si trova durante il dominio di Giovanni Ircano I, sommo sacerdote ed etnarca (134-104 a. C.); è dunque approssimativamente dopo questi anni che furono scritti i testi citati: i quarant’anni non erano ancora passati e lo scrittore viveva nell’attesa dei grandi eventi escatologici che dovevano contrassegnare questo periodo. Anche altri argomenti invitano a datare la composizione di CD negli anni che vanno da Giovanni Ircano all’arrivo a Gerusalemme di Pompeo (63 a. C.); sono anni molto torbidi che segnarono un grande sviluppo del movimento esseno a Qumrân e fuori8; le stesse grandi persecuzioni di Ircano I contro i farisei spiegano alcune espressioni di CD, ma anche l’accrescimento degli esseni riflesso da una parte nello sviluppo edilizio di Qumrân e dall’altra nella fuga e nell’aumento delle persone e delle comunità che vivevano in base alle norme del nostro scritto: la fuga dalla «terra di Giuda» (IV, 11; VI, 5; VII, 13; XX, 22 e 27) e l’esilio nella «terra di Damasco» (VI, 5; VI, 19; VII, 19; VIII, 21; XX, 12) spiegano l’accentuata tinta farisaica di queste norme, le insistenze sulla necessità della fermezza nella vita sacrificata che avevano scelto (VII, 13; VIII, 2; XX, 27) e sulla cattiva sorte dei rinnegati (VII, 9 - VIII, 20; XIX, 5 - XX, 34). Tra gli scritti assegnati a questo periodo si noti in specie il Commento ad Abacuc che ha riscontri così notevoli con il CD e, tra le persone menzionate, l’espressione enigmatica, «il capo dei re di Jâwân» (VIII, 11; XIX, 23-24), cioè Pompeo. Il progressivo accrescimento e determinazione del testo, così chiaramente illustrato dalla sua composizione letteraria, ha ancora un ulteriore indizio: le espressioni «le prime sentenze» (XX, 31), «ultima sentenza della legge» (parole con le quali termina, secondo l’anticipazione del Milik, tutto il CD, cfr. RB, 1956, pp. 55 e 61) e ancora «le prime e le ultime sentenze» (XX, 8-9); da esse si può dedurre che l’autore o redattore era cosciente di avere unito nel suo scritto materiale antico ed altro più recente o nuovo. Per finire si può ancora ricordare che la Regola della congregazione (1QSa), che prevede il matrimonio dei suoi membri, è giudicata sostanzialmente posteriore alla Regola della comunità (1QS) (vedi l’ Introduzione a 1QSa). In conclusione: alla domanda posta inizialmente pare si possa rispondere che ambedue (CD e 1QS) attingono alla stessa fonte, il maestro di giustizia, ambedue hanno almeno due fasi cronologiche comuni, l’epoca che va da Ircano I ad Ircano II, e dalla morte di Erode il Grande al 68 d. C. Con tutte le riserve necessarie in una questione così scarsa di documentazione sicura si può affermare che, in complesso, il CD suppone 1QS, ma non il contrario. 199

In fondo si tratta di una questione secondaria una volta che ci si è accordati sullo sviluppo parallelo dei due scritti e sul maggiore ascendente, o prestigio della Regola rispetto al Documento. Per lo sviluppo (o l’involuzione) della legislazione essena di Qumrân, oltre al frammento già menzionato (5Q13), è bene tenere presente un testo della grotta quarta e datato nell’ultimo periodo dell’insediamento esseno nella regione: in esso accanto a prescrizioni sul sabato identiche a quelle di CD, X, 14 e segg. si legge un passo che corrisponde a 1QS, VII, 1-10, poi un testo sulla purificazione dopo il parto che dipende dal Levitico, 12, 2 e segg. e dal libro dei Giubilei, 3, 8-13, e infine due frammenti contenenti un codice penale simile a CD, XIV, 18 e segg. e a 1QS, VI, 24 e segg.9; d’onde si può, forse, concludere che nell’ultimo periodo della sua storia la vita degli esseni di Qumrân, e quindi la loro regola, aveva un carattere piuttosto ibrido (vedi pp. 72 e segg.; 107 e seg.). A proposito della relazione tra il Documento di Damasco e la setta dei caraiti, relazione che fu molto discussa soprattutto perché la sinagoga del Cairo ove fu trovato apparteneva a questa setta, si veda p. 42 e l’opera di N. Wieder.

1. Così ad es.: quelli di H. Gressmann (1911), di G. F. Moore, di I. Lévi (1911), di M.-J. Lagrange (1912), di R. H. Charles (1913), di G. Margoliouth (1912-1914), di E. Meyer (1912), di W. Staerk (1922), di L. Ginzberg (1922), di H. Preisker (1926), di P. Riessler (1928), di W. Eisler (1936), di B. Reicke (1946): vedi la Bibl. 2. Cfr. anche C. H. H UNZINGER nel ThLZ, 1960, 152. 3. L’archéologie et les manuscrits… p. 87. 4. Cfr. I, 16 per Deut., 19, 14; III, 6.7 per Deut., 9, 23 e 12, 8; IV, 7 per Deut., 25, 1; V, 2.17 per Deut., 17, 17 e 32, 28; VII, 6 per Deut., 7, 9; VIII, 9.14.15 per Deut., 7, 8; 9, 5; 32, 33. 5. DJD. III. Les petites grottes de Qumrân, Oxford, 1963, pp. 181-183. 6. Cfr. ad es. G. Vermes, J. Maier, H. H. Rowley. 7. Cfr. A. D UPONT-SOMMER, pp. 159 e segg., É. C OTHÉNET, p. 141, e lo stesso J. T. M ILIK (Dieci anni…, p. 83). 8. Cfr. Introduzione generale, pp. 32 e segg.; e la Regola della com., VIII-X, 1 a. 9. J. T. M ILIK, Dieci anni…, p. 88.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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I [1] Ed ora ascoltate tutti voi che conoscete la giustizia e comprendete le opere di [2] Dio, poiché egli è in lite con tutta la carne ed eserciterà il giudizio su tutti coloro che lo disprezzano. [3] Poiché a causa della infedeltà di coloro che lo avevano abbandonato egli nascose il suo volto a Israele e al suo santuario, [4] e li consegnò alla spada. Ma nel suo ricordo del patto con gli antenati lasciò un resto [5] a Israele e non li abbandonò alla distruzione. E nel tempo della collera, trecento [6] e novant’anni dopo che li aveva consegnati in mano a Nabucodonosor, re di Babilonia, [7] egli li visitò e da Israele e da Aronne fece germogliare la radice d’una pianta destinata ad ereditare [8] la sua terra e ad ingrassarsi con i beni del suo suolo. Ed essi compresero la loro iniquità e riconobbero di essere [9] uomini colpevoli. Erano stati come ciechi e come coloro che cercano la strada a tastoni, [10] per vent’anni. E Dio considerò, le loro opere perché l’avevano ricercato con cuore perfetto: [11] suscitò per loro un maestro di giustizia per guidarli sulla via del suo cuore e per fare conoscere [12] alle ultime generazioni ciò che ha fatto all’ultima generazione, all’assemblea dei traditori. [13] Costoro hanno deviato dalla via! È il tempo di cui sta scritto: «Come una giovenca testarda [14] è divenuto testardo Israele» allorché apparve l’uomo dell’arroganza che fece versare su Israele [15] acque di menzogna, lo fece errare in un deserto senza strada abbassando le altezze eterne, e deviare [16] dai sentieri della giustizia spostando il confine posto dagli antenati nella loro eredità. E così [17] attirò su di loro le maledizioni del suo patto consegnandoli alla spada esecutrice della vendetta [18] del patto. Essi avevano, infatti, inseguito cose ingannevoli e scelto illusioni, verniciato [19] le brecce e scelta la bellezza del collo, dichiarato giusto l’empio e dichiarato empio il giusto, [20] trasgredito il patto e violato lo statuto, attentato alla vita del giusto; e la loro anima detestò tutti coloro che camminano [21] nella perfezione; li perseguitarono con la spada e incitarono il popolo alla discordia. Allora si accese la collera [II, 1] di Dio contro la loro assemblea devastando tutta la loro moltitudine: le loro opere furono come un’impurità davanti a lui. [2] Ed ora ascoltatemi voi tutti che siete entrati nel patto ed io rivelerò alle vostre orecchie le vie [3] degli empi. Dio ama la conoscenza e pone davanti a sé la sapienza e la saggezza; [4] la prudenza e la conoscenza sono suoi ministri, presso di lui è la longanimità e l’abbondanza di perdoni [5] per espiare i convertiti dal peccato; ma forza, potenza e furore grande con fiamme di fuoco [6] per mano di tutti gli angeli devastatori, contro tutti 207

coloro che hanno deviato dalla via e hanno detestato lo statuto: per essi non vi sarà né un resto [7] né uno scampo. Dio infatti non li ha scelti dall’antichità eterna; prima che fossero formati egli conobbe [8] le loro opere, detestò le generazioni a causa del sangue, nascose il suo volto dalla faccia della terra, [9] da Israele, fino alla loro distruzione; egli conobbe gli anni della loro esistenza, il numero e la data esatta dei tempi determinati per tutti [10] gli eventi dei secoli, i fatti futuri, tutto ciò che accade a suo tempo per tutti gli anni eterni. [11] E in tutti questi (tempi) si è suscitato uomini notabili per lasciare uno scampo alla terra e riempire [12] la superficie del mondo con la loro discendenza; egli li istruì per mezzo degli unti del suo spirito di sanità e dei veggenti [13] della verità, e con precisione determinò i loro nomi; ma fece smarrire quelli che odia. [14] Ed ora, figli, ascoltatemi ed io scoprirò i vostri occhi affinché possiate vedere e comprendere le opere [15] di Dio, scegliere quanto gli è gradito e respingere ciò che odia, camminare alla perfezione [16] in tutte le sue vie senza sgarrare secondo i desideri dell’istinto colpevole e degli occhi lussuriosi. Poiché molti, [17] a causa di essi si sono smarriti, e hanno vacillato, a causa di essi, valenti eroi, dai tempi antichi ad oggi; avendo camminato nell’ostinazione [18] del loro cuore, caddero i vigilanti del cielo; furono presi, a causa di essi, perché non avevano osservato gli ordini di Dio, [19] e (a causa di essi) caddero i loro figli la cui altezza uguagliava quella dei cedri e i cui corpi erano come le montagne; [20] ogni carne che era sulla terra asciutta spirò, essi divennero come se non fossero mai esistiti, essendosi comportati [21] secondo la loro volontà e non avendo osservato gli ordini del loro fattore, fino a quando arse contro di essi la sua ira. [III, 1] A causa di essi si sono smarriti i figli di Noè e le loro famiglie, a causa di essi furono recisi. [2] Abramo non camminò così e fu fatto amico, avendo osservato gli ordini di Dio e non avendo scelto [3] la volontà del suo spirito. Egli li trasmise a Isacco e a Giacobbe, i quali li osservarono e furono iscritti come amici [4] di Dio e partecipi del patto per sempre. Ma a causa di essi si sono smarriti i figli di Giacobbe e furono puniti secondo [5] il loro errore. I loro figli, in Egitto, camminarono nell’ostinazione del loro cuore, complottando contro [6] gli ordini di Dio e facendo ciascuno ciò che pareva buono ai suoi occhi; essi mangiarono il sangue e furono recisi, [7] nel deserto, i loro maschi. E allorché disse loro nel deserto di Qadesh: «Salite a prendere possesso della terra», essi seguirono il parere del loro spirito, non ascoltarono [8] la voce del loro fattore, (non osservarono) gli ordini del loro maestro e mormorarono nelle loro tende: la 208

collera di Dio arse allora [9] contro la loro assemblea. A causa di ciò perirono i loro figli, a causa di ciò furono recisi i loro re, a causa di ciò, perirono [10] i loro eroi, a causa di ciò fu devastata la loro terra, a causa di ciò, si resero colpevoli i primi che entrarono nel patto, e furono consegnati [11] alla spada, poiché avevano abbandonato il patto di Dio e scelto la loro volontà, si erano lasciati trascinare dall’ostinazione [12] del loro cuore facendo ognuno la propria volontà. Ma con coloro che perseverarono negli ordini di Dio, [13] quelli di loro che erano rimasti, Dio stabilì il suo patto con Israele, per sempre, rivelando [14] loro le cose nascoste a proposito delle quali si era smarrito tutto Israele: i suoi sabati santi e i suoi gloriosi tempi stabiliti, [15] le testimonianze della sua giustizia e le vie della sua verità, i desideri del suo beneplacito che [16] l’uomo deve compiere per vivere grazie ad essi; svelò (tutto questo) davanti a loro ed essi scavarono un pozzo dalle acque abbondanti: [17] chi le disprezza non vivrà. Si erano contaminati con la trasgressione dell’uomo e con le vie impure, [18] avevano detto: «Questo è nostro!». Ma nei suoi meravigliosi misteri, Dio cancellò la loro iniquità, tolse la loro trasgressione [19] ed edificò per essi una casa sicura in Israele, quale prima non era mai esistita fino [20] ad ora. Coloro che persevereranno in essa (avranno) vita eterna, e sarà loro tutta la gloria di Adamo, come [21] Dio aveva stabilito in loro favore per mezzo del profeta Ezechiele, dicendo: «I sacerdoti, i leviti e i figli [IV, 1] di Sadoc, che hanno curato la custodia del mio santuario durante il traviamento dei figli di Israele [2] lontano da me, essi mi offriranno grasso e sangue». I sacerdoti sono i convertiti di Israele [3] usciti dal paese di Giuda, e i leviti sono coloro che si uniscono ad essi; i figli di Sadoc sono gli eletti [4] di Israele, uomini notabili che si mantengono (al suo servizio) alla fine dei giorni. Ecco la lista precisa [5] dei loro nomi secondo la loro genealogia, il tempo preciso della loro esistenza, il numero delle loro prove, gli anni [6] del loro esilio e la lista delle loro opere. Sono gli antenati santi ai quali [7] Dio ha perdonato; essi hanno dichiarato giusto il giusto e hanno dichiarato empio l’empio; e poi tutti coloro che sono entrati (nel patto) dopo di essi [8] comportandosi secondo il preciso tenore della legge, quel (tenore) nel quale erano stati provati gli antenati fino al compimento [9] del tempo preciso di quegli anni. Secondo il patto che Dio ha sancito con gli antenati perdonando [10] le loro iniquità, così Dio perdonerà ad essi. E al compimento del tempo preciso, in base al numero di quegli anni, [11] non vi sarà più associazione con la casa di Giuda; ognuno se ne starà [12] al suo posto di vedetta. La muraglia è stata 209

eretta, ma la frontiera è stata portata lontano. In tutti quegli anni, [13] Belial sarà lasciato andare contro Israele come Dio disse per opera del profeta Isaia, figlio [14] di Amos: «Terrore, trabocchetto e tranello per te, abitante della terra». L’interpretazione di questo [15] si riferisce alle tre reti di Belial delle quali ha parlato Levi, figlio di Giacobbe; [16] è con esse che ha accalappiato Israele e ha posto davanti a loro come tre specie [17] di giustizia: la prima è la lussuria, la seconda sono le ricchezze, la terza [18] è la contaminazione del santuario. Chi sfugge a questa incappa in quella, e chi si salva da quella incappa [19] in questa. I costruttori del muro, quelli che hanno seguito Saw, il Saw vaticinatore [20] del quale egli disse: «Non fanno che vaticinare», sono stati accalappiati dalla lussuria su due punti: sposando [21] due donne mentre sono (ambedue) viventi, quando invece il principio della creazione è: «Maschio e femmina li creò». [V, 1] E coloro che entrarono nell’arca, «entrarono a due a due nell’arca». Sul principe sta scritto: [2] «Non dovrà moltiplicare le sue donne». David non aveva letto nel libro sigillato della legge che [3] si trovava nell’arca, non essendo stato aperto, in Israele, dal giorno in cui morirono Eleazaro, [4] Giosuè e gli anziani, quando si iniziò a servire le Astarôt; esso rimase celato [5] (e non) fu manifestato fino all’avvento di Sadoc; così le opere di David salirono (a Dio), ad eccezione del sangue di Uria, [6] e Dio gliele condonò. Inoltre hanno contaminato il santuario, in quanto [7] non hanno fatto le distinzioni in conformità della legge: giacciono con colei che vede il sangue del suo flusso, e ognuno sposa [8] la figlia di suo fratello o la figlia di sua sorella. Ma Mosè disse: «Alla [9] sorella di tua madre non ti avvicinare, è carne di tua madre». La legge contro gli incesti è per i maschi [10] che fu scritta, ma si applica anche alle donne, e se la figlia di un fratello scopre la nudità del fratello [11] di suo padre, che è carne… Inoltre hanno profanato il loro spirito santo e con una lingua [12] blasfema hanno aperto la bocca contro gli statuti del patto di Dio, dicendo: «Non hanno fondamento !» e una abominazione [13] proferiscono contro di essi. Sono tutti attizzatori di fuoco e accenditori di brace. Tele [14] di ragno sono le loro tele e uova di vipere le loro uova. Chi si avvicina ad essi [15] non resterà impunito, ogni volta che lo fa si rende colpevole, a meno che sia costretto. Poiché anche anticamente Dio ha visitato [16] le loro opere e si accese la sua collera contro i loro misfatti. «Giacché non sono un popolo intelligente»; [17] sono una nazione sprovvista di senno, in essi non v’è intelligenza. Poiché anticamente sorsero [18] Mosè e Aronne per mezzo del principe delle luci, ma Belial suscitò Jahaneh e [19] suo fratello, nella sua astuzia, 210

quando Israele fu salvato per la prima volta. [20] E al tempo determinato della desolazione della terra, sorsero coloro che spostano i confini, e hanno fatto deviare Israele; [21] la terra fu devastata perché predicavano la ribellione contro i precetti di Dio (dati) per mezzo di Mosè e anche [VI, 1] (per mezzo) degli unti santi, e profetavano menzogne per distogliere Israele dal seguire [2] Dio. Ma Dio si è ricordato del patto con gli antenati ed ha suscitato da Aronne uomini intelligenti, e da Israele [3] persone sagge; fece udire loro (la sua voce); ed essi hanno scavato il pozzo: «Pozzo scavato dai prìncipi, scavato [4] da nobili del popolo con il bastone». Il pozzo è la legge e quelli che l’hanno scavato [5] sono i convertiti d’Israele, coloro che sono usciti dalla terra di Giuda e si sono esiliati nella terra di Damasco; [6] Dio li ha chiamati tutti prìncipi, perché l’hanno cercato e la loro fama, non è stata contestata [7] dalla bocca di alcuno. Il bastone è l’interprete della legge, del quale [8] Isaia ha detto: «Ha fabbricato uno strumento per la sua opera». I nobili del popolo, sono [9] coloro che vengono a scavare il pozzo per mezzo dei precetti, che ha prescritto il legislatore [10] affinché camminino in essi per tutto il tempo dell’empietà; e senza di essi non perverranno (a scavare) fino all’avvento [11] di un maestro della giustizia, alla fine dei giorni. E tutti coloro che sono stati introdotti nel patto [12] non entreranno nel santuario ad accendere, in vano, il suo altare: sarete coloro che chiudono [13] la porta; dei quali Dio disse: Nell’enumerazione delle norme fondamentali per la vita degli esseni il testo ebraico (r. 14 e segg.) si serve di una lunga serie (fino a VII, 4) di infiniti costrutti dipendenti tutti da cureranno… Le norme per l’ingresso nella «Chi di voi chiuderà la sua porta? Non accenderete più, invano, il mio altare». [14] Certo, cureranno: di agire secondo l’esatto tenore della legge nel tempo determinato dell’empietà, di separarsi [15] dai figli della fossa; di preservarsi dalle ricchezze inique e impure a causa di un voto o di un anatema [16] e dalle ricchezze del santuario, derubando i poveri del suo popolo, facendo delle vedove la loro preda, [17] assassinando gli orfani; di distinguere tra il puro e l’impuro e di insegnare la differenza tra [18] il sacro e il profano; di osservare il giorno del sabato, secondo il suo tenore preciso, i tempi stabiliti [19] e il giorno di digiuno secondo la disposizione di coloro che sono entrati nel nuovo patto nella terra di Damasco; [20] di prelevare le sacre offerte secondo le loro precise determinazioni; di amare ognuno il suo fratello [21] come sé stesso; di sostenere la mano del povero, dell’indigente e dello straniero; di cercare ognuno la pace [VII, 1] del suo fratello, di non essere infedele, ognuno, verso la carne della sua carne; di preservarsi dalla 211

lussuria, [2] secondo il comandamento; di correggere ognuno il suo fratello secondo la disposizione; di non conservare rancore [3] da un giorno all’altro; di astenersi da tutte le impurità, secondo la loro disposizione, e di non contaminare [4] ognuno il suo spirito santo, secondo la divisione fatta loro da Dio. Per tutti coloro che camminano [5] in queste (norme) con perfetta santità conforme a tutte le sue obbligazioni, il patto di Dio sarà per loro un’assicurazione [6] che vivranno per mille generazioni. Se abitano negli accampamenti secondo la regola della terra, prendano [7] moglie e generino figli, camminino in conformità della legge e secondo le prescrizioni [8] delle obbligazioni, secondo la regola della legge, come disse: «Circa i rapporti tra marito e moglie e tra padre [9] e figlia». Ma tutti coloro che disprezzano gli ordini e gli statuti, attireranno su di sé la retribuzione degli empi allorché Dio visiterà la terra, [10] allorché si realizzerà la parola scritta nelle parole del profeta Isaia, figlio di Amos, [11] che disse: «Verranno su te, sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre giorni quali [12] non vennero dal giorno in cui Efraim si staccò da Giuda». Allorché si separarono le due case di Israele, [13] Efraim si sottrasse da Giuda e tutti i traditori furono abbandonati alla spada, mentre coloro che resistettero [14] si erano rifugiati nella terra del nord, egli ha detto: «Deporterò la sikkut del vostro re [15] e il kijjûn delle vostre immagini e la stella del vostro Dio dalla mia tenda, a Damasco». I libri della Legge sono la sukkat [16] del re, come ha detto: «Rialzerò la caduta sukkat di David»; il re [17] è l’assembramento e il kijjûn delle immagini sono i libri dei profeti [18] dei quali Israele ha disprezzato le parole; e la stella è l’interprete della legge [19] che verrà a Damasco, come è scritto: «Una stella si fa strada da Giacobbe e uno scettro si leva [20] da Israele». Lo scettro è il principe di tutta l’assemblea, e al suo avvento «trafiggerà [21] tutti i figli di Set». Questi erano stati risparmiati nel tempo della prima visita [VIII, 1] ma i traditori furono riservati per la spada. Questo sarà il destino di coloro che sono entrati nel suo patto, ma [2] non saranno costanti in queste (obbligazioni), allorché li visiterà per lo sterminio ad opera di Belial. È il giorno [3] in cui Dio, come ha detto, farà la sua visita: «Coloro sui quali si spanderà il furore sono i prìncipi di Giuda». [4] Perché sperano nella guarigione, ma egli frantumerà tutti i rivoltosi poiché non si sono allontanati dalla via [5] dei traditori, si sono contaminati nelle vie della lussuria e nella ricchezza iniqua, si sono vendicati e hanno conservato rancore, [6] ognuno al suo fratello, ognuno ha odiato il suo prossimo, ognuno ha negato il suo aiuto a quello della sua carne, [7] hanno avuto 212

commerci vergognosi, hanno fatto i forti in vista delle ricchezze e del guadagno, ognuno ha fatto ciò che pareva buono ai propri occhi, [8] ognuno ha scelto l’ostinazione del suo cuore, e non si sono separati dal popolo, ma deliberatamente agirono senza alcun freno [9] camminando nella via degli empi, dei quali Dio disse: «Il loro vino è un tossico di serpenti [10] e violento veleno di vipere». I serpenti sono i re delle nazioni; il loro vino sono [11] le loro vie; il veleno di vipere è il capo dei re di Jâwân, venuto per compiere [12] su di essi la vendetta. Ma essi non hanno compreso tutto ciò, questi costruttori di mura e arricciatori di intonaco, giacché [13] colui che pesa il vento e vaticina menzogne aveva loro vaticinato che la collera di Dio si sarebbe accesa contro tutta la sua assemblea. [14] Ma come ha detto Mosè: «Non è per la tua giustizia, né per la rettitudine del tuo cuore, che tu entri in possesso [15] di queste nazioni, ma per merito del suo amore verso i tuoi padri e perché egli ha mantenuto il giuramento», [16] tale è il giudizio sui ritornati di Israele che si sono allontanati dalla via del popolo. A motivo dell’amore di Dio verso [17] gli antenati che testimoniarono in suo favore, egli ama coloro che sono venuti dopo di essi; ad essi, infatti, (appartiene) [18] il patto dei padri. Ma a motivo del suo odio verso i costruttori del muro, si accese la sua collera. [19] Così è di chiunque disprezza le prescrizioni di Dio, le abbandona e si rivolta con cuore ostinato. [20] Questa è la parola detta da Geremia a Baruc, figlio di Nerija e da Eliseo [21] al suo servo Ghehazi. Tutti gli uomini che sono entrati nel nuovo patto, nella terra di Damasco, ma se ne sono poi ritornati, hanno tradito e si sono allontanati dal pozzo delle acque vive. ……………… IX [1] In tutti i casi in cui si pronuncerà un anatema contro un uomo, quest’uomo sarà messo a morte secondo gli statuti delle nazioni. [2] A proposito di quanto ha detto: «Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo», colui che è entrato [3] nel patto e adduce un’accusa contro il suo prossimo senza averlo (prima) rimproverato davanti a testimoni [4] o la sostiene con collera ardente o la riferisce ai suoi anziani per attirare su di lui il disprezzo, costui è uno che si vendica e conserva rancore; [5] ma non sta scritto altro che: «Egli si vendica dei suoi avversari e serva rancore per i suoi nemici». [6] Se conserva il silenzio verso il suo prossimo un giorno dopo l’altro e parla (poi) contro di lui con collera ardente, è un’accusa di morte [7] che egli adduce contro sé stesso, non adempiendo gli ordinamenti di Dio, il quale gli disse: «Riprenderai [8] francamente il tuo prossimo e così non avrai a causa sua, la responsabilità di un peccato». 213

A proposito del giuramento, siccome [9] ha detto: «Non ti farai giustizia di tua propria mano», colui che fa giurare in campagna, [10] senza la presenza dei giudici o senza la loro disposizione, costui si fa giustizia di sua propria mano. Allorché qualche oggetto è perduto, [11] senza che si sappia chi l’ha rubato dal patrimonio del campo ove fu rubato, il suo proprietario sarà fatto giurare [12] con giuramento imprecatorio: chiunque l’ascolta e, pur conoscendolo, non rivela (il ladro) sarà colpevole. [13] Ogni oggetto acquisito illegittimamente deve essere restituito: qualora non vi sia proprietario, colui che restituisce confesserà (la sua colpa) al sacerdote, [14] al quale apparterrà poi tutto, ad eccezione del capro del sacrificio di riparazione. Cosi ogni oggetto perduto che sarà ritrovato senza [15] che se ne scopra il proprietario andrà ai sacerdoti, poiché colui che l’ha trovato non conosce a chi appartenga legittimamente; [16] qualora non si trova il suo proprietario, essi custodiranno ogni cosa. Se uno commette una infrazione [17] contro la legge ed è visto dal suo vicino, ma questo è solo: se si tratta di un caso passibile di morte, il testimonio lo denunzierà [18] in sua presenza, all’ispettore, riprendendolo; l’ispettore lo scriverà di sua mano in attesa che ne commetta [19] ancora davanti a un solo (testimone) e questo lo denunci nuovamente all’ispettore: se è recidivo e colto in fallo davanti [20] a un solo (testimone), il suo caso è giuridicamente completo. Se sono due a testimoniare su [21] di uno stesso fatto, il colpevole sarà escluso dalla purificazione, a condizione che i testimoni siano degni di fede. [22] Nello stesso giorno in cui una persona lo vede, deve denunziarlo all’ispettore. Se si tratta di beni, per essere accolti, [23] i testimoni degni di fede devono essere due; sulla (testimonianza) di uno solo si può escludere dalla purificazione. Non sarà accolto [X, 1] dai giudici un testimonio solo, condannando a morte sulla sua parola, qualora non abbia raggiunto l’età richiesta per passare [2] tra i recensiti che temono Dio. Nessuno sia giudicato degno di fede contro il suo prossimo, [3] come testimonio, se ha trasgredito deliberatamente qualche ordinamento, fino a quando non sia purificato con il ritorno. [4] Questa è la regola per i giudici dell’assemblea. Devono essere dieci uomini scelti [5] dall’assemblea per un tempo determinato: quattro per la tribù di Levi e di Aronne, e da Israele [6] sei. Devono essere istruiti nel libro della meditazione e nelle obbligazioni del patto, in un’età compresa tra i venticinque [7] e i sessant’anni; al di là di sessant’anni non resterà [8] più in 214

funzione per giudicare l’assemblea, giacché a causa dell’infedeltà dell’uomo, [9] i suoi giorni sono stati diminuiti e nell’ardore della sua ira contro gli abitanti della terra, Dio decise di privarlo della sua [10] intelligenza prima del compimento dei suoi giorni. A proposito della purificazione con l’acqua. Nessuno [11] si lavi in acque sporche o insufficienti a coprire interamente un uomo. [12] Con quest’acqua non si purifichi un vaso. Ogni pozza (scavata) nella roccia, non avente la quantità d’acqua sufficiente [13] per coprire interamente (un uomo), se è toccata da un essere impuro le sue acque diventano come (avverrebbe alle) acque di un vaso. [14] A proposito del sabato per osservarlo secondo la norma dovuta. Nessuno farà, nel giorno [15] sesto, opera alcuna a partire dal momento in cui il disco solare [16] si è allontanato pienamente dalla porta; poiché è ciò che egli disse: «Osserva il [17] giorno del sabato per santificarlo». Nel giorno di sabato, nessuno dica una parola [18] insensata o vana, non impresti qualcosa al suo prossimo, né discuta a proposito di beni e di guadagni, [19] non parli di questioni di lavoro né di servizi da fare all’indomani; [20] nessuno, di sabato, esca nella campagna per fare il servizio che gli è gradito, [21] né esca fuori della sua città oltre i mille cubiti; [22] nel giorno di sabato, nessuno mangi se non quando è stato preparato o è stato lasciato [23] in campagna; non mangi e non beva se non ciò che è nell’accampamento. XI [1] Se, in cammino, uno scende per bagnarsi, può bere là ove sta, ma non può attingere [2] con alcun vaso. Nel giorno di sabato, non si mandi uno straniero a compiere quanto si desidera; [3] nessuno indossi abiti sporchi o portati in un magazzino, senza [4] che siano lavati in acqua e strofinati nell’incenso. Nessuno, di sua volontà, installi un ‘erûb, [5] di sabato. Nessuno segua il bestiame pascolandolo fuori della propria città, per più [6] di duemila cubiti; né alzi la sua mano per colpire con un pugno; se [7] una bestia è testarda, non la si lasci uscire di casa sua. Nessuno trasporti qualcosa dalla casa [8] all’esterno, o dall’esterno nella casa. Anche se si è in una capanna, da essa non si trasporti nulla [9] e non si faccia entrare nulla in essa. Di sabato non si apra un vaso chiuso con intonaco. Nessuno porti [10] su di sé profumi, andando e venendo di sabato; nella casa ove abita, uno non sollevi [11] né una pietra né della terra. La balia non sollevi il lattante, andando e venendo di sabato. [12] Nessuno di sabato, amareggi il suo servo, la sua serva, il suo salariato. [13] Nel giorno di sabato, nessuno aiuti una bestia a partorire e se cade in 215

una cisterna [14] o in una fossa, di sabato, non la si tiri su. Nessuno celebri il sabato in un luogo vicino [15] ai gentili. Di sabato, nessuno profani il sabato a motivo di ricchezze e di guadagni. [16] Se una qualsiasi persona cade in un luogo (pieno) d’acqua o in un (altro) luogo, [17] nessuno la faccia salire con una scala, con una corda o con un qualsiasi altro oggetto. Di sabato, nessuno faccia salire qualcosa sull’altare, [18] ad eccezione dell’olocausto del sabato. Così infatti sta scritto: «Tranne i vostri sabati». Nessuno invii [19] all’altare un olocausto, un’oblazione, incenso e legno per mezzo di qualcuno che è impuro da una [20] qualsiasi impurità, permettendogli così di contaminare l’altare; giacché sta scritto: «Il sacrificio [21] degli empi è una abominazione, mentre la preghiera dei giusti è come una gradita oblazione». Chiunque entra nella [22] casa della prostrazione, non entri con una impurità da abluzione. E quando suoneranno le trombe dell’assembramento, [23] se in anticipo o in ritardo, non cesseranno da tutto il servizio: è infatti un servizio [XII, 1] sacro. Nessuno giaccia con una donna nella città del santuario contaminando così [2] la città del santuario con la loro impurità. Ogni persona sulla quale dominano gli spiriti di Belial [3] e pronuncia parole di rivolta sarà giudicata con lo stesso giudizio del negromante e dell’indovino. Ogni persona che sgarra [4] profanando il sabato e i tempi stabiliti non sarà messa a morte, bensì incomberà agli uomini [5] la sua custodia: e se da questo guarirà, la custodiranno ancora per sette anni e dopo [6] rientrerà nell’assembramento. Non si stenda la mano per versare il sangue dei gentili [7] a motivo di ricchezza e di guadagni, né si prenda alcuno dei loro beni affinché essi non [8] bestemmino, a meno che vi sia un ordine del consiglio di Israele. Nessuno venda un animale domestico [9] e un uccello puri ai gentili affinché essi non li sacrifichino. Dal suo granaio [10] e dal suo pressoio non venderà loro nulla per alcun motivo. Né venderà loro il suo schiavo e la sua schiava, [11] essendo entrati con lui nel patto di Abramo. Nessuno si contamini [12] con un qualsiasi animale ed essere strisciante mangiandone, dalle larve delle api a tutti gli esseri [13] viventi che strisciano nell’acqua. Non si mangeranno pesci se non sono stati aperti [14] vivi e versato il loro sangue. Tutte le specie di cavallette saranno messe nel fuoco o nell’acqua [15] mentre sono vive: tale è infatti l’ordine conforme alla loro natura. Ogni legno, pietra [16] o terra che siano state contaminate da una impurità umana (derivata) da impurità di olio: come essi, secondo [17] la loro impurità, diventerà impuro chiunque li tocchi. Ogni strumento, 216

chiodo e gancio sul muro [18] che si troverà in casa con un morto diventerà impuro dell’impurità di uno strumento di lavoro. [19] Regola di abitazione per le città di Israele: secondo queste sentenze distingueranno tra [20] l’impuro e il puro, e faranno conoscere (la distinzione) tra il sacro e il profano.

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Inni (1Q H), X.

Notare la riga 13 in bianco e alla riga 14 l’inizio di un nuovo inno con l’espressione: barûk ’attāh ’adônāj ’ēl hā-raḥămîm… (Da E. L. SUKENIK, The Dead Sea Scrolls of the Hebrew University, Jerusalem, The Magnes Press, 1955, Pl. 44).

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E questi sono gli statuti [21] per il saggio affinché cammini in essi con tutti i viventi secondo la norma corrispondente a ogni tempo. In conformità [22] di questa norma camminerà tutta la stirpe di Israele e così non sarà maledetta. E questa è la regola di abitazione [23] per gli accampamenti. Cammineranno in essa nel tempo determinato dell’empietà, fino all’avvento del messia di Aronne [XIII, 1] e di Israele, in gruppi di almeno dieci uomini: per migliaia, centinaia, cinquantine [2] e decine. Nel luogo di dieci persone non manchi un sacerdote istruito nel libro della meditazione: al [3] suo parere, tutti loro si piegheranno. Ma se egli non è affatto esperto in tutte queste cose, bensì c’è un levita esperto [4] in queste cose, la sorte di tutti i membri dell’accampamento dipenderà dal suo parere per andare e venire. Ma se [5] in qualcuno si presenta (il caso) di un giudizio riguardante la legge della lebbra, verrà il sacerdote, resterà nell’accampamento e l’ispettore l’istruirà [6] sul tenore preciso della legge; ed anche se egli è un semplice di spirito, è a lui che spetta isolarlo; poiché è ad essi che spetta [7] la sentenza. E questa è la regola per l’ispettore dell’accampamento. Istruirà i molti nelle opere [8] di Dio, insegnerà ad essi le sue meravigliose gesta e narrerà davanti a loro gli eventi eterni con franchezza. [9] Verso di loro sarà comprensivo come un padre verso i suoi figli e ricondurrà tutti i dispersi come un pastore il suo gregge. [10] Scioglierà tutte le catene che li avvincono, affinché nella sua assemblea non vi sia più né oppresso, né affranto. [11] Egli esaminerà le azioni, l’intelligenza, la forza, il coraggio e i beni di chiunque aderisce alla sua assemblea; [12] lo si iscriverà al suo posto, in base alla sorte della verità. Tra i figli dell’accampamento [13] nessuno si arroghi il diritto di introdurre qualcuno nell’assemblea senza il parere dell’ispettore dell’accampamento. [14] E nessuno di coloro che sono entrati nel patto di Dio intrattenga commercio con i figli della fossa, eccetto [15] (trattando) da mano a mano; nessuno faccia contratto di acquisto e di vendita senza renderlo noto [16] all’ispettore dell’accampamento, farà un contratto e non… [17] …del consiglio. Così sarà per colui che è espulso e colui… [18] …gli risponderanno e con benevolo amore non manterrà rancore verso di loro… [19] … e colui che non è avvinto… [20] … Questa è (la regola) di abitazione per gli accampamenti per tutto il tempo determinato dell’empietà: coloro che [21] in queste (norme) non persevereranno non perverranno ad abitare sulla terra nell’avvento del messia di Aronne e di Israele, [22] alla fine dei giorni. 219

Queste sono le norme per il saggio… affinché cammini in esse con tutti i viventi fino a quando [23] Dio visiterà la terra, secondo quanto ha detto: «Farà venire su di te, sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre, giorni [XIV, 1] quali non sono venuti dal giorno in cui Efraim si è separato da Giuda». E per tutti coloro che camminano in esse, [2] il patto di Dio è l’assicurazione che li libererà da tutte le insidie della fossa, mentre gli insensati saranno puniti. [3] Regola di abitazione per tutti gli accampamenti. Tutti saranno recensiti secondo il loro nome: prima i sacerdoti, [4] in secondo luogo i leviti in terzo luogo i figli di Israele, in quarto luogo i proseliti. Saranno scritti secondo il loro nome [5] l’uno dopo l’altro: prima i sacerdoti, in secondo luogo i leviti, in terzo luogo i figli [6] di Israele, in quarto luogo i proseliti. Così siederanno e così saranno interrogati su di ogni cosa. Il sacerdote che recensirà [7] i molti avrà dai trenta ai sessant’anni, sarà istruito nel libro [8] della meditazione e in tutte le sentenze della legge per guidarli secondo le loro norme. L’ispettore di [9] tutti gli accampamenti avrà dai trenta ai cinquanta anni, la padronanza di ogni [10] segreto umano e di ogni lingua delle loro famiglie. I membri dell’assemblea entreranno dietro il suo parere, [11] ognuno al suo turno. Tutte le cose che ogni uomo avrà da dire, le dirà all’ispettore, [12] a proposito di qualsiasi lite e sentenza. Questa è la regola dei molti per sovvenire a tutti i loro bisogni. Il salario [13] di almeno due giorni ogni mese lo rimetteranno nella mano dell’ispettore e dei giudici. [14] D’onde una parte sarà data agli orfani; con una parte sosterranno la mano del povero, dell’indigente, del vecchio che [15] si spegne, dell’uomo errante o del prigioniero in una nazione straniera, della vergine [16] che non ha protettore, e dell’ orfano del quale nessun si interessa. Tutto il servizio delle loro mani e non… [17] … E questa è la norma di abitazione… [18] … E questa è la norma delle norme secondo le quali cammineranno nell’epoca [19] dell’empietà fino all’avvento del messia di Aronne e di Israele per espiare la loro iniquità… [20] … a proposito di denaro, e pur sapendolo… [21] … sarà punito con sei giorni; e colui che parla… [22] … non secondo giustizia, sarà punito con un anno… XV [1] Non giurerà né per «alef» e «lamed», né per «alef» e «dalet», ma (giurerà) con il giuramento… [2] per le maledizioni del patto, senza menzionare la legge di Mosè, poiché… [3] se giura e poi vìola, profana il 220

nome. Se invece uno giura per le maledizioni del patto davanti [4] ai giudici e poi vìola (il giuramento), si rende colpevole di un delitto: se lo confesserà e riparerà, non si addosserà un peccato e non [5] sarà messo a morte. Allorché uno entra nel patto destinato a tutto Israele quale statuto eterno, con i suoi figli che hanno raggiunto l’età [6] per passare tra i recensiti, si impegneranno con il giuramento del patto. Questa [7] è la norma per tutto il tempo determinato dell’empietà per chiunque ritorna dalla sua via corrotta. Nel giorno in cui avrà parlato [8] con l’ispettore dei molti, lo recensiranno con il giuramento del patto sancito [9] da Mosè con Israele, patto del ritorno alla legge di Mosè con tutto il cuore e con tutta [10] l’anima per tutto quanto si troverà da compiere per tutto il tempo determinato dell’empietà. Nessuno gli farà conoscere [11] le sentenze fino a quando non si sarà presentato davanti all’ispettore, per timore che quando l’esaminerà lo giudichi semplice. [12] Una volta che si è impegnato a ritornare alla legge di Mosè con tutto il cuore e con tutta l’anima, [13] ci si allontanerà da lui qualora tradisca. E tutto ciò che è stato rivelato dalla legge per la conoscenza [14] … l’ispettore darà ordine a suo proposito… [15] fino ad un anno intero in base a… … [16] … … [17] Le persone stupide, sciocche, folli, dementi, cieche e storpie, zoppe, sorde, minorenni non entreranno in seno all’assemblea, poiché gli angeli santi stanno in mezzo ad essa… XVI [1] … un patto con voi e con tutto Israele. Perciò ognuno si impegnerà per la sua vita a ritornare alla [2] legge di Mosè; in essa infatti tutto è stabilito con precisione. E la spiegazione esatta dei tempi determinati per l’accecamento [3] di Israele verso tutte queste cose, ecco che è indicato con precisione nel libro delle divisioni dei tempi [4] secondo i loro giubilei e le loro settimane (di anni). Nel giorno in cui l’uomo si impegnerà per la sua vita a ritornare [5] alla legge di Mosè, se manterrà le sue parole, si discosterà da lui l’angelo dell’ostilità. [6] È per questo che Abramo si circoncise nel giorno in cui lo seppe. A proposito di ciò che disse: «Quanto esce dalle tue labbra [7] tu lo osserverai» e l’eseguirai: da ogni giuramento obbligatorio con il quale uno si impegna per la sua vita [8] a praticare qualche punto della legge non ci si dispensi mai, a costo di morire; ma ogni [9] impegno con il quale uno si sia impegnato per la sua vita a discostarsi dalla legge, non lo si deve mantenere a costo di morire. [10] A proposito del giuramento della donna. Quanto ha detto: «Spetta a suo marito di annullare il suo giuramento»; [11] il marito non annulli un 221

giuramento di cui ignora se deve essere eseguito o se deve essere annullato. [12] Ma se si tratta di trasgredire il patto, allora l’annulli e non l’eseguisca. Tale norma vale anche per suo padre. [13] A proposito della norma sui doni spontanei. Un uomo non voti all’altare qualcosa acquisito illegalmente. Ed anche [14] i sacerdoti non accettino da Israele qualcosa acquisito illegalmente. Nessuno consacri il cibo [15] della sua bocca a Dio, giacché egli è colui che disse: «Si danno la caccia l’un l’altro con l’anatema». E non [16] si consacri nulla di tutto.. sua proprietà, [17] consacrerà… sarà punito [18] colui che voterà… [19] al giudice… XIX [1] (Il patto di Dio) è per essi l’assicurazione che vivranno per mille generazioni come è scritto: «Mantiene il patto e la benevolenza [2] verso coloro che lo amano e osservano i suoi precetti per mille generazioni». Se abitano negli accampamenti secondo la regola [3] della terra che c’è dall’antichità, e prendono moglie secondo la norma della legge e generano figli, [4] camminino in conformità della legge e secondo la sentenza delle obbligazioni, secondo la regola della legge, [5] come disse: «Circa i rapporti tra marito e moglie e tra padre e figlio». Ma tutti coloro che disprezzano le prescrizioni [6] e gli statuti, attireranno su di sé la retribuzione degli empi allorché Dio visiterà la terra, [7] quando verrà la parola scritta da Zaccaria profeta: «Destati, spada, contro [8] il mio pastore e contro l’uomo che mi è associato, oracolo di Dio! Percuoti il pastore e sarà disperso il gregge, [9] ed io volgerò la mia mano contro i piccoli». Quelli che gli prestano attenzione sono i poveri del gregge. [10] Questi saranno risparmiati nell’epoca della visita, mentre i restanti saranno dati alla spada, quando verrà il messia [11] di Aronne e di Israele, come fu nell’epoca della prima visita della quale disse [12] per mezzo di Ezechiele, di contrassegnare con un «tau la fronte di coloro che sospirano e gemono», [13] mentre i restanti furono riservati per la spada vendicatrice del patto. Tale sarà il destino di tutti coloro che sono entrati [14] nel suo patto, ma non saranno costanti in questi statuti, quando li visiterà per lo sterminio ad opera di Belial. [15] È il giorno in cui Dio farà la sua visita, come ha detto: «I prìncipi di Giuda sono come coloro che spostano il confine; [16] su di loro spanderò come acqua il mio sdegno». Giacché sono entrati nel patto del ritorno, [17] ma non si sono allontanati dalla via dei traditori, si sono contaminati nelle vie della lussuria e nella ricchezza iniqua, [18] si sono vendicati e hanno conservato rancore ognuno al suo fratello, ognuno ha odiato il suo prossimo, ognuno ha negato il suo aiuto [19] a quello della sua carne. Hanno avuto commerci vergognosi, hanno fatto i forti in vista delle ricchezze e del guadagno, [20] ognuno ha 222

fatto ciò che pareva buono ai suoi occhi, ognuno ha scelto l’ostinazione del suo cuore e non si sono preservati dal popolo [21] e dal suo peccato, ma hanno vissuto deliberatamente nella licenza camminando sulle vie degli empi, dei quali [22] Dio disse: «Il loro vino è un tossico di serpenti e violento veleno di vipere». I serpenti sono [23] i re delle nazioni; il loro vino sono le loro vie; il veleno di vipere è il capo [24] dei re di Jâwân, venuto per compiere su di essi la vendetta. Ma essi non hanno compreso tutto ciò, questi costruttori [25] di mura e arricciatori di intonaco; giacché egli insegue il vento, solleva le tempeste e vaticina agli uomini [26] menzogne, di modo che la collera di Dio si accese contro tutta la sua assemblea. Ma come ha detto Mosè [27] a Israele: «Non è per la tua giustizia né per la rettitudine del tuo cuore, che tu entri in possesso di queste nazioni, [28] ma per merito del suo amore verso i tuoi padri e perché ha mantenuto il giuramento»; così [29] è del giudizio sui ritornati di Israele che si sono allontanati dalla via del popolo. A causa dell’amore di Dio verso gli antenati [30] che testimoniarono contro il popolo, in favore di Dio, egli ama coloro che sono venuti dopo di essi; ad essi, infatti, appartiene [31] il patto dei padri. Ma a motivo del suo odio verso i costruttori del muro, la sua collera si accese contro tutti [32] quelli che li seguono. Così è per chiunque disprezza le prescrizioni di Dio, [33] le abbandona e si rivolta con cuore ostinato; così tutti gli uomini che sono entrati nel patto [34] nuovo, nel paese di Damasco, ma se ne sono poi ritornati, hanno tradito e si sono allontanati dal pozzo delle acque vive: [35] non saranno contati nel convegno del popolo e non saranno scritti nel suo registro dal giorno in cui fu tolto [XX, 1] il maestro unico fino all’avvento del messia di Aronne e di Israele. Tale è pure la sentenza [2] per tutti coloro che sono entrati nell’assemblea degli uomini della perfetta santità e si sono scoraggiati nella pratica dei precetti [3] dei giusti. Questi è l’uomo fuso in mezzo al crogiolo. Quando le sue opere appariranno, sarà scacciato dall’assemblea [4] come colui la cui sorte non è quella di trovarsi in mezzo ai discepoli di Dio. In conformità alla sua infedeltà, uomini [5] di conoscenza lo rimprovereranno fino al giorno in cui riprenderà il (suo) posto tra gli uomini della perfetta santità… [6] Quando appariranno le sue opere, in conformità all’interpretazione della legge sulla quale camminano [7] gli uomini della perfetta santità, nessuno si unisca a lui per i beni e per il lavoro, [8] giacché tutti i santi dall’Altissimo lo hanno maledetto. Questa è la sentenza per tutti coloro che disprezzano i primi [9] e gli ultimi, che hanno posto immondezze nel loro cuore e hanno seguito 223

l’ostinazione [10] del loro cuore: per essi non v’è parte alcuna nella casa della legge. Tale è la sentenza per i loro compagni che sono ritornati [11] con gli uomini della arroganza, essi saranno giudicati perché pronunciarono cose aberranti contro gli statuti della giustizia e disprezzarono [12] il patto e l’impegno che avevano contratto nel paese di Damasco, cioè il nuovo patto. [13] Per loro e per le loro casate non vi sarà parte alcuna nella casa della legge. Dal giorno [14] in cui fu tolto il maestro unico fino alla soppressione di tutti gli uomini di guerra, ritornati [15] con l’uomo di menzogna, ci saranno circa quarant’anni. In quel tempo determinato si infiammerà [16] la collera di Dio contro Israele, come disse: «Non c’è né re né principe», né giudice e né [17] persona che ammonisca secondo giustizia. Ma coloro che sono ritornati dall’iniquità di Giacobbe hanno mantenuto il patto di Dio; ognuno parlerà [18] al suo prossimo affinché ognuno renda giusto il proprio fratello sostenendone i passi sulla via di Dio; e Dio presterà attenzione [19] alle loro parole, ascolterà e davanti a lui sarà scritto un libro memoriale per coloro che temono Dio e per coloro che riveriscono [20] il suo nome, fino a quando sarà manifestata la salvezza e la giustizia per coloro che temono Dio. Vedrete nuovamente la differenza tra il giusto [21] e l’empio, tra colui che ha servito Dio e colui che non l’ha servito; egli userà misericordia verso le migliaia, verso quelli che l’amano [22] e gli rimangono fedeli fino a mille generazioni… Casa di Peleg, sono coloro che, usciti dalla città santa, [23] si erano appoggiati a Dio nel tempo in cui Israele era infedele e contaminava il santuario, e ritornarono poi di nuovo [24] verso la via del popolo con parole empie: tutti, ognuno in conformità del suo spirito, saranno giudicati nel consiglio [25] santo. E tutti coloro che, entrati nel patto, hanno violato la frontiera della legge, quando apparirà [26] la gloria di Dio a Israele, saranno recisi di mezzo all’accampamento, e con essi tutti quelli di Giuda [27] che agiscono empiamente, nei giorni delle loro fornaci. Ma tutti coloro che sono perseveranti in queste sentenze, sia uscendo [28] che entrando, in conformità della legge, ascolteranno la voce del maestro e confesseranno davanti a Dio: «Veramente noi [29] pure siamo stati empi, noi e i padri nostri camminando contro gli statuti dei patti. Giustizia [30] e verità sono le tue sentenze verso di noi». Essi non alzeranno la mano contro gli statuti della sua santità, le sentenze [31] della sua giustizia e le testimonianze della sua verità. Ma si istruiranno nelle prime sentenze, secondo le quali [32] sono stati giudicati gli uomini dell’Unico, presteranno 224

orecchio alla voce del maestro di giustizia e non respingeranno [33] gli statuti della giustizia allorché li ascolteranno; si rallegreranno e il loro cuore sarà forte, e domineranno [34] su tutti i figli del mondo. Dio li perdonerà ed essi vedranno la sua salvezza, poiché si sono rifugiati nel suo santo nome.

Invito a comprendere l’operato divino nella storia: I, 1-4 a. Facendo eco a qualche testo biblico (Is., 51, 7; Ger., 25, 31; Ez., 39, 23), l’autore allude alla caduta di Gerusalemme sotto Nabucodonosor nel 587 e da quegli eventi s’ispira per giudicare la sua generazione. Meditazione sulla storia: I, 4 b - II, 1. Consta di una visione positiva, il sorgere della comunità e del maestro di giustizia (righe 4 b-12), e di una negativa, i traditori e l’uomo dell’arroganza (I, 13 II, 1). I, 4. Il termine antenati sia qui che più avanti, potrebbe riferirsi ai patriarchi ebrei, ma si giudica più naturale il riferimento alla generazione dell’Esodo e quindi al patto del Sinai. Sul tema del resto annunziato per la prima volta dal profeta Osea (3,12; 5, 15; 9, 8-10) vedi O. PROCKSCH, Theologie des Alten Testaments, Gütersloh, 1950, 318 segg. G. VON RAD, Theologie des Alten Testaments, München, 1960, II, 175 segg. 5. Per il significato di tempo della collera vedi 1QH, III, 28; Sof., 1, 5. Il periodo di 390 anni è preso molto probabilmente dal profeta Ezechiele (4, 5-7) ove designa altrettanti anni di colpa nella storia di Israele e il numero dei giorni durante i quali il profeta doveva portarne la pena; la caduta di Gerusalemme in mano a Nabucodonosor ebbe luogo nell’anno 587; meno 390 si ha 197: la comunità fu fondata approssimativamente in questo periodo; benché la computazione sia piuttosto convenzionale e non le si possa attribuire un valore cronologico preciso e assoluto per la determinazione dell’origine della comunità, non v’è alcuna ragione di considerarla priva di significato cronologicamente valido per una datazione approssimativa (cfr. l’ Introduzione). L’interpretazione qui seguita pur prescindendo da ogni datazione troppo precisa, pone l’origine della comunità nel periodo dello scontro tra la tendenza ellenizzatrice e quella duramente conservatrice; passarono venti anni prima dell’apparizione del maestro di giustizia; la comunità sta ora vivendo i quarant’anni successivi alla sua morte. Da queste e da altre osservazioni si può dedurre che, a giudizio dell’autore, ci si trova nell’ultima generazione. Occorre però sempre sottolineare che qui, come nella Bibbia, nei numeri non manca mai un qualcosa di simbolico, artificiale e convenzionale, e non si può quindi fondare su di essi una stretta cronologia. Sugli interrogativi e sui problemi che suscitano questi dati cronologici, oltre ai commentatori antichi e moderni sul CD, si vedano in particolare gli studi di I. Rabinowitz, N. Walker, H. H. Rowley, P. Sacchi, citati nella Bibliografia. 7. La radice di una pianta designa la comunità di Qumrân; così anche in Regola della com., VIII, 5, X I, 8; Inni, VI, 15-16; VIII, 5-10: vedi qui la nota. Questa «radice» ha un duplice principio in quanto germoglia da Israele, elemento laico, e da Aronne, elemento sacerdotale. Per il contesto generale l’autore dipende da Is., 60, 21-22 e da

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Ez., c. 17. 7-8. ereditare e terra in questo contesto hanno un netto sapore escatologico già presente, fondamentalmente, nel Deuteronomio dal quale derivano (cfr. Deut., 4, 21; 19, 10; 20, 16; ecc.), donde furono presi anche dall’autore dell’epistola agli Ebrei e ulteriormente sottolineati in questa direzione, ma trasferiti nell’escatologia cristiana. 10. La ricerca di Dio ha un senso particolarmente profondo e rappresenta lo scopo della comunità essena: vedi Regola della com., I, 1-2. 11. Per il maestro di giustizia vedi il Commento ad Abacuc, II, 8; il Commento al Sal. 37, III, 16, la Regola dell’assemblea, II, 19; e Inni, VI, 24-27; VII, 8-9. Ma si tratta di un «un» maestro o «del» maestro? Il testo qui dice un: è comunque identico al maestro unico di XX, 1 come appare dallè righe 11-13, che ne rilevano l’aspetto escatologico, e al maestro di cui parla il Commento ad Abacuc (II, 6-10; VII, 1-8, vedi qui la nota). Si vedano: C. D EL KALLE, La Revelacion del Maestro de justicia sobre la generacion ultima (Tesi al P. Ateneo Antoniano), Roma, 1968; L. M ORALDI, Il Maestro di Giustizia, Fossano, 1971; J. M URPHY-O’C ONNOR, Demetrius I and the Teacher of Righteousness, in RB, 1976, 400-420; ID., Judah the Essene and the Teacher of Righteousness, in RQ, 40, 1981, 579-585; B. E. THIERING, Redating the Teacher of Righteousness, Sydney, 1979; J. C ARMIGNAC, Qui était le Docteur de Justice?, in RQ, 38, 1980, 235-240. Singolare e inverosimile l’opinione di J. Rabinowitz (A Reconsideration of «Damascus» and «390 Years»…, in JBL, 73, 1954, 11-35 e The Guides…, in VT, 8, 1958, 391-404) secondo la quale si tratta qui Neemia, mentre Esdra è lo scriba o l’interprete della legge (cfr. VI, 7 e seg.; VII, 18-19). 12. ciò che ha fatto si intende come un perfetto profetico: cioè si tratta di una cosa futura, ma così certa che si considera già compiuta, secondo un efficace modo di espressione riconosciuta negli scritti dei profeti. La citazione che segue (rr. 13-14) è del profeta Os., 4, 16. L’assemblea dei traditori è con molta probabilità la sinagoga ufficiale guidata dal sommo sacerdote, che da Gionata Maccabeo in poi apparteneva agli Asmonei: i solitari di Qumrân giudicavano come traditori tutti coloro che non avevano seguìto il loro movimento o si erano comunque distaccati da esso (vedi il Commento ad Abacuc, II, 3). 14. l’uomo dell’arroganza: l’espressione si legge in Is., 28, 14 e Prov., 29, 8, designa verosimilmente un sommo sacerdote persecutore della setta la cui attività è qui descritta attingendo agli oracoli biblici contro i falsi profeti; secondo l’interpretazione preferita si tratta di Ircano I (134-104 a. C.): a lui l’autore rivolge ogni genere di improperi e di accuse: «uomo vaticinatore di menzogna», «sacerdote empio» e, probabilmente, «uomo di menzogna» (vedi il Commento ad Abacuc, II, 2 e nota). 15. Le acque di menzogna sono le dottrine false. Per l’acqua come simbolo della dottrina vedi Eccli., 15, 3; 21, 13; 24, 25-27; onde l’espressione rabbinica «bere acqua» per «essere discepolo». Vedi anche più avanti VI, 4; e Inni, IV, 11-12. A tal proposito nei Pirqê abôt (o «Capitoli dei padri») si legge: «O savi, siate guardinghi nelle vostre parole, perché forse potreste essere condannati al castigo dell’esilio e a migrare in luogo di acque cattive alle quali bevendo i discepoli che vi seguono, ne morrebbero e il nome di Dio ne risulterebbe profanato» (Mishnaiot, trad. ital. di

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Vittorio Castiglioni, II, 289). 15-16. Il senso è piuttosto difficile e molto contestato. Quello seguìto è il più probabile. Si tratta di uno dei numerosi testi di questo scritto volutamente oscuri (vedi Introduzione). Per le altezze come simbolo di superbia, vedi Ab., 3, 6 e Is., 2, 11. 17. le maledizioni del suo patto: cioè connesse con la ratifica e rinnovamento del patto in tutti codici biblici e anche non biblici nell’antico Medio Oriente, si veda ad es.: Es., 23, 20-33; Lev., 26, 3-45; Deut., 28, 1-68. 17-18. La spada esecutrice della vendetta del patto violato, menzionata nel Lev., 26, 25, ha antichissimi paralleli nelle letterature orientali ed è celebre lo sviluppo datole da Ez., 21, 14-37. Chi scrive ha senz’altro presente un fatto concreto, e non è escluso che si tratti della presa di Gerusalemme da parte di Pompeo nel 63 a. C. (Giuseppe Flavio scrive che durante l’assedio caddero diecimila ebrei: Guerra, I, 151) e del periodo di litigi, inimicizie e contese che precedettero quest’evento; vedi il Commento ad Abacuc, X I, 4-8 e note. 18. Il termine ebraico tradotto con ingannevoli significa, alla lettera: «glabro, liscio», ma ricorre anche in senso metaforico per «blando, menzognero». Nelle righe 18-21 vi è una tremenda accusa contro i seguaci dell’uomo dell’arroganza (r. 14) che non ha alcun parallelo nei testi di Qumrân ed è tutta intessuta di citazioni bibliche (cfr. Prov., 17, 15; Is., 24, 5; Sal., 15, 2; 94, 21; 106, 18 ecc.). 18-19. verniciato le brecce: come i falsi profeti di cui parla Ezechiele (13, 5), che invece di riparare le brecce del muro (spirituale) nell’immediato periodo preesilico si sono contentati di verniciarle. 19. scelta la bellezza del collo: invece di un collo segnato dal gioco della legge di Dio: è un pensiero del profeta Osea (10, 11). Coloro che sono entrati nel patto e coloro che hanno deviato dalla via: predestinazione dei giusti e degli empi: II, 2-13. II, 4. Sulla longanimità e l’abbondanza dei perdoni di Dio si veda per es. i grandi testi come Es., 20, 5-6; 33, 18-19; 34, 5-9; Sal., 103, 8 e sgg. e il detto dei Pirqê abôt (5, 2): «Dieci generazioni vi furono da Adamo fino a Noè, per far conoscere quanto grande sia la sua longanimità: perché tutte queste generazioni venivano eccitando la sua ira, finché mandò su di loro le acque del diluvio. Dieci generazioni vi furono da Noè ad Abramo per far conoscere quanto grande sia la sua longanimità: perché tutte queste generazioni venivano eccitando la sua ira, finché venne Abramo nostro padre e conseguì il premio per tutte» (traduz. ital. di V. Castiglioni). 5. Sui convertiti dal peccato vedi anche XX, 17; Inni, II, 9; VI, 6; X IV, 24, ecc. L’aspetto negativo di questa conversione è designato come un allontanarsi «dalla via del popolo» (VIII, 16), «dalla cattiveria» (Regola della com., V, 14), «dalla via corrotta» (Docum. di Dam., XV, 7); e l’aspetto positivo, come unione al suo patto (Regola della com., V, 22), alla verità (VI, 5), al Dio della verità (Inni, X IV, 17), alla legge di Mosè (Regola della com., V, 8; Docum. di Dam., XV, 1.4; XV, 12); tale conversione, o ritorno, è presentata anche come ingresso nella comunità: Docum. di Dam., XV, 7.12; XVI, 1.4; XX, 7 e Regola della com., V, 1.22; VI, 15. Cfr. H. BRAUN, «Umkehr» in spätjüdischhäretischer und frühchristlicher Sicht, in ZThK, 50, 1953, 243-258. Per il giudizio del fuoco cfr. Inni, III, 29 segg.; VI, 15 e nota.

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6. Sugli angeli devastatori vedi la Regola della com., IV, 12. 7. Il verbo ebraico bāhar, «scegliere», è il termine tecnico dell’elezione alla quale gli esseni di Qumrân davano grandissima importanza (cfr. ad es. Regola della com., III, 15-18; X I, 10-11) considerandosi gli eletti, i predestinati. Sulla dottrina dell’elezione nell’Antico Testamento vedi Deut., 7, 6; Es., 19, 5-6. 8. a causa del sangue o «derivate dal sangue»: intendendo o a motivo delle loro azioni sanguinarie o per la loro impurità fin dalla nascita nel sangue (forse con un’allusione al testo di Ez., 16, 4); la traduzione di tutta questa riga è congetturale. 12. degli unti o «messia» (vedi Regola dell’assemblea, II, 11-16 e nota): il testo ha «del suo unto» o «del suo messia», ma con un buon numero di critici (cfr. Ch. Rabin, E. Lohse, A. Dupont-Sommer, J. Maier, É. Cothénet, ecc.), si preferisce il plurale non solo per analogia al genitivo seguente, ma anche perché paleograficamente vi è spesso confusione tra le consonanti jod (plurale) e wau (singolare): qui si tratta dei profeti, detti più avanti «unti santi» (VI, 1). Per unzione si intende quella metaforica dei profeti (cfr. 1 Re, 19, 16; e G. VON RAD, Theologie des Alten Testaments, München, 1960, II, 304-351 ed É. C OTHÉNET, Onction, in DBS, 5, 1962, 721 e sgg. A. Dupont-Sommer traduce: «Fece conoscere loro il suo santo Spirito per mezzo dei suoi unti». 12-13. veggenti della verità: così secondo E. Lohse, Y. Yadin e altri, ma la lettura non è certa, dato che il manoscritto ha qui un foro che elimina totalmente l’ultima lettera e rende incerta la penultima; si può leggere anche (con L. Rost, G. Molin, H. Bardtke e altri): «ed egli (lo spirito) è la verità». Il significato generale di queste tre righe (11.13) sembra abbastanza chiaro, ma il senso preciso resta controverso sia per l’incertezza di qualche lettura, come ho rilevato, sia per la controversa interpretazione di alcuni termini. Ecco qualche saggio di versioni divergenti da quella qui data. R. H. Charles: «Ma in tutti loro egli si suscitò uomini chiamati per nome, allo scopo di lasciare alla terra un resto e di riempire con il loro seme la faccia della terra. E attraverso il suo messia farà conoscere loro il suo spirito santo, egli è vero e i loro nomi sono nella vera interpretazione del suo nome; ma fa deviare quelli che odia». Ch. Rabin: «E in tutti loro egli suscitò per sé uomini chiamati per nome allo scopo di lasciare un resto per la terra, e di riempire la faccia dell’universo con il loro seme, e di far conoscere (o: e fece conoscere) loro il suo spirito santo per mano dei suoi unti e mostrò loro (o: dimostrazione di) la verità. Con esattezza manifestò i loro nomi; ma quelli che odiava li fece deviare». G. Vermes: «E in tutti loro egli suscitò per sé uomini chiamati per nome, affinché un resto fosse lasciato al paese e la faccia della terra potesse essere riempita dal loro seme. Fece conoscere loro il suo spirito santo per mano dei suoi unti e proclamò (loro) la verità. Ma quelli che odiava egli li fece deviare». É. Cothénet: «E in tutti questi (tempi) egli si suscitò uomini di fama per lasciare una sopravvivenza nel paese e riempire la superficie della terra con la loro discendenza ed egli li istruì per mezzo dei consacrati del suo spirito di santità e dei veggenti della verità e con esattezza determinò i loro nomi. Quanto a quelli che egli ha odiato, li smarrì». F. Michelini-Tocci: «Fra tutti costoro, egli se ne prescelse alcuni pieni di rinomanza, per poter garantire la sopravvivenza della terra e per riempire del loro

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seme la faccia del mondo. Egli li istruì attraverso gli Unti del suo Spirito Santo e i veggenti della verità e impose loro con esattezza i loro nomi; ma coloro che egli odiò peccheranno». Una versione molto originale è senza alcun dubbio quella del Teicher dettata evidentemente dalla sua opinione che i manoscritti di Qumrân siano documenti ebreo-cristiani, o ebioniti (vedi Introduzione generale, p. 50): «Ma in ognuno di essi (cioè dei periodi della storia) Dio ha suscitato individui chiamati per nome allo scopo di assicurare un resto per la salvezza della terra e per popolare la superficie del mondo con la loro progenie, e ha impartito loro la conoscenza attraverso il suo Cristo, il suo Spirito Santo, che è Verità — il loro nome [“Cristiani”] è derivato dal nome con il quale egli è chiamato [“Cristo”] — e ha indotto in errore quelli che ha odiato» (J. L. TEICHER, Puzzling Passages in the Damascus Fragments, in JJS, 5, 1954, 139143); il testo conterrebbe in germe la dottrina trinitaria e sarebbe soprattutto una attestazione ebionita della dottrina neotestamentaria della preesistenza di Gesù Cristo e della sua azione anche lungo tutto il corso della storia anteriore alla sua nascita, concetto questo che fu così sviluppato nella Chiesa primitiva. Ma la base critica di una tale speculazione è oggettivamente inesistente. Meditazioni sulla storia: esortazione alla vita perfetta e nuovo patto: II, 14 - IV, 12 a. Questo tipo di meditazione era particolarmente caro a quegli ambienti che avevano interesse nell’escatologia, e seguivano quella visione della storia tanto divulgata e apprezzata dalla così detta corrente deuteronomista (vedi 2 Re, 17, 7-40), rappresentata anche nel Nuovo Testamento (vedi At., c. 7: discorso del diacono Stefano). 14. Ed ora… ascoltatemi: qui come nei due casi precedenti (I, 1 e II, 2) l’autore usa una formula caratteristica del genere sapienziale, tanto comune nella Bibbia quanto nell’antico Egitto. Per il senso, le righe che seguono (14-16) hanno un parallelo nel IV libro di Esdra, 3, 4-36. La riga 16 richiama un pensiero giovanneo (1 Gv., 2, 16). 17. a causa di…: l’espressione che ricorre da III, 17 fino a IV, 11, sottolinea la disobbedienza alla legge divina e l’attaccamento alla propria volontà, l’ostinazione del cuore. Storia alla mano, l’autore rileva che tutti i castighi divini hanno un’unica causa: gli uomini di tutti i tempi, e persino gli angeli, non hanno perseverato nell’osservanza della legge da Dio rivelata; Abramo, Isacco, e Giacobbe sono gli unici a fare eccezione. Questa meditazione precede molto opportunamente le norme legali dei paragrafi seguenti, e rappresenta un’ottima sintesi del più puro pensiero biblico. 18. vigilanti del cielo: vedi Apocrifo della Genesi, II, 1 e nota. Si noti come nelle rr. 16 e segg. non vi sia una tendenza ascetica antisessuale, e la caduta dei «vigilanti» non sia presentata in modo prevalentemente moralistico, bensì come la trasgressione dell’ordine del creato. Fiduciari dei misteri cosmici, i «vigilanti» li rivelarono agli uomini che poi ne abusarono. Vedi sull’argomento il libro dei Giubilei, ’4, 15 e segg.; 8, 2 e segg. 19. cedri… montagne: si tratta dei «giganti» nominati dalla Genesi (6, 4) e sui quali si svilupparono un gran numero di leggende (cfr. ad es. il libro di Enoc, c. 14 e l’ Apocrifo della Genesi). 20. Riferimento al racconto biblico del diluvio (Gen., cc. 6-8). Sul grande sviluppo che ebbe il diluvio nella tipologia ebraica e cristiana vedi J. D ANIÉLOU, Sacramentum futuri. Études sur les origines de la typologie biblique, Paris 1950, 55-94.

