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Martin Heidegger FILOSOFIA E CIBERNETICA [OVVERO LA FALLACIA DI ATTRIBUIRE ALLA SCIENZA UN PENSIERO CALCOLANTE] Titolo originale: Das Ende des Denkens in der Gestalt der Philosophie (già pubblicato a cura di Hermann Heidegger con il titolo Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, Erker, St. Gallen 1984) a cura di Adriano Fabris Edizioni ETS, Pisa 1988 Nel corso delle celebrazioni di questa sera abbiamo potuto sperimentare come Ludwig Binswanger, seguendo il cammino dell’attività medica e della ricerca scientifica, sia anche passato attraverso i differenti stadi e i diversi indirizzi della filosofia del nostro secolo. Ogni scienza poggia su fondamenti che nel loro principio restano, insieme all’impostazione e ai metodi del suo procedere, ad essa inaccessibili. Ma ogni scienziato è in grado di volgersi, meditando, su questi fondamenti, posto che abbia uno spirito desto e con esso voglia rischiare di lasciarsi coinvolgere nel colloquio con la filosofia. Un tale rischio accompagna la vita dell’uomo del quale noi oggi celebriamo la volontà e l’opera. Sia pertanto concesso, dall’ambito del pensiero – l’ambito a cui appartiene la filosofia –, far giungere una parola che ha, in conformità con la sua provenienza, l’originaria forma della domanda. Noi domandiamo: che cos’è e come si determina nella nostra epoca la “cosa” (Sache) del pensiero? La “cosa” – con questo s’intende ciò da cui il pensiero è rivendicato, cioè da cui soltanto esso viene determinato. Certo, dobbiamo accontentarci solamente di poveri accenni. E tuttavia ciò valga come saluto 30 e dono per la celebrazione di stasera. Il fatto che ci si interroghi sulla determinazione della “cosa” del pensiero, e il modo in cui lo si fa, decidono, a me sembra, del destino del pensiero. La decisione che ha qui luogo non siamo noi a prenderla. Ne siamo solo partecipi, seppur necessariamente. Chi parla di una tale decisione già ritiene che il pensiero, per quel che concerne la determinazione della sua “cosa”, si trovi in uno stato di indecisione. Ma in che cosa consiste questa indecisione? Probabilmente nel fatto che il pensiero, se si considera la sua configurazione da lungi tramandata, è giunto alla propria fine. Se pero tutto questo è vero, allora con una tale fine si è deciso il destino della filosofia, non quello del pensiero. Resta infatti aperta la possibilità che proprio nella fine della filosofia si celi un altro inizio per il pensiero. Si può ritenere che quanto è stato appena detto sia unicamente una serie di affermazioni non dimostrabili. Soltanto – si tratta di domande. Fra queste c’è anche la questione se nell’ambito del pensiero trovi posto l’esigenza di dimostrare cosI com’è conosciuta dalla scienza. Ciò che non si può dimostrare può essere ugualmente fondato. Ma questa fondazione va lo stesso a vuoto se la “cosa” del pensiero non possiede più il carattere del fondamento e non può quindi più essere la “cosa” della filosofia. È allora necessario, anzitutto, far esperienza del modo in cui la filosofia è giunta alla sua fine (in ihr Ende eingegangen ist). Parlando di fine, noi vogliamo dire che qualcosa non va più avanti, che è terminato. Fine indica qualcosa di 31 incompleto e di spiacevole. Fine – suona come impotenza e rovina. Tuttavia, locuzioni come von einem Ende zum andern (da un posto all’altro) e an allen Ecken und Enden (per ogni dove) attestano un altro significato della parola «fine».
