Filosofia: autori, testi, temi. L'età antica e medievale [Vol. 1] [PDF]

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M. Vegetti – L. Fonnesu

Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte (o opportunamente punzonato o altrimenti contrassegnato), è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, c. 2 l. 633/1941). Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n. 633, art. 2, lett. d).

MARIO VEGETTI LUCA FONNESU

Mario Vegetti – Luca Fonnesu

Filosofia: autori testi temi Configurazione dell’opera ISBN 978-88-00-21943-3 ISBN 978-88-00-21944-0 ISBN 978-88-00-21945-7 ISBN 978-88-00-21946-4

Filosofia: autori testi temi L’età antica e medievale

1 L’età antica e medievale 2a Dall’Umanesimo all’empirismo + 2b Dall’Illuminismo a Hegel 3a Dai post-hegeliani a Heidegger + 3b Dal neoempirismo alla filosofia contemporanea Guida per l’insegnante + CD-ROM

1

1

Franco Ferrari Stefano Perfetti Emidio Spinelli

L’età antica e medievale

FILO SOFIA: AUTORI TESTI TEMI

Mario Vegetti - Luca Fonnesu Franco Ferrari - Stefano Perfetti - Emidio Spinelli

FILOSOFIA: AUTORI, TESTI, TEMI 1

L’età antica e medievale

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© 2012 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

Per la realizzazione di quest’opera sono stati utilizzati contributi originari de Le ragioni della filosofia di MARIO VEGETTI (l’introduzione a L’età antica, Che cos’è la giustizia? e Che cos’è la medicina?), MARIO VEGETTI e FRANCO FERRARI (Platone, Aristotele e Il pensiero scientifico antico), FRANCO FERRARI (I presocratici: gli inizi della filosofia, Socrate e i sofisti: la filosofia della città, Che cos’è il bene? e Plotino e i platonismi), EMIDIO SPINELLI (Epicureismo, stoicismo, scetticismo e Che cos’è il piacere?), STEFANO PERFETTI (l’introduzione a L’età tardoantica e il Medioevo, Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino, Tre Medioevi a confronto, Il XIII secolo e Tommaso d’Aquino, La scolastica in trasformazione e Il mondo è eterno?), LUCA FONNESU (i laboratori Bene/buono, Giustizia/giusto e Felicità), CLAUDIO LA ROCCA (i laboratori Verità e Essere), rielaborati e integrati da: PAOLA BERNARDINI GIADA CERI LUCIANA CERI PASQUALE TURRISI

Progettazione e coordinamento Redazione e impaginazione Progetto grafico Copertina Ricerca iconografica

Fabio Ferri Studio Salviati, Milano Alfredo La Posta, Studio Salviati, Milano Angelini Design, Torino Antonella Ottobre Sasso

Fonti iconografiche

Archivio digitale Mondadori Education Photomovie Shutterstock

Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità. Per informazioni e segnalazioni: Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] numero verde 800 123 931

Premessa

Questo libro presenta un racconto della storia della filosofia che si snoda attraverso i suoi protagonisti, le loro opere, i temi e i problemi che essi hanno via via affrontato. Ma il nostro intento non è stato quello di offrirne una semplice sequenza cronologica, bensì di ricostruire il movimento della discussione filosofica, del confronto fra tesi rivali, delle successive svolte intellettuali. Non pensiamo infatti che la storia della filosofia vada concepita, e narrata, come una «filastrocca delle opinioni» che si snoda nei secoli (come diceva Hegel a proposito del cattivo uso di questa disciplina). Crediamo invece che essa costituisca lo scenario di un serrato dibattito fra tentativi diversi, e spesso contrapposti, di rispondere razionalmente a una serie di domande fondamentali che gli uomini si sono posti nel corso della loro storia, e in forme diverse tuttora si pongono: che cos’è il mondo, e come possiamo conoscerlo? Esiste una divinità? Se sì, qual è il suo rapporto con il mondo e con gli uomini? Qual è il senso dell’esistenza umana, quali sono le condizioni che possono assicurarle una piena fioritura, quali sono le norme e i valori morali che garantiscono il buon ordine della vita associata? E infine: se intorno a questi e ad altri analoghi problemi si possono formulare tesi diverse, quali sono i criteri che ci permettono di sceglierne alcune rispetto ad altre? O in altri termini, come è possibile decidere della loro validità? Per chi ritiene che alle domande fondamentali intorno al mondo, alla conoscenza, al senso e al valore della vita individuale e collettiva esista una sola risposta possibile, e che essa sia rivelata da un’autorità estranea e superiore alla ragione umana, ai suoi metodi di indagine e di argomentazione, lo sforzo secolare della riflessione filosofica può apparire inutile; ma anche chi possiede questa convinzione, se vuole vivere nella comunità umana, deve poi esperire lo sforzo di convincere chi non la condivide, e ancora una volta – come spesso è accaduto nel corso della storia – deve ricorrere a questo fine agli argomenti della filosofia. Chi invece crede che si tratti di domande aperte, di risposte alternative fra le quali decidere e orientarsi con le sole forze della riflessione razionale, non può che trovare nella storia della filosofia l’affascinante spettacolo degli sforzi del pensiero umano per procedere lungo un percorso di conoscenza, di chiarezza, di progressivo approfondimento critico delle conquiste via via conseguite. Raccontare la storia della filosofia ha dunque significato per noi in primo luogo ricostruire ed esporre il gioco delle argomentazioni contrapposte, il progressivo accumularsi delle conoscenze oppure il conflitto fra “ragioni” alternative, con l’attenzione rivolta più alla ricostruzione della discussione razionale che alla semplice successione cronologica delle opinioni; senza mai dimenticare, d’altro canto, che ogni forma di riflessione filosofica si svolge in una situazione storica e sociale determinata, e che le sue “ragioni” sono in primo luogo riferite ai problemi propri del mondo in cui essa nasce e si sviluppa. Ci sono, a nostro avviso, delle buone ragioni per le quali la filosofia e la sua storia, nel senso di cui

L’età antica

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III

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Premessa

si è parlato, meritano ancora oggi di venire insegnate e apprese. Siamo in effetti convinti che gli strumenti offerti dalla riflessione filosofica siano utili per articolare correttamente le domande che ognuno si pone intorno alla comprensione del mondo in cui viviamo, al senso della nostra esistenza, alla giustizia e alla felicità, al nostro rapporto con gli altri, con le vicende politiche, sociali e morali che ci coinvolgono. Siamo inoltre convinti che quegli stessi strumenti siano indispensabili per vagliare criticamente la validità e il senso delle risposte che a queste domande vengono suggerite dall’ambiente culturale che ci circonda, dalle tradizioni, dai mezzi di comunicazione e dalle forme di autorità che vi sono dominanti. L’esercizio della riflessione filosofica ha dunque, a nostro avviso, una doppia e preziosa funzione. In senso critico, essa serve a proteggere l’autonomia di giudizio e di valutazione del soggetto dalla pressione di credenze diffuse, di pregiudizi sociali, di proposte informative che possono essere intese a suscitare un’accettazione passiva e conformistica. In senso positivo, la riflessione filosofica può aiutare a orientarsi di fronte alle questioni decisive di verità e di senso, di conoscenza e di condotta personale e collettiva che si pongono alla vita di ognuno; può dunque servire a costruire profili di personalità libera e consapevole, capace di interagire positivamente con gli altri in un mondo sociale sempre più complesso. La storia della filosofia – se appunto non viene studiata come mera «filastrocca delle opinioni» – può allora costituire una sorta di repertorio ragionato di questi strumenti critici e costruttivi. Essa continua dunque a meritare, a nostro avviso, il suo posto in qualsiasi programma di formazione dei futuri cittadini in quanto soggetti in grado di esprimersi razionalmente e liberamente nel discorso e nell’azione, rifiutando le tentazioni della coercizione e della violenza, privilegiando invece l’ascolto, la comprensione, lo sforzo di convincere delle proprie ragioni e di accettare quelle altrui. L.F.-M.V.

IV

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L’età antica

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INDICE L’età antica 1. Il contesto storico

p.

2

...............................................................................................................................

p.

8

.........................................................................................................................................................................

p.

13

................................................................................................................................................................................

p.

19

p.

25

........................................................................................................................................................... p. 1.1 Il problema delle fonti ........................................................................................................................................................................ p.

28 29

....................................................................................................................................................................................

2. Il contesto culturale e artistico 3. Il contesto filosofico 4. Chi erano i filosofi

5. La fine della filosofia antica

..........................................................................................................................................

1 I presocratici: gli inizi della filosofia 1. Chi sono i presocratici? 2. La scuola di Mileto

p.

31

2.1 Talete: il più saggio tra i sapienti ........................................................................................................................................ p. 2.2 Anassimandro: l’illimitato come origine di tutto ................................................................................... p. 2.3 Anassimene: il principio delle cose è l’aria ........................................................................................................ p.

31 32 32

...............................................................................................................................................................................

3. Eraclito: il filosofo oscuro

p.

33

4. Pitagora e il pitagorismo

....................................................................................................................................................... p. 4.1 L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni .............................................................. p. 4.2 Le dottrine matematiche .................................................................................................................................................................. p.

36 36 38

5. Parmenide e l’eleatismo

40

5.1 5.2 5.3 5.4

..................................................................................................................................................

......................................................................................................................................................... p. Senofane di Colofone: le radici dell’eleatismo ........................................................................................... p. Parmenide: la verità contro l’opinione ..................................................................................................................... p. Zenone di Elea: la difesa logico-dialettica di Parmenide ............................................................ p. Melisso: l’essere è il cosmo .......................................................................................................................................................... p.

6. Empedocle, Anassagora e Democrito

40 40 43 45

.................................................................................................. p. 6.1 Empedocle: tra antichi e nuovi saperi ........................................................................................................................ p. 6.2 Anassagora: i semi infiniti e l’intelletto ................................................................................................................... p. 6.3 Democrito: gli atomi e il vuoto ............................................................................................................................................ p.

45 46 48 50

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. lessicop. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. questionario

54 55 57

.......................................................................................................................................................................................................................

p.

V

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L’A N T O L O G I A

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T1 Il lògos .............................................................................................................................................................................................................................................. p. T2 Parmenide, La via della verità: l’essere ............................................................................................................................................................ p.

➥ Tutorial: ➥ Biblioteca

58 59

Eraclito, Sulla natura K.R. Popper, Ritorno ai presocratici

2 Socrate e i sofisti: la filosofia della città 1. Atene: il luogo della filosofia

p.

64

2. I sofisti

.................................................................................................................................................................................................................................. p. 2.1 Protagora: il relativismo ................................................................................................................................................................... p. 2.2 Gorgia: la potenza della parola ............................................................................................................................................ p. 2.3 La sofistica: l’illuminismo greco .......................................................................................................................................... p.