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III, 3-4. furono iscritti: nelle tavolette celesti (cfr. libro dei Giubilei, 19, 9). Ma l’amico di Dio per eccellenza, sia nella tradizione ebraica che in quella islamica, è Abramo denominato così già da Isaia, 40, 8. 6. mangiarono il sangue: il divieto del sangue, che secondo la tradizione biblica, risale al così detto codice di Noè (Gen., 9, 4), è certo antichissimo, e viene spesso ripetuto nell’Antico Testamento (Lev., 17, 11; Deut., 12, 23 ecc.); nel libro dei Giubilei (6, 9) è detto che i discendenti di Noè peccarono mangiando del sangue. Nella riga 7 il copista ha omesso alcune parole: con i migliori critici, ho dato il testo quale doveva essere mettendo in corsivo le parole aggiunte. La citazione è presa dal Deut., 9, 23. 8-13. Colui che li istruì: per sé potrebbe essere il maestro di giustizia (vedi I, 11), ma qui il contesto esige senz’altro che si tratti di Mosè, il legislatore per eccellenza, o di Dio (vedi la frase completa in V, 21). Nelle righe 9-13 a segue la sintesi della storia d’Israele fino all’istituzione del nuovo patto (dalla r. 13 b in poi); sebbene qualche studioso giudichi possibile che quest’ultima inizi già dalla r. 10 b. Sembra tuttavia assai più verosimile che i primi che entrarono nel patto designi i membri del popolo di Israele prima dell’istituzione della comunità e non i primi membri di essa, nonostante possano, teoricamente, essere identici agli antenati dei quali si parla più avanti: IV, 6.8.9; VIII, 17. La spada (r. 11) è dunque quella di Nabucodonosor (I, 4). 16. svelò… davanti a loro: cioè aprì i loro occhi e svelò loro il senso della legge. Vi è qui una chiara allusione al celebre testo di Num., 21, 17-18: «Sgorga, o pozzo ! Cantatelo!…». la cui seconda parte è ripresa più avanti (VI, 3-4). Il paragone tra la legge e il pozzo pieno d’acqua fa parte della letteratura tradizionale (cfr. Eccli., 24, 23.30) ed era familiare a Qumrân (vedi N. W IEDER, op. cit., 62 e segg.). 18. Questo è nostro: cioè siamo padroni del nostro comportamento, della via scelta. 19. Il significato di casa come gruppo di persone deriva in modo diretto da quello di «famiglia» contenuto originariamente nel termine. Vedi 1 Sam., 2, 35; 2 Sam., 7, 16; Ebr., 3, 1-6 e, per i manoscritti di Qumrân, 1QpHab, IV, 11; V, 9. 20. Su la gloria di Adamo vedi Regola della com., IV, 23. IV, 1-2. Il testo citato è preso da Ez., 44, 15 saltando alcune parole (dopo lontano da me il testo del profeta prosegue: «si accosteranno a me per servirmi e staranno al mio cospetto per offrirmi…»); l’aspetto originale della citazione è che l’autore con una sottile e artificiosa aggiunta (il testo masoretico ha: «I sacerdoti leviti figli di Sadoc…») vede nelle parole citate tre gruppi membri della comunità: «i sacerdoti, i leviti, i figli di Sadoc». 4-5. Su questi eletti di Israele, che qui sono i figli di Sadoc (come in 1QpMich, 8, 10), vedi 1QM, X II, 2 e 1QpHab, V, 4 ove invece designa tutta la comunità. Nei due versetti seguenti l’autore promette nome, genealogia, ecc. «dei notabili» della comunità, ma il copista medievale, probabilmente, li ha ritenuti inutili per i suoi lettori e li ha tralasciati.

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6. La finale della riga è difettosa e l’ho completata (il corsivo) con XX, 2. 7-10. Che gli antenati non siano qui da confondere con la generazione dell’ Esodo, è evidente: sono persone sante radunate per ottenere il divino perdono (vedi anche Regola della com., V, 1-7). Secondo il testo di XX, 13-15 tra la morte del maestro di giustizia e la soppressione degli uomini dell’uomo di menzogna devono passare circa quarant’anni durante i quali il male si scatenerà: in questo periodo intermedio (il tempo dell’empietà) che precede la fine, i membri della comunità beneficeranno del perdono divino e avranno un riparo sicuro nel momento del giudizio; non v’è più motivo di unirsi alla casa di Giuda, essendo decaduta e sostituita dalla comunità ove ognuno starà al suo posto di guardia (l’autore si ispira ad Ab., 2, 1 e Mic., 7, 11). 11. Non è il caso di vedere nella casa di Giuda (qui e in VIII, 12; X IV, 1) una corrente congiunta, un tempo, a Qumrân dalla quale poi si sarebbe divisa (come ritiene invece Ch. Rabin). «Giuda», «casa di Giuda» ha un suo proprio aspetto territoriale e politico: è lo stato ebraico ufficiale del tempo, dal quale la comunità si è allontanata (cfr. IV, 3; VI, 5; VII, 12; ed anche 1QpHab, VII, 1; X II, 4). È praticamente certo il riferimento alla separazione del regno di Salomone in due, quello di Giuda e quello di Israele (o di Efraim), interpretata in chiave escatologica. Vedi VII, 12-13 e nota ivi. Le tre reti di Belial e l’infedeltà d’Israele: IV, 12 b VI, 2 a. 13. Belial: nell’epistola II ai Corinzi, 6, 15 ricorre nella forma «Beliar», è uno dei nomi del demonio nella letteratura apocrifa: cfr. 1QS, I, 18; 1QM, I, 5 e nota. Per tutto il tratto delle righe 12 b-19 a si veda l’ art. cit. del KOSMALA; e P. VON DER O STENS ACKEN, Gott und Belial… vedi Bibl. 14. La citazione è da Is., 24, 17. 19. Di qui fino alla r. 21 si hanno dei frammenti pubblicati da M. Baillet (DJD. III. Les petites grottes de Qumrân, Oxford, 1963, p. 129). I costruttori del muro: sono i seguaci del sommo sacerdote nemico della comunità (cfr. VIII, 12); l’espressione è tolta da Ez., 13, 10. Sulle costruzioni vedi il Comment. ad Ab., X, 1.9-13 e Testimonia, 26; qualche studioso vuol vedere qui un ironico riferimento alle opere di fortificazione eseguite dagli Asmonei dopo le distruzioni di Pompeo nel 63 a. C. (GIUSEPPE F LAVIO, Antichità, X IV, 144), ma da una parte le parole sono troppo vaghe e piene di simbolismo biblico, dall’altra di questo inquieto e turbolento periodo si conosce ancora poco per poter scendere a precisazioni del genere. Saw è un termine che si legge sia in Osea (5, 11) sia in Isaia (28, 10.13), ma è di significato incerto; forse equivale a «illusione». Qui designa il vaticinatore di menzogna, il sommo sacerdote, e, sia detto con le riserve del caso, non è improbabile che l’autore intenda riferirsi in modo discreto, ma chiaro per chi ha buona conoscenza di Isaia come l’avevano i qumraniani, alle parole con cui il profeta fa la caricatura dei falsi profeti e sacerdoti empi; l’espressione di Isaia suona: ṣaw lāsāw, ṣaw lāṣāw qaw lāqāw, qaw lāqāw ….

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Espressione che con molta probabilità, tenendo conto anche del contesto, si può tradurre: Precetto su precetto, precetto su precetto, Regola su regola, regola su regola… 20. La citazione è presa da Mic., 2, 6; e quella della r. 21 da Gen., 1, 27. Quest’ultima citazione e quelle che seguono fino a V, 6 a rivelano come gli esseni avessero del matrimonio una concezione più severa di quella della società ebraica contemporanea in quanto erano contrari non solo alla poligamia, ma, forse, allo stesso divorzio oppure alle seconde nozze. Il testo non è chiaro. Senza dubbio sorprende ed è istruttivo il raffronto tra questo nostro testo e le parcle del Vangelo di Mc., 10, 2-12 e Mt., 19, 3-9. Queste parole hanno un notevole interesse per la valutazione del matrimonio secondo la dottrina degli esseni di Qumrân (cfr. in particolare Regola della assembl., 1, 10; Docum. di Dam., VII, 6-9; X II, 1; XVI, 10-13 e il testo di GIUSEPPE F LAVIO, Guerra, II, 160 seg., vedi p. 62). Sull’argomento vedi D. D AUBE, The New Testament and Rabbinic Judcism, London, 1956, 85-86 e 297-300; P. W INTER, Sadoquite Fragments IV, 20-21 and the Exegesis of Genesis 1, 27 in Late Judaism, in ZAW, 68, 1956, 71-84; J. H EMPEL, Anmerkung zu P. Winter Sadoquite Fragments IV, 20-21, in ZAW, 68, 1956, 87; per la complessità del testo e la varietà di interpretazioni soprattutto a proposito del Nuovo Testam. e delle parole di Gesù, si veda H. BRAUN, Qumrân und das Neue Testament, Bnd. I, Tübingen, 1966, 40-42 e 192-193. 21. Il termine principio (in ebr. jsôd) ha il senso di «fondamento». V, 1-6. Nelle prime sei righe della c. V sono citati i testi di Gen., 7, 9; Deut., 17, 17 ed è fatto riferimento a Giud., 11, 7-10.13; Gios., 24, 29-31.33. Durante il periodo dell’apostasia (secondo il nostro autore) il libro della legge restò sigillato e nascosto; spettò al sommo sacerdote Sadoc il privilegio di farlo conoscere di nuovo: è un pensiero che (almeno per ora) non ha riscontro in altri testi biblici ed extrabiblici. A proposito dell’adulterio di David, cui si allude con l’espressione sangue di Uria, vedi 2 Sam., 11, 1-12, 19. gliele condonò: o «gliele permise» (Michelini-Tocci), o «gliene lasciò» il merito (A. Dupont-Sommer). 6 b-11 a. In questo breve tratto è ancora una volta sottolineata la severità dei qumraniani in fatto di legge matrimoniale. Il primo riferimento alla legge è il testo del Lev., 15, 19; il secondo testo è il Lev., 18, 13 che per sé proibisce il matrimonio di una zia con il nipote, legge estesa anche al matrimonio di una nipote con lo zio: purtroppo la frase è incompleta ma il senso è chiaro. Notare che qui come nelle norme delle righe precedenti, a proposito del matrimonio, la setta ebraica medievale dei caraiti (vedi Introduzione generale) condividerà la dottrina dei qumraniani (cfr. G. VERMES, Les manuscrits du désert de Juda, Tournai, 2 a ed., 1954, 106107 e J. M. BAUMGARTEN, Qumrân Studies, in JBL, 77, 1958, 249-257). 11-12. spirito santo: corrisponde letteralmente a «spirito delle loro santità», ma il singolare è assai più comune del plurale: cfr. Regola della com., IV, 21 ecc.; la lingua blasfema deriva certo dallo spirito iniquo (cfr. Regola della com., IV, 11 e 23-24). Nelle

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righe seguenti vi sono allusioni a Is., 50, 11 e 59, 5-6; e la traduzione dell’ultima parte della r. 15 è congetturale dato che il testo è inintelligibile; delle rr. 13-14 si ha un frammento della sesta grotta pubblicato da M. Baillet, ma purtroppo non è di alcun aiuto per una migliore lettura del testo (op. cit., p. 129). 16-21. In queste righe è citato Is., 27, 11 e vi è un riferimento al Deut., 32, 28. A Mosè e Aronne si opposero, in Egitto all’epoca dell’Esodo (Es., c. 7), due fratelli maghi, Janne e Mambre (su questi due nomi e sulla loro leggenda cfr. S TRACKBILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash. III. München, 1928, 660-664 e 2 Tim., 3, 8) che erano al servizio del faraone cioè, afferma il nostro autore, al principe delle luci si oppose Belial, e qui v’è un mistero tipologico per tutta la storia d’Israele, la contrapposizione del male al bene, la lotta contro il maestro di giustizia, ecc. È possibile che l’autore intenda riferirsi ad Aristobulo I (104-103 a. C.) e ad Alessandro Janneo (103-76 a. C.); non v’è dubbio, infatti, che il tempo… della desolazione sia l’epoca presente e che quelli che spostano i confini (fautori di ingiustizie: cfr. Os., 5, 10), che fanno deviare Israele e profetavano menzogne, siano i grandi nemici della comunità (cfr. I, 13-16). Gli unti santi, o «unti della santità», oppure «i messia santi», sono i profeti (vedi II, 12); leggo il plurale «unti» (sebbene il testo si possa leggere al singolare «suo unto», come in II, 12) con E. Lohse, A. M. Habermann, É. Cothénet, G. Vermes e molti altri. Dalla fine della r. 17 fino all’inizio della colonna sesta si ha un frammento della grotta sesta ove il nome di Dio (r. 21 e VI, 1) è scritto in caratteri paleoebraici o fenici (op. cit., p. 130). La comunità del nuovo patto: il nuovo legislatore e le nuove norme fondamentali: VI, 2-VII, 9 a. VI, 2-4. Per gli antenati, vedi I, 4 e note. Il testo citato nelle rr. 3-4 (già incontrato in III, 16) è tratto da Num., 21, 18 e seguìto da interpretazioni allegoriche caratteristiche del Docum. di Dam. (cfr. IV, 2-4; IV, 14-19; VII, 14-21; VIII, 9-11; X IX, 9). In questa atmosfera piena di allegoria, simbolismo ed espressioni velate dal significato volutamente vago, gli studiosi si domandano quale sia il valore da riconoscere all’espressione «nella terra di Damasco». Si può intendere in senso letterale di un più o meno volontario esilio nella regione di Damasco come fanno molti (cfr. ad es. E. C AVAIGNAC, Damas de 125 à 29 av. J. C., in Mélanges bibliques…, A. Robert, Paris, 1957, 348-353 e R. G. D RIVER, The Judaean Scrolls…, 73.205 e segg.); ma questo esodo non può essere posteriore alla fine dell’occupazione di Qumrân (perché i manoscritti del CD nelle grotte di Qumrân sono particolarmente numerosi, vedi Introduzione), né può essere anteriore all’insediamento a Qumrân perché il CD rif lette una situazione posteriore a quella di IQS e menziona due volte la morte del maestro di giustizia che diede forma al movimento e installò la comunità a Qumrân. Si è pensato d’inserire questo esodo nel periodo corrispondente al vuoto archeologico, testimoniato dagli scavi che rivelano (secondo alcuni studiosi, vedi pp. 18 e seg.) un certo abbandono degli edifici di Qumrân, succeduto al terremoto del 30 a. C, sotto il regno di Erode il Grande (C. T. F RITSCH, Herod the Great and Qumrân community, in JBL, 74, 1955, 173-181; F. F. BRUCE, Second Thoughts on the Dead Sea Scrolls, Oxford, 1956, 108 e, inizialmente, prospettata dal de Vaux fin dal 1954 in RB, 61, 1954, 235-236); ma un manoscritto del CD proveniente dalla quarta grotta è certo anteriore all’anno 31 a. C., come affermano i

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paleografi (J. T. M ILIK, Ten Years…, p. 91, n. 2; F. M. C ROSS, The Ancient Library…, pp. 59-60). Si potrebe pensare che l’esodo «dalla terra di Giuda» sia stato compiuto solo da una parte dei membri del movimento, ma in questo caso non si spiega facilmente il grande numero di copie del CD trovato a Qumrân pur ammettendo la dipendenza di tali esuli dal nucleo centrale. Qualcuno ha cercato una soluzione del problema ricorrendo alla geografia storica dalla quale risulterebbe che il regno dei Nabatel giunse fino alla occupazione della riva occidentale del Mar Morto (ove si trova Qumrân) la quale poteva quindi essere considerata come «terra di Damasco» in quanto i Nabatei erano allora padroni anche della regione e città di Damasco (così R. N ORTH, The Damascus of Qumrâ n Geography, in PEQ, 87, 1955, 34-48); ma si tratta di una semplice congettura. L’interpretazione terra di Damasco (che ricorre in VI, 5; VI, 19; VII, 19; VIII, 21; XX, 12) è dunque molto controversa. Un complesso di convergenze induce a ritenere che la terra di Damasco nella quale i convertiti d’Israele entrano nel nuovo parto (r. 19) sia da intendere in modo simbolico e designi la regione di Qumrân (e meglio, forse, ogni luogo ove abitavano comunità di qumraniani); l’opinione fu espressa per la prima volta da D. Barthélemy (in RB, 60, 1953, 422) e oggi è favorevolmente considerata da molti studiosi (cfr. in particolare A. J AUBERT, Le pays de Damas, in RB, 65, 1958, 214-248; F. M. C ROSS, loc. cit.; R. DE VAUX, L’archéologie et les manuscrits de la Mer Morte, London, 1961, 86-89; cfr. anche, su Damasco, G. VERMES, Scripture and Tradition in Judaism, Leiden, 1961, pp. 43-49 e l’ampia trattazione di N. Wieder, op. cit., pp. 1-51). È probabile che l’autore si sia ispirato dal testo di Amos, 5, 26-27 (che cita in VII, 14-15) e dalla teologia della deportazione che s’incontra in Geremia e in Ezechiele; secondo la citazione di VII, 14 e segg. Damasco è un luogo d’esilio divenuto un rifugio dei veri fedeli di fronte all’ira divina; per Geremia ed Ezechiele i deportati del regno di Giuda sono la parte migliore del popolo, i protetti di Jahweh, il «resto» d’Israele, per il quale la «gloria di Jahweh» abbandonò Gerusalemme (Ger., 24, 5-7; c. 29; 31, 2-7; Ez., 11, 13-16); anche l’espressione nuovo patto trova la sua spiegazione nel fatto che è appunto con quei deportati che Geremia ed Ezechiele preannuaciarono che Dio avrebbe stretto un «nuovo patto» (Ger., 31, 31-34; Ez., 11, 17-20; 36, 24-28). Per altri testi di Qumrân a proposito dell’esilio e del patto, vedi 1QpHab, II, 3; X I,6; 1QS, I, 16 - II, 19; 1QM, I, 2). Si veda: S. S ABUGAL, La conversion de San Pablo, Damasco: ¿Ciutad de Syria o region de Qumrân?, Barcelona, 1976. Allo stesso modo anche l’espressione terra di Giuda sarà dunque da intendere simbolicamente seguendo le stesse indicazioni dei profeti che contrapposero i deportati ai rimasti in Gerusalemme e nella Giudea in quanto i primi sarebbero stati salvati, mentre i secondi puniti (Ger.,24, 8-10; 29, 16-19); nel CD la terra di Giuda simboleggerebbe i sacerdoti di Gerusalemme, le autorità che li sostenevano e tutti i loro seguaci: con la casa di Giuda e con i suoi prìncipi il CD è molto severo (cfr. IV, 11; VIII, 1-13; X IX, 15-22). 7-9. L’autore gioca con il doppio senso del termine ebraico meḥôqeq che significa «bastone, capo, legislatore, precetto, norma», e la distinzione non la pone tra i «prìncipi» e i nobili (tutti sono prìncipi), ma tra questi, che sono discepoli e il bastone che è (secondo la sentenza più comune e più probabile) il maestro di

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giustizia: sua opera specifica è interpretare la legge e le cose nascoste (cfr. III, 14-15); per gli altri la ricerca di Dio sta nel seguire fedelmente le sue norme (cfr. XX, 31-32 e la Regola della com., IX, 10). La presentazione del maestro di giustizia come interprete della legge e con i tratti di Mosè, è caratteristico del presente testo: di qui la tendenza di qualche studioso in favore della distinzione tra «l’interprete della legge» e il maestro di giustizia, vedi: N. W IEDER, The «Law-Interpreter» of the Sect of the Dead Sea Scrolls: the second Moses, in JJS, 4, 1953, 158-175 e 1QS, IX, 12 e nota. Sul maestro vedi: I, 11 e nota; 1QpHab, II, 2.8-10; VII, 4-5; 4QpSal, 37, II, 16. Il gioco di parole è evidente nella r. 9 ove l’espressione per mezzo… legislatore (in ebr. bimḥoqeqôt ’asher hāqaq ha-mehôqêq) si potrebbe tradurre «per mezzo dei bastoni con i quali il bastone bastonò»). 8. Il testo di Isaia (54, 16) e lo strumento si riferiscono, secondo il nostro autore, al maestro di giustizia. 11. un maestro…: oppure «uno che insegnerà…»: il testo ebr. non ha qui moreh, ma un equivalente nel termine jôrêh come pure in III, 8 e XX, 14. Chi è questo personaggio? Secondo alcuni si tratta del maestro di giustizia, la persona quindi nominata fin da I, 11 che, pur essendo morto ritornerà alla fine dei giorni (così ad es. A. Dupont-Sommer, Ch. Rabin, J. M. Allegro). Secondo altri si deve riconoscere una netta distinzione tra il maestro di giustizia e questa personalità escatologica (per la quale cfr. Inni, III, 7-18) così come si deve ammettere la distinzione tra «l’interprete della legge» di VI, 7 e il messia sacerdotale di VII, 18 (così pensano ad es. A. S. VAN DER W OUDE, Die messianischen Vorstellungen der Gemeinde von Qumrân, Assen, 1957, 130 segg., I. Maier, J. Carmignac); l’accostamento tra il maestro di giustizia e l’interprete della legge, il messia sacerdotale e il ritorno di Elia (secondo il celebre testo di Mal., 3, 23) è molto dubbio. J. Rabinowitz (The Guides of Righteousness, in VT, 8, 1958, 391-404) ritiene che il testo offra una dimostrazione della pluralità dei «maestri»: uno di essi verrà anche alla fine dei tempi. 13. Il testo è del profeta Mal., 1, 10 (con qualche modifica rispetto al testo masoretico): fa parte di una tremenda requisitoria contro i sacerdoti e termina con il rifiuto dei sacrifici cruenti da parte di Dio; il nostro autore se ne serve bene per sottolineare chiaramente la posizione negativa dei qumraniani verso il culto allora praticato nel tempio di Gerusalemme. Nell’enumerazione delle norme fondamentali per la vita degli esseni il testo ebraico (r. 14 e segg.) si serve di una lunga serie (fino a VII, 4) di infiniti costrutti dipendenti tutti da cureranno… Le norme per l’ingresso nella comunità essena sono esposte nella Regola della com., VI, 15. Sul significato di fossa (in ebraico shaḥat) vedi Inni, II, 21 e nota. Sulle ricchezze inique dei sacerdoti di Gerusalemme cfr. Comment. ad Abacuc, IX, 5 e Regola della com., X, 19. Nelle rr. 16-17 l’autore si serve di Is., 10, 2; Sal., 94, 6 ed Ez., 22, 26. 18. Per il sabato vedi più avanti X, 14 - X I, 18. 19. Alcuni critici (per es. Ch. Rabin, J. Carmignac) invece di secondo la disposizione (in ebr. kemiṣwat) preferiscono leggere kemiṣ’at, «secondo il fatto di trovarsi», «secondo il computo»; ma la maggioranza degli studiosi preferisce senz’altro kemiṣwat (così ad es. A. M. Habermann, J. Maier, E. Lohse, A. Dupont-Sommer,

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ecc.); il giorno di digiuno è il gran giorno dell’espiazione (cfr. Comment. ad Abacuc, X I, 7). L’espressione nuovo patto («nuova alleanza») nell’Antico Testamento si legge soltanto in Ger., 31, 31, è ripetuta più volte nel Nuovo Testamento (Lc., 22, 20; 1 Cor., 11, 25; Ebr., 8, 8-12), gode il favore del nostro autore (si legge ancora: VIII, 21; X IX, 33-34; XX, 12) e ricorre anche nel Comment. ad Abacuc, II, 3-4. Per il profeta Geremia doveva essere caratterizzato dal perdono dei peccati, dall’incisione della legge divina nel cuore, dalla conoscenza di Dio, ed era innanzitutto un privilegio «del resto di Israele» (vedi VI, 2-4 e nota). Non v’è dubbio che per gli esseni di Qumrân era giunto il momento del nuovo patto e che ritenevano quindi prossima la liberazione escatologica, ma assai più che la fine erano consci di viverne i prodromi, e ogni anno, nel giorno della pentecoste, celebravano la cerimonia del nuovo patto (vedi Regola della com., I, 16 - III, 12) per sottolineare sia il distacco dagli «altri» sia l’ardente anelito verso la lotta finale e la liberazione escatologica: la «novità» del patto sta soprattutto nell’animo nuovo col quale si vuole osservare il patto mosaico. In questa comunità, il nuovo patto non era dunque qualcosa di simile ai rinnovamenti del patto menzionati nella storia di Israele (vedi 1QS, I, 16 e la sintesi di G. VON RAD, Theologie des Alten Testaments, I, München, 1961, 135-177 e 218-230), ma non è neppure pensabile che fosse concepito come un patto diverso e distinto da quello mosaico ed è appunto per poterlo osservare integralmente che questi fedeli si erano esiliati nella «terra di Damasco»; al di là del nome, non si scorge nulla di comune con la concezione cristiana del nuovo patto. Cfr. A. J AUBERT, La notion d’alliance…, Paris, 1963, pp. 209-249. Altri, insistendo sul fatto che la Regola della com. non parla mai del «nuovo patto», vede in questa espressione la prova di uno scisma che avrebbe avuto luogo all’origine del movimento di Qumrân; il «nuovo patto» designerebbe l’antico patto di Qumrân rinnovato e modificato in conformità ai bisogni venutisi a creare dopo la nuova situazione, cioè dopo la separazione; la coincidenza con il testo di Geremia sopra indicato sarebbe puramente verbale (cfr. G. R. D RIVER, The Judaean Scrolls…, 73-74, 305-310). 20. Il termine ebraico corrispondente a prelevare (rûm) è praticamente un termine tecnico del culto per indicare il prelevamento di una parte dei prodotti dei campi e del gregge allo scopo di donarla a Dio; a Qumrân non essendo portato al tempio, questo prelevamento veniva posto da parte a disposizione della comunità (cfr. GIUSEPPE F LAVIO, Antichità, XVIII, 19). Dalla r. 20 fino a VII, 1 compreso, abbiamo un frammento della sesta grotta pubblicato da M. Baillet (op. cit., p. 130). VII, 1-4. Con queste righe hanno qualche relazione i testi biblici: Lev., 19, 17-18 e 20, 25. 5. Quelli della perfetta santità sono i membri della comunità che Dio ha separato dagli altri e restano fedeli allo spirito santo (cfr. anche XX, 5.7; Regola della com., VIII, 20.23). Come è stato rilevato nella Introduzione, il tratto VII, 5-VIII, 21 è in parte parallelo al cosiddetto testo «B» cioè a X IX, I-XX, 1 a. Per facilitare la consultazione del CD, con Lohse, Maier, Habermann e molti altri, contrariamente al metodo seguìto da alcuni (come ad es. Ch. Rabin, G. Vermes, É.

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Cothénet, F. Michelini-Tocci) si offre qui la traduzione nella sequenza e secondo la numerazione tradizionale delle colonne. Sulla questione vedi ad es. J. C ARMIGNAC, Comparaison entre le manuscrits «A» et «B» du Document de Damas, in RQ, 2, 1959, 5467. 6 b-9 a. In queste righe è considerato il caso di quei fedeli della comunità del patto che sono sposati. Invece di figlia il testo ha «figlio» discostandosi così dal testo citato, cioè Num., 30, 17, che tratta del potere che ha il marito di annullare un voto della moglie o della figlia; vedi anche XVI, 10-12. Sorte opposta dei fedeli al patto e dei fedifraghi: VII, 9 b - VIII, 21. 9 b-13. Sono citati, nell’ordine, Sal. 94, 2; Is., 7, 17; Sal., 78, 62. Efraim si sottrasse all’autorità di Giuda, costituendo il cosiddetto regno del nord, o regno di Israele, dopo la morte di Salomone (nel 931 circa a. C.) e si mantenne indipendente fino al 722 a. C. allorché fu sconfitto dalla potenza assira e i suoi cittadini vennero in gran parte deportati. In un modo assai singolare e contro tutta la presentazione deuteronomistica dei libri storici dell’Antico Testamento nonché contro il citato Sal., 78, contro il Comment. al Sal. 37, 11, 1 QpMich., 8-10, 2-7 e forse anche 4QpOsa, il nostro autore afferma che i traditori furono quelli di Giuda, non quelli rifugiati nella terra del nord, cioè Efraim (cfr. Ger., 31, 8; Zac, 6, 8) che sono i seguaci del maestro di giustizia, cioè i rifugiati di Damasco-Qumrân (vedi VI, 5 e nota). L’autore con un gioco di parole intraducibile usando il termine ebraico sar che può significare «si sottrasse» e «dominò», sottolinea come Efraim si sottrasse alla tribù di Giuda e così facendo la dominò. Nella spada qualche studioso, come già in I, 1718 vede l’arrivo di Pompeo a Gerusalemme nel 63 a. C. Il giorno in cui Efraim si staccò da Giuda è quello in cui i membri della comunità (cioè, qui, Efraim) si separarono dalla classe dominante del popolo ebraico (cioè Giuda) rifugiandosi a Damasco-Qumrân: così facendo sfuggirono anche al castigo divino; nello stesso modo avverrà alla fine dei tempi, quando coloro che non avranno perseverato saranno sterminati (VIII, 1-2). Tuttavia l’assimilazione di Efraim alla comunità di Qumrân pare a qualche studioso (per es. J. Maier) molto inverosimile e preferisce vedere in queste righe una descrizione della caduta del regno del nord (Efraim) nella quale i fedeli alla legge, seppure dovettero subire l’esilio, non furono però uccisi e poterono poi ritornare (cfr. l’esilio della comunità): non avvenne così invece nel regno di Giuda sotto la spada di Nabucodonosor nel 587 a. C.; nel giorno in cui Dio farà la sua visita avrà luogo la lotta escatologica cui seguirà il ritorno definitivo della comunità dall’esilio. 15-18 a. La lettura del testo citato nella r. 15 (e cioè Am., 5, 26-27) non è assolutamente concorde con quello masoretico il quale però, a sua volta, non è sicuro; si è qui seguito l’interpretazione più comune. Nel profeta Amos il testo fa parte di una famosa invettiva contro i sacrifici e il culto in generale non accompagnato dai requisiti morali (rettitudine e giustizia sociale) onde equivale a un abominevole rito idolatrico che disgusta e irrita la Divinità; l’invettiva termina con la minaccia dell’esilio con le parole: «Mi presentaste forse sacrifici e offerte nei quarant’anni del deserto, casa d’Israele? Porterete Sikkût (o Sakkut), il vostro re,

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e Kijjûn (o Kewan), le vostre immagini-stella, gli dèi che vi siete fabbricati per voi. mentre vi deporterò al di là di Damasco, dice Jahweh; Dio degli eserciti è il suo nome» (Am., 5, 25-27). Sikkût e Kijjûn si leggono in testi accadici come nomi di divinità astrali o personificazioni del dio Ninurta. Per il nostro autore questa minaccia è diventata una promessa di liberazione e protezione, con il seguente procedimento: 1) giocando sulla somiglianza tra sikkût e sukkat (stato costr. del termine ebr. sûkkāh, «tenda», «capanna») spiega che si ha da intendere «deporterò la tenda del vostro re»; questa «tenda» sono i libri della legge; era infatti scritto (in Am., 9, 11) «rialzerò la sukkat (tenda) di David»; 2) a Damasco dunque (= nella terra del nord = nell’esilio della comunità = a Qumrân e altri luoghi della comunità) la legge (la tenda di David) è ristabilita nella sua purezza e integrità; 3) David è inteso come semplice sinonimo di re e questo designa l’ assembramento cioè la comunità del patto; 4) giocando ancora sulla somiglianza tra kijjûn e kêwân, «fedeltà» o, secondo altri, kjnwj, «piedestalli» (la lezione del CD è incerta e il verso è piuttosto sovraccarico avendo letteralmente «e i piedestalli [o fedeltà] delle immagini e il kijjûn delle immagini sono…») spiega che i profeti sono immagini fedeli della legge o della verità divina, oppure (e sarebbe più in armonia con sukkat = tenda = legge) i profeti sono i piedestalli… delle due colonne all’ingresso della tenda tabernacolo, cioè del santuario (cfr. quelle del tempio salomonico: 1 Re, 7, 15-22). Su tutte queste allegorie vedi lo studio di N. W IEDER, «Sanctuary» as a Metaphor for Scripture, in JJS, 8, 1957, 165-175. I membri della comunità del nuovo patto osservano dunque la legge in tutta la sua integrità (mentre gli «altri» l’hanno bandita e tradita) e venerano i profeti disprezzati dagli «altri». 18 b-21 a. L’ultimo elemento dell’interpretazione pone qualche problema particolare. Nella r. 15 è generalmente inserito da tutti gli studiosi quanto ho messo in corsivo, ristabilendo così nella sua interezza la citazione profetica, sebbene il copista l’abbia tralasciata per errore (ritengono alcuni) o (secondo altri), deliberatamente. Chi è questo interprete della legge (dôresh ha-tôrah)? Il testo è certo parallelo a VI, 7 e abbiamo le stesse sentenze già viste; qui tuttavia vi sono argomenti maggiori in favore del messia sacerdote, o messia di Aronne: il celebre testo di Num., 24, 17 ricorre anche nei Testimonia, 12-13 e nella Regola della guerra X I, 6 e sempre in contesto messianico; invece di spiegare la stella della quale parla il profeta, l’autore segue l’evocazione che il termine suscita nel suo cuore richiamandogli un passo ben diverso: «Una stella spunterà da Giacobbe…» (Num., 24, 17). Inoltre l’espressione interprete della legge si trova anche in 4QFl, I, 11 (vedi nota ivi) affiancato al messia davidico o messia di Israele cioè il capo temporale della comunità che guiderà la guerra escatologica. L’autore quindi afferma: l’interprete della legge è la stella di Giacobbe, cioè il messia di Aronne, mentre lo scettro (introdotto dalla citazione biblica) è il messia di Israele (vedi anche Regola della guerra, V, I; Racc. di Benediz., V, 20-29; Comment. a Is., I, 2; cfr. tuttavia X II, 23; X IX, 10-11 e XX, 1 ove il nostro Documento parla del messia, al singolare, di Aronne e

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di Israele). 19. In luogo del futuro che verrà (in ebr. ha-bâ’) vi è chi preferisce il passato; ma oltre che poco chiaro, il passato non rende l’espressione ebraica comunissima (cfr. ‘ćlam ha-bâ’, «il mondo futuro») particolarmente nella letteratura postbiblica. Il testo di Num., 24, 17 è citato, sempre in senso messianico, anche nel Nuovo Testamento (Mt., 2, 1-12 e Ap., 22, 16). Con una lettura leggermente diversa si ha in breve la seguente interpretazione simbolica: il tabernacolo o la tenda sono i libri della legge; il re è la comunità; le basi delle statue sono i libri dei profeti; la stella è quella di Giacobbe; Damasco è la terra dell’esilio apportatore di salvezza. Su questi ultimi versetti vedi: N. W IEDER, The «Law-Interpreter» of the Sect of the Dead Sea Scrolls: the Second Moses, in JJS, 4, 1953, 158-175; ID., The Idea of a Second Coming of Moses, in JQSt, 46, 1955-56, 356-366 ed ancora, dello stesso autore, The Doctrine of two Messiahs among the Karaites, in JJS, 6, 1955, 14-25; A. S. VAN DER W OUDE, Die messianischen Vorstellungen der Gemeinde von Qumrân, Assen, 1957, 130 segg.; e dello stesso Le Maître de justice et les deux Messies de la Communauté de Qumrân, in La Secte de Qumrân, 1959, 121-134; I. RABINOWITZ, The Guides of Righteousness, in VT, 8, 1958, 391-404; N. W IEDER, The Judean Scrolls and Karaism, London, 1962, pp. 53-127. 21. La prima visita può essere o la caduta del regno del nord nell’anno 722 a. C. oppure, più verosimilmente, un evento triste vicino all’autore. VIII. Nelle righe seguenti (VIII, 4-9 a) si ha una descrizione della vita degli empi che è un po’ la contropartita di quella dei fedeli della comunità (VI, 4 - VII, 4). Il testo citato è quello del profeta Os., 5, 10. 4. Vi è qui una parola incomprensibile wjdqmwm, interpretata in vari modi: la più probabile è la lettura del verbo ebraico dâqaq, «ridurre in polvere». E. Lohse e J. Maier traducono: «… ma resta sempre una macchia»; e Dupont-Sommer: «Poiché saranno malati senza alcuna guarigione, e tutti i castighi li schiacceranno»; Michelini-Tocci: «Essi spereranno nella guarigione ma egli colpirà tutti…». 9 b-12 a. È citato Deut., 32, 33 ed è interpretato allegoricamente, allo stesso modo dei testi biblici incontrati precedentemente; notare (alla r. 11) il gioco sul termine ebraico rôsh, «veleno» e «testa, capo». Su «Jâwân» vedi Comment. a Naum, I, 2-3 e note (ove si parla di Demetrio re di Jâwân): si tratta probabilmente della stessa persona (ma si veda anche I, 17-18). Per costruttori di mura… vedi IV, 19 ed Ez., 13, 10. 13. colui che pesa è un’allusione a Mich., 2, 11; sul vaticinatore di menzogne vedi I, 14 e il comment. ad Abacuc, X, 9. Il testo, sebbene nell’insieme non presenti difficoltà per il senso generale, non è chiaro e potrebbe essere letto in un modo alquanto diverso: cfr. ad es. M. Tocci: … perché «uno che procedeva nel vento, che sollevava tempeste, e che predicava agli uomini menzogne (Mich., 2, 11) parlò ad essi in modo che l’ira…»; Vermes: «… perché un uomo che segue il vento, uno che solleva tempeste e fa piovere menzogne, aveva predicato loro (Mich., 2, 11), contro tutti…». In gran parte la difficoltà proviene dallo stesso testo del profeta Michea, che qui è riferito liberamente, contenente una veemente e sarcastica invettiva contro il profetismo istrionico e bugiardo. Si può osservare che subito dopo questo testo il

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profeta Michea prosegue (2, 12-13) annunciando la riunione dei buoni, come un gregge in un ovile, sotto la guida di Dio, e predicendo il ritorno dall’esilio e la riorganizzavento zione del «resto di Israele» come nella seconda parte di Isaia (cfr. Is., 42, 13-16; 52, 12…): e il nostro autore aveva certo presente questa conclusione. Il testo parallelo (X IX, 25-26) segue più da vicino il testo masoretico corrispondente. «Vino» (Deut. e Mich.), «muro intonacato» (Ez.), «menzogne» (Ez. e Mich.) sono i tre termini che permisero all’autore di unire i tre testi citati che qui, come spesso altrove, hanno anche una funzione di richiamo, o evocatrice, di tutto il loro originario contesto. 14-16. Sono citati nell’ordine: Deut., 9, 5; 7, 8 e vi è un’allusione a Is., 8, 11. Le allusioni contenute nelle rr. 20-21 (e cioè Ger., 45, 4-5 e 2 Re, 5, 26) rimangono piuttosto oscure. La continuazione del testo si ha in X IX, 34 - XX, 1 a. Vedi l’ Introduzione, p. 208 e seg. Sezione giuridica: norme per la correzione fraterna, per il giuramento giudiziario, per i testimoni e per i giudici: IX, 1 - X, 10 a. Sulla difficoltà di connettere queste colonne con le precedenti, vedi l’Introduzione. IX, 1. La prima disposizione si riallaccia al testo del Lev., 27, 29 e precisa che la sentenza deve essere eseguita non da ebrei, ma da pagani: ciò suppone, in Palestina, la presenza di una dominazione straniera e richiama le parole degli Ebrei a Pilato: «A noi non è permesso uccidere alcuno» (Gv., 18, 31). Si tratta però di una traduzione non sicura sebbene sia stata seguita da una gran parte di studiosi (ad es. Bardtke, Lohse, Maier, Rabin, Dupont-Sommer, ecc.); altri traduce: «Ogni uomo che pronuncerà un anatema contro un uomo… secondo i decreti (addotti) contro le nazioni, sarà messo a morte», cioè sarà condannato a morte colui che tratta un compatriota come un pagano (Cothénet); «Chiunque getti l’interdetto su un altro uomo, secondo le leggi dei Gentili, sarà messo a morte» (Michelini-Tocci) 2. A proposito del testo citato (Lev., 19, 18) e del rancore verso un «confratello», vedi Regola della com., VII, 8. 5. È citato il profeta Nahum (1, 2) il nostro autore pone il pronome (egli) al posto di «Jahweh» che ha, invece, il testo masoretico; la vendetta è un privilegio di Dio in quanto lui solo sa come e quando farla (Deut., 32, 35 e Rom., 12, 19). Testi anticotestamentari come Deut., 19, 4-6 e Num., 35, 12 sull’istituzione delle città rifugio attestano che la vendetta era riconosciuta fin dall’antichità come un diritto e che la legislazione ha cercato in vari momenti di porvi un freno; già nella Gen., 4, 15 (a proposito di Caino) si insiste sul dovere di lasciare la vendetta a Dio solo. Anche per queste righe vedi Regola della com., VI, 1 e X, 17-18. Interessante è il testo del vangelo: «Se tuo fratello pecca contro di te, va’ e riprendilo fra te e lui solo; se ti ascolta avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolta prendi ancora con te una o due persone, affinché la cosa sia regolata sulla parola di due o tre testimoni. Se rifiuta di ascoltarli, dillo alla chiesa, se non vuole ascoltare nemmeno la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt., 18, 15-17; cfr. anche Mt., 5, 38-41 sulla legge del taglione). 7-10. Per queste righe si ha un frammento della quinta grotta (5Q12), pubblicato dal Milik ove subito all’inizio si leggono due termini ignoti al nostro testo, ma

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presenti in un frammento della quarta grọtta (non ancora pubblicato) che tra la r. 6 e la 7 contiene una lunga aggiunta (J. T. M ILIK, DJD. III. Le petites grottes, Oxford, 1963, p. 181). 7 b-8 a. È citato Lev., 19, 17 ed è interpretato come una testimonianza per l’obbligo di correggere nello stesso giorno, ma non sotto un inf lusso di collera: vedi anche VII, 2-3; Regola della com., V, 26 - VI, 1; l’espressione di san Paolo: «Il sole non tramonti sulla vostra ira» (Ef., 4, 26) e il testo di Mt., 5, 22 sui peccati di ira. Come riferisce Giuseppe Flavio (Guerra, II, 135) gli esseni dovevano astenersi dal giuramento: ed il testo citato alla r. 9 (1 Sam., 25, 26) è appunto addotto per la limitazione del giuramento giudiziario che può essere richiesto solo dai giudici (vedi XV, 5 - XVI, 12). Celebri, al proposito, sono le parole del Vangelo: «Io, però, vi dico di non giurare affatto… Il vostro parlare sia: “sì”, se è sì; “no” se è no. Quel che si dice in più viene dal maligno» (Mt., 5, 34-37). 11. campo o «accampamento» (in ebr. maḥaneh): in contesti di questo genere è un termine tecnico che, con molta probabilità, riporta idealmente alle tende della peregrinazione desertica di Israele e ai grandi motivi religiosi ad essa connessi; in realtà, sia che a VII, 6; X I, 3-4 e nelle regole esposte in X II, 22-23; X III, 7.20 ecc. designa i luoghi ove era stanziata la comunità. Si tratta molto probabilmente delle abitazioni in capanne, tende e grotte, sotto la direzione di un solo capo comune (X IV, 8-9), ma dotate di una certa autonomia. 11-16 a. Si vedano i testi: Lev., 5, 1; Num., 5, 8.21. A proposito della disposizione sugli oggetti trovati, è interessante tutta la casistica della Mishnah nel trattato Baba’ mesî’a, c. 2. 16 b-23. L’interpretazione è piuttosto incerta. Pare che il CD specifichi che, qualora si tratti di infrazioni alla legge comportanti la pena capitale ci vogliono tre testimoni ognuno dei quali testifichi una nuova mancanza dello stesso genere. Se i testimoni sono due ognuno dei quali denuncia la stessa infrazione, non ci può essere condanna a morte, ma solo esclusione dalla purificazione: vedi Regola della com., VI, 25; VII, 3.16; VIII, 24; così è pure allorché si tratta di beni. Per queste righe si veda Deut., 17, 6 e 19, 15 che il nostro testo intende spiegare e applicare. X, 1-2. l’età richiesta per passare tra i recensiti è venticinque anni, cfr. Regola dell’assemblea, I, 8-9. 4-10 a. I giudici qui menzionati ricorrono nuovamente in X IV, 13 donde appare che era loro demandata anche l’amministrazione dei beni della comunità; questo corpo di dieci giudici era composto di quattro membri della tribù di Levi e di Aronne, cioè probabilmente un levita e tre sacerdoti (J. T. M ILIK, Dieci anni…, p. 52) e sei di Israele, era così sullo stampo del consiglio municipale delle città greco-romane d’Oriente (cfr. anche Eccle., 7. 19), e per la composizione di ogni accampamento, o campo, erano richiesti almeno dieci laici e un sacerdote (X III, 2 cfr. 1QS, VI, 3 e segg.); anche per i rabbini dieci persone costituivano il più piccolo gruppo comunitario (cfr. GIUSEPPE F LAVIO, Guerra, II, 146; Meghillâ 4, 3); è curioso osservare che la primissima comunità cristiana si componeva di circa 120 persone (At., 1, 15) e cioè di dieci persone per ogni apostolo. Ogni campo aveva dei preposti alla vigilanza dei gruppi, e al di sopra di tutti loro c’era il preposto supremo dei campi.

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Per il collegio di quindici persone di cui parla la Regola della com. vedi VIII, 1-4 e nota. 6. Del libro della meditazione o sefer hgw si parla ancora in X III, 2 e in 1QSa, I, 7, ma non si sa a che cosa precisamente l’autore si riferisca. Per ora almeno, non è identificato con alcuno degli scritti di Qumrân pubblicati. Dovrebbe, a quanto pare, trattarsi di un libro legale, ma il nome non è ancora stato spiegato in modo soddisfacente, a meno che si tratti proprio della Regola della com. (Vedi p. 114 e seg). Secondo J. Schonfield (Secrets of the Dead Sea Scrolls, London, 1956, 123) con il metodo atbash (cioè la prima lettera dell’alfabeto è uguale all’ultima, la seconda alla penultima, ecc.) hgw equivale a ṣrp (spiegare) e quindi si tratterebbe di un libro di spiegazioni, una specie di libro di storia o di meditazioni sulla storia. Secondo M. H. Goshen-Gottstein («Sefer Hagu», the End of a Puzzle, in VT, 8, 1958, 286 seg.) il termine hgh può significare: imparare, meditare, studiare, pronunciare, e perciò il libro conteneva probabilmente ordinamenti e regole per la comunità. G. Rinaldi («L’ultimo periodo» della storia. Considerazioni sulla Regola a [1QSa] di Qumrân, in Bibbia e Or., 7, 1965, 175 seg.), parte dall’osservazione che il termine scritto sia hgj (1QSa, I, 7) sia hgw, e rileva che pare trattarsi di un termine convenzionale e alquanto segreto per gli iniziati, derivante da hāgā, «meditare, bisbigliare» (vedi al proposito I. RARINOWITZ, The Qumrân Author’s spr hhgw/j, in JNES, 20, 1961, 109-114); l’espressione qumranica deriverebbe dalla prima frase del Sal., 1: «Beato l’uomo che non camminò / nel consiglio degli empi, / né sulla via dei peccatori si fermò / ….. / ma nella legge di Jahweh è il suo diletto / e nella sua legge medita (hagâ, bisbiglia) giorno e notte»; ed ancora dal Sal., 19, 15: «…le meditazioni (higgājôn) del mio cuore»; l’espressione si riferisce alla legge mosaica o più genericamente alla letteratura sacra; onde il libro della meditazione avrebbe lo stesso significato. I membri della comunità e degli accampamenti dovevano conoscere bene le «obbligazioni del patto» (e cioè le varie regole essene di Qumrân), ma il libro da meditare, il libro formativo era costituito, a quanto pare, dalle opere che ritenevano sacre e da alcune di esse in particolare, se si può giudicare dalle copie trovate. G. R. Driver dopo avere sommariamente esaminato le soluzioni proposte giudica che sia «più saggio» sospendere ogni giudizio in proposito in attesa che siano pubblicati o identificati tutti i testi scoperti: questo libro potrebbe essere uno di loro oppure non essere ancora stato scoperto (The Judaean Scrolls. The Problem and a Solution, New York, 1965, 70-71. Una ricca documentazione su sfr hgw soprattutto dalla letteratura rabbinica fu raccolta e vagliata da N. Wieder per il quale l’espressione designa tutta la Bibbia (Antico Test.): cfr. The Judean Scrolls and Karaism, London, 1962, pp. 215-251. Sul libro della meditazione dovevano essere perfettamente edotti i capi locali (X III, 2), il sacerdote capo dei molti (X IV, 8) e i giudici (X, 6) e, fin dall’infanzia, tutti i giovani (1QSa, I, 7). 7. Secondo i Num., 8, 24-25, l’età limite del servizio dei leviti va dai venticinque ai cinquant’anni; secondo Num., 4, 3.23-24 va dai trenta ai cinquant’anni; per il Lev., 27, 7 l’età del ritiro sono i sessanta anni; per la Regola dell’assemblea vedi 1QSa, I, 12-26. Norme per la purificazione, il sabato, i sacrifici, la vita quotidiana e la purità rituale: X, 10 b

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- X II, 18. 10 b - 13. A proposito delle acque per le purificazioni così comuni a Qumrân, cfr. Regola della com., III, 3-5; e il libro dei Giubilei, c. 50. 14. Nell’osservanza del sabato gli esseni erano più severi dei farisei e della normale legislazione corrente, e questo è attestato anche da Giuseppe Flavio (Guerra, II, 147). Per molte prescrizioni di questa lunga serie, si veda il trattato Shabbat della Mishna (cfr. Mishnaiot, di V. C ASTIGLIONI I-II, pp. 14 e segg. Un manoscritto composito della grotta quarta (vedi Introduzione, pp. 209 e 211) contiene le stesse prescrizioni del presente testo, ma in ordine diverso (cfr. J. T. M ILIK, Dieci anni…, 88). 21-22. L’espressione oltre i mille cubiti è scritta nel manoscritto in caratteri più grandi, forse per indicare bene la divergenza dalla regola comune; la limitazione della distanza da percorrere legittimamente si legge anche nell’ Es., 16, 29 e con più precisione in Num., 25, 4-5: ma il nostro testo è più severo: nei due luoghi citati è concesso un allontanamento di duemila cubiti. X I, 4. Nessuno… installi un ‘erûb, oppure: «Nessuno, di sua volontà, digiuni…» (Dupont-Sommer); «Nessuno metta volontariamente a repentaglio il suo avere…» (Michelini-Tocci). La difficoltà sta nel termine ‘erûb (alla lettera «mescolanza») che, con altri, prendo in senso tecnico, ad indicare cioè certe disposizioni rituali in base alle quali certe operazioni che di sabato o in altri giorni festivi erano proibite, diventavano lecite, sparendo così, in buona parte, la differenza tra giorno festivo e feriale. Vedi il trattato ‘Erûbîn della Mishna (cfr. V. GOLDSCHMIDT, Mischnajot, III, pp. 50-166; V. C ASTIGLIONI, Mishnajot, I-II, Roma 1962,-55-91). 12-17. La lettura di queste lighe richiama la profonda impressione che dovettero suscitare certe espressioni di Gesù a proposito della osservanza del sabato: «Chi è tra voi che, avendo una sola pecora, se questa cade di sabato in un fosso non va a prenderla e a tirarsela fuori?» (Mt., 12, 11). «Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato! Perciò il figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc., 2, 27-28); e la domanda rivolta ai farisei: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o ucciderla?» (Mc., 3, 4). Il testo delle rr. 16-17 è da qualche studioso ritenuto corrotto e viene perciò corretto: «Ma se qualcuno cade nell’acqua o nel fuoco, sia estratto con una scala o con una fune o qualche altro strumento del genere» (Vermes); «ma se un essere umano cade nell’acqua o in un luogo oscuro, chiunque potrà tirarlo sù con una scala o una corda o altro strumento» (M. Tocci conformemente alla correzione proposta da Ginzberg, Rabin). Con J. Maier, E. Lohse, É. Cothénet e altri, ritengo che il testo si possa mantenere così com’è, sebbene sia vero che anche la legislazione rabbinica sospendeva il sabato allorché era in pericolo una vita umana (cfr. Tosefta Shabbat, X, 22; e Mishna Joma, VIII, 7, citati da J. BONSIRVEN, Textes rabbiniques…, nn. 743, 925). Il Dupont-Sommer accetta con cautela la correzione del Ginzberg avvertendo tuttavia che si tratta semplicemente di una congettura per rendere meno inumana la legge. 18. È citata un’espressione del Lev., 23, 38, ma in un senso notevolmente forzato: questo, infatti, autorizza ogni genere di doni e sacrifici oltre a quelli regolamentari, mentre per il nostro autore il riposo sabatico vieta tutti i sacrifici che non sono

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strettamente obbligatori. Data l’astensione degli esseni dal culto sacrificale (cfr. 1QS, VI, 11, 14) una tale determinazione, e altre che la seguono, sembrerebbero strane oppure da spiegare come cronologicamente anteriori alla «rottura» con il tempio di Gerusalemme; in realtà, però, la comunità essena non ha mai condannato, in teoria, i sacrifici cruenti del tempio bensì «quel» culto e «quei» sacrifici compiuti sotto l’autorità ufficiale dei sacerdoti di allora; essi vivevano nell’attesa del prossimo ristabilimento del «vero» culto con il «vero» sacerdozio: vedi J. C ARMIGNAC, L’utilité ou l’inutilité des sacrifices sanglants dans la «Régle de la communauté» de Qumrân, in RB, 1956, 524-532; D. H. W ALLACE, The Essenes and Temple Sacrifice, in ThZ, 13, 1957, 335-338; GIUSEPPE F LAVIO (vedi l’ Introduzione generale, p. 63); e in particolare l’ Appendice. 20-21. La citazione è tratta dal libro dei Prov., 15, 8: l’autore l’intende nel senso che piuttosto di mandare al tempio delle offerte non pure è meglio rivolgere a Dio una preghiera. Da Giuseppe Flavio sappiamo che gli esseni mandavano al tempio delle offerte (testo sopra citato) e dalla Regola della com. (IX, 4-5), che la preghiera sostituisce il sacrificio. 22. L’espressione casa della prostrazione può indicare il tempio, verso il quale secondo la Mishnah si facevano tredici prostrazioni (Seqalîm, VI, 1.3), ma è forse meglio intendere la casa di riunione per la preghiera. La finale della colonna X I è monca: da alcuni è interpretata «non è infatti un sabato sacro» (É. Cothénet); E. Lohse mette il punto dopo «servizio», vede nell’espressione seguente la conclusione della trattazione sull’osservanza del sabato e legge: «Il sabato è sacro»; tutta la frase è letta da G. Vermes: «E al suono delle trombe per l’assembramento, egli andrà prima o dopo (il raduno), e non costringerà tutto il servizio ad arrestarsi, poiché è un servizio sacro». Di qui l’incertezza di tutta la frase. Secondo la più comune congettura si tratta dell’inizio delle feste e dei sabati dato dalle trombe del tempio (vedi Num., 10, 1-10); siccome gli esseni non seguivano il calendario allora corrente nel tempio, poteva ben capitare che l’annuncio di una festa dato dal clero ufficiale non fosse conforme al calendario esseno («se in anticipo o in ritardo»), e in tal caso gli esseni non dovevano osservare il riposo festivo, giacché è un servizio sacro e dunque regolato da un sacro calendario tradizionale (cfr. 1QS, X, 1 e 1QM, II, 1 e note; A. J AUBERT, Le calendrier des Jubilés et de la sede de Qumrân. Ses origines bibliques, in VT, 3, 1953, 250-264; ID., La date de la dernière Cène, in RHR, 146, 1954, 140-173; ID., La date de la Cène. Calendrier biblique et liturgie chrétienne, Paris, 1957; ID., La notion d’alliance…, Paris, 1963, pp. 100 e segg.; 211 e segg.). X II. Un frammento della sesta grotta (6Q15) che non ha alcun riscontro nel testo del CD sarebbe da porre, secondo M. Baillet, che ne curò l’edizione, all’inizio della col. X II; il passo è molto frammentario; si può leggere. «… chi giacerà con… non si deve giacere con un uomo come si giace con una donna… a Isacco e a Giacobbe di fare sparire… il patto di Dio nel loro cuore» (DJD. III. Les petites grottes, Oxford, 1963, pp. 130-131). 3. Il testo allude al Deut., X III, 6; la sorte del ribelle deve essere la morte come è detto nel Lev., XX, 27. Su Belial vedi IV, 13. 4-6. Ci si domanda se per la profanazione del sabato si debba intendere la violazione del riposo sabatico (per la quale la legge prevedeva la pena di morte,

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Es., 35, 2) o la celebrazione del sabato e delle altre feste secondo date non conformi al calendario esseno, una mancanza nella data cioè e non nell’osservanza (contemplata anche dal libro dei Giubilei, VI, 37): la questione resta discussa. Per le disposizioni che seguono si potrebbe istituire un istruttivo confronto con due trattati della Mishna (Babba Kamma e ’Avodāh Zarāh). Sulle norme dell’impurità legale vedi Lev., c. 11; e sull’impurità derivante da un morto vedi Num., 19, 11-12. Organizzazione della comunità: abitazione nelle città e negli accampamenti, l’ispettore dell’accampamento, distribuzione dei compiti, opere della comunità: X II, 19 X IV, 17a. 19. Con abitazione si traduce il termine ebr. môshab che equivale anche a «dimora, domicilio»; altri danno qui al termine il senso più generico di «organizzazione». L’accostamento tra l’abitazione nelle città e l’abitazione negli accampamenti (rr. 23 e segg.) sembra indicare che v’era una parte di esseni che non si erano separati interamente, dal punto di vista geografico, dal resto d’Israele, ed un’altra invece che viveva comunitariamente nel deserto: e questo appunto è quanto è attestato concordemente da Giuseppe Flavio e Filone (vedi l’ Introduzione generale). Sembra strano che per gli abitanti delle città le disposizioni siano così monche; vi è perciò chi avanza la possibilità che il copista abbia eliminato una serie di ordinamenti ritenuti allora superf lui; ma l’ipotesi non è necessaria. 20-21. Per la distinzione tra puro e impuro vedi VI, 17-18 e nota; sul saggio (maśkîl) vedi Raccolta di benediz., I, 1 e nota; il testo anche qui appare lacunoso in quanto promette quello che poi non dà; è da mettere in relazione alla Regola della com., IX, 12-21 ove inizialmente la corrispondenza è pressoché letterale, il che può indurre a pensare che qui si abbia un rinvio al luogo citato dalla Regola. Per il Messia di Aronne e di Israele vedi Regola dell’ass., II, 11-16 e note: una questione dibattuta e per ora insoluta resta come si debbano intendere se al singolare o al plurale — cioè come due messia o come uno solo con le qualifiche di tutti e due — i tre testi del CD nei quali si legge questa espressione (X II, 23; X IV, 19; X IX, 10): si vedano in proposito gli studi di VAN DER W OUDE, BROWNLEE, C HEVALIER, F RIEDRICH e C ROATTO citati nella Bibl. della Regola dell’assemblea. Per la divisione in gruppi vedi X, 4-10 e note; Regola della com., VI, 3-5; Regola dell’ass., II, 22. Sul «libro della meditazione» cfr. X, 6 e nota. X III, 5-6. È chiara la preoccupazione di salvaguardare sia i privilegi sacerdotali che le disposizioni legali sulla lebbra (cfr. Lev., 13-14 e la Mishna, Nega‘im, III, 1): vedi anche Regola della com., IX, 7. 7. L’ispettore è menzionato anche nella Regola della com. (VI, 12. 20), ma è soprattutto nel CD che questa persona ha un posto di privilegio; di lui si parla, infatti, in IX, 18.19; 22; X III, 6.7.13.16; X IV, 8.11.13; XV, 8.11.14. Il termine ebr. mebaqqer sebbene sia il participio di un verbo abbastanza comune non ricorre mai nell’Antico Testamento né nella letteratura ebraica posteriore. Dai testi citati si deduce che la presenza dell’ispettore era indispensabile in ogni accampamento (ebr. maḥaneh) e in ogni «abitazione» (ebr. moshab) regolamentati dal CD. Le sue funzioni erano di carattere amministrativo e spirituale: a lui spettava tanto il controllo dei beni comuni, quanto l’esame e l’accettazione di nuovi membri e il controllo sul regolare andamento della condotta di tutti, arbitrava in ogni questione; suo compito era anche l’istruzione dei «molti nelle opere di Dio», l’insegnamento delle sue

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meravigliose gesta; e aveva il dovere di comportarsi verso i membri «come un padre verso i suoi figli», «come un pastore» verso «il suo gregge»; a nessuno era lecito introdurre qualcuno nell’assemblea senza il parere dell’ispettore, cfr. in specie X III, 9-13); a lui facevano capo tutte le operazioni commerciali e amministrative di un qualche rilievo. L’ispettore era laico. A fianco dell’ispettore ogni accampamento aveva pure un sacerdote con il compito di recensire o (di «ispezionare») «i molti» (X IV, 6-8), menzionato anche in un frammento ancora inedito della quarta grotta: questo doveva essere «istruito sul libro della meditazione e in tutte le sentenze della legge». Al di sopra di tutti gli accampamenti vi era un ispettore generale (ha-mebaqqer ’asher le-kol ha-maḥanôt) che doveva possedere «la padronanza di ogni segreto umano e di ogni lingua delle loro famiglie»; la sua età doveva essere compresa tra i 30 e i 50 anni. I campi damasceni avevano dunque due capi e sebbene non sia così semplice determinare nei particolari le loro funzioni, non vi sono dubbi sui loro compiti fondamentali e sulla loro fisionomia; ad essi si aggiungeva un corpo di dieci giudici (X, 4 e segg.). Negli ispettori dei gruppi ristretti non c’è difficoltà a riconoscere gli ἐπιμελεταί e gil ἐπίτρoπoι menzionati da Giuseppe Flavio e da Filone. L’ispettore (mebaqqer) è molto probabilmente identico al paqid di cui parla la Regola della com., (VI, 14); ma non pare probabile la sua identificazione con il maśkîl o «saggio» (vedi 1QS, IX, 12), né con il dôresh ha-tôrāh, «colui che scruta la legge»; ma è possibile che nelle comunità, o accampamenti più piccoli, l’identificazione tra il mebaqqer e il maśkîl non creasse difficoltà. La stretta relazione che qualche studioso avanzò tra il mebaqqer e lo ἐπίσϰoπoς o «vescovo» del Nuovo Testamento e della chiesa primitiva non regge all’attento esame delle funzioni di queste due persone: ognuna ha mansioni ben precise che le sono esclusive, anche se non mancano punti di convergenza, primo fra tutti le funzioni amministrative; per il vescovo si pensi ai compiti pastorali, certo preminenti, al suo carattere sacerdotale monarchico della Chiesa (cfr. ad es. IGNAZIO DI A NTIOCHIA, ad Ephes., 3, 2; 4, 1 e segg; e Costit. apost., Il, 20, 3-5; nel mebaqqer lo ἐπίσϰoπoς può certo avere un antichissimo anello della sua storia. Oltre alla Bibliografia citata a proposito di Qumrân e il Nuovo Testam. (p. 101 e seg.); si veda C. S PICQ, Les epîtres pastorales, Paris, 1947; P. BENOIT, Exégèse et théologie, II, Paris, 1961; H. W. BEYER, ἐπίσϰoπoς, in ThWb, 2, 1935, 604-619. 8. Alla fine di questa riga il termine ebraico bprtjh è molto controverso e in genere si preferisce non tradurlo: Dupont-Sommer e Jaubert lo leggono «in Partia», cioè «tra i Parti»; lettura certo possibile, ed in tal caso il testo rinvia a particolari azioni divine a favore di Israele in quella regione e magari potrebbe avere una certa quale conferma nel ventilato inf lusso iraniano sulle dottrine qumraniche. R. Marcus (Bprtyh in the Damascus Covenant XIII, 7-8, in JNS, 15, 1956, 184-187) pensa invece che si debba leggere il nome greco parrhesia: cioè «con coraggio», «apertamente», con «franchezza» soluzione molto più probabile della precedente. 9-10. Per le immagini del pastore e del sciogliere le catene si veda Ez., c. 34 (e Gv., c. 10); IS., 58, 6 (e Mt., 16, 19; 18, 18). Per l’ammissione nella comunità cfr. 1QS, VI, 1323. 12. In luogo di della verità, non essendo la lettura abbastanza chiara, v’è chi preferisce «della luce», in riferimento a Regola della guerra, X III, 9 e anche all’espressione paolina in Col., 1, 12.

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14. Per l’espressione figli della fossa cfr. «figlio di perdizione» (Gv., 17, 12) e sul termine fossa cfr. 1QH, II, 21 e nota. 15. da mano a mano: cioè in contanti. Sono regolate le relazioni commerciali tra quei membri della comunità non legati alla comunanza dei beni e gli esterni (X IV, 12-15 a); mentre nelle rr. 15 b e 16 si parla delle stesse relazioni nell’interno della comunità. Le righe seguenti contengono un notevole numero di lacune per cui il loro senso resta problematico: per la ricostruzione ci si è qui serviti di VII, 9.11; X II, 23. Sul «messia» (r. 21) vedi X II, 23. I testi biblici citati a X III, 23 e X IV, 1-2 sono nell’ordine: Is., 7, 17; Sal., 89, 29 e Prov., 13, 14; 14, 27. Sull’espressione «il patto di Dio…» vedi VII, 5. X IV, 3-12. In queste righe è trattata l’organizzazione della comunità essena: per l’iscrizione dei membri e per l’ordine delle sedute vedi Regola della com., V, 23; VI, 813. Il testo inizia con il censimento annuale; secondo la Regola della com. (II, 19-23) i membri sono divisi in tre classi (sacerdoti, leviti, popolo), mentre secondo Giuseppe Flavio (Guerra, II, 150) le classi erano quattro, come afferma il nostro testo (sacerdoti, leviti, popolo, proseliti), reclutati tra gli ebrei. Si veda ad es.: L. ROST, Zur Struktur der Gemeinde des Neuen Bundes im Lande Damaskus, in VT, 9, 1959, 393-398; ID., Qumrân probleme: Eine Überschau, in ET, 1958, 97-112. Per il «libro della meditazione» vedi X, 6; e sui limiti d’età vedi X, 7; Num., 4, 3.23. 6 b-8. Sul sacerdote che recensisce i molti, che cioè è a capo dell’accampamento, vedi X III, 2-3. Sull’assemblea dei molti vedi Regola della com., VI, 11-13; VII, 9-12. 10. Il termine ebraico sôd che traduco con segreto si può tradurre anche con «consiglio» (vedi 1QS, VIII, 1), senso possibile ed anche in accordo con il contesto, ma in tal caso non si tratta di una dote morale, bensì dell’estensione dell’autorità dell’ispettore; tuttavia il contesto seguente sembra esigere una qualità morale. 12-17. La disposizione sul salario si riferisce ai membri della comunità che non vivono nella completa comunanza dei beni (Regola della com., VI, 19-20). Il contesto generale di queste righe e delle precedenti richiama spontaneamente la narrazione di Luca a proposito dei coniugi Anania e Saffira (Atti, 5, 1-11), tipica del primitivo fervore dei cristiani gerosolomitani, sebbene l’assoluta libertà dei cristiani e l’obbligatorietà per gli esseni di Qumrân ne costituisca una differenza essenziale. 16. Con il termine protettore ho tradotto la voce ebraica go’el derivante da una radice che significa «riscattare, rivendicare», ma fondamentalmente «proteggere» e designa il congiunto al quale la legge ebraica, in determinate circostanze, riconosceva il diritto o imponeva l’obbligo di liberare i parenti o proteggerne i diritti; duplice concetto di parentela e di tutela particolarmente interessante dal punto di vista sociale, come nel presente caso, e dal punto di vista religioso come quando il termine è applicato a Dio nei riguardi del popolo (ad es. Es., 6, 6; 15, 13; Is., 41, 14). 17. È stato proposto di vedere qui l’inizio di una sezione di un corpo legale (come quello di 1QS, VI, 24 - VII, 25) andata perduta; non si può tuttavia scartare l’ipotesi (di J. T. M ILIK, in RB, 1956, 61) che vede qui una ricapitolazione di quanto precede.