Essa significa luogo. In ciò che segue intenderemo con fine il luogo dove qualcosa si raccoglie nella sua possibilità ultima, dove esso giunge a pieno compimento (vollendet). Nella fine della filosofia si compie quella direttiva che, sin dal suo inizio, il pensiero filosofico segue lungo il cammino della propria storia. Alla fine della filosofia il problema dell’ultima possibilità del suo pensiero di- viene affare serio. Ne possiamo fare esperienza in un fenomeno che si può caratterizzare con poche frasi. La filosofia si dissolve in scienze autonome: la logistica, la semantica, la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale, la politologia, la poetologia, la tecnologia. La filosofia nel suo dissolversi viene rimpiazzata da un nuovo tipo di unificazione fra queste scienze nuove e tutte già esistenti. La loro unità s’annuncia nel fatto che le différenti sfere tematiche delle scienze sono comunemente progettate rispetto a un accadimento particolare. Le scienze sono indotte (herausgefordert) a presentare quest’accadimento come l’avvento di un processo di controllo e d’informazione. La nuova scienza che unifica, in un senso nuovo di unità, tutte le varie scienze si chiama cibernetica. Essa, per quel che concerne il chiarimento delle rappresentazioni che la guidano e la loro penetrazione in ogni ambito scientifico, è ancora agli inizi. Ma il suo dominio è garantito, dal momento che 32 essa stessa è a sua volta controllata da un potere che im- prime il carattere di pianificazione e di controllo non solamente sulle scienze, ma su ogni attività umana. Una cosa oggi è già chiara: per mezzo delle rappresentazioni che guidano la cibernetica – informazione, controllo, richiamo – vengono modificati in un modo, oserei dire, inquietante quei concetti chiave – come principio e conseguenza, causa ed effetto – che hanno dominato finora nelle scienze. La cibernetica, pertanto, non si può più definire una scienza fondamentale. L’unità delle sfere tematiche del sapere non è più l’unità del fondamento. Si tratta invece di un’unità rigorosamente tecnica. La cibernetica è predisposta (eingestellt) ad approntare e procurare (bereit- und herzustellen) la visuale sui processi comunemente controllabili. La potenza senza limiti che è richiesta per un tale compito, se da un lato determina ciò che è peculiare della tecnica moderna, dall’altro si sottrae a ogni tentativo di rappresentarla ancora in modo tecnico. Il carattere tecnico delle scienze, che sempre più univocamente vi s’imprime, si può facilmente riconoscere dal modo, un modo strumentale, in cui esse concepiscono quelle categorie che di volta in volta definiscono ed articolano il loro ambito tematico. Le categorie sono rappresentazioni di modelli operativi. La loro verità si misura dall’effetto che produce, il loro impiego all’interno del progresso della ricerca. La verità scientifica viene posta come equivalente all’efficacia di questi effetti. Le scienze medesime si prendono carico volta a volta di operare la necessaria trasformazione dei modelli concettuali. Ad essi viene 33 concessa solamente una funzione tecnico-cibernetica, negando loro ogni contenuto ontologico. La filosofia diventa superflua. Lo stesso giudizio, talvolta ancora espresso, che la filosofia arranca dietro alle scienze – qui s’intende le scienze della natura –, ha perso il suo significato. Il concetto guida della cibernetica, il concetto di informazione, è per giunta sufficientemente vasto da poter un giorno assoggettare alle pretese della cibernetica anche le scienze storiche dello spirito. Ciò riuscirà tanto più facilmente in quanto il rapporto dell’uomo d’oggi con la tradizione storica si tramuta visibilmente in un mero bisogno d’informazione. Ma nella misura in cui si comprende ancora come un libero essere storico, l’uomo potrà riuscire a non consegnare la determinazione di sé al modo di pensare cibernetico. Da principio, la stessa cibernetica ammette d’imbattersi qui in difficili questioni. Ma essa ritiene tuttavia di poterle sostanzialmente risolvere e considera in via preliminare l’uomo come un «fattore di disturbo» nel calcolo