65 66 69 71

3. Socrate e la filosofia

........................................................................................................................................................................... p. Il programma filosofico socratico ..................................................................................................................................... p. Il metodo filosofico socratico .................................................................................................................................................. p. Il rapporto tra virtù, conoscenza e felicità .......................................................................................................... p. Bene, felicità e vita filosofica ..................................................................................................................................................... p. L’eredità di Socrate: le cosiddette “scuole socratiche” ...................................................................... p.

75 76 78 80 82 84

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. lessicop. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. questionario

p.

86 87 89

T1 Platone, L’uomo misura di tutte le cose ........................................................................................................................................................... p. T2 Platone, L’arte maieutica ................................................................................................................................................................................................. p.

90 92

.....................................................................................................................................

3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

.......................................................................................................................................................................................................................

n

L’A N T O L O G I A

n

CITTADINANZA La pena E COSTITUZIONE

...............................................................................................................................................................................

p.

94

.................................................................................................................................................................................................................................

p.

96

Fare filosofia

Bene/buono

IL LIBRO, Il visconte dimezzato di Italo Calvino ..................................................................................................................................................... p. 100 IL FILM, The Departed di Martin Scorsese .................................................................................................................................................................. p. 101

➥ Tutorial: ➥ Biblioteca:

Gorgia, Encomio di Elena G.B. Kerferd, I sofisti, innovatori in un’epoca di transizione

3 Platone 1. Platone e le ragioni della filosofia

................................................................................................................ p. 104 1.1 La sfida della sofistica ........................................................................................................................................................................... p. 104 1.2 Diagnosi e terapie filosofiche ................................................................................................................................................... p. 105

2. Il maestro, il dialogo, la maturità

.................................................................................................................. p. 106 2.1 Il dialogo ................................................................................................................................................................................................................... p. 106 2.2 La maturità: l’Accademia, l’impegno politico e la scienza ........................................................ p. 107

VI

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Indice

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3. Virtù, desiderio, felicità

............................................................................................................................................................ p. 108 3.1 L’otre forato: il flusso dei piaceri ........................................................................................................................................ p. 109 3.2 La giustizia come legge del più forte ............................................................................................................................ p. 109 3.3 Le leggi, un patto tra deboli ....................................................................................................................................................... p. 110

4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re 4.1 4.2 4.3 4.4

................................................................................................................ p. La degenerazione della pòlis ....................................................................................................................................................... p. La terapia: la paidèia ................................................................................................................................................................................ p. I filosofi-re ............................................................................................................................................................................................................... p. L’abolizione della proprietà privata ............................................................................................................................... p.

111 112 112 113 113

5. L’anima e la giustizia 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6

...................................................................................................................................................................... p. 115 La rivoluzione psicologica: l’anima scissa e conflittuale ............................................................. p. 115 Scontri e alleanze nell’anima: la biga alata ....................................................................................................... p. 117 Il parallelismo tra anima e città ........................................................................................................................................... p. 118 L’essenza della giustizia ..................................................................................................................................................................... p. 119 Libertà e sudditanza ................................................................................................................................................................................ p. 120 Tra laicità e giudizio divino ........................................................................................................................................................ p. 120

6. Verità, conoscenza e discorso: le idee 6.1 6.2 6.3 6.4 6.5 6.6 6.7 6.8 6.9

.................................................................................................. p. Il bello in sé come paradigma ................................................................................................................................................ p. La natura delle idee .................................................................................................................................................................................. p. Perché le idee? .................................................................................................................................................................................................. p. Il bello in sé: l’ascesa erotica ..................................................................................................................................................... p. La partecipazione del sensibile alle idee ................................................................................................................ p. La reminiscenza .............................................................................................................................................................................................. p. Dialettica e matematica a confronto ............................................................................................................................ p. I quattro gradi della conoscenza ......................................................................................................................................... p. L’idea del buono ........................................................................................................................................................................................... p.

7. Dialettica, idee, principi 7.1 7.2 7.3 7.4 7.5 7.6

......................................................................................................................................................... p. La dialettica come sintassi ideale ....................................................................................................................................... p. Generi e specie, divisione e ricomposizione ................................................................................................... p. I cinque generi sommi ........................................................................................................................................................................ p. Il parricidio di Parmenide: la riammissione del non essere .................................................. p. Unità e molteplicità ................................................................................................................................................................................. p. Le dottrine non scritte: l’uno e la diade .................................................................................................................. p.

121 122 122 122 123 124 124 125 126 127 128 130 130 131 131 132 133

8. Il cosmo e le sue cause

133 134 135 135

9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione

137 137 137 138 139

............................................................................................................................................................... p. 8.1 Le cause dell’origine dell’universo ................................................................................................................................... p. 8.2 Le due cause: intelligente e necessaria ....................................................................................................................... p. 8.3 La supremazia della razionalità ........................................................................................................................................... p.

9.1 9.2 9.3 9.4

.......................................................... p. Eros demone mediatore ................................................................................................................................................................... p. La filosofia come tensione erotica .................................................................................................................................... p. La caverna ................................................................................................................................................................................................................. p. Irrazionalità, persuasione e mito ....................................................................................................................................... p.

10.L’eredità: l’Accademia

...................................................................................................................................................................

p. 140

Tesi a confronto

Platone: governo totalitario o governo democratico?

Indice

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.............................................................................................................................

p. 142

VII

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sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 144 lessicop. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 146 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

IL CLASSICO

p. 148

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La Repubblica T1 Platone, La nobile menzogna/Il mito dei metalli ................................................................................................................................... p. T2 Platone, L’idea del Buono ............................................................................................................................................................................................... p. T3 Platone, Il mito della caverna .................................................................................................................................................................................... p. T4 Platone, La critica della democrazia ................................................................................................................................................................... p. n

L’A N T O L O G I A

152 153 155 157

n

T5 Platone, La natura delle idee e il problema della partecipazione ......................................................................................... p. 159 T6 Platone, La nascita di Eros e la natura della filosofia ........................................................................................................................ p. 161 T7 Platone, La conoscenza e la reminiscenza .................................................................................................................................................... p. 163 CITTADINANZA La partecipazione politica E COSTITUZIONE

...................................................................................................................

p. 166

..................................................................................................................................................................................................................

p. 168

Fare filosofia

Giustizia/giusto

IL LIBRO, Uomini e topi di John Steinbeck ................................................................................................................................................................. p. 172 IL FILM, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri ............................................................................... p. 173

➥ Tutorial: ➥ Biblioteca

Platone, Fedro L. Canfora, Il fallimento di Platone

4 Che cos’è la giustizia? 1. Breve storia del termine “giustizia”

...........................................................................................................

p. 176

...................................................................................................................................................................

p. 176

2. Origini e necessità della giustizia: il “mito” di Protagora

3. La giustizia come strumento del potere: la Repubblica

..............................

p. 177

4. La giustizia: convenzione, ordine sociale e garanzia di felicità

...............................................................................................................................................................................

p. 177

5. Politica e morale in Aristotele

p. 179

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L’A N T O L O G I A

.................................................................................................................................

n

T1 Platone, La legge di Zeus ................................................................................................................................................................................................ p. 180 T2 Platone, Giustizia è una città che canta all’unisono ........................................................................................................................... p. 181 T3 Aristotele, La virtù del giusto e la legge ........................................................................................................................................................ p. 182 Filosofia e letteratura

T4 Sofocle, Le leggi non scritte degli dèi ................................................................................................................................................................ p. T5 Dante, L’uomo di filosofia deve respingere l’umiliazione e l’ingiustizia .......................................................................... p. CHE COSA HAI IMPARATO ........................................................................................................................................................................................................... p. CHE COSA NE PENSI TU ................................................................................................................................................................................................................ p.

VIII

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183 185 186 187

Indice

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5 Aristotele 1. Il primo professore

..............................................................................................................................................................................

1.1 Gli scritti e il cloro ordinamento

2. Le ragioni di Aristotele

.......................................................................................................................................

...............................................................................................................................................................

2.1 I cinque capisaldi della filosofia di Aristotele

3. L’edificio del sapere

...............................................................................................

............................................................................................................................................................................

3.1 La classificazione delle scienze

..............................................................................................................................................

p. 190 p. 191 p. 193 p. 194 p. 194 p. 195

4. La logica 4.1 4.2 4.3 4.4

........................................................................................................................................................................................................................... p. L’analisi delle proposizioni ......................................................................................................................................................... p. La teoria del sillogismo ...................................................................................................................................................................... p. La dimostrazione e i principi delle scienze ....................................................................................................... p. Le scienze: struttura, pratica ed esposizione .................................................................................................... p.

196 196 198 199 202

5. Le categorie e il primato della sostanza

......................................................................................... p. 203 5.1 Le dieci categorie .......................................................................................................................................................................................... p. 203 5.2 Sostanze prime e seconde .............................................................................................................................................................. p. 204

6. Il divenire del mondo: principi e cause 6.1 6.2 6.3 6.4

.......................................................................................... p. I principi del movimento ............................................................................................................................................................... p. Potenza e atto .................................................................................................................................................................................................... p. Le cause ........................................................................................................................................................................................................................ p. Arte e natura ......................................................................................................................................................................................................... p.

206 207 208 209 210

7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia

................................................. p. 211 7.1 Dalla fisica alla cosmologia ........................................................................................................................................................ p. 212 7.2 Dalla cosmologia alla teologia .............................................................................................................................................. p. 214

8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia

216 216 217 219

9. La filosofia prima o metafisica

220 221 221 223 224

.................................................................................... p. 8.1 Biologia e zoologia ................................................................................................................................................................................... p. 8.2 Psicologia: l’anima .................................................................................................................................................................................... p. 8.3 La percezione e l’intelletto ............................................................................................................................................................ p.

9.1 9.2 9.3 9.4

............................................................................................................................... p. La natura della sapienza ................................................................................................................................................................... p. Lo studio dell’essere ................................................................................................................................................................................ p. La forma causa dell’essere .............................................................................................................................................................. p. Una scienza teologica unificata? ......................................................................................................................................... p.

10.L’etica

..................................................................................................................................................................................................................................... p. 10.1 Il bene supremo: la felicità ......................................................................................................................................................... p. 10.2 Le virtù etiche ................................................................................................................................................................................................... p. 10.3 Le virtù dianoetiche ............................................................................................................................................................................... p.