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18-22. Di queste ultime righe sono stati trovati due frammenti a Qumrân, nella quarta grotta con un codice penale nel quale, particolare interessante, i colpevoli sono trattati in modo meno severo; la ricostruzione totale è impossibile; nella r. 19 è comunque attestato il termine messia al singolare; le ultime parole del CD erano, secondo il Milik, dell’ultima legge e si riferivano a XX, 8-9 ove si parla delle prime leggi (J. T. M ILIK, loc. cit.). Cfr. l’ Introduzione, p. 209. Norme sui giuramenti, sull’ammissione nella comunità, sul giuramento d’ingresso, sui doni volontari: XV, 1 - XVI, 19. Sulla posizione di queste due colonne nell’ordine originario del testo vedi l’Introduzione: secondo alcuni studiosi, infatti, il loro posto sarebbe immediatamente prima della colonna IX, rappresentando la prima parte dei così detti «ordinamenti» del Docum. di Dam. Si segue l’ordine tradizionale, soprattutto per la comodità delle citazioni. XV, 1-5 a. Sul giuramento presso gli esseni vedi IX, 9 - X, 3 e Giuseppe Flavio (qui sopra a p. 59). L’inizio della colonna è disturbato, come la finale della colonna precedente, dal cattivo stato del testo. Non si può giurare né per Elohim, cioè per «alef e lamed» che sono le prime lettere di questo nome (’el = Dio), né per Adonai, cioè per «alef e dalet» prime lettere del nome, né per «la legge di Mosè» (cfr. Mt., 5, 34-36). È interessante ricordare che la Mishna ha un trattato, cioè shbû‘ôt, dedicato esclusivamente alle modalità e al lecito e illecito in merito al giuramento; quivi si legge tra l’altro: «Se uno dice giuro “ per alef-dalet, per jod-he (cioè Jahweh), per Shaddai, per Shebaot, per il clemente e il benigno, per il longanime e grandemente misericordioso, o per qualsiasi altro attributo divino” è colpevole» (loc. cit., 4, 13: trad. V. C ASTIGLIONI Mishnajot, III-IV, Roma, 1962, 193). 3. La finale: se invece giura… pare faccia una netta distinzione tra le formule ove ricorre un nome divino o la legge, e quelle in cui non ricorre (cfr. Lev., 5, 1-7 al quale il presente si riferisce). 5 b-16. Modalità e norme per l’ammissione nella comunità. Il primo periodo è alquanto difficile a motivo del doppio casus pendens. Allorché uno entra… con i suoi figli… si impegneranno. Invita a scegliere questa traduzione sia il testo di XVI, 7, 9 che il parallelo della Regola dell’ass., I, 8-9; l’età per passare tra i recensiti è di vent’anni: i figli degli esseni devono dunque a questa età impegnarsi personalmente con giuramento all’osservanza del patto. Secondo il Rabin, invece, è il padre che, a mano a mano che raggiungono l’età, deve fare prestare tale giuramento ai figli. Sull’ispettore dei molti, vedi X IV, 8-12 e Regola della com., VI, 12. Sul ritorno (o conversione) di quanti s’impegnano nel patto vedi Comment. al Sal. 37, I, 2 e II, 1-6 e nota ivi. Il segreto conservato dagli esseni sulle loro istituzioni e dottrine è rilevato anche da Giuseppe Flavio (Guerra, II, 137-138: vedi p. 60 [§ 142]). 11. lo giudichi semplice: traduce un termine ebraico (il verbo pth) che significa «essere aperto, ingenuo, semplice», quindi facile preda all’altrui astuzia; lo si trova in riferimento agli adolescenti aperti a tutti gli inf lussi, e più ai cattivi che ai buoni (Prov., 1, 22; 9, 4-6), agli incapaci (Regola dell’ass., I, 19-20) e anche alle persone ingenue (Inni, II, 9; VIII, 18); qui il senso è reso chiaro dal contesto. La finale della colonna è interamente perduta. La versione data è fondata su

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frammenti provenienti dalla quarta grotta di Qumrân che il Milik anticipò provvisoriamente (Dieci anni…, 57-58; Ten Years…, 114). Un testo molto simile si legge in 1QS a, II, 3-9 ove si riferisce alla futura assemblea e non a quella presente quaggiù; queste liste (cfr. anche 1QM, VII, 3-6) sviluppano quelle dei difetti che non si devono riscontrare nei sacerdoti secondo la legge del Pentateuco e manifestano quanto gli esseni di Qumrân avessero esteso e approfondito certi requisiti che la legge limitava ai sacerdoti. Non v’è dubbio che vedevano una relazione negativa tra le deficenze fisiche e mentali da una parte e la partecipazione alla comunità dall’altra. Leggendo l’invito al banchetto del regno promulgato da Gesù («Esci… per le piazze e per le vie della città e porta qui poveri, storpi, ciechi e zoppi» [Lc., 14, 2021]) viene da pensare a una forte punta polemica e alla distanza che separa le due concezioni. XVI, 1-6 a. Giuramento d’ingresso nel patto: cfr. sull’argomento Regola della com., V, 7-11. L’inizio della colonna si lega con la finale della precedente, andata perduta. 3. libro delle divisioni: si tratta del libro dei Giubilei (del quale a Qumrân furono trovati frammenti di diversi manoscritti) che divide la storia del mondo in settimane e giubilei (cioè in 7 e in 7x7) di anni ed annette grande importanza al calendario solare come gli scritti di Qumrân (Cfr. A. J AUBERT, La date de la Cène. Calendrier biblique et liturgie chrétienne, Paris, 1957, 13-30. ID., La notion d’alliance…, Paris, 1963, pp. 100 e segg). Il libro dei Giubilei inizia: «Ecco la storia della divisione dei giorni, della legge e della testimonianza, degli eventi degli anni, delle loro settimane, dei loro giubilei lungo tutti gli anni del mondo…». 5. angelo dell’ostilità o angelo «mastemah» (cfr. Os., 9, 8) il sostantivo mastemah si legge assai spesso nei Giubilei come nome proprio, ma non così nel presente testo (vedi 1QM, I, 5 e nota ivi). Il versetto seguente allude a Gen., c. 17, ove è narrata la circoncisione di Abramo: l’autore pare voglia dire che Abramo si fece circoncidere allorché seppe che la circoncisione avrebbe tenuto lontano da lui «l’angelo dell’ostilità» e per istituire un parallelismo tra la circoncisione (che costituiva nella carne del patriarca un segno del patto perpetuo tra Dio e lui, Gen., 17, 13) e l’ingresso nella comunità del patto. Ed anche qui non manca con tutta verosimiglianza (ché non si comprenderebbe l’accostamento di Abramo con l’angelo dell’ostilità, totalmente assente dalla Bibbia) un riferimento al testo del libro dei Giubilei ove è appunto narrata la circoncisione del patriarca: «Molti sono i popoli e molte le nazioni, ma al di sopra di tutti egli ha posto degli spiriti aventi il potere di allontanare da lui. Sopra Israele però non pose né angeli né spiriti, giacché lui solo è il suo signore; egli lo preserverà e lo reclamerà dalle mani dei suoi angeli e dei suoi spiriti» (Giubilei, 15, 31-32). 6 b-16. Obbligatorietà di alcuni giuramenti. All’inizio è citato il Deut., 23, 24 a proposito dei voti; e più avanti (rr. 10-11) il testo si riferisce alla legislazione di Num., 30, 4-9. 9. L’espressione impegnarsi per la sua vita è spiegata bene da Giuseppe Flavio ove asserisce che il giuramento degli Esseni obbligava, anche in caso di violenza (vedi pp. 60-61); e la Regola della com., V, 8.10. 13-19. I doni spontanei erano una categoria di sacrifici così detti perché non richiesti dalla legge né da una obbligazione personale dell’offerente, bensì

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venivano presentati per pura devozione; su di essi vedi Lev., 7, 16-21 e 22, 18-23. 15-16. L’espressione, sebbene apparentemente oscura, si comprende assai bene tenendo presente da una parte il doppio ḥerem, «inganno» e «anatema» (il testo citato è del profeta Mich., 7, 2) e d’altra parte l’uso invalso di dichiarare dono spontaneo qualche cosa che invece doveva essere dato al prossimo come è testimoniato anche dal Vangelo: «Voi… dite: “ Se uno dice al padre o alla madre: sia corbàn, cioè offerta sacra, ciò con cui avrei dovuto aiutarvi ” non gli consentite di fare più nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio a pro della tradizione da voi trasmessa. E di cose simili ne fate tante!» (Mc., 7, 11-13). X IX-XX. Queste due colonne rappresentano il cosiddetto manoscritto B il cui testo in parte corre parallelo alle colonne VII-VIII del manoscritto A, e in parte ne costituisce il proseguimento. La numerazione qui seguita fu introdotta da S. Schechter nell’edizione classica del 1910 e fu accettata dalla grande maggioranza degli studiosi a tutt’oggi; sebbene infatti ponga dei problemi e non sia neppure giustificata — in quanto mancano le colonne XVII-XVIII — è tuttavia più comoda appunto perché generalmente seguita da tutti. Dupont-Sommer pone questo testo dopo la colonna VIII numerandola come B I e II. Per questo problema vedi l’ Introduzione. Per tutta la colonna X IX rinvio alle spiegazioni date nelle due colonne che le sono parallele (VII-VIII); le citazioni bibliche sono le seguenti: Deut., 7, 9: r. 1 b-2; Num., 30, 17: r. 5; Zacc, 13, 7: r. 7-9; Ez., 9, 4: r. 12; Os., 5, 10: r. 15; Deut., 32, 33: r. 22; Deut., 7, 8 e cfr. 9, 5: r. 27; per le rr. 3435: Ez., 13, 9; e per l’allegoria del pozzo e delle acque, vedi III, 16 e VI, 4. Il termine tolto traduce l’ebr. hē’âsēf (da ’âsaf) che nell’Antico Testamento si legge normalmente per designare il fatto del «ricongiungimento» di una persona che muore ai suoi antenati nella tomba di famiglia (cfr. Gen., 25, 8.17; 35, 29; 49, 29. 33 ecc.) senza connotare il genere della morte, se violenta o tranquilla. 9. Poveri…: Zac, 11, 7. XX, 1. Di qui in poi il testo rappresenta il proseguimento della colonna VIII. Sul maestro unico e sul messia vedi I, 11; 1QS a, II, 11. Gli eliminati dalla comunità: XX, 1 b-13 a. 8. I santi dell’Altissimo sono gli angeli (cfr. Dan., 4, 10): le maledizioni contro i membri cattivi della comunità fanno eco a quella celeste (cfr. Regola della com., II, 418). 9. immondezze…: è un termine dispregiativo usato da Ez., 14,3 per designare gli idoli; ma qui probabilmente sta per il culto idolatrico del proprio io, l’orgoglio. Per l’ostinazione… (r. 10) e per gli uomini dell’arroganza (r. 11) vedi I, 14; II, 18 e V, 12-13. L’ira e la grazia di Dio; giudizio contro i rinnegati: XX, 13 b-27 a. 14. soppressione…: allusione al Deut., 2, 14. 15. uomo di menzogna: cfr. Commento ad Abacuc, II, 1-2; sui quarant’anni vedi I, 5 e nota. 16-22. In queste righe sono citati, nell’ordine, i seguenti testi biblici: Os., 3, 4; Is., 59, 20; Mal., 3, 16; Es., 20, 6 con Deut., 7, 9. 18. Invece di renda giusto altri preferisce tradurre «conduca suo fratello alla giustizia».

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22-24. Il testo è incompleto e il senso è incerto. Prima di casa di Peleg la stragrande maggioranza degli studiosi (non però ad es. A. Dupont-Sommer) vede un vuoto testuale; la lettura dei termini via, empie e tutti è molto dubbia (in luogo di empie spesso si legge poche). Ecco qualche esempio di versioni diverse da quella qui data: A. M. Habermann non legge le ultime parole, arrestandosi a «popolo» e intende: «E tutti gli uomini della casa di Peleg che uscirono dal luogo santo e si appoggiarono a Dio nel tempo in cui Israele era infedele e contaminava il santuario e ritornarono a Dio (in) mezzo al popolo… ognuno sarà giudicato…». A. Dupont-Sommer: «La casa di Peleg (sono) coloro che uscirono dalla città santa e si sono appoggiati a Dio nel tempo in cui Israele era infedele e contaminava il Santuario, e si sono convertiti a Dio. Ma il popolo, in poche parole, tutti loro, ognuno secondo il suo spirito, saranno giudicati…». G. Vermes: «E ogni membro della casa di Separazione che uscì dalla città santa e si appoggiò a Dio nel tempo in cui Israele peccava e contaminava il Tempio, ma poi ritornò nuovamente sulla via del popolo in materie di poco conto [in small matters], sarà giudicato secondo il suo spirito…». Con quest’ultima traduzione concorda anche F. Michelini-Tocci. Secondo alcuni studiosi si tratta di quegli Ebrei che per qualche tempo seguirono il movimento di Qumrân, ma poi se ne distaccarono: secondo questa interpretazione «casa di Peleg» sono costoro in quanto si divisero dalla «città santa», cioè da Gerusalemme, alla quale poi ritornarono nuovamente abbandonando il movimento esseno di Qumrân o del nuovo patto del CD (così pensano ad es. J. Maier, A. Dupont-Sommer e altri). Ma altri studiosi (ad es. G. Vermes, É. Cothénet, ai quali mi associo), pur riconoscendo che con «città santa» è generalmente intesa Gerusalemme (cfr. ad es. Is., 48, 2; 52, 1; Neem., 11, 18; e Parole lum., IV, 12), detta anche «città del santuario» (CD, X II, 1-2), dubitano si abbia ad intendere in questo senso e propongono di vedere qui designata non già Gerusalemme (per questi esseni di Qumrân la città profanata poteva essere ancora denominata «città santa»?), bensì la comunità dei fedeli al movimento qumraniano, come si può facilmente dedurre da alcuni testi (cfr. IV, 1-5; VII, 14-15; Regola della com., VIII, 5). Questa interpretazione ha le sue radici in due considerazioni: la prima è costituita dal testo di Es., 19, 6 ove Dio dice al popolo fedele: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa»; la seconda è rappresentata dalla valutazione religiosa dei deportati (viva soprattutto in Geremia ed Ezechiele) secondo la quale la divinità, la «gloria di Jahweh», abbandonò il tempio profanato, andò con gli esiliati in Babilonia, parte eletta del popolo, e ritornò solo dopo la loro liberazione (cfr. Ez., 10, 18 e segg.; 11, 22 e segg.; c. 43); una sostanziale replica di questa dottrina è testimoniata anche nel Nuovo Testamento (cfr. Ap., 12, 2.10; 22, 19) a proposito della Gerusalemme celeste. «Casa di Peleg» equivale a «casa della divisione, della discordia» come si può dedurre dal libro dei Giubilei (8, 8) e dal testo della Genesi, 10, 25: «A Eber nacquero due figli: uno ebbe nome Peleg, perché ai suoi tempi la terra fu divisa» (in ebr. niplegāh da pālag, «dividere, spartire»); equivale alla «casa di Assalonne» della quale si parla nel Comment. ad Abacuc (V, 9); nello stesso significato simbolico si legge pure nel Comment. a Naum (IV, 1). Molto probabilmente dunque «casa di Peleg» sono quei membri che

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abbandonarono la «città santa» cioè la comunità, alla quale avevano aderito, diventando poi fautori di divisione e discordia. 27. delle loro fornaci: cioè della loro purificazione; su questa simbologia della fornace, derivata dalla fusione di minerali per l’estrazione di metalli puri, vedi Is., 48, 10; Ger., 6, 29; Zacc., 13, 9; Mal., 3, 2; Regola della com., I, 17; VIII, 4; Inni, I, 22; III, 8; V, 16 ecc. La gioia finale dei convertiti perseveranti nel giorno dell’ultima visita: XX, 27 b-34. 28. Il maestro è senza dubbio il maestro di giustizia: vedi r. 32; sull’obbedienza ai suoi insegnamenti, vedi Comment. ad Abacuc, II, 6-8; VIII, 2-3. 29-30. Una formula analoga si legge nella Regola della com., I, 24-26. 32. Invece di uomini dell’Unico si potrebbe leggere con una leggera modifica «uomini della comunità» come nel testo della Regola della com., IX, 10. 34. Echi del Sal., 33, 21 e 37, 40.

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REGOLA DELLA GUERRA (1QM)

Il testo. Acquistato (nel 1947) per conto dell’Università ebraica di Gerusalemme, presso un antiquario di Betlemme da E. L. Sukenik con il rotolo degli Inni e il secondo rotolo di Isaia, il manoscritto proviene dalla I grotta di Qumrân e consta di diciannove colonne; di esse il Sukenik pubblicò solo una minima parte in Meghillôth ghenûzôth (Rotoli nascosti) I-II (Gerusalemme 1948– 1950); l’editio princeps (con le fotografie e la trascrizione dei tre rotoli), a causa della morte del Sukenik (1953), da un comitato dell’Università ebraica di Gerusalemme, fu affidata al figlio, Y. Yadin, a N. Avigad e J. Licht i quali la dotarono dei capitoli introduttori dello stesso Sukenik già apparsi nelle Meghillôth ghenûzôth I-II, e apparve nel 1954 con il titolo ’Oṣar hameghîllôth ha-ghenûzôth («Tesoro dei rotoli nascosti»); dell’opera fu curata anche un’edizione con l’introduzione in inglese (vedi Bibliografia). Un anno dopo, per desiderio dello stesso comitato, Ygael Yadin (che nel 1948 poco prima di prendere la direzione della Guerra di Indipendenza come capo di stato maggiore aveva avuto modo di esaminare gran parte del rotolo) pubblicò il testo restaurato del nostro manoscritto con un commento e una ampia introduzione: studio vasto, completo, esauriente ed insieme brillante tentativo di individuare e sciogliere i molteplici problemi di questo rotolo (l’opera fu tradotta in inglese nel 1962), da completare comunque con il commento del van der Ploeg e quello più recente di B. Jongeling. Il rotolo, di pelle, ha una lunghezza di 290 cm., consta di quattro fogli uniti, più un quinto staccato e in pessimo stato, che per opera di frammenti scoperti posteriormente nella stessa grotta fu possibile connettere ai fogli precedenti e dedurre, con buona approssimazione, che alla conclusione originale del testo mancavano alcune righe. La lunghezza dei fogli non è uguale: il primo foglio consta di quattro colonne, il secondo di sei, il terzo di cinque, il quarto di tre; del quinto si ha una sola colonna molto danneggiata e molto verosimilmente ne conteneva almeno ancora una. Come quella contenente il commento ad Abacuc, la parte inferiore del rotolo è consumata, sicché tutto spiegato, ha una caratteristica forma frastagliata a onda; in tal modo nessuna delle diciannove colonne ha il numero originale di righe e il loro testo risulta così incompleto. Fondandosi sulla probabile ricostruzione della colonna VIII sia Sukenik che Yadin, e altri dopo di loro, ritengono che nella lunghezza originale le 253

colonne avessero una media di venti righe; forse si può giungere fino anche a ventuno-ventidue, ma è certo esagerato e gratuito il calcolo di ventottotrenta righe proposto da J. Carmignac. Le righe che sono conservate integralmente o con semplici tracce variano da un massimo di diciotto a un minimo di tredici. La scrittura è elegante, molto simile a quella del secondo rotolo di Isaia (1QIsb), degli Inni (1QH) e del Commento ad Abacuc (1QpAb). L’amanuense, o scriba, ha avuto cura di dividere il testo in piccole unità o paragrafi andando a capo ogni qual volta il paragrafo precedente terminava nella prima metà della riga e lasciando un’intera riga bianca allorché occupava anche maggior parte della seconda metà; le due uniche eccezioni sono rappresentate da IV, 6 e XVII, 10. Questa osservazione ci porta a distinguere la Regola in ventotto paragrafi dei quali ventiquattro sono sicuri (I, 1; I, 7; II, 16; III, 13; IV, 6; IV, 15; V, 3; V, 16; VI, 8; VII, 9; IX, 10; XI, 13; XII, 7; XIII, 4; XIII, 7; XIII, 18; XIV, 2; XIV, 16; XV, 4; XVI, 3; XVI, 11; XVII, 4; XVII, 10; XVIII, 10) e quattro molto probabili data la frammentarietà del testo (alla fine delle colonne VI, IX, XVIII e a XIX, 9); un ulteriore paragrafo è testimoniato dal frammento pubblicato da Hunzinger (vedi Bibliografia) in XIV, 4; Y. Yadin distingue trentun paragrafi (egli li chiama «sezioni»), pur non tenendo conto di quello del frammento Hunzinger, perché ne introduce tre in passi ove il testo è frammentario. La presente traduzione ne segnala dunque ventinove. Quanti fossero in origine i paragrafi non si può stabilire a causa delle notevoli lacune del manoscritto. Il testo fu molto curato e doveva godere di un’ampia diffusione. Chiari riscontri e convergenze si osservano ad es. con il Commento al Salmo 37 (4QpPs 37, I, 4-8) e con il Commento a Isaia (4QpIs a II, 1 e segg.; Is b, II, 1 e segg.), e fu corretto con una certa puntigliosità sia dall’amanuense sia, almeno, da un’altra persona che qua e là intese veramente modificare il testo, non correggerne semplicemente eventuali errori. Alcuni casi interessanti come i puncta extraordinaria, erano stati subito notati dal Sukenik e la collezione dei casi più interessanti è presentata da Y. Yadin.

Titolo e analisi. L’espressione con la quale E. L. Sukenik designò fin dall’inizio il manoscritto, «rotolo della guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre», ne sintetizza il contenuto, ma non è certamente il titolo originale; questo, almeno per ora, non lo conosciamo: presentando il manoscritto uno squarcio proprio all’inizio, mancano le prime parole che in queste opere, 254

com’è noto, costituiscono appunto il titolo. Colmando la lacuna iniziale, e tenendo conto del fatto che si tratta senza dubbio di una delle regole fondamentali dei qumraniani, si può ritenere per valido il titolo, universalmente accettato, di Regola della guerra. La lettura «M» che segue l’indicazione della grotta nella quale fu trovato il grande rotolo è una abbreviazione della parola ebraica milḥāmāh, «guerra». L’analisi presenta molte difficoltà. Le linee fondamentali ritengo che siano le seguenti. L’autore presenta innanzi tutto i due grandi schieramenti che dividono l’umanità: i figli della luce, cioè gli ebrei, e i figli delle tenebre, cioè tutti gli altri popoli della terra. La guerra inizierà allorché «gli esuli dei figli della luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme» (I, 3), e comprenderà tre grandi fasi corrispondenti alla posizione geografica dei nemici rispetto a Gerusalemme: la prima fase durerà nove anni e sarà rivolta contro i popoli figli di Sem come gli ebrei e loro tradizionali nemici; la seconda fase della durata di dieci anni, sarà rivolta contro tutti i popoli discendenti da Cam; la terza fase, anch’essa della durata di dieci anni, sarà impegnata nella lotta contro tutti i figli di Jafet; queste tre fasi, di complessivi ventinove anni, saranno precedute da sette anni — sei di preparazione e uno sabatico — e interrotte dopo ogni sei anni per 1 anno sabatico. Complessivamente dunque questa guerra sarà così suddivisa: 6 anni di preparazione, 29 anni di guerra effettiva, 5 anni sabatici; in tutto 40 anni. Per Y. Yadin il periodo di 40 anni ha una divisione diversa: vedi II, 9 e nota. Nella condizione in cui è giunto a noi, tenendo conto degli studi precedenti, in particolare di quelli di Y. Yadin e di J. van der Ploeg, il testo si può analizzare come segue: I) Quadro generale: I, 1-II, 14. Introduzione, ritorno a Gerusalemme degli esuli dei figli della luce, i figli di Levi, di Giuda e di Beniamino e le tre fasi della guerra (I, 1-7); «giorno in cui i Kittîm cadranno»: descrizione apocalittica dello sterminio definitivo dei figli delle tenebre, al settimo scontro con i figli della luce, dopo le alterne vicende nei sei scontri precedenti (I, 8-16); organizzazione del culto nel tempio per tutto il periodo della guerra; piano generale della guerra: l’epoca preparatoria e le tre fasi di combattimento (II,1-14). II) Norme particolari per la guerra: II, 16 IX, 16. Regola per le trombe in pace e in guerra, e iscrizioni che ne devono contraddistinguere l’uso nelle varie fasi delle battaglie (II, 16-III, 11); regola per le insegne in pace e in guerra, le iscrizioni che devono portare e le misure che devono avere (III, 13 IV, 17), lo «scudo del principe di tutta l’assemblea» (V, 1-2). 255

Regola per la disposizione da combattimento, descrizione delle armi, l’età dei combattenti e degli addetti a compiti complementari, le persone che devono essere escluse, la purità degli accampamenti e dei combattenti (V, 3 VII, 7). Compiti dei sacerdoti e dei leviti tra i combattenti: indumenti che devono indossare, le trombe e i corni che portano e i segnali che devono dare dirigendo le operazioni belliche (VII, 9-IX, 9). Regola per il cambiamento delle formazioni da combattimento; descrizione della torre, dei suoi uomini e dei quattro angeli (IX, 10-16). III) Assistenza religiosa e morale ai combattenti: X, 1 -XIV, 18. Parole di incitamento da parte dei sovrintendenti, benedizioni e maledizioni dei sacerdoti e leviti, e in particolare suppliche e inni di ringraziamento del sommo sacerdote. IV) La battaglia decisiva contro i Kittîm: XV, 1 XIX, 13. La redenzione eterna per il partito di Dio, cioè gli ebrei, e l’annientamento per ogni nazione empia, saranno preceduti e accompagnati da giorni di angoscia: quest’ultima parte del rotolo descrive i sette momenti della battaglia decisiva. I combattenti si schiereranno di fronte al re dei Kittîm, il sommo sacerdote darà le ultime norme, li inciterà alla lotta e innalzerà una preghiera a Dio (XV, 1 XVI, 1); primo attacco dei figli della luce (XVI, 3-9); prima risposta dei figli delle tenebre, temporanea disfatta e ritirata dei figli della luce, intervento del sommo sacerdote per incoraggiare e innalzare una preghiera a Dio (XVI, 11 -XVII, 9); secondo attacco dei figli della luce e contrattacco dei figli delle tenebre: le alterne vicende si susseguono e al terzo attacco, cioè al sesto scontro si delinea il sopravvento dei figli delle tenebre (XVII, 10-17); nel settimo e ultimo scontro, quando la sconfitta dei figli della luce pare certa, interviene Dio e capovolge le sorti: «i figli di Jafet cadranno per non rialzarsi più, i Kittîm saranno fatti a pezzi» (XVIII, 2); al calare del sole, il sommo sacerdote innalza a Dio un inno di ringraziamento (XVIII, 4-XIX, 8); il dì seguente i figli della luce ritornano sul campo di battaglia ove il sommo sacerdote innalza un nuovo inno di ringraziamento (XIX, 9-13). Verosimilmente il rotolo terminava con le preghiere del ritorno a Gerusalemme e con il ringraziamento al Dio di Israele nel tempio, ma non si può escludere la possibilità che contenesse anche un breve accenno alla conquista dei paesi menzionati i cui eserciti erano stati sconfitti; come è stato sopra rilevato, da un frammento della grotta 1 di Qumrân si deduce che il rotolo conteneva almeno ancora una colonna.

Scopo, fonti, attori, idee fondamentali della Regola.

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Nonostante molteplici accostamenti con altri testi già noti, come i libri di Enoc, dei Giubilei, dei Testamenti dei dodici patriarchi — tutti ben noti ai qumraniani come dimostrano i frammenti scoperti —, l’autore della Regola non assume il nome di una personalità del passato, né riallaccia il suo scritto a una rivelazione divina, ma parla con sicurezza e autorità presentando apparentemente la sintesi di una materia che si direbbe già nota ai suoi lettori. Senza dubbio il suo scopo principale era di provvedere la setta di norme e piani particolareggiati per quella «guerra di sterminio dei figli delle tenebre» (I, 10) decisa da Dio da molto tempo e ora prossima a realizzarsi; ma intendeva anche mettere in evidenza che la guerra esigeva un’ottima preparazione bellica, che essa non esentava dall’osservanza delle prescrizioni legali mosaiche e tradizionali, ché anzi le due cose erano ben componibili, e sottolineare che nonostante la vastità e l’arditezza dell’impresa da Dio assegnata agli ebrei (soli contro tutti i popoli e contro uomini empi della loro stessa stirpe, ma passati al nemico) l’esito sarebbe stato felice, nonostante alterne vicende e perdite; tuttavia la loro forza tattica bellica doveva essere accorta, le armi efficienti, il coraggio e la forza sostenuti da Dio, invocato continuamente nel tempio di Gerusalemme e sui campi di battaglia. L’autore ha così realizzato il più antico, accurato e preciso trattato di guerra ebraico. Tra le fonti principali dello scritto vi è naturalmente la letteratura bellica che l’autore dimostra di conoscere benissimo e in particolare i testi escatologici e apocalittici e quelli che trattano dei nemici di Israele; il testo biblico stilisticamente più vicino è il libro del profeta Daniele. Non mancano connessioni più o meno profonde anche con la letteratura ebraica apocrifa e con altri testi di Qumrân (ad es. la Regola della comunità e gli Inni). In alcuni passi l’autore si basa su testi normativi del Pentateuco come per le trombe (II, 16 e segg.), le insegne (III, 13 e segg.), il discorso prima della battaglia (X, 5) ecc. Ma le fonti bibliche sarebbero state insufficienti perché praticamente nulle per quanto riguarda l’organizzazione militare, le armi, le diverse tattiche belliche, la partecipazione dei sacerdoti e leviti, ecc… L’unica fonte veramente utile per l’epoca degli Asmonei potevano essere i libri dei Maccabei, i cui autori purtroppo non dimostrarono alcun interesse per i metodi di combattimento, i problemi organizzativi, le armi ecc… Anche la letteratura apocrifa dell’epoca si mantiene su linee generali nel descrivere le guerre. L’autore doveva avere a sua disposizione fonti militari a noi ignote; un passo che doveva contenere il titolo di una di tali fonti è purtroppo mutilo, la sua ricostruzione è dubbia (XV, 6) e un altro è oscuro (XV, 5). È molto probabile che non solo per le parti più strettamente tecniche, ma 257

anche per le sezioni religiose (preghiere, inni, ecc.) della guerra e per le modalità degli interventi dei sacerdoti e dei leviti l’autore avesse a disposizione delle fonti a noi finora ignote. Al problema delle fonti è strettamente connesso quello della composizione letteraria, di cui tratterò appresso. Gli attori della guerra sono, da una parte, designati come «figli della luce» e «i figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamino, gli esuli del deserto» (I, 21-2); espressioni che contraddistinguono anzitutto i seguaci della setta, ma successivamente e con essi anche i membri delle altre tribù ebraiche, ad eccezione però di quegli ebrei che avevano fatto causa comune con i nemici e cioè «agiscono empiamente verso il patto» (I, 2). Questo esercito era composto da due gruppi di fanterie: uno ad armamento leggero, comprendente 21.000 uomini (cfr. III, 1 e nota), l’altro ad armamento pesante, comprendente 7.000 uomini (cfr. V, 3 e nota), e da due gruppi di cavalleria uno leggero di 4.600 uomini, l’altro pesante di 1.400 uomini (cfr. VI, 8 e nota); di esso facevano parte capi degli accampamenti, sovrintendenti, personale addetto a spogliare i caduti, a raccogliere il bottino, a purificare la terra, a custodire i bagagli dei combattenti e al vettovagliamento (cfr. VII, 1-3). L’obbligo militare inizia a 25 anni e termina a sessanta; ai giovani dai 25 ai 30 anni sono affidati soltanto servizi ausiliari; l’età dei combattenti è compresa dai 30 ai 50 anni; dai 50 ai 60 anni è l’età dei capi degli accampamenti. La grande importanza che doveva avere il clero (sacerdoti e leviti) in questa guerra si rileva dalla notevolissima parte riservata al suono delle trombe, aventi soprattutto carattere religioso, ma anche una vera e propria funzione bellica (cfr. III, 2-11; VII, 12-IX, 9 ecc.), dall’organizzazione del culto durante la guerra (cfr. III, 1-4), dalla accurata designazione degli abiti che devono indossare (VII, 9 e segg.) e, in fine, dalla vasta e profonda funzione attribuita sia al sommo sacerdote che agli altri nell’incitamento alla battaglia, nell’incoraggiamento, nella recita di benedizioni e di maledizioni, di suppliche a Dio e inni di ringraziamento. È appunto al carattere, al movente essenzialmente cultuale e religioso che sono dovute alcune esenzioni temporanee o perpetue da qualsiasi servizio militare e certe norme per gli accampamenti (cfr. VII, 3-7 e nota). Dalla descrizione di questa guerra guidata dal sommo sacerdote e dal principe di tutta l’assemblea, emana un’atmosfera di esaltazione e di odio che nei seguaci della setta creò certo un’illusione di realtà, per cui non è improbabile che lo scritto, dai capi della resistenza ebraica, sia stato 258

considerato un ottimo strumento di propaganda bellica contro i romani e contro tutti i goîm. Dei nemici, del loro esercito, della loro organizzazione e tattica bellica, è detto pochissimo. Per la prima fase della guerra sono menzionati Edom, Moab, i figli di Ammon, gli Amaleciti, i Filistei, i Kittîm di Assur, gli ebrei che la setta considerava traditori e persecutori dei giusti, e i discendenti di Sem menzionati nella tavola dei popoli che si trova nella Genesi (c. 10), ma con un ordine diverso, dovuto a quanto pare, a ragioni geografiche e militari per un esercito che parte dalla Palestina e segue una linea che va da nord-est a sud-est; per le altre due fasi vi è solo la menzione generale di «figli di Cam» e «figli di Jafet», dei «Kittîm», dei Kittîm che si trovano in Egitto e dei Kittîm di Assur (cfr. I, 2.4 e nota). «Il nostro rotolo costituisce una parte organica della letteratura della setta di Qumrân. Ciò è dimostrato dallo stile, dalla lingua e dalle idee espresse». Questo giudizio di Y. Yadin1 è senza dubbio fondato. L’autore della Regola crede dunque alla divisione dell’umanità in due settori: quello dei figli della luce, al quale appartiene lui, la sua setta e la quasi totalità del suo popolo; quello dei figli delle tenebre, al quale appartengono tutti gli altri popoli della terra; crede all’imminenza dello scontro decisivo tra i due settori (per questo i figli della luce devono imparare le leggi della guerra) ed è convinto che, se i figli della luce seguiranno le norme che egli va enunciando, non solo vinceranno tutte le battaglie intermedie, ma anche la più impari di tutte, quella finale, alla quale parteciperanno gli stessi angeli e nella quale l’intervento diretto di Dio annichilerà Belial e tutti gli altri popoli. Nella determinazione della durata della guerra, 40 anni (anche se questo numero non si legge nel testo a noi giunto), vi era per l’autore, anche un carattere simbolico: il numero richiama il periodo di 40 anni della peregrinazione desertica degli ebrei, dall’Egitto alle sponde del Giordano davanti a Gerico (cfr. Num., 14, 33-34; Deut., 2, 7; 8, 2-4 e 29, 5), comprendente lotte e sofferenze prima dell’arrivo alla terra promessa; e con la serie di sette anni (sei di combattimento e uno sabatico di riposo) ricorda la sconfitta di Gog e del suo paese, Magog, le cui attrezzature belliche bruceranno per sette anni (Ez., 39, 9); d’altra parte sia nel numero sette che negli anni della peregrinazione desertica si vedeva dai rabbini una connessione con l’èra messianica2 come si osserva nei testi già citati di 4QpIs a II, 1 e segg.; II, 21 e segg.; 4QpIs b II e segg.; 4QpPs 37, I, 4.8 e inoltre CD, XX, 14-15. Da quanto si è visto fin qui si può dedurre ragionevolmente che l’autore non intese descrivere una guerra passata o presente, ma una guerra che vedeva realizzarsi nel prossimo futuro; una guerra reale e messianica, una 259

guerra santa della quale il suo scritto è nello stesso tempo un manuale e una descrizione: realtà e immaginazione visionarie si congiungono. È certo senza motivo che qualche commentatore vede nell’autore un incompetente che presenta le manovre militari come evoluzioni liturgiche3. È probabile che nell’epoca delle prime conquiste e nella stabilizzazione di esse gli antichi Israeliti avessero di mira il principio della conquista e difesa della terra promessa dal Dio dei padri e dei giusti, e che nell’àmbito di questi confini, ogni guerra avesse esclusivamente carattere difensivo; ma già i profeti nelle cosiddette «profezie contro le nazioni» miravano molto più in là e alcuni testi del Pentateuco diretti contro le nazioni che abitavano la Palestina all’epoca della conquista ebraica da Giosuè in poi si prestavano ampiamente a ulteriori sviluppi: delle une e degli altri ha approfittato l’autore della Regola per presentare una vera e propria guerra offensiva di distruzione contro tutti i popoli, guerra che in questa forma non ha origine nell’Antico Testamento, ma trova la sua spiegazione nel dualismo dei qumraniani e in certe correnti ebraiche che erano la risultanza di fattori politici e sociali nonché religiosi con basi più o meno profonde nell’Antico Testamento. Le concezioni ispiratrici della Regola sono concezioni sacerdotali e religiose, traboccanti di quel fanatismo che solo idee religiose o parareligiose possono fare sorgere e alimentare; coloro che sono esitanti nel riconoscere in questo scritto la religiosità essena4, non pensano a quali aberrazioni sono spesso giunti, come attesta la storia, proprio movimenti tendenzialmente mistici. Religione e calcolo, utopismo e fanatismo sono qui intimamente legati come in alcuni testi classici del Pentateuco attribuiti alla tradizione, o codice, sacerdotale ma non manca lo spirito di alcuni testi deuteronomistici e profetici che propugnano idee molto simili sul comportamento verso gli altri popoli. Gli eserciti di tutti i popoli, ad eccezione di quello dei figli della luce, saranno distrutti, ma la Regola nello stato in cui ci è giunta non dice espressamente se anche i popoli saranno distrutti o semplicemente assoggettati o se si convertiranno (la loro conversione è assolutamente fuori delle prospettive dell’autore); non si comprende neppure che ne sarà e come verrà retta la nuova nazione dei figli della luce: tutto si svolge quaggiù nel senso che non è fatto alcun cenno a una immortalità beata o a una risurrezione dei figli della luce; l’autore era preoccupato del presente.

Composizione letteraria. Giudicare della composizione di uno scritto è molto difficile quando non 260

lo si possiede integralmente; tuttavia ritengo estremamente improbabile l’unità dell’opera. Non è uno scritto di getto e unitario come sostengono ad es. Y. Yadin e J. Carmignac. Per H. E. Del Medico5 «l’autore» della Regola non avrebbe fatto altro che una raccolta di testi di origine e data diversi; secondo A. Dupont-Sommer6 e Th. H. Gaster7 è il risultato di due regole, una primitiva (I-XIV) e l’altra (XV-XIX) aggiunta posteriormente e probabilmente opera di un altro autore; J. van der Ploeg8 ritiene che sia molto difficile credere all’unità primitiva e propone di vedere in essa la fusione di uno scritto primitivo di stile apocalittico sviluppato appresso considerevolmente da un altro autore che lo ha trasformato in una «regola», vi ha introdotto la guerra santa aggressiva e la durata di 40 anni; a giudizio di C. Rabin9 la Regola consta almeno di tre parti diverse (I-IX; X-XIV, 15; XIV, 16-XIX). La serie degli studiosi contrari all’unità letteraria si potrebbe facilmente proseguire; a motivo delle molteplici lacune del testo (un conto approssimativo porta alla conclusione che in ogni colonna manca circa un terzo del testo originale del rotolo) e del carattere spesso molto soggettivo delle analisi, si resta scettici di fronte a ogni ricostruzione finora proposta, ma non vi sono dubbi sul fatto che gli studi finora compiuti, i frammenti pubblicati (specie quello di C. H. Hunzinger, vedi Bibliogr. e XIV, 4-16) e quelli in via di pubblicazione, hanno dimostrato che 1QM è un’opera composita, il risultato quindi di testi diversi e che il suo ultimo redattore, quella al quale risale il rotolo, abbia voluto fare un’opera unitaria: non solo i punti di contatto, ma i veri e propri complementi tra la cosiddetta prima parte e la seconda sono troppo importanti per avallare l’ipotesi di due regole. Si tratta dunque di un’opera le cui parti ebbero una loro storia prima che fossero assunte, sviluppate, attualizzate e disposte «grosso modo» in un ordine logico e unitario.

Data di composizione. Il primo grande studio del rotolo ne colloca la composizione nell’epoca che va dalla seconda metà del I secolo a. C., o dalla prima metà del I secolo d. C., all’anno 70 d. C.; secondo Y. Yadin10 la composizione non è anteriore all’arrivo dei Romani in Palestina (63 a. C.) e non è posteriore alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Le ragioni fondamentali di questa datazione sono date dal fatto che, secondo Y. Yadin, le armi e la tattica militare esposte dal rotolo sono quelle dei Romani. La stessa sentenza era già stata sostenuta da A. Dupont-Sommer11 identificando i Kittîm con i Romani e vedendo anch’egli le grandi linee dell’arte bellica romana. Nuove 261

ragioni di strategia militare decisero anche Th. H. Gaster12 ad abbracciare questa sentenza. J. Carmignac13 ritiene che queste ragioni non siano decisive e preferisce attribuire la Regola allo stesso maestro di giustizia il quale l’avrebbe scritta verso la fine della sua vita, verso il 110 a. C., oppure sarebbe dovuta a un autore anteriore a lui. Secondo M. H. Segal14 la Regola è uno scritto di origine asmonea e quindi anteriore all’epoca romana; anche H. H. Rowley15 propone il II secolo a. C. e vede nei Kittîm i Greci; così J. G. Fevrier, AviYonah, M. Treves16 e altri i quali propongono l’epoca dei Seleucidi; K. M. Atkinson ritiene che lo scritto sia stato redatto in Egitto nel II secolo a. C., all’epoca dei Tolomei, e che l’autore abbia attinto le sue conoscenze militari dai manuali greci. C. Roth17, che nei qumraniani vede gli zeloti, ritiene che la Regola sia opera di uno di questi esaltati da esagerato patriottismo, probabilmente da quello che fu poi il capo della resistenza a Masada, Eleazaro ben Jair, tra il 66 e il 70 d. C. G. R. Driver18 sostiene una sentenza molto simile: l’autore della Regola era un sadocita (vedi p. 45), le battaglie che descrive sono irreali e assurde, rispecchiano tuttavia il periodo della prima rivolta ebraica (66-73 d. C.), e fu scritta approssimativamente durante il regno di Domiziano (81-116 d. C.) o, meno probabilmente, negli anni 113-116 d. C. È evidente che non sono stati trovati, almeno per ora, argomenti decisivi per una datazione sicura. Gli argomenti dedotti dalle armi e dalla tattica militare non sono convincenti perché sotto Antioco IV Epifane vi era un corpo militare romano di ben 5000 uomini (e quindi gli ebrei potevano conoscere assai bene l’arte militare romana fin dal II secolo a. C.) e perché la descrizione della guerra, con la curiosa tattica e strategia del nostro scritto, non corrisponde certamente a quella di una guerra romana nonostante alcune convergenze particolari sprovviste però di valore decisivo. In questo stato di cose il problema della datazione resta aperto. Può tuttavia essere avviato a una soluzione se si ammette, come s’è detto sopra, che la Regola è un’opera composita e se, da una parte, si riconosce che alcuni degli elementi che la compongono, sfruttati o presi integralmente dall’ultimo redattore, provengono dall’epoca dei Seleucidi, dall’altra che il testo giunto fino a noi risale all’epoca romana, è cioè posteriore al 63 a. C. Ed è questa sostanzialmente la sentenza che spiega le divergenze degli studiosi sopra citati, lascia aperta la strada ad accogliere e spiegare la scoperta e pubblicazione di nuovi frammenti e quadra con le conclusioni dell’epigrafia che assegna la scrittura del nostro rotolo alla scrittura 262

dell’epoca erodiana, cioè al periodo che va all’incirca dal 30 a. C. al 70 d. C. Con J. T. Milik penso che quest’ultima stesura della Regola sia da porre nel periodo intorno agli ultimi anni di Erode il Grande o immediatamente dopo la sua morte (4 a. C.); il nuovo sviluppo dell’insediamento esseno a Qumrân (vedi l’Introduz. generale, pp. 108 e seg.) acquista una chiara tendenza zelota e un netto spirito antiromano, mentre le relazioni tra ebrei e Romani divenivano sempre più tese per sfociare nell’infausta guerra del 70 d. C. Per cui assai più che a un tempo di composizione, si ha motivo di ritenere che questo sia soprattutto un periodo di acuito e vasto interesse verso il problema apocalittico-escatologico della Regola19. Diversa è la presentazione letteraria e l’atmosfera spirituale della guerra di cui parla il Rotolo del tempio (vedi l’Appendice).

1. The Sons of Light…, p. 3. 2. Cfr. Y. YADIN, op. cit., 37; R. G. D RIVER, The Judaean Scrolls…, pp. 224-225; pp. 342343 e 475-476 aventi ambedue ampie referenze alla letteratura ebraica postbiblica. 3. Come afferma ad es. J. C ARMIGNAC, Les textes de Qumrân, I, 83-84. 4. Giudicano ad es. la Regola non qumraniana L. Rost e W. Eiss (Qumrân und die Anfänge der christlichen Gemeinde, Stuttgart, 1959). 5. L’enigme des manuscrits…, pp. 361 e segg. 6. Les écrits esséniens…, p. 181. 7. The Dead Sea Scriptures…, pp. 276 e segg. 8. Le rouleau de la guerre…, pp. 13-25; e nell’articolo Zur literarischen Komposition…, pp. 293-297. 9. The Literary Structure of the War Scroll (in Essays on the Dead Sea, in ebraico, saggi in onore di E. L. Sukenik), Gerusalemme, 1961, pp. 31-47. 10. The Sons of Light…, pp. 243 e segg. 11. Les écrits esséniens…, pp. 182 e segg. 12. The Dead Sea Scriptures…, p. 277. 13. Les textes de Qumrân…, I, pp. 85-86. 14. Vedi art. cit. nella Bibliografia. 15. Jewish Apocalyptic…, pp. 18-19. 16. Vedi gli studi di Atkinson, Fevrier, Avi-Yonah e Treves citati nella Bibliografia. 17. The Historical Background…, pp. 49-67. 18. The Dead Sea Scrolls…, p. 225. 19. Si veda in proposito lo studio di I. Hahn, citato nella Bibliografia.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1. Edizioni del testo ebraico.

E. L. SUKENIK, Meghillôt ghenûzôt, I-II, Jerushalaim, 1948-1950. ID..Oṣar ha-meghillôt ha-ghenûzôt, Jerushalaim, 1951: si veda in merito l’importante recensione che ne fece il Milik in RB, 1955, 597-601. (D. BARTHÉLEMY et) J. T. MILIK, Discoveries in the Judaean Desert. I. Qumrân Cave 1, Oxford, 1955, pp. 135-136, tav. 31. C. H. HUNZINGER, Fragmente einer älteren Fassung des Buches Milḥamâ aus Höhle 4 von Qumrân, in ZAW, 69, 1957, 131-151. A. M. HABERMANN, Meghillôt midbar jekûdah, Jerushalaim, 1959, pp. 95-108. P. BOCCACCIO et G. BERARDI, Regula Belli, seu Bellum filiorum lucis contra filios obscuritatis, Roma, 1961: contiene il testo del Sukenik con le integrazioni e varianti dedotte dai frammenti pubblicati dal Milik e dal Hunzinger, nonché qualche lettura proposta da studiosi. E. LOHSE, Die Texte aus Qumrân hebräisch und deutsch, München, 1964, pp. 180-225. J. CARMIGNAC e Y. YADIN, vedi appresso. 2. Principali traduzioni e commenti.

H. BARDTKE, Die Kriegsrolle von Qumrân übersetzt, in ThLZ, 1955, 401-420. ID., Die Hanschriftenfunde am Toten Meer. Il. Die Sekte von Qumrân, Berlin, 1958, 121-132; 215-233. G. BERARDI, Regola della guerra, Palestra del Clero, 1957, 649-658; 699-710; ivi, 1958, 118-130; 178-183. J. CARMIGNAC, La Règle de la guerre: texte restauré, traduit, commenté, Paris, 1958 (con il testo ebr.). ID., La Règle de la guerre, in Les Textes de Qumrân traduits et annotés, I, Paris, 1961, pp. 81-125. M. DELCOR, La guerre des fils de lumière contre les fils de ténèbre ou le «Manuel du parfait combattant» de Qumrân, in NRTh, 87, 1955, 372399. H. E. DEL MEDICO, L’énigme des manuscrits de la Mer Morte, Paris, 1957, pp. 264

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I [1] E questo è il libro della regola della guerra. L’inizio si avrà allorché i figli della luce porranno mano all’attacco contro il partito dei figli delle tenebre, contro l’esercito di Belial, contro la milizia di Edom, [2] di Moab, dei figli di Ammon, contro gli Amaleciti e il popolo della Filistea, contro le milizie dei Kittîm di Assur, ai quali (andranno) in aiuto coloro che agiscono empiamente verso il patto. I figli di Levi, i figli di Giuda e i figli di Beniamin, gli esuli del deserto, combatteranno contro di essi; [3] … contro tutte le loro milizie, allorché gli esuli dei figli della luce ritorneranno dal deserto dei popoli per accamparsi nel deserto di Gerusalemme. E dopo la guerra se ne andranno di là, [4] contro tutte le milizie dei Kittîm in Egitto. E nel suo tempo stabilito uscirà con grande collera per combattere i re del settentrione, e la sua ira sarà diretta a distruggere e a spezzare il potere [5] di Belial. Questo sarà il tempo della salvezza per il popolo di Dio e il tempo determinato della dominazione per tutti gli uomini del suo partito, e l’annientamento eterno per tutto il-partito di Belial. Vi sarà una costernazione [6] grande tra i figli di Jafet, Assur cadrà e nessuno l’aiuterà, scomparirà la dominazione dei Kittîm facendo soccombere l’empietà senza lasciare traccia, e non rimarrà alcun rifugio [7] per tutti i figli delle tenebre. [8] Verità e giustizia risplenderanno per tutti i confini del mondo, illuminando senza posa fino a quando saranno finiti tutti i tempi stabiliti per le tenebre. E al tempo stabilito per Dio, la sua eminente maestà risplenderà per tutti i tempi determinati [9] in eterno per la pace e la benedizione, la gloria, la gioia e giorni lunghi per tutti i figli della luce. Nel giorno in cui i Kittîm cadranno vi sarà un combattimento e una strage grande al cospetto del Dio [10] di Israele; giacché questo è il giorno, da lui determinato da molto tempo per la guerra di sterminio dei figli delle tenebre nel quale saranno impegnati in una grande strage, [11] l’assemblea degli dèi e l’assembramento [12] degli uomini, i figli della luce e il partito delle tenebre; combatteranno insieme dando prova di potenza divina tra lo strepito di una grande moltitudine e la «terûâh» degli dèi e degli uomini, nel giorno della calamità. Sarà questo il tempo [13] dell’angustia per tutto il popolo della redenzione di Dio: tra tutte le loro angustie non ce ne fu mai simile, dal momento nel quale si scatena fino al suo compimento nella redenzione eterna. E nel giorno della guerra contro i Kittîm [14] usciranno in guerra per la strage. Per tre (volte) le sorti dei figli della luce avranno il sopravvento per scacciare l’empietà, e per tre (volte) l’esercito di Belial si cingerà per respingere la sorte [15] della luce; i reparti dei combattenti si sforzeranno di 268

scoraggiare il cuore (dei nemici), ma la potenza di Dio fortificherà il cuore dei figli della luce. Alla settima sorte, la grande mano di Dio [16] umilierà Belial e tutti gli dèi del suo dominio, e per tutti gli uomini del suo partito vi sarà uno sterminio eterno. [17] La gloria di Dio con il consiglio dei santi risplenderà nell’aiuto ai figli della luce, gli uomini della verità per la distruzione dei figli delle tenebre, della sorte [18] di Belial… II, [1] cinquantadue (capi) famiglia dell’assemblea. Ai capi di sacerdoti assegneranno dei posti dopo il sommo sacerdote e il suo sostituto, dodici capi, affinché compiano il servizio liturgico [2] davanti a Dio con il sacrificio perpetuo. Ventisei capi gruppi compiranno il servizio liturgico secondo (l’ordine) dei loro gruppi; dopo di loro compiranno continuamente il servizio liturgico i capi dei leviti: saranno dodici, uno [3] per tribù. Ogni capo gruppo compirà il servizio liturgico nella sua unità di servizio. Dopo di loro ci saranno i capi tribù e i capi famiglia dell’assemblea, i quali prenderanno posto continuamente alle porte del santuario. [4] I capi dei loro gruppi, con i propri arruolati saranno preposti ai loro tempi stabiliti, ai giorni di luna nuova e sabati, per tutti i giorni dell’anno, dall’età di cinquant’anni in avanti. [5] Costoro saranno presenti agli olocausti e ai sacrifici cruenti, per preparare un incensiere gradito alla benevolenza di Dio, per espiare per tutta la sua assemblea e per impinguarsi continuamente al suo cospetto, [6] alla mensa gloriosa. Ordineranno tutto ciò nel tempo stabilito per l’anno della remissione. Nei restanti trentatré anni di guerra saranno gli uomini illustri, [7] i convocati all’adunanza, tutti i capi famiglia dell’assemblea si sceglieranno uomini da guerra contro tutti i paesi dei gentili, da tutte le tribù di Israele. Mobiliteranno [8] contro di essi uomini forti affinché, di anno in anno, vadano nell’esercito secondo i proclami di guerra. Ma negli anni della remissione non li mobiliteranno per andare nell’esercito, poiché è un sabato [9] di riposo per Israele. Nei trentacinque anni di servizio, sarà preparata la guerra; la preparerà per sei anni tutta l’assemblea insieme; [10] le singole campagne della guerra avranno luogo nei restanti ventinove anni. Nel primo anno combatteranno contro Aram Naharâim; nel secondo contro i figli di Lud; nel terzo [11] faranno la guerra contro il resto dei figli di Aram: contro Uts e Hûl, Tôgar e Massa, che sono al di là dell’Eufrate; nel quarto e nel quinto faranno la guerra contro i figli di Arpakshad; [12] nel sesto e nel settimo faranno la guerra contro tutti i figli di Assur e della Persia, e contro gli Orientali fino al grande deserto; nell’ottavo anno faranno la guerra contro i figli di [13] Elam; nel nono faranno la guerra contro i figli di Ismaele e di Qetûrah. Nei dieci anni seguenti, la guerra sarà estesa contro tutti i figli di Cam, [14] secondo le loro famiglie, nelle loro abitazioni; e nei 269

restanti dieci anni la guerra sarà estesa contro tutti i figli di Jafet, nelle loro abitazioni. [15] [16] Regola per le trombe di convocazione e per le trombe della «terûâh» per tutto il loro servizio, per la comunità e per i comandanti, per i capi famiglia, per i loro recensiti, [17] per le miriadi, per le migliaia, per le centurie e per le cinquantine e per le decurie. Sulle trombe… III, [1] formazione di guerra, e le trombe che li convocano durante l’apertura degli intervalli della guerra per fare uscire gli uomini della fanteria; le trombe delle «terûôt» dei colpiti, dei caduti e le trombe [2] dell’imboscata; le trombe dell’inseguimento allorché il nemico è messo in fuga; le trombe dell’adunanza al ritorno dalla battaglia. Sulle trombe della convocazione dell’assemblea, scriveranno: «Chiamati di Dio». [3] Sulle trombe della convocazione dei comandanti scriveranno: «Prìncipi di Dio». Sulle trombe dei raggruppamenti, scriveranno: «Ordinamento di Dio». Sulle trombe degli uomini [4] illustri, capi famiglia dell’assemblea, allorché si radunano nella casa dell’adunanza, scriveranno: «Ammonizioni di Dio al consiglio santo». Sulle trombe degli accampamenti, [5] scriveranno: «Pace di Dio negli accampamenti dei suoi santi». Sulle trombe delle loro spedizioni scriveranno: «Gesta di Dio per disperdere il nemico e mettere in fuga tutti coloro che odiano [6] la giustizia e sottrazione delle benevolenze da coloro che odiano Dio». Sulle trombe delle formazioni di guerra, scriveranno: «Formazione dei reparti di Dio per vendicare la sua ira su tutti i figli delle tenebre». Sulle [7] trombe di convocazione degli uomini di fanteria, allorché saranno aperti gli intervalli della guerra affinché escano contro la linea del nemico, scriveranno: «. Ricordo di vendetta nel tempo stabilito [8] da Dio». Sulle trombe dei colpiti scriveranno: «Mano della potenza di Dio in guerra per abbattere tutti colpiti della infedeltà». Sulle trombe dell’imboscata, scriveranno: [9] «Misteri di Dio per la distruzione dell’empietà». Sulle trombe dell’inseguimento, scriveranno: «Dio ha battuto tutti i figli delle tenebre, la sua collera non si arresterà fino a quando non li avrà annientati». [10] Allorché si disimpegnano dal combattimento per rientrare nella linea, scriveranno sulle trombe del ritorno: «Dio ha radunato». Sulle trombe della via del ritorno [11] dal combattimento contro il 270

nemico per rientrare nella assemblea di Gerusalemme, scriveranno: «Grida di giubilo di Dio per un felice ritorno». [12] [13] Regola per le insegne di tutta l’assemblea, secondo i loro raggruppamenti. Sulla grande insegna, che precede tutto il popolo scriveranno: «Popolo di Dio» e il nome di Israele [14] e di Aronne, e i nomi delle dodici tribù di Israele, secondo le loro genealogie. Sulle insegne dei capi degli accampamenti di tre tribù, [15] scriveranno: «Benedetti da Dio» e i nomi dei prìncipi delle tre tribù. Sull’insegna di una tribù, scriveranno: «Vessillo di Dio» e il nome del principe della tribù, e i nomi dei capi [16] delle loro famiglie. Sull’insegna della famiglia, scriveranno il nome del principe della miriade e i nomi dei capi delle migliaia. Sull’insegna [17] del migliaio scriveranno il nome del capo e i nomi dei capi delle centurie. Sull’insegna della centuria scriveranno… IV [1] Sull’insegna di Merari, scriveranno: «Contributo per Dio» e il nome del principe di Merari e i nomi dei capi delle sue migliaia. Sull’insegna del migliaio, scriveranno: «L’ira di Dio straripa contro [2] Belial e contro tutti gli uomini del suo partito e non vi sarà alcun superstite» e il nome del capo del migliaio e i nomi dei capi delle sue centurie. Sull’insegna della centuria, scriveranno: «Da [3] Dio (viene) la forza combattiva contro ogni carne iniqua» e il nome del capo della centuria e i nomi dei capi delle sue decurie. Sull’insegna di cinquanta scriveranno: «È cessata [4] la posizione degli empi, grazie alla potenza di Dio» e il nome del capo dei cinquanta e i nomi dei capi delle sue decurie. Sull’insegna della decuria, scriveranno: «Grida gioiose [5] di Dio sull’arpa a dieci corde» e il nome del capo della decuria e i nomi dei nove uomini ai suoi ordini. [6] Quando partono per la guerra sulle loro insegne scriveranno: «Verità di Dio, giustizia di Dio, gloria di Dio, giudizio di Dio». E, dopo questo, l’ordinata lista completa dei loro nomi. [7] Quando sono prossimi alla battaglia, sulle loro insegne scriveranno: «Destra di Dio, tempo stabilito da Dio, panico (mandato) da Dio, colpiti (dalla mano) di Dio». E, dopo questo, la lista completa dei loro nomi. [8] Quando ritornano dalla guerra, sulle loro insegne scriveranno: «Dio è esaltato, grandezza di Dio, elogio di Dio, gloria di Dio», con la lista completa dei loro nomi. 271

[9] Regola delle insegne dell’assemblea. Quando escono per la guerra, sulla prima insegna scriveranno: «Assemblea di Dio»; sulla seconda insegna: «Accampamenti di Dio»; sulla terza: [10] «Tribù di Dio»; sulla quarta: «Famiglia di Dio»; sulla quinta: «Reparti di Dio»; sulla sesta: «Assembramento di Dio»; sulla settima: «Convocati da [11] Dio»; sull’ottava: «Eserciti di Dio». Scriveranno anche la lista dei loro nomi, al completo, secondo il loro ordine. Quando sono prossimi alla battaglia, sulle loro insegne scriveranno [12] «Guerra di Dio, vendetta di Dio, disputa di Dio, retribuzione di Dio, forza di Dio, ricompensa di Dio, potenza di Dio, sterminio, a opera di Dio, di tutte le nazioni vane». Ed anche la lista completa [13] dei loro nomi, scriveranno su di esse. Quando ritornano dalla guerra, sulle loro insegne scriveranno: «Azioni salvifiche di Dio, vittoria di Dio, aiuto di Dio, sostegno di Dio, [14] gioia di Dio, ringraziamenti a Dio, lodi di Dio, pace di Dio». [15] Regola delle misure. L’insegna di tutta l’assemblea sarà lunga quattordici cubiti. L’insegna di tre tribù sarà lunga tredici cubiti. [16] L’insegna di una tribù: dodici cubiti. L’insegna di una miriade: undici cubiti. L’insegna di un migliaio: dieci cubiti. L’insegna di una centuria: nove cubiti. [17] L’insegna di cinquanta: otto cubiti. L’insegna di una decuria: sette cubiti… V [1] Sullo scudo del principe di tutta l’assemblea scriveranno il suo nome, il nome di Israele, di Levi e di Aronne, i nomi delle dodici tribù nell’ordine delle loro generazioni [2] e i nomi dei dodici capi tribù. [3] Regola per la disposizione dei reparti di combattimento. Allorché il loro esercito è al completo, costituendo una linea frontale di mille uomini, la linea sarà chiusa. Vi saranno sette disposizioni [4] frontali per ogni linea, disposte in formazione regolare, un uomo dopo l’altro. Tutti saranno muniti di scudi di bronzo lucidi come [5] la superficie d’uno specchio. Lo scudo sarà circondato da un orlo lavorato a treccia e ornato da figure; opera di artisti, in oro, in argento e bronzo combinati insieme, [6] e di pietre preziose in un abbellimento multicolore, opera d’artista ingegnoso. La lunghezza dello scudo sarà di due cubiti e mezzo, e la sua larghezza di un cubito e mezzo. Nelle loro mani vi sarà una lancia [7] e una spada. La lunghezza della lancia sarà di sette cubiti, partendo dall’impugnatura, e quella della punta sarà di mezzo cubito; sull’impugnatura vi saranno scolpiti tre anelli, lavorati [8] a treccia come l’orlo (dello scudo), in oro, argento e bronzo, combinati insieme quale ornamento dalla forma artistica; 272

questi ornamenti saranno attaccati ai due lati di ogni anello; [9] tutt’intorno vi saranno pietre preziose in un ornamento multicolore, lavoro d’artista ingegnoso, e una spiga; tra gli anelli l’impugnatura sarà scanalata come il lavoro [10] d’una colonna artistica. La punta sarà di ferro bianco risplendente, lavoro d’artista ingegnoso; in mezzo alla punta vi sarà una spiga di oro puro, terminante affusolata in direzione [11] della punta. Le spade saranno di ferro raffinato e puro, passato al crogiolo e splendenti come la superficie d’uno specchio, lavoro d’artista ingegnoso; ambedue le parti saranno ornate da una figura di spiga [12] in oro puro, e da scanalature diritte, due da una parte e due dall’altra, in direzione della punta. La lunghezza della spada sarà di un cubito [13] e mezzo e la larghezza di quattro dita. Il fodero sarà di quattro pollici; fino al fodero vi saranno quattro volte la larghezza della mano, e il fodero si estenderà da parte [14] a parte, su cinque volte la larghezza della mano. L’impugnatura della spada sarà di osso puro, opera d’artigiano, con una decorazione multicolore in oro, argento e pietre preziose. [15] [16] Quando starà in piedi… saranno disposte sette linee, [17] una linea dopo l’altra; e tra una linea e l’altra vi sarà uno spazio di circa trenta cubiti, ove staranno gli uomini [18] della regola… per agitare la faccia e le mani in direzione di… VI [1] … sette volte e ritorneranno ai loro posti. Dopo di loro, usciranno tre reparti di fanteria e si porranno tra le linee. Il primo reparto scaglierà contro [2] la linea nemica sette giavellotti bellici. Sulla punta del giavellotto scriveranno: «Lampo della lancia per la potenza di Dio»; sul secondo dardo scriveranno: [3] «Frecce di sangue per abbattere i colpiti dall’ira di Dio». Sul terzo giavellotto scriveranno: «Fiamma della spada che divora gli iniqui colpiti dal giudizio di Dio». [4] Tutti costoro scaglieranno sette volte e poi ritorneranno ai loro posti. Dopo di loro usciranno due reparti di fanteria e si porranno tra le due linee: [5] il primo reparto afferrando lancia e scudo, il secondo reparto afferrando scudo e spada per abbattere i colpiti dal giudizio di Dio e per umiliare la linea [6] nemica con la potenza di Dio, per rendere, a tutte le nazioni da nulla, la ricompensa del loro male. La regalità sarà per il Dio di Israele, e tra i santi del suo popolo egli compirà prodezze. [7] [8] Anche le sette formazioni dei cavalieri si terranno alla destra e alla sinistra della linea di combattimento, ma prenderanno posizione da una parte e dall’altra delle loro formazioni: settecento [9] cavalieri da una parte e settecento dall’altra parte. Duecento cavalieri usciranno con i mille uomini 273

della linea di fanteria; e così [10] prenderanno posizione su tutte le parti dell’accampamento: in tutto saranno quattromila seicento. Millequattrocento cavalli saranno per gli uomini dell’ordinamento delle linee di battaglia: [11] cinquanta per ogni linea; compresi i cavalli degli uomini dell’ordinamento, i cavalieri saranno seimila: cinquecento per ogni tribù. Tutti i cavalli che usciranno [12] in combattimento con gli uomini della fanteria saranno cavalli di sesso maschile, dai piedi veloci, docili di bocca, dal fiato lungo, che abbiano compiuto l’età conveniente, esercitati alla guerra [13] e abituati a udire clamori e (a vedere) ogni genere di spettacoli. Quanti cavalcano su di essi devono essere guerrieri coraggiosi, abituati ai cavalli: [14] l’età indispensabile è dai trenta ai quarantacinque anni. I cavalieri dell’ordinamento (di battaglia) avranno dai quaranta ai cinquant’anni; [15] costoro indosseranno caschi e gambiere, le loro mani afferreranno scudi rotondi e una lancia della lunghezza di otto cubiti, [16] … arco, frecce e giavellotti da combattimento. Tutti saranno preparati a… … [17] … … per far cadere e per versare il sangue di quanti sono colpiti a motivo delle loro colpe. Costoro sono… … VII [1] … e gli uomini dell’ordinamento (di battaglia) avranno dai quaranta ai cinquant’anni, mentre quelli che reggono gli accampamenti avranno dai cinquanta ai sessant’anni; anche i sovraintendenti [2] avranno dai quaranta ai cinquant’anni. Tutti coloro che spogliano i caduti, che raccolgono il bottino, che purificano la terra, che custodiscono i bagagli [3] e colui che prepara il vitto, tutti costoro avranno dai venticinque ai trent’anni. Nessun fanciullo né alcuna donna entrerà nei loro accampamenti allorché lasceranno [4] Gerusalemme per andare alla guerra, fino al loro ritorno. Uno zoppo, un cieco, uno storpio, chiunque ha, nel suo corpo, qualche difetto permanente o è colpito da una qualche impurità [5] corporale, nessuno di costoro potrà andare con essi alla guerra. Devono essere tutti uomini che vanno volentieri alla guerra, perfetti nello spirito e nel corpo, preparati per il giorno della vendetta. Chiunque, [6] nel giorno del combattimento, non è sessualmente puro non discenderà con essi giacché con le loro truppe ci sono angeli santi. Una certa distanza [7] di circa mille cubiti (separerà) tutti i loro accampamenti dal luogo della mano, né si vedrà alcuna cosa sconveniente e cattiva nei dintorni dei loro accampamenti. [8] [9] Quando si formeranno le linee di combattimento di fronte al nemico, 274

linea di fronte a linea, per recarsi tra le linee, usciranno dall’intervallo centrale sette [10] sacerdoti figli di Aronne, vestiti di abiti di bisso bianco, d’una tunica di lino e di calzoni di lino, cinti da una sciarpa di lino, di bisso ritorto azzurro, [11] porpora e scarlatto, con ricamo multicolore, opera d’artista, e sulla loro testa (porteranno) turbanti; questi sono abiti da guerra; nel santuario [12] non li introduranno. Un sacerdote si recherà davanti a tutti gli uomini della linea di combattimento per fortificare le loro mani alla battaglia; mentre gli (altri) sei avranno in mano [13] le trombe dell’adunanza, le trombe del ricordo, le trombe della «terûâh», le trombe dell’inseguimento e le trombe della convocazione. Allorché i sacerdoti usciranno [14] per portarsi tra le linee di combattimento, usciranno con loro anche sette leviti con in mano sette corni di montone; inoltre, tre sovraintendenti tra i leviti precederanno [15] i sacerdoti e i leviti. Allora i sacerdoti suoneranno le due trombe, quella dell’adunanza e quella del ricordo, e si apriranno gli intervalli della battaglia per cinquanta scudieri, [16] e cinquanta uomini di fanteria usciranno da un intervallo, e cinquanta da un altro intervallo, e con essi usciranno i sovraintendenti leviti, [17] e tutti, una linea dopo l’altra, usciranno in conformità di tutto questo ordinamento. I sacerdoti suoneranno le trombe dell’adunanza e gli uomini di fanteria usciranno dagli intervalli [18] e si disporranno tra le due linee di combattimento… … …… VIII [1] Le trombe seguiteranno a suonare per la durata (del combattimento) dei frombolieri, fino a quando non abbiano terminato di tirare sette [2] volte. Dopo di ciò i sacerdoti suoneranno per loro le trombe del ritorno, ed essi ritorneranno a lato della prima linea di combattimento [3] per riprendere il loro posto. I sacerdoti suoneranno poi le trombe dell’adunanza, [4] e tre reparti di fanteria usciranno dagli intervalli e si porranno tra le linee di combattimento; affianco a loro ci saranno gli uomini di cavalleria, [5] a destra e a sinistra. I sacerdoti suoneranno allora le trombe, con un suono continuo, affinché si mettano in formazione da battaglia [6] e le colonne si spiegheranno secondo le loro formazioni, ognuna al suo posto; e quando avranno costituito le formazioni, [7] i sacerdoti suoneranno per essi una seconda «terûâh», con un suono dolce e sostenuto, per la corsa al passo, fino a quando si saranno avvicinati [8] alla linea nemica; allora daranno mano alle armi da guerra e i sacerdoti suoneranno le sei trombe [9] dei colpiti con un suono acuto e intermittente per la durata della battaglia; i leviti e tutti 275

quanti hanno dei corni suoneranno [10] all’unisono la grande «terûâh» di guerra per fare sciogliere il cuore del nemico; e al suono della «terûâh» usciranno [11] i giavellotti da battaglia per abbattere i colpiti; il suono dei corni si arresterà, [12] ma i sacerdoti seguiteranno a suonare le trombe con un suono acuto e intermittente per la durata della battaglia fino a quando non abbiano terminato (di tirare) verso la linea [13] nemica sette volte. Dopo, i sacerdoti suoneranno per essi le trombe del ritorno [14] con un suono dolce, continuo e sostenuto. I sacerdoti suoneranno per i tre reparti seguendo questo ordinamento. Al [15] primo tiro, i sacerdoti, i leviti e tutti quanti hanno dei corni suoneranno la grande «terûâh» [16] per la durata della battaglia fino a quando non abbiano tirato sotte volte; dopo i sacerdoti suoneranno per essi [17] le trombe del ritorno con un suono dolce continuo e sostenuto, ed essi ritorneranno al proprio posto e andranno nella loro linea. 1 sacerdoti [18] suoneranno le trombe dell’adunanza e usciranno, dagli intervalli, due reparti di fanteria e si porranno [19] tra le due linee alla distanza d’un tiro; i sei sacerdoti suoneranno le trombe dei colpiti, e i leviti [20] e tutti quanti hanno dei corni suoneranno la grande «terûâh»: a questo suono IX, [1] incominceranno ad abbattere, con la loro mano, i colpiti; mentre tutto il popolo smetterà dal suonare la «terûâh», i sacerdoti seguiteranno a suonare le trombe [2] dei colpiti per la durata della battaglia, fino a quando il nemico sia sconfitto e abbia voltato le spalle. I sacerdoti seguiteranno, dunque, a suonare per la durata della battaglia. [3] Quando quelli saranno sconfitti davanti a loro, i sacerdoti suoneranno le trombe dell’adunanza e tutti gli uomini della fanteria usciranno verso di essi dal mezzo [4] delle linee del fronte; e sei reparti prenderanno posizione con il reparto che sta combattendo, formando così un totale di sette linee di combattimento: ventottomila [5] guerrieri e sei mila cavalieri. Tutti costoro inseguiranno il nemico per distruggerlo nella battaglia di Dio, fino all’annientamento [6] eterno. I sacerdoti suoneranno per essi le trombe dell’inseguimento. Contro ogni nemico, essi si divideranno (a gruppi) inseguendolo fino all’annientamento: la cavalleria [7] lo costringerà ai lati dello schieramento bellico fino alla completa distruzione. Quando i colpiti cadranno, i sacerdoti seguiteranno a suonare le trombe, ma da lontano, senza andare [8] in mezzo ai colpiti per non essere contaminati dal loro sangue impuro: essi, infatti, sono santi e non devono profanare l’olio della loro unzione sacerdotale con il sangue [9] di un popolo da nulla. [10] Regola per il cambiamento della disposizione dei reparti di 276

combattimento, per prendere la posizione… di torri, di semicerchio e di torri, [11] di arco e di torri, di arco leggermente teso con colonne uscenti e ali che avanzano dai due lati della linea per schiacciare [12] il nemico. Gli scudi (degli uomini) delle torri saranno lunghi tre cubiti, e le loro lance saranno lunghe otto cubiti, e le torri [13] usciranno dalla linea. Ogni lato della torre avrà cento scudi: (il numero di) tutti coloro che circonderanno la torre sui suoi tre lati anteriori, sarà di [14] trecento scudi. Ogni torre avrà due intervalli, uno a destra e uno a sinistra. Su tutti gli scudi delle torri [15] scriveranno: sugli (scudi) della prima (torre): Micael; su quelli della seconda: Gabriel; su quelli della terza: Sariel; su quelli della quarta: Rafael. [16] Micael e Gabriel saranno a destra, Sariel e Rafael a sinistra. [17-18] … … … … X [1] … i nostri accampamenti, perché ci preservassimo da ogni cosa sconveniente e cattiva, egli ci ha annunziato che tu, Dio grande e terribile, sei in mezzo a noi, per scacciare [2] davanti a noi tutti i nostri nemici; e una volta ci hai ammaestrato per le nostre generazioni, dicendo: «Quando starete per combattere il sacerdote si alzerà e parlerà al popolo [3] dicendo: Ascolta, Israele! Voi oggi state per combattere contro i vostri nemici. Non abbiate paura, non si rammollisca il vostro cuore, [4] non spaventatevi e non allarmatevi innanzi a loro. Poiché il vostro Dio cammina con voi per combattere per voi i vostri nemici e per salvarvi». [5] Allora i nostri sovraintendenti parleranno a tutti coloro che sono prossimi al combattimento per corroborare nella potenza di Dio i cuori generosi, per rinviare tutti [6] quelli dal cuore rammollito, e per corroborare tutti i combattenti valorosi; ripeteranno quanto fu detto per mezzo di Mosè, dicendo: «Allorché, nel vostro paese, [7] verrà una guerra contro un oppressore che vi opprime, suonerete le trombe e il vostro Dio si ricorderà di voi [8] e sarete salvi dai vostri nemici». Chi mai in cielo e in terra è come te, Dio di Israele, da uguagliare le tue grandi opere [9] e la tua gagliarda potenza? E chi è come il tuo popolo Israele, che hai scelto per te da tutti i popoli della terra, [10] popolo dei santi del patto, di istruiti negli statuti, dotati di conoscenza e di intelligenza, di uditori della tua voce gloriosa, di spettatori [11] degli angeli santi, aperti d’orecchio e uditori delle cose profonde? (Tu hai creato) la distesa delle nubi, l’esercito dei luminari [12] e il peso dei venti e l’impero dei santi, le riserve della gloria… dense nubi; (sei tu) che hai creato la terra e le leggi delle sue divisioni [13] in deserto e in terra (inizialmente) arida e tutti i suoi prodotti con i suoi frutti… la cerchia dei mari, i serbatoi dei fiumi e la 277

rottura degli abissi, [14] le creature animali e gli uccelli, l’abbozzo dell’uomo e le generazioni della sua discendenza, la confusione delle lingue e la divisione dei popoli, la residenza delle famiglie [15] e l’eredità dei paesi… gli stabiliti tempi sacri, i corsi degli anni e i tempi determinati [16] in perpetuo… queste tue meraviglie le conosciamo per mezzo della tua intelligenza [17] … le tue orecchie al nostro grido, poiché… [18] … … … … XI [1] …bensì tua è la guerra ed è per mezzo della forza della tua mano che i loro corpi sono stati schiacciati e nessuno li seppellisce. Golia il Gattita, uomo valoroso, [2] tu l’hai consegnato in mano del tuo servo David il quale aveva posto la sua fiducia nel tuo grande nome, non nella spada e nella lancia. Tua, infatti, è la guerra! [3] Egli ha pure umiliato mille volte i Filistei in virtù del tuo santo nome, e tu ci hai salvato mille volte per mezzo della mano dei nostri re [4] in virtù della tua misericordia, non in virtù delle nostre azioni, con le quali abbiamo compiuto il male, né in virtù dei delitti da noi commessi. Tua è la guerra, e la potenza viene da te, [5] non da noi. Non è la nostra forza né il potere delle nostre mani che agirono valorosamente. Noi, infatti, (abbiamo agito) in virtù della tua forza e dell’efficacia del tuo grande valore, come [6] ce lo avevi annunziato una volta dicendo: «Un astro è sorto da Giacobbe, uno scettro si è innalzato da Israele, colpirà le tempie di Moab [7] e il cranio di tutti i figli di Set, dominerà da Giacobbe e farà perire ciò che resta della città, il nemico è stato conquistato e Israele ha compiuto prodezze». [8] Per opera dei tuoi unti, coloro che contemplano le tue testimonianze, tu ci hai annunziato i tempi determinati per le guerre delle tue mani, per le quali sarai glorificato sui nostri nemici abbattendo le milizie di Belial, sette [9] popoli da nulla, per mano dei poveri che hai liberato con la forza e con la pace, (manifestando) un’ammirabile potenza; e il cuore sciolto divenne una porta di speranza. Verso di loro hai agito come verso il Faraone [10] e come verso gli ufficiali dei suoi carri nel Mare dei Giunchi. Quanti hanno lo spirito abbattuto, li farai bruciare come una torcia di fuoco nella paglia: essa divorerà l’iniquità e non si ritirerà fino a quando [11] la colpevolezza non sarà sterminata. Da tempo ci hai fatto ascoltare il momento stabilito per la potenza della tua mano contro i Kittîm, dicendo: «Assur è caduto non per opera d’una spada di uomo, e una spada [12] non umana lo divorerà». [13] Giacché nella mano dei poveri consegnerai i nemici di tutti i paesi, e nella mano di coloro che si curvano nella polvere, per umiliare i forti dei 278

popoli, per fare ricadere la punizione [14] dei malvagi sul loro capo colpevole, per esercitare in modo giusto il giudizio della tua verità tra tutti gli uomini e per farti un nome eterno nel popolo [15] … le guerre, e per dimostrarti grande e santo agli occhi del resto dei popoli affinché sappiano [16] …… allorché farai giustizia di Gog, di tutto il suo assembramento, e di quanti si sono uniti contro di te… [17] … giacché dai cieli tu combatterai contro di essi…… [18] … … XII [1] Poiché tu hai nei cieli una moltitudine di santi, eserciti di angeli sono nella tua santa abitazione per lodare il tuo nome. Gli eletti del popolo santo [2] li hai posti per te in una comunità; il numero dei nomi di tutto il loro esercito è presso di te, nella tua dimora santa, e gli angeli del cielo sono nell’abitazione della tua gloria; [3] le benevolenze delle tue benedizioni sono per essi e il tuo patto di pace l’hai scolpito per essi con uno stilo di vita per regnare su di essi per tutti i tempi stabiliti dell’eternità, [4] per visitare gli eserciti dei tuoi eletti secondo le loro migliaia e secondo le loro miriadi, insieme con i tuoi santi e l’esercito dei tuoi angeli, per fortificare la mano [5] in combattimento, per abbattere quanti insorgono contro la terra allorché compi i tuoi giudizi, mentre le tue benedizioni sono con gli eletti del cielo. [6] [7] Ma tu, Dio, sei terribile nella gloria della tua regalità, e l’assemblea dei tuoi santi è in mezzo a noi quale aiuto eterno. Tra di noi c’è disprezzo per i re, sdegno [8] e derisione per i potenti. Giacché Adonai è santo, e il re della gloria è con noi, popolo di santi, e le potenze dell’esercito degli angeli sono tra i nostri recensiti, [9] il forte in combattimento è nella nostra assemblea, l’esercito dei suoi spiriti è con i nostri passi; i nostri cavalieri sono come un banco di nuvole e come una massa di nebbie piene di rugiada da coprire la terra, [10] sono come una pioggia abbondante per irrigare con il giudizio, tutto ciò che scaturisce da essa. Sorgi, potente! Prendi i tuoi prigionieri, uomo di gloria! Impadronisciti [11] del tuo bottino, tu che agisci da eroe! Poni la tua mano sulla nuca dei tuoi nemici, il tuo piede su mucchi di uccisi! Schiaccia i popoli tuoi nemici, la tua spada [12] divori la carne colpevole! 279