cibernetico.1 Con tutto ciò, la cibernetica può esser già sicura della sua “cosa”, vale a dire di calcolare tutto ciò che è nei termini di un processo controllato, poiché nasce l’idea di determinare la libertà dell’uomo come qualcosa di pianificato, cioè di controllabile. Giacché, anche per la società industriale, solamente la cibernetica sembra concedere all’uomo la possibilità di abitare in quel mondo tecnico che s’impone in modo sempre più deciso. La fine della filosofia è contrassegnata dalla dissoluzione delle sue discipline in scienze autonome, la cui unificazione sotto nuova forma si profila nella cibernetica. 34 Ma se si volesse credere che ii dissolversi della fib- sofia nelle scienze e il subentrare della cibernetica sia un fenomeno meramente accidentale, si mancherebbe la prospettiva essenziale su ciò che significa «fine della filosofia». Un tale giudizio sarebbe affrettato anche perché noi abbiamo menzionato finora solamente alcuni tratti caratteristici della fine della filosofia, ma non abbiamo ancora riflettuto su ciò che della fine è peculiare. Questo può riuscirci soltanto se noi – almeno per un istante – ci lasciamo coinvolgere dalla domanda: qual è la “cosa” autentica della filosofia, alla quale essa è mdirizzata fin dal suo inizio? Al suo inizio quel pensiero che in seguito sarà chiamato «filosofia» si trova indirizzato a percepire il meraviglioso e a dire il fatto che l’ente è e il modo in cui esso è. Ciò che noi, abbastanza equivocamente e confusamente, chiamiamo l’ente, i filosofi greci l’hanno sperimentato come qualcosa di presente (das Anwesende), dal momento che in quanto presenza l’essere li interpellava. In questa prospettiva furono pensati il passaggio dalla presenza all’assenza, il venire e lo svanire, il nascere e il perire, cioè il movimento. Nel corso della storia della filosofia l’esperienza e l’interpretazione della presenza di ciò che è presente si trasformano. La fine della filosofia è raggiunta quando una tale trasformazione si compie nella sua ultima possibilità. La storia di questa trasformazione e del suo compimento non è stata riconosciuta fino ad oggi perché al pensiero greco sono state attribuite delle rappresentazioni moderne. L’esempio classico di questo procedere 35 in grande stile rimane l’interpretazione hegeliana della storia della filosofia2. 1
[Il pregiudizio del filosofo è che il pensiero scientifico sia un pensiero calcolante o, come amano dire gli umanisti, meccanico, misconoscendo il significato profondo, archimedeo, del termine – il significato di “bella” simmetria – e attribuendogli un valore d’uso negativo, antropomorficamente servile. “Nel mezzo, vile meccanico!”, gridò Lodovico, non ancora Cristoforo, al rivale che gli contendeva il passo. Il filosofo ignora che il soggetto della scienza non calcola, ma usa i calcoli, per esempio per approssimare il valore di una costante. (Non importa, poi, che il valore sia determinato con precisione infinita. La teoria della relatività ristretta è empiricamente approssimata alla settima cifra decimale, ma è giusta “meccanicamente”, cioè in linea di principio. Tanto dico per correggere Koyré sul supposto passaggio scientifico al mondo della precisione). Fondamentalmente il filosofo è un analfabeta scientifico. Ignora i risultati di Gödel e di Turing, che hanno dimostrato “meccanicamente” l’incompletezza e l’indecidibilità del calcolo meccanico. Rafforzando il detto di Leibniz: Calculemus!] 2 * Cfr. M. Heidegger, Hegel und die Griechen, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M. 19782, pp. 421-38, ora anche in Gesamtausgabe, vol. 9, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 427-444 [trad. it. a cura di F. Volpi, Hegel e i Greci, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 375-391]. – Riguardo al presente testo nel suo complesso, cfr. M. Heidegger, Nietzsche, Neske, Pfullingen 1982g, vol. II, pp. 399 sgg. [trad. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, pp. 863 sgg.]. Inoltre: Id., Die