226 226 228 230

11.La politica

................................................................................................................................................................................................................... p. 231 11.1 L’esercizio del potere: le forme costituzionali ............................................................................................... p. 232

12.La retorica e la poetica

.............................................................................................................................................................. p. 233 12.1 L’arte della persuasione .................................................................................................................................................................... p. 234 12.2 La poesia tragica .......................................................................................................................................................................................... p. 234

13.La scuola di Aristotele: il Peripato 14.Un bilancio

Indice

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..............................................................................................................

p. 236

............................................................................................................................................................................................................

p. 237

IX

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Tesi a confronto

Aristotele: la natura ha un fine? ....................................................................................................................................................................................... p. 238 sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 240 lessicop. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 242 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

IL CLASSICO

p. 244

n

Metafisica T1 Aristotele, Origini della sapienza ........................................................................................................................................................................... p. T2 Aristotele, La filosofia prima come scienza dell’essere in quanto essere ...................................................................... p. T3 Aristotele, L’essere primo è la sostanza ........................................................................................................................................................... p. T4 Aristotele, Il dio di Aristotele: il motore immobile ............................................................................................................................... p. n

L’A N T O L O G I A

248 250 251 253

n

T5 Aristotele, Origini e natura della pòlis ............................................................................................................................................................. p. 256 T6 Aristotele, Che cos’è la felicità? .............................................................................................................................................................................. p. 259 T7 Aristotele, Elogio della biologia .............................................................................................................................................................................. p. 261 CITTADINANZA Il principio democratico E COSTITUZIONE

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........................................................................................................................

p. 264

Aristotele, Etica nicomachea I. Düring, Aristotele e Platone

6 Che cos’è il bene? 1. Platone è amico ma ancora più amica è la verità

..................................................

2. Che cosa esiste veramente? Idee contro individui

p. 268

..............................................

p. 269

3. Che cosa sono le idee? Trascendenza contro immanenza

..............................................................................................................................................................................

p. 269

4. Prescrivere o descrivere? Il bene

.........................................................................................................................

p. 270

5. Prescrivere o descrivere? La città

........................................................................................................................

p. 271

n

L’A N T O L O G I A

n

T1 Platone, Il bene ha una funzione analoga a quella del sole ....................................................................................................... p. 272 T2 Aristotele, Il bene si dice in molti modi .......................................................................................................................................................... p. 273 T3 Aristotele, Il bene non è uno ...................................................................................................................................................................................... p. 274 Filosofia e letteratura

T4 Virgilio, L’annuncio del bene futuro per gli uomini .............................................................................................................................. p. T5 Petrarca, L’amore per Laura guida al sommo bene .............................................................................................................................. p. CHE COSA HAI IMPARATO ........................................................................................................................................................................................................... p. CHE COSA NE PENSI TU ................................................................................................................................................................................................................ p.

X

02_Indice.indd 10

275 276 278 279

Indice

25/01/12 18.41

7 Epicureismo, stoicismo, scetticismo 1. L’ellenismo

...............................................................................................................................................................................................................

1.1 Le scuole filosofiche

................................................................................................................................................................................

p. 282 p. 282

2. L’epicureismo 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5

..................................................................................................................................................................................................... p. Le ragioni di Epicuro ............................................................................................................................................................................. p. Il sistema filosofico ................................................................................................................................................................................... p. I principi della fisica ................................................................................................................................................................................ p. L’annuncio di felicità ............................................................................................................................................................................. p. L’eredità epicurea ......................................................................................................................................................................................... p.

3. Lo stoicismo 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7 3.8 3.9

.......................................................................................................................................................................................................... p. Nascita e sviluppo dello stoicismo antico ........................................................................................................... p. La logica ...................................................................................................................................................................................................................... p. La fisica ......................................................................................................................................................................................................................... p. L’etica ............................................................................................................................................................................................................................... p. Lo stoicismo medio ................................................................................................................................................................................. p. Lo stoicismo romano ............................................................................................................................................................................ p. Seneca: filosofia e politica a Roma .................................................................................................................................. p. Epitteto e la riflessione sulla libertà .............................................................................................................................. p. Marco Aurelio: il filosofo imperatore ........................................................................................................................... p.

4. Scetticismi antichi

.................................................................................................................................................................................. p. 4.1 Le ragioni di Pirrone ............................................................................................................................................................................... p. 4.2 Lo scetticismo nell’Accademia ................................................................................................................................................ p. 4.3 L’eredità pirroniana .................................................................................................................................................................................. p.

285 285 286 287 290 295 296 296 298 302 305 308 309 310 311 313 313 314 315 320

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................p. 326 lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. 327 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

L’A N T O L O G I A

p. 329

n

T1 Epicuro, Esercizio della filosofia e felicità ..................................................................................................................................................... p. 330 T2 Epicuro, Gli atomi e il vuoto ........................................................................................................................................................................................ p. 333 CITTADINANZA Il potere legislativo E COSTITUZIONE

.........................................................................................................................................

p. 336

..................................................................................................................................................................................................................................................

p. 338

Fare filosofia

Felicità

IL LIBRO, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller ................................................................................................................ p. 342 IL FILM, Happiness di Todd Solondz .................................................................................................................................................................................. p. 343

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Indice

02_Indice.indd 11

Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani H. Jonas, Le trasformazioni dell’ellenismo

XI

25/01/12 18.41

8 Che cos’è il piacere? 1. Che cos’è il piacere?

..........................................................................................................................................................................

2. I sofisti, Socrate e i suoi “discepoli” 3. Platone: piacere e vita buona

.........................................................................................................

....................................................................................................................................

4. Aristotele: il piacere è un bene

..............................................................................................................................

5. Epicuro: il piacere è l’unico fine n

L’A N T O L O G I A

........................................................................................................................

p. 346 p. 346 p. 347 p. 348 p. 349

n

T1 Platone, La distinzione tra il bene e il piacere .......................................................................................................................................... p. 350 T2 Aristotele, I piaceri propri dell’uomo ................................................................................................................................................................. p. 351 T3 Epicuro, Piacere e dolore ................................................................................................................................................................................................ p. 352 Filosofia e letteratura

T4 Petronio, Una sfrenata ricerca del piacere ................................................................................................................................................... p. T5 Dante, Il peccato della gola ......................................................................................................................................................................................... p. CHE COSA HAI IMPARATO ........................................................................................................................................................................................................... p. CHE COSA NE PENSI TU ................................................................................................................................................................................................................ p.

9 Plotino e i platonismi 1. Platonismi a confronto: un campo di battaglia

........................................................

p. 360

2. Il medioplatonismo 2.1 2.2 2.3 2.4

.......................................................................................................................................................................... p. La rinascita dello spirito sistematico all’interno della scuola .............................................. p. Dio e le idee: teologia e ontologia ................................................................................................................................... p. L’uomo e la sua anima: l’etica medioplatonica .......................................................................................... p. Un terreno di scontro: il mondo è eterno o ha un inizio? ....................................................... p.

3. Plotino: fra innovazione e tradizione

................................................................................................. p. 3.1 Al di là dell’essere e del pensiero c’è l’Uno ........................................................................................................ p. 3.2 L’Intelletto, l’Anima e il mondo ........................................................................................................................................... p. 3.3 Il ritorno all’Uno .......................................................................................................................................................................................... p.

4. Il neoplatonismo dopo Plotino

.........................................................................................................................

353 355 356 357

361 361 362 364 365 367 367 373 374

p. 377

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 380 lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. 381 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

L’A N T O L O G I A

p. 383

n

T1 Plotino, Le tre ipostasi ....................................................................................................................................................................................................... p. 384 T2 Plotino, L’ascesa verso l’Uno ........................................................................................................................................................................................ p. 385

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XII

02_Indice.indd 12

Plotino, Enneadi P. Hadot, Plotino fra tradizione e originalità

Indice

25/01/12 18.41

10 Il pensiero scientifico antico 1. Scienze e filosofia

....................................................................................................................................................................................

p. 390

2. La medicina antica 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

............................................................................................................................................................................... p. Gli inizi e il Corpus Hippocraticum ..................................................................................................................................... p. Il sapere medico come modello culturale ........................................................................................................... p. Il sapere dei medici ippocratici ............................................................................................................................................. p. La medicina ellenistica e la rivoluzione anatomica ............................................................................. p. Le scuole mediche ...................................................................................................................................................................................... p. Galeno e la rifondazione della medicina ............................................................................................................. p.

3. Matematiche e filosofia 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

............................................................................................................................................................ p. I greci e la matematica ......................................................................................................................................................................... p. Prima di Euclide: la nascita della matematica greca ........................................................................... p. La svolta assiomatica: l’Accademia platonica, Aristotele e Euclide ............................. p. L’astronomia matematica ............................................................................................................................................................... p. L’assiomatizzazione dell’ontologia: Proclo e il neoplatonismo ...................................... p.

391 391 392 393 395 397 398 402 402 403 404 407 411

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. questionario

414 415 ....................................................................................................................................................................................................................... p. 416

➥ Biblioteca

G.E. Lloyd, Investigare la natura

11 Che cos’è la medicina? 1. Medicina, biologia e filosofia 2. Galeno: il medico-filosofo n

T1 T2 T3 T4

L’A N T O L O G I A

...................................................................................................................................

p. 420

...............................................................................................................................................

p. 421

n

Ippocrate, Un male che sacro non è ................................................................................................................................................................... p. Ippocrate, Il “manifesto” della nuova medicina ...................................................................................................................................... p. Aristotele, Anche qui vi sono dèi ........................................................................................................................................................................... p. Galeno, Virtù e sapere del vero medico ........................................................................................................................................................... p.

422 423 424 425

Filosofia e letteratura

02_Indice.indd 13

T5 Marco Porcio Catone, La sfiducia verso i medici .................................................................................................................................... p. T6 Petrarca, Sulla sfrontatezza e il pomposo abbigliamento dei medici ............................................................................... p. CHE COSA HAI IMPARATO ........................................................................................................................................................................................................... p. CHE COSA NE PENSI TU ................................................................................................................................................................................................................ p.

426 427 428 429

Indice

XIII

25/01/12 18.41

L’età tardoantica e il Medioevo 1. Il contesto storico

....................................................................................................................................................................................

2. Il contesto culturale e artistico 3. Il contesto filosofico

p. 432

...............................................................................................................................

p. 436

.........................................................................................................................................................................

p. 439

12 Cristianesimo e filosofia: dai Vangeli ad Agostino 1. Cristianesimo e filosofia tardoantica

....................................................................................................

p. 446

2. La rivelazione biblica e il cristianesimo

........................................................................................ p. 447 2.1 I temi fondamentali della Bibbia ebraica ............................................................................................................... p. 447 2.2 Il Nuovo Testamento .................................................................................................................................................................................... p. 448

3. I padri della Chiesa

............................................................................................................................................................................. p. 451 3.1 I padri apologisti e la scuola di Alessandria ..................................................................................................... p. 451 3.2 Impero e ortodossia nell’età dei concili (IV-V secolo) .................................................................... p. 454

4. Agostino 4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8

.......................................................................................................................................................................................................................... p. Il percorso biografico e intellettuale ............................................................................................................................. p. Credere e sapere ............................................................................................................................................................................................. p. Il giovane Agostino: l’ordine, il male e la felicità .................................................................................... p. La teoria della conoscenza ............................................................................................................................................................ p. La teoria del tempo .................................................................................................................................................................................. p. Teologia della storia e filosofia politica ................................................................................................................... p. Etica e teologia morale ....................................................................................................................................................................... p. L’eredità di Agostino ............................................................................................................................................................................... p.