Riempi di gloria la tua terra, di benedizione la tua eredità! Numeroso sia il bestiame sui tuoi pascoli, argento, oro e pietre [13] preziose siano nei tuoi palazzi! Rallegrati molto, Sion! Risplendi con canti di gioia, Gerusalemme! Esultate voi tutte città di Giuda! Apri [14] per sempre le tue porte, fa entrare in te la ricchezza delle nazioni: i loro re ti serviranno, tutti i tuoi oppressori si prostreranno davanti a te, e la polvere [15] dei tuoi piedi lambiranno. Figlie del mio popolo, innalzate grida di gioia, rivestitevi d’ornamenti di gloria e dominate sul regno dei Kittîm, [16] fino a quando risplenderà il re di Israele, per regnare in eterno. [17] …valorosi combattenti, Gerusalemme… [18] …Alzati al di sopra dei cieli, Adonai… XIII [1] e i suoi fratelli, i sacerdoti e i leviti, e tutti gli anziani della regola saranno con lui. Dal loro posto benediranno il Dio di Israele e tutte le opere della sua verità, e malediranno, [2] dallo stesso posto, Belial e tutti gli spiriti del suo partito. Prenderanno la parola, dicendo: Sia benedetto il Dio d’Israele in ogni suo santo disegno e nelle opere della sua verità! [3] Siano benedetti tutti coloro che lo servono nella giustizia e lo conoscono nella fedeltà. [4] Sia maledetto Belial nel suo disegno ostile, sia esecrato nella sua colpevole dominazione! Siano maledetti tutti gli spiriti del suo partito nel loro disegno [5] malvagio! Siano esecrati in ogni opera immonda della loro impurità, poiché essi sono il partito delle tenebre, mentre il partito di Dio è per la luce [6] eterna. [7] Tu sei il Dio dei nostri padri! Benediciamo il tuo nome in eterno. 280

Noi siamo un popolo eterno. Hai stretto un patto con i nostri padri e l’hai mantenuto con la loro posterità, [8] per gli stabiliti tempi eterni. In tutte le testimonianze della tua gloria è menzionata la tua presenza in mezzo a noi, a sostegno di un resto e dei superstiti per (amore) del tuo patto, [9] per narrare le opere della tua verità e i giudizi delle tue mirabili gesta. Tu ci hai separati per te come un popolo eterno, e ci hai posto nel partito della luce, [10] conformemente alla tua verità. Da tempo hai designato un principe di splendore quale nostro aiuto: tutti i figli della giustizia appartengono al suo partito, e tutti gli spiriti della verità sono sotto il suo dominio. [11] Hai fatto Belial affinché nuocesse, angelo di ostilità, il cui dominio è nelle tenebre e il cui disegno è compiere il male e rendere colpevole. Tutti gli spiriti [12] del suo partito sono angeli di distruzione, camminano secondo le leggi delle tenebre e verso di esse è diretto il loro comune desiderio. Noi, nel partito della tua verità, ci rallegriamo a causa della potenza [13] della tua mano, siamo allegri a causa della tua salvezza ed esultiamo per il tuo aiuto e la tua pace. Chi eguaglia la tua forza, Dio di Israele? [14] Con i poveri è la potenza della tua mano. 281

Qual angelo o qual principe è come l’aiuto della tua redenzione? Da tempo, infatti, tu hai stabilito il giorno del grande combattimento contro le tenebre, [15] per salvare la luce per mezzo della verità, per annientare i colpevoli, per abbattere le tenebre e intensificare la luce e per… [16] nella comunità di Dio, al suo posto eterno, per annientare tutti i figli delle tenebre ed essere la gioia di tutti i figli della luce. [17] [18] … poiché tu ci hai destinati per… XIV [1] come il fuoco della sua ira contro gli idoli dell’Egitto. [2] Dopo che si saranno ritirati dai colpiti per rientrare nell’accampamento, canteranno tutt’insieme con gioia l’inno del ritorno. Al mattino, laveranno i loro abiti e laveranno se stessi [3] dal sangue dei cadaveri dei colpevoli, e ritorneranno al luogo del loro posto, là ove avevano formato la linea di combattimento prima che cadessero i colpiti del nemico. Là benediranno [4] il Dio di Israele e, tutt’insieme, esalteranno il suo nome con gioia e si risponderanno dicendo: Sia benedetto il Dio di Israele che mantiene la benevolenza verso il suo patto e le testimonianze [5] della salvezza verso il popolo della sua liberazione. Egli ha chiamato persone vacillanti a compiere azioni mirabili, ha riunito l’assembramento delle nazioni per uno sterminio che non lasciò residuo alcuno, per sollevare, con il (suo) giudizio, [6] il cuore sciolto, per aprire la bocca dei muti, affinché cantino le gesta di Dio, e per ammaestrare le mani deboli alla guerra; egli ha rese salde al loro posto, le ginocchia dei vacillanti, [7] e fermi i lombi dei percossi sulla schiena; per opera degli umili di spirito, egli abbatte quanti hanno il cuore chiuso e indurito; per mezzo di coloro che seguono una via perfetta avranno fine tutte le nazioni inique [8] e non ci sarà più posto per alcuno dei loro uomini forti. Noi, invece, resto del tuo popolo, benediciamo il tuo nome, Dio delle benevolenze, che custodisci il patto (stretto) con i nostri padri e in [9] tutte le nostre generazioni hai concesso le tue mirabili benevolenze al resto della tua eredità sotto il dominio di Belial; sicché nonostante tutti i misteri della 282

sua ostilità essi non riusciranno ad allontanarci [10] dal tuo patto; hai scacciato da noi i suoi spiriti maligni e quando gli uomini della sua dominazione si abbandonavano all’iniquità, tu hai custodito l’anima da te salvata. Hai fatto sorgere, [11] con la tua forza, quelli che erano caduti, mentre abbatterai quelli che sono d’alta statura e umilierai l’arrogante. Nessuno potrà salvare uno solo di tutti i loro guerrieri, non vi sarà scampo per alcuno dei loro uomini veloci, ai loro uomini venerati [12] tu risponderai con la derisione e tutto l’essere delle loro vanità sarà come un niente. Ma noi, tuo popolo santo, lodiamo il tuo nome a motivo delle opere della tua verità [13] e a motivo delle tue gesta esaltiamo il tuo splendore in tutti i tempi e in tutte le date stabilite dalle tue testimonianze eterne: all’ingresso del giorno e della notte, [14] all’uscita della sera e del mattino, poiché grande è il tuo glorioso disegno e mirabili i tuoi misteri nelle tue altezze (celesti), per innalzare a te dalla polvere [15] e per abbassare dagli dèi. [16] Sorgi, sorgi, Dio degli dèi innalzati con forza, re dei re, per umiliare l’iniquo e non vi sia più né un resto né uno scampo [17] per tutti i figli delle tenebre. La luce della tua grandezza risplenda in eterno per tutti i tempi determinati, per la pace, la benedizione, la gloria e la gioia di tutti i figli della luce, ma il fuoco [18] della tua ira bruci fino allo sheôl per consumare… XV [1] Poiché è un tempo d’angoscia per Israele e della dichiarazione di guerra contro tutte le nazioni. Il partito di Dio avrà una redenzione eterna, [2] mentre ogni nazione empia sarà annientata. Tutti coloro che sono pronti alla guerra, andranno a porre l’accampamento di fronte al re dei Kittîm e di fronte a tutto l’esercito [3] di Belial, schierati attorno a lui per il giorno della vendetta per mezzo della spada di Dio. [4] Il sacerdote capo starà in piedi; davanti a lui ci saranno i sacerdoti suoi fratelli, i sacerdoti, i leviti e tutti gli uomini della regola, ed egli leggerà 283

alle loro orecchie [5] la preghiera per il tempo stabilito per la guerra, secondo il tenore del libro della regola del suo tempo con tutte le parole dei loro inni; e quivi disporrà [6] tutte le linee di combattimento, come è scritto nel libro della guerra. Allora si farà avanti il sacerdote designato per il tempo stabilito per la vendetta (dall’accordo) di [7] tutti i suoi fratelli e fortificherà le loro mani alla guerra prendendo la parola, e dicendo: Siate forti, coraggiosi e uomini valorosi! [8] Non abbiate paura! Non temete, né sia debole il vostro cuore! Non allarmatevi! Non spaventatevi per essi, non [9] indietreggiate né fuggite davanti a loro! Sono, infatti, un’assemblea empia, tutte le loro opere sono (compiute) nelle tenebre, [10] ad esse tende la loro inclinazione e ogni loro rifugio si basa sulla menzogna. La loro potenza è come fumo che si dilegua e tutto l’assembramento [11] della loro moltitudine, come paglia che passa, svanirà e non si troverà più; tutto il loro miserabile essere seccherà presto [12] come un fiore sotto il vento d’oriente. Ma voi siate coraggiosi, dimostratevi forti nella guerra di Dio, giacché oggi è il tempo della guerra [13] di Dio contro tutto l’esercito di

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Inni (1Q H), II.

Notare alle righe 20 e 31 gli spazi intenzionali e le parole designanti l’inizio dei due nuovi inni: ’ôdkāh ’adônāj kî śamtāh nafshî… e ’ôdkāh ’adônāj ki’ (con scrittura diversa dalla precedente) ’ênkāh ’ā [mdāh] ’al nafshî… (Da E. L. SUKENIK, The Dead Sea Scrolls of the Hebrew University, Jerusalem, The Magnes Press, 1955, Pl. 36).

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Belial, e del giudizio contro ogni carne. Con la sua mirabile potenza, il Dio di Israele alzerà la sua mano [14] contro ogni spirito di empietà. I guerrieri divini si sono cinti per la battaglia. I reparti dei santi [15] sono convocati per il giorno della vendetta… … Dio di Israele…… [16] … nella sua perdizione… [18] … XVI [1] … fino a quando sia terminata ogni fonte di impurità poiché il Dio di Israele chiama una spada su tutte le nazioni, e per mezzo dei santi del suo popolo agirà con potenza. [2] [3] Seguiranno questa regola, nel giorno in cui prenderanno il loro posto davanti agli accampamenti dei Kittîm. In seguito i sacerdoti suoneranno per loro le trombe [4] del ricordo e apriranno gli intervalli della guerra: usciranno allora gli uomini della fanteria e si porranno ritti, in colonna, tra le linee di combattimento; i sacerdoti [5] suoneranno per essi la «terûâh» per la messa in formazione; al suono delle trombe le colonne si spiegheranno collocandosi ognuna al proprio posto. Per essi, i sacerdoti [6] suoneranno la «terûâh» per l’avvicinamento; quando si troveranno presso la linea di combattimento dei Kittîm, alla distanza di un tiro, ognuno alzerà la mano con le sue armi [7] da guerra. E i sei sacerdoti suoneranno le trombe dei colpiti con suono acuto e intermittente per la durata della battaglia. I leviti e tutti coloro che hanno [8] i corni suoneranno la «terûâh» di combattimento con un suono forte. E allorché il suono inizia a risuonare le loro mani cominceranno ad abbattere i colpiti dei Kittîm; tutto [9] il popolo cesserà il suono della «terûâh»; ma i sacerdoti seguiteranno a suonare le trombe dei colpiti e la battaglia contro i Kittîm proseguirà. [10] [11] Allorché Belial si cingerà (per andare) in aiuto dei figli delle tenebre, e i colpiti della fanteria incominceranno a cadere secondo i segreti di Dio — per provare per mezzo di essi tutti coloro che sono designati per la guerra —, [12] i sacerdoti suoneranno le trombe della chiamata, affinché un’altra linea esca a combattere e a sostituirli, ed essi si pongano tra le linee di combattimento; [13] e per coloro che si trovano ancora in combattimento suoneranno (le trombe) del ritorno. Allora il sacerdote capo si avvicinerà, starà ritto davanti alla linea e incoraggerà [14] il loro cuore con la potenza di Dio e le loro mani per la sua battaglia; [15] egli prenderà la parola dicendo: … Dio scruta con giustizia e mette con giudizio alla prova il cuore del 286

suo popolo, Non è senza motivo che sono caduti i vostri colpiti. Da tempo, infatti, avete udito [16] per mezzo dei misteri di Dio… [17] … … XVII [1] egli ha posto la loro pace come una fiamma in un covone affinché fossero provati al crogiolo, ha limato le loro armi da guerra ed essi non verranno mai meno fino alla distruzione di ogrni nazione [2] iniqua. Voi ricordatevi del giudizio su Nadab e Abiu figli di Aronne, attraverso il cui giudizio Dio si è mostrato santo agli occhi di tutto il popolo [3] e ha confermato per sé Eleazaro e Itamar con un patto di sacerdozio eterno. [4] Voi siate forti, non abbiate paura di loro, giacché la loro inclinazione è diretta a ciò che è vano e nullo, e il loro sostegno consiste in ciò che non è, non sanno che dal Dio [5] di Israele deriva tutto ciò che è, cio che fu e ciò che sarà… per tutto ciò che accadrà in eterno. Oggi stesso è il tempo da lui stabilito per umiliare e abbattere il principe della dominazione [6] dell’empietà. Al partito della sua redenzione egli ha inviato un aiuto eterno per mezzo della potenza dell’angelo che egli ha esaltato, per mezzo della dignità principesca di Micael, nella luce eterna, [7] per irradiare di gioia il patto di Israele, (per dare) pace e benedizione al partito di Dio, per esaltare tra gli dèi la dignità principesca di Micael e la dominazione [8] di Israele su ogni carne. La giustizia gioirà nelle altezze e tutti i figli della sua verità esulteranno nella conoscenza eterna. [9] Voi, figli del suo patto, siate forti nel crogiolo di Dio, fino a che egli agiti la sua mano portando a compimento le sue prove, i suoi misteri, circa la vostra esistenza. [10] Dopo queste parole i sacerdoti suoneranno per loro affinché si dispongano in formazione i reparti della linea di combattimento. Al suono delle trombe le colonne si spiegheranno [11] collocandosi ognuna al proprio posto. Allora i sacerdoti suoneranno per la seconda volta le trombe della «terûâh» per lo avvicinamento; e quando [12] gli uomini di fanteria avranno raggiunto la linea di combattimento dei Kittîm, alla distanza di un tiro, ognuno alzerà la sua mano con le sue armi da guerra. I sacerdoti suoneranno le trombe [13] dei colpiti, e i leviti e tutti coloro che hanno i corni suoneranno la «terûâh» di combattimento, e gli uomini di fanteria allungheranno le mani contro l’esercito [14] dei Kittîm. Allorché inizierà a echeggiare il suono della «terûâh» incominceranno a fare cadere i colpiti; quando tutto il popolo arresterà il suono della «terûâh», i sacerdoti [15] suoneranno le trombe dei colpiti: la guerra contro i Kittîm seguiterà e le milizie di Belial soccomberanno davanti a loro. [16] Nella 287

terza fase i figli della luce avranno il sopravvento; ma nella quarta fase, i figli delle tenebre si cingeranno di forza e i figli (di Israele) inizieranno a cadere colpiti [17] per i misteri di Dio, e……… XVIII [1] … quando la grande mano di Dio s’alzerà contro Belial e contro tutto l’esercito della sua dominazione con una disfatta eterna, [2] con il fragore di una grande moltitudine e la «terûâh» dei santi nell’inseguimento di Assur, i figli di Jafet cadranno per non rialzarsi più, i Kittîm saranno fatti a pezzi senza lasciare [3] alcun superstite o fuggitivo e la mano del Dio di Israele sarà alzata contro tutta la moltitudine di Belial. In quel tempo i sacerdoti suoneranno [4] le sei trombe del ricordo, tutte le linee di combattimento si raduneranno verso di loro dividendosi per (marciare) contro tutti gli accampamenti dei Kittîm [5] per distruggerli completamente. E allorché il sole volge al tramonto, in quello stesso giorno, il sacerdote capo starà ritto, con i sacerdoti, i leviti che [6] sono con lui e i capi delle linee di combattimento e gli uomini della regola, e benediranno là il Dio di Israele. Prenderanno la parola dicendo: — Benedetto sia il tuo nome Dio degli dèi, giacché [7] per il tuo popolo hai compiuto meravigliosamente cose grandi, hai mantenuto verso di noi il tuo patto di un tempo. Molte volte ci hai aperto le porte della salvezza [8] a motivo del tuo patto — noi, infatti, eravamo poveri — conformemente alla tua bontà verso di noi. E tu, Dio di giustizia, hai agito per il tuo nome! [9] [10] Giacché, nella tua potenza, tu hai compiuto tra noi cose stupende e meravigliose, e fin dall’antichità non vi fu mai nulla di simile; tu, infatti, conosci il tempo stabilito per noi, ed oggi tu sei apparso [11] a noi in una luce perfetta e ci hai mostrato la mano delle tue benevolenze verso di noi e la mano della tua potenza, con una redenzione eterna, eliminando per sempre la dominazione del nemico; [12] e nella guerra ti sei dimostrato pieno di forza contro i nostri nemici, fino alla disfatta completa. Ora il giorno ci spinge a inseguire le loro moltitudini, poiché tu [13] ci hai consegnato il cuore dei guerrieri sicché (per loro) non c’è più scampo. Tua è la potenza, nella tua mano è la guerra, e nessuno [14] strapperà dalla tua mano… i tempi stabiliti secondo il tuo beneplacito, e dai la ricompensa ai tuoi nemici e impedisci [15] alla dominazione… … XIX [1] …ai forti, giacché il nostro sublime è santo ed è con noi il re della gloria, l’esercito dei suoi spiriti è con i nostri fanti e i nostri cavalieri come un banco di nuvole [2] e come una massa di nebbie piene di rugiada 288

da coprire la terra e come una pioggia abbondante per irrigare, per mezzo della giustizia, tutto ciò che scaturisce da essa. Sorgi, potente! Prendi i tuoi prigionieri, [3] uomo di gloria! Impadronisciti del tuo bottino, tu che compi prodezze! Poni la tua mano sulla nuca dei tuoi nemici, il tuo piede su mucchi di uccisi! Schiaccia [4] i popoli tuoi nemici e la tua spada (ne) divori la carne! Riempi di gloria la tua terra, di benedizione la tua eredità! Numeroso sia il bestiame sui tuoi pascoli, [5] argento, oro e pietre preziose siano nei tuoi palazzi! Rallegrati molto, Sion! Esultate voi tutte città di Giuda! Apri per sempre [6] le tue porte, per fare entrare in te la ricchezza delle nazioni: i loro re ti serviranno, tutti i tuoi oppressori si prostreranno davanti a te e la polvere dei tuoi piedi [7] lambiranno. Figlie del mio popolo innalzate grida di gioia, rivestitevi d’ornamenti di gloria e dominate sul regno [8] dei Kittîm fino a quando risplenderà il re di Israele per regnare in eterno. [9] In quella notte si riuniranno nell’accampamento, per il riposo, fino al mattino, e al mattino andranno al luogo della linea di combattimento, [10] ove caddero i guerrieri dei Kittîm, la moltitudine di Assur e l’esercito di tutte le nazioni che si erano unite a essi. Ed eccoli tutti colpiti! [11] … caddero là per opera della spada di Dio. Il sacerdote capo si avvicinerà là, con i suoi fratelli sacerdoti e leviti, tutti gli anziani [12] della regola, gli eroi della guerra, tutti i capi delle formazioni delle linee di combattimento e i loro recensiti, e benediranno il Dio di Israele. Poi se ne ritorneranno al posto [13] ove erano prima della 289

caduta dei colpiti dei Kittîm, e là loderanno il Dio di Israele…

Quadro generale della guerra: I, 1 - II, 14. I, 1. L’espressione iniziale andata perduta per una lacerazione del rotolo è ricostruita in diversi modi. I principali sono: «Per il saggio. Regole della guerra…» (J. Carmignac e J. T. Milik); «Questa è tutta la regola della guerra…» (H. Bardtke); «Ecco la storia della guerra…» (H. E. Del Medico); quella qui seguita, con la maggior parte degli interpreti, fu proposta da Y. Yadin. L’espressione «per il saggio» è presa da testi come 1QS, III, 13; IX, 12, 21 ecc. Figli della luce e figli delle tenebre: vedi 1QS, 1, 9-10. Con il termine partito traduco l’ebraico gwrl che altrove rendo anche con «sorte» e «fase» (vedi l’art, del LICHT, H. W. KUHN, op. cit. pp. 72-75 e P. VON DER O STENS ACKEN, op. cit., pp. 78 e segg. In luogo di contro gli Amaleciti (con J. Carmignac), J. T. Milik legge «contro gli Amorrei…»; Y. Yadin «contro l’esercito degli abitanti…»; A. Dupont-Sommer «e contro la moltitudine dei figli dell’Oriente e…». Questo passo si può accostare alla menzione dei «sette popoli da nulla» (X I, 8-9) e ai sette popoli che l’antico Israele doveva scacciare dal paese di Canaan (Deut., 7, 1) rappresentanti tipici dei suoi nemici. Nel presente testo a Edom, Moab, Ammon, Amaleciti, Filistei, Kittîm di Assur si devono aggiungere i Kittîm abitanti in Egitto, menzionati alla r. 4. 2. Kittîm di Assur…; Kittîm in Egitto… (r. 4); Kittîm (r. 6). Per evidenti ragioni di discordanza a proposito di tutta la cronologia di Qumrân, per l’identificazione dei Kittîm sono state proposte diverse sentenze e discusse molte ipotesi. Nella Bibbia il termine (che si incontra anche nelle forme «Cetei» e «Chitei») designò primitivamente gli abitanti di Cipro (Is., 23, 1.12; Ez., 27, 6 e probabilmente Ger., 2, 10); e quindi, per estensione i Greci che in Gen., 10, 2.4 sono detti figli di Javan discendente di Jafet e padre appunto, dei Kittîm; ma se ne estese il significato a tutti i popoli mediterranei; interessante al riguardo è il testo di Num., 24, 24 (facente parte delle profezie di Balaam) che esercitò un notevole inf lusso sull’autore del nostro rotolo, come pure il testo di Dan., 11, 30 nei quali l’interpretazione tradizionale (la versione greca dei Settanta e la Volgata latina per Dan., 11, 30, la Volgata latina il Targum di Onkelos e il Targum di Jonatan per il testo dei Num.), nonché la maggioranza degli esegeti moderni vede i Romani. Nei testi di Qumrân la loro identificazione è di estremo interesse per la determinazione del periodo di composizione della Regola costituendo essi i principali nemici, quelli contro i quali si svolgerà la terribile battaglia decisiva dei figli della luce (cfr. I, 6; XV, 2; XVIII, 2-3; X IX, 10). A lato del presente rotolo è egualmente importante per l’identificazione dei Kittîm nella letteratura di Qumrân il Commento ad Abacuc (1Qp Hab, I, 6; II, 13-14; VI, 3-5; IX, 4-7); minore importanza, per la frammentarietà dei testi, hanno le menzioni in 4QpIs, II, 2.7.9; il testo del Commento a Nahum (4QpNah, I, 3) ha, invece, un valore decisivo. Da questi testi e dalla letteratura biblica (alla quale si può aggiungere, ma senza alcuna particolare luce, quella apocrifa anticotestamentaria), risulta con sufficiente

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chiarezza che «Kittîm» può designare tanto i Greci quanto i Romani o, in modo più generico, i nemici degli ebrei ed in specie degli aderenti al movimento di «Qumrân»; la scrittura può essere Kthjjm; come nella presente Regola, o Kthj’jm, come nel Commento ad Abacuc: il significato non cambia. La sentenza oggi più comune che addita in essi i Romani si può considerare certa almeno per quanto riguarda il presente rotolo, quello di Abacuc e quello di Nahum. La denominazione «Kittîm» di «Assur» e la menzione di «Assur» come sinonimo di Kittim (cfr. I, 5-6; X I, 11; XVIII, 2-3), contraddice al fatto che Assur è in realtà figlio di Sem mentre i Kittîm sono figli di Jafet; ad essa tuttavia sembra che l’autore sia stato indotto sia dal fatto che in tre testi dell’Antico Testamento ove sono menzionati i Kittîm si legge anche Assur (così Num., 24, 24; Is., 23, 12-13; Ez., 27, 6), sia dalla maniera piuttosto elastica con la quale la tradizione ebraica interpretava le profezie dei profeti a proposito dei nemici per cui certi nomi (Ninive, Assur, Edom, Egitto ecc.) assunsero un significato simbolico attualizzante testi del passato e ciò nel nostro rotolo è avvalorato dalla constatazione che l’autore applica il testo di Isaia sulla disfatta di Sennacherib (Is., 31, 8) a quella dei Kittîm anche nella fase ultima (cfr. X I, 11-12 e X IX, 9 e segg.). Di qui anche la denominazione «Kittîm di Assur»: come gli Assiri, anche i Romani vennero in Palestina dal nord; mentre quella di «Kittîm in Egitto» intende molto probabilmente indicare che gli stessi Kittîm erano presenti, in qualche modo, anche in Egitto. Il Driver (The Dead Sea Scrolls, pp. 197-216) propone di vedere nei Kittîm di Assur l’esercito di Vespasiano, in Siria che nel 67 d. C. si recò in Palestina dopo aver inviato il proprio figlio, Tito, a prendere in Egitto la legione XV, che rappresenterebbe i «Kittîm in Egitto»; i due eserciti s’incontrarono a Tolemaide (Acco) d’onde partirono per sedare la rivolta ebraica scoppiata nel 66 d. C. Ma un attento esame degli inquieti e turbolenti anni antecedenti dimostra da sola che non è affatto necessario discendere a un’epoca relativamente così tardiva per trovare una frazione dell’esercito romano stanziata anche in Egitto oltreché in Siria. Coloro che agiscono empiamente… sono gli ebrei del popolo ed a capo della cosa pubblica che non seguivano politicamente e religiosamente le idee dei qumraniani, sono i collaborazionisti: l’espressione è di Dan., 11, 32. Levi, Giuda e Beniamino sono le tre tribù che non seguirono lo scisma politico e religioso realizzatosi tra nord e sud alla morte del re Salomone (verso il 931 a. C.) e perciò simbolizzano per l’autore, la fedeltà di tutte le dodici tribù. Si direbbe che si distinguano due gruppi di figli della luce: le dodici tribù dette anche «gli esuli del deserto» (forse quello di Qumrân e regioni limitrofe) e «gli esuli… dal deserto dei popoli» provenienti cioè dal di fuori della Palestina, da una diaspora più o meno lontana; in Ez., 20, 35 «il deserto dei popoli» designa appunto le regioni nelle quali Dio radunerà gli esuli per giudicarli, come aveva giudicato i loro padri «nel deserto della terra d’Egitto». Appare così fin dall’inizio, come sotto queste espressioni apparentemente barocche, si celi un senso e un’apertura dalla portata molto vasta e profonda per i solitari di Qumrân. 3. Deserto di Gerusalemme: non si legge né in testi della Bibbia né della letteratura rabbinica, come osserva Y. Yadin; molto probabilmente il nostro autore aveva presente, in qualche modo, uno stato di cose simile a quello descritto in 1 Macc., 3,

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45: «Gerusalemme era disabitata come un deserto, / non c’era, tra i suoi figli, chi entrasse e chi uscisse, / il santuario era calpestato, / figli di stranieri abitavano nell’Acra, / fatta dimora dei Gentili: / era scomparsa la gioia da Giacobbe, / non risuonava più né f lauto, né cetra». 4. La restituzione dell’inizio della riga è dovuta alla proposta di Y. Yadin e A. M. Habermann, H. Bardtke, J. Maier; il soggetto del periodo seguente è Dio (così è anche per J. Carmignac). A. Dupont-Sommer legge: «E, dopo questa guerra saliranno di laggiù le nazioni e il re dei Kittîm entrerà in Egitto. E, nel suo tempo, uscirà…»; questo re dei Kittîm sarebbe Giulio Cesare che entrato in Egitto nel 48 ne partì nel giugno del 47 diretto verso l’Asia Minore. Non pare che la ricostruzione sia felice. J. van der Ploeg restituisce il testo solo parzialmente: con «re dei Kittîm», ritiene che il passo parli di un re dei Kittîm che dall’Egitto marcerà contro i re del nord per distruggerli, distruzione che per Israele equivarrà alla fine della dominazione di Belial e rinvia al c. 11 di Daniele dove si parla della lotta tra i re Tolomei e i re Seleucidi. Giudico poco probabile anche questa proposta. L’autore ha parlato, in una visione panoramica, dei figli di Sem (I, 1-2), ora parla dei figli di Cam, rappresentati dai Kittîm in Egitto, e appresso (I, 6) dei figli di Jafet: si tratta di uno sguardo generale sul soggetto che sarà sviluppato appresso. Come si vede è una restituzione di notevole importanza per la interpretazione della Regola. 5. Il nome proprio Belial ricorre più di trenta volte nei grandi scritti di Qumrân finora pubblicati e sono approssimativamente così distribuite: cinque volte nella Regola della comunità, dieci volte negli Inni, sei volte nel Documento di Damasco, e dodici volte nel presente rotolo della Guerra; si legge ancora, ad es. in 4QTest., 23 e in 4QFlor., I, 8-9 e II, 2. Non v’è dubbio che gli esseni di Qumrân fossero interessati nella personalità e nell’azione di Belial. Da questi testi si deducono alcuni aspetti fondamentali comuni: 1) il dominio di Belial contraddistingue il tempo presente (cfr. CD, IV, 12-13; 1QS, I, 17-18; II, 19) ed in questo periodo Dio manifesta le sue «benevolenze» sulla sua «eredità», cioè sui fedeli di Qumrân (1QM, X IV, 8-10); 2) in contrapposizione al «partito» dei figli della luce, il «partito» di Belial è quello delle tenebre contrapposto irrimediabilmente al precedente; 3) il suo dominio è nelle tenebre, il suo disegno è il male e fu fatto da Dio affinché nuoccia; al suo partito appartengono tutti gli angeli della distruzione (X III, 11-12); 4) è impotente ogni sua azione diretta contro i figli della luce, presi nel loro insieme, purché costoro osservino le leggi di Dio (X IV, 10 e segg.; e XVI, 15); 5) contro di lui e contro i suoi è efficace la maledizione lanciata dai figli della luce, e nel giorno stabilito, Dio farà intervenire anche i propri angeli per inf liggere «una disfatta eterna» a Belial e a tutti i suoi (X III, 4 e segg.; XVIII, 1 e 1QS, II, 4-5). Belial è dunque usato nei manoscritti di Qumrân come il nome proprio di una entità esterna e contraria all’uomo (cfr. «angelo di ostilità», X III, 11), il nome di una entità interiore all’uomo e in lui operante, il nome del capo degli esseri maligni o «angeli di distruzione» (X III, 11). Queste note caratteristiche hanno riscontro in scritti apocrifi e in particolare nei Testamenti dei dodici patriarchi e nel libro dei Giubilei: in quest’ultimo scritto si legge anche il termine «mastema» inteso spesso dagli interpreti come nome proprio, mentre qualche passo del nostro rotolo (X III, 4; X IV, 9) indica che si tratta

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di un nome comune, che enunzia la caratteristica fondamentale di Belial. Nell’Antico Testamento il sostantivo Belial ricorre molte volte: secondo alcuni esegeti si tratta di un nome comune equivalente a «malizia, malvagità, cattiveria», mentre secondo altri (ed è assai probabile) è un nome come Satana che a volte corrisponde a un nome proprio altre volte a un nome comune. Belial si legge una volta nel Nuovo Testamento nella forma «Beliar» (2 Cor., 6, 15). Per il simbolismo dei termini «luce» e «tenebre» si veda ad es. L. M ORALDI, Dio è amore, Roma, 1954, 111-119 e H. C ONZELMANN, nel ThWb, 7, 1964, 424, 446. Sul dualismo e determinismo qumranico cfr. 1QS, III, 13-25 e nota, P. VON DER O STENSACKEN, op. cit. 8. In luogo di Verità e giustizia, comune binomio biblico, altri restituiscono il testo con: «e i figli della giustizia» (A. Dupont-Sommer, J. T. Milik, J. Carmignac); «conoscenza e giustizia» (Y. Yadin;F. Michelini-Tocci); «manifestazioni di lampi» (H. Bardtke); «poiché i decreti della giustizia (H. E. Del Medico); «raggi splendenti» (Th. H. Gaster); «lampi fulminei» (J. van der Ploeg). 10. La determinazione del giorno… da molto tempo è una delle espressioni che fanno parte del determinismo dei qumraniani; vedi anche i testi X I, 11; X III, 17; XV, 12; XVIII, 5; XVIII, 9 e III, 7; IV, 7; su questo determinismo cfr. 1QS, IV, 15-26 e nota. 11. In luogo dell’assemblea degli dèi vi è chi preferisce tradurre «assemblea degli angeli» o «degli esseri divini» dato che a Qumrân non si credeva all’esistenza degli dèi (così ad es. J. van der Ploeg); ma in tal modo si introducono delle concezioni nuove ed estemporanee e non si tiene conto di un dato biblico; traduco quindi sempre il termine ebraico ’elim (plur. di ’el «Dio») con «dèi» osservando tuttavia che esso in questo e altri simili contesti, non contiene minimamente alcun accenno a concezioni politeiste, bensì si riferisce all’angelologia dei qumraniani (sulla quale vedi X II, 8 e nota). Sulla terûâh vedi II, 16 e nota. 13. Il significato escatologico della «redenzione» o «liberazione», in ebr. pedût da pâdâh, che traspare chiaramente in alcuni testi dell’Antico Testamento, risulta evidente sia qui che negli altri passi della Regola nei quali ricorre (X I, 9; X IV, 5.10; XV, 1; XVII, 6; XVIII, 11); gli aspetti fondamentali sono la liberazione da un male, ad es. la schiavitù, i nemici, un paese straniero, e l’inizio di un diritto di proprietà del tutto particolare del liberatore rispetto al liberato; l’esempio paradigmatico della liberazione di Israele è l’esodo dall’Egitto (con il dono della legge e la peregrinazione desertica) e l’ingresso nella terra di Canaan. Il valore escatologico, sia qui che altrove, è sottolineato dalle «angustie»: tipico segno dell’èra messianica (cfr. J. BONSIRVEN, Judaïsme palestinien au temps de Jésus-Christ, I, Paris, 1934, 383-385; 407-416), secondo una tradizione ebraica sono il settimo segno di questa èra (cfr. A. J ELLINEK, Beth ha-Midrash. Sammlung kleiner Midraschin, II, Leipzig-Wien, 1854, 61). Vedi anche XVI, 11-XVII, 3.15-17. 14. Fanteria leggera: vedi III, 1 e nota. 16-17. Ho seguito il testo proposto da A. M. Habermann. II. 1-4. Capi famiglia (in ebr. ’abôt ha-’edāh), qualche autore traduce “i padri dell’assemblea”, versione per sé possibile, ma improbabile: cfr. anche r. 7. Capi dei sacerdoti: sono i capi delle famiglie sacerdotali: cfr. Neem., 12, 7. Terminato il quadro generale della guerra, l’autore dà con cura le modalità dello

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svolgimento del culto durante tutto questo periodo così decisivo. Le determinazioni presenti sono sostanzialmente concordi con i dati biblici e hanno molti paralleli con la letteratura ebraica post-biblica (per i quali vedi il commento di Y. Yadin), ma da esse emergono pure dei particolari che sono propri, e, almeno finora, esclusivi degli esseni di Qumrân. A capo di tutto il servizio liturgico c’è il sommo sacerdote e il suo sostituto (vedi XV, 4 e note), dopo di essi vengono i sacerdoti, seguono i leviti e, infine, i laici rappresentati dai capi tribù e dai capi famiglia; i princìpi ispiratori sono da una parte la necessità che nel tempio vi sia sempre un gruppo in rappresentanza del sacerdozio, dei leviti e del laicato, dall’altra l’interna suddivisione di ognuno di questi tre strati sociali in modo da rendere possibile la presenza costante di un numero proporzionato in corrispondenza a una logica rotazione secondo la divisione cronologica dell’anno. A questo proposito è indispensabile osservare che ci si trova in pieno calendario esseno (vedi anche 1QS, X, 1 e nota) corrispondente a quello del libro dei Giubilei e del libro di Enoc, regolato cioè sull’anno solare: l’anno consta di 364 giorni divisi in 12 mesi di 30 giorni e di un giorno supplementare per ognuna delle quattro stagioni; quindi 52 settimane divise in quattro stagioni di 13 settimane, 26 settimane ogni due stagioni. D’onde il numero dei capi famiglia, 52, dei sacerdoti e leviti, 12, e dei capi gruppi, 26 (mentre nella Bibbia il numero di questi è 24, corrispondente alle 48 settimane dell’anno lunare: cfr. 1 Cron., 24, 3-19). Nell’ultimo periodo del secondo tempio il servizio liturgico dei sacerdoti e dei leviti era’ stato diviso in 24 «gruppi» detti in ebraico mishmârôt; così era avvenuto anche per il servizio dei laici, il cui gruppo, essendo molto numeroso, mandava solo una delegazione; il raggruppamento di sacerdoti, leviti e laici che assisteva ufficialmente o prestava servizio al tempio era detto ma’amâd, cioè «unità di servizio», che qui nel nostro testo si potrebbe, forse, tradurre meglio «turno ufficiale», «turno di servizio»; ogni gruppo aveva i suoi capi e i suoi arruolati. 5-6. Da quanto precede e da queste righe si deduce chiaramente che gli esseni di Qumrân non erano contrari in modo assoluto al culto nel tempio: vi fu un tempo nel quale, a loro giudizio, i sacerdoti e i leviti del servizio del tempio non erano legittimi, oppure il servizio non era eseguito secondo le leggi mosaiche tradizionali o per qualche altra ragione del genere ed essi si astennero dal culto materiale in favore dello spirituale (cfr. 1QS, I, 1) in attesa del tempo escatologico, quando il tempio sarebbe stato nelle loro mani; le precisazioni cultuali del presente rotolo non contraddicono a 1QS (cfr. IX, 3 e segg.) e a 1QH. A proposito del culto si veda anche CD, III, 20 - IV, 2; VI, 11-14; X I, 17-21; il testo sulla Nuova Gerusalemme (vedi qui appresso), il testo per ora inedito sulle mishmârôt (J. T. M ILIK, Ten Years…, pp. 107 e 152) e il Rotolo del tempio (J. N OLLAND, A Misleading Statement of the Essene Attitude to the Temple, in RQ, 36, 1978, 555-562). 6. A motivo dei testi di Mal., 1, 7.12 che parlano della «tavola di Jahweh» e di Ez., 44, 16 ove Dio parla della «mia tavola», qui si può vedere in «gloria» una sostituzione del tetragramma sacro, cioè di Jahweh. Sull’anno della remissione o del condono cfr. Deut., 15, 1-18 e, più brevemente, Es., 23, 10-11; Lev., 25, 1-7. La guerra in quest’anno non è proibita da alcuna legge mosaica, tuttavia 1 Macc, 6, 49.53 accenna a questa usanza per l’epoca dei Maccabei e di essa parla anche Giuseppe Flavio (Ant., X II, VI, 2; X III, VIII, 1; Guerra, I, II, 4);

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Cfr. R. N ORTH, Maccabean Sabbath Years, in Bibl., 34, 1953, 501 e segg. 6-10. Queste righe presentano varie difficoltà. Quelle che interessano direttamente il senso, sono: la punteggiatura (tra la seconda parte della r. 6 e la prima della 7 non è sicura) e il senso del verbo ebraico ’ ârak che ha qui un’importanza particolare ordinariamente significa «preparare» ma nella letteratura ebraica posteriore ’ârak milḥamâh, come nel nostro testo, può equivalere a «combattere» senso parzialmente possibile anche in qualche testo biblico (Giud., 20, 22; 1 Cron., 12, 34.36-37): in questo senso l’intesero Y. Yadin, J. Maier e pochi altri; la grande maggioranza dei qumranisti, che qui seguiamo, non ritiene giustificato tale senso (cfr. ad es. J. van der Ploeg e B. Jongeling). Di qui una diversa computazione del periodo bellico: la durata complessiva è per tutti gli interpreti di 40 anni, ma coloro che vedono nel verbo ’ârak il senso di «preparare», la guerra è preceduta da sei anni di preparazione e dopo il primo anno di remissione, o sabatico hanno luogo i 33 anni di guerra (r. 6) intercalati dai quattro anni sabatici, cioè i 29 anni di effettiva guerra combattuta (r. 10); per quanti invece intendono qui il verbo ebraico nel senso di «combattere», nei primi sei anni la guerra è combattuta da «tutta l’assemblea insieme»: questa era cioè considerata una guerra d’obbligo per tutti contro i vicini e tradizionali nemici, compresi tra i confini indicati da Gen., 15, 1821, e dopo il primo anno sabatico hanno luogo gli altri 33 anni di guerra intercalati dai quattro anni sabatici, come sopra: questa guerra era combattuta da unità scelte di anno in anno, e lungi dai confini della patria, era la guerra di conquista, scelta cioè volontariamente (vedi Introduzione). Per i popoli e le regioni menzionate nelle righe seguenti cfr. Gen., c. 10 e c. 25 e 1 Cron., c. 1. Gli anni della guerra escatologica sono dunque 40 così suddivisi: sei anni di preparazione; cinque anni di «remissione» o di riposo sabatico; ventinove anni di campagne belliche effettivamente combattute dai figli della luce contro tutti i figli delle tenebre per la vittoria definitiva e l’annientamento del nemico. Il numero 40 sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento contrassegna spesso eventi che hanno una portata decisiva nella storia di una persona o del popolo; così ad es.: nel diluvio la pioggia cadde per 40 giorni; la vita di Mosè è divisa in tre periodi di 40 anni ognuno; la peregrinazione desertica nell’esodo dall’Egitto durò 40 anni; Elia camminò 40 giorni nel deserto per giungere al monte di Dio; Gesù digiunò 40 giorni nel deserto. Norme particolari per la guerra: II, 16 - IX, 16. II, 16-17. Per queste due righe ho seguìto in parte le congetture di Y. Yadin e in parte quelle di A. M. Habermann. L’uso dei corni di montone e delle trombe, secondo la menzione di alcuni testi dell’Antico Testamento (Num., 31, 6; 2 Cron., 13, 12-14; Sal., 98, 6), e in particolare, il passo di Num., 10, 1-10, ha carattere essenzialmente religioso sia in connessione con la guerra (ricorda a Dio il suo popolo che combatte: Num., 10, 9 e Os., 5, 8), che in connessione al culto e alla peregrinazione desertica nell’esodo dall’Egitto; a proposito dell’uso in guerra hanno un particolare significato i testi che narrano la caduta di Gerico (Gios., 6, 6-20), la guerra di Gedeone contro Madian (Giud., 7, 7-23), la mobilitazione delle tribù (1 Sam., 13, 3), la sommossa suscitata da Assalonne (2 Sam., 15, 10), ecc. Nel rotolo della Guerra, leggiamo tre elenchi di trombe: il primo (II, 16 III, 2) è molto mutilo e si può completare con il secondo (III, 2-11) che le enumera

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enunciando la scritta che ognuna doveva portare; il terzo elenco parla solo delle trombe di sei sacerdoti (VII, 13); il c. VIII si diffonde sui suoni e sui segnali da esse emessi; il. significato religioso è sottolineato tanto dal fatto che il loro suono è compito dei sacerdoti, quanto dalle iscrizioni scolpite su di esse. Nel rotolo le trombe sono dunque assai più numerose e il loro uso è assai più vario che non nel Pentateuco: in Num., 10, 2 e segg. Mosè dà l’ordine di fare due trombe d’argento per convocare l’assemblea e i suoi capi, e per dare il segnale di partenza; la tradizione biblica ricorda però anche 120 sacerdoti che nel giorno della dedicazione del tempio salomonico suonavano le trombe (2 Cron., 5; 12) e il profeta Osea invita a suonare la tromba come segnale di guerra e a fare risuonare la «terûâh» (Os., 5, 8). Sull’uso assai comune delle trombe in guerra all’epoca del nostro scritto, siamo informati dai libri dei Maccabei, cfr. 1 Macc., 7, 45; 4, 13.40; 9, 12; 15, 25-26) e dagli scritti di Giuseppe Flavio (cfr. Ant., III, 12, 10; X II, 7, 5; X II, 8, 3, ecc.). La «terûâh» (il plur. è terûôt,, III, 1) è un termine tecnico ebraico designante non lo strumento (la tromba) ma il suono emesso e il rito corrispondente; il suo significato è eminentemente religioso anche quando è in relazione con la guerra: secondo alcuni si tratta di un vibrante suono prolungato, secondo altri di un suono accompagnato da acclamazioni. III, 1. Con intervalli della guerra è tradotta l’espressione ebraica che letteralmente suona «porte della guerra». Si tratta di una terminologia tecnica della guerra e, come molti altri casi di questo rotolo, precedentemente a noi ignota per cui non si è sicuri del suo preciso significato e le interpretazioni divergono secondo la concezione che ci si fa della tattica descritta dall’autore. Ho qui seguìto l’interpretazione di Y. Yadin che più di ogni altro studioso si interessò di questa Regola; gli intervalli sono le aperture che secondo i segnali dati dalle trombe venivano operate (stringendo i ranghi) neila prima linea serrata di combattimento permettendo così l’uscita della fanteria leggera o dei sacerdoti. I testi più importanti sono: III, 7; VII, 9.15-18; VIII, 4; IX, 14; XVI, 3-4. Per la traduzione uomini di fanteria leggera si veda Y. Yadin (e così per tutta la terminologia militare dei capitoli seguenti che in gran parte si legge qui in ebraico per la prima volta se non sempre nella forma, almeno nel contenuto); l’espressione ebraica equivale, alla lettera, a «uomini dello (spazio) di tra (le linee)» e ricorre in forma piena o difettiva nei seguenti passi: I, 14, III, 1.7; VI, 9.12; VII, 16; IX, 3; XVI, 4.11; XVIII, 13. Nell’Antico Testamento ricorre solo due volte (1 Sam., 17, 4.23). 4. Nel libro di Giobbe (30, 23), casa dell’adunanza (in ebr. bêt mô’ēd) è detto lo sheôl ove convergono, dopo la morte, tutti i viventi; ma nel presente testo non v’è alcun indizio che favorisca questa interpretazione. 13. Sulle insegne (in ebr. ’ôtôt) vedi l’Introduzione. Nell’antico Egitto ogni corpo dell’esercito aveva la propria insegna, con figure diverse, issata su un’asta portata dall’alfiere; identica usanza è testimoniata per gli eserciti babilonese e assiro e, in forma più rudimentale, è tuttora in vigore negli accampamenti dei beduini per distinguere le singole famiglie. L’Antico Testamento menziona queste insegne soltanto in Num., 2, 2 (utile è il riferimento anche a Num., 17, 17-18); ma il nostro autore pur ispirandosi a questo testo aveva davanti senza alcun dubbio l’esercito greco e romano. IV, 1. La menzione della famiglia di Merari, una delle quattro famiglie della tribù

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di Levi, fa ragionevolmente supporre che una eguale divisione esistesse anche per le altre tre famiglie, e cioè Aronne, Kehat, Ghershon, e che fosse contenuta nelle ultime righe della III colonna che, per ora almeno, sono andate perdute: si ritiene così che manchino ali’incirca dalle quattro alle cinque righe. Così suggerisce tanto il fatto che l’autore del rotolo segue la quadruplice divisione della tribù di Levi data da Num., 3, 1-35, quanto le quattro diverse iscrizioni per le insegne (rr. 6-8). V, 1. La lettura scudo proposta da Y. Yadin, è accettata da A. S. van der Woude, H. E. Del Medico, J. van der Ploeg, J. Maier, E. Lohse e altri; A. Dupont-Sommer legge «bastone» di comando, J. Carmignac «scettro» e rinviano al passo dei Num., 17, 17-26 (che parla dei bastoni di comando dei prìncipi delle dodici tribù), ma si può anche pensare al celebre testo di Num., 24, 17; per la prima lettura si vedano i testi Gen., 15, 1; 2 Sam., 1, 21; Sal., 47, 10; 84, 10; ove si parla dello scudo di Dio, simbolo della sua forza protettrice, e dello scudo di Saul, simbolo del suo potere e funzione regale. Questo principe è il capo laico di tutta l’assemblea come il sommo sacerdote ne è il capo spirituale e in lui si può vedere identificato anche il «messia di Israele» (1QSa, II, 20 e 1QS, IX, 11) come suggerì J. T. Milik (e poi A. S. van der Woude, J. van der Ploeg, J. Maier e altri) e cioè il messia figlio di David del quale si parla ancora in 1QSb, V, 20 e segg. e in CD, VII, 20; qui nella Regola non è più menzionato; ed è, forse, a motivo della sua particolare tendenza sacerdotale, se in un certo periodo dagli eseni di Qumrân questo capo laico è lasciato tra le quinte e gli è assegnato ovunque così poco spazio: tanto dal presente rotolo quanto dagli altri sopra citati non pare proprio che ciò sia dovuto a una maggiore spiritualizzazione del messianismo. Il termine «principe» (in ebr. nâśî) da Ezechiele in poi (cfr. Ez., cc. 40-48) sostituiva il termine «re» (in ebr. melek) nella designazione del capo della ricostituita comunità; ma il nostro rotclo (col. III e IV) se ne serve anche per designare i capi delle tribù e i capi delle miriadi, mentre per gli altri si serve del sostantivo «capo» (in ebr. śar) ; ma questa non è una norma fissa perché proprio in V, 2 sono detti «capi» (in ebr. “śarîm), e non «prìncipi» (neśi’îm) i «dodici capi tribù». 3-14. Queste righe rappresentano, dal punto di vista filologico, il testo più difficile della Regola. Cfr. Y. YADIN, pp. 114-197, J. VAN DER PLOEG, pp. 87-100 e G. R. D RIVER, pp. 180-197. Il termine ebraico (beten) qui tradotto con fodero (r. 13) alla lettera significa «ventre». 16-18. La restituzione parziale del testo è fatta seguendo parzialmente Y. Yadin e J. Carmignac. «Del (grosso) dell’esercito» (in ebr. serek): il senso del termine ebr. è molto discusso: per sé esso significa «regola», «ordinamento» e così l’intende J. Carmignac; mentre A. Dupont-Sommer traduce tutta l’espressione con «ufficiali»; ho seguìto, l’interpretazione di Y. Yadin accolta da J. van der Ploeg, J. Maier e altri. Il termine, oltre che nel testo presente ricorre, in questo rotolo, anche in III, 3; VI, 10-11 e 14; VII, 1; X III, 1; XV, 4; XVIII, 6. VI, 1. Le prime parole si riferiscono al passo finale, della precedente colonna, totalmente mancante. 8. Di qui in poi è descritta l’organizzazione della cavalleria, sulla quale l’autore

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ritornerà più brevemente in VII, 4-5; IX, 5-7; nonostante la discrizione apparentemente particolareggiata è difficile comprenderne la divisione. Il termine ebr. rekeb che per sé significa «carro» (e in senso collettivo «carri»), ma come fece giustamente notare il Dupont-Sommer e molti altri con lui, come J. van der Ploeg, Y. Yadin, J. Carmignac, J. Maier, un tale significato è qui fuori posto: menzionati in 1 Macc., 4, 7; 8, 6 e 2 Macc., 13, 2, in Oriente i carri andarono perdendo sempre più il posto in favore dei cavalieri, resta quindi naturale che il termine sia passato a designare i cavalli da guerra (sebbene H. Bardtke e qualche altro mantengano il senso di «carro x). Come fu detto nell’ Introduzione pare che l’autore abbia presente un duplice schieramento di fanteria uno pesante per un totale di 4.600 unità, l’altro leggero per un totale di 1.400 unità; tra i due schieramenti vi erano differenze di armamento e di età (cfr. Y. YADIN, pp. 176-181). 14. Come è detto nel documento di Damasco (CD, X, 9-10) dopo i 60 anni l’intelligenza dell’uomo decresce e perciò questa è l’età limite per tutte le funzioni ufficiali a grande responsabilità. VII. Le prime righe si connettono con l’ultima parte mancante della colonna precedente. Si ha l’impressione che per l’autore l’età ideale sia dai 30 ai 50 anni e cioè l’età durante la quale prestavano servizio i leviti (Num., 4, 3, cfr. però Num., 8, 24 e 1 Cron., 23, 27 che assegnano rispettivamente l’inizio ai 25 e ai 20 anni); l’età in cui l’uomo vale di più secondo la tariffa di valutazione delle persone è dai 20 ai 60 (Lev., 27, 3): non c’è dubbio che per il nostro autore aveva un grande valore la conoscenza della legge anche per i combattenti e che sia questo il motivo per cui assegna compiti secondari ai giovani inferiori ai 30 anni. 3. fanciullo… donna: la ragione della prima proibizione è forse il pericolo della pederastia, quella della seconda è certo la possibilità di impurità sessuali. 4-6. Per la lista degli esclusi cfr. Lev., 21, 17 e segg., testo al quale s’ispira il presente e, per analogia cfr. 1QSa, II, 4-10 e anche ibid., I, 20-22. Il termine ebraico tradotto con sessualmente (mimmeqôrô [da mâqôr] «dalla sua sorgente») designa tanto gli organi sessuali femminili che i maschili. 6. Quanto agli angeli santi cfr. anche 1QS, III, 13 e segg.; e 2 Macc., 2, 21; 10, 29; 11, 8. In tutte le precedenti determinazioni l’autore aveva certamente presente il seguente passo del Deuteronomio: «Quando ti accamperai contro i tuoi nemici, ti guarderai da ogni cosa cattiva. Se tra i tuoi si trova qualcuno che non sia puro per un accidente notturno uscirà dall’accampamento… Per i tuoi bisogni avrai un luogo fuori dall’accampamento, uscirai là… Il tuo accampamento deve essere santo poiché Jaweh tuo Dio ti accompagna in mezzo al tuo accampamento per proteggerti e per mettere in fuga i tuoi nemici in tuo potere. Egli non veda presso di te alcuna indecenza: non ti seguirebbe più» (Deut., 23, 10.15). 7. Il luogo della mano è il luogo riservato ai bisogni corporali (cfr. 1QS, VII, 12-15); la distanza stabilita è quella che era lecito percorrere nei giorni di sabato; tale luogo doveva dunque essere il più distante possibile dall’accampamento; a questo riguardo è interessante quanto afferma Giuseppe Flavio a proposito degli esseni (vedi il testo a pp. 60-61). 9. Ha qui inizio la sezione più lunga della Regola (VII, 9 - IX, 9): essa tratta delle

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diverse fasi della battaglia prestando particolare attenzione alle parti riservate ai sacerdoti. 12-14. Menzionando questi sette sacerdoti l’autore ha forse presente i sette sacerdoti che suonarono le trombe durante i sette giri compiuti attorno alle mura di Gerico (Gios., 6, 4-8) e i sette che precedevano l’arca suonando le trombe allorché David la trasportò sul monte Sion (1 Cron., 15, 24); il corno di montone (in ebr. shôfâr) suonato dai leviti è menzionato spesso nell’Antico Testamento sia in relazione alla guerra sia a solennità religiose (cfr. Giud., 3, 27; 7, 16-20; 2 Sam., 2, 28; 6, 7-8) e, a differenza delle trombe, l’uso del corno non era riservato ai sacerdoti o ai leviti: così appare anche dalla Regola (VIII, 9; XVI, 7-8; XVII, 13). 16-18. Il testo dato è una ricostruzione assai probabile presentata 111 parte da Y. Yadin e in parte da J. van der Ploeg. Chi doveva pronunciare queste parole, probabilmente era detto nelle righe mancanti della colonna precedente. VIII, 15-18. Ho seguito in queste righe sostanzialmente la ricostruzione di Y. Yadin, H. Bardtke, J. Carmignac e altri. IX. La terminologia tecnica è assai difficile, per questo motivo la traduzione non è sicura. Per la grande offensiva l’autore propone, a quanto pare, il seguente schema: 1) tutte le unità si schierano su di un’unica linea; 2) avanzano le due ali estreme e la linea diventa concava; 3) le due ali si arrestano e avanza il resto della linea; 4) nuovo avanzamento delle ali e arresto del centro; 5) le ali seguitano ad avanzare, la cavalleria attacca i fianchi del nemico e ha luogo la manovra di accerchiamento. 15-16. Micael («chi è come Dio?») è il grande patrono del popolo ebraico (Dan., 10, 13.21; 12, 1); Sariel, in luogo del quale ci si aspetterebbe l’assai più comune Uriel, era considerato uno degli angeli più santi e sovraintendeva i venti del sud (Enoc, VI, 7; XX, 6); Rafael («Dio ha guarito») è uno dei protagonisti del libro di Tobia; Gabriel («eroe [uomo] di Dio») è il grande messaggero di Dio (cfr. Dan., 8, 16; 9, 21 e Lc., 1, 19.26). I tre angeli che ricorrono più comunemente nella letteratura apocrifa e nella tradizione ebraica sono: Micael, Gabriel, Rafael, che sarebbero anche gli angeli apparsi ad Abramo (Gen., 18, 12); ad essi sono aggiunti, in alcune fonti Fanuel, Uriel, Reuel (o Raguel). Secondo il libro di Enoc (X L, 9-10) gli angeli più importanti sono: Uriel, Rafael, Reuel (o Raguel), Micael, Sariel, Gabriel, Remiel. Cfr. Y. YADIN (pp. 229-242 e opere ivi citate). «È interessante, scrive J. van der Ploeg (p. 134), osservare che i nomi Micael, Gabriel, Rafael, Uriel si leggono tuttora (in greco) sui quattro lati di una torre difensiva sulla parte meridionale di ciò che resta delle mura di Umm al-Gemâl, nella Siria Meridionale». Sugli angeli nella Regola e a Qumrân vedi X II, 8-9 e nota. Assistenza religiosa e morale ai combattenti: X, 1 - X IV, 18. Non si sa chi doveva pronunciare queste parole; era detto, probabilmente, nelle ultime righe mancanti della colonna precedente. Lo stesso caso si ripete anche nelle colonne seguenti. X, 2-8. Lunga citazione del Deut., 20, 2-4 ma rispetto al testo masoretico questo della Regola ha un sorprendente numero di varianti; lo stesso fenomeno si ripete nelle rr. 6-8 ove è citato Num., 10, 9. La Regola non parla qui delle categorie da rinviare a casa (chi ha edificato una casa e non l’ha inaugurata, chi ha piantato una

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vigna e non ne ha goduto i frutti; chi è fidanzato e non s’è sposato) menzionate invece dallo storiografo di Giuda Maccabeo (1 Macc., 3, 56), e accenna soltanto a quelle persone che hanno il «cuore rammollito» (Deut., 20, 2-8). La mancata menzione delle tre categorie da rinviare a casa è forse dovuta al fatto che la guerra era ormai imminente, che era stata ben preparata e non v’era bisogno di concedere dispense sul campo di battaglia, e che tutti erano volontari impazienti di battersi: questo non è contraddetto dalle esortazioni e incitamenti alla battaglia, che fanno parte di ogni preparativo prossimo alla guerra e sono prescritti dalla legge (Deut., 20, 1-8, ecc.); ed è forse solo in ossequio a questa legge che sono ricordati quelli «dal cuore rammollito». Interessante, in questo contesto, è un capitolo del trattato Sotà (Mishna, Sotà, VIII, 1-7) ove si distingue la guerra imposta, o di difesa, da quella scelta volontariamente, o di conquista: alla prima devono partecipare tutti senza alcuna eccezione, per la seconda elenca tre categorie: 1) quelli che vanno in guerra e vi restano anche dopo il discorso; 2) quelli che non ci vanno perché esentati per i tre motivi addotti dalla legge; 3) quelli che vanno in guerra ma dopo il discorso tornano indietro (costoro provvederanno all’esercito acqua e vitto e ripareranno le strade); è detto inoltre che i codardi devono essere posti in mezzo alle schiere dei valorosi in modo che se qualcuno tentava di tornare indietro gli altri gli dovevano tagliare le gambe. 8. L’autore s’ispira al Deut., 3, 24 e di qui fino al termine della colonna X II (nonché nelle preghiere inni ed esortazioni che seguono) è tutto un susseguirsi di espressioni e riminiscenze bibliche. Lunghe preghiere, inni e incitamenti alla guerra e alla fiducia nel proprio Dio che richiamano quella che doveva essere una pratica bellica all’epoca dei Maccabei: «Giuda pregò il Signore di mostrarsi loro alleato e loro capo nella battaglia. Quindi, intonato nella lingua paterna il canto di guerra con inni, assalì improvvisamente…» (2 Macc., 12, 36-37). X I, 1. Cfr. per Golia 1 Sam., 17, 46-47. 4. Che l’uomo non possa fare nulla di bene senza Dio è un pensiero che incorre spesso nella Bibbia e anche negli Inni (cfr. 1QH, IX, 14; XV, 12-16; XVI, 9-11; e anche 1QS, X I, 10-11). Una felice formulazione di questo pensiero molto vicina alla presente è data da S. Paolo: «Siamo stati salvati, non per le opere di giustizia che abbiamo compiuto, noi, ma secondo la sua misericordia…», Tito, 3, 5; cfr. Ef., 2, 8. 6. A sottolineare la natura escatologica della guerra l’autore cita Num., 24, 17-19 che leggiamo anche in CD, VII, 19-21 e in 4QTest., 12-13. 9. Sul senso di povero (in ebr. ’ebîôn) nei manoscritti di Qumrân vedi 4Q171, I, 818. 11. Citazione di Is., 31, 8. 14. Farsi un nome eterno, si legge di uomini in Is., 56, 5; Eccli., 15, 6; 1 Macc., 6, 44. 16. Su Gog cfr. Ez., cc. 28-29. X II. I complementi delle prime righe del testo sono di A. M. Habermann e di Y. Yadin. Il testo delle rr. 8-16 si legge, in una recensione più breve e, forse, anteriore, nella col. X IX, 1-8. 7-8. L’angelologia che nel periodo anteriore all’esilio era molto contenuta, fiorì e si sviluppò nell’epoca postesilica (gli scritti biblici più antichi parlano dell’angelo di Jaweh). A questo sviluppo cooperò certo l’inf lusso babilonese e persiano, ma

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anche il sempre più accentuato monoteismo etico e con esso la trascendenza di Dio; di qui l’opportunità di prospettare tra Dio e l’uomo degli esseri intermedi e la grande estensione dell’angelclogia ebraica nella quale conf luirono molti elementi estranei al credo ebraico, ripensati e subordinati in relazione ad esso. Di questa evoluzione erano finora testimoni gli scritti rabbinici e la letteratura apocrifa ebraica, ai quali oggi si aggiunge, con una particolare dovizia, la letteratura scoperta a Qumrân; questo apporto alla nostra conoscenza dell’angelologia qumraniana sarà maggiore allorché saranno pubblicati i testi dei rotoli sull’«angelo della presenza» e sull’«angelo della pace» annunziati da R. de Vaux (RB, 1956, 4967); vedi ora 1QH, VI, 13. Gli angeli erano figure straordinariamente familiari agli esseni di Qumrân come appare dal rotolo degli Inni, dalla Regola della comunità e dalla Regola della guerra ove agli angeli è riservata una parte notevole e decisiva nella guerra contro i figli delle tenebre. In cielo, alla diretta dipendenza di. Dio e come antagonista di Belial, v’è un «principe di splendore» (X III, 10) alle cui dipendenze stanno tutti gli angeli; ad essi sono affidati i figli della luce sui quali vegliano dirigendo verso la giustizia e la verità il loro cuore e interverranno in loro favore nella guerra decisiva contro i figli delle tenebre. Il nostro rotolo, oltre a quelli umam, presenta nettamente altri due schieramenti, Belial e i suoi «angeli di distruzione» (X III, 11-12) e il «principe di splendore» con i suoi; ambedue gli schieramenti sono stati disposti dallo stesso Dio. Oltre al termine ’ elîm (cfr. I, 11) i termini con i quali gli angeli vengono denominati, sono: figli dei cielo (1QH, III, 22; 1QS, X I, 7-8), potenti (1QM, X II, 7; XV, 14), angeli o messaggeri (X II, 7), angeli santi (VII, 6), angeli della presenza (1QH, VI, 13), santi (1QH, III, 22; IV, 25; X, 34; X I, 12 e 1QM, IV, 1), spiriti (cfr. 1QM, X III, 10, ecc.), angeli di distruzione o perdizione (X III, 12; 1QS, IV, 12 e CD, II, 6). Chi sia il «principe di splendore» (X III, 10-11 e 1QS, III, 20-22; CD, V, 17-19) è stato molto discusso; ma aggiungendo ai testi noti quelli di Qumrân sembra che si possa senz’altro accogliere la sentenza di Y. Yadin che vede in lui l’angelo Micael, angelo di giustizia e di verità (X III, 10), tenace oppositore di Belial (XVI, 6-8) e che si trova al di sopra di tutti gli altri angeli (XVII, 7). L’importanza e l’intervento degli angeli nella guerra decisiva tra i figli della luce e i figli delle tenebre ha un carattere ben sintetizzato in X II, 7-9 e nei quattro angeli menzionati sopra (IX, 1416). 10. Come il forte della r. 9 è Dio così è ancora Dio il potente (cfr. J. T. M ILIK, in RB, 1955, 599, che prima riteneva si trattasse del principe della comunità o messia). L’espressione forte in combattimento si può anche tradurre «uomo di guerra» avvicinandola così all’appellazione rivolta a Jahweh nel cantico di Mosè (Es., 15, 3). X III, 4-5. J. T. Milik ha reso noto (RB, 1955, 599) che queste righe si trovano quasi alla lettera in una composizione liturgica proveniente dalla IV grotta di Qumrân. 11. Il tratto lacunoso è completato da J. van der Ploeg con «tu l’hai fatto precipitare nelle tenebre», da J. Carmignac «nelle tenebre della sua colpevolezza». La lezione seguita è quella di Y. Yadin, J. Maier, E. Lohse e altri. 14. Nella prima integrazione ho seguito J. Carmignac, J. Maier e altri; nella seconda e nell’inizio della riga seguente, ho seguito A. Dupont-Sommer. X IV, 1. La prima riga conclude l’inno della colonna precedente, che dopo lo spazio è frammentario.