Il pensiero greco, infatti, non ha compreso la presenza nel senso dell’oggettività dell’oggetto. Per esso ciò che è presente non si è mai dato come oggetto. La presenza nel senso dell’oggettività ha cominciato a esser pensabile per la filosofia solo dopo che ciò che è presente – in greco to upokeimenon, ciò che sussiste di per sé, in latino il subiectum – è stato scoperto da Cartesio nell’ego sum dell’ego cogito. Di conseguenza l’io dell’uomo, l’uomo stesso, appare come il subiectum per eccellenza, ciò che in seguito rivendicherà per sé solo il nome di soggetto. Da questo momento in poi, perciò, la soggettività viene a costituire l’ambito in cui e per cui soltanto si costituisce un’oggettività. Nel frattempo, perô, la presenza di ciò che è presente ha perduto anche il suo senso di oggettività. Ciò che è presente riguarda l’uomo d’oggi come qualcosa che si può sempre impiegare. La presenza, pur se ancora pressoché mai pensata ed espressa in quanto tale, manifesta il carattere dell’incondizionata impiegabilità3 da parte di ciascuno. Ciò che è presente non viene incontro e non permane 36 più sotto forma di oggetto. Esso si dissolve in entità (Bestände) che debbono essere costantemente, per i fini che di volta in volta si prospettano, producibili, disponibili e sostituibili. Si tratta di entità che sono richieste caso per caso secondo i differenti progetti. Esse sono poste in quanto tali secondo le loro caratteristiche. Siffatte entità non hanno alcuna consistenza (Beständigkeit), intesa come presenza immutabile e costante. Il loto modo di presentarsi è l’impiegabilità, che è contrassegnata dalla possibilità di qualcosa che è sempre incessantemente nuovo, che è migliore senza sbocco nel meglio. Ma per chi risulta impiegabile ciò che è presente in tal modo? Non certo per i singoli uomini, che in quanto soggetti si contrappongono agli oggetti. La possibilità d’impiegare tali entità s’impianta invece e si regola a partire dal rapporto con l’essereassieme e l’essere-uno-per-l’altro che caratterizza la società industriale. Certo, questa appare ancora di frequente sotto forma di una soggettività posta su di sé e dominante nei confronti dell’oggettività dei prodotti e delle istituzioni proprie della colonizzazione tecnica del mondo. La società industriale, alle cui esigenze e realizzazioni il pensiero sociologico vuole saper ricondotto tutto ciò che è, pensa se stessa ancora in termini di soggettività all’interno dello schema di soggetto e oggetto, cioè si pensa come il principio di spiegazione di ogni fenomeno. Tuttavia, la società industriale non è né un soggetto né un oggetto. Piuttosto, contrariamente all’apparenza di una sua autosufficienza posta sopra di sé e che tutto domina, essa è invece posta, dalla potenza medesima del 37 porre pro-vocante, sotto quella stessa sovranità che ha trasformato la precedente oggettività degli oggetti nella mera possibilità d’impiego delle entità. E anche la natura delle scienze della natura viene affrontata come un’entità teimpiegabile. La presenza della natura entro l’ambito tematico della fisica nucleare rimane impensabile fintanto che essa è rappresentata ancora come oggettività invece che come impiegabilità. Ora, il fatto che la presenza di ciò che è presente si tramuti da oggettività in impiegabilità è però anche il presupposto perché nasca in generale Technik und die Kehre, Neske, Pfullingen 1976 e Identität und Differenz, Neske, Pfullingen, 19786 [trad. di U.M. Ugazio, Identità e differenza, in «aut aut», 187-88 (1982), pp. 2-38]. 3 [Il filosofo ignora che con la modernità compare all’orizzonte un oggetto non riducibile totalmente al suo impiego. È un oggetto né totalmente empirico né totalmente razionale, che non si dà né solo nella pratica né solo nella teoria. Si può solo circoscrivere ma non porre. Non c’è potere che lo domini del tutto, anche se il suo uso produce effetti di potenza. Si chiama infinito. L’analista lo sperimenta come oggetto del desiderio e regolarmente lo misconosce.]