5. L’autunno della patristica: lo pseudo-Dionigi

...............................................................

456 457 458 459 462 465 466 468 471

p. 472

Tesi a confronto

Predestinati o liberi? .................................................................................................................................................................................................................... p. 474 sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 476 lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. 477 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

IL CLASSICO

p. 479

n

Le confessioni T1 Agostino, Il metodo dell’interiorità ..................................................................................................................................................................... p. T2 Agostino, Il male ..................................................................................................................................................................................................................... p. T3 Agostino, Il tempo non è nelle cose, ma nell’anima ............................................................................................................................ p. T4 Agostino, La verità è nella luce di Dio ............................................................................................................................................................... p. n

L’A N T O L O G I A

482 484 485 488

n

T5 Agostino, L’anima agisce su ciò che il corpo subisce ......................................................................................................................... p. 489 T6 Agostino, Il maestro interiore ................................................................................................................................................................................... p. 491 T7 Agostino, La città terrena e la città di Dio ....................................................................................................................................................p. 494 Fare filosofia

Verità

XIV

02_Indice.indd 14

...................................................................................................................................................................................................................................................

p. 496

Indice

25/01/12 18.41

IL LIBRO, L’urlo e il furore di William C. Faulkner ................................................................................................................................................. p. 500 IL FILM, Sherlock Holmes di Guy Ritchie ....................................................................................................................................................................... p. 501

➥ Tutorial: ➥ Biblioteca

Agostino, Confessioni É. Gilson, Agostino e filosofia cristiana

13 Tre Medioevi a confronto 1. L’Alto Medioevo: filosofia nei monasteri e nelle corti 1.1 1.2 1.3 1.4

............................... p. I due “inizi” del Medioevo e Severino Boezio .............................................................................................. p. Dagli enciclopedisti alla rinascita carolingia .................................................................................................. p. Eriugena ...................................................................................................................................................................................................................... p. L’XI secolo e Anselmo d’Aosta ................................................................................................................................................. p.

2. Abelardo e le scuole nel XII secolo 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5

............................................................................................................. p. La civiltà urbana nel XII secolo ............................................................................................................................................. p. Pietro Abelardo ............................................................................................................................................................................................... p. La scuola di Chartres: filosofia della natura e platonismo ....................................................... p. La riflessione politica di Giovanni di Salisbury .......................................................................................... p. Alla ricerca di un rinnovamento spirituale: la profezia di Giacchino da Fiore ........................................................................................................................................................................... p.

3. La filosofia islamica ed ebraica 3.1 3.2 3.3 3.4

............................................................................................................................. p. Contesto storico e caratteri generali .............................................................................................................................. p. L’Islam orientale: al-Farabi e Avicenna ..................................................................................................................... p. L’Islam occidentale e Averroè ................................................................................................................................................... p. La filosofia ebraica: Avicebron e Mosè Maimonide ............................................................................. p.

504 504 507 509 512 516 516 517 523 523 524 525 525 526 530 533

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................p. 534 lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. 535 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

L’A N T O L O G I A

p. 537

n

T1 Giovanni Scoto Eriugena, L’autorità e la ragione ................................................................................................................................... p. 538 T2 Anselmo d’Aosta, Fede e ragione ........................................................................................................................................................................... p. 540 T3 Pietro Abelardo, Il dialogo delle religioni con la filosofia ............................................................................................................ p. 541 CITTADINANZA Unità dell’Europa E COSTITUZIONE

➥ Biblioteca

..............................................................................................................................................

p. 544

A. de Libera, Occidente e Oriente

14 Il XIII secolo e Tommaso d’Aquino 1. Il XIII secolo: le traduzioni e la filosofia nelle università

................. p. 548 1.1 Il movimento delle traduzioni .............................................................................................................................................. p. 548 1.2 La nascita delle università e l’insegnamento della filosofia .................................................... p. 549

2. Alberto Magno e gli “aristotelici radicali”

................................................................................ p. 2.1 La riscoperta di Aristotele ............................................................................................................................................................... p. 2.2 Alberto Magno ................................................................................................................................................................................................. p. 2.3 Gli “aristotelici radicali”: Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia ...................................... p.

Indice

02_Indice.indd 15

552 552 552 554

XV

25/01/12 18.41

3. Tommaso d’Aquino 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7

............................................................................................................................................................................ p. Teologia e filosofia ..................................................................................................................................................................................... p. Che cosa significa “Dio”? Le cinque vie .................................................................................................................. p. L’essere sussistente per se stesso: la natura di Dio .................................................................................. p. L’essere di Dio e quello delle creature: essenza ed esistenza ................................................. p. L’anima umana e la conoscenza intellettuale ................................................................................................ p. L’etica: aristotelismo e cristianesimo a confronto .................................................................................. p. La politica: la naturale necessità della vita associata .......................................................................... p.

557 557 559 560 561 563 565 566

4. I maestri francescani a Parigi e Oxford

............................................................................................. p. 568 4.1 Bonaventura da Bagnoregio ....................................................................................................................................................... p. 569 4.2 I francescani a Oxford: Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone ....................................... p. 574

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................ p. 578 lessico p. ............................................................................................................................................................................................................................................... p. 579 questionario .......................................................................................................................................................................................................................

n

L’A N T O L O G I A

p. 580

n

T1 Tommaso d’Aquino, Essere ed essenza. L’essere di Dio e quello delle creature ....................................................... p. 582 T2 Tommaso d’Aquino, Le cinque vie ......................................................................................................................................................................... p. 584 T3 Tommaso d’Aquino, Non sarebbe contraddittorio un mondo eterno e creato da Dio ...................................... p. 587 CITTADINANZA La nozione di cittadinanza E COSTITUZIONE

................................................................................................................

p. 590

...................................................................................................................................................................................................................................................

p. 592

Fare filosofia

Essere

IL LIBRO, Siddharta di Hermann Hesse ........................................................................................................................................................................... p. 596 IL FILM, La mosca di David Cronenberg ........................................................................................................................................................................ p. 597

➥ Tutorial: ➥ Biblioteca

Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae A. Koyré, Platonismo e aristotelismo nell’età medioevale

15 Il mondo è eterno? 1. Il dogma: il mondo ha avuto inizio

........................................................................................................

2. Bonaventura: Aristotele contro Aristotele 3. Parigi: libertà di ricerca e ortodossia

.................................................................................

p. 601

......................................................................................................

p. 601

4. La risposta di Tommaso ai francescani 5. Fede e scienza in Boezio di Dacia n

L’A N T O L O G I A

p. 600

............................................................................................

p. 602

..................................................................................................................

p. 603

n

T1 R. Grossatesta, Il mondo è stato fatto dall’inizio del tempo ...................................................................................................... p. 604 T2 Bonaventura, Paradossi ed eresie dell’infinito in atto ...................................................................................................................... p. 605 T3 Boezio di Dacia, Un falso conflitto dei saperi ............................................................................................................................................ p. 606 Filosofia e letteratura

T4 Orazio, Non morirò del tutto

XVI

02_Indice.indd 16

......................................................................................................................................................................................

p. 607

Indice

25/01/12 18.41

T5 Ovidio, Vivrò in eterno ...................................................................................................................................................................................................... p. 608 T5 Boccaccio, La morte è ovunque .............................................................................................................................................................................. p. 609 CHE COSA HAI IMPARATO ........................................................................................................................................................................................................... p. 610 CHE COSA NE PENSI TU ................................................................................................................................................................................................................ p. 611

16 Scolastica in trasformazione 1. Le censure all’aristotelismo e l’eredità di Tommaso

...................................... p. 614 1.1 Divieti e condanne .................................................................................................................................................................................... p. 614 1.2 Tomismo e antitomismo ................................................................................................................................................................. p. 616

2. Giovanni Duns Scoto 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

.................................................................................................................................................................... p. Teologia e filosofia ..................................................................................................................................................................................... p. Metafisica: l’univocità dell’essere ....................................................................................................................................... p. Parlare metafisicamente di Dio ............................................................................................................................................. p. La natura comune, gli individui e gli universali ........................................................................................ p. Intuizione e astrazione ....................................................................................................................................................................... p. L’etica: volontà e libertà nell’uomo ................................................................................................................................ p.

3. La mistica speculativa di Meister Eckhart

..................................................................................

p. 623

4. Guglielmo di Ockham 4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6

616 616 617 618 620 621 622

............................................................................................................................................................... p. Ontologia: il primato degli enti singolari ............................................................................................................ p. Teoria della conoscenza .................................................................................................................................................................... p. I concetti universali .................................................................................................................................................................................. p. Come funziona il discorso scientifico ....................................................................................................................... p. Il nesso causale e i limiti delle scienze naturali ......................................................................................... p. La politica di Ockham nella discussione del XIV secolo ............................................................. p.

625 626 627 628 629 630 631

5. L’eredità di Guglielmo di Ockham

............................................................................................................. p. 636 5.1 Il dibattito epistemologico ........................................................................................................................................................... p. 636 5.2 La nuova filosofia della natura .............................................................................................................................................. p. 638

sommario p. ............................................................................................................................................................................................................................................p. lessicop. ............................................................................................................................................................................................................................................p. questionario

642 643 ....................................................................................................................................................................................................................... p. 645

n

L’A N T O L O G I A

n

T1 Guglielmo di Ockham, La realtà degli enti singolari e la natura linguistico-mentale degli universali ..................................................................................................................................... p. 646 T2 Marsilio da Padova, Legislatore o prima causa efficiente della legge è il popolo ................................................ p. 649 T3 Guglielmo di Ockham, La nascita della proprietà come rimedio a un disordine ................................................... p. 651 CITTADINANZA Il diritto di proprietà E COSTITUZIONE

➥ Biblioteca

Indice

02_Indice.indd 17

....................................................................................................................................

p. 652

A. Maier, Oltre Aristotele. Scienza e filosofia nella tarda scolastica

XVII

25/01/12 18.41

XVIII

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Indice

25/01/12 18.41

L’età antica

Atena pensierosa, 460 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli.