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Per le r. 2-3 vedi le prescrizioni di Num., 19, 16.19; 31, 19-20. 4. Dalle parole il suo nome inizia il frammento trovato nella IV grotta e pubblicato da C. H. Hunzinger (vedi Bibliografia): il suo testo è più breve di quello del rotolo, rappresenta verosimilmente una tradizione testuale anteriore e aiuta a colmare una grande lacuna che inizia alla riga 5; il frammento, purtroppo molto lacunoso, prosegue fino a re dei re (r. 16). Battaglia decisiva contro i Kittîm: XV, 1 - X IX, 13. XV. Tutta la colonna fu ricomposta dall’editore (Sukenik) in base a due grandi frammenti e altri minori. Sulle colonne XV-X IX vedi l’Introduzione. 4. La persona del sacerdote capo (in ebr. ha-kohen ha-rosh) ha una parte considerevole nella Regola come è naturale in una guerra di questa natura. Dopo le prime esitazioni, oggi non pare vi possano essere dubbi sull’equivalenza di questo titolo con «gran sacerdote» e cioè con il sommo sacerdote; siccome da Giovanni Ircano (135-104 a. C.) in poi, i sommi sacerdoti incidevano sulle monete il titolo «gran sacerdote» (in ebr. ha-kohen ha-gadol), titolo questo che sembra fosse assai più comune dell’altro e che negli scritti di Qumrân non si legge mai, qualche studioso ritenne di avere qui un indizio sulla origine preasmonea della Regola; ma ben presto si è osservato che, anche se meno comune, era usato pure l’altro titolo e, soprattutto, che si legge più volte nell’Antico Testamento (Num., 35, 25; 2 Cron., 19, 11, ecc.) proprio del sommo sacerdote del primo tempio donde l’autore della Regola attinse l’espressione «il sacerdote capo e il suo sostituto» (2 Re, 25, 18) che si legge in II, 1; è anzi molto probabile che l’autore, membro di una corrente che annetteva una così fondamentale importanza alla legittimità della discendenza del sacerdozio da Sadoc, conscio d’altra parte che i primi sommi sacerdoti (Aronne e i suoi due figli) non ebbero mai il titolo di «gran sacerdote», abbia voluto dimostrare la sua opposizione (o almeno la sua indipendenza) verso i sacerdoti asmonei. Pare dunque fuori dubbio che il «sacerdote capo» della Regola sia il sommo sacerdote e non il sacerdote del quale si parlerà qui alla r. 6: ciò si può dedurre sia dal titolo, sia dalla sua relazione con l’espressione «il sacerdote capo di tutta l’assemblea di Israele» (1QSa, II, 12); e desterebbe meraviglia «che nel momento supremo e decisivo della storia di Israele, il sommo sacerdote non fosse presso i combattenti: è lui, infatti, più che il messia di David (di Israele), il capo della comunità ed è naturale che sia presente quando è in gioco la sorte di tutta la nazione» (J. van der Ploeg, p. 165); così ritengono ad esempio Y. Yadin, Th. H. Gaster, H. Bardtke, A. S. van der Woude, J. Maier. Il sacerdote capo è menzionato espressamente in II, 1; XV, 4; XVI, 13; XVIII, 5; X IX, 11. La grande parte che doveva sostenere il sommo sacerdote e cioè «il messia di Aronne» in questa guerra escatologica e la sfuggevole menzione del «principe di tutta l’assemblea», il messia laico (vedi V, 1), sottolinea ancora una volta l’organizzazione fondamentalmente sacerdotale degli esseni di Qumrân. 5. libro della regola…: equivale probabilmente a «libro dello sviluppo delle fasi belliche della campagna»; del suo tempo: cioè del tempo di guerra. 6. Il completamento della lacuna è di Y. Yadin seguito anche da J. van der Ploeg e da E. Lohse, ma non ha maggiori probabilità di altri: «in conformità di tutte le prescrizioni della guerra» (J. T. Milik, J. Carmignac, J. Maier); x e tutte le parole di questo ordinamento» (A. Dupont-Sommer, ecc.).

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6-7. Il sacerdote designato… (dall’accordo) di tutti i suoi fratelli non è il sommo sacerdote, bensì un altro sacerdote, uno dei sei, menzionati anche in VII, 12 e X, 2, il cui compito era di indirizzare ai combattenti le parole prescritte dal Deut., 20, 2-4 e di fare loro un vero e proprio discorso di guerra. Di lui si legge nella Mishna: «Il sacerdote unto per tenere il discorso alla gente di guerra, quando parlava al popolo lo faceva in lingua sacra, come dice il testo: “E quando vi avvicinerete alla guerra e si presenterà il sacerdote, s’intende il sacerdote unto per la guerra, e parlerà al popolo…”» (Sotá, VII, 1). XVI. Anche questa colonna come la precedente, fu ricomposta da due grandi frammenti e da altri minori. 15. Non è senza motivo,.,’: lacuna completata in base al testo di Ez., 14, 23; sembra che l’autore voglia spiegare il motivo per cui ci sono dei caduti tra i figli della luce richiamando i misteri divini (r. 16), alludendo a qualche mancanza simile a quella commessa dai soldati di Giuda Maccabeo nella sconfitta contro Gorgia (2 Macc., 12, 40-41) e invitando a vedere nel temporaneo rovescio un segno delle prove che Dio non risparmia ai suoi (cfr. XVIII, 1 e Deut., 4, 36; 8, 2-5). XVII, 2-3. Per Nadab e Abiu vedi Lev., 10, 1 e segg.; per Eleazaro e Itamar vedi Num., 25, 13. 7. Gli dèi: vedi I, 11 e nota. 16-17. Ricostruzione ipotetica di Y. Yadin, il quale ritiene che nell’ultima parte della colonna si parlasse della quinta e sesta fase della lotta (vedi l’Introduzione). XVIII. La colonna consta di due frammenti totalmente separati da una grande lacuna verticale; una parte fu colmata (rr. 7-10) da un breve frammento scoperto e pubblicato da J. T. Milik. X IX, 1-8. Recensione alquanto diversa di X II, 8-18. Tutta questa colonna è costituita da un frammento, purtroppo lacunoso, totalmente staccato dal resto del rotolo, al quale — non v’è dubbio — appartiene; come s’è visto (cfr. l’Introduzione) non si sa se questo testo era preceduto e seguito da una o più colonne, come è molto probabile. La parziale ricostruzione del testo qui dato è fatta in gran parte su Y. Yadin, J. Maier, E. Lohse.

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INNI

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GLI INNI (1QH)

Questo manoscritto fa parte del lotto trovato dai beduini nella primavera del 1947. Acquistato per conto dello stato di Israele da E. L. Sukenik nel 1948, si trova ora, con tutti gli altri, nel celebre «santuario del libro» (terminato nel 1964) a Gerusalemme, e si può ben dire che ne è il gioiello. All’epoca in cui venne in mano al Sukenik, e già presumibilmente quando fu trovato, era diviso in due parti: una constava di tre fogli di cuoio, cuciti l’uno all’altro, come d’abitudine, ma non arrotolati, ciascuno diviso in quattro colonne con circa quaranta righe ognuna: sono le colonne I-XII; la seconda parte era una massa confusa di frammenti tra i quali furono identificate le colonne XIII-XVIII ed enumerati 66 frammenti minori (18 di una certa ampiezza, tutti gli altri estremamente esigui). Non c’è dubbio che le due parti costituiscano un unico rotolo, come si deduce da un attento esame del contenuto e paleografico. Abbondanti sono, purtroppo, le lacune a causa del pessimo stato di conservazione del manoscritto, il cui testo non solo è corroso nella parte superiore e inferiore, ma presenta molti vuoti anche nel mezzo. Prendendo come larghezza media del rotolo 32 cm., ogni colonna poteva contenere 41 righe, numero al quale giungevano certamente le coll. IV, VIII, IX che sono le più complete; le altre colonne sono così divise: 39 righe le coll. I, II, III, V, X; 38 righe la col. XI; 36 righe le coll. VI, VII, XII; 33 righe la col. XVIII; 28 righe le coll. XIV, XVII; 21 righe la col. XIII; 20 righe la col. XVI. Dal frequente ricorso dell’espressione (vedi appresso) ôdekāh «ti ringrazio», il Sukenik diede al rotolo il titolo in ebraico moderno hôdajôt (in luogo dell’ebraico antico hôdôt che si legge ad es. in XI, 4, 33; 1QS, X, 23; 1QM, IV, 14; XV, 5) e cioè «inni», d’onde la sigla 1QH (= 1 grotta di Qumrân hôdajôt). Provenienti dalla stessa grotta 1, il Milik ha pubblicato (nel DJD., I, 1955) alcuni nuovi frammenti molto piccoli, in verità; e l’anno appresso lo Strugnell comunicò che tra i manoscritti della grotta 4 a lui affidati si trovavano i resti di ben sei manoscritti (cinque su cuoio e uno su pergamena) degli Inni che completano alcuni luoghi frammentari del nostro rotolo, ed ancora altri quattro o cinque frammenti la cui appartenenza al rotolo non è sicura in quanto non si inseriscono in alcuna parte conosciuta1. Il rotolo non fu scritto da un unico amanuense, ma almeno da due: al primo appartengono le coll. I-XI, 21 più vari testi frammentari, al secondo dalla col. XI, 22 a XII, 36, la col. XVIII e vari frammenti; le coll. XIII-XVII e alcuni framm. (cioè 10-44) appartengono molto verosimilmente a un terzo 305

amanuense2. Le ragioni di questa distinzione esposte dettagliatamente dal Martin, si riassumono nella maggiore o minore cura dimostrata, nella frequenza di errori e correzioni, nella grafia e nelle particolarità ortografiche; il primo amanuense ed es. (coll. I-XI, 21 ecc.) è più elegante più esperto e corretto. Secondo il Sukenik gli amanuensi furono due: al primo risalirebbero le coll. I-XI, 22, XIII, XVII e i framm. 10-44; al secondo i testi XI, 22, XII, 36; col. XVIII e i framm. 1-9 e 45-66. La lingua è l’ebraico biblico con un notevole influsso di quello parlato all’epoca di composizione e dell’aramaico della regione, e fu oggetto di studi particolari soprattutto da A. M. Goshen-Gottstein3. Un problema particolarmente complesso è rappresentato dalla sequenza o disposizione originale delle colonne e dal numero degli inni (o salmi). Dalla osservazione che un nuovo amanuense interviene in XI, 22 il Sukenik dedusse che qui terminò il lavoro del primo e che quindi i testi da lui scritti devono essere posti prima della col. I; la sequenza originale sarebbe dunque coll. XIII-XVII + framm. 10-14 + coll. I-XI, 21 ove si inserisce il secondo amanuense proseguendo nell’ordine XI, 22, XII, 36; col. XVIII + framm. 1-9 e 45-66. Lo studioso che più si è impegnato in questo problema è J. Carmignac; le sue conclusioni sono le seguenti: il manoscritto 1QH, verosimilmente, constava in origine di due distinti rotoli. Del primo, formato da due fogli di pergamena per complessive otto colonne, abbiamo soltanto i resti di sette colonne rappresentate dalla col. XIII alla XVI del Sukenik, dai frammenti 15, 18, 22 e da due framm. del Milik (1Q35) che sono i resti della fine del rotolo. Il secondo rotolo comprendeva almeno sei fogli e cioè un minimo di ventiquattro colonne: tre sono andate perdute; la quarta è la col. XVII del Sukenik; dalla quinta alla sedicesima colonna il testo è quello delle coll. IXII del Sukenik; la col. diciassette è rappresentata dal framm. 5; la diciotto dai framm. 1, 46, 48; la diciannovesima corrisponde alla col. XVIII del Sukenik; la ventesima è rappresentata dai framm. 6, 9, 50; la ventunesima dai framm. 2, 8; la ventiduesima dai framm. 3 e 7; la ventitreesima dal framm. 4; la ventiquattresima sembra perduta. Un esempio concreto di questa sua operosa ricerca il Carmignac l’ha dato nel suo commento che segue appunto questa ricostruzione. Il Carmignac ha dato prova (vedi in particolare gli articoli apparsi negli anni 1958-1960 su Bibl. e su RQ) di un notevole grado di sagacia e qualche sua conclusione può certo essere giusta, ma nel complesso non ha convinto, sicché — almeno finora — nessuno dei grandi commentatori di 1QH l’ha 306

seguito. Si vedrà in un prossimo futuro quale ausilio daranno per la soluzione di questo problema i nuovi framm. che pubblicherà lo Strugnell; intanto fin d’ora ha anticipato (art. cit.) la constatazione che l’ordine degli Inni non era uguale in tutte le collezioni, ma variava. A questo dato possiamo aggiungere che la conoscenza della posizione precisa delle colonne e dei frammenti non si rivela poi così importante per la comprensione del testo, a motivo dello stato mutilo e frammentario nel quale ci è giunto e del fatto che non pare vi sia un vero nesso tra un inno e l’altro della collezione. Seguendo l’esempio di M. Delcor, M. Mansoor, S. Holm-Nielsen, A. Dupont-Sommer, G. Vermes, Th. Gaster, F. Michelini-Tocci e altri si tralascia anche qui d’entrare oltre in questo problema le cui conclusioni, nel migliore dei casi, non possono essere che limitate dubbie e di poco giovamento, e si preferisce l’ordine della prima numerazione delle colonne dato dal Sukenik. La distinzione degli inni e quindi la loro numerazione è oggetto di discussione, e lo stato di conservazione nel quale ci è giunto il rotolo giustifica ampiamente questo stato di cose. Sembra verosimile che di almeno venti inni si abbia il testo pressoché completo e di altri venti un testo molto frammentario; il rotolo ne doveva comprendere di più, ma è impossibile precisare maggiormente. L. E. Sukenik ne numerava, tra completi e frammentari, 35; G. Morawe ritiene che sono tuttora riconoscibili 34, ma che in origine dovevano essere molti di più; J. Licht e A. Dupont-Sommer ne distinguono 32; ad essi si associa anche M. Mansoor; M. Delcor si accontenta di parlare di una trentina; S. Holm-Nielsen ne distingue 19 fino al termine della col. XII dopo della quale rinunzia a ogni chiara distinzione a motivo della frammentarietà del testo; G. Vermes ne distingue 25; e anche J. Carmignac giunge fino a 25 ma la coincidenza è prevalentemente numerica a motivo della ricostruzione del rotolo che gli è propria; F. Michelini-Tocci ne distingue 26. Secondo la divisione che giudichiamo più probabile, gli Inni sono 33. È importante comunque osservare che si tratta di una ipotesi di lavoro, che lo stato frammentario del rotolo non permette di giungere a conclusioni sicure e che comunque si tratta di una questione piuttosto secondaria. All’interno del manoscritto si notarono alcune singolarità come certi spazi bianchi come ad es. davanti a «e tu», che si riferisce a Dio (I, 9-13, 2731; II, 34; V, 18-32; VII, 10-25; XIII, 11; IX, 12-29; XIV, 15), davanti a «ad essi» (X, 7), a «ed io» (II, 11; IX, 6; X, 5; XV, 12-25), altre volte gli spazi intenzionali si succedono, si direbbe, in modo regolare, come in: I, 13, 20, 27, 34; VII, 9, 15; VIII, 11, 15; IX, 6, 12, 18, 22, 29; X, 5, 7, 19; XI, 10; XIII, 7, 18; XIV, 16; XV, 12, 17, 21, 25; e XVII, 8, 16. Ma questi e altri segni esaminati 307

minuziosamente dal Martin e dal Carmignac non avevano lo scopo di distinguere un inno dall’altro, bensì quello di scandire la lettura, porre un accento particolare su certe espressioni (come ad es. anche l’abbondanza di pronomi personali non richiesti dalla grammatica e veramente insoliti che il Carmignac chiama «pronomi-vedetta»: cfr. IV 6, 9, 13, 16, 19, 22) e, in qualche luogo, forse anche, segnalare la divisione delle strofe; non servono comunque per la distinzione degli inni. Un fattore che potrebbe essere utile a quest’ultimo scopo è l’argomento, il senso: ma, come si vedrà, il genere di composizione letteraria è tale che un simile metodo non può non essere aleatorio, senza tenere conto delle ampie lacune. Sicché il metodo più sicuro resta quello di partire dalle parole iniziali supponendo che tutti gli inni inizino con: «Ti ringrazio, Adonai…»; o «Ti ringrazio, mio Dio…»; o «Sii tu benedetto, Adonai…»; o «Sii tu benedetto, Dio…». Gli inni che si possono individuare in questo modo, sono i più sicuri, ma purtroppo sono pochi, diciotto; per. tutti gli altri ogni studioso segue un complesso di dati, di indizi e il suo proprio intuito; anche la lunghezza o meno di un inno è aleatoria poiché si constata che non si può parlare di una lughezza media essendo alcuni molto lunghi e altri certamente assai brevi proprio come i salmi del Salterio biblico. Che gli inni siano scritti in poesia è un dato riconosciuto da tutti i qumranisti, anche se l’amanuense scrisse tutto in modo continuo (come d’altronde era usuale a Qumrân) e non si può discernere chiaramente una distinzione in versi e strofe; vi sono gli spazi bianchi ai quali abbiamo accennato, ma i dati più sicuri sono il parallelismo (che consiste in enunciati più o meno sinonimi, o avversativi, o completivi, ecc.) e l’espressione del pensiero fatta chiaramente in piccole unità o stichi, cioè versi; pur non essendovi alcuna regola fissa sulla lunghezza dei versi, è norma generale che un verso non abbia meno di due parole (in ebraico) e più di sei; il sistema ritmico ebraico non è legato al numero di sillabe (lunghe o brevi), ma esclusivamente a un certo numero di accenti grammaticali. I nostri Inni gettano una luce nuova sull’ultimo periodo della poesia ebraica anticotestamentaria e anche su quella del Nuovo Testamento come il Magnificat e il Benedictus, e attestano che l’impronta fondamentale resta il parallelismo; si osservano tuttavia molte libertà o irregolarità, sicché il Kraft dopo un approfondito studio sull’argomento parla di «caos metrico». Per la traduzione ho preferito ignorare praticamente la divisione metrica e mantenere una certa costruzione ritmica lavorando principalmente sul parallelismo: si tratta di un tentativo di rendere più sensibili, al lettore sia il 308

ritmo sia il carattere poetico dell’opera; ho seguito in questo l’esempio di A. Dupont-Sommer, G. Vermes, Th. Gaster, J. Carmignac, M. Delcor (sebbene nella stampa abbia dovuto cedere ad esigenze grafiche, op. cit., 18) e S. Holm-Nielsen, e mi sono scostato da altri, come H. Bardtke, M. Mansoor e altri. La struttura letteraria degli inni è apparentemente molto semplice in quanto complessivamente hanno molteplici e incontestabili analogie con i salmi biblici catalogati nel genere letterario dei «canti individuali di ringraziamento» (Danklieder des Einzelnen4); dopo una breve introduzione, ove il fedele esprime il desiderio di lodare o ringraziare il suo Dio, viene subito il motivo, seguito poi dal corpo del salmo che sviluppa normalmente tre punti: il fedele si trovava nel bisogno, si rivolse a Dio, e fu esaudito (nella forma più semplice questi si trovano espressi in Giona, 2, 3); nella finale vi è un ritorno alla introduzione con la rinnovazione della lode e del ringraziamento. Così ad es. il terzo inno (II, 20-30): «Ti ringrazio, Adonai poiché… Giacché i violenti hanno macchinato contro la mia vita… è per la tua benignità ch’io mi tengo su… l’anima mia si irrobustiva nel tuo petto… Benedirò il tuo nome…»; il nono inno (V, 5-19): «Ti ringrazio, Adonai, perché… e perché… Tu avevi abbandonato l’anima del tuo servo… Tu hai chiuso la bocca dei leoncelli… hai udito il mio grido d’aiuto… hai prestato attenzione al grido della mia miseria… Ma tu, mio Dio, hai… liberato l’anima del povero…». Ma si sforzerebbe inutilmente la loro struttura letteraria a volerli considerare tutti secondo questo schema, che pure resta fondamentale; esso, infatti, è continuamente spezzato e ripreso; la questione del genere letterario si manifesta così alquanto più complessa e per la sua individuazione appare ormai indispensabile un esame comparativo più vasto della innologia essena, di quella del tardo giudaismo e del Nuovo Testamento, ove lo schema non s’è conservato puro, ma è spesso contaminato da altri; un primo studio molto importante si è rilevato quello di H. Ludin-Jansen5; utili osservazioni sono state fatte anche dal Lehmann6 e dal Morawe, ma il più è ancora da fare. Allargando un discorso iniziato dal Dupont-Sommer7 e dal Molin8, il Carmignac ha proposto di considerare tutti gli Inni sotto il genere letterario della meditazione: «L’autore medita davanti a Dio, e a Lui si rivolge in un monologo intimo, nel quale spontaneamente, ritornano quasi di continuo la prima e la seconda persona: “Io, tuo servo…,” “Tu, mio Dio”»9. Le meditazioni hanno per oggetto Dio, la sua giustizia, la sua bontà, la creazione, la miseria dell’uomo, il suo bisogno del divino, i sensi di 309

debolezza, di miseria, di colpa nel profondo del suo animo da una parte e l’illimitata fiducia e speranza in Dio, ma anche la malizia dei peccatori e dei persecutori; tutto questo sempre in raccolti monologhi con Dio, confessioni ed elevazioni il cui lirismo si ispira non solo ai Salmi, ma anche a Isaia, Geremia, Giobbe e alle Lamentazioni. Chi è allora «l’io» nei nostri Inni? Qualche studioso è deciso sostenitore dell’«io» individuale e più particolarmente vede in esso il maestro di giustizia10, pur riconoscendo che in certi inni questo accento personale è meno forte: in questi ultimi casi si tratterebbe di composizioni dovute ad altri non al maestro. Ma altri sono meno sicuri di tutto questo o assolutamente negativi11 o non vedono alcun elemento che riveli trattarsi del maestro di giustizia12. Si può dire comunque che esiste tra gli studiosi una certa qual tendenza a vedere nell’«io» l’autore stesso degli Inni che generalmente è additato nel maestro di giustizia, il che suppone anche l’unità letteraria di gran parte almeno del rotolo13; ma altri studiosi sono piuttosto incerti su questa unità14 e altri ancora nettamente contrari15 A proposito dell’ambiente vitale (o Sitz im Leben) dal quale sorsero gli Inni il Bardtke applicando una conclusione del citato studio di H. LudinJansen, ritiene che essi non furono composti a uso del culto nella comunità, ma per l’utilità personale e l’uso privato a istruzione e formazione dei suoi membri16. Bo Reicke (vedi Bibl.), partendo da un testo di Filone sui terapeuti17, ritiene che gli Inni siano stati composti direttamente per il culto, e in particolare per i convivi sacri; la tesi del culto è vista molto bene dal Vermes18 il quale ritiene che la festa più appropriata per la comune recitazione degli Inni fosse quella del rinnovamento del patto, e fa notare che nelle coll. XIV-XVI come in XIV, 8-22 vi sia un espresso riferimento al giuramento del patto, e in XIV, 23-XVI, 19 pare si abbia un commento alla liturgia dell’ingresso nella comunità; la sentenza liturgica è difesa anche da S. Holm-Nielsen per il quale gli hodajôt «devono essere considerati come esempi delle preghiere e delle lodi liturgiche della comunità di Qumrân», espressioni della fede della comunità, ma non poemi didattici, testimoni della comunità e della sua storia, sebbene non ne narrino la storia (op. cit., 332-348). Anche questa è una delle tante questioni aperte. È vero che l’impronta personale è molto forte e si estende più o meno a tutta la raccolta, per cui, a prima vista, si ha la sensazione che sia la sentenza che vede negli Inni dei testi sapienziali e dogmatici, sia quella che li spiega primariamente come 310

canti liturgici non valuti abbastanza l’ipotesi di una personalità storica, sia essa il maestro di giustizia o un altro, che narra le sue esperienze ed esprime i suoi sentimenti. Ma forse si tratta di una pura impressione, effetto di nostre concezioni sulla persona e della nostra difficoltà a comprendere la così detta «personalità corporativa» (corporate personality, come dicono gli Inglesi): in realtà ogni membro della società israelita era conscio di essere un individuo, una persona, ma concepiva la sua personalità come un’espressione di quanto era comune a tutta la sua comunità sia nel bene sia nel male; era conscio di distinguersi, ma anche di identificarsi con gli altri del suo popolo; li portava con sé; il suo onore, la sua benedizione, la sua pace, come il suo peccato erano in un senso molto profondo anche degli altri. Questo fu notevolmente acuito (prima era concretato dalle promesse ai padri) dal patto mosaico. E questa unità si dimostrava nella vita politica, nella preghiera e nel culto. Nel decalogo il «tu» è Israele e perciò ogni singolo ebreo; così nella benedizione del sommo sacerdote (Num., 6, 22-27) il «tu» è ancora certamente Israele, d’onde il singolo fedele; nella preghiera in occasione dell’offerta delle primizie (Deut., 26, 5 e segg.): «Mio padre era un Arameo errante… Gli Egiziani ci maltrattavano e oppressero…» il fedele si identifica con i progenitori e con gli antenati in Egitto; e nel pianto dei prigionieri radunati per essere deportati il profeta sente il pianto della madre degli Efraimiti e Beniaminiti: «A Rama si è udita una voce… Rachele piange sui suoi figli…» (Ger., 31, 15). Sarebbe facile continuare. E nei Salmi della Bibbia si presenta appunto lo stesso problema. Negli Inni «l’io» è dunque il salmista che ha saputo, nella scia dei suoi grandi predecessori, identificarsi con il suo tempo e la sua comunità, con le sofferenze, le aspirazioni, gli ideali: quindi «l’io» è pienamente ogni membro della comunità, purché ne viva veramente la vita e ne segua il grande processo di isolamento, purificazione, elevazione, ecc.; «l’io» è la comunità come il «tu» del decalogo è Israele, come in Egitto c’era ogni membro del popolo anche se storicamente ne dista secoli. Sono perciò tanto più da rilevare proprio i tanti testi ove l’autore si distingue nettamente da tutti gli altri (se no non sarebbe entrato nella comunità, cfr. 1QS, col. I); ad es.: II, 1-19; II, 20-30; II, 31 III, 1; III, 19-36; IV, 5 -V, 4; V, 5-19; V, 21 -VI, 4 a; VI, 4b-36; VII, 1-5; VII, 6-25; VIII, 4-37; IX, 2-36 ecc.) e i pochissimi casi nei quali si legge «noi» (esclusivamente nei framm. 10, 13, 18, 47). Nonostante la concezione dell’umano che emerge dagli Inni, sembra esagerato vedere nell’«io» l’esistenza umana, la carne, la sua debolezza, la sua impotenza, il suo non-dio rispetto al divino, come invece ha proposto K. G. Kuhn. 311

Le ragioni addotte dai sostenitori del maestro di giustizia come autore di tutti o gran parte degli Inni non pare siano probative; abbiamo un’opera anonima come tante altre ed è inconcludente volere tracciare con essi una biografia. Ciò non toglie che possa eventualmente essere così: l’autore, molto più probabilmente gli autori (si possono infatti vedere elementi che inducono a pensare a due scrittori)19, rivelano infatti una forte personalità religiosamente profonda sotto ogni aspetto; d’altra parte il pensiero e il tempo di composizione affiancano il rotolo degli Inni alla Regola della comunità più che a ogni altro scritto. Che gli Inni siano sorti direttamente per servire al culto esseno è difficile provarlo. Quello che pare certo è che ben presto passarono nel culto o assemblee religiose di preghiera, nel rituale molteplice che questi solitari avevano per le solennità religiose, per le preghiere quotidiane, per loro ricorrenze particolari, ecc.; e ciò appare tanto più plausibile di fronte a certe espressioni ricorrenti quasi come ritornelli, segno che se l’autore non scrisse per il culto, almeno qua e là l’aveva certo presente. Né d’altra parte l’opinione che siano stati composti a scopo didattico dottrinale, normativo di una certa valutazione della vita comunitaria, sebbene poco probabile perché il luogo classico dell’insegnamento e della formazione erano proprio i riti e le adunanze religiose, si può scartare integralmente potendo individuare in qualche inno elementi favorevoli, Un’opera di un valore così vasto, di una penetrazione così profonda e vitale per la comunità non era relegata alla semplice pietà o riflessione individuale; doveva avere una portata comunitaria in tutti i sensi. La storia del suo ambiente vitale e dei successivi sviluppi deve essere stata molto simile a quella dei Salmi della Bibbia. Certo è che l’opera dovette godere di una notevole diffusione ed ebbe un posto eminente nella letteratura degli esseni di Qumrân. Il Dupont-Sommer ritiene addirittura che a questi Inni si riferiscano le parole di 1QM, XV, 5 (ove ricorre anche il termine hôdôtam «i loro inni») e il Carmignac li identificherebbe volentieri con il famoso «libro della meditazione» (1QS, I, 7; CD, X, 6; XIII, 2, XIV, 7-8). Rinvio la sintesi del contenuto degli Inni al breve sunto che appresso sarà dato in nota all’inizio di ognuno. Non c’è dubbio che questo rotolo cooperi più di ogni altro alla nostra conoscenza delle dottrine e aspirazioni degli esseni di Qumrán: negli Inni, che hanno formato e alimentato la vita di questi solitari, l’anima si apre e svela tutta se stessa; gli autori insistono su alcuni temi in un modo 312

apparentemente monotono con un susseguirsi di variazioni sugli stessi soggetti che danno all’opera quel colorito e quella monotonia che li distingue da tutti gli altri manoscritti. Il testo degli Inni, ove più ed ove meno, è nel complesso tutto un tessuto composto di parole, frasi e reminiscenze bibliche; qualche volta i testi biblici sono riprodotti quasi alla lettera, ma il più delle volte si osserva che gli autori conoscendo pressoché a memoria la Bibbia se ne servono spontaneamente, e qualche volta in modo alquanto artificioso, per esprimere i propri sentimenti non senza restarne a loro volta legati e vincolati nella libertà di espressione. Il primo e più palese risultato di questo procedimento è lo stile antologico degli Inni, con la conseguente utilizzazione, approfondimento e attualizzazione di testi e di immagini bibliche; il che acutizza notevolmente, per noi, le difficoltà di comprendere, in questo «mosaico» biblico (cfr. ad es. la col. IV) quanto l’autore intende affermare allargando spesso in modo inaspettato, ma difficilmente inconscio, il senso biblico delle parole e dei testi presi in prestito, con un sottile lavorio di accostamenti, adattamenti e deformazioni più o meno sottili. Non si legge mai una esplicita citazione della Bibbia; riferimenti biblici o allusioni, il Carmignac20 ne ha contati ben 673 e S. Holm-Nielsen 679, e nessuno dei due ha la pretesa di essere completo. In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico, in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del lettore scorgere o meno un riferimento biblico. È indubbio che da un attento esame si potrebbe dedurre sia l’uso e la conoscenza che gli autori avevano della Bibbia, sia il modo con cui consideravano realizzati in se stessi, nella comunità o negli altri certi passi biblici, ma anche, e questo ci pare si debba sottolineare, l’atmosfera nella quale l’autore ha scelto deliberatamente di muoversi e alla quale si ispira di continuo. Il libro al quale l’autore attinge più spesso è logicamente il Salterio: sembra che qualche salmo godesse di un favore particolare; così il Sal. 104, per la creazione e, per l’espressione della miseria umana e del dolore, i Salmi 22; 31; 41; 42; 107 (interessanti qui dei riscontri con la storia della passione di Gesù: Mt., 27, 43-47; Gv,, 13, 18; 19, 24 con il Sal. 22 e il Sal. 41); il secondo libro è Isaia, che a Qumrân godeva certo di un favore particolare, e in specie il «libro della consolazione» (i cc. 40-55 ove si trovano anche i «carmi del servo di Jahweh»; seguono i profeti in generale e Geremia, le Lamentazioni e Giobbe in particolare. Estremamente scarso e pressoché nullo è l’uso che gli autori fanno del Pentateuco: mai un chiaro riferimento al Levitico, scarsi quelli a Esodo, 313

Numeri e Deuteronomio; interessante invece l’uso di Gen., cc. 1-3 sia per la creazione sia per la presentazione della comunità come la reincarnazione escatologica dell’esistenza paradisiaca, e per la fragile esistenza e corruttibilità della natura umana. Terminando, è il caso di notare ancora che, contrariamente ad es. a quanto accade in 11QPs, non ricorre mai il nome divino Jahweh né Elohim, ma solo esclusivamente El e Adonai; e inoltre, come è stato sottolineato anche da H. Bardtke, si nota l’assenza di ogni menzione di eventi salvifici come l’esodo dall’Egitto, il transito del Mar Rosso, la peregrinazione desertica e la conquista della terra di Canaan, o Palestina. Forse da questo singolare e continuo uso della Bibbia e del nome divino si potrebbe iniziare per una approfondita ricerca sull’autore e sul tempo di composizione.

Aspetti dottrinali. Dio è presentato anzitutto come creatore della terra, dei mari, dei cieli, di tutti i corpi celesti, degli spiriti e dell’uomo sia egli pio o empio; ha creato il tempo e l’ha diviso in stagioni e momenti determinati; questa creazione universale non è intesa come un evento passato, ma come un atto misticamente continuo. Non c’è riferimento a questa o quella cosmogonia, né si nota un qualsiasi approfondimento propriamente filosofico, bensì emerge quasi esclusivamente l’unicità della grandezza di Dio e la dipendenza di tutto l’universo da lui. Ha creato tutto secondo il suo disegno, nulla a caso; ha fissato lo scopo e l’attività di ogni essere; tra gli uomini alcuni li creò per farne oggetto della sua elezione, altri per «il giorno del massacro» (XV, 17); Dio conosceva tutto prima che esistesse, anche le parole dell’uomo, i pensieri del suo servo e di tutti i viventi: la sua conoscenza, la sua saggezza, la sua intelligenza, la sua forza e la sua potenza, la sua gloria hanno creato, reggono e dirigono l’universo. «Tu hai creato sulla lingua lo spirito, conosci le sue parole e hai stabilito uno spirito sulle sue labbra prima che vengano all’esistenza. Tu hai disposto le parole su di un righino e l’emissione dello spirito delle labbra su di una misura» (I, 28-29).

Dio è eterno, nulla accade senza, di lui, affianco a lui non v’è alcuno; l’uomo non solo non ne conosce la natura, ma senza di lui non comprende 314

neppure le sue opere. «E che cos’è un uomo inane e il signore di un soffio leggero per comprendere le tue opere meravigliose, senza che tu lo ammaestri?» (VII, 32).

Oltre l’omniscienza, gli Inni cantano la bontà, la misericordia, la benevolenza, la provvidenza, la giustizia di Dio e la salvezza. Ma sarà bene osservare che tutto ciò che si riferisce alla benevolenza divina, alla salvezza dell’uomo, ecc. è riservato esclusivamente ai membri della comunità e a quanti tra gli ebrei ad essa si uniranno: nonostante l’apparente visione universale, la mentalità dell’autore è straordinariamente settaria e limitata, come lo è in molti altri aspetti compreso il suo «messianismo» senza messia, ignaro delle grandi visioni profetiche. Tutto il mondo del quale si ricorda continuamente la creazione e la dipendenza da Dio, non è che un grande scenario, avente lo scopo di manifestare, ma solo ai membri della comunità, la grandezza e la bontà divina, e inquadrare l’elezione e la salvezza della comunità nello sfondo di una grande massa di perdizione. La natura mortale, fragile e peccaminosa dell’uomo e la sua assoluta dipendenza da Dio è espressa negli Inni in un modo così distinto e con accenti così forti da costituire un dato dottrinale che li distingue da tutti gli altri manoscritti di Qumrân (vedi però anche 1QS, XI, 9-10). «Ma io, creatura d’argilla, che cosa sono io? Impastato con l’acqua, per chi sono stimato? Qual è la mia forza?» (III, 23-24). «Ed, invero, che cos’è Adamo? Non è forse terra e argilla tagliata che ritornerà in polvere… Ed io, polvere e cenere, che cosa posso progettare senza che tu lo voglia? Che cosa posso pensare senza il tuo beneplacido ?» (X, 3.5-6). «E, infatti, chi è colui che ritornerà alla sua polvere?… Una creatura d’argilla, come può essere giusta?» (X II, 31-32).

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L’esistenza umana è così contrassegnata dal peccato dell’uomo il quale è posto come la dimostrazione vivente dell’inefficienza e della disperazione di questo mondo; il peccato si estende e avvolge tutta l’esistenza umana, sicché senza il volere divino è incapace di tutto: di progettare qualcosa, di parlare, di essere forte, di essere felice. Naturalmente una concezione così radicale del peccato non si può immaginare in riferimento al mondo e agli uomini tra di loro, ma solo in relazione a Dio; oltre a Gen., cc. 2-3, molti e singolari sono i punti di contatto con la dottrina paolina: non si può parlare di peccato originale come di un evento accaduto a un certo momento della storia umana e trasmesso poi a tutti gli uomini, ma neppure di singoli atti peccaminosi di costoro, bensì — a quanto sembra — della stessa natura umana in quanto tale. Non fa meraviglia che non si trovi alcun accenno alla grandezza naturale dell’uomo e neppure alla immagine di Dio in lui. «Io non sono che una creatura d’argilla e un essere impastato con acqua, un insieme di ignominia e una fonte di impurità, una fornace di iniquità e un edificio di peccato, uno spirito di errore e perverso, sprovvisto di intelligenza» (I, 21-23 a). «Essa [la creatura d’argilla] è nell’iniquità già dal seno materno, e fino alla vecchiaia in una colpevole infedeltà Io so che non è dell’uomo la giustizia, non è del figlio di Adamo la perfezione della vita» (IV, 29-31). «Che cos’è colui che è nato dalla donna, tra tutte le tue opere terribili? Egli è un edificio di polvere, una cosa impastata con acqua, che ha per fondamento iniquità e peccato, una vergognosa nudità fonte di impurità, e uno spirito perverso domina su di lui» (X III, 14-16 a).

Predestinazione e dualismo sono due concetti dominanti: l’umanità è divisa in due parti, i buoni e i cattivi (si veda anche in 1QS, III, 13; IV, 16 la dottrina dei due spiriti): «Prima che le creassi tu conoscevi tutte le loro opere da tutte le eternità. Perché tutto si compie secondo il tuo beneplacito

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e non si può conoscere nulla senza il tuo beneplacito. Tu hai plasmato ogni spirito, hai fatto l’anima e hai dato uno statuto e un giudizio a tutte le loro azioni» (I, 7-9). Dio ha già stabilito chi sono i buoni e i cattivi e il loro destino. «Tu hai creato il giusto e l’empio» (IV, 38). «So che è nella tua mano il carattere di ogni spirito e che ogni sua azione l’hai stabilita prima ancora di averlo creato. Come, dunque, potrebbe qualcuno mutare le tue parole?» (XV, 13-14 a).

Creando gli uomini, Dio ha prestabilito a ognuno il suo destino di salvezza e di rovina. «Tu solo hai creato il giusto, e dal seno lo hai consolidato per il tempo stabilito dal tuo beneplacito…» (XV, 14 b-15). «Ma hai creato gli empi per il tempo stabilito della tua ira e, dal seno materno, li hai messi da parte per il giorno del massacro…» (XV, 17).

I buoni appartengono a Dio, furono scelti da lui e si allontanarono dal peccato; sono saggi, comprendono i misteri di Dio, sono figli del suo beneplacido, osservano i suoi precetti, vivono nel suo patto, conoscono la verità e ne sono figli, non peccano, servono e temono Dio, compiono le opere della sua verità e in virtù della benevolenza e grazia divina compiono ogni bene, sono uomini del consiglio di Dio, «nella sorte comune agli angeli», «nella sorte dei santi» e sono suoi «prìncipi» (IV, 11-14); Dio stesso è il padre di tutti questi «figli della tua verità» (IX, 35). I cattivi sono coloro che avversano la comunità degli eletti: «in conformità dei loro peccaminosi segreti alterano le opere di Dio» (V, 37); sono empi, figli della colpa nella quale trovano il loro piacere, camminano in un sentiero che non è quello di Dio, odiano quanto Dio predilige, respingono il patto e i comandamenti divini, sono falsi e inseguitori di errori e menzogne, non hanno intelligenza, «sono interpreti di inganno e veggenti di menzogna» (IV, 9-10), cercano di sedurre i buoni, hanno disegni velenosi, la loro malvagità avvolge tutto come le frecce in un campo di guerra, come scrosci di acque tumultuanti, come una violenta bufera; la loro cattiveria 317

alza i suoi flutti fino alle stelle (II, 25 e segg.), bevono il sangue dei forti, sprizzano veleno come i serpenti, la loro lingua è aguzza come una spada (V, 7-18). La salvezza costituiva l’anelito del salmista; salvezza espressa negativamente nel riconoscimento che Dio non gli ha assegnato il destino dei cattivi, non permette che i suoi nemici prevalgano su di lui, non l’abbandona, non svuota la sua fiducia, lo previene dal peccare, ecc.; e positivamente: Dio lo esorta, pone i suoi piedi sulla roccia, lo conduce presso limpide sorgenti, sostiene la sua debolezza con la sua forza, dirige i suoi passi, lo sostiene nelle lotte che gli fanno i cattivi, ma soprattutto lo favorisce con la sua bontà, con la sua grande benevolenza, con la sua misericordia, gli rivela i suoi misteri e le sue eccelse verità, lo ha introdotto nel suo patto, gli ha dato il suo spirito. Il primo atto della salvezza è l’elezione e ambedue vengono esclusivamente da Dio. «Io ero come un marinaio su di una nave nella furia del mare i cui marosi e tutti i f lutti scrosciavano contro di me… l’abisso risuonava alla mia angoscia e mi appressai alle porte della morte… Mi sono appoggiato sulla tua verità, mio Dio…» (VI, 21-26).

Dio offre ai giusti «una salvezza eterna», una «pace perpetua e indefettibile» (XV, 16). «Sono del Dio Altissimo tutte le opere di giustizia, e la via dell’uomo non è costante se non in virtù dello spirito che Dio ha formato per lui…» (IV, 30-31). «Tutti i figli della tua verità li farai entrare al tuo cospetto per opera dei tuoi perdoni, per purificarli dai loro peccati nella abbondanza della tua bontà e nella moltitudine delle tue misericordie, per farli stare davanti a te, per i secoli in perpetuo. Poiché tu sei un Dio eterno…» (VII, 29-31). «…mi hai sostenuto

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con la tua forza e il tuo spirito santo hai effuso su di me affinché io non vacilli…» (VIII, 6-7). «Ma io, che sono saggio, ti conosco, mio Dio, in virtù dello spirito che tu hai posto in me…» (X II, 11-12). «Tu hai infuso il tuo spirito santo sul tuo servo e hai purificato da ogni iniquità il suo cuore» (XVII, 26).

Fino a dove giunga la pienezza di questa elezione e salvezza è piuttosto arduo affermarlo in quanto non è espresso chiaramente. Si veda la nota a IV, 21-22 per la questione dell’immortalità, e a XI, 12 per la risurrezione. Uno stretto vincolo unisce la salvezza alla conoscenza, e di esso qualche studioso pare abbia abusato. «Gli Inni di Qumrân tradiscono costantemente delle concezioni nuove, scrive A. Dupont-Sommer, in evidente rapporto con il mondo religioso del mazdeismo e della gnosi ellenistica. Il nostro salmista è un “Conoscente”, un Gnostico; possiede una rivelazione segreta, riservata a iniziati, e questa conoscenza è il principio della sua salvezza e la fonte della sua gioia»21 Senza entrare nel complesso problema della definizione dello gnosticismo, si può oggi affermare che ben pochi o nessuno degli studiosi dell’Antico e del Nuovo Testamento nonché della letteratura giudaica intertestamentaria sottoscrive una tale affermazione. Nel senso tecnico e storico col quale noi usiamo ordinariamente i termini «gnosi», «gnostico», «gnosticismo», la dottrina degli Inni e di Qumràn è troppo ebraica per essere denominata gnostica; ma se prendiamo lo gnosticismo in senso largo e improprio non v’è dubbio che vi sono elementi gnostici a Qumrân come nel cristianesimo. I passi più significativi sul «conoscere» e sulla «conoscenza» negli Inni sono: «È dalla tua intelligenza ch’io conosco queste cose, giacché tu hai aperto le mie orecchie a meravigliosi segreti… Sprovvisto di intelligenza e spaventato dei tuoi giudizi giusti, che cosa posso dire?» (I, 21-23). «Tu sei il Dio delle conoscenze, a te appartengono tutte le opere della giustizia e il segreto della verità» (I, 26-27).

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«Intelligenza hai posto nel suo cuore affinché sgorghi (da esso) una fonte di conoscenza per tutti gli intelligenti… Ma essi li hanno barattati per la lingua straniera di un popolo senza intelligenza…» (II, 18-19). «Mi hai tratto su a una altezza eterna… e so che c’è una speranza per colui che hai plasmato dalla, polvere… Hai assegnato all’uomo un destino eterno con gli spiriti di conoscenza, affinché lodasse il tuo nome…» (III, 20-23). «Per mezzo mio tu hai illuminato il volto di molti… Poiché mi hai fatto conoscere i tuoi misteri meravigliosi … hai manifestato verso di me la tua potenza… per fare conoscere a tutti i viventi le tue gesta…» (IV, 27-29). «Io so che non è dell’uomo la giustizia» (IV, 30). «Ti ringrazio, Adonai, perché mi hai ammaestrato nella tua verità, mi hai fatto conoscere i tuoi meravigliosi segreti, le tue benevolenze…» (VII, 26-27). «Sii tu benedetto, Adonai, che hai dato al tuo servo l’intelligenza della conoscenza per discernere le meraviglie delle tue opere senza numero e per narrare l’abbondanza delle tue benevolenze» (X I, 27-28). «Io, tuo servo, so, per opera dello spirito che mi hai dato, che le parole della tua bocca sono verità, che tutte le tue opere sono giustizia, che la tua parola non tornerà più indietro…» (X III, 18-19). Ed io, grazie al tuo discernimento, so che la giustizia non è in potere della carne, che non è di Adamo la sua vita…

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So che è nella tua mano il carattere di ogni spirito e che ogni sua azione l’hai stabilita…» (XV, 12-13). «Benedetto sii tu, Dio delle conoscenze…» (framm. 4, riga 15).

Pare fuori dubbio che in 1QH l’accento sulla conoscenza sia maggiore di quello che si nota nella letteratura sapienzale dell’Antico Testamento, compreso il libro della Sapienza. La conoscenza è presentata come un prerequisito della salvezza; di essa sono privi quanti si trovano fuori della comunità, è un dono dell’elezione divina, è strettamente connessa con il patto o meglio con il nuovo patto (cfr. II, 28; IV, 9; IV, 24; VII, 8;X, 30; XV, 15; XVI, 7), e quindi con la pratica della legge, e non può venire che da Dio (I, 21 e segg.; III, 22-23; X, 14-15; XI, 3-4; XII, 11-13; XIV, 25; framm. 3, riga 14 e framm. 4, riga 15). Questi testi contengono idee più astratte e speculative di quelle della letteratura sapienzale biblica, e indicano un certo progresso verso lo gnosticismo, rappresentano un dato importante sullo sviluppo dello gnosticismo giudaico, ma sarebbe errato vedere in essi dello gnosticismo nell’accezione comune del termine; sono troppo connessi alla dottrina anticotestamentaria e alla letteratura giudaica apocalittica; sono di grande utilità per comprendere finalmente l’atmosfera, l’ambiente vitale di molte espressioni neotestamentarie, soprattutto di san Paolo, ma il loro sfondo è nettamente giudaico non gnostico, anche e soprattutto perché quanto fu preso dall’ambiente, che genericamente possiamo denominare «ellenistico iraniano», ha subito un complesso di trasformazioni per cui non è più quello, anche se ne conserva elementi che vanamente qualche studioso cerca di inquadrare nel contesto, forse, originario: a Qumrân hanno un senso diverso, il contesto è tutt’altro. Su questo argomento si vedano ad es. gli studi di K. G. Kuhn, IL E. Brown, O. Cullmann, W. O. Davis, A. DupontSommer, R. Marcus, B. Reicke, B. Rigaux, E. Schweitzer, O. Betz, ecc. Gli ultimi libri della Bibbia (Daniele, i Maccabei, l’ Ecclesiastico, la Sapienza) sono molto interessati al problema escatologico che fu ulteriormente sviluppato dalla letteratura giudaica più o meno contemporanea o di poco posteriore, la così detta letteratura apocrifa dell’Antico Testamento: in essi sono esposte le dottrine sugli ultimi giorni, sul giudizio finale, sulla risurrezione, sull’immortalità e sulla retribuzione. Gli Inni hanno a questo riguardo dei tratti propri che li affiancano più alla letteratura antica che a quella su menzionata. Non c’è dubbio che sia espressa chiaramente l’attesa imminente della definitiva eliminazione dei 321

cattivi con una generale catastrofe tratteggiata a vivi colori in III, 25-36. Molto incerto è invece il destino dei giusti: non v’è un solo testo che parli chiaramente della salvezza escatologica, ed è difficile decidere se la salvezza degli eletti è quella che già possiedono nella comunità, in una forma più vasta, piena e completa, oppure se essa è oggetto dell’attesa futura. S. Holm-Nielsen afferma in proposito: «Si è tentati di usare le parole del Signore in Gv., 5, 24: “egli… è passato dalla morte alla vita”». Uno degli attori dell’èra escatologica, del giudizio e della salvezza è solitamente il messia: ed anche qui gli Inni presentano un problema singolare. Alcuni studiosi come J. M. Allegro, M. Black, K. Stendahl, G. Vermes, A. Dupont-Sommer, J. V. Chamberlain, J. Daniélou, W. H. Brownlee, M. Delcor e altri vedono il messia in un testo particolarmente difficile: 1QH, III, 5-18; altri sono invece assolutamente contrari, così ad es.: S. Mowinckel, L. H. Silberman, F. M. Cross, S. Holm-Nielsen, J. Carmignac, O. Betz, J. Starcky. La questione è aperta e non resta che segnalare i dati sicuri. Qualche studioso ha certo esagerato affermando che negli Inni il maestro di giustizia dai suoi seguaci era considerato come il messia salvatore di Israele e del mondo, come il servo di Jahweh; nei testi vi è troppo poco per sostenere tali conclusioni che per lo più furono avanzate quando i testi non erano ancora stati pubblicati integralmente e il loro studio era solo agli inizi. Del messia negli Inni non si parla mai espressamente; ed il motivo è semplicemente perché all’autore, o autori, non interessava a meno che per messianismo si voglia intendere un’èra di prosperità e di pace; ma allora è un messianismo senza messia (vedi ad es. «il virgulto» (in ebr. nēṣer) in VI, 15; VII, 19; VIII, 6.8.10). Un testo di estremo interesse è in proposito III, 9-10 ove si ha una chiara allusione a Is., 9, 5 (testo messianico): qui l’autore depenna in modo molto significativo «Dio-Forte» (in ebr. ’el ghibbôr) e il «mirabile consigliere» non è che il consiglio della communità, non il messia22. Il maestro di giustizia, o comunque l’autore di questi Inni, non si è dato alcun titolo messianico, e sebbene alcune espressioni che gli si riferiscono esprimano una situazione analoga a quella del «servo di Jahweh», traspare con sufficiente chiarezza che egli non ha inteso questa figura in senso messianico; e in 1QH, XVIII, 14 ove ricorre il testo di Is., 61, 1, è saltata l’espressione «Jahweh mi ha unto». Un altro termine che può avere una carica messianica è «eletto» (in ebr. bāhîr) ed anche questo è scartato in 1QH, VII, 6 e XIII, 18 pur avendo l’autore, probabilmente, davanti il testo di Is., 42, 1. 322

Il «servo di Jahweh» offre la sua vita in espiazione, ed è dalle sue piaghe che gli altri sono guariti (Is., 53, 5-10), ma il maestro di giustizia, se è lui che scrive, si ritiene una trappola per i trasgressori e una medicina per quelli che si convertono (II, 8-9), un oggetto di contestazione e di gelosia per gli avversari (II, 14-15)5 e il castigo divino divenne per lui «gioia e godimento» (IX, 24-25). Non pare che vi possa essere dubbio: il maestro di giustizia non si è presentato come il messia. Bene conclude lo Starcky, sul presente argomento: «alle preoccupazioni fortemente legaliste del maestro di giustizia si aggiunge un senso religioso molto personale, ove la coscienza della colpevolezza e della nullità dell’uomo è sovrastata da una eroica volontà di perfezione. La missione di cui si credette investito da Dio verso Israele si pone nella linea di un profeta come Mosè o di un riformatore come Esdra, ma l’idea di considerarla come propriamente messianica non poteva sedurlo, giacché egli non aspettava un messia»23.

Epoca di composizione. Il più antico testo che ci sia giunto del rotolo degli Inni è a quanto pare quello dello Strugnell; si può collocare tra l’8o e il 100 a. C.24, quello invece della grotta 1, e cioè il testo più completo che qui si segue pubblicato dal Sukenik, è di epoca erodiana25 e la sua datazione non può quindi essere posteriore a questo periodo. Ma più precisamente la prima stesura degli Inni è posta, come quella della Regola della comunità, in relazione al maestro di giustizia e cioè agli inizi del movimento di Qumrân: idee, atmosfera generale, certe insistenze particolari confermano questa antica datazione coeva alla Regola, e perciò, secondo la cronologia in queste pagine preferita, poco dopo l’anno 152. La datazione della redazione degli Inni è strettamente connessa, secondo la maggioranza dei qumranisti, al maestro di giustizia e soprattutto con gli inizi della comunità. Vivo in tutti i passi frammentari dei manoscritti di Qumrân, con maggiore evidenza si presenta qui un problema fondamentale di metodologia: fino cioè a quale punto è lecito riempire le molte lacune. Inutile dire che spesso manca proprio la parola chiave e ciò acuisce il desiderio di completare, come in un grande affresco danneggiato, quanto manca alla lettura ed è facile lasciarsi trascinare dal desiderio di completezza, dalla fantasia, dalla presunzione di avere capito il seguito. Alcuni qumranisti eccedono alquanto, a mio giudizio, concedendo troppo alla fantasia e alla presunzione (così ad es. piuttosto spesso J. Licht, A. M. 323

Habermann, A. Dupont-Sommer, e anche H. Bardtke), altri limitano i propri interventi a quei passi per i quali la lezione proposta è pressoché sicura; ho cercato di seguire una via di mezzo cedendo qua e là al desiderio di completezza (anche per le finalità di questo mio lavoro) avvertendone, naturalmente, sempre il lettore con l’accorgimento del corsivo anche là ove la lezione è più che probabile e comune, e offrendo, specie nei passi di maggiore interesse, una scelta di interpretazioni tratte da altri studiosi. Si è cercato di comprendere l’intenzione dell’autore e l’andamento del suo pensiero, di preferire le ricostruzioni che hanno analogia con altri passi degli Inni, e di altri scritti di Qumrân, o che seguono il testo biblico al quale l’autore si riferisce. Ma ognuno vede quanto tutto ciò sia soggettivo e quindi incerto: il nostro autore (o autori) è molto personale; singolare è lo stesso metodo di servirsi della Scrittura e dove in altri manoscritti queste integrazioni sono certe, qui (anche queste) restano irrimediabilmente dubbie. Un ausilio insostituibile, qui più che altrove mi è venuto dagli studi di quanti mi hanno preceduto soprattutto dai qumranisti che commentarono gli Inni (menziono in special modo J. Licht, J. Carmignac, A. Dupont-Sommer, M. Delcor, M. Mansoor, S. Holm-Nielsen) o ne approfondirono aspetti particolari (come G. Jeremias, J. Becker, e H. W. Kuhn). Ritengo in fine che sia indispensabile sottolineare le difficoltà che il testo presenta, anche a prescindere dalle molte lacune e frammentarietà, sia per le varie tonalità e ricorrenti espressioni tipicamente qumraniane, sia soprattutto per certe parole evocatrici nell’animo dell’autore e dei suoi immediati lettori, il cui valore non è da noi facilmente percepibile, sia ancora per l’uso singolare che fa della Scrittura per cui molte sfumature, anche di notevole interesse, ci sfuggono a meno che si abbia una vigile attenzione a ogni richiamo e una conoscenza dei testi biblici corrispondenti pari a quella che ne aveva l’autore; quasi ovunque, in fine, si ha da tenere conto del fatto che l’autore usa parole ed espressioni aventi un orizzonte molto vasto che non si esaurisce con un unico significato.

1. J. S TRUGNELL, Le travail d’édition des manuscrits de Qumrân, in RB, 1956, p. 64. 2. Così S. H OLM - N IELSEN, op. cit., pp. 9 e segg.; M. M ARTIN, The Scribal Character of the Dead Sea Scrolls, Louvain, 1958, I, pp. 59-64; II, pp. 457-494. 3. Die Qumrân-Rollen und die hebräische Sprachwissenschaft 1948-1958, in RQ1, 1958, 103-105; ID., Linguistic Structure and Tradition in the Qumrân Documents, in Scripta Hierosolymitana, 4, 1958, 101-137; e vedi la Bibliogr. generale. 4. Sui quali vedi H. GUNKEL - J. BEGRICH, Einleitung in die Psalmen. Gattungen der

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religiösen Lyrik Israels, Göttingen, 1933, pp. 265-292; e S. M OWINCKEL, The Psalms in Israel’s Worship (translated by D. R. Ap-Thomas), vol. II, Oxford, 1962, pp. 31-43 e dello stesso M OWINCKEL, Some Remarks on Hodayoth 39, 5-20, in JBL, 75, 1956, 265-276. 5. Die späjüdische Psalmendichtung, ihr Entstehungskreis und ihr «Sitz im Leben», Oslo, 1937. 6. Talmudic Material Relating to the Dead Sea Scrolls, in RQ, 2, 1959, 398-404. 7. Les écrits…, pp. 214-215. 8. Lob Gottes…, pp. 10-11. 9. Les textes…, I, p. 133. 10. Così ad es. A. Dupont-Sommer, M. Delcor, J. Carmignac, ecc. per la r. 30. 11. Come S. Holm-Nielsen, op. cit., pp. 301-331. 12. Così H. BARDTKE, Das Ich des Meisters… 13. Così ad es. E. L. Sukenik, J. T. Milik, J. P. Hyatt, A. Dupont-Sommer, Y. Yadin, M. Delcor, J. Carmignac ecc. 14. Ad es. G. Molin, F. Nötscher, M. Burrows, M. Mansoor, G. Vermes, ecc. 15. Ad es. J. Licht, G. Jeremias, S. Holm-Nielsen ecc. 16. Cfr. in specie l’art. cit. su RB, 1956. 17. De vita contemplativa, 80. 18. The Dead Sea Scrolls…, pp. 149-150; ed Essenes-Therapeutai-Qumrân, in «Durham University Journal», 1960, 97-115. 19. Cfr. G. J EREMIAS, op. cit. 20. RQ, 3, 1960, 357-394. 21. Les écrits…, p. 215. 22. Si può vedere in merito la sintesi di H. BRAUN, Qumrân und das Neue Testament, II, Tubingen, 1969, pp. 75 e segg. 23. J. S TARCKY, Les quatre étapes du messianisme à Qumrân, in RB, 70, 1963, 487. 24. Cfr. J. S TARCKY, art. cit., 483, n. 8. 25. F. M. C ROSS, The Development of the Jewish Scripts, in [The Bible and the Ancient Near East… W. F. Albright, edit. by G. E. Wright], p. 199.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1. Testo ebraico.

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331

1.

I [1] Ti ringrazio Adonai… [5] e sorgente della potenza … grande in consiglio, le tue misericordie sono senza numero e terribile è la tua gelosia. [6] … Chi potrà sussistere davanti alla tua collera? Sei tardo alla collera nel tuo giudizio. Tu sei giusto in tutte le tue azioni. [7] Nella tua sapienza hai fondato le generazioni eterne: prima che le creassi tu conoscevi tutte le loro opere [8] da tutte le eternità. Perché tutto si compie secondo il tuo beneplacito e non si può conoscere nulla senza il tuo beneplacito. Tu hai plasmato [9] ogni spirito, hai fatto l’anima e hai dato uno statuto e un giudizio a tutte le loro azioni. Tu hai disteso i cieli [10] per la tua gloria, hai creato ogni anima secondo il tuo beneplacito e gli spiriti potenti secondo i loro statuti, prima [11] che diventassero angeli della tua santità … spiriti eterni nei loro dominii: i luminari secondo i loro misteri, [12] le stelle secondo i loro sentieri, e tutti i venti tempestosi secondo la loro carica, i lampi e i tuoni secondo il loro servizio e le riserve [13] del piano provvidenziale secondo i loro [scopi, la nebbia e i chicchi di grandine secondo le loro misteriose (leggi). Nel tuo vigore, tu hai creato la terra, [14] i mari, gli abissi, e nella tua sapienza tu hai fondato anche i cieli, le stellé e tutto ciò che in essi si trova; [15] li hai disposti secondo il tuo beneplacito e li hai dati in dominio allo spirito dell’uomo 332

che tu hai plasmato nel mondo per tutti i giorni eterni [16] e per le generazioni perpetue, per dominare… nei tempi determinati nei quali hai assegnato il loro servizio in tutte le loro generazioni e il giudizio [17] nei tempi stabiliti, per dominare… di generazione in generazione. E la visita apportatrice di felicità [18] con tutti i loro flagelli… tu l’hai disposta per tutti i loro discendenti per un numero di generazioni eterne [19] è per tutti gli anni, in perpetuo. … hai creato e con la sapienza della tua conoscenza hai determinato la loro testimonianza prima [20] che venissero all’esistenza: tutto accade secondo il tuo volere e la tua benedizione, e nulla è fatto senza di te. [21] È dalla tua intelligenza ch’io conosco queste cose, giacché tu hai aperto le mie orecchie a meravigliosi segreti. Io non sono che una creatura d’argilla e un essere impastato con acqua, [22] un insieme di ignominia e una fonte di impurità, una fornace di iniquità e un edificio di peccato, uno spirito di errore e perverso, sprovvisto di [23] intelligenza, spaventato dei giudizi giusti. Che cosa posso dire che già non sia noto? Che cosa posso fare ascoltare che già non sia stato narrato ? Ogni cosa [24] è incisa al tuo cospetto, con lo stilo del ricordo per tutti i tempi determinati in e i cicli del numero degli anni eterni [perpetuo, in tutti i loro tempi stabiliti, [25] non sono stati celati né sottratti dal tuo cospetto. Come può un uomo esporre il suo peccato, 333

come può replicare a proposito delle sue iniquità, [26] come può rispondere a ogni giusto giudizio? Tu sei il Dio delle conoscenze, a te appartengono tutte le opere della giustizia [27] e il segreto della verità, mentre è dei figli di Adamo il servizio dell’iniquità e le opere fallaci. Tu hai creato [28] sulla lingua uno spirito, conosci le sue parole e hai stabilito il frutto delle sue labbra prima che vengano all’esistenza. Tu hai disposto le parole su di un righino [29] e l’emissione dello spirito delle labbra su di una misura. Hai fatto emettere suoni per i loro misteri ed emissioni di spiriti per le loro riflessioni, per fare conoscere [30] la tua gloria, per narrare le tue meraviglie in tutte le opere della tua verità e i tuoi giusti giudizi e per lodare il tuo nome [31] con la bocca di tutti. Ti conoscano nella misura della loro intelligenza e ti benedicano per i secoli dei secoli. Tu nella tua misericordia [32] e nelle tue grandi bontà hai irrobustito lo spirito dell’uomo di fronte ai flagelli… e l’hai purificato dall’abbondanza di iniquità, [33] affinché, in presenza di tutte le tue opere, narri le tue meraviglie. lo narrerò agli uomini i giudizi che mi hanno colpito [34] e ai figli dell’uomo tutte le tue meraviglie con le quali ti sei dimostrato forte in me… Ascoltate, [35] sapienti, intenti alla conoscenza e impazienti! Sia deciso il vostro carattere! Voi tutti semplici, aumentate la prudenza! [36] Giusti, bandite l’ingiustizia! Voi tutti dalla via perfetta, sostenete… povero. Siate lenti [37] all’ira, non disprezzate tutti i giudizi della sua giustizia e le opere della sua fedeltà, 334

poiché solo quelli dal cuore insensato non le comprendono… [38-39] e i violenti digrigneranno i denti…

2.

II [1-2] … Ti ringrazio Adonai… [3] … tutte le opere dell’ingiustizia… [4] … spiriti di giustizia in tutto… [5] Ma tu, mio Dio, spezzerai le reni ai tuoi nemici… e quelli che annunziano la gioia saranno in, preda al tormento della tristezza [6] e gli insensati alla totale distruzione. Il fragore delle loro alte grida infiacchiva il mio cuore e la mia vigorosa resistenza [7] di fronte al flagello. Ma tu hai dato una risposta alla lingua delle incirconcise mie labbra, hai sostenuto la mia anima con l’energia dei reni [8] e con una vigorosa resistenza, hai reso saldi i miei passi nel dominio dell’empietà: sono diventato una trappola per tutti i trasgressori, ma una medicina per tutti [9] coloro che si convertono dalla iniquità, prudenza per i semplici e carattere saldo per quanti hanno il cuore incostante. Mi hai posto come un oggetto di vergogna [10] e di irrisione per i traditori, segreto di verità e di intelligenza per quanti camminano sulla via giusta. Fui fatto segno alle offese degli empi, [11] oggetto di diffamazione sulle labbra dei violenti, mentre gli irrisori digrignavano i denti. 335

Io sono diventato oggetto di derisione per i trasgressori, [12] contro di me si agita l’assembramento degli empi: muggiscono come i flutti dei mari, quando le loro onde sono agitate, e rovesciano fango [13] e melma. Mi hai posto come un vessillo per gli eletti della giustizia, come un interprete nella conoscenza dei misteri meravigliosi per mettere alla prova [14] coloro che cercano la verità, per sperimentare gli amanti della disciplina. Sono stato un uomo litigioso per gli interpreti d’errore, ma uomo [15] pacifico per tutti coloro che contemplano le cose consistenti. Sono stato uno spirito di gelosia per tutti coloro che cercano cose vane. [16] Tutti gli uomini della menzogna si scagliavano contro di me come il fragore di una grande moltitudine di acque. Astuzie di Belial sono tutti [17] i loro pensieri, hanno rivolto verso la fossa la vita dell’uomo al quale hai reso stabile la bocca e che hai istruito; intelligenza [18] hai posto nel suo cuore affinché sgorghi (da esso) una fonte di conoscenza per tutti gli intelligenti. Ma essi li hanno barattati per un labbro incirconciso [19] e per la lingua straniera di un popolo senza intelligenza rovinandosi nel loro errore. 3.

[20] Ti ringrazio, Adonai, poiché hai posto la mia anima nello scrigno della vita [21] e mi hai protetto da tutti gli inganni della fossa, Giacché i violenti hanno macchinato contro la mia vita, mentre io mi affidavo [22] sul tuo patto. 336

Ma essi, convegno da nulla e assemblea di Belial, non sanno che la mia posizione proviene da te, [23] che nelle tue benignità salverai l’anima mia giacché i miei passi sono (guidati) da te, e che è da te che essi hanno attentato [24] contro l’anima, affinché tu fossi glorificato nel giudizio degli empi e manifestassi in me la tua potenza davanti ai figli [25] di Adamo: poiché è per tua benignità ch’io mi tengo su. Io dissi: Guerrieri si sono accampati contro di me e mi circondarono con tutte [26] le loro armi da guerra; scagliarono frecce senza rimedio e la lancia fiammeggiante era come un fuoco divoratore di alberi; [27] come quello di una grande quantita di acque era il tumulto delle loro voci, una violenta bufera di pioggia per la distruzione di molti. Fino alle stelle prorompono [28] cattiveria e vanità allorché s’alzano i loro flutti. Ed io, mentre il mio cuore si scioglieva come acqua, l’anima mia si irrobustiva nel tuo patto. [29] Essi mi tesero una rete: acchiappi il loro piede! Trappole hanno dissimulato all’anima mia: cadano in esse! Il mio piede è rimasto fermo sul retto sentiero. [30] Benedirò il tuo nome lungi dal loro assembramento. 4.

[31] Ti ringrazio, Adonai, perché il tuo occhio, veglia sull’anima mia e mi hai scampato dalla gelosia di interpreti menzogneri [32] e dall’assemblea di quanti cercano 337

cose ingannevoli. Hai riscattato l’anima del povero, che essi cercavano di sopprimere, versando il suo sangue [33] a motivo del tuo servizio. Non sapevano, infatti, che i miei passi sono (guidati) da te. Hanno fatto di me un oggetto di irrisione [34] e di vergogna in bocca a tutti coloro che cercano la menzogna. Ma tu, mio Dio, hai soccorso l’anima dell’umile e del bisognoso [35] dalla mano di colui che è più forte di lui, hai liberato l’anima mia dalla mano dei potenti e, in mezzo ai loro oltraggi, non mi hai avvilito [36] fino a disertare il tuo servizio per timore delle sevizie degli empi e a scambiare con la follia il carattere saldo che [37] mi hai dato … gli statuti, e per mezzo delle testimonianze sono stati proclamati alle orecchie [38] … a tutti i loro discendenti [39] … tra i tuoi discepoli. III [1] …in me [2]… 5.