qualcosa come il modo cibernetico di rappresentazione e la cibernetica possa avanzare la pretesa di assurgere al ruolo di scienza universale. Dal momento che la cibernetica, senza saperlo e senza poterlo pensare, rimane soggetta a una tale trasformazione della presenza di ciô che è presente, noi abbia- mo potuto addurla solo come segno caratteristico della fine della filosofia. Questa fine consiste nel fatto che con l’impiegabilità di ciô che è presente è raggiunta l’ultima possibilità nella trasformazione della presenza. In tal modo i diversi ambiti di ciò che è presente divengo- no impiegabili per la rappresentazione. Le discipline del pensiero che ad essi si rivolgono si possono dedicare completamente alla loro elaborazione. Il dissolversi della filosofia ha il suo sviluppo in un compito impiegabile, e la sua unitarietà è rimpiazzata dalla cibernetica. Che la filosofia giunga alla sua fine (in ihr Ende eingeht) è un processo legittimo. Ciò risponde a quella legge secondo la quale la filosofia ha preso su di sé il proprio inizio, seguendo la direttiva di pensare la presenza 38 senza di ciò che è presente, in modo che il pensiero venga appellato dalla presenza senza però pensarla in quanto tale. La trasformazione della presenza di ciò che è presente non dipende da un mutamento di prospettiva dei filosofi. Piuttosto, questi sono i pensatori che sono, nella misura in cui sono in grado di corrispondere al mutato appello della presenza. Parlando di corrispondere è d’altra parte nominato un rapporto che appartiene all’ambito di ciò che è degno di essere domandato, verso cui la domanda volta a determinare la “cosa” del pensiero viene indirizzata. Tuttavia, proprio un tale rapporto viene alla luce non appena ci lasciamo indurre ad una considerazione che era restata fuori dal precedente chiarimento della presenza in termini di impiegabilità. Bisogna chiedersi: in che senso l’impiegabilità è l’ultima fase nella storia della trasformazione della presenza? Nessun uomo può dire che non vi saranno ulteriori mutamenti. Noi non conosciamo il futuro. Solamente, per definire l’impiegabilità come l’ultima fase possibile nella trasformazione storica della presenza non è necessario uno sguardo profetico sul futuro. Basta dare un’occhiata al presente, posto che quest’occhiata, invece di descrivere la situazione mondiale e la condizione degli uomini, badi soltanto a cogliere il modo della presenza di uomini e cose insieme alla presenza dell’uomo rispetto alle cose. Emergerà allora che nel dominio dell’impiegabilità del presente, proprio in esso, viene in luce la potenza del porre provocante, in quanto questa soprattutto determina (stellt) l’uomo a porre al sicuro nella sua impiegabilità tutto ciò 39 che è presente, e quindi anche sé medesimo. Certo, gli incommensurabili successi dell’inarrestabile sviluppo della tecnica fanno ancor sempre credere che sia l’uomo il signore della tecnica. In verità, invece, egli è il servo di quella potenza che attraversa e domina ogni produzione tecnica. La potenza del porre provocante s’imprime nell’uomo facendolo diventare quel mortale che da essa è per sé rivendicato, posto, e di cui essa in questo senso fruisce. La potenza che vige nella presenza di ciò che è presente fruisce dell’uomo. In questo fruire s’annuncia quel rapporto della presenza con l’uomo che esige da lui una particolare risposta. Con riguardo a tale rapporto, la presenza di ciò che è presente si mostra come quello stato di cose che è proprio di una “cosa” che si sottrae allo sguardo del pensiero filosofico. A questo è assegnato, fin dal suo inizio e nel corso della sua storia, di pensare ciè che è presente secondo la sua presenza, non perô la presenza stessa nella storia del suo mutare, non la presenza con riguardo a ciò che la determina in quanto tale. Interrogandosi su questa determinazione si pensa in un ambito che rimane inaccessibile al pensiero della filosofia, che è noto come pensiero ontologico, trascendentale e dialettico. Col mutare della sua “cosa”, non solamente il pensie- ro che corrisponde ad essa si trasforma, ma cambia anche il modo della de-terminazione (Be-stimmung) di questa