03_Contesto1 - Copia.indd 1

25/01/12 20.33

Il contesto 1. Il contesto storico L’età arcaica: l’espansione e il declino dei regni micenei

A causa della scarsità delle testimonianze documentarie, sappiamo ben poco dell’età arcaica greca. Il racconto degli storiografi greci successivi e le leggende che circolavano sulla fondazione delle città principali non riescono a delineare un quadro definito, che ci permetta di guardare agli albori di questa civiltà con accettabile sicurezza. Sappiamo però che la cultura omerica rispecchia la società greca dell’epoca precedente allo sviluppo delle grandi città (in greco pòleis) classiche, Atene e Sparta innanzitutto. Comunque siano andate le cose, dunque, è certo che i due grandi poemi, l’Iliade e l’Odissea, ci aiutano a ricostruire una complessa stratificazione temporale. Il primo strato, quello in cui è ambientato il racconto dell’Iliade, corrisponde alla fase della potenza dei regni micenei (XIV-XII secolo a.C.), con le loro imprese di conquista verso le coste dell’Asia mino-

re (la mitica “guerra di Troia” del poema). Il secondo strato, in cui si ambienta l’Odissea, corrisponde al periodo della crisi di quei regni, appunto intorno al XII secolo a.C. Il terzo è poi quello in cui i poemi cominciano a essere composti e cantati dagli aedi: siamo ormai tra la fine del IX e l’inizio dell’VIII secolo a.C., al momento in cui si forma la società delle pòleis, piccole comunità indipendenti formatesi nel corso dei secoli seguiti al crollo del mondo miceneo. La nascita delle pòleis

Questa fase culmina nei secoli VIII-VII a.C., quando nella penisola greca le singole pòleis acquistano tratti specifici che conferiscono a ciascuna comunità una fisionomia propria, definita sulla base della particolarità locali della lingua, dei culti e delle usanze e dalla forma di governo che si andava imponendo. La fase più antica vede il costituirsi dei primi ordinamenti cittadini, risalenti ai leggendari fondatori delle due città, Licurgo a Sparta, Solone ad Atene. Nei secoli seguenti Sparta definisce quei caratteri guerreschi che la renderanno nota promuovendo una vantaggiosa e risoluta politica di espansione, mediante le campagne messeniche, con la conquista della zona del Peloponneso sud-occidentale; ad Atene si impone invece, nel corso del VI secolo a.C., la tirannide di Pisistrato, durante la quale, probabilmente, fu composta in forma unitaria e messa per iscritto la tradizione orale dei due grandi poemi omerici, stabilendo così le radici culturali della Grecia intera. L’espansione coloniale

Al primo momento della storia greca risalgono gli inizi dello sviluppo coloniale, ossia della fondazione di una rete di città portuali diffuse specialmente in Asia minore, nell’Italia meridionale e in Sicilia (Crotone, Taranto, Siracusa e Agrigento, solo per citare le più famose). Esse offrivano da un lato una concreta possibilità di espansione per le città greche nelle fasi di incremento demografico, dall’altro una risorsa economica e produttiva in grado di sostenere la madrepatria nei momenti di bisogno. Fu proprio in queste città appena sorte, meno vinL’entrata ad Atene di Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 146 a.C. Incisione XIX secolo.

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Particolarità locali e identità “ellenica”

Le differenze tra le pòleis, talora sensibilmente marcate, suscitavano tra loro un forte antagonismo (come ci ricordano i più noti conflitti tra Atene e Sparta) che tuttavia non scalzava del tutto le radici dell’identità “nazionale” ellenica. La percezione che i greci avevano di se stessi è sempre stata segnata dalla consapevolezza di appartenere a una civiltà superiore, ben diversa da quelle situate oltre i confini della penisola, i “barbari”. In questa fase si andava già costituendo in Grecia (e specialmente ad Atene) un’identità “occidentale”, che riconosceva il valore dell’individuo, la supremazia dello stato rettamente governato, e della condivisione, tra uomini liberi, di un unico codice morale (pur senza mai mettere in discussione l’istituto della schiavitù); questa fisionomia nasceva in antitesi rispetto a quella delle grandi monarchie accentratrici in Oriente, dove il cittadino era innanzitutto un suddito, sottoposto alla dispotica autorità del sovrano assoluto. Uniti contro i “barbari”: le guerre persiane

Due episodi delle guerre persiane sono diventati leggendari e hanno contribuito ad accentuare questa senso di identità che neppure i più aspri conflitti interni riuscivano a scalfire: si tratta del-

Il contesto

colate alle tradizioni e identità culturali delle città d’origine, che sorse una nuova e particolare forma di “sapienza”, diversa per qualche ragione dalle altre, che sarebbe in seguito stata considerata come l’antenata, o la matrice, della filosofia.

la celebre e insperata vittoria riportata dai greci a Maratona (490 a.C.) e della strenua resistenza dei valorosi soldati del re spartano Leonida alle Termopili (480 a.C.). Nei Persiani il grande poeta tragico Eschilo traduce il sentimento di libertà che contraddistingue l’uomo greco, mettendo in scena un dialogo tra la regina persiana e il capo del coro, in cui ella chiede chi siano gli Elleni, e chi sia il capo del popolo che essi stanno cercando di soggiogare; la risposta è pronta: «Di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (Eschilo, Persiani). È proprio in questo “spazio” di autonomia politica, nel “vuoto” di autorità religiose tipico della pòlis greca che si innesterà la pratica della filosofia, come avremo modo di vedere più avanti. L’età classica: lo sviluppo delle pòleis

L’età classica corrisponde al massimo sviluppo culturale e artistico della Grecia del VI-V secolo a.C., in cui Atene e Sparta si affermano come le due più importanti città della Grecia. Ad Atene, con la riforma di Clistene (fine VI secolo a.C.), e poi con Pericle (V secolo a.C.) viene istituito un governo democratico, che subisce rovesci in successive varie occasioni, alternandosi a periodi di oligarchia e tirannide; qui si avvia un gigantesco sforzo di produzione intellettuale che per tutte le epoche a venire rappresenterà l’ideale della classicità. L’indiscussa superiorità culturale di Atene non deve però far pensare che Sparta, dove già tra VIII e VII secolo a.C. si era consolidato un regime monarchi-

Tempio di Era Lacinia, V sec. a.C. Agrigento.

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co-militare, abbia rappresentato un ruolo del tutto marginale nella formazione di questa straordinaria eredità. Essa rappresenta infatti nell’immaginazione di molti ateniesi (Platone incluso) il modello del perfetto stato militare, forte, immune da tutte le forme di degenerazione morale e politica, con una capacità senza pari di promozione degli ideali del coraggio, del valore guerriero, dell’austerità e della disciplina presso la sua gioventù. La fine dell’età classica: la guerra del Peloponneso

Se Atene rappresenta il centro della massima fioritura della civiltà greca classica, non fa meraviglia che la fine di quest’epoca sia dovuta al suo declino. L’antagonismo tra Atene e Sparta sfocia infatti in un lungo conflitto, la guerra del Peloponneso, combattuta tra il 431 e il 404 a.C. e narrata dallo storico Tucidide, che conduce al definitivo tramonto della potenza ateniese. All’indomani della fine del conflitto, nel 404 a.C., si impone ad Atene il governo dei Trenta tiranni, che attua una politica del terrore in una città già spossata. La restaurazione della democrazia, avvenuta nel 403 a.C. a opera di Trasibulo responsabile di uno degli atti politici più controversi e più discussi dell’epoca, cioè la condanna a morte del filosofo Socrate (399 a.C.).

Atene e Sparta contro Tebe

Non meno drammatiche sono le conseguenze per i vincitori, gli spartani, anch’essi stremati dalla guerra. Essi sono presto costretti ad allearsi proprio con Atene, la città nemica, stretti dalla necessità di rinforzare un’alleanza contro Tebe, che, sotto la guida del generale Epaminonda, minacciava la penisola greca, ormai indebolita dopo il lungo ed estenuante conflitto. La sconfitta (362 a.C.) di Atene e Sparta, alleatesi contro Tebe, è un sintomo evidente della crisi istituzionale, politica e sociale irreversibile delle città greche, incapaci di difendere la propria autonomia. L’inizio dell’età ellenistica

In questi pochi decenni si consuma la fine di un mondo, del quale conserviamo un’amara quanto straordinaria testimonianza nelle opere di Platone, discepolo di Socrate: gran parte della sua riflessione politica trova in questo preciso contesto la sua ragion d’essere. Tradizionalmente è con Aristotele, suo allievo, che avvertiamo il passaggio all’epoca ellenistica. I macedoni, guidati prima da Filippo II impongono infatti la loro supremazia sulle cittàstato greche negli anni in cui Platone muore (347 a.C.), mentre proprio ad Aristotele spetterà, dietro

Battaglia tra romani e germani, particolare dal Sarcofago Ludovisi, 251 d.C. Rom , Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.

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L’Impero di Alessandro Magno

Riportando una serie di celebri vittorie, Alessandro riunisce un impero (che andava dalla Grecia all’Egitto e dalla Persia fino al fiume Indo) che però non resiste alla morte prematura del suo sovrano avvenuta nel 323 a.C. La sua politica imperiale trasforma tuttavia in modo definitivo le città-stato greche, introducendovi pratiche tipiche dell’Oriente precedentemente sconosciute, come il culto della persona del sovrano. Da cittadino libero, partecipante attivo alla vita politica e pronto alla difesa dei suoi affari nei tribunali sempre affollati di dispute, l’uomo greco si andava trasformando in ciò che i suoi predecessori avevano tentato in ogni modo di scongiurare, ossia in un suddito. Questo mutamento della società greca ha un riflesso inevitabile sul piano culturale e morale, da cui trae origine la civiltà ellenistica. I caratteri della civiltà ellenistica

In questa fase, dunque, le città-stato greche vengono inglobate in regimi monarchici sul modello orientale, realizzando uno sradicamento del cittadino dalla sua terra di appartenenza e consegnandogli, di fatto, la libertà di muoversi all’interno dei confini dilatati di questi nuovi regni. Le conquiste di Alessandro Magno avevano infatti ampliato gli orizzonti geografici ben oltre i limiti della penisola greca, giungendo a comprendere a est quasi tutta l’Asia minore, Persia, Siria, Fenicia, Mesopotamia, Iran, spingendosi in Asia centrale fino all’India, e a ovest l’Egitto e parte dell’Africa settentrionale. Il cosmopolitismo diviene così uno dei tratti caratteristici della nuova civiltà, favorito dalla diffusione della lingua greca (la cosiddetta koiné, utile per tutti gli usi, da quelli commerciali a quelli scientifici e letterari) in tutto il bacino del Mediterraneo. La cultura greca si diffonde ovunque, e dà nuovo impulso alla nascente civiltà (Biblioteca di Alessandria). La fine dell’indipendenza greca e la supremazia di Roma