[3] Ti ringrazio, Adonai, poiché a me hai illuminato il tuo volto… [4] … a te nella gloria eterna con tutti… [5] … tua bocca e tu mi hai liberato da… e da… [6] hai salvato l’anima… Essi non mi stimavano e resero la mia anima come una nave nelle profondità del mare 338

[7] e come una città fortificata di fronte ai nemici. Ero nell’angoscia come una donna partoriente al suo primo parto, allorché improvvise giungono le sue doglie [8] e un tormento atroce (colpisce) le sue increspature facendo contorcere la fornace di colei che è incinta, poiché i figli sono giunti ai flutti di morte. [9] Colei che è incinta di un uomo era tormentata dai suoi veementi dolori poiché tra i flutti di morte partoriva un maschio e, tra veementi dolori da Sheôl, scaturiva, [10] dalla fornace di colei che era incinta, un mirabile consigliere con la sua potenza e un uomo usciva fuori incolume dalle increspature. Su colei che è incinta di lui si precipitavano tutti [11] i flutti e i tormenti acuti, nel momento in cui (i figli) erano partoriti e lo spavento colpiva coloro che ne erano incinte; nel momento in cui era partorito, giungevano improvvisamente tutte le doglie [12] nella fornace di colei che era incinta. E colei che era incinta di una vipera era in preda atroce e i flutti della fossa (venivano scatenati) per ogni azione terrificante. Vacillavano [13] le fondamenta del muro, come una nave sulla superficie del mare, rumoreggiavano le nubi con frastuono scrosciante e quanti sedevano nella polvere, [14] come quelli che percorrevano i mari, erano terrificati dallo scrosciare delle acque. Tutti i loro sapienti divennero come marinai nelle profondità del mare, perché era stata annientata [15] tutta la loro sapienza 339

dallo scrosciare delle acque e dal ribollimento degli abissi contro le sorgenti delle acque: i marosi erano proiettati in alto, [16] i flutti del mare mandavano uno scrosciante frae nel loro scatenamento [stuono si aprivano lo Sheôl e l’Abaddon e tutte le frecce della fossa [17] li inseguivano; facevano udire all’abisso la loro voce. Si aprivano le porte dello Sheôl per tutte le opere della vipera [18] e i battenti della fossa si chiudevano dietro colei che era incinta di iniquità e le spranghe eterne dietro tutti gli spiriti della vipera. 6.

[19] Ti ringrazio, Adonai, perché hai liberato l’anima mia dalla fossa e dallo Sheôl dell’Abaddon, [20] mi hai tratto su a una altezza eterna, passeggio su di un altopiano imperscrutabile e so che c’è una speranza per colui che [21] hai plasmato con la polvere per il convegno eterno. Hai purificato uno spirito perverso da un delitto grande affinché se ne stesse in servizio al (suo) posto con [22] l’esercito dei santi ed entrasse in comunione con l’assemblea dei figli del cielo. Hai assegnato all’uomo un destino eterno con gli spiriti [23] di conoscenza, affinché lodasse il tuo nome in una lieta comunità e raccontasse le tue meraviglie al cospetto di tutte le tue opere. 340

Ma io, creatura [24] d’argilla, che cosa sono io? Impastato con l’acqua, per chi sono stimato? Qual è la mia forza? Io, infatti, mi insediai nel dominio dell’empietà, [25] con i miserabili, nello (stesso) destino. L’anima del povero era in esilio tra grandi costernazioni e calamità distruggitrici accompagnavano i miei passi [26] allorché si aprivano tutte le trappole della fossa, si rivelavano tutti gli inganni dell’empietà e le reti dei miserabili (tese) sulla superficie delle acque, [27] allorché tutte le frecce della fossa sfrecciavano senza ritorno e colpivano senza speranza, allorché la fune (distruggitrice) cadeva sul giudizio e il destino della collera [28] (si abbatteva) sugli abbandonati e sugli ipocriti l’effusione del furore. Era il tempo determinato per la collera contro tutto Belial: i lacci della morte si sono stretti senza via di scampo; [29] i torrenti di Belial hanno invaso tutti gli alti margini, come fuoco che divora tutti quanti vi attingono, che stermina ogni albero, verde [30] o secco, dai loro canali, e con i vortici della fiamma abbatte quanti vi si abbeverano, fino a che scompaiono totalmente; divorerà le fondamenta d’argilla [31] e la distesa della terra arida; le fondamenta dei monti saranno preda delle fiamme, le radici di granito diverranno torrenti di pece; divorerà fino all’abisso [32] grande e i torrenti di Belial irromperanno nell’Abaddon, le regioni recondite dell’abisso saranno scosse 341

da un fremito di eruzioni di fango. La terra [33] griderà a causa della rovina sopraggiunta nel mondo e tutte le regioni recondite innalzeranno urla, saranno impazziti quanti si troveranno su di essa [34] e vacilleranno a causa di un grande disastro perché Dio tuonerà con il fremito della sua forza e la sua dimora santa fremerà nella verità [35] della sua gloria; l’esercito dei cieli farà risuonare la sua voce, vacilleranno e tremeranno le fondamenta eterne, la guerra dei forti [36] del cielo flagellerà il mondo, e non cesserà fino a quando la distruzione non avrà piena realizzazione, e non vi sarà più nulla di simile. 7.

[37] Ti ringrazio, Adonai, perché tu sei per me un solido baluardo [38] … tutti i distruttori e tutti… mi porrai al riparo dalle calamità sconvolgenti… [39] … nessuno entrerà… IV [1-2] … [3] … Tu hai posto i miei piedi sulla roccia… [4] … per camminare su di una via eterna e sui sentieri che tu hai scelto.., 8.

[5] Ti ringrazio, Adonai, perché hai illuminato il mio volto in vista del tuo patto e dalla fossa hai liberato la mia anima… [6] … ti ho ricercato quale stabile aurora e tu mi sei apparso all’alba. Ma essi hanno sedotto il tuo popolo, 342

[7] con parole ingannevoli, interpreti di menzogna, l’hanno fuorviato: si rovinarono per mancanza di intelligenza, perché… [8] le loro azioni sono nella follia, giacché divennero spregevoli a se stessi, e non hanno stima di me, sebbene tu manifesti in me la tua potenza, poiché mi scacciano dalla mia terra [9] come un uccello dal suo nido. Tutti i miei vicini e parenti furono allontanati da me, mi ritennero come uno strumento inetto. Essi, interpreti [10] di inganno e veggenti di menzogna hanno escogitato contro di me progetti di Belial permutando la tua legge, che hai scolpito nel mio cuore, con le parole seduttrici [11] per il tuo popolo: hanno trattenuto dagli assetati la bevanda della conoscenza, alla loro sete fecero bere aceto, per contemplare [12] il loro traviamento, perché nei loro tempi stabiliti si comportassero da insensati, perché fossero presi nelle loro (stesse) reti. Poiché cu, Dio, disprezzi ogni progetto [13] di Belial, il tuo consiglio sussisterà e il pensiero del tuo cuore sarà stabile per sempre; mentre essi sono ipocriti e astuzie di Belial [14] sono quelle che tramano; ti ricercano con cuore doppio, non sono saldi nella tua verità, una radice che produce veleno e assenzio è nei loro pensieri, [15] si smarriscono con l’ostinazione del loro cuore, ti ricercano negli idoli e ciò che li fa incespicare, 343

la loro iniquità, l’hanno posto davanti al loro volto; vengono [16] a ricercarti seguendo le parole di profeti ingannatori, di coloro che sono sedotti dal traviamento. Con labbra barbare e in una lingua straniera essi parlano al tuo popolo [17] per rendere insensate, con l’inganno, tutte le loro opere. Poiché non hanno ascoltato la tua voce, né hanno prestato orecchio alla tua parola; poiché dissero [18] della visione di conoscenza: «Non è vera!» e della via del tuo cuore: «Non è quella!» Ma tu, Dio, risponderai loro, giudicandoli, [19] nella tua potenza, secondo i loro idoli e secondo la moltitudine delle loro trasgressioni affinché siano colti nei loro stessi progetti, coloro che si sono allontanati dal tuo patto. [20] Nel giudizio, stroncherai tutti gli uomini d’inganno e non si troverà più alcun veggente di traviamento. Poiché non c’è alcuna follia in tutte le tue opere, [21] non c’è inganno nella valutazione del tuo cuore. Coloro che sono secondo la tua anima staranno ritti al tuo cospetto per sempre, quelli che camminano secondo la via del tuo cuore [22] saranno saldi in perpetuo. Ma appoggiandomi fermamente su di te, io sono forte e sorgerò contro tutti coloro che mi disprezzano e la mia mano sarà contro coloro che mi disprezzano. Poiché [23] essi non avevano stima di me fino a quando tu manifestasti in me la tua potenza: nella tua forza, 344

mi sei apparso all’alba, e non copristi di vergogna il mio volto. [24] Tutti coloro che si orientano verso di me si riuniscono insieme nel tuo patto. Tutti coloro che camminano sulla via del tuo cuore mi hanno ascoltato e si sono disposti per te [25] nel convegno dei santi. Farai trionfare in perpetuo la loro causa, e la verità secondo giustizia, non permetterai che siano fuorviati dal potere dei miserabili, [26] come hanno progettato contro di essi. Tu, invece, porrai sul tuo popolo il timore verso loro, e la distruzione per tutti i popoli delle terre,

345

Inni (1Q H), III.

Notare alla riga 19 l’inizio di un inno con l’espressione: ’odkāh “adônāj kî padîtāh nafshî… Nonostante la consunzione, è sufficientemente chiaro anche l’inizio del nuovo inno alla riga 37. (Da E. L. SUKENIK, The Dead Sea Scrolls of the Hebrew University, Jerusalem, The

346

Magnes Press, 1955, Pl. 37).

347

per fare sterminare, nel giudizio, tutti [27] coloro che trasgrediscono la tua parola. Per mezzo mio, hai illuminato il volto di molti, e li hai fatti crescere tanto che divennero innumerevoli. Poiché mi hai fatto conoscere i tuoi misteri [28] meravigliosi e nel tuo meraviglioso consiglio hai manifestato verso di me la tua potenza, hai compiuto meraviglie davanti a molti a causa della tua gloria e per fare conoscere [29] a tutti i viventi le tue gesta. Quale essere di carne è capace di ciò? E quale creatura di argilla è così grande da compiere tali meraviglie? Essa è nell’iniquità già [30] dal seno materno, e fino alla vecchiaia in una colpevole infedeltà. Io so che non è dell’uomo la giustizia, non è del figlio di Adamo la perfezione [31] della via: sono del Dio Altissimo tutte le opere di giustizia, e la via dell’uomo non è costante se non in virtù dello spirito che Dio ha formato per lui [32] per rendere perfetta la via dei figli di Adamo affinché, con il vigore della sua potenza, conoscano tutte le sue opere, e la moltitudine della sua misericordia verso tutti i figli [33] del suo beneplacito. Io fui preso da tremore e da paura, erano spezzate tutte le mie ossa, il mio cuore si scioglieva come cera davanti al fuoco, le mie ginocchia camminavano [34] come acque che scorrono su di un pendio, poiché mi ero ricordato delle mie colpe 348

ed insieme dell’infedeltà dei miei padri, allorché gli empi si erano levati contro il tuo patto [35] e i miserabili contro la tua parola. E io dissi: È a causa della mia trasgressione che sono stato abbandonato lungi dal tuo patto! Ma quando mi ricordai della forza della tua mano ed insieme [36] dell’abbondanza delle tue misericordie, riacquistai vigore e mi alzai, il mio spirito divenne forte nel (suo) posto davanti alla afflizione; poiché mi appoggiai [37] sulle tue benevolenze, e sull’abbondanza delle tue misericordie. Tu, infatti, cancelli l’iniquità e, con la tua giustizia, purifichi dalla colpa i figli dell’uomo. [38] Ma non è per Adamo, bensì per la tua gloria che l’hai fatto, poiché tu hai creato il giusto e l’empio… [39] … mi fortificherò nel tuo patto per sempre… [40] … al tuo cospetto, poiché tu sei verità e tutte le tue opere sono giustizia… V [1] Per un giorno con… nell’abbondanza dei [2] tuoi perdoni e nell’abbondanza della tua misericordia… [3] e allorché conobbi queste cose, ne fui consolato… [4] secondo il tuo beneplacito e nella tua mano è il giudizio di tutti loro… 9.

[5] Ti ringrazio, Adonai, perché non mi hai abbandonato 349

quando ero in esilio tra un popolo straniero … e perché non secondo la mia colpevolezza [6] mi hai giudicato, né mi hai abbandonato ai malvagi consigli del mio carattere, ma hai soccorso la mia vita (preservandola) dalla fossa. Tu avevi abbandonato l’anima del tuo servo in mezzo [7] a leoni destinati ai figli della colpevolezza, a leoni che spezzano le ossa dei potenti e bevono il sangue dei forti; mi avevi posto [8] in un esilio con molti pescatori che stendono la rete sulla superficie delle acque e tra cacciatori (destinati) ai figli d’iniquità. E là, per il giudizio, [9] mi hai ammaestrato e nel mio cuore hai fortificato il segreto della verità, e di qui venne il patto per coloro che lo ricercano. Tu hai chiuso la bocca dei leoncelli i cui [10] denti sono come una spada, e i loro incisivi come lancia acuta. Veleno di serpenti sono tutti i loro disegni volti ad accalappiare; si sono posti in agguato, ma [11] contro di me non hanno aperto la loro bocca, poiché tu, mio Dio, mi avevi nascosto davanti ai figli di Adamo, e in me avevi nascosto la tua legge fino al tempo determinato [12] nel quale mi hai rivelato la tua salvezza. Poiché nell’angoscia dell’anima mia non mi hai abbandonato, nelle amarezze dell’anima mia hai udito il mio grido d’aiuto [13] e nel mio gemito hai prestato attenzione al grido della mia miseria. Hai liberato l’anima del povero dal serraglio dei leoni, 350

che aguzzano la loro lingua come una spada. [14] Ma tu, mio Dio, hai chiuso i loro denti affinché non dilaniassero l’anima dell’umile e del bisognoso, e hai fatto rientrare la loro lingua [15] come una spada nel suo fodero, senza che colpisse l’anima del tuo servo, per mostrare in me la tua potenza davanti ai figli di Adamo, hai compiuto meraviglie [16] per il povero: l’hai fatto entrare nel crogiolo per raffinarlo come l’oro sotto l’azione del fuoco e come l’argento raffinato nella fornace dei soffiatori per purificarlo sette volte. [17] Contro di me si affrettavano gli empi dei popoli con i loro tormenti e tutto il giorno opprimevano l’anima mia. [18] Ma tu, mio Dio, hai trasformato l’uragano in una brezza leggera e liberato l’anima del povero come un pastore che strappa la preda dalla forza [19] dei leoni. 10.

[20-21] Sii tu benedetto, Adonai, perché non hai abbandonato l’orfano e non hai disprezzato il bisognoso, perché la tua potenza è inesauribile e la tua gloria [22] non ha limiti. Guerrieri meravigliosi sono tuoi ministri, e il popolo degli umili è come la spazzatura dei tuoi piedi: essi ti lodano con coloro che sono solleciti [23] della giustizia, per far salire, insieme, dal tumulto tutti i poveri della benevolenza. 351

Ed io sono diventato per i miei avversari una fonte di peccato, (oggetto di) contestazione [24] e di disputa per il mio prossimo, di gelosia e di collera per quanti entrano nel mio patto, (oggetto di) mormorazione e di critica per tutti i miei parenti e per quanti mangiano il mio pane. [25] Contro di me hanno alzato il calcagno, con labbro perverso, hanno parlato contro di me tutti quelli che avevano aderito al mio convegno, gli uomini del mio consiglio si sono rivoltati [26] e mormorano tutt’intorno. E a proposito del mistero che tu hai celato in me essi andavano calunniando presso i figli della distruzione; affinché tu ti dimostrassi grande in me e, a causa [27] della loro colpevolezza, nascondessi la fonte dell’intelligenza e il segreto della verità. Quanto ad essi, il loro cuore non era che distruzione e meditavano progetti di Belial. Aprirono [28] una lingua menzognera come il veleno dei serpenti che fiorisce in spine, come i rettili della polvere che lanciano frecce di fuoco, come piccoli serpenti [29] contro i quali non v’è incantazione. Ciò divenne un dolore incurabile, una piaga maligna nelle viscere del tuo servo, fino a farne vacillare lo spirito ed esaurirne [30] la forza al punto da non poter più tenere fermo il (suo) posto. Mi hanno colpito in strettoie ove non v’era alcun rifugio, e allorché mi inseguivano non c’era alcun luogo di riposo. 352

Hanno fatto echeggiare [31] sull’arpa il mio conflitto e su di un complesso di strumenti a corda, le loro critiche; tra il fracasso e lo strepito mi avvinsero indignazioni ed angoscie come le doglie [32] di una partoriente. Il mio cuore fremette dentro me stesso, mi sono vestito a lutto, la mia lingua si incollò al palato, perché sono spaurite le mie ossa: il loro cuore e il loro carattere [33] mi si è manifestato (pieno) di amarezze. La luce del mio volto si è oscurata da una densa oscurità e il mio splendore si trasformò in caligine. Ma tu, mio Dio, [34] hai aperto un ampio spazio nel mio cuore, mentre essi hanno aumentato la (mia) angoscia, mi hanno rinchiuso in caligine mortale, mangiai pane con sospiri [35] e lacrime inesauribili sono la mia bevanda, poiché i miei occhi si sono ottenebrati dalla tristezza: la mia anima era in amarezza quotidiana, l’indignazione e il dolore [36] mi avvolgevano, e la vergogna copriva il mio volto. Il mio pane mi si è mutato in conflitto e la mia bevanda in risse, sono penetrati nelle mie ossa [37] per fare vacillare il (mio) spirito e annientare il (mio) vigore. In conformità dei (loro) peccaminosi segreti, alterano con la loro colpa, le opere di Dio. Fui, infatti, legato con corde [38] che non si possono spezzare e con catene che non si possono infrangere. Un muro fortificato… spranghe di ferro e porte di bronzo. 353

[39] La mia prigione è simile all’abisso senza… [40] e corde di Belial avvolgono la mia anima senza alcun scampo… VI [1]… [2] Il mio cuore èra tra il disprezzo… [3] e una rovina illimitata, uno sterminio senza… Ma tu, mio Dio, [4] hai aperto il mio orecchio all’istruzione di coloro che insegnano la giustizia con… 11.

[4b] Ti ringrazio, Adonai, perché hai liberato l’anima mia [5] dall’assemblea di vanità e dal convegno di violenza e mi hai introdotto nel consiglio della tua santità… colpevolezza. [6] Seppi che c’è speranza per coloro che si convertono dalla ribellione e abbandonano il peccato… per camminare [7] sulla via del tuo cuore, senza iniquità. Mi consolerò a proposito del brontolamento del popolo e del tumulto dei regni allorché si associeranno, perché so che [8] tra poco innalzerai i sopravvissuti del tuo popolo e il resto della tua eredità, li purificherai affinché siano mondi da colpa, giacché tutte [9] le loro opere sono nella verità: nelle tue benevolenze li giudicherai con immensa misericordia e copioso perdono; li ammaestrerai secondo la tua parola 354

[10] e secondo la rettitudine della tua verità e li stabilirai nel tuo consiglio, per la tua gloria. Ed è per amor tuo che mi hai fatto, per magnificare la legge e per estendere [11] gli uomini del tuo consiglio in mezzo ai figli di Adamo, per narrare alle generazioni eterne le tue meraviglie, ed essi meditassero sulle tue gesta [12] senza posa. Tutte le nazioni conosceranno la tua verità, tutti i popoli la tua gloria, perché hai introdotto la tua verità e la tua gloria [13] presso tutti gli uomini del tuo consiglio, nella sorte comune agli angeli della tua presenza e non ci sarà più alcun intermediario per i tuoi santi… [14] … ed essi si convertiranno per opera della tua parola gloriosa e saranno tuoi prìncipi nella sorte dei santi. Farai sorgere [15] un boccio, come un fiore che fiorirà per sempre per sviluppare il virgulto per il fogliame della piantagione eterna: estenderà la sua ombra su tutta la terra, la sua cima si eleverà [16] fino ai cieli, le sue radici si affonderanno fino all’abisso, tutti i fiumi dell’Eden bagneranno le sue diramazioni, diverrà una foresta immensa; [17] la gloria della sua foresta si estenderà su tutto il mondo senza limiti, e fino allo Sheôl per sempre. La fonte di luce diverrà una sorgente [18] eterna, senza fine: 355

nelle sue fiamme scintillanti saranno bruciati tutti i figli d’iniquità; diverrà un fuoco che divora tutti gli uomini [19] colpevoli, fino alla distruzione. Quelli che avevano aderito al mio convegno sono stati sedotti e non perseverarono nel servizio della giustizia. [20] Ma tu, Dio, hai ordinato loro di trarre vantaggio al di fuori delle loro vie, camminando sulla via ove l’incirconciso, l’impuro e il violento [21] non transitano. Essi hanno deviato dalla via del tuo cuore, vacillarono in preda alla distruzione e, quale consigliere, Belial [22] è in cuor loro, conformemente al piano dell’empietà, si sono avvolti nella colpa. lo ero come un marinaio su di una nave nella furia [23] del mare i cui marosi e tutti i flutti scrosciavano contro di me: soffiava un vento di smarrimento e non v’era alcuna brezza per ristorare l’anima, né [24] un sentiero per dirigere il corso sulla superficie del mare; l’abisso risuonava alla mia angoscia e mi appressai alle porte della morte. Fui [25] come uno che è penetrato in una città fortificata e si è trincerato su di un alto muro fino alla liberazione. Mi sono appoggiato sulla tua verità, mio Dio, perché sei tu [26] che porrai il fondamento sulla roccia l’armatura sul piombino della giustizia 356

e la livella della verità per controllare le pietre scelte di una costruzione [27] solida che non sia più scossa e quanti entreranno in essa non vacillino. Poiché non vi entrerà alcun straniero e le sue porte avranno battenti di protezione che non potranno [28] essere valicati, catenacci robusti che non si potranno spezzare: non vi penetreranno bande razziatrici con le loro armi da guerra fino a quando saranno consumate tutte le spade [29] delle guerre degli empi. Allora la spada di Dio affretterà il tempo determinato per il giudizio e tutti i suoi figli di verità sorgeranno per sterminare [30] l’empietà e tutti i figli della colpevolezza più non saranno. L’eroe brandirà il suo arco e spezzerà l’assedio… [31] a una larghezza senza fine, le porte eterne faranno uscire le armi da guerra ed essi domineranno da un’estremità all’altra (della terra) [32] e non vi sarà alcun scampo per l’istinto colpevole; li calpesteranno fino allo sterminio e non vi sarà alcun resto. Nessuna speranza nel grande numero di… [33] nessun rifugio per gli eroi delle guerre. Poiché del Dio Altissimo è… [34] quelli che giacciono nella polvere innalzeranno lo stendardo e i mortali rosi dai vermi eleveranno il vessillo… Saranno sterminati… [35] nei combattimenti, gli orgogliosi 357

e colui che fa passare la frusta distruggitrice non entrerà nella fortezza… [36] … per l’intonacatura e come l’armatura… 12.

VII [1] … Io tacqui come un agnello… [2] … il mio braccio fu staccato alla spalla dai suoi legamenti, il mio piede era immerso nella melma, i miei occhi tappati per non vedere [3] il male, le mie orecchie per non udire omicidi, il mio cuore era inebetito davanti al piano malizioso, poiché (traspariva) Belial allorché si manifestava il carattere [4] del loro essere; si scuotevano tutte le fondamenta del mio edificio, le mie ossa erano disgiunte, le mie viscere salivano come una nave nella furia [5] della tempesta, il mio cuore fremeva fino alla distruzione e uno spirito di smarrimento mi era causa di confusione a motivo delle rovine del loro peccato. 13.

[6] Ti ringrazio, Adonai, perché mi hai sostenuto con la tua forza e il tuo spirito [7] santo hai effuso su di me affinché io non vacilli, 358

mi hai irrobustito di fronte alle guerre dell’empietà, e in tutte le loro rovine [8] non hai permesso ch’io (mi) perdessi d’animo davanti al tuo patto, bensì hai fatto di me una torre solida, un muro elevato, hai stabilito su di una roccia [9] il mio edificio e fondamenta eterne per la mia fondazione. Tutte le mie pareti sono divenute un muro collaudato, che nulla potrà scuotere. [10] Tu, mio Dio, l’hai posto come un fogliame per il consiglio di santità, hai reso stabile il mio cuore nel tuo patto e la mia lingua nei tuoi insegnamenti. [11] Ma non c’è bocca per lo spirito della distruzione, nessuna risposta della lingua per tutti i figli della colpevolezza, poiché mute [12] sono le labbra menzognere. Giacché nel giudizio condannerai tutti i miei aggressori, distinguendo per mezzo mio, tra il giusto e l’empio, [13] poiché tu conosci il carattere di ogni azione e discerni la risposta di ogni lingua. Tu hai reso stabile il mio cuore [14] per mezzo dei tuoi insegnamenti e per mezzo della tua verità dirigi i miei passi nei sentieri della giustizia affinché io possa camminare 359

davanti a te nella regione [15] della vita, nei sentieri della gloria, delle felicità senza fine che non cesseranno mai. [16] Tu conosci il carattere del tuo servo, tu sai che la giustizia non è dell’uomo; su di te mi sono appoggiato, perché tu sostieni il mio cuore [17] e per cercare rifugio nella forza. Nella carne non c’è per me rifugio alcuno… non v’è giustizia per essere liberato dalle mie trasgressioni [18] senza il perdono. Io mi sono appoggiato sulla tua verità, sulla moltitudine della tua benevolenza ho sperato affinché tu faccia fiorire [19] la piantagione e sviluppare il virgulto per cercare rifugio nella forza e per… Poiché nella tua giustizia mi hai fatto stare [20] nel tuo patto; io mi sono appoggiato sulla tua verità, ho aderito al tuo patto, e tu mi hai posto come un padre per i figli della benevolenza, [21] come un pedagogo per gli uomini del presagio. Hanno aperto la bocca come un lattante verso le mammelle della madre, e come un bambino sul seno [22] di coloro che lo nutrono. Tu hai innalzato il mio corno contro tutti coloro che mi disprezzavano, e fu diviso tutto il resto degli uomini che combattevano contro di me, i fautori di [23] litigio contro di me 360

furono come paglia al vento, e la mia dominazione si estenderà su tutti i figli d’iniquità. E tu, mio Dio, hai soccorso l’anima mia e hai elevato il mio corno [24] in alto: risplenderò in una luce settupla, nella luce che tu hai stabilito per la tua gloria. [25] Poiché tu sei per me luce eterna e hai reso saldo il mio piede sui tuoi sentieri. 14.

[26] Ti ringrazio, Adonai, perché mi hai ammaestrato nella tua verità, [27] mi hai fatto conoscere i tuoi meravigliosi segreti, le tue benevolenze verso l’uomo inane, e la moltitudine delle tue misericordie a coloro che hanno il cuore perverso. [28] Chi, tra gli dèi, è come te, Adonai? Chi è come la tua verità? E chi sarà giusto, al tuo cospetto, allorché sarà giudicato? Non c’è nulla [29] da rispondere al tuo castigo. Ogni gloria è un soffio, e nessuno può resistere davanti alla tua ira! Tutti i figli [30] della tua verità li farai entrare al tuo cospetto per opera dei tuoi perdoni, per purificarli dai loro peccati nella abbondanza della tua bontà e nella moltitudine delle tue misericordie, [31] per farli stare davanti a te 361

per i secoli in perpetuo. Poiché tu sei un Dio eterno, tutte le tue [32] vie sono stabili in perpetuo, per sempre, e non c’è alcuno all’infuori di te. E che cos’è un uomo inane e il signore di un soffio leggero per comprendere le tue opere meravigliose [33] senza che tu lo ammaestri? 15.

[34] Ti ringrazio, Adonai, perché tu non hai fatto cadere la mia sorte nel consiglio della vanità, e nel convegno degli ipocriti non hai posto il mio decreto! [35] Ma mi hai introdotto nelle tue benevolenze, nei tuoi perdoni… nell’abbondanza delle tue misericordie in tutti i giudizi [36] … … perversità e nel decreto… VIII [1] … [2]… hai stabilito la tua giustizia per sempre, poiché non… [3]… 16.

[4] Ti ringrazio, Adonai, perché tu mi hai posto alla sorgente dei ruscelli in una terra secca, alla fonte delle acque in una terra arida, e presso acque irriganti 362

[5] un giardino nel deserto. Hai piantato una piantagione di cipressi, di olmi e di bosso, per la tua gloria. Alberi [6] di vita presso una sorgente misteriosa, nascosti tra tutti gli alberi acquatici, allo scopo di fare germogliare un virgulto per la piantagione eterna [7] di fargli mettere radice prima che germogli; allungheranno le loro radici verso la corrente, il tronco avrà libero accesso alle acque vive [8] e parteciperà alla fonte eterna; sul virgulto, presso (la fonte), pasceranno tutte le bestie della foresta, e (il terreno vicino) al suo tronco sarà calpestato da tutti i passanti [9] per la via e i suoi rami serviranno a ogni essere alato. Tutti gli alberi acquatici si innalzeranno al di sopra di lui, perché la loro piantagione si innalzerà, [10] ma non allungheranno le loro radici verso la corrente e colui che farà germogliare il virgulto di santità per la piantagione di verità rimarrà nascosto, di modo che non [11] si penserà a lui, non sarà conosciuto e il suo mistero rimarrà sigillato. Ma tu, Dio, hai protetto il suo futuro nel mistero degli eroi forti, [12] e degli spiriti di santità, e nel turbine della fiamma di fuoco sicché nessuno si potrà 363

avvicinare alla sorgente della vita, e l’acqua di santità con gli alberi eterni [13] non berrà e non produrrà il suo frutto grazie alla fecondità delle nubi. Perché si è visto ma non si è riconosciuto, [14] si è considerato ma non si è creduto alla fonte di vita, al ruscello che zampilla eternamente. E io divenni solcato da fiumi [15] devastatori che rovesciano su di me il loro fango. [16] Ma tu, mio Dio, hai posto nella mia bocca come una pioggia autunnale per tutti gli assetati e come una fonte di acque vive, che non mentirà mai, per aprire [17] i cieli: (esse) non cesseranno e diverranno un torrente straripante al di sopra di tutti i canali d’acqua e (diverranno) acque insondabili; [18] zampilleranno improvvisamente, dopo essere state nascoste nel segreto… e diverranno un mare per ogni albero [19] verde o secco, acque profonde per ogni essere vivente, e (offriranno) ombra ad ogni animale e a ogni uccello. Gli alberi acquatici affonderanno come piombo, in acque impetuose, diverranno [20] preda del fuoco e si seccheranno, ma la piantagione fruttifera crescerà e vivrà presso la fonte eterna per essere un Eden glorioso 364

che fruttificherà per sempre. [21] Per mano mia hai aperto la loro sorgente con i loro corsi d’acqua per orientarli in base alla misura stabile, e la piantagione [22] dei loro alberi in base alla direzione del sole e non si secchi mai ed essi diventino un fogliame glorioso. Allorché alzo la mano per scavare [23] i suoi canali, affondano le loro radici nella roccia di granito e i suoi polloni fanno radicare nella terra il loro tronco: anche nella stagione calda manterrà [24] il suo vigore. Ma se ritraggo la mia mano diventerà come un cespuglio nella steppa e il suo tronco come ortiche in una salina; i suoi canali [25] faranno spuntare spine e cardi, appariranno rovi e pruni e tutti gli alberi dell’argine saranno cambiati in alberi dai frutti selvatici, sotto [26] il calore il suo fogliame appassirà, né presso la sorgente di acqua si aprirà. Terrore e malanni… [27] tra i colpiti da piaghe, e io sono come un uomo abbandonato in… non ho più alcun vigore, giacché la mia ferita si è sviluppata [28] in amarezze, in un dolore inestinguibile e incurabile. Il mio cuore è prostrato e geme dentro di me come quello di coloro che discendono nello Sheôl, 365

e con [29] i morti è alla deriva il mio spirito, poiché la mia vita si avvicinò alla fossa, venne meno l’anima mia, giorno e notte [30] senza riposo. Si diffuse un fuoco ardente racchiuso nelle mie ossa, la sua fiamma divorò per lunghi giorni [31] annientando la mia forza fino ai tempi determinati e consumando la mia carne fino ai tempi stabiliti. Su di me volarono le onde [32] e la mia anima mi venne meno fino alla distruzione. perché il vigore del mio corpo era scomparso e il mio cuore si era sciolto come l’acqua, la mia carne si era fusa [33] come la cera. Il vigore dei miei reni si era trasformato in terrore, il mio braccio si era staccato alla spalla dai suoi legamenti e non fui capace di agitare la mano. [34] I miei piedi furono presi nei ceppi e le mie ginocchia scorsero come l’acqua, non riuscii ad avanzare d’un passo, e il passo dei miei piedi non fa rumore. [35] I miei piedi erano avvinti da ceppi che mi facevano barcollare. Avevi fortificato la lingua nella mia bocca, essa non si ritrasse, 366

e nulla poté far tacere [36] la voce… Poiché mia è la lingua dei discepoli per fare rivivere lo spirito dei vacillanti, per sostenere con la parola colui che era debole. Muta era la voce delle labbra della mia bocca, [37] e avvinta tra i ceppi del giudizio. Il mio cuore, era sedotto, le sue pareti erano piene di amarezza, non potevo far comprendere la saggezza al cuore dei pusillanimi. [38, 39, 40] … 17.

IX [1]… [2] … nella notte il mio occhio non dorme… [3] … senza misericordia. Nella collera che eccita lo zelo per la distruzione… [4] Mi hanno avvolto le onde della morte, sul giaciglio del mio letto, lo Sheôl faceva risuonare una lamentazione, e la mia anima una voce di pianto. [5] I miei occhi divennero come il fumo in una fornace, le mie lacrime come torrenti d’acqua, i miei occhi si consumavano implorando il riposo, il mio spirito se ne stava [6] lungi da me, e la mia vita in disparte. Io (andavo) dalla rovina alla desolazione, 367

dal dolore alla ferita, dalle angoscie [7] alle calamità, (ma ciononostante) l’anima mia meditava sulle tue meraviglie e tu non mi hai respinto, grazie alle tue benevolenze. Da un tempo determinato [8] a un tempo determinato, l’anima mia si compiaceva nell’abbondanza delle tue misericordie. Rivolgerò una parola a colui che cercava di inghiottirmi, [9] un rimprovero a quelli che si accanivano contro di me. Voglio dichiarare ingiusti i miei giudici, ma riconoscere la giustizia del tuo giudizio; poiché conosco [10] la tua verità, ho ratificato il (tuo) giudizio su di me; mi sono compiaciuto sui miei colpi perché ho sperato sulle tue benevolenze. Hai posto [11] una supplica sulla bocca del tuo servo, ma non hai respinto la mia vita, tu non hai allontanato la mia pace, tu non hai abbandonato [12] la mia speranza, di fronte ai colpi tu hai mantenuto su il mio spirito: perché tu hai posto le fondamenta al mio spirito, conosci il mio intento, [13] e nelle mie angoscie mi hai consolato, mi sono compiaciuto nei perdoni e mi sono pentito della prima trasgressione. [14] So che c’è una speranza 368

nelle tue benevolenze, una fiducia nell’abbondanza della tua forza. Giacché nessuno è giusto [15] nel tuo giudizio, né v’è alcun innocente nel tuo processo. Un uomo è dichiarato giusto da un altro uomo, un uomo da un altro uomo [16] è dichiarato saggio, una carne è dichiarata gloriosa da una creatura d’argilla, uno spirito è dichiarato forte da un altro spirito; ma in paragone alla tua potenza, nessuno [17] è in forza, senza limiti è la tua gloria, al di là di ogni misura è la tua sapienza, e la tua fedeltà non ha fine. [18] Per tutti coloro che si separano da lei…, ma io grazie a te ho sottratto l’anima mia [19] perché tu mi tieni su, non rimuovi dalla mia anima [20] la tua benevolenza e farai ai miei nemici quanto pensavano di aver fatto a me sia che si tratti di ignominia che di vergogna del volto … [21] a me. Nell’abbondanza della tua benevolenza non hai fatto prevalere su di me i miei nemici facendomi incespicare; così farai venire su tutti [22] gli uomini che combattono contro di me 369

e sui miei avversari la vergogna del volto, l’ignominia su coloro che mormorano contro di me, [23] perché tu sei il mio Dio dal giorno della mia nascita e tu giudicherai la mia causa. Poiché nel mistero della tua sapienza tu mi hai castigato, [24] hai celato la verità per un tempo determinato e la pace per un tempo stabilito. Così il tuo castigo divenne per me una gioia e un godimento [25] i miei colpi una guarigione eterna e una cura perpetua, il disprezzo dei miei nemici una corona di gloria, e il mio tentennamento una forza [26] eterna. Poiché è grazie alla tua saggezza ch’io divenni saggio, e grazie alla tua gloria risplende la mia luce, perché dal seno delle tenebre un luminare [27] hai fatto risplendere per me, hai dato la guarigione alla piaga della mia ferita, una forza meravigliosa al mio tentennare, e uno spazio [28] eterno per l’angustia dell’anima mia. Poiché tu, Dio, sei il mio rifugio, e la mia fortezza, la rocca della mia forza e la mia cittadella, in te [29] cerco protezione. Da ogni avversità sei stato per me una liberazione per sempre. Poiché da mio padre tu [30] mi hai conosciuto, 370

dal seno tu mi hai chiamato, dal ventre di mia madre hai provveduto a me, e dalle mammelle di colei che mi ha concepito, la tua misericordia [31] fu su di me e sul seno della mia nutrice tu mi hai allevato. Fin dalla mia giovinezza mi hai illuminato con la sapienza del tuo giudizio [32] e mi hai sostenuto con la salda verità, mi hai dilettato con lo spirito santo e fino al giorno d’oggi mi hai guidato. [33] Il tuo giusto rimprovero accompagna la mia trasgressione, la salvaguardia della tua pace è un rifugio per la mia anima, i miei passi sono accompagnati [34] da abbondanza di perdoni, v’è una moltitudine di misericordie, allorché compi in me il tuo giudizio. Fino alla canizie, tu mi sosterrai, perché [35] mio padre non mi conobbe e mia madre mi abbandonò a te, giacché tu sei padre per tutti i figli della tua verità, gioisci [36] su di essi come una madre amorosa sul suo lattante, e come un padre nutrizio (su colui che tiene) sul suo grembo, tu hai cura di tutte le tue creature. 18.

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[37] Ti ringrazio, Adonai, perché innumeri volte hai dimostrato la tua forza… [38-40]… ……… X [1] … disegno del tuo cuore [2] … nulla accade senza il tuo beneplacito, nessuno comprende i tuoi decreti, [3] e nessuno contempla i tuoi misteri. Ed, invero, che cos’è Adamo ? Non è forse terra e argilla [4] tagliata che ritornerà in polvere, perché lo istruisca in tali meraviglie e il segreto della tua verità [5] gli faccia conoscere? Ed io, polvere e cenere, che cosa posso progettare senza che tu lo voglia? Che cosa posso pensare [6] senza il tuo beneplacito? Come posso essere forte se non mi hai reso stabile? Come posso essere saggio se non hai preordinato le idee [7] per me? Che cosa posso dire se tu non mi hai aperto la bocca? Come posso rispondere se non mi rendi intelligente? [8] Ecco che tu sei il capo degli dèi, il re dei gloriosi, il signore di ogni spirito, il padrone di ogni creatura. [9] Senza di te non si compie nulla, né alcuna cosa è conosciuta senza il tuo beneplacito, all’infuori di te non c’è nulla, [10] di fronte a te nessuno è forte, nulla vale di fronte alla tua gloria 372

e la tua potenza è al di là di ogni estimazione. E chi [11] tra tutte le tue grandi meravigliose opere può avere la forza di resistere davanti alla tua gloria? [12] E che cos’è dunque colui che ritornerà in polvere perché ne abbia la forza? È solo per la tua gloria che hai fatto tutte queste cose. [13] 19.

[14] Sii tu benedetto, Adonai, Dio delle misericordie e · ricco in benevolenza perché mi hai fatto conoscere tutto… [15] tue meraviglie che non si devono tacere né giorno né notte… Io, infatti, ho sperato [16] nella tua benevolenza, a motivo della tua grande bontà e della tua abbondante misericordia… [17] Poiché mi sono appoggiato sulla tua verità… Nulla accade [18] senza il tuo volere, nulla è fatto senza il tuo beneplacito e senza la tua minaccia non c’è vacillamento, né [19] alcun colpo senza che tu l’abbia conosciuto… [20] Ed io, in conformità della mia conoscenza, sulla tua verità medito tutto il giorno, e siccome contemplo la tua gloria, 373

narrerò [21] le tue meraviglie, e siccome comprendo i tuoi segreti, mi sono appoggiato sull’abbondanza delle tue misericordie, e sui tuoi perdoni [22] pongo la mia speranza. Poiché tu hai plasmato il carattere del tuo servo, e nel tuo beneplacido mi hai stabilito. Tu non hai posto [23] il mio appoggio sul guadagno e sulla ricchezza conquistata con empietà il mio cuore non s’è compiaciuto, né mi ha stabilito quale rifugio l’istinto carnale, [24] ma l’esercito dei forti. Sull’abbondanza dei piaceri e sulla quantità del grano, del mosto e dell’olio si appoggiano gli empi, [25] e si inorgogliscono nei greggi e negli acquisti. Tu, invece, mi hai posto come albero lussureggiante sulla riva dei corsi d’acqua per portare fogliame [26] e per moltiplicare i rami. Poiché tu hai scelto alberi di vita tra i figli di Adamo, e tutti si nutrono abbondantemente dalla terra. [27] Ai figli della tua verità hai dato la saggezza, ti conosceranno per sempre, in perpetuo, e secondo la loro conoscenza saranno onorati [28] l’un più dell’altro. Così al figlio di Adamo… hai moltiplicato la sua eredità [29] nella conoscenza della tua verità, 374

e secondo la sua conoscenza sarà onorato. L’anima del tuo servo detesta [30] le ricchezze e il guadagno mal acquisito, e nell’orgoglio dei piaceri non si compiace. Il mio cuore esulta nel tuo patto e la tua verità [31] riempie di delizia l’anima mia. Fiorisco come un giglio e il mio cuore si è aperto per la fonte eterna [32] e il mio appoggio è su di un rifugio elevato; gli empi invece producono un frutto di afflizione che appassisce quand’è ancora in fiore, davanti al calore. [33] Il mio cuore fu sconvolto in un tremito di paura, i miei reni furono scossi e il mio gemito giunse fino all’abisso [34] e si propagò fin nelle celle segrete dello Sheôl. Fui preso dalla paura all’udire i tuoi giudizi con gli eroi [35] gagliardi e il tuo processo con l’esercito dei tuoi santi… [36] e un giudizio su tutte le tue opere e la giustizia… [37-39] … XI [1] a causa della paura… l’afflizione non fu celata ai miei occhi e la pena… [2] nella meditazione del mio cuore.

375

20.

[3] Io ti ringrazio, mio Dio, perché hai compiuto meraviglie per la polvere e per la creatura d’argilla hai manifestato la tua potenza molto e poi molto. E chi sono io che [4] mi hai istruito nel segreto della tua verità, mi hai dato l’intelligenza delle tue opere meravigliose, hai posto sulla mia bocca ringraziamenti e sulla mia lingua [5] unȧ lode; l’effusione delle mie labbra è nel luogo della gioia ed io voglio cantare le tue benevolenze e meditare sulla tua potenza tutto [6] il giorno; continuamente voglio benedire il tuo nome e narrare la tua gloria in mezzo ai figli di Adamo: nell’abbondanza della tua bontà [7] l’anima mia si compiace. Io so che la tua bocca è verità, che nella tua mano c’è la giustizia e nel tuo pensiero [8] ogni conoscenza, che nella tua forza c’è tutta la tua potenza ed è con te tutta la tua gloria, che nella tua collera ci sono i giudizi che castigano, [9] che nella tua bontà c’è abbondanza di perdoni, e che le tue misericordie sono per tutti i figli del tuo beneplacito. Poiché li hai istruiti nel segreto della tua verità [10] e hai resi saggi nei tuoi misteri meravigliosi. A motivo della tua gloria 376

hai purificato l’uomo dalla trasgressione affinché si santifichi [11] per te, da ogni abominevole impurità e da ogni azione colpevole affinché sia unito con i figli della tua verità e abbia la (stessa) sorte dei [12] tuoi santi, elevando dalla polvere il verme dei mortali per il segreto della tua verità e dallo spirito perverso per la tua conoscenza, [13] affinché se ne stia al posto davanti a te con l’esercito perpetuo e con gli spiriti della conoscenza, e si rinnovi con tutto ciò che è [14] e sarà e con quelli che sanno gioire nella comunità. 21.

[15] Ti ringrazio, mio Dio, e ti esalto, mia roccia, e nel tuo agire meraviglioso verso di me… [16] … Poiché mi hai fatto conoscere il segreto della verità… [17] e mi hai rivelato le tue meraviglie ed io contemplo la tua gloria … benevolenza. So [18] che tua è la giustizia e nelle tue benevolenze è la salvezza e nell’ardore della tua ira è la vendetta e la rovina senza alcuna delle tue misericordie. [19] Quanto a me, mi fu aperta una sorgente per un lutto pieno di amarezze… il tormento non fu celato ai miei occhi, [20] conoscendo io le tendenze dell’uomo e il ritorno del mortale alla polvere 377

e la loro inclinazione al peccato e all’afflizione [21] della colpa. Entrarono (questi pensieri) nel mio cuore e penetrarono nelle mie ossa… e per immergermi nella meditazione: [22] tormento e dolore sull’arpa della lamentazione (come) per ogni lutto per un unigenito, e lamentazione amara fino allo sterminio dell’iniquità. Non vi sarà più alcun male né alcun colpo che mi renda malato: allora [23] canterò sull’arpa le salvezze, sulla lira la gioia, sul liuto l’allegria, e sul flauto una lode senza [24] fine. Chi tra tutte le tue creature può narrare le tue meraviglie? Con la bocca di tutte loro sia lodato [25] il tuo nome per sempre, in perpetuo. Ti benedicano secondo la loro intelligenza… facciano udire insieme [26] una voce di giubilo. Non ci sarà più tormento e dolore, e sarà chiusa la bocca dell’iniquità. La tua verità risplenderà [27] per la gloria perpetua e la pace sarà eterna! Sii tu benedetto, Adonai, che hai dato al tuo servo [28] l’intelligenza della conoscenza per discernere le meraviglie delle tue opere senza numero e per narrare l’abbondanza delle tue benevolenze! 22.

[29] Sii tu benedetto, Dio delle misericordie e della grazia, 378

per la tua grande benevolenza, per l’abbondanza della tua verità e per la moltitudine [30] delle tue benevolenze in tutte le tue opere! Rallegra nella tua verità l’anima del tuo servo e purificami [31] nella tua giustizia, poiché spero nella tua bontà, ho fiducia nelle tue benevolenze. Con i tuoi perdoni [32] mi hai liberato dalle mie pene, e nel mio tormento mi hai confortato, poiché mi sono appoggiato sulle tue misericordie. 23.

Sii tu benedetto, [33] Adonai, perché hai operato queste cose e hai posto sulla bocca del tuo servo… [34] e la supplica e la risposta della lingua, hai stabilito per me… [35] E ho avuto la forza… [36] Ma tu… [37-38]… XII [1] … dilata la mia anima … [2] … sicuro nella dimora di santità, in quiete e tranquillità… [3] … Canterò nella mia tenda … e la salvezza, loderò il tuo nome in mezzo a coloro che ti temono, [4] con canti, con ringraziamenti e con preghiere, mi prostrerò supplicando continuamente, da un tempo determinato a un altro tempo determinato: dall’ingresso della luce, [5] dalla sua dimora, lungo i cicli del giorno, secondo la misura prescritta, in base agli statuti del luminare grande, 379

(fino) a quando si fa sera e si ritira [6] la luce, all’inizio del dominio delle tenebre, nel momento stabilito per la notte, lungo il suo ciclo, (fino) a quando si fa mattino, nel periodo determinato [7] nel quale (le tenebre), davanti alla luce, si ritirano dalla loro dimora, (fino) all’uscita della notte e all’ingresso del giorno, continuamente, per tutti [8] i generatori del tempo, che sono i fondamenti di un periodo determinato e il ciclo dei tempi stabiliti nella misura loro prescritta dai loro segni per tutto [9] il loro dominio, nell’ordine fisso stabilito dalla bocca di Dio e (dalla) testimonianza di colui che è, era e sarà: [10] essa non ha fine e indipendentemente da essa, non esiste nulla, e nulla ci sarà, perché il Dio delle conoscenze [11] l’ha stabilita e con lui non c’è alcun altro. Ma io, che sono saggio, ti conosco, mio Dio, in virtù dello spirito [12] che tu hai posto in me, e ho ascoltato attentamente il tuo meraviglioso segreto. In virtù del tuo spirito santo [13] hai aperto in me la conoscenza del mistero della tua sapienza, la sorgente della tua potenza e la fonte delle tue benevolenze: [14] le hai rivelate secondo l’abbondante benevolenza e lo zelo distruttore. Farai cessare [15]… lo splendore della tua gloria diverrà una luce eterna… [16] … non ci sarà timore di empietà né di inganno… 380

[17] … i tempi stabiliti per la desolazione. Perché non ci sarà più iniquità… [18] … non ci sarà più distruzione, perché al cospetto della tua ira… [19] …mio tormento e nessuno è giusto presso di te… [20] per essere saggio in tutti i tuoi misteri e per rispondere una parola… … [21] nel tuo castigo. Ma mireranno alla tua bontà, poiché nella tua benevolenza… [22] Ti conosceranno e nel periodo determinato della tua gloria esulteranno, e in conformità della loro conoscenza li farai avvicinare a te e secondo la loro intelligenza [23] li accosterai, e in conformità del loro potere ti serviranno… secondo le loro divisioni… da te [24] senza trasgredire la tua parola. Quanto a me, sono stato tratto dalla polvere, con argilla sono stato plasmato [25] per essere una fonte d’impurità e di ignominiosa nudità, un ammasso di polvere, una cosa impastata con l’acqua… e dimora [26] di tenebre. (V’è) un ritorno alla polvere per la creatura d’argilla nel periodo determinato della morte, l’essere fatto di polvere ritornerà [27] là d’onde fu tratto. Che cosa risponderà la polvere e la cenere al tuo castigo e come comprenderà [28] le sue opere? Come potrà resistere davanti a colui che castiga, come starà davanti alla fonte di santità, 381

[29] all’altezza eterna, all’origine della gloria, alla fonte della conoscenza e della potenza? Anche gli eroi meravigliosi [30] non possono narrare tutta la tua gloria né stare davanti alla tua collera. Nessuno può rispondere [31] al tuo castigo, perché tu sei giusto e di fronte a te non c’è nessuno. E, infatti, chi è colui che ritornerà alla sua polvere? [32] Ma io ho taciuto. Che cosa potevo dire su di ciò? Io ho parlato secondo la mia conoscenza. Una creatura d’argilla, come può essere giusta? E che cosa [33] risponderò, se tu non mi apri la bocca? Come comprenderò, se tu non mi istruisci? Che cosa dirò, [34] se tu non (lo) riveli al mio cuore? Come posso io camminare diritto sulla via se tu non rassodi i miei piedi? Come possono i miei passi [35] essere fermi se non li fortifichi con forza? Come posso alzarmi… [36] e tutto… 24.

XIII [1] … perché tu sei santo da prima dell’eternità, per sempre, in perpetuo… e tu li hai istruiti [2] … e nei meravigliosi tuoi misteri… [3] … hai rivelato la tua mano … per mezzo di tutte le tue opere 382

[4] … nelle loro opere la verità … ma la follia… [5] … benevolenze eterne per tutti i… per la pace e la rovina… [6] le loro opere, una gloria eterna… e una gioia perpetua per l’opera… [7] … e queste cose che tu hai stabilito… [8] tutte le opere prima che tu le creassi con l’esercito degli spiriti e l’assemblea dei tuoi santi …Tu hai stabilito il firmamento con [9] tutti i suoi eserciti, la terra e tutti i suoi prodotti nei mari e negli abissi… [10] e una visita perpetua, poiché tu li hai stabiliti prima dell’eternità e l’opera… [11] Narreranno la tua gloria, in tutto il tuo dominio, perché hai fatto vedere loro ciò che nessun’altra carne aveva visto prima, creando [12] le cose nuove, distruggendo le cose esistenti prima e instaurando ciò che sarà in eterno. Perché tu sei un Dio eterno… e tu sussisterai [13] in eterno, in perpetuo, Nei misteri della tua intelligenza, hai diviso tutte queste cose per fare conoscere la tua gloria. Che cos’è lo spirito di carne per comprendere [14] tutte queste cose, per comprendere il tuo grande e meraviglioso segreto ? Che cos’è colui che è nato dalla donna, tra tutte le tue opere terribili? Egli è [15] un edificio di polvere, una cosa impastata con acqua che ha per fondamento iniquità e peccato, una vergognosa nudità fonte di impurità 383

e uno spirito perverso domina [16] su di lui. Se permane nell’empietà, per sempre resterà oggetto di paura, simbolo per le generazioni, oggetto di avversione per ogni carne. È solo per opera della tua bontà [17] che l’uomo è giustificato, nell’abbondanza delle tue misericordie lo salverai, lo glorificherai nel tuo splendore e lo farai dominare sull’abbondanza dei piaceri con pace [18] eterna e giorni lunghi. Poiché io mi appoggio sulle tue misericordie, la tua parola non tornerà mai più indietro. Io, tuo servo, so, [19] per opera dello spirito che tu mi hai dato, che le parole della tua bocca sono verità, che tutte le tue opere sono giustizia, che la tua parola non tornerà più indietro, e che in ogni [20] tuo periodo determinato e ogni tempo stabilito… sono scelti per coloro che vi si dilettano, affinché io sappia che c’è speranza… [21] Ma l’empio… 25.

XIV [1] … nel tuo popolo e… [2] … uomini di verità e prudenza… [3] … (uomini) di molte misericordie e forti di spirito, purificati… [4] … coloro che si sono fortificati fino al tempo determinato dei tuoi giudizi [5] … e tu fortifichi in essi i tuoi statuti per fare… [6] … santità per generazioni eterne e tutti [7] … gli uomini della tua visione.

384

26.

[8] Ti ringrazio, Adonai, che nel cuore del tuo servo hai posto l’intelligenza per [9] … e per essere fortificato contro le azioni dell’empietà, per benedire [10] il tuo nome, per scegliere tutto ciò che tu ami e per detestare tutto ciò che [11] tu odi … dell’uomo. Giacché, in conformità degli spiriti eterni, tra [12] il bene e il male hai fatto cadere una sorte su tutti i figli dell’uomo … loro azione. Dalla tua intelligenza, io so [13] che è grazie al tuo beneplacido ch’io sono entrato nel tuo patto, che mi hai purificato per mezzo del tuo spirito santo e mi hai fatto accostare alla tua intelligenza e a mano a mano [14] ch’io mi avvicino, sono preso dallo zelo contro tutti gli operatori d’iniquità e contro gli uomini di menzogna: poiché tutti coloro che sono vicini a te non si ribellano alla tua bocca, [15] e tutti coloro che ti conoscono non odiano le tue parole. Poiché tu sei giusto e tutti i tuoi eletti sono fedeli: ogni ingiustizia [16] e ogni iniquità distruggerai in perpetuo, e la tua giustizia sarà rivelata davanti agli occhi di tutte le tue creature. [17] Io conosco grazie all’abbondanza della tua bontà e al giuramento col quale ho stabilito per me stesso di non peccare contro di te [18] e di astenermi dal fare qualsiasi cosa che è male ai tuoi occhi. Così ho fatto avvicinare alla comunità 385

tutti gli uomini del mio consiglio: in conformità [19] della sua intelligenza farò accostare ogni membro, e secondo l’abbondanza della sua eredità, io l’amerò; non solleverò il volto del malvagio e non guarderò il dono degli empi; [20] non permuterò la tua verità con la ricchezza, né tutti i tuoi giudizi con un dono; bensì nella misura in cui ognuno è vicino a te, [21] io l’amerò, e nella misura in cui sarà lontano da te, io lo detesterò e non introdurrò nel consiglio gli uomini di Belial che si sono distolti [22] dal tuo patto. 27.

[23] Ti ringrazio, Adonai, secondo la grandezza della tua forza e l’abbondanza delle tue meraviglie, da eternità ad eternità. Tu sei grande [24] in misericordia: perdoni a colui che si ritrae dal peccato, visiti l’iniquità degli empi, ami quanti ti cercano con generosità [25] di cuore, e hai in odio l’ingiustizia, per sempre. Io, tuo servo, sono stato favorito con lo spirito di conoscenza, per amare la verità [26] e la giustizia e per detestare ogni via dell’ingiustizia. Ti amerò generosamente, con tutto il mio cuore ti benedirò [27] … le tue benevolenze. Poiché queste cose vengono dalla tua mano, e nulla esiste senza il tuo beneplacito. [28]………… 386

XV [1-8]………. 28.

[9] … ti ameranno tutti i giorni e… [10] … ti amerò, generosamente, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Ho purificato… [11] Ho stabilito, per me stesso, di non allontanarmi da tutto ciò che hai ordinato e aderire fermamente ai molti… per non [12] abbandonare alcuno dei tuoi statuti. Ed io, grazie al tuo discernimento, so che la giustizia non è in potere della carne, che non è di Adamo [13] la sua via e che l’uomo non può consolidare il suo passo. So che è nella tua mano il carattere di ogni spirito e che ogni sua azione [14] l’hai stabilita prima ancora di averlo creato. Come, dunque, potrebbe qualcuno mutare le tue parole? Tu solo, hai creato [15] il giusto, e dal seno lo hai consolidato per il tempo stabilito dal tuo beneplacito affinché fosse custodito nel tuo patto, camminasse in tutte (le tue vie) e per avere misericordia di lui [16] nella moltitudine delle tue misericordie, per aprire a una salvezza eterna ogni angustia della sua anima, a una pace perpetua e indefettibile. Hai innalzato [17] dalla carne la sua gloria. Ma hai creato gli empi per il tempo stabilito della tua ira e, dal seno (materno) li hai messi da parte per il giorno del massacro; [18] perché hanno camminato su di una via non buona, hanno disprezzato il tuo patto, 387

la loro anima ebbe in abominazione la tua legge, non si sono compiaciuti in tutto ciò che [19] hai ordinato e hanno scelto ciò che tu hai in odio: nel mistero della tua intelligenza li hai destinati per portare su di loro a compimento i tuoi grandiosi giudizi [20] sotto gli occhi di tutte le tue creature affinché siano un segno e un prodigio per le generazioni eterne, affinché tutti conoscano la tua gloria e la tua forza [21] grande. Che cos’è colui che è carne perché possa comprendere i tuoi misteri ? Essendo polvere, come può consolidare il suo passo? [22] Tu hai formato lo spirito e hai stabilito la sua attività… è da te che procede la via di ogni vivente. Io so che [23] non v’è alcuna ricchezza che uguagli la tua verità… la tua santità ! So che li hai scelti tra tutti, [24] ed essi ti serviranno in perpetuo! Non accetti un dono iniquo, né ricevi un riscatto per le azioni degli empi, perché tu sei un [25] Dio di verità e distruggerai ogni ingiustizia… ogni iniquità non esisterà più al tuo cospetto. Io so [26] che tua è la giustizia e la benedizione secondo il tuo nome. 29.

XVI [1]………. [2] nel tuo santo spirito… non può… [3] il tuo spirito santo… e la pienezza dei cieli e della terra… e lo splendore della tua gloria riempie tutto l’universo. 388

[4] So che nel tuo beneplacito verso l’uomo hai moltiplicato la sua eredità… la tua verità durerà per tutti i secoli… [5] Un posto giusto… che gli hai assegnato… affinché non vacilli in tutti i tuoi giudizi. [6] Nella mia conoscenza di tutte queste cose, io proferisco una risposta della lingua pregando, supplicando, espiando le mie trasgressioni e ricercando il tuo vero spirito, [7] fortificandomi nel tuo spirito santo, aderendo alla verità del tuo patto, servendoti nella verità e con cuore integro, e amando il tuo nome. 30.

[8] Sii tu benedetto, Adonai fattore dell’universo, grande in consiglio, che hai fatto tutto! Potente in opere, del quale è opera l’universo! Ecco, hai preso a usarmi [9] benevolenza, a favorirmi con lo spirito delle tue misericordie e con lo splendore della tua gloria. A te soltanto appartiene la giustizia, giacché tu hai compiuto tutte queste cose. [10] Sapendo che tu contrassegni (ogni) spirito giusto, io ho scelto di purificare le mie palme secondo il tuo beneplacito e l’anima del tuo servo ha in abominio ogni [11] opera d’ingiustizia. So che nessuno è giusto all’infuori di te, perciò rassereno il tuo volto con lo spirito che tu hai posto in me portando a compimento [12] le tue benevolenze verso il tuo servo per sempre, 389

purificandomi con il tuo spirito di santità e facendomi accostare (a te) in virtù del tuo beneplacito, conformemente alle tue grandi benevolenze … [13] con me… il posto del tuo beneplacito, che hai scelto per coloro che ti amano e per quelli che osservano i tuoi precetti, e possono stare [14] davanti a te per sempre … (di modo che tu possa) essere parte dello spirito del e di tutte le sue opere… [tuo servo [15] … (e non vi sia) davanti a lui alcuna afflizione né alcuna occasione di falsi passi al di fuori degli statuti del tuo patto. Poiché… [16] … gloria… Ma tu, Adonai, sei benevolo e misericordioso, tardo all’ira e generoso in benevolenza e fedeltà, se colui che perdona l’iniquità e il peccato [17] e ha compassione per coloro che ti amano e osservano i tuoi precetti e ritornano a te con fedeltà e con cuore integro [18] … per servirti e per compiere ciò che è buono ai tuoi occhi. Non distogliere il volto dal tuo servo e non respingere il figlio della tua serva… [19] … Ed io, sulle tue parole… 31.

XVII [1] … di piccola misura… [2] … rivelato senza… [3] … che divora… [4] … su di un luogo disseccato… [5] … imbattendosi improvvisamente… [6] … il giudizio, dallo spirito di colui che ricerca… [7] … getterai… il precetto da uno spirito di fortezza… [8] … nei colpi… [9] … a causa delle cose nascoste che… che essi non hanno raggiunto… 390

[10] … a causa del giudizio… i pensieri dell’empietà… [11] … a causa del giudizio… per purificare il tuo servo da tutte le sue trasgressioni nell’abbondanza delle tue misericordie, [12] come hai detto per mezzo di Mosè, perdonando la trasgressione, l’iniquità e il peccato… ed espiando… e l’infedeltà. [13] Brucerai le fondamenta delle montagne e il fuoco divorerà fino in fondo allo Sheôl ma quanti sperano nei tuoi giudizi [14] li libererai, e soccorrerai quanti ti servono con fede affinché la loro posterità sia davanti a te tutti i giorni: li esaudirai e susciterai… [15] purificandoli dalla trasgressione, mandando lungi tutte le loro iniquità e rendendoli partecipi di tutta la gloria di Adamo e di una moltitudine di giorni. [16]………. 32.

[17] Ti ringrazio, Adonai, per gli spiriti che hai posto in me. Voglio trovare una risposta della lingua per narrare le tue giuste azioni e la longanimità [18] dei tuoi giudizi, le opere della potente destra e i perdoni dei miei peccati anteriori, prosternandomi e supplicando per [19] i miei peccati, per la perversità delle mie opere e la perversione del mio cuore. Giacché mi sono arrotolato nell’impurità, ho camminato fuori del consiglio… e non ho aderito… [20] A te solo, infatti, appartiene la giustizia, e al tuo nome la benedizione in eterno! 391

Opera secondo la tua giustizia, redimi [21] il tuo servo e siano distrutti gli empi. Io ho compreso che tu rendi perfetta la via di colui che hai scelto e nella saggezza [22] della tua verità, impedisci che pecchi contro di te, lo retribuisci con l’umiliazione per mezzo delle tue dolorose correzioni, e nei tuoi segreti fortifichi il suo cuore. [23] Custodisci il tuo servo (impedendogli) di peccare contro di te e di vacillare in tutte le vie del tuo beneplacito, fortifica i suoi reni affinché resista contro gli spiriti di perversità [24] e cammini in tutto ciò che tu hai amato, disprezzi tutto ciò che tu hai odiato e faccia quanto è bene ai tuoi occhi… [25] il loro dominio è nelle mie viscere giacché è uno spirito di carne quello del tuo servo. 33.

[26] Io ti ringrazio, Adonai, poiché hai infuso il tuo spirito santo sul tuo servo e hai purificato da ogni iniquità il suo cuore. [27] … verso ogni patto umano, guarderò… la trovarono… [28] … e tutti coloro che amano … d’eternità in perpetuo. XVIII [1] La tua luce e stabilisci… [2] la tua luce incessantemente… [3] poiché teco è la luce per… [4] hai svelato l’orecchio (fatto) di polvere… [5] il piano che… e sono stabilmente nelle orecchie [6] del tuo servo in perpetuo, in eterno… 392

Hai fatto conoscere i tuoi meravigliosi messaggi affinché risplendano [7] agli occhi di tutti coloro che ascoltano le tue parole… mi hai sostenuto con la tua destra possente, per guidare… [8] con la forza della tua potenza… per il tuo nome e si è fortificato nella tua gloria. [9] Non ritrarre la tua grande mano dal tuo popolo affinché ci sia qualcuno che aderisca al tuo patto [10] e stia davanti a te per sempre. Poiché una fonte tu hai aperto nella bocca del tuo servo, e sulla sua lingua [11] hai scolpito su misura i tuoi statuti, affinché egli dalla propria intelligenza li faccia ascoltare alla creatura (d’argilla) e affinché interpreti queste cose [12] alla polvere come me. Hai aperto la mia fonte per rimproverare alla creatura d’argilla la sua via, e le colpe di colui che è nato da [13] donna, secondo le sue opere, per aprire la tua fonte di verità alla creatura (d’argilla) che tu hai sostenuto con la tua potenza, [14] affinché essa sia in conformità della tua verità, messaggero… della tua bontà annunziando la buona novella ai poveri secondo l’abbondanza delle tue misericordie [15] abbeverandoli alla fonte di santità consolando quanti hanno lo spirito contrito e sono afflitti, con la gioia eterna. [16] …colui che è nato da donna [17] …la tua giustizia [18] … non ho visto queste cose [19] . . . . . . . come posso guardare se tu 393

non hai svelato i miei occhi? Come posso ascoltare [20] se tu non hai svelato le mie orecchie? Il mio cuore è stupefatto, perché all’orecchio incirconciso fu aperta la parola, e al cuore [21] dell’uomo hai insegnato la verità. Ho conosciuto che è per te, mio Dio, che tu hai fatto queste cose. Che cos’è, infatti, la carne [22] perché tu abbia compiuto per essa tali meraviglie, perché nel tuo piano ti sia dimostrato forte e abbia stabilito tutto ciò per la tua gloria? [23] Tu hai creato l’esercito della conoscenza per narrare alla carne le tue gesta e gli statuti stabiliti per colui che è nato da [24] donna. I tuoi eletti li hai fatti entrare nel patto, con te, e hai svelato il cuore di polvere affinché si guardino [25] da ogni male e sfuggano agli inganni del giudizio, in conformità delle tue misericordie. Io sono una creatura [26] d’argilla, un ammasso di polvere, un cuore di pietra: per qual motivo sono giudicato meritevole di questo? Poiché [27] segreti meravigliosi hai posto nel mio orecchio di polvere, ed eventi eterni hai scolpito in un cuore [28] di pietra; colui che aveva un cuore perverso l’hai fatto ritornare per introdurlo nel patto con te e per farlo perseverare [29] al tuo cospetto per sempre, in un soggiorno eterno, alla luce di una perpetua aurora, 394

senza tenebre [30] … … senza fine, e indefettibili periodi determinati di pace… [31] … Io sono una creatura di polvere… [32] … apro… [33] . . . . . . .

Inno 1 (I, 1-39). L’universo testimonia la gloria di Dio, suo creatore (rr. 1-20); nella creazione è espressa la saggezza di Dio e la grande limitatezza dell’uomo; il salmista ne può conoscere i misteri solo perché gli sono «aperte le orecchie» ed è «irrobustito il suo spirito» (rr. 21-34); gli altri sono insensati e non comprendono (rr. 35-39). I testi biblici dei quali più si sente l’inf lusso sono: Sal. 86, 15 e 103, 8 alla r. 6; Deut., 28, 12; Giob., 38, 22 per le rr. 11-12; Is., 29, 24 alla r. 21; sulla creazione in generale, i Salmi, 19; 104; 135; nella r. 28 a Os., 14, 3. Vedi appresso rr. 26 e 35. Mancano le prime tre righe. L’espressione posta qui all’inizio è pienamente ipotetica, e nel frammentario testo del rotolo si legge per la prima volta in II, 20; come s’è visto ritorna in un buon numero di inni che iniziano certamente così (II, 31; III, 19; III, 37; IV, 5; V, 5; VI, 25-26; VII, 6, VII, 34; X IV, 8; X IV, 23: vedi V, 20-21 e nota). L’espressione iniziale «Ti ringrazio…» ha riscontro in alcuni testi anticotestamentari (cfr. Sal., 52, 11; 86, 12; 118, 21; 139, 14; Is., 12, 1 ed Eccli., 51, 1) ma anche neotestamentari (Mt., 11, 25; Lc., 18, 11) e ciò attesta, forse, che era abbastanza frequente da non rappresentare una particolarità stilistica in assoluto. 1. Adonai: come s’è visto nell’ Introduzione, negli Inni non ricorre mai il nome Jahweh né Elohîm; siccome nella Bibbia la formula «Ti ringrazio…» è sempre rivolta a Jahweh, i quattro passi che nel nostro rotolo la rivolgono a Dio (in ebr. ’et) si ritengono giustamente eccezionali (X I, 3, X I, 15; X I, 29; framm. 4, 15). Da questa ripetuta espressione iniziale degli Inni deriva appunto il titolo del presente rotolo hodajôt «inni di ringraziamento» o di lode. 10-11. spiriti potenti e spiriti eterni: in parallelismo con «angeli» o messaggeri (sugli angeli a Qumrân vedi 1QM, X II, 7-8 e nota); il femminile plurale di «spiriti» nell’A. T. si legge solo in Sal., 104, 4 (interessante perché quivi ricorre anche «angeli») e in Prov., 16, 2; per sé potrebbe equivalere semplicemente a venti, come li interpreto alla riga seguente. Il senso non è comunque chiaro forse appunto per le speculazioni dei qumraniani (ma anche della letteratura apocrifa giudaica più o meno contemporanea) sia sugli angeli che sugli astri e sugli elementi naturali. 12. e tutti i venti…: con J. Licht; «carica» è da porre in relazione a «servizio», «scopi», «leggi» delle righe seguenti. 16. tempi determinati: e «tempi stabiliti» (in eb. rispettivamente qēṣ e mô‘ēd) sono termini cari agli esseni di Qumrân, hanno riferimento non solo al loro calendario religioso e alla divisione quotidiana del tempo ma anche, e soprattutto, alla loro concezione della storia nel senso più vasto e profondo.