‘cosa’. Quanto più chiaramente noi facciamo esperienza del fatto che la potenza del porre provocante, e insieme con essa il dominare dell’impiegabilità di ciò che è presente, dissimulano la propria origine, tanto 40 più incalzante e nel contempo sorprendente diviene la domanda volta a determinare la “cosa” del pensiero. La fine della filosofia è ambigua. Da un lato, essa significa il compimènto di un pensiero, quello filosofico, a cui ciò che è presente si mostra nel suo carattere di impiegabilità. Dall’altro, proprio questa modalità della presenza racchiude in sé il rinvio alla potenza del porre provocante, la cui determinazione richiede un altro pensiero, un pensiero per il quale divenga degna d’essere interrogata la presenza in quanto tale. Essa infatti porta con se ancora qualcosa di impensato che, nella sua peculiarità, si sottrae al pensiero filosofico. Certo, ciò che rimane impensato nella presenza non è del tutto ignoto al pensiero filosofico sin dai suoi albori; esso perô non solo non è riconosciuto dalla filosofia, ma è da questa addirittura frainteso in quanto è suo proprio, viene cioè diversamente interpretato nel senso di ciò che la filosofia pensa sotto il nome di «verità». Ma non corriamo forse il rischio di sottovalutare la portata del pensiero greco? Quando Platone vede la presenza di ciò che è presente nell’aspetto (Aussicht) di esso (eidos, idea), il quale concede la visione (Sicht) di ciò che è presente in quanto tale, egli perè assume pari- menti una tale visione nel suo rapporto con quella luce che consente in generale di vedere. Questo attesta che egli ha sott’occhio ciò che vige nella presenza in quanto tale. Ma in tal modo egli corrisponde solamente a uno dei tratti fondamentali dell’esperienza greca di ciò che è presente. Pensiamo invece a Omero, che pure già, quasi come da sé, mette in rapporto con la luce il venire alla 41 presenza di ciò che è presente. Si rammenti un episodio del ritorno in patria di Ulisse. Alla partenza di Eumeo appare Atena sotto forma di una giovane e bella donna. A Ulisse appare la dea, mentre il figlio Telemaco invece non la vede come tale. Il poeta dice: Ou gar pos pantessi theoi phainontai enargheis (Od. XVI, 161). «Giacché non a tutti gli dei appaiono enargheis – questa parola è tradotta con «visibile». Solo che argos vuol dire «splendente». Ciò che splende riluce da se stesso. Ciò che in tal modo riluce viene da sé alla presenza. Ulisse e Telemaco vedono la medesima donna. Ulisse perô avverte la presenza della dea. In seguito i Romani hanno tradotto la enargheia, il rilucere-da-sé, con il termine evidentia; evideri significa «divenir visibile». L’evidenza è pensata a partire dall’uomo come colui che vede. Per contro, l’enargheia è un carattere delle cose (Dinge) stesse che si presentano. Secondo Platone, esse debbono il loro apparire ad una luce. Questo rapporto delle idee alla luce è considerato una metafora. Resta tuttavia da chiedersi: che cosa vi è mai, in quel che è proprio del venire alla presenza, la cui determinazione richiede e autorizza un rimando alla luce? Già abbastanza a lungo il pensatore si è preoccupato del modo in cui determinazioni come l’identità, la diversità, la medesimatezza, il movimento – che appartengono al venire alla presenza di ciò che è presente – possono ancora essere pensate come idee. Si cela forse qui uno stato di cose completamente diverso, che diviene del tutto inaccessibile dopo che l’età moderna ha trasformato l’idea da aspetto di ciò che è presente in perceptio, in una rappresentazione formata dall’io 42 umano? La presenza di ciò che è presente non ha in quanto tale alcun rapporto con la luce (Licht) nd senso del chiarore. La presenza è invece assegnata al diradarsi (Lichte) nel senso della Lichtung (radura). Ciò che questa parola dà da pensare si può chiarire con un esempio, posto che b si mediti adeguatamente. Una radura nel bosco è ciò che è non a causa del chiarore e della luce che vi può splendere di giorno. La radura c’è anche di ntte. Ciô significa: in questo punto il bosco può essere attraversato.
Das Lichte nel senso del chiarore e das Lichte (il diradarsi) della radura sono diversi non solo per quanto riguarda la cosa stessa (Sache), ma anche per quel che concerne la parola. Lichten vuoi dire liberare, affranca- re, lasciar libero. Lichten dipende da leicht (lieve). Alleviare, alleggerire una cosa significa eliminare gli ostacoli, condurla in un ambito senza più resistenze, nello spazio libero. Levare l’ancora vuol dire: liberarla dal fondo marino che la serra tutt’attorno ed elevarla nello spazio libero dell’acqua e dell’aria. La presenza è assegnata alla Lichtung intesa come garanzia propria dello spazio libero. Sorge la domanda: che cosa si libera, che cosa si dirada in quella Lichtung che affranca la presenza in quanto tale? Anche questo discorso