In questo nuovo mondo, intorno alla fine del III secolo a.C. si affaccia la potenza romana. All’epoca, Roma aveva già a lungo combattuto contro i cartaginesi; dopo la vittoriosa conclusione della seconda guerra punica si avviava a diventare un gigante politico e militare, ma restava un “nano” dal punto di vista culturale. A Roma, infatti, non esisteva una letteratura filosofica o scientifica e teatro e poesia

Il contesto

richiesta di Filippo, l’educazione del giovane Alessandro, il futuro Alessandro Magno.

erano in uno stato solo embrionale (anche se un greco, Livio Andronico, catturato come schiavo nel 272 a.C., aveva tradotto in latino l’Odissea): tuttavia la situazione era destinata a cambiare rapidamente, a partire dall’inizio del II secolo a.C., quando si profilava l’inevitabile confronto fra la potenza romana e i regni ellenistici, ricchi, colti e progrediti, ma militarmente deboli. In questo scontro Roma consolida il proprio potere, riportando vittorie decisive contro i macedoni a Pidna (nel 168 e nel 148 a.C.); nel 146 a.C. la Grecia diventa infine una provincia romana, insieme ai regni di Macedonia e di Pergamo, mentre Siria e Egitto diventano dei protettorati. Roma: l’età monarchica e quella repubblicana

Per comprendere l’affermazione decisiva di Roma sui regni ellenistici è necessario fare un passo indietro. Tradizionalmente la storia di Roma inizia nell’VIII secolo a.C. Già in età arcaica (cioè nel periodo monarchico, noto come quello dei “sette re di Roma”), da iniziale agglomerato contadino Roma si trasforma in una città capace di avanzare pretese nella penisola italica; tali pretese si fanno più incalzanti con la fine del VI secolo a.C., quando al governo monarchico subentra quello repubblicano, in mano alle famiglie aristocratiche più potenti della città. Cacciato l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, nel 509 a.C., termina la fase di influenza etrusca su Roma e inizia la grande espansione a nord, ma soprattutto a sud, nel tentativo di acquisire l’egemonia marittima sul Mediterraneo. La resa di Taranto, allora città portuale di prima importanza, e la sconfitta del suo alleato Pirro, re dell’Epiro, è solo un momento di questa espansione, che culmina con le guerre puniche contro Cartagine, altro centro portuale dominante. Con la vittoria romana nelle guerre puniche (combattute tra il 264 a.C. e il 146 a.C.) Roma estende il proprio controllo sulle zone costiere di tutto il Mediterraneo; la conquista romana finisce inoltre per rafforzare la cultura greca su tutto il mondo antico. Mentre i suoi confini si allargavano e si istituivano forme di controllo politico sulle regioni conquistate, Roma era dilaniata da una guerra civile tra capi di fazioni opposte che cercavano di imporre la propria autorità. La figura più autorevole era rappresentata da Cicerone, strenuo difensore delle istanze repubblicane. Questi conflitti, che spesso strumentalizzavano il malcontento popolare a fini politici, culminano con lo scontro (88-82 a.C.) tra Mario e Silla e con

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Espansione territoriale e problemi amministrativi

Malgrado le tormentate vicende interne, nei cinque secoli seguenti Roma raggiunge la massima espansione territoriale. Traiano (imperatore nel 98 d.C.) conquista la Dacia (una zona compresa tra l’Ungheria e la Moldavia) e si spinge in Oriente: Roma controllava allora l’intera Europa occidentale, gran parte di quella settentrionale e dei Balcani, tutto il bacino del Mediterraneo e parte dell’Africa del Nord e della Mesopotamia. Questo vasto impero poneva però all’ordine del giorno una serie di gravi problemi amministrativi e politici. Era diviso in province, alle quali erano preposti funzionari, incaricati di vigilare sull’ordine pubblico e di riscuotere le imposte destinate a sostenere economicamente le esigenze, talora esose, della capitale. Spesso il malcontento popolare esplodeva in rivolte che richiedevano l’intervento dell’esercito: nel I secolo d.C., durante il regno dell’imperatore Tito, la rivolta della popolazione di Gerusalemme e della Palestina determina la deportazione forzata e in massa dei rivoltosi. Venere Genitrice, Augusto e Marcello, 20-50 d.C. Ravenna, Museo Nazionale.

l’affermazione di Caio Giulio Cesare, vissuto tra il 101 e il 44 a.C. È a questo punto che tradizionalmente si situa la transizione dalla repubblica all’età imperiale: solo nel 27 a.C., tuttavia, Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, riesce a ottenere dal Senato il titolo di Augustus, diventando così il primo imperatore romano. L’Impero romano: l’espansione e lotte interne

Con l’acquisizione del titolo di “Augusto” da parte di Ottaviano ha inizio l’ultima fase della storia romana, quella imperiale. Le tendenze accentratrici del potere nelle mani del sovrano hanno prevalso sui tentativi del Senato (l’assemblea degli esponenti delle famiglie nobiliari più antiche della città) di frenare e regolamentare queste istanze assolutistiche. Il succedersi delle dinastie imperiali non ha comunque impedito l’emergere di continui conflitti tra questi due poli di autorità, con esiti talvolta drammatici per la città. I casi di Caligola (morto nel 41 d.C.) e Nerone (morto nel 68 d.C.), imperatori della prima dinastia, quella Giulio-Claudia, sono diventati paradigmatici per i livelli di efferatezze raggiunti dalla loro politica e sono dunque passati alla storia come emblemi dell’assolutismo sfrenato, privo di regole e controllo. Con la morte di Nerone termina la dinastia Giulio-Claudia, cui succede la dinastia dei Flavi, con Vespasiano, Tito e Domiziano.

Fragilità della carica imperiale e ruolo dell’esercito

Sotto il profilo economico, militare e anche culturale Roma raggiunge dei livelli di eccellenza, grazie alle risorse straordinarie che giungevano da tutte le terre dell’Impero; a questa potenza si associa tuttavia un’estrema fragilità della carica imperiale. Il potere imperiale era centro di aspre e sfrenate contese per la successione al trono, complicate ulteriormente dall’intervento dei comandanti dell’esercito romano, che possedevano una decisiva autorità personale e politica. L’intesa con l’esercito era infatti una condizione indispensabile per il mantenimento del potere centrale all’interno di un quadro geo-politico in continuo fermento, quale era l’Impero romano nei primi secoli dopo Cristo. Con la morte di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, ultimo esponente della dinastia degli Antonini, e l’affermazione della dinastia dei Severi (fine del II e inizio del III secolo), si determina una crisi economica che condurrà l’Impero alla sua fase finale. Verso la dissoluzione

Con l’inizio del III secolo prende avvio la fase di declino irreversibile. Per arrestare questa tendenza vengono prese iniziative volte al consolidamento dell’unità di una compagine territoriale sempre più difficile da governare. Nel 212 Caracalla, della dinastia dei Severi, proclama la cosiddetta Constitutio Antoniniana, con cui concedeva la cittadinanza ro-

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mana a tutti gli abitanti dell’Impero. Questa mossa, dettata da esigenze politiche sempre più pressanti, rappresentava il segno più evidente del progressivo decentramento del potere: Roma non era più il fulcro dell’autorità. Sempre maggiore potere si concentrava, infatti, nelle mani dei funzionari, che approfittavano della loro posizione per lucrare sugli introiti pubblici, suscitando nella popolazione un malcontento difficile da governare. Dato che il motivo religioso poteva costituire un fattore importante di coesione, il cristianesimo, prima avversato con persecuzioni spietate (la prima sotto Nerone nel 64, l’ultima nel 303 sotto Diocleziano), viene prima tollerato (Editto di Costantino, nel 313), poi proclamato religione ufficiale dell’Impero (in particolare il credo niceno, con l’Editto di Tessalonica, nel 380). Il credo niceno era stato stabilito nel Concilio di Nicea nel 325: tramite una formula di fede professava l’unicità di Dio e la nascita virginale di Gesù; cinseguenza è l’immediata messa al bando di tutti gli altri culti pagani e misterici che potevano proporsi come alternative e perciò costituire fattori di disgregazione.

La fine dell’Impero e la crisi delle istituzioni culturali

Secondo la tradizione l’Impero romano perde la propria unità nel 395, alla morte di Teodosio, quando viene diviso tra i suoi due figli: a Onorio viene assegnato l’Impero romano d’Oriente, ad Arcadio l’Impero romano d’Oriente. Il crollo della parte occidentale dell’Impero avverrà meno di un secolo dopo, con la deposizione di Romolo Augustolo per mano di Odoacre (476), generale di stirpe germanica; la parte orientale proseguirà un cammino autonomo, con la sua capitale Bisanzio, proponendosi come l’erede della cultura classica e principale depositaria della sua illustre tradizione. In Occidente, con l’instaurazione dei regni romano-barbarici, la frammentazione politica raggiunge il suo culmine. Il mondo era cambiato, e le antiche sedi istituzionali, custodi della cultura classica ed ellenistica, non rispondevano più alle esigenze della nuova civiltà cristiana: nel 529 l’imperatore bizantino Giustiniano chiude la scuola filosofica di Atene (lontana erede dell’Accademia platonica), segnando la fine dell’epoca della cultura antica.

Cesare Maccari, Seduta del Senato romano, 1888. Roma, Palazzo Madama.

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2. Il contesto culturale e artistico

di forza, che contraddistinguono il “vero uomo” a dispetto della massa mediocre priva di “eroismo”.