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21. aperto le mie orecchie: alla lettera il verbo (in ebr. gālāh) significa «svelare, scoprire, rivelare» e negli Inni ricorre frequentemente come termine tecnico per la rivelazione dei misteri divini (cfr. ad es. X I, 17; X II, 34; X IX, 29); la presente espressione ricorre ancora in VI, 4; XVIII, 4 e nei framm. 4, r. 7, 12; 5, r. 10; mentre in XVIII, 19 si legge in relazione all’occhio; nello stesso senso, con sfumatura diversa, si legge anche nell’A. T. a proposito della rivelazione profetica (cfr. 1 Sam., 9, 15; 2 Sam., 7, 27; 1 Cron., 17, 25 e, per l’occhio, Num., 22, 31: Sal., 119, 18. All’espressione si legge pure un equivalente in: «segreti meravigliosi hai posto nel mio orecchio di polvere ed eventi eterni hai scolpito nel mio cuore» (X IX, 27). creatura d’argilla (in ebr. jēṣer ha-ḥēmār): è una delle espressioni caratteristiche degli Inni (dei quali è pure esclusiva) per sottolineare la pochezza e inanità umana (sulle quali vedi l’Introduzione e III, 23-34; X, 3-5); si legge ancora in III, 23; IV, 29; X I, 3; X II, 26; X II, 32; XVIII, 12; XVIII, 25 e nei frammenti 1, 8; 2, 8 (?); 3, 6.11 ed ha un sinonimo nell’espressione «creatura di polvere» (in ebr. jēṣer he‘āfār, XVIII, 31; e nel frammento 3, 5.14); non ricorre mai nell’Antico Testamento; ma il concetto è piuttosto comune, vedi Gen., cc. 2-3; Is., 45, 9; 64, 7; Giob., 33, 6; Sap., 7, 1. Sul termine jēṣer vedi V, 6 e nota. impastato con acqua (in ebr. migbal ha-maîm): è ugualmente un’espressione propria degli Inni (III, 24; X II, 25; X III, 15) fuori dei quali si legge solo una volta in 1QS, X I, 21; su questa espressione vedi l’art, di J. C. Greenfield su RQ, 1960. 22. fornace…: non è escluso che si possa intendere nel senso che ha in III, 8 e segg. come sinonimo cioè del sesso femminile. 24. stilo del ricordo: la traduzione si presta a qualche perplessità (cfr. S. HolmNielsen) ma sul senso non vi può essere dubbio. Nell’A. T. si parla del «libro del ricordo» (Sal., 139, 16; Mal., 3, 16). A. Dupont-Sommer traduce: «con il bulino di vita»; J. van der Ploeg: «con lo stilo di vita»; S. Holm-Nielsen: «con l’inchiostro del ricordo». 26. Dio delle conoscenze: espressione che nell’A. T. si legge solo in 1 Sam., 2, 3, sebbene l’idea non sia interamente nuova (cfr. Sal., 73, 11; 14, 10; Giob., 21, 22); ricorre ancora in X II, 10; nel framm. 4, 15 e in 1QS, III, 15. 35. carattere deciso (in ebr. jēṣer sāmuk): unico senso che può avere qui jēṣer (sul quale vedi V, 6) come in II, 9.36; 1QS, IV, 5; VIII, 3 e in modo analogo in 1QS, X, 25; l’espressione deriva, forse, da Is., 26, 3. Interessante l’accostamento (suggerito da S. Holm-Nielsen) tra questi passi citati e la raccomandazione dell’autore dell’epistola agli Ebrei: «Rinfrancate le mani infiacchite e le ginocchia indebolite, movete bene i vostri passi…» (Ebr., 12, 12-13). 37. tutti i giudizi…: con A. M. Habermann. Inno 2 (II, 1-19). Dio salva il buono ingiustamente perseguitato, lo fortifica, ne fa una trappola per i cattivi e un vessillo per gli eletti; mentre ringrazia Dio della salvezza, il salmista deplora il mondo nemico che circonda lui e la sua comunità. Vi è abbondanza di espressioni e reminiscenze anticotestamentarie, tra le principali si osservi: Ger., 32, 31 per la r. 10; Is., 57, 20 per la r. 12; Ger., 15, 10 per la r. 14; Is., 28, 11 ed Es., 6, 12, 30 per le rr. 7 e 18; Is., 27, 11 e Os., 14 per la r. 19.

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8. trappola… medicina: il doppio effetto che suscita il salmista sui malvagi da una parte e sui buoni dall’altra è bene espresso con l’espressione lucana a proposito di Gesù «posto per la caduta e per la risurrezione di molti…» (Lc., 2, 34); il termine «medicina» in senso figurato deriva da Ger., 33, 6 o Mal., 3, 20. 13-14. interprete…: corrisponde a un termine ebraico (mēlîṣ) che, con il verbo corrispondente (lûṣ) si incontra piuttosto spesso negli Inni a motivo certo della grande parte che ha in essi la conoscenza e l’errore; designa, infatti, tanto un interprete, mediatore, maestro di errori e menzogne, quanto un interprete di verità, ma sia l’uno che l’altro sono considerati come seguaci dell’una o degli altri, non come neutrali (vedi 4Q171, I, 19). 14-15. uomo litigioso… spirito di gelosia…: e cioè oggetto di contestazione e di gelosia; prosegue il sottile accostamento tra il salmista e Mosè: vedi qui Num., 12, 2-16. uomo pacifico: H. Bardtke: «come un signore di sogni». 16. Su Belial: vedi 1QM, I, 5 e nota. 17. hanno rivolto…: cfr. VIII, 28-29; A. Dupont-Sommer: «hanno rivolto verso la fossa la vita dell’uomo per bocca del quale tu hai fondato la dottrina e nel cuore del quale tu hai posto intelligenza»; S. Holm-Nielson: «hanno gettato nella fossa la vita di quell’uomo che tu hai stabilito per mezzo della tua bocca e al quale hai insegnato la saggezza». Inno 3 (II, 20-30). Il salmista salvato dalle insidie e dalle lotte degli empi, dei violenti e di accaniti guerrieri, ignari che è da Dio che viene la sua posizione e la sua forza, apre il suo animo alla riconoscenza. Il testo è tutto un mosaico di reminiscenze bibliche; si veda in particolare Is., 29, 6 per la r. 26; Sal., 22, 15 per la r. 28; Sal., 26, 12 per la r. 30. 20. L’espressione scrigno di vita (in ebr. serôr ha-ḥaîjm) proviene da 1 Sam., 25, 29: «nello scrigno di vita» l’anima (nefesh, la persona) del salmista è salva dalla morte. 21. fossa: (anche r. 17) ha molteplici sfumature, ma il senso generale è sempre quello di qualcosa di negativo, contrario, minaccioso (cfr. anche 1QS, IX, 16 e CD, VI, 5; X III, 14); può designare, metaforicamente, lo sheôl o dimora dei morti (cfr. III, 18-19 e III, 16), ha le sue porte e scaglia frecce (III, 16, 18, 27). L’espressione «inganni della fossa» non ha riscontro nell’A. T. che conosce solo, come espressione simile, «i lacci della morte» (2 Sam., 22, 6; Sal., 18, 6), ha però riscontro letterale in CD, X IV, 2 e in 1QH, III, 26 in «trappole della fossa»; inoltre i nemici della comunità sono a volte designati come «uomini della fossa» (1QS, IX, 16; IX, 22; X, 19). Vedi l’ampio studio di R. E. Murphy su shaḥat («fossa») nell’art. cit. 27-28. Per un complesso di motivi che non è qui il caso di analizzare (tra i quali c’è il termine ef‘eh che altrove traduco sempre con «vipera»: III, 12, 17, 18), la finale della r. 27 e l’inizio della 28 presentano notevoli difficoltà e le versioni sono di conseguenza molto divergenti. J. Carmignac: «nelle loro covate fanno schiudere una vipera e (altro non producono) che nulla, nel sollevamento delle loro onde»; A. Dupont-Sommer e P. Vernberg-Maller (in VT, 4, 1954, 325): «Come uova marce, fanno schiudere l’Aspide e la vanità, mentre s’innalzano i loro f lutti»; F. MicheliniTocci: «Essi covano e fanno schiudere orrori, quali la Vipera e la Vanità»; la traduzione qui data è sostanzialmente quella di M. Delcor, G. Vermes, M. Mansoor,

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S. Holm-Nielsen. L’autore ha certo presente Is., 30, 30 e 59, 5 e, forse anche Giob., 38, 32. Inno 4 (II, 31 - III, 2). Interpreti menzogneri e la loro assemblea hanno perseguitato e cercato di sopprimere il povero, l’umile e il bisognoso, ma Dio non l’ha abbandonato e l’ha mantenuto saldo e forte. I testi biblici più chiaramente presenti sono: Sal., 79, 10 per le rr. 32-33; Ger., 15, 21 e 31, 11 per le rr. 34-35. 32-34. povero…, umile… bisognoso: vedi III, 22 e nota. Inno 5 (III, 3-18). È certo un inno complesso sia per l’intreccio di significati molteplici sia per la presentazione generale piuttosto aliena dalla nostra immaginazione, per il mosaico di evocazioni e reminiscenze bibliche, per il significato contrastato di qualche termine, e per il notevole numero di parole a doppio senso. Senza entrare nei particolari si espone qui per sommi capi l’interpretazione seguita e si offre un quadro generale delle altre. Oltre ai commenti, si veda i principali studi citati nella Bibl. L’empio opprime il salmista le cui sofferenze sono paragonate ai dolori del parto e alla fusione dei metalli nel crogiolo (rr. 5-8), donde nascerà un «mirabile consigliere», cioè la comunità; tutto l’universo partecipa a tali dolori (rr. 9-12 a); ma nasce anche la malvagità tra dolori atroci che scuotono i mari, fanno ribollire gli abissi e aprire le porte dello sheôl nel quale sarà poi definitivamente rinchiusa (rr. 12 b 18). 3. Hai illuminato…: così IV, 5, mentre IV, 27 e 1QS b, IV, 27, Dio illumina «il volto di molti» e in 1QS, II, 3; IV, 2, illumina il «cuore»; evidentemente questa illuminazione divina aveva molta importanza tra qumraniani (vedi l’Introduzione) ; si osservi nel passo biblico che l’autore ha probabilmente presente:1 volto di Dio che, con evidente antropomorfismo, si illumina sul fedele (Num., 6, 25, cfr. invece Sal., 13, 4). Si possono avere, in proposito, interessanti confronti con i seguenti testi neotestamentari: Mt., 5, 8; Mc., 8, 17-18; 2 Cor., 3, 15; 4, 6; Ebr., 6, 4; 10, 32; Ef., 1, 18. 6. Come una nave: E. L. Sukenik e J. Licht leggono: «in una nave». 8. Da questa riga in poi abbiamo le interpretazioni più diverse. Il crogiolo (in ebr. kûr) designa senza dubbio anche la vagina della partoriente, senso a quanto pare ignoto a tutta la letteratura biblica, ma testimoniato nella letteratura rabbinica (cfr. M. J ASTROW, A. Dictionary…, ad v. e specialmente l’art, cit., di L. H. Silberman), tuttavia con questo significato, e certo non secondariamente, l’autore ha presente il solito significato del termine e nel suo senso figurato, quale è d’abitudine inteso nella Bibbia, e cioè crogiolo purificatore dell’anima umana; infatti, a parte i testi sapienziali dal valore alquanto generale (Prov., 17, 3; 27, 21 e Eccli., 31, 26; 43, 4) tutti gli altri testi tra i quali vi sono i libri dai quali dipende solitamente l’autore, l’intendono sempre di purificazione morale e sempre solo per Israele (non si tratta mai cioè di una pura e semplice purificazione!); anche qui, nel nostro testo, non si parla di kûr in relazione alla generatrice della vipera: a ben guardare, trattandosi sempre nei testi biblici di un nuovo principio di vita, non manca un netto sfondo di rinascita; per Israele un crogiolo fu l’Egitto (1 Re, 8, 51; Deut., 4, 20; Ger., 11, 10),

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crogiolo è Gerusalemme ove Dio convoglierà tutto il suo popolo per fonderlo e trarne uno nuovo (Ez., 22, 18-22), e per Isaia crogiolo è la miseria, il dolore (Is., 48, 10). Questo duplice senso va riconosciuto a tutti i testi di Qumrân ove ricorre kûr e cioè I, 22; III, 8, 10, 12; V, 16; CD, XX, 3; l’unico testo escluso e da intendere in senso letterale è 1QM, V, 11. Se poi in III, 10 si possa veramente vedere una «iniziazione mediante regressus ad uterum» come acutamente osserva il MicheliniTocci (art. cit., pp. 231-238), non saprei. Si potrebbe, volendo seguitare il discorso, fare riferimento alle parole, apparentemente strane, di Nicodemo a Gesù: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Potrebbe forse entrare di nuovo nel seno della madre e nascere?» (Gv., 3, 4). In una postilla «circa la metallurgia antico-egizia», S. Curto fa osservare a proposito dell’egizio jdr, che al segno raffigurante originariamente una cavità contenente liquido, fu aggiunto ulteriormente un geroglifico indicante principalmente «cisterna», «pozzo», «crogiolo», avente pure il valore secondario semantico «vulva» (S. C URTO, Postilla circa la metallurgia antico-egizia, in Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Abteilung Kairo, 19, 1962, 65-66): il parallelismo con il termine ebraico kûr è evidente e lo ha rilevato anche il Curto. 9-12. Colei che è incinta di un uomo…; colei che è incinta di una vipera…: secondo A. Dupont-Sommer e J. V. Chamberlain la prima incinta è la madre del messia; ma il primo l’intende in senso proprio «la donna nelle doglie alla quale egli (il salmista) si paragona, è propriamente colei che alla fine dei tempi darà la nascita al messia. Vi è qui la traccia di un mito sulla madre del messia, mito che probabilmente, si sviluppa sulla base di Isaia, 7, 14 (e Michea, 5, 2) e del quale si ritrovano tracce nell’Apocalisse di Giovanni (c. 12)»; per il Chamberlain invece essa rappresenta la comunità; anche il Brownlee intende la donna in senso collettivo pur vedendovi personificato il maestro di giustizia; più semplicemente altri, sebbene con sfumature molto diverse (Betz, J. Carmignac, M. Mansoor, S. Holm-Nielsen, ecc. alla cui sentenza sottoscrivo), vedono qui un simbolo, una figura, che con quella antitetica introdotta alla r. 12, comanda tutto il linguaggio figurato, il cui inizio si trova nella Bibbia (cfr. Num., 11, 12; Is., 13, 8; Ger., 4, 31; 13, 21; Os., 13, 13 ecc.), con il quale il salmista presenta in modo plastico i dolori che ha provato e prova per dar vita alla comunità. L’espressione «colei che è incinta di una vipera» (qualunque sia la versione che si vuol dare al termine «vipera», vedi II, 27-28 e nota) introduce certo una immagine bizzarra, ma comandata certamente dall’antitesi con la precedente e da II, 27-28 e da testi neotestamentari come Mt., 3, 7; 12, 34; 23, 33, ove dei farisei è detto che sono una «razza di vipere», nonché dalle parole dette ai «giudei» (Gv., 8, 44) «voi avete per padre il diavolo… egli era omicida» che hanno un evidente riferimento alla scena del primo peccato (Gen., c. 3) e rendono la simbologia meno strana; «l’incinta di una vipera» è dunque, fuori della metafora, il capo o i capi dei nemici del salmista, o del maestro di giustizia. In nessun modo è il caso di parlare di «anticristo» (J. V. Chamberlain) o di personificazione di satana (A. DupontSommer): cfr. M. Mansoor, S. Holm-Nielsen, J. Carmignac, ecc. Se e come vi possa essere un accostamento di questa seconda parte con il testo dell’ Apoc, 12, 1-6 e 12, 13-18, si veda l’art. cit. di A. Feuillet, il commento di M. Delcor, Croatto e van der Woude. L’interpretazione messianica (sostenuta anche da W. H. Brownlee, M. Burrows e

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J. Daniélou) è giustamente respinta, in modo più o meno deciso, da una grande parte di qumranisti (vedi l’Introduzione) ; uno dei più decisi avversari è proprio S. Mowinckel al quale si deve la più ampia e profonda indagine sul messianismo nell’A, T. (He That Cometh, Oxford, 1956). Evidentemente il Dupont-Sommer oltrepassò i limiti allorché scrisse: «La madre del messia si trova dunque espressamente associata all’opera salvatrice del messia; questi non salva dai f lutti se non grazie alla comunità, la Chiesa, che gli diede nascita…» (La Mère du Messie et la Mère de l’Aspic…, pp. 184-185; vedi Bibl.). In contrario si veda ad es. H. Braun (Qumrân und das Neue Testament, I, Tubingen, 1969, pp. 313-318. In un senso che ritengo non esulasse dalle prospettive dell’autore di questo inno, ogni membro della comunità poteva proporzionalmente parlare così (cfr. le parole di Gesù ai discepoli: Gv., 16, 21-22); per il pensiero che si riscontra in questo rotolo (e sarebbe ben errato costringerlo negli schemi e prospettive messianiche di altri testi di Qumrân) messia ed èra messianica non designavano né una persona né una nuova èra, ma il compimento di quell’eroica e pietistica volontà di perfezione nella comunità degli eletti che era il paradiso. Inno 6 (III, 19-36). Il salmista ringrazia Dio d’averlo liberato dalla sorte comune e di averlo tratto con sé assegnandogli un destino eterno (rr. 19-33), e intervenendo in suo favore nel momento del «grande disastro» quando «tremeranno le fondamenta» eterne (rr. 3436). L’autore ha subìto soprattutto l’inf lusso dei profeti e dei Salmi; alcuni casi sono: Is., 29, 24 per la r. 21; Giob., 6, 11 per la r. 23; Is., 19, 8 con Ez., 12, 13 per la r. 26; Is., 28, 17 e Sal., 18, 5-6 per la r. 28; Ez., 21, 3 per la r. 30; Deut., 32, 22 con Is., 34, 9 e Giob., 28, 9 per la r. 31; Am., 7, 4; Sal., 18, 5 per la r. 32; Is., 63, 15; 10, 23 e 28, 22 per la r. 36. 19. Sheôl e Abaddon: nell’A. T. non si trovano mai congiunti come qui e (secondo la lettura seguita) in III, 16, vi ricorrono però separatamente; (per «Sheôl» vedi II, 21); il termine «Abaddon» (vedi anche r. 16 e r. 32 e Parole dei luminari, VII, 8), si legge in Giob., 26, 6; 28, 22; 31, 12 e Sal., 88, 12 è un termine poetico che designa le oscure regioni della profondità della terra, forse la parte inferiore dello Sheôl, significa «distruzione, rovina»: si legge anche nella letteratura apocrifa ed è particolarmente interessante un testo che vede in Abaddon (0 Abbatôn) un angelo (Muriel) connesso con la creazione e la caduta dell’uomo, denominato poi Abaddon, «angelo della morte», in onore del quale si celebrava annualmente una festa (cfr. L. M ORALDI, Gli Apocrifi, del Nuovo Testamento, vol. II, Torino, 1971). 22. esercito dei santi: espressione che si legge negli Inni sia in riferimento agli angeli (cfr. III, 35; X, 35; X III, 8) che ai membri della comunità raffigurata come un esercito (cfr. 1QM), così qui e X I, 13; XVIII, 23. figli del cielo: una delle tante denominazioni, come la precedente, che si davano i qumraniani; così ancora: quelli «dalla via perfetta» (I, 36), «i semplici» (II, 9), «i molti» (IV, 27), «quelli che entrano nel patto» (V, 24), «i figli della benevolenza» (VII, 20), «i figli del beneplacido» (X I, 9), «i figli della verità» (X I, 11), oltre ai termini, già visti in altri manoscritti: poveri, umili, bisognosi ecc. La comunità è anche detta «convegno dei santi» (IV, 25), «popolo della tua santità» (X I, 11-12 nota), «assemblea dei tuoi santi» (framm. 5, 3), «esercito dei tuoi santi» (X, 35).

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29. quanti vi attingono: altri traduce: «tutti i canali» o «tutte le sorgenti». 35. fondamenta eterne: o «fondamenta del mondo» dato il duplice significato del termine ebraico corrispondente. Inno 7 (III, 37 IV, 4). Il salmista ringrazia Dio, suo baluardo contro i nemici, che lo stabilì su di una roccia ove cammina sulla via eterna. Come testi biblici di riferimento, si veda: Sal., 139, 24; 40, 3. Inno 8 (IV, 5 V, 4). Ringraziamento a Dio per la conoscenza e l’illuminazione concessa attraverso il patto, mentre i sedutori non solo seguono inganni e menzogne, ma trattengono gli assetati dalla «bevanda della conoscenza» (IV, 5-12); questi ipocriti e instabili, smarriti e alla ricerca di idoli e di profeti ingannatori, saranno eliminati per sempre (rr. 13-22 b); l’eletto, l’illuminato, prevarrà, forte della conoscenza dei «meravigliosi misteri» divini: ma questo non è merito «del figlio di Adamo» fragile e impotente, conscio dei suoi peccati, ma della benevolenza di Dio che dà vigore, purifica e concede la giustizia (rr. 22 b V, 4). Interessante notare (vedi anche Introduzione) la triplice contrapposizione con i pronomi personali «io» (rr. 22, 30, 33, 35), «tu» (rr. 12, 18, 38), «essi» (rr. 6, 9, 13, 16). Fra i molti testi biblici ai quali consciamente o meno l’autore ha attinto, si osservino: Prov., 27, 8; Sal., 31, 12-13; Ez., 13, 7-8; Is., 32, 6 e Sal., 69, 22 per le rr. 9-10; Ab., 2, 15 (secondo la lezione di 1QpAb, X I, 2 e segg.) con Is., 28, 7 per la r. 11; Beut., 29, 17 per la r. 14; Is., 42, 3 per la r. 25; Sal., 51 per le rr. 29-32. 6. stabile aurora: o «aurora vera»; «all’alba» è la lettura ordinaria (come un duale con M. Delcor), ma con il Sukenik si può anche leggere, dividendo la parola, «quale luce perfetta»; così anche alla r. 23. Questa apparizione divina all’alba si può mettere in relazione sia alle note preghiere essene al sorgere del sole (GIUSEPPE FL., Guerra, II, 128 vedi p. 58) oppure al fatto che con l’aurora sono messe in fuga le ombre oscure della notte e perciò il sole può essere simbolo di salvezza e di aiuto (cfr. Mal., 3, 5), perché i giudizi si tenevano al mattino (Es., 18, 13; Sof., 3, 5), perché nella storia della salvezza l’aiuto divino si manifestò al mattino (Es., 14, 27; 2 Re, 19, 35); altri ancora pensano a una forma di incubazione: sulla questione vedi J. Z IEGLEF, Die Hilfe Gottes «am Morgen» (Alttestamentliche Studien F. Nötscher…), Bonn, 1950, pp. 281-288. Vedi Sap., 16, 27-28. 8-10. interpreti di inganno e veggenti di menzogna: espressioni che fanno parte della ricca terminologia che designa negli Inni i nemici del salmista e della comunità, così ancora ad es.: «cercatori di cose vani-ingannevoli» (II, 15. 32), «cercatori di menzogna» (II, 34), «interpreti menzogneri» (II, 31; IV, 9-10), «incirconcisi, impuri e violenti» (VI, 20), «uomini colpevoli» (VI, 18-19), «uomini d’inganno, di menzogna» (II, 16; IV, 20); «interpreti di menzogna» (IV, 7), «profeti ingannatori» (IV, 16), «Belial» (IV, 10), «convegno da nulla» (II, 22), «interpreti di errore» (II, 14). 21. al tuo cospetto per sempre: questo e altri testi degli Inni (cfr. II, 19-22), ai quali si possono avvicinare 1QS, IV, 7-8. 20-22 e CD, II, 20; VII, 6, dànno l’impressione che tra le attese dei qumraniani vi fosse pure l’immortalità felice per i buoni (cioè per loro); è noto come in proposito il pensiero dell’Antico Testamento fosse limitato alla vita di quaggiù e solo in un periodo molto tardivo, parzialmente almeno, sotto

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l’inf lusso dell’ellenismo, si sia aperto a una prospettiva di felicità futura con la Divinità (i testi antichi discussi sono: Sal., 16, 10-12; 49, 15; 73, 23 e Giob., 19, 25); i testi sicuri sono in libri non compresi nel canone ebraico, ma uno era certamente noco e venerato a Qumrân: Eccli., 41, 1-2; Sap., 3, 1-5, 13. L’interpretazione dei testi di Qumrân ed in specie quelli degli Inni non è sicura. Ammessa ad es. da A. Dupont-Sommer, M. Mansoor, M. Black, J. van der Ploeg e altri, è negata da altri, ad es. G. Molin, R. B. Laurin, J. Carmignac, F.-Nötscher, S. Holm-Nielsen, ecc. Th. H. Gaster oltre all’esperienza mistica di Dio, che per lui è un fattore decisivo ma non una anticipazione di risurrezione e di immortalità, pensa di potere scorgere anche una storia del mondo divisa in due epoche (una dell’ira di Dio, l’altra della grazia), la concezione di una rinascita del mondo ecc. (cfr. op. cit., pp. 7 e segg.). Così è ugualmente diviso il campo degli studiosi allorché ci si domanda se i qumraniani credevano nella «loro» risurrezione corporea: alcuni l’affermano in base soprattutto a 1QH, III, 19-22; VI, 29-30; VI, 34-35; X I, 10-13 (così ad es. C. Rabin, M. Delcor, J. van der Ploeg, M. Mansoor, F. Nötscher), ma altri sono molto dubbiosi, ad es. Th H. Gaster e G. Vermes che mantiene la risurrezione come ipotesi possibile, ma ritiene che i qumraniani pensassero che sarebbero stati assunti in cielo cor. un corpo purificato (sul tipo delle attese testimoniate da san Paolo in 1 Cor., 15, 51), o assolutamente negativi come R. B. Laurin, J. Carmignac e S. HolmNielsen. La dottrina della risurrezione corporea negata dai saducei e affermata dai farisei divenne fondamentale tanto per il giudaismo quanto per il cristianesimo; questa feds, nell’A. T. fu formulata chiaramente (solo per i giusti) in Dan., 12, 2 e 2 Macc., 7, 9-36 e in Sap., 3, 1-5, 13 (a questi testi si possono accostare Is., 26, 19 e Gieb., 14, 7-10). È vero che Giuseppe Flavio (Guerra, II, 154-155, vedi p. 61) parla della fede degli esseni nell’immortalità dell’anima, e che Ippolito romano, unico teste antico, afferma che credevano nella risurrezione dei corpi (Refutatio, IX, 18-28, vedi p. 67), ma è per noi molto problematico provare sia l’una che l’altra; non v’è dubbio che uns posizione tanto sicura qual è quella presa da M. Delcor è al riguardo esagerata. Lasciando aperta la duplice questione, si può concludere quanto segue: 1) si può ritenere per certa la credenza e l’attesa della comunità nella fine di questo mondo con la finale vittoria di Dio sul male e l’annientamento dei cattivi (praticamente di tutti coloro che non aderivano ad essa); 2) i testi sopra citati ai quali si aggiunga ad es. 1QS, III, 7 se non rivelano idee chiare sull’immortàlità come il libro delia Sap., rivelano almeno la fede in un prolungamento indefinito della vita dei buoni quaggiù, dopo «la visita» e cioè dopo il trionfo dei buoni sui cattivi, come nelle sezioni giudicate più antiche del libro di Enoc (ad es. e. 25; c. 90; 28 e segg.); 3) si può senza dubbio assentire alle parole di Holm-Nielsen: «L’accoglimento della divina rivelazioae da parte dell’eletto lo aveva già posto in una situazione escatologica; la salvezza escatologica era già presente tra loro. L’essere stati accolti nella comunità, l’essere entrati nel patto significava per essi la salvezza; per quanto li riguardava, la differenza tra le condizioni in cui si trovavano nella comunità, da una parte, e la vita del mondo esteriore a loro, dall’altra, erano assai più grandi di quelle che vi erano tra la vita comunitaria e la gloria futura. Si è tentati di prendere da Giovanni le parole del Signore: “egli… è passato dalla morte alla vita” (Gv., 5,

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24). È forse per questa ragione che non è menzionata chiaramente la risurrezione dei morti e la vita futura: la stessa comunità e la vita condotta in essa è presentata come il paradiso (1QH, VIII, 4 e segg.)» (op. cit., 397-398); 4) si può tuttavia ammettere la possibilità, anzi la probabilità, che dopo la morte del maestro di giustizia, gli esseni di Qumrân abbiano subìto l’inf lusso della dottrina farisaica sulla risurrezione. Su tutta la questione si veda: H. H. ROWLEY, Jewish Apocalypstic and the Dead Sea Scrolls, London, 1957; J. VAN D ER PLOEG, L’immortalilè de l’homme d’après les textes de la Mer Morte (1QS, 1QH), in VT, 2, 1952, 171-175; ID., The Belief in Immortality in the Writings of Qumrân, BO, 1961, 118-124; A. M. D UBARLE, Une source du livre de la Sagesse, in RSPhTh, 36, 1953; M. D ELCOR, L’immortalitiè de l’âme dans le livre de la Sagesse et dans les anciens documents de Qumrân, NRTh, 77, 1955, 614-630; M. BLACK, The Account of the Essenes in Hippolytus and Joseph (in The Background of the New Testament and its Eschatology), Cambridge, 1956, 172-175; P. GRELOT, L’eschaiologie des esséniens et le livre d’Hénoch, in RQ, I, 1958, 113-131; e gli articoli di J. Carraignac, R. B. Laurin, J. Ph. Hyatt, M. R. Lehmann, A. Peretti citati nella Bibl. Per l’A. T. si veda N. J. TROMP, Primitive Conceptions of Death and nether world in the Old Testament, Roma, 1969. 29. essere di carne: sono numerosi i passi degli Inni nei quali si sottolinea la natura debole, incline al male ecc. dell’uomo con il semplice termine «carne» (in ebr. baśar: X, 23; X III, 13; XV, 12, 21; XVII, 25; XVIII, 21, 23 ecc.); è opportuno rilevare però che secondo la tradizione del pensiero ebraico «la carne» non è per sé cattiva, ma moralmente e spiritualmente debole, mortale, di questo mondo (cfr. Gen., 2, 7); elemento nel quale il peccato e ogni genere di male può trovare dimora, soprattutto evidente nel nostro rotolo, è incessantemente sottolineata la sua contrapposizione a spirito, non allo spirito dell’uomo, ma a quello di Dio (vedi anche I, 21 e nota). È appena il caso di notare l’evidente analogia con il linguaggio paolino. Come si accennò nell’ Introduzione, il Kuhn (Temptation, Sin…, pp. 102-103) ritiene che «lo stile “io”» dei nostri Inni abbia un senso gnomico, descrittivo dell’esperienza umana (cfr. X I, 7-10), che sia connesso con «l’io» del libro biblico dei Salmi, e sottolinei l’esistenza umana come «carne» nel senso di appartenenza alla sfera del potere dell’empietà: questo sarebbe dunque il punto di partenza per interpretare le espressioni degli Inni e quelle di san Paolo in Rom., c. 7: vedi X II, 12 e nota. Inno 9 (V, 5-19). Dio non abbandona il salmista in potere dei malvagi, «in mezzo ai leoni che spezzano le ossa e bevono il sangue», nell’esilio tra «pescatori» e «cacciatori» iniqui (rr. 5-9 a), bensì chiude la bocca dei leoni e dei serpenti velenosi, lo nasconde dagli uomini, gli pone la «legge» nel cuore e gli manifesta la salvezza (rr. 9 b-12): ha udito, infatti, il grido del fedele, ha liberato il «povero», ha mostrato la sua potenza, ha mutato l’uragano in brezza, ha strappato la preda dalla bocca dei leoni (rr. 13-19). I principali testi biblici che l’autore ha in mente, sono: Dan., 6, 17-24 ed Ez., 39, 17-19; inoltre Sal., 57, 5 e Gioele, 1, 6 per la r. 10; Sal., 22, 14 e 64, 4 per la r. 11; 1 Sam., 17, 37 e Nah,, 2, 12 per la r. 13; Sal., 7, 3 e Ger., 47, 6 per la r. 14; Mal., 3, 3; Sal., 12, 7 e 107, 29 per le rr. 17-18.

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6. carattere (in ebr. jēṣer) ’. il termine ebr. jēṣer è uno dei termini prediletti dall’autore degli Inni; mentre nell’A. T. ricorre una decina di volte, qui ricorre più di 30; dal senso fondamentale di materia-forma-figura (joṣer è il «vasaio») il termine acquistò molto presto un senso morale («indole, disposizione, modo di sentire e di pensare»); negli Inni il termine designa, ma non sempre, la tendenza umana buona o cattiva che sia, l’impulso, il carattere e, secondo il contesto, l’inclinazione cattiva dell’uomo (V, 6; V, 31; VII, 3-4); sfumatura questa quasi sempre presente, e non totalmente nuova (come appare ad es. da Gen., 6, 5, 8, 21; Deut., 31, 21; Is., 26, 3 e 1 Cron., 28, 9 e 29, 18); testi questi che preludono alla divisione, operata nella letteratura rabbinica, di due impulsi (jeṣarîm) nell’uomo uno buono e l’altro cattivo, alla assimilazione di jēṣer e leb («cuore» come in 1QS, V, 5) e spiegano l’aspetto fondamentale della dottrina dei due spiriti, dottrina che l’autore ha sempre presente (cfr. 1QS, III, 13 IV, 26) anche quando non l’espone espressamente, così come spiegano il peccato (cfr. Eccli., 15, 11 seg. e 25, 24) e il determinismo. Per l’espressione «carattere deciso» (in ebr. jēṣer samûk) vedi I, 35 e nota; negli Inni è menzionato anche, una volta, il carattere-istinto colpevole (VI, 32, jēṣer ’ashmāh come in CD, II, 16). Su tutta la questione e sugli ulteriori sviluppi nella letteratura rabbinica e cristiana cfr. l’ art. cit. di J. P. Hyatt; F. C. PORTER, The Yecer Hara’. A Study in the Jewish Doctrine of Sin, London, 1901; S. S. C OHEN, Originai Sin, in HUCA, 21, 1948, 275-330; A. M. D UBARLE, Le péché originel dans les Suggestion de l’Évangile, in RSPhTh, 39, 1955, 603-614. Inno 10 (V, 21 VI, 4a ). Il salmista nel ringraziare Dio di averlo protetto con una aliquota di umili e «solleciti della giustizia» (rr. 20-22), rivela come altri che prima erano con lui che avevano aderito al suo convegno, iniziarono una campagna denigratoria riducendolo in uno stato di prostrazione estrema «senza rifugio» riempiendolo di angoscia e di tristezza: «la mia anima era in amarezza quotidiana», qual prigioniero avvolto nelle tenebre e stretto da catene; ma Dio gli si è manifestato rivelandogli i suoi misteri. Questo e il seguente sono gli inni nei quali più abbondantemente che in ogni altro l’animo dell’autore si esprime con continui ricorsi a Isaia e al Salterio. Is., 35, 4 e Sal., 40, 3 per la r. 22; Sal., 41, 10 per la r. 24-25 (cfr. anche le parole di Gesù, in Gv., 13, 18); Is., 16, 11 e 13, 8 per la r. 30; Sal., 42, 6 (cfr. Mt., 26, 38); Sal., 22, 16 e 137, 6 per la r. 31, 31; Sal., 80, 6 e Giob., 3, 5, 24 per la r. 33; Sal., 31, 8-14 per le rr. 33-35; Lam., 1, 14 e Sal., 31, 11 per la r. 36. 24. entrano nel mio patto: entrare nel patto è una espressione tecnica, nella letteratura qumranica, per l’ingresso nella comunità (cfr. anche CD, II, 2; VIII, 1; IX, 2-3; X III, 14; XV, 5 e vedi la cerimonia di ingresso in 1QS, V, 8); nell’A. T. l’espressione si legge soltanto in Ez., 16, 8. È questa l’unica volta in cui si legge «mio patto»: altrove è sempre detto «tuo» o «suo» cioè di Dio (cfr. II, 22; II, 28; IV, 5; IV, 19; IV, 24, 34-35, 39; VII, 8; VII, 10; VII, 20; X, 30; X IV, 22; XV, 15; XVI, 7; XVIII, 9) e non è escluso che vi si debba scorgere una voluta sfumatura: queste righe marcano infatti all’evidenza i gravi dissensi che si scatenarono tra i membri della comunità e l’ambiente più vicino (si veda in proposito anche 1QpAb, V, 9 e segg.; X, 10-11; CD, X IX, 8 e segg., X IX, 14 e segg.). Le disposizioni contro coloro che

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escono dalla comunità e si schierano contro di essa, menzionate da Giuseppe Fl. e da 1QS, acquistano in questo contesto tutto il loro vivo significato: cfr. pp. 59-60, §§ 139-142 e 1QS, II, 4 b-9. 37. misteri di iniquità: cfr. 1Q27 (appresso); M. Mansoor: «i (loro) peccaminosi segreti». L’autore allude molto probabilmente alla forza, o natura, misteriosamente perversa del peccato; cfr. l’espressione paolina: «il mistero dell’iniquità» (2 Tess., 2, 7). Inno 11 (VI, 4b-36). Ringraziamento per la liberazione dalla compagnia dei cattivi e l’aggregazione alla comunità fonte di fiducia e speranza per colui che si converte dalla ribellione e cammina sulla via «del cuore» di Dio (rr. 4 b-7 a) il quale consola, purifica, elargisce la sua benevolenza al «resto della sua eredità», l’ammaestra, lo pone nel suo consiglio, per magnificare la sua legge, estendere il consiglio fare conoscere la sua gloria e verità a tutti, affinché si convertano ed entrino nella comunità (rr. 7 b-14a); Dio farà sorgere un virgulto che diverrà una pianta eterna, si estenderà a tutta la terra, s’innalzerà fino al cielo, le sue radici saranno irrigate dai fiumi dell’Eden, sarà fonte di luce e sorgente eterna, brucerà tutti i colpevoli e quanti non perseverarono nella comunità (14 b-22 a); come un marinaio tra i marosi, come un assediato dentro una città, il salmista sarà liberato da Dio; nella comunità non entreranno più «stranieri» e la spada divina accelererà lo sterminio degli assedianti (i malvagi) e gli assediati, i membri della comunità, innalzeranno la bandiera della vittoria (rr. 22 b-36). Per l’uso della Bibbia è come il precedente. I testi principali sono: Is., 59, 20; 13, 4; Ez., 32, 3 per le rr. 6-8; Sal., 104, 15; Ez., 31, 2-12 per le rr. 15-17 (vedi anche la parabola evangelica del grano di senapa Mt., 13, 32); Is., 35, 8 e 52, 1 per la r. 21; Is., 43, 16 per la r. 24; Ger., 12, 14; Is., 34, 6 (e 1QM, XV, 3; X IX, II) per la r. 29; Is., 42, 13; Ger., 50, 25 e Sal., 6, 3 per le rr. 30-32. 4 b. Ti ringrazio…: con A. M. Habermann. 8. resto della tua eredità: vedi CD, I, 4 e Mich., 7, 1; per il parallelismo tra sopravvissuti (in ebr. miḥjāh «sopravvivenza») e il resto, si veda 1QM, X III, 8. 13. angeli della tua presenza: (in ebr. mal’ak ha-panîm): sull’angelologia dei qumraniani vedi 1QM, IX, 15-16; X II, 7-9 e nota; qui l’autore si riferisce a quella categoria di angeli che stavano sempre alla presenza di Dio (nella Bibbia è menzionata in Is., 63, 9) ben nota da altri testi di Qumrân come 1QSb, IV, 25-26 e 3Q7, framm. 5 (vedi DJD, III, Oxford, 1962, p. 99), dal libro dei Giubilei, 2, 1; 15, 27 e dal Test. di Levi, 18, 5: cfr. J. T. M ILIK, op. cit.). 14-15. Farai sorgere… fiorirà: è la ricostruzione di M. Delcor; virgulto: vedi VIII, 6-9 e nota. 18. un fuoco che divora: sul giudizio escatologico, sulla distruzione dei cattivi e sull’immagine del fuoco cfr. 1QS, II, 15; IV, 20, 25; V, 13; 1QH, III, 29-30. 36; XV, 20; 1QpAb, X, 3-5; si veda anche Is., 10, 23; 28, 22 e 2 Piet., 3, 12-13. 34. Alzare lo stendardo… o il vessillo equivale indire l’adunanza soprattutto nella partenza per la guerra, ma è anche segno di vittoria (cfr. Is., 5, 26; 11, 11-12; Ger., 51, 12-27).

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quelli che giacciono… mortali rosi…: vedi 1QS, X I, 21 e nota; espressioni derivate da Is., 26, 19 e Giob., 7, 21; 20, 11; 21, 26 ecc. ove si tratta della morte reale, ma qui (dato il sistema di servirsi della Bibbia che ha il nostro autore) possono essere intese figuratamente anche degli stessi giusti oppressi (così ad es. il Carmignac e quanti negano che i qumraniani credessero alla risurrezione dei morti, vedi 1QH, IV, 21 e nota). Inno 12 (VI,… VII, 5). È una delle divisioni più incerte alla quale comunque invita la chiara impressione che l’inno precedente sia finito nelle ultime righe della col. VI essendosi esaurito il climax caratteristico della persecuzione, mentre nella col. VII si sente nuovamente l’oppressione del salmista, che non ha qui più alcuna conclusione letteraria. La stessa tonalità di persecuzione e di dolore suggerisce come probabile l’espressione «come un agnello» (che ha pure M. Mansoor) e che proietta su tutto quanto segue una sfumatura particolare richiamando immediatamente il contesto dei carmi del «servo di Jahweh» (cfr. Is., 53, 7 e segg.) che avrebbe colorito il linguaggio del salmista; è chiaro che questi né li interpretava in chiave messianica né attribuiva alle sue sofferenze meriti espiatori o valore redentivo in favore dei persecutori, la cui unica sorte era la distruzione, non la salvezza: non v’è altro nel salmista, che una eroica volontà di perfezionamento o, come in IX, 24-25, un sentimento del valore formativo della sofferenza. 4-5. Per queste righe si veda Sal., 22, 15 e Giona, 1, 15; e qui a proposito della frase che la grande maggioranza degli studiosi traduce «nel vento tempestoso» il Michelini-Tocci fa rettamente osservare che un più accurato esame del termine ebraico harishit, «sordo-calmo», porta alla conclusione che l’autore non ha davanti l’immagine di una tempesta in atto, bensì del sorgere di «un’improvvisa burrasca»; il testo dice dunque «come una nave quando il vento da calmo diventa violento», di qui la traduzione data. Si dovranno ugualmente rivedere le traduzioni che solitamente si dànno del testo di Giona, 4, 8 (unico passo dell’A. T. nel si legge ḥarîshît) vedendo anche qui non già una tempesta, ma un’improvvisa bufera causata da inatteso colpo di vento. E questo senso si adatta molto meglio che una tempesta in atto al nostro presente passo. Inno 13 (VII, 6-25). L’autore ringrazia Dio che lo sostiene con la sua forza e con il suo spirito, e l’ha posto in una fortezza imprendibile, al sicuro dai malvagi (rr. 6-12); Dio che conosce e determina le azioni umane, gli ha dato un cuore incline alla legge e per mezzo suo separa i giusti, diretti da lui, dai cattivi; ha fiducia che Dio renderà prospera la sua vita, avendolo predestinato alla comunità quale padre per quelli amati da Dio, quale custode per i sacerdoti («uomini del presagio» cfr. Zacc., 3, 8), quale nutrice per i figli spirituali (rr. 13-22); tale elevazione è una vittoria sui suoi nemici e fa sì che egli sia guidato dalla luce divina (rr. 23-25). Per l’uso della Bibbia, cfr. Is., 30, 13; Sal., 61, 4 per la r. 8; Is., 8, 18; 11, 8 e 66, 12; 1 Cor., 3, 2; Ebr., 5, 12; 1 Piet., 2, 2 per la r. 21-22; Is., 30, 26 e 60, 19 per le rr. 24-25. 24. in una luce… nella luce…: la prima lettura è pressoché certa, molto dubbia è invece la seconda e qui il Dupont-Sommer ricostruisce: «nell’Eden che tu hai creato…» (riferendosi a Giubilei, 4, 23 che parla dell’assunzione di Enoc in paradiso).

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«Una luce settupla» può significare semplicemente «una grande luce»: l’autore ha forse presente, anche a motivo del contesto, «la luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà settupla, nel giorno in cui Jahweh curerà la ferita del suo popolo e guarirà la piaga delle sue percosse» (Is., 30, 26). Seguendo un testo del Talmûd (Sanhedr., 91b), Th. H. Gaster (op. cit., p. 24) propone di vedere qui la luce messianica; e A. Dupont-Sommer commenta: «Il maestro di giustizia annunzia qui la sua trasfigurazione luminosa» (Les écrits…, p. 238) e rinvia alla trasfigurazione di Gesù (Mc., 9, 2-8) e a un testo del libro di Enoc sulla trasfigurazione dei buoni (108, 11-13); S. Holm-Nielsen osserva prudentemente. «È difficile addurre un argomento contro quésta concezione; ma ad ogni modo ogni ragione è insufficiente per leggere “nell’Eden…” rinviando a Giubilei, 4, 23» (op. cit., 135). Inno 14 (VII, 26-33). Lode a Dio sapiente e giusto che volle manifestare i suoi meravigliosi misteri ed elargire la sua benevolenza a chi non è che un «soffio leggero» e un «cuore perverso». Le più evidenti reminiscenze bibliche sono: Es., 15, 11 e molti passi in Is., cc. 4055 nella r. 28 ed ancora Giob., 4, 17; 9, 2 ecc.; Sal., 39, 6, 12 e 144, 4 per la r. 32. Inno 15 (VII, 34 - VIII, 3). Il salmista ringrazia Dio di non trovarsi tra i malvagi, giacché questo fatto è un indice della benevolenza divina verso di lui. Inno 16 (VIII, 4-37). Nonostante le molte parti oscure, il salmo ha, anche dal punto di vista prettamente letterario, un fascino del tutto particolare accresciuto di bellezza e profondità singolari allorché ambientato nella regione di Qumrân. Il salmista si descrive presso una sorgente dalla quale sgorgano acque abbondanti su di una terra arida, acque che del deserto fanno un giardino; nel suo magnifico giardino Dio ha posto due generi di piante e un virgulto (nēṣer): gli «alberi acquatici» che s’elevano su alti, e gli «alberi di vita» che sono teneri e nascosti dagli altri; ambedue queste qualità di alberi cooperano in modo diverso, per volere di Dio, alla crescita e irrobustimento del virgulto; gli alberi acquatici s’innalzeranno su di lui, ma le loro radici non giungeranno fino all’acqua corrente; il suo frutto sarà nascosto «nel mistero degli eroi forti», i suoi rami s’estenderanno essendo egli protetto dagli spiriti e dalla fiamma di fuoco; gli alberi di vita attingeranno all’acqua di santità, ma non gli altri (rr. 4-14). Il virgulto ebbe da Dio la custodia del giardino: è il giardiniere che con l’insegnamento della sua bocca fa sgorgare le acque che irrigano gli alberi di vita; ma se la fonte inaridisce, tutte le piante del giardino insecchiscono e la terra ritorna un desolato deserto (rr. 16-26); ma il giardiniere viene colpito da piaghe, malanni e amarezze e non può compiere pienamente la sua funzione: un fuoco divora le sue ossa, tutto in lui viene meno, ma non tacerà; parleranno i suoi discepoli per sostenere i vacillanti e i deboli (rr. 27-37). Anche qui ci si trova davanti a una tela tessuta di riminiscenze bibliche in buona parte spontanee, scaturite dalla grande familiarità con i testi biblici, anche se — come è sua abitudine — il salmista se ne serve in modo assai libero.

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Oltre a quelle che saranno citate appresso, si veda: Ez., 31, 2-12 e Is., 17, 11 per la r. 9; Is., 5, 2; Os., 14, 6; Is., 40, 24 per le rr. 22-23; Is., 53, 3 e segg. per le rr. 26 b-28; Sal., 42, 7-8; Ez., 30, 18 per la r. 32. 4-8. sorgente… fonte… sorgente misteriosa… fonte eterna (cioè inesauribile)… ecc.: nonostante il parere contrario di A. Dupont-Sommer che vede qui il maestro di giustizia e rinvia alle parole di Gesù in Gv., 4, 10; 7, 37-38, designano unicamente Dio come sempre nell’A. T. ed è pure lui, forse, che fa «germogliare», il «virgulto», come è il costruttore della comunità (cfr. CD, III, 19 e 4QPPS37, III, 16 ecc.). 5-6. Alberi di vita (o della vita): espressione ispirata dalla narrazione della Gen., 2, 9 e 3, 22.24 (ove però si legge il singolare «albero»; il plurale come qui si legge nei Salmi di Salomone (14, 2-3); il testo però combina almeno anche questi altri passi: Is., 44, 3; 49, 10; 41, 18; 58, 11 e 60, 13 e il testo di Ezechiele di cui appresso: questi alberi sono i membri della comunità o essa stessa, la piantagione eterna, la piantagione di verità (rr. 6, 10). Sull’albero della vita vedi anche l’uso che ne fa l’Apocalisse, 22, 2. 6-9. alberi acquatici (o alberi d’acqua): come l’immagine precedente, anche questa deve, in parte la sua origine a Ez., 31, 9, 14, 18; contrariamente a quanto si legge nella Bibbia (Sal., 1, 3 e Ger., 17, 8 dal quale dipende proprio la r. 7) ove questi alberi presso le acque sono un’immagine dei giusti, l’autore addita in essi l’immagine dei peccatori; molto probabilmente i motivi sono: attingono l’acqua non dal corso giusto (cfr. il simbolismo: acqua = dottrina, vedi CD, I, 15 e nota), e quindi non l’acqua viva ma acqua comune, stagnante; crescono presto, ma le radici non sono bene abbarbicate. Si veda in particolare l’esauriente studio di PH. REYMOND, L’eau, sa vie et sa signification dans l’Ancien Testament (VT, Supplement VI), Leiden, 1958. Il «virgulto» (in ebr. nēṣer) presenta vari problemi; può essere posto in relazione al virgulto di Jesse (Is., 11, 1) e cioè avere un senso messianico: ma in tutti i luoghi nei quali ricorre si direbbe che è evitato accuratamente qualunque accento messianico ed è posto invece in relazione alla piantagione di Dio, gli eletti, come in Is., 60, 21. Si può intendere in senso collettivo (la incipiente comunità) o individuale (il maestro di giustizia) o dell’incipiente comunità curata dal maestro di giustizia (che in questo caso è colui che lo fa crescere, r. 10) affinché diventi una «piantagione eterna» (r. 6 e VI, 15; vedi anche 1QS, VIII, 5; X I, 8). 11. mistero… sigillato: l’autore ha presente il mistero della narrazione di Gen., cc. 23, e si osservi in proposito il chiaro accenno al cherubino e alla fiamma fiammeggiante posta da Dio in guardia al giardino a custodia dell’albero della vita (vedi r. 12 e Sal., 104, 4 e Gen., 3, 23), ma ha davanti a sé anche la misteriosa esistenza e vita della comunità, la piantagione eterna, dal futuro escatologico felice e dal presente così tormentato. Vi è qui qualcosa delle parole di Gesù: «Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata…» (Mt., 15, 13). 36. Poiché mia è la lingua…: M. Wallenstein legge: «né c’è una lingua di discepolo per…». Inno 17 (IX, 2-36).

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In mezzo al dolore, al pianto, alle lacrime e privo di riposo, il salmista seguita a meditare le meraviglie e benevolenze divine: i suoi persecutori sono ingiusti, ma non Dio (rr. 2-10) che pose sulle sue labbra una preghiera e nel suo cuore una speranza, perché lo conosce, lo fortifica e lo perdona (rr. 11-14); nessun uomo è innocente, ma solo argilla e debolezza, perciò il salmista ha illimitata fiducia in Dio (rr. 15-23 a), che per un po’ gli ha nascosto la verità e la pace: prova che fu presa con gioia e divenne «una corona di gloria» e l’anima angustiata ebbe uno spazio eterno (rr. 23 b-28 a); il poeta canta perciò il suo Dio che gli è padre nutrizio, liberatore, madre amorosa fin dalla nascita (rr. 28 b-36). Tra i testi biblici si possono rilevare: 2 Sam., 22, 5; Sal., 6, 7 e Giob., 17, 13 per la r. 4; Giob., 17, 7 e Lam., 1, 2-3; 2, 18 per la r. 5; Sal., 105, 2; 119, 27 e Lam., 3, 31 per la r. 7; Sal., 22, 10; 71, 6; 139, 13 e forse Rut., 4, 15 per le rr. 30 e 34; Sal., 27, 10; IS., 63, 16 e 49, 13-14 per le rr. 35-36. 13. della prima trasgressione o primo peccato (in ebr. pesha’ ri’shôn): a seconda della forma verbale che si preferisce in base al contesto, il verbo antecedente si può intendere come «mi sono pentito», o «rimpiango» (forma nif’al) oppure «trovo conforto per» (forma pi’el): ambedue sono possibili. La vera difficoltà sta nel sapere se «prima trasgressione» o «primo peccato» si riferiscano al peccato originale, cioè al peccato della prima coppia umana narrato nella Bibbia (Gen., 3, 6-24): in favore di questa soluzione si sono schierati A. Dupont-Sommer (che traduce «peccato primitivo» e spiega: è «il peccato dei protoparenti nell’Eden, causa della corruzione della specie umana» [Les écrits…, p. 245]) e M. Wallenstein (che traduce «il peccato originale» e spiega «il fatto che qui appaia occasionalmente Adamo dimostra che questa nozione era ben conosciuta dai discepoli dell’autore dell’inno e non aveva bisogno di spiegazioni» [The Nezer…, vedi Bibl.]) ; ma non v’è nulla di preciso che permetta questa interpretazione e la grande maggioranza degli interpreti sono contrari (così J. Carmignac, M. Delcor, M. Mansoor, Th. H. Gaster, S. Holm-Nielsen, J. Maier ecc.); una espressione uguale, ma al plurale (in ebr. pish’ê ri’shonîm) si legge più avanti (XVII, 18 «peccati anteriori»), e si riferisce agli antenati (cfr. CD, 1, 4; IV, 9; VI, 2), senso che può andare bene anche qui, o semplicemente «i peccati del passato» come nel Sal., 79, 8 (’aônot ri’shonîm) l’autore pensa cioè ai peccati commessi prima della sua propria conversione, concetto che ricorre molto spesso sia per lui che per gli altri membri della comunità, od ancora può riferirsi ai così detti «peccati di gioventù». Le concezioni fondamentali degli Inni sono tali (vedi anche l’Introduzione) che non v’è posto alcuno né per l’idea di peccato universale o originale, né per una così detta espiazione vicaria. È interessante notare questo riconoscimento del peccato perché una volta più si conferma che l’autore anche in un contesto generale che richiama i carmi del «servo di Jahweh» è ben lungi dal sentirsi tale: quest’ultimo infatti si sente e professa sempre innocente. Inno 18 (IX, 37 - X, 12). Fatto di polvere e d’argilla e destinato a ritornare alla terra l’uomo può progettare, ma non può conoscere nulla senza il volere divino ed è pure incapace di comprendere le meraviglie del creato (r. 37 X, 7); nulla può essere paragonato alla potenza e alla gloria di Dio, nessuna creatura, tutte da lui create per la sua gloria,

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può reggere davanti a lui e tanto meno l’uomo mortale (rr. 8-12). L’autore ha molti richiami biblici, ma non ve n’è alcuno così marcato che meriti di essere rilevato in particolare. 8. capo degli dèi (in ebr. “śar ’ēlim, «principe degli dèi»): cfr. 1QM, X IV, 16 ove si legge «Dio degli dèi». Inno 19 (X, 14 - XI, 2). Lode a Dio che ha rivelato la sua verità per cui, fiducioso in essa, il salmista può lodarlo e non sente bisogno di aiuti o forza terrena. Il salmista ringrazia Dio per la concessa conoscenza della sua gloria e delle meraviglie del creato, ed esterna la propria fiducia nella bontà, nel perdono e nella verità divina (rr. 14-17); sa che le sfortune della vita vengono esse pure da Dio, e sente che lo spirito di verità concessogli da Dio gli fa desiderare la sua vicinanza e lo tiene lungi da facili guadagni e dalla ricchezza (rr. 18-24); i figli della verità, qualunque sia la loro posizione nella comunità, cercano la felicità nella vita spirituale, nella sequela della verità (rr. 25-29); l’autore vede che la gioia nella verità e nel patto di Dio fa sbocciare il suo cuore come un fiore, trema invece al pensiero del giudizio di Dio su coloro che si stimano forti della propria forza (rr. 30 - X I, 2). Anche qui l’uso della Bibbia pur essendo molto esteso non presenta alcun caso così rilevante che si possa ritenere dipendente da questo o quel testo biblico; il fatto qui è forse dovuto all’argomento trattato che è determinato prima di tutto dall’esistenza della comunità, onde certi paralleli con 1QS col. IX. Inno 20 (XI, 3-14). Lode a Dio che all’uomo, creatura d’argilla, ha dato la conoscenza in forza della quale il salmista sa che Dio solo possiede la sapienza e la giustizia, e può purificare l’uomo dal peccato. Gratificato dei segreti divini, il salmista conosce la verità divina e la sua collera contro gli empi (rr. 3-8); i membri della comunità sono tutti favoriti dalla bontà e dalla conoscenza di Dio, purificati dal peccato e da ogni spirito impuro per potere stare tra gli spiriti di conoscenza (rr. 9-14). Questo inno fu giustamente presentato da H. Bardtke (Considérations…, in RB, 1956) come un «catechismo» della comunità i cui punti fondamentali si possono schematizzare: conoscenza dei misteri, purificazione dal peccato, santificazione per mezzo dell’allontanamento dall’infedeltà, unione con i figli della verità, partecipazione alla loro sorte; ogni membro è così come un morto fatto sorgere dalla polvere, libero da ogni spirito cattivo, la sua natura è rinnovata (nuova creatura), egli è al suo posto davanti a Dio e in comunione con gli angeli. L’uso della Bibbia, come nel precedente inno, non ha nulla di particolare. Nella prima parte della r. 12 si può vedere il testo di Is., 41, 14. 10. si santifichi (in ebr. hitqaddēsh): nel rinnovamento dell’uomo così caro al nostro autore l’uso di «santo-santificare» (cioè della radice ebr. qdsh) è relativamente limitato: si riferisce a essere celesti, per quanto si può giudicare dal contesto, (III, 22; IV, 25; X, 35; X I, 12; framm. 5, 3); ai membri della comunità che sono santi solo a contatto dei santi di Dio e della sua dottrina (cfr. VII, 10; VIII, 10; X I, 12); ma per lo più «santo» si riferisce a Dio (III, 34; VIII, 12) e al suo spirito (VII, 7; IX, 32; X II, 12; XVI, 12; XVII, 26); il verbo si legge in XV, 17 ove il soggetto è Dio, e nel presente testo X I, 10-11 ove si riferisce all’uomo purificato da Dio affinché si possa santificare essendo creatura d’argilla incapace di santificarsi. Non pare vi siano

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motivi sufficienti per vedere in questa «santità» molto di più di una semplice assenza di profano, e forse F. Nötscher ne ha esagerato l’aspetto etico (art. cit. in RQ, 3, 1960) almeno per quanto riguarda gli Inni. Inno 21 (XI, 15-28). Il salmista ringrazia Dio che per la sua rivelazione ha dato al salmista la conoscenza della sua giustizia: di qui la comprensione della vera natura umana. Benevolenza e salvezza sono per i figli della verità (rr. 15-18), ma è triste e malinconico vedere le insane inclinazioni umane e il destino del ritorno in polvere, perciò il salmista non cessa il suo amaro lamento fino a quando sparirà interamente il male (rr. 19-22); solo allora il suo lamento si convertirà in un inno di lode (rr. 23-25), e avrà fine la tristezza dando luogo al trionfo della verità e della pace (rr. 26-28). L’uso di testi biblici è piuttosto modesto. Si può vedere: Is., 25, 1 e Sal., 30, 2 per la r. 15; Gen., 3, 16, 19 e 4, 7 per la r. 20; Sal., 113, 3-4 per la r. 25; e Is., 35, 10 per la r. 26. Inno 22 (XI, 29-32). Il salmista ringrazia per il dono della conoscenza e di una lingua capace di parlare della gloria di Dio. 29. Dio delle misericordie e…: espressione ignota all’A. T., ma una simile si legge in X, 14 e in una frase di san Paolo (2 Cor., 1, 3). Inno 23 (XI, 32b XII, 36). Il salmista, insieme ai membri della comunità, vive in un ambiente di preghiere in tempi determinati per il giorno e per la notte: al sorgere del sole, a mezzodì, al tramonto, alla sera, nella notte, secondo il sistema stabilito da Dio fin dall’eternità; e ringrazia Dio che glielo fece conoscere unitamente alle sue opere meravigliose (rr. 1-13); questa divina conoscenza gli permette di comprendere la legge stabilita da Dio per la annichilazione del male e dei malvagi (rr. 14-20). I membri della setta consci della inanità umana e della bontà divina, ne seguono i precetti (rr. 21, 24 a); il salmista conosce la sua origine e la sua fine (rr. 24 b 26) e si domanda come può stare davanti a Dio quando ne sono indegni anche gli angeli: non gli resta che starsene in silenzio e meditare che tutto dipende dal volere di Dio, che solo può abbattere le forze del male (rr. 27-36). Sono qui scarsi i riferimenti con il testo di Isaia, ma forse ciò dipende dal fatto che l’inno ha varie singolarità rispetto a tutti gli altri: qualche studioso ha proposto di considerarlo un’istruzione liturgica. Sulle prime righe a proposito degli orari della preghiera nella comunità degli esseni e sul suo calendario vedi 1QM, II, 1-5; 1QS, X, 1-3 e note; Giuseppe Fl. (Guerra, II, 128) e Filone (De vita contemplativa, 27 e 89); vedi inoltre M. W EISE, Kultzeiten und kultischer Bundesschluss in der «Ordensregel» vom Toten Meer, Leiden, 1961; e soprattutto un importante papiro della grotta 4 facente parte del lotto assegnato a C. H. Hunzinger (cfr. Th Lz, 83, 1960, 151-152 ove ne è data notizia) che conterrebbe le preghiere del mattino e della sera, a giudicare dall’inizio di ogni sezione: «il… giorno del mese, alla sera», «il… giorno del mese, quando il sole esce per illuminare la terra»; ogni sezione termina, a quanto pare, con: «benediranno e diranno», «benedetto sii tu, Dio di Israele…» e alla fine «pace su di te, Israele».

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Vedi Sap., 16, 27-28. 11. saggio (in ebr. maśkîl) la lettura del termine non è affatto chiara; ho seguito una proposta del Licht anche se è accolta da pochi e non si incontra altrove nel nostro rotolo. Sul termine si veda 1QS b I, 1; 1QS, IX, e note. Inno 24 (XIII, 1-21). Prima della loro creazione, Dio predetermina le azioni degli angeli e degli uomini come predetermina le funzioni del cielo e della terra (rr. 1-10); solo ai membri della setta sono stati rivelati i misteri di Dio, e ad essi ha fatto conoscere la sua gloria; ma nato da donna, impastato con acqua, l’uomo è indegno di contemplare le meraviglie di Dio (rr. 11-16) e soltanto la bontà divina lo può innalzare a una pace eterna e giorni lunghi (rr. 17-18); l’autore reitera perciò la sua fiducia nella giustizia di Dio e nel suo verdetto su di ogni creatura (rr. 19-20). La frammentarietà dell’inno non permette conclusioni sicure sull’uso della Bibbia, che non sembra comunque molto vasto. Inno 25 (XIV, 1-7). L’autore parla dei membri della setta come persone umili, puri, forti di spirito e favoriti dalla visione di Dio. Inno 26 (XIV, 8-22). Lode a Dio che diede al salmista intelligenza per distinguere tra il bene e il male, secondo la giustizia di Dio; ringraziamento perché Dio ha predeterminato sulla terra la «via» dell’uomo in accordo alla sua «via», e perché l’ha posto nella comunità: perciò mai trasgredirà i comandamenti di Dio, ben sapendo che egli sostiene i giusti e gli eletti, e respinge gli empi (rr. 8-16); il salmista, entrato nella comunità, promette di non mancare mai più contro Dio e di rimanere lealmente fedele alle sue norme (rr. 17-22). Il testo è troppo frammentario per permettere di dedurre con certezza i testi biblici ai quali si è ispirato. 13. e a mano a mano…: tutto fa credere che l’autore non parli soltanto del progresso spirituale, ma anche dell’ascesa nelle tappe dell’essenismo, condizionato appunto dal grado di perfezione (cfr. 1QS, VI, 16, 19 e X I, 15-16); è probabile che l’inno facesse parte delle preghiere da recitare il giorno della pentecoste, quando nella comunità di Qumrân vi era la festività del rinnovamento del patto (vedi 1QS, I, 16 e nota); le righe 17-20 converrebbero ad es. assai bene al giuramento d’ingresso nella comunità. Notare il parallelismo tra «tutti coloro che sono vicini a te» (o «che si avvicinano a te») e «tutti coloro che ti conoscono» (rr. 14-15); vedi l’ Introduzione. Inno 27 (XIV, 23-27). Ringraziamento a Dio che perdona il penitente e punisce l’empio: al salmista Dio ha dato uno spirito di amore verso la verità e verso di lui, e di odio verso il male; perciò gli eletti godono del divino dono della giustizia e del perdono. Inno 28 (XV; 9-26). Promessa di custodire se stessi per Dio, giacché tutto dipende da lui che ha creato il giusto per la salvezza, e l’empio per la distruzione, manifestando così la

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sua giustizia. Il salmista ama Dio dalla profondità del suo cuore e aspira a non dipartirsi mai dalle sue leggi (rr. 9-12); ma sa che l’uomo non è padrone di se stesso e che gli impulsi e le azioni dell’uomo derivano e sono dirette da Dio, prima ancora della creazione; è Dio che crea il giusto; dalla nascita lc qualifica per la redenzione, per il patto, per la liberazione dalle pene e dalla miseria degli altri uomini (rr. 13-17); d’alrra parte, fin dalla nascita, l’empio è destinata alla perdizione, perciò disprezza i precetti divini e si diletta di quanto è malvagio: Dio fa questo per la propria gloria (rr. 18-21); veramente, tutto procede da Dio perciò è necessario apprezzare più di tutto la verità di Dio ed entrare nella comunità per avere la salvezza (rr. 22-26). Per le reminiscenze bibliche, si veda: Deut., 6, 5; Os., 14, 5 per la r. 10; Is., 49, 1 e 49, 8 (cfr. 2 Cor., 6, 2) per la r. 15; Ger., 12, 3 per la r. 17; Is., 65, 2 per la r. 18; Sal., 49, 8 per la r. 24. Inno 29 (XVI, 2-7). Ringraziamento a Dio che ha fatto conoscere al salmista, per mezzo del suo spirito santo, come i cieli e la terra siano pieni della sua gloria, e come abbia ingrandito l’eredità umana (rr. 2-5); il salmista gli sarà dunque riconoscente con la preghiera e l’adesione al patto, con il servizio per lui e con amore verso di lui (rr. 6-7). Inno 30 (XVI, 8-19). Lo spirito divino dato all’autore dalla bontà di Dio, lo fortifica davanti agli allettamenti (rr. 8-15); gli attributi essenziali di Dio sono benevolenza, misericordia, fedeltà, e sono rivolti verso quanti ritornano a lui, pentendosi e osservando la sua volontà fedelmente, perciò il salmista lo prega di mantenergli la sua benevolenza (rr. 16-19). Il testo è troppo frammentario per rilevare con certezza i contatti biblici. 11. con lo spirito…: si può osservare con il Carmignac, come qui e nella riga seguente sia espresso in modo chiaro e conciso il pensiero sulla così detta «giustificazione»: nei suoi eletti, Dio pone il suo spirito, che li rende graditi ai suoi occhi (cfr. anche il Sal., 51, 13). 19. … dal tuo servo: vale la pena osservare che almeno in due testi biblici che certo l’autore ben conosceva, si legge la stessa espressione: «Non distogliere…» ma in luogo di «dal tuo servo» hanno «dal tuo “messia”», cioè dal tuo consacrato: il salmista ha scartato accuratamente questa lettura non solo, evidentemente, perché non si stimava proprio il messia, ma anche perché, come si è già osservato, non pare si sia mai curato del messianismo in senso proprio (vedi l’ Introduzione). Inno 31 (XVII, 1-5). Quando verrà il giorno del giudizio, l’eletto non avrà la sorte dell’empio, perché Dio è colui che perdona peccati e trasgressioni; mentre bruceranno le fondamenta del mondo e il fuoco consumerà tutto, l’eletto seguiterà ad essere davanti a Dio, perché egli avrà allontanato da lui le iniquità e l’avrà reso partecipe di «tutta la gloria di Adamo». Distinguere le referenze bibliche è problematico a motivo della frammentarietà del testo. Deut., 29, 28 per la r. 9; Es., 34, 5 e segg. per le rr. 11-12: si osservi che è questo l’unico testo citato con il nome dell’autore, Mosè; Deut., 32, 22 e forse Sal.,

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102, 29 per le rr. 13-14. 15. gloria di Adamo (in ebr. kebôd ’ādām): la stessa espressione si legge in 1QS, IV, 23 e CD, III, 20; si può intendere «Adamo» come la persona di cui parla la Genesi, e allora l’eletto erediterebbe la gloria che aveva il primo uomo prima della colpa, secondo il testo ad es. di Eccli., 49, 16: «Sem, Set, Enoc sono stati glorificati, ma al di sopra di tutti i viventi fu glorificato Adamo»; oppure, come è molto spesso, quale semplice equivalente di «uomo» e intendere della gloria che l’eletto riceverà in forza della salvezza. In ogni modo la sua portata è escatologica. Un attento studio di B. Otzen ha rilevato i paralleli tra il testo della Regola della com. e la letteratura rabbinica giungendo alla conclusione che si tratta proprio della «gloria di Adamo» intesa cioè nel primo senso; anche qui lo stesso senso mi pare senz’altro più convincente (cfr. B. O TZEN, Some Texts-Problems in 1QS, in StTh, II, 1957, 96-98). Inno 32 (XVII, 17-25). L’autore ringrazia per tutti i favori spirituali: per la facoltà di parlare onde può lodars la giustizia e le gesta divine, può pregare e domandare perdono della sua ignoranza e delle azioni cattive (rr. 17-19); non si stanca mai di ricercare Dio, sempre giusto, e di pregarlo di eliminare gli empi; sa che la salvezza dipende da Dio, il quale sceglie l’uomo, gli dà la conoscenza, lo tiene lungi dal peccato, se occorre lo castiga e lo dirige verso i propri precetti, lo introduce tra quelli che ama, allontana da lui i cattivi, e distrugge in lui «lo spirito di carne» (rr. 20-25). L’inno ha tutta la forma di una confessione e preghiera di penitenza. L’inno è composto sopra tutto da espressioni incontrate più volte negli inni precedenti e facenti parte della terminologia qumranica. 22. delle tue correzioni: vedi 1QS, III, 1. 25. spirito di carne: la lettura si presta a qualche dubbio, ma è accolta dalla stragrande maggioranza degli studiosi (cfr. A. M. Habermann, E. Lohse, J. Maier, J. Carmignac, S. Holm-Nielsen ecc.); J. Licht legge «per distruggere ogni spirito di perversione» e H. Bardtke «giacché il tuo servo annunzia lo spirito», ma sono letture aberranti; si tratta qui come in X III, 16 dello spirito carnale sostanzialmente descritto da san Paolo in Rom., 8, 1-9. Inno 33 (XVII, 26 XVIII, 33). Dio versò il suo spirito sul salmista, purificandolo e prevenendolo così dal peccare (rr. 26-28); Dio è luce e al suo servo svelò i suoi misteri: egli determina tutto quanto accade sulla terra (XVIII, 1-6); l’autore chiede di essere sostenuto nel suo patto, e riconosce che Dio gli ha dato lingua e saggezza per annunziarlo agli altri membri della comunità e castigare le loro mancanze, dato che tutti sono di bassa origine, mortali (rr. 7-13); ma con questo suo messaggio l’autore apporta anche conforto e gioia agli aff litti: la sua facoltà di percepire il mondo divino, con i suoi occhi e le sue orecchie, la sua conoscenza, deriva esclusivamente da Dio (rr. 14-18); Dio ha gratificato il salmista dei suoi doni, di sua spontanea volontà e per la sua gloria, per gli stessi motivi, nonostante la sua origine mortale, lo chiamò nella comunità per trattenere dal male i suoi membri e salvarli così da un duro giudizio (rr. 19-25); anch’egli non è che «polvere», «una creatura d’argilla» e fu la rivelazione dei misteri di Dio che lo elevò, lo fece penitente e gli aprì le porte del patto, e così è nella condizione di potere stare vicino a Dio, lungi dal male, in una

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«luce perpetua» (rr. 26-32). Le reminiscenze bibliche sicure sono poche. Is., 60, 19-20 e Sal., 36, 10 per le rr. 13; Is., 61, 1 e segg. per le rr. 14-15 (vedi anche nel vangelo di Lc., 4, 18-19: l’unico testo di Isaia applicato a quanto pare al maestro di giustizia e a Gesù); Ez., 11, 19 e 36, 26 per le rr. 26-27. 27. patto umano: è l’unico testo in cui si legge questa espressione e, purtroppo manca il contesto per poterla comprendere. Th. H. Gaster completa così il testo: «Ecco che io considero tutti i patti fatti dagli uomini, ma non hanno alcun valore», riprendendo l’idea di 1QS, 5, 17-18. 14. messaggero…: come ha rilevato il Milik (DJD, III, p. 100), partendo dal frammento 3Q8 (framm. 1), si può ben leggere «messaggero» (o «angelo») di pace, come in Is., 33, 7 e nei Testamenti dei patriarchi (Dan., 6, 5; Asher, 6, 6; Ben., 6, 1). Cfr. però anche Ez., 23, 40. 23. esercito della conoscenza: l’espressione si legge solo qui; corrisponde probabilmente a «spiriti di conoscenza» (di III, 22-23) e a «esercito degli spiriti», cioè degli angeli.