della Lichtung, della radura, non è forse soltanto una metafora, ricavata dalla radura del bosco? Solamente, quest’ultima è anch’essa qualcosa di presente in un bosco presente. Invece la Lichtung, come garanzia, propria dello spazio libro, del venire alla presenza e del permanere di ciò che è presente, non 43 è né qualcosa di presente, né una proprietà della presenza. La Lichtung, la radura, e ciò che essa dirada, restano piuttosto qualcosa che concerne il pensiero non appena questo è interessato dalla domanda su come stiano le cose a proposito della presenza in quanto tale. Meditare sul fatto che e su1 modo in cui la Lichtung è garanzia della presenza fa parte della domanda concernente la determinazione della “cosa” del pensiero, un pensiero che, volendo corrispondere a questa “cosa” e agli stati che le sono propri, si vede costretto a trasformarsi. Quali stati della “cosa” si mostrano lo spazio e il tempo, che da sempre sono per il pensiero connessi con la presenza di ciò che è presente. Solo però a partire dalla Lichtung può venir determinato ciò che è proprio dello spazio e del tempo e del loro rapporto con la presenza in quanto tale. Lo spazio spazia (räumt). Esso affranca, libera prossimità e lontananza, strettezza e vastità, luoghi e distanze. Nello spaziare dello spazio gioca la Lichtung. Il tempo matura (zeitet). Esso rende libero conducendo nel libero ambito dell’unità estatica (Einheit des Ekstatischen) di esser-stato, avvenire e presente. Nel maturare (Zeiten) del tempo gioca la Lichtung. E, anzitutto, l’unità di spazio e tempo? Il reciproco appartenersi di spazio e tempo non è né temporale né spaziale. Probabilmente, perô, nel loro reciproco appartenersi vige la Lichtung. Essa allora sussiste di per sé, oltre e accanto allo spazio e al tempo? O invece la Lichtung, il diradamento, si dirada soltanto al modo dello spazio e del tempo e della loro enigmatica unità? o ancora la Lichtung non si esaurisce del tutto nello 44 spaziare dello spazio e nd maturare del tempo? Domande su domande, che un pensiero alla maniera della filosofia non pone neppure, e a cui tanto meno può dare una risposta. Giacché siffatte domande incalzano il pensiero soltanto se ciò che per la filosofia resta non domandato, cioè la presenza in quanto tale, diviene problematico. Può essere opportuno, in questo momento, accennare, almeno per grossi tratti, alla Lichtung quale “cosa” eminente di un altro pensiero. Infatti, della Lichtung parlava quarant’anni fa l’analitica ermeneutica dell’esserci in Essere e tempo, movendo dal proposito di sviluppare la questione dell’essere. Su di un’analitica dell’esserci così impostata si è innestata in seguito nel dibattito quella «analisi dell’esserci» che mira a una chiarificazione dei fondamenti della psichiatria Ci volle tuttavia un cammino di decenni lungo sentieri interrotti per riconoscere che la frase di Essere e tempo: «L’esserci dell’uomo è esso stesso la Lichtung» (§ 28) aveva forse presentito la “cosa” del pensiero, e tuttavia in alcun modo l’aveva a sufficienza pensata, non l’aveva presentata cioè come una questione che già giungeva alla “cosa”.
L’esserci è la Lichtung, il diradamento per la presenza in quanto tale, e nel contempo non lo è affatto, nella misura in cui il diradamento è soltanto l’esserci, è garante cioè di questo ente come tale. L’analitica dell’esserci non perviene ancora a ciò che è proprio della Lichtung e non giunge per niente in quell’ambito a cui, dal canto suo, la Lichtung appartiene. La necessaria trasformazione del pensiero nell’accedere 45 alla sua “cosa” totalmente altra, l’accenno alla fine e gli intrinseci limiti del pensiero filosofico non comportano alcuna diminuzione della filosofia, quasi che quest’altro pensiero per il momento ancora indeterminato s’innalzasse al di là della filosofia. Non si tratta né di rialzare la filosofia, sollevandola per così dire a una problematica trascendentale alla seconda potenza, né si tratta di porre più a fondo le basi della filosofia nel senso di un «ritorno al fondamento della metafisica». Diviene necessario piuttosto il passo indietro che muove dalla filosofia. Esso è l’albergare in quell’ambito prima indicato con il nome di Lichtung, nel quale noi uomini già costantemente soggiorniamo. E in esso permangono a loro modo anche le cose. Con il passo indietro la filosofia non viene né abbandonata né fatta addirittura scomparire dalla memoria dell’uomo che pensa. Questo pericolo, in misura sempre crescente, viene invece dalle