2.1 L’ETÀ ARCAICA GRECA. L’EPICA

I valori omerici nella pòlis: alle origini di un conflitto

Omero, maestro dell’Ellade

Platone scrive, nel X libro della Repubblica, che Omero è stato il “maestro dell’Ellade”, e aggiunge che si trattava di un cattivo maestro. Per quanto riguarda la prima di queste affermazioni, non c’è dubbio che Platone abbia ragione: egli considera Omero l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, come prima e dopo di lui una tradizione millenaria che ha ancora oggi i suoi sostenitori. Gli studi dell’ultimo secolo però hanno formulato l’ipotesi, più probabile, che i due poemi siano il risultato di una raccolta di generazioni di cantori (aedi), probabilmente messa per iscritto nel VI secolo a.C. Gli eventi narrati, che risalgono ai secoli XIV-XII a.C., rappresentano la memoria di un mondo ormai lontanissimo da quello in cui i poemi vengono recitati; ma per il pubblico essi svolgono una funzione culturale essenziale e duratura. I poemi omerici come patrimonio di conoscenze e di valori

In primo luogo, assicurano alla società delle pòleis, del tutto “nuova” e priva di tradizioni, un passato glorioso, in cui il mondo disperso delle piccole città può riconoscere, nella spedizione di Troia, il segno di un’identità “nazionale” ellenica. Iliade e Odissea dotano dunque il nuovo contesto storico, debole, insicuro e disperso, della memoria di una tradizione prestigiosa (l’epoca dei re e degli “eroi”) e unitaria. Ma i due poemi offrono alla nascente cultura delle pòleis anche qualcos’altro, che lo studioso inglese Eric Havelock chiama “l’enciclopedia tribale” dei greci. Attraverso il racconto poetico, essi trasmettevano conoscenze politiche, militari, giudiziarie, religiose, sociali, tecnologiche e geografiche: un bagaglio culturale, in parte derivato da antiche tradizioni, in parte adeguato ai nuovi tempi, e indispensabile per la neo-nata società greca, priva di un adeguato patrimonio di conoscenze. Al di là delle conoscenze in essi contenute, i poemi omerici trasmettevano però anche qualcosa di più importante e più duraturo: quel sistema di valori che avrebbe reso Omero un “cattivo maestro” agli occhi di Platone. I valori dell’eroe omerico consistevano infatti nel desiderio di fama e di gloria, nell’ambizione di primeggiare sugli altri grazie a una “virtù” (areté) fatta soprattutto di coraggio e

Ma questo sistema di valori e questa concezione della virtù umana contrastavano le esigenze della comunità politica, della società della pòlis, che richiedeva soprattutto ai suoi membri capacità di collaborazione, spirito di eguaglianza, rispetto delle norme comuni di giustizia: l’esatto contrario, dunque, del modello di “vero uomo” ereditato da Omero. I poemi omerici sono in conflitto anche con il modello della virtù morale delineato da Socrate e da Platone, caratterizzato dalla temperanza, dal primato della conoscenza rispetto alla forza, dalla giustizia intesa come armonia sociale. Tuttavia, la duratura presenza del mondo omerico nella mente dei greci è confermata dal loro sistema educativo: i bambini imparavano a leggere e scrivere sui testi dei poemi, e ne imparavano a memoria lunghi brani. Esiodo e gli dèi greci

La critica di Platone a Omero risiede anche in altro e altrettanto importante aspetto, che accomuna il supposto autore dell’Iliade e dell’Odissea all’altro grande esponente dell’epica greca, Esiodo. A differenza di Omero, Esiodo è un personaggio storicamente esistito, vissuto in Beozia intorno al 700 a.C. e autore di due grandi poemi, la Teogonia e le Opere e i giorni, contemporanei o di poco precedenti a quelli omerici. Il primo di essi, che attinge probabilmente sia a tradizioni locali sia a testi orientali, traccia la genealogia e le dinastie degli dèi. Come testimoniano Erodoto e lo stesso Platone, i greci sapevano benissimo che la loro religione, ben lungi dal fondarsi su una rivelazione o su un libro sacro, non aveva altre fonti se non questi testi poetici: tutto ciò che sapevano e credevano sulle divinità proveniva delle opere di Esiodo e di Omero. Esiodo, come Omero, un cattivo maestro

Ma come vengono rappresentate queste divinità? Ad eccezione dell’immortalità, esse sono del tutto simili agli eroi omerici, con cui condividono vizi e virtù: sono colleriche, vendicative, dedite ai piaceri della vita; sempre pronte a entrare in conflitto per il potere sia fra di loro sia con gli uomini. Come possono queste divinità, si chiede Platone, fornire modelli educativi e virtuosi ai giovani e al popolo che le venerano? Esse, al contrario, sembrano confermare e autorizzare proprio quei comportamenti aggressivi e competitivi, che mettevano in

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Il contesto

Fidia e bottega, Concilio degli dèi con Poseidone, Apollo e Artemide, rilievo del fregio del Partenone, metà del V sec. a.C. Atene, Museo dell’Acropoli.

pericolo l’armonia psichica delle persone e quella politica della città. Occorre dunque, secondo Platone, sostituire la “teologia poetica” con una teologia ispirata dalla filosofia, in cui gli dèi diventino dei modelli virtuosi di giustizia, di temperanza e di benevolenza. Ma, nonostante Platone e gli intellettuali in accordo con lui, la maggioranza dei greci continuava a venerare gli dèi olimpici di Esiodo e di Omero e ad ammirarne la raffigurazione poetica.

2.2 L’ETÀ CLASSICA GRECA. IL TEATRO La produzione teatrale ad Atene nell’età classica

Da quando, nel 535 a.C., Atene decide di istituire pubbliche rappresentazioni teatrali sovvenzionate dalla città, il teatro, “accanto all’assemblea popolare ed ai tribunali, fu in Atene il pilastro del funzionamento politico della comunità” (Luciano Canfora), e naturalmente anche una parte integrante e decisiva della sua cultura. Per tutto il V secolo a.C., Atene finanzia le competizioni teatrali e assicura la partecipazione di massa a questi spettacoli, grazie a un fondo speciale (il “teorico”, da theorìa, spettacolo), che rimborsa agli spettatori il mancato guadagno per le ore di lavoro perduto. Attraverso i secoli ci è pervenuto un patrimonio culturale straordinario, anche se si tratta di una parte irrisoria dell’immensa produzione teatrale dell’Atene classica. Nonostante siano stati rappresentati almeno 1700 drammi e 600 commedie, una selezione operata già nell’antichità ci ha trasmesso solo sette tragedie di Eschilo, sette di Sofocle, diciotto di Euripide e undici commedie di Aristofane.

La funzione del teatro nella società ateniese

Questa formidabile produzione intellettuale è giustificata dal ruolo decisivo rivestito dal teatro nella costruzione di un’identità unitaria della comunità politica ateniese sul piano culturale e psicologico. Il teatro tragico rappresentava i problemi individuali e collettivi che turbavano la città e le coscienze dei suoi cittadini; in questo modo, li rendeva comprensibili, assimilabili dalla consapevolezza comune, e quindi intellettualmente controllabili. Come avrebbe detto Aristotele, la tragedia suscita negli ascoltatori le passioni, facendogli condividere quelle dei personaggi messi in scena, ma li aiuta poi a “purificarsi” da esse, agevolando il raggiungimento dell’autocontrollo psicologico e morale. La tragedia come rappresentazione dei conflitti tra norme giuridiche, leggi divine e doveri morali individuali

Basterà qualche esempio per chiarire questo ruolo del teatro tragico. L’Orestea di Eschilo, rappresentata nel 458 a.C., mette in scena la disfatta del mondo aristocratico degli “eroi” omerici, dominato dalla logica della vendetta, e l’inizio della politica, con l’istituzione dei tribunali cittadini che amministrano la giustizia in nome della legge. L’Antigone di Sofocle, rappresentata nel 442 a.C., rende i cittadini consapevoli del conflitto, tragico perché indecidibile, che può nascere fra le “leggi non scritte” della tradizione religiosa e morale, e quelle politiche della città. Similmente, l’Edipo re (420? a.C.) e l’Edipo a Colono (401 a.C.) di Sofocle affrontano la questione della responsabilità del protagonista: Edipo è colpevole dal tradizionale punto di vista religioso,

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ma innocente da quello della giustizia della città, che punisce solo le azioni compiute in modo intenzionale e consapevole. La commedia: libertà politica e satira

La commedia invece trattava più direttamente l’attualità politica e culturale, sottoponendo a una satira feroce i leaders e gli intellettuali più in vista della città, da Pericle a Socrate: uno straordinario esempio di libertà di parola e di pensiero dell’Atene democratica, oltre a un modo per sfogare nella derisione i malumori del popolo della città. Fra i nomi più noti ricordiamo Aristofane, che ha scritto delle parodie indimenticabili sui filosofi e soprattutto i demagoghi al potere nella democrazia ateniese e sulla cieca fiducia dei suoi concittadini nei nuovi modelli educativi dell’epoca. Platone contro la “teatrocrazia”

Abbiamo già parlato dell’avversione che Platone nutriva nei confronti di questi modelli culturali, ma egli critica duramente anche la “teatrocrazia” ateniese, ossia il potere esercitato dagli spettatori (attraverso gli applausi, i fischi e il meccanismo delle premiazioni) sui testi rappresentati, che avrebbero dovuto così conformarsi alle attese di un pubblico ignorante e incompetente; ma condanna ancora più a fondo il potere che il teatro esercitava sugli spettatori, coinvolgendoli nelle passioni dei suoi personaggi, distruggendo il loro equilibrio psichico e rendendoli preda dell’ira, della paura e del dolore. La produzione storiografica: Erodoto e Tucidide

In questa fase storica acquista una rilevanza di prim’ordine la produzione storiografica, che è molto più ridotta quantitativamente, rivolta a un pubblico più elitario, ma non per questo meno importante sul piano culturale. I due grandi storici del V secolo a.C., Erodoto e Tucidide, narrano rispettivamente la storia delle guerre persiane e quella della guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta. Le loro opere si diffondono mediante letture rivolte a ristretti gruppi di intellettuali e di politici. Nonostante siano quasi contemporanei, i loro approcci storiografici sono molto diversi: Erodoto pone una grande attenzione nel descrivere e nel comparare i costumi e la civiltà dei diversi popoli mediterranei, mettendo a confronto anche i diversi regimi politici. Tucidide, invece, centra il proprio racconto solo sulla dimensione politico-militare, e concepisce la narrazione come una sorta di cartella clinica che propone la diagnosi e la prognosi della patologia, che affligge il mondo greco nella seconda metà del V secolo a.C.