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FRAMMENTI DI INNI 1.

[1] … santità che è nei cieli [2] … grande, ed egli è meraviglioso, ma essi non potranno [3] … ti ho conosciuto, ma essi non perverranno a conoscere tutti [4] … colui che ritorna alla sua polvere. Ed io, uomo di iniquità e avvolto [5] … colpevolezza dell’empietà. Ed io nei tempi determinati per la collera [6] … li esalterai di fronte ai miei flagelli, e per essere preservato [7] … tu mi hai insegnato queste cose, perché c’è speranza per l’uomo [8] … Ed io, creatura d’argilla, mi sono appoggiato [9] … verso di me. So che la verità [10] … indietro. Ed io nel mio tempo determinato resisterò [11] … nel posto nel quale mi hai messo perché [12] … l’uomo, e tu l’hai fatto ritornare, e in essi… 2.

[1-2] ………… [3] … e nella tua terra, tra i figli degli dèi e tra i figli… [4] … per lodare e per narrare tutta la tua gloria… Ed io che cosa sono? È dalla polvere, infatti, che fui tratto. Tu, [5] mio Dio, è per la tua gloria che hai fatto tutte queste cose, conforme all’abbondanza delle tue benevolenze, concedi l’osservanza della tua giustizia [6] … costantemente, fino alla liberazione. Gli interpreti della conoscenza accompagneranno tutti i miei passi e gli arbitri della verità. [7] Poiché, che cos’è la polvere sulle loro palme e la creatura di cenere sulla loro mano? Non esse, ma tu [8] … creatura d’argilla… del tuo beneplacito. Più delle pietre (preziose) mi hai esaminato [9] … e sulla polvere hai effuso il tuo spirito di santità [10] …nel fango… degli dèi… affinché siano in comunione con i figli dei cieli [11] …e senza il ritorno delle tenebre, perché… [12] …hai rivelato la luce per fare ritornare… [13] … hai effuso il tuo spirito santo per espiare la colpa 416

[14] …coloro che militano nel suo esercito e coloro che camminano… [15] …al tuo cospetto, poiché sono consolidati nella tua verità [16] … queste cose meravigliose le hai fatte per la tua gloria e dalla giustizia [17] …la perversione del carattere abominevole [18] … carattere abominevole. 3.

[1] …………… [2] … una via fu aperta… [3] … i sentieri della pace e per agire meravigliosamente verso la carne [4] …e i miei passi su quanti nascondono i suoi inganni e stendono le sue reti [5] … creatura di polvere, mi guarderò d’essere spezzato, e di mezzo alla cera… [6] …Ed io, creatura d’argilla e serbatoio di cenere, come potrò resistere davanti al vento dell’uragano? [7] … l’ha custodito secondo i misteri del suo beneplacito, poiché conosce… [8] …fino alla distruzione. Hanno celato inganno su inganno, le reti dell’iniquità… [9] … nella perversione. Ogni carattere negligente sarà annientato perché non… [10] …al niente e al nulla un carattere ingiusto, e opere negligenti… [11] … Io sono una creatura d’argilla… [12] …come si mostrerà forte per te? Tu, Dio delle conoscenze… [13] Tu li hai fatti per la tua gloria e nulla fu fatto senza di te… [14] … Io, creatura di polvere, grazie allo spirito che mi hai dato, so che… [15] …attaccheranno tutte le perversità e le negligenze, cesserà l’arroganza… [16] …le opere d’impurità saranno vittime di malattie, di condanne e di distruzione… [17] … a te il furore e la gelosia… 4.

[1-2] …………. [3] …alla sera e al mattino, allorché… 417

[4] … a causa dei flagelli dell’uomo e delle malattie… [5] … saranno di guardia al loro posto… [6] Tu minaccerai ogni avversario di corruzione… [7] … e tu hai aperto le mie orecchie perché… [8] … gli uomini del patto furono ingannati da essi ed entrarono… [9] … al tuo cospetto. Ed io fui spaventato dal tuo giudizio… [10] …chi sarà innocente davanti al tuo giudizio? E come potrei aprire… [11] …io nel giudizio? Colui che ritorna alla sua polvere, come… [12] … tu hai aperto il mio cuore alla tua intelligenza e hai aperto le mie orecchie… [13] …per appoggiarsi sulla tua bontà, e il mio cuore fu spaventato [14] …il mio cuore si fuse come cera a motivo della trasgressione e del peccato. [15] Benedetto sia tu, Dio delle conoscenze, che hai consolidato… [16] … capitò al tuo servo, a causa tua poiché so che… [17] Spererò nella tua benevolenza per tutta la mia esistenza e benedirò costantemente il tuo nome [18] …non mi abbandonare nel mio tempo determinato… [19] … la tua gloria e la tua bontà… 5.

[1] …………. [2] … li hai dispersi dal posto… [3] …con l’assemblea dei tuoi santi, nell’azione meravigliosa… [4] in eterno e gli spiriti d’empietà li farai abitare fuori… [5] e non esisteranno più; e hai posto un luogo… [6] gli spiriti di iniquità affinché siano oppressi dall’afflizione… [7] … per le generazioni eterne, e nell’orgoglio della empietà… [8] il loro lutto s’ingrandì fino allo sterminio, e davanti a tutte le creature… [9] le tue benevolenze per conoscere tutto nella tua gloria e per… [10] il giudizio della tua verità; e tu hai aperto l’orecchio di carne… [11] il tuo cuore e hai fatto comprendere alla carne il tempo determinato per la testimonianza… [12] e negli abitanti della terra, sulla terra e anche… [13] tenebre giudicherai per dichiarare giusto il giusto e colpevole il colpevole [14] senza essere disperso… la benedizione… 418

DAL ROTOLO DEI SALMI (11QPsa)

Questo straordinario rotolo di cuoio dei salmi fu scoperto da un beduino in quella che fu poi denominata (vedi Introduzione) grotta 11 e portato al Museo archeologico di Gerusalemme (Palestine Archaeological Museum in Jerusalem, Jordan) nei primi giorni del mese di febbraio del 1956, e da esso acquistato (cfr. RB, 63, 1956, 573-574); nel 1961 fu affidato al giovane studioso americano J. A. Sanders e si provvide a srotolarlo nello stesso Museo dal 10 al 20 novembre 1961. Con esemplare solerzia, nel dicembre del 1962 l’editore aveva già preparato l’editto princeps, che uscì poi nel 1965. Il rotolo, di un’ampiezza notevole, è ben conservato nella parte superiore, mentre è molto danneggiato per corrosione nella parte inferiore di tutte le colonne del testo; si constatò subito che dal rotolo s’erano distaccati almeno quattro frammenti, designati A, B, C, D, ai quali è ora da aggiungere un quinto, denominato E: nel giornale israeliano «Jerusalem Post» del 4, 1, 1966 Y. Yadin annunziò, infatti, di essere venuto in possesso di un rispettabile frammento di questo rotolo fin dal 7 ottobre 1960, pubblicato poi dallo stesso studioso in Textus del 1966. Si tratta dunque di un rotolo di considerevole estensione e che originariamente doveva essere molto più ampio: le colonne giunte sono 28, ognuna doveva avere circa 24 righe (ma per noi le più lunghe ne hanno 17); la scrittura è la caratteristica erodiana datata nella prima metà del I secolo d. C.

Contenuto. Tenuto conto del frammento di Yadin, il rotolo è un salterio con circa i due terzi di 38 salmi canonici, facenti parte cioè della nostra Bibbia, più una parte del canto del c. 51 dell’Ecclesiastico e altre composizioni letterarie nuove, tre delle quali erano già sostanzialmente note in greco (e in latino) o in siriaco. La parte del rotolo 11QPsa a noi giunta è dunque così composta: Frammenti: A, B, C1: Sal. 101, 1-8 e 102, 1-2: frammentari; C2: Sal. 102, 18-29 e Sal. 103, 1: frammentari; D: Sal. 109, 21-31; E: Sal. 118, 25-29; 104, 1-6 (E1); 104, 25-35; 147, 1-2 (E2); 147, 18-20; 105 419

[?], 1-11 (E3). Col. I, Sal. 105, 25-45 (framm.). Col. II, Sal. 146, 9-10 e 148, 1-12 (framm.). Col. III, Sal. 121, 1-8; 122, 1-9; 123, 1-2 (framm.). Col. IV, Sal. 124, 7-8; 125, 1-5; 126, 1-6; 127, 1 (framm.). Col. V, Sal. 128, 3-6; 129, 1-8; 130, 1-8; 131, 1 (framm.). Col. VI, Sal. 132, 8-18; 119, 1-6 (framm.). Col. VII, Sal. 119, 15-28 (framm.). Col. VIII, Sal. 119, 37-49. Col. IX, Sal. 119, 58-73. Col. X, Sal. 119, 82-96. Col. XI, Sal. 119, 105-120. Col. XII, Sal. 119, 128-142. Col. XIII, Sal. 119, 150-164. Col. XIV, Sal. 119, 171-176; 135, 1-9. Col. XV, Sal. 135, 17-21; 136, 1-16. Col. XVI, Sal. 136, 26b; 118, 1.15.16.8.9.29; 145, 1-7. Col. XVII, Sal. 145, 13-21. Col. XVIII, Sal. (nuovo): «Unite ai buoni le vostre anime». Col. XIX, Sal. (nuovo): «Poiché un verme non può lodarti». Col. XX, Sal. 139, 8-24; 137, 1. Col XXI, Sal. 137, 9; 138, 1-8; Eccli., 51, 13-20: «Io ero giovane prima di errare». Col. XXII, Eccli., 51, 30; Sal. (nuovo): «Mi ricordo di te per benedirti, Sion»; Sal. 93, 1-3. Col. XXIII, Sal. 141, 5-10; 133, 1-3; 144, 1-7. Col. XXIV, Sal. 144, 15; Sal. (nuovo): «Jahweh, ti invoco». Col. XXV, Sal. 142, 4-8; 143, 1-8. Col. XXVI, Sal. 149, 7-9; 150, 1-6; Sal. (nuovo): «Grande e santo Jahweh». Col. XXVII, 2 Sam., 23, 7; Sal. (nuovo): «David figlio di Jesse»; Sal. 140, 1-5. Col. XXVIII, Sal. 134, 1-3; Sal. (nuovo): è«Alleluia di David». L’inserimento del frammento di Yadin (o 11QPsa framm. E) dopo i quattro frammenti pubblicati dal Sanders non crea alcuna difficoltà perché nella col. I segue il Sal 105 in esso iniziato; si osserva tuttavia che il Sal. 118 420

col quale inizia il frammento di Yadin nel rotolo era diviso in due parti, dato che un tratto dello stesso salmo si legge nella col. XVI. I dati che più colpiscono in questo rotolo e ne fanno uno dei più importanti tra quelli scoperti a Qumrân sono: il notevole numero di salmi canonici; l’ordine nel quale sono disposti, assai diverso da quello del Testo Masoretico e tradizionale della Bibbia: la presenza di testi non facenti parte del canone biblico ebraico e cristiano; il fatto che quattro di questi testi fossero già noti da fonti non qumraniane Il testo dei salmi canonici non è molto diverso da quello dei masoreti (si veda in particolare lo studio di J. Ouellette); a parte quelle di ortografia e altre non chiaramente individuabili per il lettore comune, le principali varianti sono: il nome divino è scritto sempre in caratteri paleoebraici; il Sal. 119 è scritto a stichi con una riga bianca tra le strofe; nel Sal. 130, 5-6 in luogo della lezione del TM: «Spero in Jahweh, spera l’anima mia, aspetto pazientemente la sua parola; l’anima mia (è rivolta) ad Adonai più dei vigilanti verso l’aurora, dei vigilanti verso l’aurora», si legge (col. V, 13-14): «Spero in Jahweh… l’anima mia aspetta pazientemente Adonai più di quanto i vigilanti (aspettino pazientemente) l’aurora, i vigilanti dell’aurora»; alla fine del versetto 6 del Sal. 135 (col. XIV, 13-14) si legge: «Nessuno è come Jah, nessuno è come Jahweh, e nessuno agisce comeil re Dio»; al termine del Sal. 135 (col. XV, 4) si legge: «Ti benedica Jahweh da Sion» in luogo del masoretico: «Sia benedetto Jahweh da Sion»; nel Sal. 136, 7 (col. XV, 10-11) oltre al testo comune al TM vi è ancora «Con il sole e la luna, perché eterna è la sua misericordia»; al termine del Sal. 133, 3b in luogo del masoretico «… la vita in eterno» si legge (col. XXIII, 10-11): «In eterno sia pace su Israele»; al termine del Sal. 149, 9 dopo le parole «… evento di gloria per tutti i suoi pii, Alleluia» si legge (col. XXVI, 3): «… evento di gloria per tutti i suoi pii, per i figli di Israele, suo popolo santo. Alleluia»; a ogni versetto del Sal. 145 (col. XVII) è ripetuto il ritornello: «Benedetto Jahweh e benedetto il suo nome in eterno e per sempre»; nel Sal. 146 tra il v. 9 e il v. 10 vi è una aggiunta, rispetto al TM, che purtroppo a causa dello stato frammentario del rotolo non è leggibile che parzialmente (col. II, 2-4): «Di Jahweh è tutta la terra… allorché fa conoscere a tutti le sue opere… le sue gesta». Queste e altre varianti di minore rilievo dimostrano che il testo di almeno alcuni salmi del Salterio non era ancora definito, non aveva ancora 421

una forma ufficiale fissa, e che quello che fu poi «canonizzato» e passò come ufficiale nella storia, non era perfettamente identico a quello in uso a Qumrân. È vero che qualcuna delle varianti qumraniane può avere avuto una semplice origine liturgica, ma a parte il fatto che praticamente tutto il salterio ha origine liturgica (e quindi non si spiega nulla attribuendo le varianti all’uso liturgico), è proprio la costatazione di questo influsso nella genesi del testo che è da valutare attentamente anche perché in futuro non solo potrà giustificare alcune proposte avanzate dai critici sulla forma di questo o quel salmo, ma permetterà di avanzarne altre e di valutare meglio di quanto sia stato fatto finora la versione greca dei Settanta; in linea generale questo fenomeno attesta oltretutto anche la vitalità di un testo di uso quotidiano e meditazione liturgica. Fatto questo, che non è più lecito trascurare trattando della storia del testo e della sua canonizzazione. I testi canonici del rotolo offrono dunque nuovo e prezioso materiale alla critica testuale dei salmi e alla storia del canone biblico. Che a Qumrân l’ordine dei salmi non concordasse con quello stabilito e tramandato dai masoreti era già noto (cfr. RB, 63, 1956, 59 e ivi 64, 1957, 245-247) da almeno due manoscritti della grotta 4, ma il nostro rotolo ne dà una attestazione più vasta e sicura e pone un problema che varrà la pena di approfondire e certo non sarà trascurato dagli esegeti, sebbene a tutti sia ben noto che l’ordine tradizionale è relativamente tardivo e non manca di artificiosità. La presenza di salmi non canonici in questo rotolo, che tutto fa ritenere costituisca un salterio, pone chiaramente per la prima volta, dopo le scoperte di Qumrân, nel vivo della storia del canone; un esempio si aveva già in 4Q175, 21-30, ma qui il fatto è assai più chiaro e tale da togliere la possibilità di dubbi: la storia complessa e praticamente sconosciuta (per quell’età così remota) del processo di canonizzazione dei libri della Bibbia rivela qui un aspetto, almeno, della sua problematica senza offrire elementi sicuri per la soluzione. Può essere che qui l’ordine sia dovuto alla natura liturgica della collezione (ma si veda quanto detto sopra) e che si possa fare un confronto con il breviario latino o altri libri di preghiere ebraiche e cristiane ove troviamo salmi, testi storici e composizioni canoniche tratte dalla Bibbia affiancati a testi di origine ecclesiastica o comunque estrabiblica1, ma che dire quando il testo non canonico è attribuito a David (come ad es. nella col. XXVIII, 3)? Non v’è dubbio d’altronde che il «canone biblico» di Qumrân fosse più ampio e comunque non perfettamente uguale a quello divenuto poi ufficiale. Interessante la presenza di una parte, la così detta terza appendice, del 422

molto travagliato ultimo capitolo dell’Ecclesiastico (libro deuterocanonico per i cattolici e gli ortodossi e non canonico e cioè «apocrifo» per i protestanti); si sapeva che a Qumrân era letto questo libro e il fatto può destare meno stupore2, ma pone alcuni quesiti ai quali non si può per ora rispondere se non approssimativamente: la sua «canonicità» per gli esseni, il suo autore (David o il Siracide?), lo stato originale del testo (vedi appresso pp. 482 e segg.). Notevole stupore suscitò invece la scoperta di ben tre dei cinque salmi non canonici attestati finora da circa dieci manoscritti siriaci e uno (col. XXVIII, 3-14) anche dalla versione greca (LXX) e dall’antica versione latina della Bibbia3. La storia critica più recente di questi cinque salmi ebbe il seguente sviluppo: nel 1930 M. Noth (vedi Bibl.) pubblicò un ottimo e importante studio sui cinque salmi siriaci, ne fece una traduzione tedesca, intuì che presupponevano un originale ebraico, da lui ricostruito per il II, il III, e il IV (i primi due corrispondono, nel nostro rotolo, alle colonne XVIII e XXIV), pur astenendosi di proporre una datazione e l’attribuzione all’una o all’altra delle correnti ebraiche. Per quanto mi consta, il primo studioso che intuì e propose un’origine essena di questi salmi (prima, naturalmente che fosse pubblicato il rotolo IIQPsa) fu il qumranista M. Delcor nel 1958 e poi in studi successivi (vedi Bibl.); A. Dupont-Sommer afferma di avere riconosciuto il carattere esseno dei cinque salmi siriaci fin dal 1952 e di avere invitato M. Philonenko a studiarli da questo punto di vista4; nel 1959 apparve, infatti lo studio del Philonenko (vedi Bibl.). La questione è aperta per i salmi IV e V in quanto tra i manoscritti di Qumrân non sono stati ancora pubblicati (1969) testi a essi corrispondenti, mentre è sicura l’origine essena per gli altri tre (cfr. le colonne XVIII, XXIV, XXVIII). Come, quando e da chi, essi siano stati diffusi e assunti poi nella versione greca (LXX) e nella siriaca è molto discusso data la scarsità di dati sicuri in nostro possesso. Sarebbe però esagerato e comunque al di là di quanto si può ragionevolmente provare sostenere che questi salmi furono tutti composti dagli esseni; ritengo anzi che una formulazione del genere si debba mutare, in quanto è testimoniato l’uso di essi presso gli esseni, ma non vi si scorgono (se non vagamente) formulazioni e idee tipiche degli esseni di Qumrân; è sufficiente al riguardo un confronto ad es. con gli Inni di Qumrân. Tanto meno sarà lecito attribuire (come fa il Philonenko) questo o quel salmo al maestro di giustizia: tutto ciò non può essere che ipotetico e il suo fondamento è pressoché nullo. Tutto fa invece supporre che i qumraniani li ritenessero di origine davidica o almeno attribuibili in qualche 423

modo al re salmista. Intanto il noto qumranista domenicano J. van der Ploeg, offrendo qualche anticipazione su testi frammentari provenienti dalla stessa grotta 11 (e dei quali curerà l’edizione a cura dell’Accademia Reale Olandese), ha contribuito notevolmente a inquadrare nella sua cornice naturale anche il nostro rotolo. Sei piccoli frammenti sono così ricomposti: due riproducono il testo: «Poiché un verme non può lodarti» (col. XIX del Sanders); uno contiene, nell’ordine, resti dei salmi 133 e 141; un quarto ha un framm. del Sal. 133 e si inserisce per un lato nel precedente e così il quinto che contiene un resto dei Sal. 133 e 144 e si inserisce nel lato opposto: da questi ultimi tre frammenti (che senza dubbio alcuno si integrano) si ha una parte della colonna XXIII del Sanders; un ultimo framm. testimonia una composizione antologica come quella della col. XV del Sanders. Nell’ambito del testo testimoniato da questi frammenti le varianti testuali sono le stesse di quelle del nostro rotolo. Questi resti hanno un’importanza considerevole in quanto testimoni di un’altra raccolta dello stesso genere di quella del nostro rotolo. Questa costatazione prova che l’ordine dei salmi del rotolo non è casuale, che la presenza di salmi non facenti parte del canone biblico ufficiale non è arbitraria, come non sono dovute all’arbitrio del copista le varianti. «La collezione è esistita tale e quale; fu fatta coscientemente ed è stata copiata e ricopiata»5. La designazione 11QPsa è dovuta appunto a questa costatazione che portò a indicare invece i sei framm. come 11QPsb. Ancora dalla grotta 11 proviene un piccolo rotolo dalla «forma di un piccolo sigaro» che sottolinea l’importanza del nostro rotolo e accentua per noi qualche problema (unione di salmi non canonici con uno canonico, storia del testo e del canone) già rilevato precedentemente. Il rotolo, lungo 73 cm. e largo da 8 a 8,5 cm., a motivo dei danni subiti ha una forma a zigzag, contiene dei salmi non canonici e termina con il Sal. 91 in una recensione che si discosta piuttosto notevolmente dal testo dei masoreti; i salmi non canonici finora, 1969, non sono stati ancora pubblicati, ma pare certo che almeno uno è attribuito a David. Il piccolo rotolo designato 11QPsAp3 sarà anch’esso edito da J. van der Ploeg (vedi Bibl., Le Psaume XCI…, in RB, 72, 1965). Nella presentazione del rotolo riferisco sempre il contesto nel quale si trovano i salmi non canonici, gli unici riportati, e seguo l’ordine delle colonne nelle quali si trovano, non quello piuttosto arbitrario dell’editore che li dà dopo i salmi canonici nel seguente ordine: col. XXVIII, XVIII, XXIV, XIX, XXI, XXII, XXVI, XXVII; ha messo cioè prima i tre salmi che hanno il corrispondente siriaco. 424

1. Come propone, sia pure ipoteticamente, VAN D ER PLOEG, art. cit. in RB, 72, 1965, 216. 2. Cfr. il frammento Eccli., 6, 20-31 di 2Q18 identificato da M. BAILLET: cfr. in Discoveries in the Judaean Desert. III. Les «petites grottes» de Qumrân, Oxford, 1962, pp. 75-77 e per il frammento scoperto a Masada: Y. YADIN, The Ben Sira Scroll from Masada, Jerusalem, 1965. Ulteriore bibliografia a p. 482. 3. Vedi A SSEMANI, Bibliothecae Apostolicae Vaticanae Codicum Manuscriptorum Catalogus, p. I., t. III, Roma, 1759, 385-386; List of Old Testament Peshitta Manuscripts [Preliminary Issue], edited by the Peshitta Institute Leiden University, Leiden, 1961, 113; H. S CHNEIDER, Biblische Oden im Syrohexaplarischen Psalter, in Bibl., 40, 1959, 202205. 4. Les écrits esséniens découverts près de la Mer Morte, 2 e édit., Paris, 1960, p. 347, n. 2. 5. J. VAN DER PLOEG, Fragments d’un manuscrit…, p. 412.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

1. Pubblicazione del testo ebraico.

J. A. SANDERS, The Scroll of Psalms (11QPs) from Cave 11. A Preliminary Report, in BASOR, 165, 1962, 11-15. ID., Ps. 151 in 11QPss, in ZAW, 75, 1963, 73-85. ID., Two non-canonical Psalms in 11QPsa, in ZAW, 76, 1964, 57-74. ID., Discoveries in the Judaean Desert of Jordan. IV. The Psalms Scroll of Qumrân Cave 11 (11QPsa), Oxford, 1965. Per il Sanders vedi anche più avanti. Y. YADIN, vedi appresso. 2. Traduzioni, commenti, studi particolari.

P. AUFFRET, Structure littéraire et interprétation du Psaume 755 de la Grotte XI de Qumrân, in RQ, 35, 1977, 163-188; e ivi, 36, 1978, 513-544. ID., Structure littéraire de l’Hymne à Sion de 11QPsa XXIII, in RQ, 38, 1980, 203-212. M. BAILLET, Psaumes, Hymnes, Cantiques et Prières dans les manuscrits de Qumrân, in Le Psautier. Ses origines, ses problèmes littétaires, son influence, Louvain, 1962, 389-405. W. H. BROWNLEE, The 11Q Counterpart to Psalm 151, 1-5, in RQ, 6, 1963, 379387. ID., The Significance of «David’s Compositions», in RQ, 9, 1966, 569-574. J. CARMIGNAC, La forme poétique du Psaume 151 de la grotte 11, in RQ, 6, 1963, 371, 378. ID., Précisions sur la forme poétique du Psaume 151, in RQ, 8, 1965, 249-252. F. M. CROSS, David, Orpheus, and Psalm 151, 3-4, in BASOR, 231, 1978, 69 e 426

segg. M. DELCOR, Cinq nouveaux psaumes esseniens?, in RQ, 1, 1958, 85-102. ID., Les Hymnes de Qumrân (Hodayot), Paris, 1962, pp. 299-319 (con iltesto siriaco dei cinque salmi). ID., Zum Psalter von Qumrân, in BZ, 10, 1966, 15-29. A. DUPONT-SOMMER, Le Psaume CLI dans 11 QPsa et le problème de son origine essénienne, in Semitica, 14, 1964, 25-62. ID., Notes Qoumraniennes, in Semitica, 17, 1965, 71-78. M. GOSHEN-GOTTSTEIN, The Psalms Scroll (11QPsa): A Problem of Canon and Text, in Textus, 5, 1966, 22-33. A. HURVITZ, Observations on the Language of the Third Apocryphal Psalm from Qumrân, in RQ, 8, 1965, 225-232. C. E. L’HEUREUX, The Biblical sources of the «Apostrophe to Zion», in CBQ, 29, 1967, 60-74 (con testo ebraico). M. NOTH, Die fünf syrischen überlieferten apocryphen Psalmen, in ZAW,48, 1930, 1-23. J. OUELLETTE, Variantes qumrâniennes du livre des Psaumes, in RQ, 12, 1969, 105-123. M. PHILONENKO, L’origine essénienne des cinq psaumes syriaques de David, in Semitica, 9, 1959, 35-48. ID., Remarques sur un hymne essénien de caractère gnostique, in Semitica, 11, 1961, 43-54. I. RABINOWITZ, The Alleged Orphism of 11QPss Col. 2.8, 3-12, in ZAW, 76, 1964, 193-200. J. A. SANDERS, The Dead Sea Psalms Scroll, Ithaca, 1967: con il testo ebraico di tutti i salmi del rotolo comprese le tre colonne frammentarie del framm. E. H. SCHNEIDER, Biblische Oden im syrohexaplarischen Psalter, in Bibl., 40, 1959, 202-205. P. W. SKEHAN, The Apocryphal Psalm 151, in CBQ, 25, 1963, 407-409. ID., A Psalm Manuscript from Qumrân, in CBQ, 26, 1964, 313-322. ID., A Broken Acrostic and Psalm 9, in CBQ, 27, 1965, 1-5. ID., Again the Syriac Apocryphal Psalms, in CBQ, 38, 1976, 143-158. J. STRUGNELL, More Psalms of «David», in CBQ, 27, 1965, 207-216. J. VAN DER PLOEG, Le Psaume XCI dans une recension de Qumrân, inRB, 72, 1965, 210-217. ID., Les manuscrits du Desert de Juda, Publications récentes importantes, in 427

BO, 23, 1966, 133-136. ID., Fragments d’un manuscrit de Psaumes de Qumrân (11QPsb), in RB,75, 1968, 408-413. Y. YADIN, Another fragment (E) of the Psalms Scroll from Qumrân Cave 11 (11QPsa), in Textus, 5, 1966, 1-10. Per il Salterio premasoretico di Qumrân in generale oltre al citato articolo di J. OUELLETTE si veda la sintesi, anche bibliografica, di J. A. SANDERS io The Dead Sea Psalms Scroll, pp. 143-153? e dello stesso qumranista l’art, su CBQ, 27, 1965, 114-123.

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Unite ai buoni le vostre anime XVIII [1] Unite ai buoni le vostre anime, con i perfetti glorificate l’Altissimo. Unitevi insieme [2] per fare conoscere la sua salvezza, non siate negligenti nel far conoscere la sua fortezza, e la sua maestà [3] a tutti i semplici. Poiché è per fare conoscere la gloria di Jahweh che è data la sapienza, è per narrare [4] la moltitudine delle sue opere, che è fatta conoscere ad Adamo: per far conoscere ai semplici la sua fortezza, [5] per fare comprendere la sua grandezza agli stolti di cuore a coloro che sono lungi dai suoi usci, [6] a coloro che vanno errando dai suoi ingressi, [7-8] poiché l’Altissimo, proprio lui, è il padrone [9] di Giacobbe e la sua maestà è su tutte le sue opere. E l’Adamo che glorifica l’Altissimo [10] è gradito come chi presenta un’offerta incruenta, come chi offre capri o tori [11] come chi ingrassa l’altare con una moltitudine di olocausti, come chi offre un profumo soave dalla mano [12] dei giusti. Dagli usci dei giusti fu udita la di lei voce, dall’assembramento dei pii [13] il di lei canto. Quando mangiano a sazietà, di lei si parla e quando bevono, in fratellanza, [14] insieme, la loro meditazione è sulla legge dell’Altissimo e le loro parole sono dirette a far conoscere la sua fortezza. [15] Quanto è lungi dagli iniqui la di lei parola, e da tutti gli empi, la di lei conoscenza! Ecco, [16] gli occhi di Jahweh sono clementi verso i buoni, e su quelli che lo lodano egli moltiplica la sua benevolenza [17] e dal tempo maligno libererà le loro anime. Benedite Jahweh che redime gli umili dalla mano degli estranei [18] e libera i perfetti dalla mano degli empi, che fa sorgere un corno da Giacobbe e un giudice dei popoli [19] da Israele! 429

Egli ha teso la sua tenda in Sion e dimora per sempre in Gerusalemme. Poiché un verme non può lodarti

XIX [1] Poiché un verme non può lodarti, né un vermiciattolo può narrare la tua benevolenza. [2] Chi vive, chi vive ti loda! Tutti quelli dal piede vacillante ti loderanno allorché farai conoscere [3] loro la tua benevolenza e insegnerai loro la tua giustizia. Poiché nella tua mano c’è l’anima d’ogni [4] vivente, sei tu che hai dato il respiro a ogni carne. Agisci con noi, Jahweh, [5] secondo la tua bontà, secondo l’abbondanza delle tue misericordie e secondo l’abbondanza dei tuoi atti di giustizia. Ha ascoltato [6] Jahweh la voce di quanti amano il suo nome e non ha distolto da loro la sua benevolenza. [7] Sia benedetto Jahweh che compie atti di giustizia, che corona i suoi [8] pii con benevolenza e misericordia. La mia anima grida lodando il tuo nome, con ringraziamenti gioiosi [9] le tue benevolenze: alla proclamazione della tua fedeltà e alla tua lode non c’è fine. Fui prossimo alla morte [10] a causa dei miei peccati e delle mie iniquità che mi avevano venduto allo Sheôl,

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Rotolo dei salmi (11Q Ps a), coll. XVIII-X IX. A destra la col. XVIII, con il salmo Unite ai buoni le vostre anime; notare come il cattivo stato della pergamena abbia indotto l’amanuense a saltare lo spazio di due righe. A sinistra la col. X IX, con il salmo Poiché un verme non può lodarti. Osservare il nome della divinità, il tetragramma sacro, scritto in caratteri paleoebraici. (Da J. A. S ANDERS, Discoveries in the Judaean Desert, IV. The Psalms Scroll of Qumran Cave II [11Q Psa] Oxford, At the Clarendon Press, 1965, Pl. X II).

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Jahweh mi liberò [11] secondo la moltitudine delle sue misericordie e secondo l’abbondanza dei suoi atti di giustizia. Certo ch’io amo [12] il tuo nome e mi sono rifugiato alla tua ombra! Nel ricordo della tua potenza il mio cuore è coraggioso, [13] nelle tue misericordie io mi affido. Perdona, Jahweh, il mio peccato [14] e purificami dalla mia iniquità. Concedimi uno spirito di fede e conoscenza, e io non sia disonorato [15] nella rovina, non mi domini satana, né uno spirito immondo, tormento e inclinazione [16] maligna non si impossessino delle mie ossa. Poiché tu, Jahweh, sei la mia lode e in te spero [17] ogni giorno. Gioiscano con me i miei fratelli e la casa di mio padre, stupiti per il tuo favore [18] … … …. Gioirò in te per sempre. Io ero giovane prima di errare

XXI [1] Io ero giovane prima di errare, quando la desiderai. [2] Venne a me nella sua bellezza e fino alle sue profondità l’indagai. [3] Anche se il fiore si riduce quando l’uva era matura, questa rallegra il cuore. [4] Il mio piede calcai nella dolcezza poiché la conobbi fin dalla mia giovinezza. [5] Tesi alquanto il mio orecchio e grande fu il vantaggio che trovai. [6] Fu per me una balia al mio maestro diedi la mia virilità. [7] Mi prefissi di essere allegro fui ardente nel piacere e non desistevo. 432

[8] Per essa infiammai la mia persona, e non distolsi il mio volto. [9] Per essa agitai la mia persona e non vacillai sulle sue altezze. [10] Aprii la mia mano… e contemplai la sua nudità. Purificai le palme delle mani … … … …. XXII [1a] … la vostra mercede a suo tempo. Mi ricordo di te per benedirti, Sion!

XXII [1b] Mi ricordo di te per benedirti, Sion, con tutta la mia forza, [2] io ti ho amato! Giunga la pace [3] e l’attesa tua salvezza! Generazioni e generazioni abiteranno in te, le generazioni dei pii [4] saranno il tuo splendore: quanti anelano il giorno della tua salvezza, si rallegreranno nell’abbondanza della tua gloria. Dalla pienezza [5] della tua gloria saran nutriti e nelle tue splendide piazze saltelleranno. Ricorda le benevolenze [6] dei tuoi profeti e nelle azioni dei tuoi pii ti glorificherai. Elimina di mezzo a te la violenza, la falsità [7] e l’ingiustizia siano da te recisi. I tuoi figli gioiranno dentro di te e i tuoi cari saranno uniti a te: [8] quanto hanno sperato nella tua salvezza e hanno preso lutto per te i tuoi probi! Non perisca, Sion, la tua speranza, [9] né sia dimenticata la tua attesa. Qual giusto mai è perito, o chi mai si è salvato [10] nella sua ingiustizia? Adamo è esaminato in base alla sua via, ognuno è retribuito in base alle sue opere. Intorno a te, Sion, [11] sono stati recisi i tuoi avversari sono stati dispersi tutti i tuoi nemici. Gradita (a Dio) è la lode che viene da te, Sion, [12] sale a tutto il mondo. 433

Molte sono le volte ch’io ti ricordo per benedirti, con tutto il mio cuore ti benedico: [13] possa tu conseguire giustizia eterna, e ricevere le benedizioni degli illustri; accogli una visione [14] pronunciata su di te, e i sogni che i profeti ti hanno investigato; sorgi e allargati, Sion, [15] loda l’Altissimo, tuo salvatore! la mia anima gioirà nella tua gloria. Jahweh, t’invoco

XXIV [1] Jahweh, ti invoco, ascoltami, ti prego ! Stendo le mie palme [2] verso la tua santa dimora, tendi il tuo orecchio ed esaudisci la mia domanda, la mia petizione [3] non ricusarmi! Edifica la mia anima e non distruggerla non sia denudata davanti [4] agli empi. Quelli che retribuiscono il male allontana da me, giudice di verità! Jahweh [5] non giudicarmi secondo i miei peccati, perché nessun vivente è giusto al tuo cospetto. [6] Istruiscimi, Jahweh, nella tua legge e insegnami i tuoi giudizi. [7] Molti ascolteranno così le tue opere e le nazioni loderanno la tua gloria. [8] Ricordati di me, non dimenticarmi, e non m’introdurre in situazioni troppo difficili per me. [9] Getta lungi da me i peccati della mia giovinezza e le mie trasgressioni non siano ricordate contro di me. [10] Purificami, Jahweh, dalla lebbra maligna e più non ritorni su di me, fà seccare [11] in me le sue radici e non fioriscano in me le sue foglie. Tu sei gloria, Jahweh, [12] per questo la mia domanda è esaudita al tuo cospetto. 434

A chi potrei innalzare grida d’aiuto, e me lo conceda? [13] I figli di Adamo? Che cosa moltiplicherà il loro potere? La mia fiducia è davanti a te, Jahweh. [14] Invocai Jahweh, e mi rispose, e guarì il mio cuore spezzato. [15] Sonnecchiai e mi addormentai sognai e mi svegliai. Mi hai sostenuto, Jahweh, allorché il mio cuore era afflitto, invocai Jahweh, mio salvatore.

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Grande e santo è Jahweh

XXVI [1] Grande e santo è Jahweh, santissimo di generazione in generazione. Davanti a lui [2] cammina la maestà, dietro di lui lo scrosciare di molte acque. Benevolenza e verità circondano il suo cospetto, verità, [3] giudizio e giustizia sono il fondamento del suo trono. Separando la luce dalle dense tenebre stabilì l’aurora, con la scienza [4] del suo cuore. Allorché tutti gli angeli videro, giubilarono perché fece loro vedere ciò che ignoravano: [5] coronando le colline di frutti, di un buon cibo per ogni vivente. Sia benedetto colui che fa [6] la terra con la sua forza, colui che rende stabile il mondo con la sua sapienza; con la sua intelligenza ha teso i cieli e ha fatto uscire [7] il vento dai suoi magazzini, produsse i lampi per la pioggia e fece salire le nubi dall’estremità della terra. David figlio di lesse

XXVII [1] David figlio di Iesse era sapiente, era una luce come la luce del sole, un letterato [2] sottile e perfetto in tutte le sue vie davanti a Dio e agli uomini: [3] e Jahweh gli diede uno spirito sottile e illuminato. Scrisse: salmi [4] tremila seicento; canti da cantare davanti all’altare per l’olocausto [5] perpetuo in ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno, trecentosessantaquattro; [6] per l’offerta dei sabati, cinquantadue canti; per l’offerta delle nuove [7] lune per tutti i giorni delle assemblee e per il giorno dell’espiazione, trenta canti: [8] tutti i canti da lui dettati sono, così, quattrocentoquarantasei; e i canti [9] da accompagnare con strumenti per gli afflitti, quattro. Il totale è di quattromilacinquanta. [10] Tutte queste cose egli le dettò con il dono profetico che gli era stato dato dal cospetto dell’Altissimo.

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Alleluia di David XXVIII [1] Alleluia di David figlio di Iesse. Ero il più piccolo dei miei fratelli e il più giovane dei figli di mio padre, egli mi stabilì [2] pastore del suo gregge e capo dei suoi capretti. Le mie mani fecero uno zufolo e le mie dita una chitarra, [3] e resi gloria a Jahweh. Nel mio animo pensai: le montagne non gli rendono testimonianza [4] e le colline non lo proclamano! Gli alberi trasportarono in alto le mie parole e il gregge le mie opere. [5] Chi, infatti, proclamerà e chi racconterà, chi narrerà le mie opere? Il padrone dell’universo ha visto il Dio [6] dell’universo, proprio lui, ha ascoltato, proprio lui ha udito! Ha mandato il suo profeta per ungermi, Samuele [7] per farmi grande: incontro a lui uscirono i miei fratelli, belli nell’incedere e belli d’aspetto, alta la loro statura, [8] bella la loro capigliatura. Non li scelse Jahweh Elohîm, ma ha mandato a prendermi [9] di dietro al gregge e mi unse con l’olio santo, mi ha stabilito preposto sul suo popolo e capo tra i figli [10] del suo patto. [11] Inizio delle gesta di David, dopo che lo unse il profeta di Elohîm. Allora vidi un Filisteo [12] che pronunciava sfide dalle file dei Filistei.

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Col. XVIII, 1-19 [salmo siriaco II] (tutta la colonna). Si direbbe che questo salmo, come propone l’editore, risalga al periodo preesseno, all’epoca cioè della separazione del gruppo dissidente dagli asidei (vedi 36 e seg.). Nel salmo il poeta presenta tre gruppi di persone: il primo (formato dai semplici, dagli stolti) è quello al quale è rivolto l’invito all’unione in un’assemblea o comunità; il secondo è formato dai molti, dai giusti, dai perfetti, dai buoni, dai poveri, dai puri, ecc.; il terzo è quello degli iniqui, degli empi, dei nemici dei buoni. Una base comune, la mancanza di saggezza, associa il primo e il terzo gruppo, ma il terzo non è oggetto dell’invito come il primo, bensì del giudizio divino (rr. 17 b-18). L’editore fa precedere il salmo dalle righe iniziali del corrispondente testo siriaco (secondo la ricostruzione del Noth) andate smarrite, verosimilmente nella parte finale della frammentaria colonna precedente; esse suonano: «A gran voce glorificate Dio, nell’assembramento dei molti proclamate la sua maestà, nella moltitudine dei giusti glorificate il suo nome, narrate con fedeltà le sue grandezze». Se si tiene conto di queste prime righe, è impressionante la serie di imperativi iniziali: «glorificate… proclamate… glorificate… narrate… unitevi… non siate negligenti»; il cui scopo è abbondantemente specificato con «per glorificare… per fare conoscere… per fare conoscere… per narrare… per fare conoscere… per fare comprendere la “salvezza”, la “fortezza”, la “maestà”, la “gloria”, la “moltitudine delle opere”, la “grandezza” di Dio»; al di là della ricca e insolita terminologia con la quale sono designati i buoni (buoni, giusti, perfetti, pii [in ebr. ḥasîdîm ], umili, quelli che lo lodano, ecc.), si notano alcune particolarità degne di nota: il plur. ebr. ṭôbîm,«buoni», non si legge altrove negli scritti di Qumrân (è attestato però nella Bibbia: cfr. Sal., 125, 4; Prov., 2, 20 ecc.), il termine ebr. tradotto con «glorificare» (pā’ar) e sostantivo «maestà», da esso derivato, rarissimi in altri scritti di Qumrân (finora si leggono solo in 4Q160, framm. 3-4 e 4Q179, 1, 6) qui ricorrono ben otto volte; l’espressione «usci dei giusti» (r. 12) non ha alcun parallelo, almeno per ora, e così l’espressione tradotta «unitevi insieme» (r. 1). Un’altra particolarità del presente testo è la personificazione della sapienza (rr. 56, 12 b-15): nei manoscritti di Qumrân non manca certo il vocabolario dei saggi di Israele, o sapienziale, ma questo è il più chiaro esempio di personificazione e, senza alcun dubbio, non solo avvicina il nostro salmo a testi come Prov., cc. 8-9; Eccli., 1, 1-20, c. 24; Sap., cc. 7-9, ma questi ne sono il naturale contesto per la sua comprensione. Tenendo conto anche del testo siriaco, nel salmo si possono scorgere cinque strofe che espongono successivamente l’invito all’unione, il motivo del raduno, la sapienza tra i suoi fedeli, la benevolenza di Dio, e l’intervento liberatore dalla mano degli empi. A causa del cattivo stato del rotolo le ultime righe, leggibili solo parzialmente, sono state ricostruite sul testo siriaco, secondo l’edizione del Noth. 1. unitevi insieme: o «unitevi in comunità», «associatevi in assemblea», espressione che potrebbe riferirsi a una vera e propria assemblea liturgica, non necessariamente

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identificabile con quella degli esseni di Qumrân. 4. Adamo: cioè «uomo». 4-6. le sue opere… la sua fortezza… la sua grandezza… suoi usci… suoi ingressi…: il pronome si riferisce alla sapienza; così è ancora nelle rr. 12-15. Dopo la r. 6 la condizione poco buona del cuoio ha obbligato l’amanuense a saltare lo spazio di due righe: lo spazio vuoto è dunque puramente accidentale. 9 b-14. Queste righe, ove il poeta assimila chi coltiva la sapienza («la legge dell’Altissimo») al fedele che offre sacrifici — compresi quelli che comportavano la partecipazione del fedele ai conviti sacri — potrebbero fare pensare ai conviti comunitari nei quali si pregava, si leggeva e meditava la legge mentre si mangiava e beveva (come propone il Sanders); ma proprio la forma e il carattere sapienzale di tutto il testo dissuadono da una simile interpretazione. È noto infatti che tanto la sapienza quanto la stoltezza sono presentate, nel libro dei Proverbi, come due donne che invitano a casa propria: «La sapienza… ha ammazzato animali grassi, ha versato il vino e ha imbandito la mensa… Venite, mangiate il mio pane e bevete il mio vino…» (Prov., 9, 1-5); «La follia… sta seduta alla porta di casa sua… per invitare i passanti… Le acque furtive sono dolci e il pane mangiato di nascosto è il più saporito…» (Prov., 9, 13-17). Col. XIX, 1-18 (tutta la colonna). È il salmo denominato dal Sanders Plea for deliverance («supplica per la liberazione»: onde la sigla 11QPs a Plea). Tema, vocabolario e sviluppo hanno più di una corrispondenza nella poesia biblica, ad es. Is., 38, 10-20; Sal., 6, 2-11. Interessante, in quanto prelude alla letteratura rabbinica, è la menzione di «satana», di «spirito immondo» e di «inclinazione maligna» (rr. 15-16: vedi 1QH, V, 6). Come si è accennato nell’Introduzione, dalla stessa grotta 11 provengono due (non tre come afferma Sanders, DJD, IV, p. 76) frammenti di questo salmo; essi appartengono allo stesso periodo, ma non sono certo dello stesso scriba. Da essi si può conoscere parzialmente una delle cinque o sei righe (così il Sanders) andate perdute all’inizio; le differenze dal nostro rotolo, di qualche interesse per l’ortografia, sono praticamente nulle, quanto al testo; il nome divino è scritto nei normali caratteri ebraici quadrati, non in caratteri paleoebraici come nel nostro rotolo: e ciò dimostra che tale scrittura dipendeva, almeno in parte, dall’arbitrio dell’amanuense o, forse, dall’uso liturgico o meno che dello scritto si faceva nella comunità. Dal framm. 11QPs b(a) si ha l’inizio: «Povero e miserabile sono io, poiché…». Col. XXI, 11-17 e Col. XXII, 1a (il testo è preceduto da Sal. 137, 9; e 138, 1-8). Il valore del salmo (la cui sigla è 11QPsa Sirach) e la sua importanza testuale sono valutabili soltanto confrontandolo con il testo del Cairo (cfr. S. S CHECHTER C. TAYLOR, The Wisdom of Ben Sira, Cambridge, 1899, A. A. D I LELLA, The Hebrew Text of Sirach, Washington, 1966 e F. VATTIONI, Ecclesiastico. Testo ebraico con apparato critico e versioni greca, latina e siriaca, Napoli, 1968) e con le versioni greca e siriaca; il testo è notevolmente diverso da quello del Cairo e dalle versioni e quella che gli è più vicino è la greca. Può essere che il testo del rotolo non rapresenti l’originale, è comunque fuori dubbio la sua superiorità su tutti gli altri testimoni: qualche lettura del testo greco sarà posta nelle note, ma le differenze sono più profonde di quanto

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si possa dedurre da queste varianti, anche se sono notevoli. È probabile che inizialmente il salmo fosse indipendente dall’Ecclesiastico, che gli sia stato adattato dopo una profonda trasformazione e che dagli esseni di Qumrân fosse attribuito a David. Il salmo in forma acrostica e cioè ogni stico inizia con una lettera secondo l’ordine dell’alfabeto ebraico (ma per la frammentarietà del testo va solo da alef a kaf) espone l’esperienza di un giovane, nel transito dalla fanciullezza alla virilità («prima di errare»), nell’acquisizione della saggezza alla quale rivolge e dirige le passioni che accompagnano il suo naturale sviluppo umano; quest’ultima conoscenza è velatamente rappresentata con i tratti della passione erotica. Di qui l’ambiguità di vari termini, senza dubbio intenzionale. 1. errare: non nel senso di viaggiare, come si potrebbe arguire dalle versioni (cfr. anche Eccli., 39, 4), ma «sbagliare-mancare». 2. Venne a me…: il greco ha «Dinanzi al tempio la domandai» (Eccli., 51, 14). 3. Anche se il fiore…: oppure: «E un fiore si staccò quando… rallegrando il cuore». L’immagine deriva, forse, dal testo di Gen., 40, 10. 4. Il mio piede…: si connette forse all’immagine dell’uva, ma è probabile che vi sia un secondo senso, erotico, onde «piede» e «dolcezza» possono essere eufemismi; la versione greca parla del giovane sulle tracce della saggezza (Eccli., 51, 15b), il rotolo invece dell’intima conoscenza che egli ha di essa. 5. vantaggio: o «lusinga» (cfr. Prov., 7, 21 e 16, 21) con evidente doppio senso; il greco (51, 16 b) parla della molta istruzione conquistata dal saggio. 6. virilità: o «vigore», cfr. Prov., 5, 9. Mentre il greco parla del profitto nella saggezza, il nostro testo la presenta come sua balia e in luogo del ringraziamento a Dio (del greco) parla dell’offerta del suo vigore alla saggezza (il «maestro»). 8-10. persona: o «anima», «desiderio» (in ebr. nefesh); aprii (in ebr. pātaḥ, cfr. M. J ASTROW»A Dictionary…, a. v.): può avere significato eufemistico (il Sanders, basandosi sull’assiro e su Cant., 5, 4-5, propone anche il significato «penetrare») non meno di «mano». L’ultima frase ha corrispondenza in tutte le versioni «al tempo giusto egli vi darà la ricompensa ⊃ (LXX). Col. XXII, 1b-15 (la colonna termina con il Sal. 93, 1-3). L’editore lo denominò «Apostrophe to Zion» («Apostrofe a Sion»: la sigla è 11QPsa Zion) e osserva che non è un’apostrofe a Dio: osservazione non superf lua. Sion diventa, infatti, sempre più, nello sviluppo del salmo, l’oggetto della lode del poeta, fino ad applicare ad essa, nel processo di idealizzazione, espressioni ricorrenti altrove solo in riferimento a Dio, senza tuttavia mettere in seconda linea la sovranità di Jahweh. Una attenta analisi rivela che il salmo è quasi interamente tessuto con tipiche espressioni e parole bibliche, ma nonostante la varietà delle fonti e il diverso modo con il quale il salmista ne fa uso, la composizione è contrassegnata da una palese unità; ciò è dovuto all’originale creatività nell’adattamento e nella modificazione del materiale di cui il poeta dà prova. J. Starcky ha una copia frammentaria di questo salmo, datata nella metà del I sec. a. C., proveniente dalla grotta 4 della quale curerà l’edizione (è designata provvisoriamente 4QPsf ). La forma letteraria facilmente divisibile in tre strofe che segnano un palese

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crescendo (rr. 1-6 a; 6 b-11; 12, 15), è sistemata in modo acrostico, alquanto irregolare. Un’ottima analisi soprattutto per i riferimenti biblici fu fatta da C. E. L’Heureux, e per l’aspetto acrostico da P. W. Skehan (vedi Bibl.). I testi più sfruttati sono Is., cc. 54, 60-62, 66. 1. Mi ricordo di te: oppure «pronuncio il tuo nome» secondo il valore speciale che ha in ebr. la forma causativa, qui ricorrente, del verbo zākar (cfr. ad es. E. Z OLLI, in RSO, 15, 1934, 103-104). 2. grande…: cfr. Prov., 10, 28 e 11, 7. Senza limiti è la speranza perché basata su promesse divine; su questo tema cfr. J. van der Ploeg, L’espérance dans l’Ancien Testament, in RB, 61, 1954, 481-507. 4. anelano…: espressione coniata su Am., 5, 18. si rallegreranno…: o «succhieranno i generosi tuoi seni»; cfr. Is., 66, 11 e 3, 16-18. Sulle strade della nuova Gerusalemme, che non saranno più come quelle passate (Is., 59, 14; Ger., 7, 34), vedi Zac., 8, 5. 7. I tuoi figli…: cfr. Is., 66, 10; il gran numero dei figli della nuova Sion è menzionato spesso da Isaia (43, 5-6; 49, 18-23; 54, 1-3; 6c, 4-9). 10. Adamo: cioè l’uomo. Intorno a te…: uno dei temi principali è appunto quello dei pii che erediteranno la terra e i beni salvifici promessi, mentre i nemici di Sion saranno sconfitti; cfr. Prov., 2, 21-22 e 2 Sam., 7, 9. 12. sale a tutto il mondo: o, forse, «più di tutta la distesa della terra»; non è escluso che la lode a Sion sia paragonata a una nuvola d’incenso che copre tutta la terra (cfr. Eccli., 49, 1). 14. sorgi, allargati…: cfr. Is., 54, 1-3. Col. XXIV, 3-17 [salmo siriaco III] (il testo è preceduto dal Sal. 144, 15). Anche questo salmo ha una struttura acrostica irregolare all’incirca come quello della colonna XX II; consta di tre strofe (rr. 1-4; 5-11 a; 11 b-15) e ha dei tratti tipici della forma letteraria dei salmi biblici designati come lamentazioni e ringraziamenti individuali, sul tipo ad es. del Sal. 22; ma si può classificarlo più genericamente tra le preghiere; le idee e la formulazione sono tipicamente bibliche, e contengono ben poco che si possa classificare come caratteristico degli esseni (vedi anche col. XVIII). Non v’è difficoltà a completare l’ultima strofa con le seguenti righe conservate nella versione siriaca, ma perite, a motivo dello stato di conservazione, nel nostro rotolo; esse possono bene rappresentare la dossologia finale del salmo. «Gioisco ora sulla loro vergogna: ho sperato in te senza arrossire. Manifesta la tua gloria di secolo in secolo, libera Israele, Jahweh, il tuo fedele e la casa di Giacobbe, il tuo eletto». Col. XXVI, 9-15 (il testo è preceduto dal Sal. 149, 7-9 e 150, 1-6). Il Sanders l’ha denominato Hymn to the Creator («Inno al Creatore»: la sigla è 11QPs a Creat.), titolo che ne definisce assai bene la natura.

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Lingua e stile sono piani e semplici. Qua e là si notano convergenze con 1QH, rilevate dall’editore; le ultime righe (6-7) dipendono da Ger., 10, 12-13; 51, 15-16 e Sal., 135, 7. Col. XXVII, 2-11 (il testo è preceduto da 2 Sam. 23, 7 e termina con il Sal. 140, 1-5). Breve tratto in prosa: è praticamente l’unico del genere in tutto il rotolo 11QPs a e la sua importanza è eccezionale sotto molti punti di vista; la sua siglia è 11QPs a DavComp. All’attività letteraria di David sono attribuiti i 364 canti che accompagnavano l’olocausto quotidiano perpetuo; 52 canti per l’offerta (qorbān) di ognuno dei sabati dell’anno; 30 canti così distribuiti nei «giorni delle assemblee»: uno per ogni primo giorno del mese, e cioè dodici; uno per la Pasqua; uno per ognuno dei sette giorni della solennità degli azzimi, e cioè sette; uno per la festa delle settimane o Pentecoste: uno per il giorno dell’espiazione; uno per ognuno degli otto giorni della solennità delle capanne; complessivamente 446 canti ai quali sono da aggiungere i quattro canti «per gli aff litti» e si ha così un totale di 450 canti. David è inoltre l’autore di ben 3.600 salmi, sicché la sua attività letteraria si estende a ben 4.050 composizioni. (Di Salomone è detto, in 1 Re, 5, 12, che compose 1.005 canti e 3.000 proverbi). L’elenco comprende tutte le feste prescritte nel Pentateuco (cfr. Lev., c. 23): è menzionata espressamente solo la festa dell’espiazione, la festa del primo dell’anno è compresa nei dodici «primi giorni del mese»; sono escluse invece sia la festa dei purîm che quella dell’encenia o dedicazione del Tempio, forse perché a Qumrân non osservavano queste due feste prescritte rispettivamente dal libro di Ester e dai libri dei Maccabei, ma può anche darsi che le due esclusioni siano dovute all’intenzione di evitare un evidente anacronismo attribuendo a David composizioni per festività di molto a lui posteriori; tutte le feste prescritte nel Pentateuco sono considerate evidentemente prescritte da Mosè e quindi ben note a David e perciò i suoi canti le coprono tutte. Ma l’aspetto, forse, più interessante è la presentazione di David come «sapiente» (o «saggio», in ebr. ḥākām), dotato da Jahweh di «spirito sottile e illuminato», come investito dall’Altissimo di «dono profetico», come «una luce» simile a quella del sole e «perfetto in tutte le sue vie davanti a Dio e agli uomini»; un primo approfondimento di tutto questo in chiave messianica fu fatto dal Brownlee (vedi Bibl.), ma è appena un inizio. In fine, sebbene non sia affermato espressamente, è difficile sottrarsi alla netta impressione che il testo rappresenti la più antica testimonianza della credenza nell’autenticità letteraria davidica di tutto il salterio del nostro rotolo; e, in questo contesto, la qualifica di «saggio» è particolarmente interessante e rivelatrice a proposito della colonna XX I. Col. XXVIII, 4-14 [salmo siriaco I, salmo greco 151] (il testo è preceduto dal Sal. 134, 1-3). È questo il penultimo salmo del rotolo; ma se, come mi pare probabile, le ultime righe leggibili (rr. 11-12) ne sono la conclusione, allora ci si trova di fronte all’ultimo salmo del salterio di Qumrân (la colonna seguente è completamente in bianco); e se così è il suo significato acquista un aspetto particolare per la persona di David (compreso il suo carattere messianico), per la sua sacra vena poetica, per

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lo scopo delle sue composizioni e per il loro significato in una liturgia che possiamo chiamare «cosmica». Questo salmo era sostanzialmente noto non solo dalla versione siriaca e dalla siroesaplare, ma anche dalla versione greca, ove si legge nello stesso libro dei salmi con il numero 151, e dall’antica versione latina (vedi Bibl., gli articoli di S TRUGNELL, di S CHNEIDER, di D ELCOR e A. RAHLFS, Psalmi cum Odis, Göttingen, 1931, p. 339), ma il senso, la forma letteraria e la organica bellezza del nostro testo ebraico non si trovano nelle versioni, che danno più l’impressione di una maldestra sintesi che di traduzioni (vedi appresso). Sorge così il dubbio sul testo originale dal quale esse provengono. Il testo si può considerare come un midrash poetico, in chiave messianica, dei cc. 16-17 di 1 Sam., il cui punto centrale si trova nelle parole: «Dio non vede soltanto ciò che vede l’uomo. L’uomo, infatti, vede gli occhi, Jahweh vede il cuore» (1 Sam., 16, 7). «Ma il testo biblico non precisa ciò che Dio vedeva nel cuore di David, ed è appunto questo che intende rivelare il poeta» (J. A. S ANDERS, in DJD, 4, 56): sebbene dall’apparenza insignificante, David aveva in cuor suo il desiderio di dare gloria a Dio. Il salmo consta di due strofe (rr. 1-6 a e 6 b-9) e, forse, di una conclusione (rr. 1112). Il testo delle righe 1 b-4 ha suscitato in alcuni studiosi l’impressione che ci si trovi davanti a un David dai tratti fondamentali di Orfeo: il problema merita un attento esame sia archeologico che letterario. È noto il considerevole inf lusso che nel periodo greco romano questa figura esercitò tanto tra gli ebrei quanto tra i cristiani (cfr. ad es. H. LECLERCQ, Orphée, in DACL, vol. X II, 1935, 2735-2755; M. J. LAGRANGE, Les Mystères. L’orphisme, Paris, 1937; E. R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, New York, 1953-1964, voll. II-X I passim; J. P. A UDET, La Didachè, Paris, 1958, 417-428; E. BICKERMAN, Symbolism in the Dura Synagogue, in H ThR, 58, 1965, 127-151, ecc.) che la assimilano rispettivamente (anche sotto la forma del buon pastore) a David e a Gesù Cristo. La questione è aperta sia perché la sua soluzione dipende in parte dalla traduzione che si dà al testo interessato, e ne sono possibili più di una (vedi le rr. 3-4), sia dal giudizio sull’antiellenismo degli esseni di Qumrân che, consciamente, è improbabile che abbiano potuto sottoscrivere una tale assimilazione, ma anche da una valutazione complessiva (archeologica e letteraria) di una possibile immagine orfica di David nell periodo che intercorre tra i due Testamenti (prima parte del I secolo d. C.). Nega ad es. ogni inf lusso orfico il Rabinowitz, lo ammette invece il Sanders (in DJD, 4, 61-63): ognuno di questi ha dei sostenitori. Si nota un certo imbarazzo dei Sanders e una serie di gratuite assunzioni allorché, partendo dalla convinzione che a Qumrân la col. XXVIII contenesse due salmi (che troviamo uniti nelle versioni greca, siriaca e latina), pensa che la fusione sia stata fatta nello stesso testo ebraico, ma fuori di Qumrân e che fosse motivata dal desiderio di eliminare ogni traccia di orfismo; epurazione che non fu sufficiente (prosegue il Sanders) per fare accogliere il salmo nel canone di Jamnia (verso il 90 d. C.) poiché qui i maestri della tradizione ebraica non avevano dimenticato il suo originale orfismo. Non v’è dubbio che l’immagine di un uomo che al seguito del suo gregge, in mezzo alla natura, canta accompagnandosi con la lira non si riscontra mai

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nell’Antico Testamento, richiama la figura di Orfeo e può ben tradire il suo inf lusso; si può tuttavia osservare con J. van der Ploeg: «Resta comunque una grande differenza dall’immagine di Orfeo: costui incanta alberi e animali selvatici di ogni specie, mentre David parla delle colline del suo paese, dei suoi alberi e del suo gregge» (Les manuscrits du Desert…, p. 135). Sull’origine essena del salmo vi sono dubbi: tutt’al più si può pensare (con M. Delcor) che dagli esseni abbia subìto qualche ritocco che ne accentuò il senso messianico, così evidente e profondo. Si pensi ad es. al pastore (ebr. rô‘eh) del gregge e al capo (ebr. môshēl) dei capretti (r. 2), divenuto preposto (ebr. naghid) del popolo e capo (ebr. môshēl) dei figli del suo patto (r. 9): si tratta di termini tecnici dal significato pregnante. Si osservi ancora che l’elezione divina non fu causata dalla vittoria su Golia, ma questa è una conseguenza di quella che a sua volta è derivata dai sentimenti di David di fronte al creato e a Dio, dalla sua stessa esiguità fisica e umiltà spirituale; egli udì la musica e vide il cucre di David. 1. Alleīuia…: nella versione siriaca il titolo è: «Questo salmo è genuinamente (ἰδιóγραϕoς) di David, ma soprannumerario, (composto) allorché combatté in singolar tenzone con Goliad». 2-6. La prima strofa, secondo il testo siriaco, suona: «Ero il più giovane dei miei fratelli, un fanciullo nella casa di mio padre. Custodivo il gregge di mio padre, incontrai un leone e un orso, li uccisi e li tagliai a pezzi. Le mie mani fecero uno strumento musicale, e le mie dita formarono un’arpa. Chi mi mostrerà il mio Signore? Il Signore mi appartiene, mi appartiene il mio Dio!» Il testo greco: «Ero il più piccolo dei miei fratelli, il più giovane in casa di mio padre, e pascolavo le pecore di mio padre. Le mie mani formarono uno strumento musicale, e le mie dita accordarono un’arpa. Chi annunzierà il mio Signore? Lo stesso Signore, proprio lui, ascolta». Una vera crux interpretum è costituita dal testo compreso tra le parole «le montagne…» e «le mie opere». La difficoltà sta naturalmente in ciò che si pensa voglia dire il salmista: ogni interprete contrario all’orfismo traduce in modo che questo svanisca o sia attenuato (cfr. Rabinowitz, Brownlee, Carmignac, Delcor, ecc.) gli altri invece seguono una via diversa. I due termini sui quali fanno perno le diverse interpretazioni sono lw (ch’io ho tradotto «gli» [a lui]) e ’lw (che ho tradotto

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«trasportarono in alto»). L’editore tradusse il primo termine con «a lui» (to him) e il secondo con «curare teneramente» «serbare» (cherished). I. Rabinowitz (art. cit.) traduce tutto il testo: «Le montagne non mi renderanno testimonianza e neppure le colline; gli alberi non proclamano le mie parole nel mio nome, né il gregge le mie opere»; P. W. Skehan (art. cit.): «Le montagne non gli possono rendere testimonianza, né le colline parlarne, né le foglie degli alberi le mie parole, né il gregge le mie composizioni»; J. van der Ploeg (loc. cit.) propone: «Le montagne non mi renderanno testimonianza; le colline non annunzieranno nulla a mio riguardo (qui suppone che qualche parola sia caduta per apiografia, e la restituisce dubitativamente con) non loderanno gli alberi le mie parole e il gregge le mie opere». La riga 4 si può anche tradurre con J. A. Sanders: «Chi può proclamare e chi può raccontare, chi può narrare le opere del Signore? Dio ha visto ogni cosa, egli ha udito ogni cosa e ascoltato». 6 b-12. La seconda strofa nel testo siriaco: «Ha mandato il suo angelo, mi ha preso dal gregge di mio padre, e mi ha unto con l’olio dell’unzione. Belli e grandi i miei fratelli, ma il Signore in essi non si compiacque. Uscì ad incontrare il Filisteo, e con i suoi idoli mi maledisse. Ma io gli tolsi la spada, gli tagliai la testa e allontanai l’ingiuria di mezzo ai figli di Israele». Il testo greco: «Egli mandò il suo angelo, mi tolse dalle pecore di mio padre, e mi unse con l’olio della sua unzione. I miei fratelli erano belli e grandi, ma il Signore in essi non si compiacque. Uscì a incontrare lo straniero; egli mi maledisse con i suoi idoli, ma io gli asportai la sua spada, gli tagliai la testa e rimossi l’ingiuria dai figli di Israele». 11-12. Tali righe nel rotolo sono a capo avendo l’amanuense lasciata in bianco la riga precedente nella quale si trova l’espressione «del suo patto». Può darsi che sia questo l’inizio dell’ultimo salmo, ma mi pare improbabile e innaturale. Ritengo che si tratti della conclusione del salmo e di tutto il salterio e

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questo può giustificare la divisione seguita dallo scriba. Il testo direttamente si riferisce alla lotta tra David e Golia (1 Sam., c. 17), ma non v’è dubbio che il fatto qui testimonia la fede e la speranza nel discendente di David che rinnoverà le gesta del grande antenato, e cioè del messia davidico o di Israele.

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COMMENTI BIBLICI

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I testi di Qumrân qui riuniti hanno caratteri del tutto particolari: la citazione letterale di passi biblici (di testi tratti cioè da quei libri dell’A. T. che ebrei e cristiani considerano di origine divina) ai quali fanno seguire un commento o interpretazione. Nella maggioranza dei casi si tratta di passi tolti di seguito da un unico libro (ad es. Isaia, Abacuc, Osea, Nahum, ecc.) o da una sola composizione letteraria (ad es. il Sal. 37); a questi testi ne ho qui affiancati altri nei quali i testi biblici non sono presi di seguito da un solo libro o da un’unica composizione, ma tratti da diversi libri (ad es. il Florilegio, i Testimonia, Benedizione di Giacobbe, Parole di Mosè, ecc.) che sebbene non entrino nel preciso genere letterario dei commenti sono a esso molto vicini e la loro collocazione affianco ai primi è tutta a vantaggio di una maggiore chiarezza. L’importanza di tutti questi testi è molteplice. Sono gli unici, tra quelli finora pubblicati, che contengano concreti riferimenti storici, e abbiano ampie citazioni letterali di testi biblici alle quali fanno seguire la spiegazione, sono gli unici testi che ci presentino gli esseni di Qumrân davanti alla «loro Bibbia», rivelandoci in tal modo che cosa domandavano ad essa, come la leggevano e come meditavano sui suoi testi questi accaniti e appassionati indagatori e scrittori, quali libri preferivano per le loro assidue meditazioni, con quali intenti estraevano i testi per la composizione di florilegi, catene, ecc.; questi testi, infine, ci rivelano certi aspetti dottrinali e psicologici per i quali sono, finora, spesso gli unici testimoni in nostro possesso. Le regole della comunità insistevano sullo studio e la continua meditazione dei libri sacri: questi testi ci offrono, in parte almeno, la possibilità di controllare come era il loro testo biblico, con quali metodi e per quali finalità l’affrontavano, che cosa ne ricavavano per la vita e la dottrina della setta, sotto quale forma e con quale mentalità si nutrivano dei libri sacri, quale era l’atmosfera nella quale vivevano da essi alimentata con la scelta e l’interpretazione di testi biblici. Sottile e profondo è ancora l’apporto per il confronto che ne deriva sia quanto al metodo delle citazioni dell’A. T. nel Nuovo sia quanto alle interpretazioni che ne fanno gli scrittori neotestamentari, in particolare nei vangeli e nelle lettere paoline. La lingua di questi testi è piana e semplice e ricalca l’ebraico dei libri più tardivi della Bibbia.

Genere letterario. Dall’antica tradizione ebraica si conoscevano, ben prima delle scoperte di Qumrân, vari metodi di esegesi biblica; il più familiare e importante è il 448

midrash. Questo metodo, riscontrabile anche in alcuni libri della Bibbia (ad es. nel libro della Sapienza, nei due libri delle Cronache, in alcuni tratti dei libri di Ezechiele ed Isaia, dell’Ecclesiastico, dei Proverbi, dei Salmi) è tra l’altro una testimonianza di come un precedente testo venerato e considerato d’origine divina (soprattutto la Torāh o Pentateuco) fosse, a un certo punto della storia di Israele, diventato oggetto di riflessione, di preghiera, di insegnamento e di predicazione parenetica. Questo metodo che, grosso modo, è databile dall’epoca esilica in poi (dal 587 a. C. in poi) si distinse, nel corso del suo sviluppo, in due generi di midrāshîm (plur. di midrash). Il primo, detto midrash halakah, mira principalmente alla meditazione sulle parti legali della Torāh per definirne bene le leggi, per scoprire nuove norme regolatrici di situazioni nuove e per giustificare certi usi e costumi divenuti tr