scienze e dalla loro organizzazione cibernetico-tecnica interna a quella colonizzazione del mondo che si sta impiantando. La totalità della filosofia e della sua storia nel suo compimento, tuttavia, non è neppure tolta (aufgehoben) nel passo indietro, intendendo questo toglimento come il cammino dialettico della storia pensato da Hegel. Grazie al passo indietro emerge piuttosto la possibilità per la filosofia di trans-propriarsi propriamente in ciò che le è proprio. In tal modo la filosofia perviene a un rimanere più originario, che tiene pronto il reame del già pensato per un colloquio diverso con essa. L’esigenza che il pensiero ritorni «alle cose stesse» ha il suo senso e una ragione attendibile soltanto se 46 anzitutto ci si chiede quale sia la “cosa” del pensiero e donde essa riceva la propria determinazione. La discussione di questa domanda, intanto, ci fa subito sperimentare che ogni pensiero è finito. La sua finitezza è dovuta non tanto e in primo luogo alla limitatezza delle facoltà umane, quanto alla finitezza della “cosa” del pensiero. L’esperienza di questa finitezza è molto più difficile che la prematura posizione di un assoluto. La difficoltà dipende da una mancanza di educazione del pensiero che è determinata dalla sua “cosa” e quindi non è accidentale. Ad essa già Aristotele, a suo modo, aveva accennato (Metafisica IV, 4, 1006a 6 sgg.). La frase suona: «È infatti mancanza di educazione (nel pensiero) non avere occhio per quelle cose in rapporto alle quali è necessario cercare una dimostrazione e per quelle in rapporto a cui questa non è necessaria». Una tale mancanza di educazione è grande nel pensiero di oggi. Ma essa è ancora più grande se si considera il compito di porre almeno la domanda sulla determinazione della “cosa” del pensiero e di svolgerla in modo sufficiente. Pertanto, già la frase di Aristotele richiede di essere meditata accuratamente. Infatti, resta ancora da decidere in che modo ciò che non necessita di alcuna dimostrazione per diventare la “cosa” degna di essere pensata dal pensiero può essere sperimentato e può essere detto. Questo avviene forse attraverso la mediazione dialettica? Ma l’esigenza che la richiede non è forse, nonostante l’apparenza contraria, proprio un’esigenza assoluta e quindi un fraintendimento dell’autentica finitezza 47 del pensiero? O invece l’esperienza della “cosa” del pensiero avviene attraverso l’intuizione di ciò che non può essere mediato, che essa offre, quale fondamento ultimo, in modo originario? Ma il richiamo a una tale intuizione non manifesta nuovamente l’esigenza di un sapere assoluto? E sia la mediazione sia il non mediabile non restano ugualmente in rapporto col mediare?
La “cosa” del pensiero richiede allora, forse, una modalità del pensiero il cui tratto fondamentale non sia né la dialéttica né l’intuizione?4 A questo proposito solo la domanda concernente la determinazione della “cosa” del pensiero può preparare la risposta. Ma in che modo, se la risposta a questa domanda del pensiero, a sua volta, non sarebbe altro che un’ulteriore domanda? E se questo stato di cose, invece che indirizzare ad un processo infinito, indicasse quella finitezza del pensiero che poggia sulla sua “cosa”? Amriswil, 30 ottobre 1965
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[Né dialettica né intuizione, non sarà forse la matematizzazione la terza via epistemica? Il filosofo non ha neppure gli strumenti per rispondere a una simile questione. Tuttavia, bisogna essere giusti con Heidegger. In L’epoca dell’immagine del mondo (M. Heidegger, Sentieri interrotti (1950), trad. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 74] troviamo questa intuizione interessante per l’analista, perché riconduce l’inconscio al matematico, inteso come già saputo: “Ta mathemata significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo: dei corpi l’esser-corpi, delle piante l’esser-piante, degli animali l’esser-animali, dell’uomo l’esser-uomo. A questo già-conosciuto, cioè al matematico appartengono, oltre a quanto sopra, anche i numeri. Se vediamo tre mele su un tavolo, ri-conosciamo che sono tre. Il numero tre, l’esser-tre, lo conoscevamo già. E ciò equivale a dire che il numero è qualcosa di mat ematico. Solo perché i numeri costituiscono il più incontestabilmente sempre-già-conosciuto e quindi il più noto nel dominio del matematico, avvenne che il numerico fosse assunto come designazione del matematico. Ma l’essenza del matematico non si risolve affatto nel numerico”.