2.3 L’ETÀ CLASSICA GRECA. L’ARTE Architettura e urbanistica

Nel corso del I millennio a.C. in Grecia l’arte assume caratteri propri, distanti da quelli delle civiltà d’Oriente. L’evoluzione dello stile, dall’età arcaica a quella classica, è già evidente nel mutamento dell’impianto dei templi, i principali edifici religiosi dell’antichità, che diventano una costruzione complessa, che si articola in locali interni e arricchisce di portici esterni, secondo modelli rappresentati dagli ordini architettonici decorativi che si evolvono nel tempo e in relazione alle diverse zone di fondazione. Intorno al V secolo a.C. nasce la cosiddetta “scuola attica”, che alla fine del secolo produce le più importanti testimonianze architettoniche dell’età classica. Accanto al tempio, situato sull’acropoli, si sviluppa l’intero impianto urbano di una città, che ha esigenze sempre più diversificate e necessita dunque di strutture belle, ordinate e funzionali: l’agorà, sede di scambi commerciali e della vita politica, il buleuterio (una specie di sala del consiglio, sede della bulè) e gli altri edifici pubblici, i portici (le stoaí), il ginnasio, destinato all’esercizio fisico, e naturalmente il teatro. Le arti figurative: scultura e pittura

Nell’età classica le arti figurative raggiungono il loro apice con l’opera di Fidia (490-430 a.C.), cui Pericle stesso affida la direzione dei lavori di costruzione del Partenone ad Atene. Nelle sue opere si ravvisa l’ideale classico della ricerca della perfezione formale, raggiunta seguendo i criteri dell’armonia, della regolarità e della plasticità delle figure antropomorfe e divine che riproducono il corpo umano nella sua più potente e compiuta espressione. Anche la pittura rappresenta l’uomo come principale soggetto: le decorazioni prima astratte e geometriche, poi vegetali lasciano il posto a scene mitologiche, raffigurate su ceramiche a figure rosse di cui si conservano ancora importanti esemplari. L’evoluzione degli stili nelle arti figurative: sempre più lontani dell’ideale omerico

Nel IV secolo a.C. opera un altro dei grandi scultori classici, Prassitele, le cui opere si discostano ulteriormente dalla rigidità delle immagine arcaiche e assumono una maggiore espressività e delicatezza. Le figure di Prassitele sono riconoscibili per la flessuosità dei movimenti, solitamente appoggiati su un baricentro esterno che ne accentua l’abbandono. L’ideale dell’uomo omerico lascia il posto a

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2.4 DALL’ELLENISMO A ROMA: ALL’ALBA DI UNA NUOVA CIVILTÀ

Il passaggio all’ellenismo segna un nuovo periodo della storia della cultura antica. I regni ellenistici ricoprivano buona parte del grande impero fondato da Alessandro Magno e potevano vantare dei centri culturali di prim’ordine. La Macedonia governava la Grecia continentale e ad Atene si istituiscono, accanto all’Accademia platonica e al Liceo aristotelico, scuole che seguono i nuovi indirizzi filosofici, ossia lo stoicismo e l’epicureismo. Nel regno di Pergamo, sulle coste dell’Asia minore, la capitale diventa un centro culturale di primo livello, emblema del potere e del prestigio della dinastia degli Attalidi. Nel regno di Siria, Antiochia rappresentava un vivacissimo centro culturale; infine nel regno d’Egitto viene fondata Alessandria, il più importante centro di ricerca scientifica e di produzione letteraria che il mondo greco abbia conosciuto.

Il contesto

immagini di giovani dalle pose morbide e dai volti pensosi, a sottolineare che nella nuova società greca i valori sono quelli del vivere civile, dell’armonia e della tranquillità.

stocratici e di intellettuali romani, raccolto intorno alla grande famiglia degli Scipioni, avvia una decisa opera di “ellenizzazione” della cultura romana. Nonostante le resistenze interne (come quella promossa da Catone il Censore, detto anche il Vecchio), i romani assimilano prontamente i tratti più significativi della raffinata cultura greca: il poeta Orazio, infatti, scrive “i vincitori furono conquistati dai vinti”. L’immenso patrimonio culturale dell’età classica, ereditato dalla civiltà ellenistica, viene assimilato da Roma nelle forme a lei più congeniali. Da allora in poi, molti intellettuali greci si trasferiscono a Roma, che promette successo e fama universale: ormai si può parlare di mondo culturale ellenistico-romano. Storiografia e filosofia

Attraverso il grande storico Polibio, la storiografia, nata in Grecia nel V secolo a.C., passa nell’ambiente romano, dove questa tradizione prosegui-

La fioritura ellenistica: architettura, scultura, storiografia

Il patrimonio della cultura e dell’arte classica viene quindi trasmesso all’ellenismo; nell’età dei grandi regni, architettura, urbanistica e arti figurative si sviluppano notevolmente, a causa delle necessità di grandezza dei sovrani che le promuovono. Per rendersi conto del contributo artistico offerto dalla civiltà greca nella sua ultima fase, basta ricordarne alcuni capolavori scultorei, come la Nike di Samotracia, la Venere di Milo, il gruppo marmoreo del Laocoonte. Dal punto di vista della storiografia, si colloca in questo periodo l’attività dei grandi storici Polibio e Diodoro Siculo, che raccolgono l’eredità storiografica precedente, pur con significative variazioni. L’età ellenistica non è dunque un’età di decadenza culturale, ma di rinnovamento e trasformazione dei modelli antichi nel segno di una nuova ricchezza e nuovo splendore, ereditati dalla grande aristocrazia romana. L’“ellenizzazione” della cultura romana

Infatti, alla metà del II secolo a.C., proprio dopo la distruzione di Corinto (146 a.C.), con la quale Roma pone fine all’ultimo tentativo greco di riconquistare l’indipendenza, un influente gruppo di ari-

Il cavallo di Troia raffigurato su di un anfora, 670 a.C. Mykonos, Museo Archeologico.

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ne della città costituita dall’Eneide di Virgilio. Qui la storia di Roma viene collegata a quella di Troia, da dove il troiano Enea sarebbe fuggito, scampando al rovinoso incendio, per rifugiarsi proprio sulle coste laziali e fondarvi la nuova città. Questo legame con l’età arcaica e mitica, e la sua antica nobiltà, conferiva alla civiltà romana una nuova legittimità, permettendole di proporsi come erede di una tradizione e di poter regnare, di diritto, su tutto il mondo conosciuto. Letteratura e retorica

Contesa tra Atena e Poseidone per la signoria su Atene, cammeo, I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico.

rà grazie a grandi autori come Tito Livio e Tacito. Polibio era un greco di Megalopoli giunto a Roma come schiavo, dove diventa il teorico della superiorità della forma politica della repubblica romana e dell’inevitabile unificazione dell’intero mondo mediterraneo sotto Roma. Oltre alla storiografia, viene introdotta a Roma, superando una forte diffidenza iniziale, anche la filosofia. Dopo il filosofo stoico Panezio di Rodi, che svolge un ruolo centrale nella mediazione tra le due culture, è il grande oratore e uomo politico romano Cicerone a divenire, nel I secolo a.C., il tramite principale per l’introduzione della filosofia greca nella cultura latina. Proprio da Panezio egli deriva, nel trattato Sui doveri, una sorta di catalogo dei valori e dei modelli etici da offrire alla società romana durante la sua “civilizzazione” ellenizzante. Cicerone è un interprete e un divulgatore colto e intelligente del pensiero greco, che si sforza di liberare dai vincoli delle polemiche tra le scuole e di adeguare i temi filosofici alla problematica etica e politica dell’aristocrazia senatoria di Roma. L’epica a Roma: la leggenda della sua fondazione

È nel I secolo a.C. che si consolida nella collettività l’identità di Roma, grazie anche alla celeberrima rielaborazione di temi e leggende sulla fondazio-

Oltre all’epica, anche gli altri generi letterari appartenenti alla cultura greca trovarono delle chiare corrispondenze nel mondo latino. In breve, infatti, i romani apprendono dai greci la passione per il teatro, sia tragico, con Ennio e Pacuvio, sia comico, con Plauto e Terenzio, che raccontano con feroci parodie la società romana e i suoi vizi. Anche la poesia troverà a Roma alcuni dei suoi più alti interpreti, come Orazio e Ovidio, che incontrano il gusto del pubblico dell’epoca, composto da uomini e donne dell’aristocrazia romana, amanti del buon vivere e dell’eleganza. Gli intellettuali romani coltivano la propria formazione nell’otium, cioè nel tempo del riposo dagli impegni politici e della società; tra i cultori di questa vita ritirata, dedicata agli studi, vi è anche l’ultimo Seneca, che compone i suoi capolavori circondato solo da pochi e fidati amici. Straordinaria fortuna ha la retorica, con Cicerone e Quintiliano. Nella società romana l’arte del discorso era molto apprezzata soprattutto come strumento politico, e perciò era ritenuta una componente necessaria della formazione dei giovani destinati al governo o a cariche pubbliche. L’arte romana: tra classicità e magnificenza

Anche l’arte romana subisce il fascino della Grecia classica. La gloria di Roma è narrata ben presto da opere che richiamano, per lo stile e la raffinatezza, l’arte greca. I prodotti artistici greci, infatti, grazie alle laute committenze degli aristocratici romani, che cercano di acquistare prestigio e riconoscimento sociale, vengono riprodotti in copie romane di altissimo livello. L’urbanistica romana riprende alcuni elementi principali da quella greca, sviluppandoli poi autonomamente: il foro, centro della vita cittadina, richiamava l’agorà, così come certi edifici pubblici (i teatri per esempio) sono riprodotti guardando agli originali greci. Ciononostante, la funzione politica e sociale degli edifici e degli “arredi urbani” romani era diversa, così come lo era

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Non solo Roma: i grandi centri culturali dell’antichità

Il passaggio della cultura greca alla capitale dell’Impero non comporta tuttavia la sterilità intellettuale dell’Oriente ellenistico. Atene continua a essere un grande centro di studi filosofici (platonismo, stoicismo, aristotelismo), così come altre capitali ellenistiche, per esempio Rodi e Alessandria. In quest’ultima città, nonostante vicende alterne, il Museo continua a rappresentare il principale centro di ricerca scientifica matematica, astronomica e medica. Si può quindi affermare che fino al II secolo d.C., il centro di gravità culturale dell’Impero romano si sposta progressivamente dall’Occidente latino verso l’Oriente greco, ancora legato alla splendida tradizione della cultura ellenistica.

Il contesto

il contesto cittadino: non più la pòlis greca, fiera e autonoma, ma di dimensioni contenute, ma la capitale e le città “provinciali” di quello che diventa ben presto un vasto impero. I romani realizzano anche importanti opere di ingegneria, come gli acquedotti e le strade; fondano nuove città e costruiscono un’impressionante serie di opere “di propaganda”: archi di trionfo, templi, anfiteatri, arene, basiliche, ancora visibili a Roma e in molte città di tutta Europa.

3. Il contesto filosofico 3.1 LA NASCITA DELLA FILOSOFIA Il significato del termine “filosofia”

È noto a molti, e tutti i testi lo confermano, che la filosofia ha origine nella Grecia antica, nel VI secolo a.C.; la questione però si complica se ci si chiede che cosa sia davvero “nato” in quel luogo e in quel secolo. Certamente non la parola “filosofia”, che risulta dall’unione del verbo greco philèin, cioè “amare, desiderare”, e del sostantivo sophìa, ossia “sapienza, sapere”. Filosofia significa quindi “amore, desiderio della sapienza e del sapere”, indicando dunque una tensione, una ricerca verso una conoscenza che ancora non si possiede, e forse non si possiederà mai completamente. Filosofi e sapienti

In questo senso (che si discosta dagli antichi sapienti, sophòi, che ritenevano di possedere la conoscenza) la parola “filosofia” è nata probabilmente nella seconda metà del V secolo a.C., tra gli intellettuali che facevano capo a Socrate e poi a Platone. Possiamo quindi affermare che nel VI secolo a.C. sia sorta una nuova forma di “sapienza”, che in seguito sarebbe stata considerata come l’antenata della filo-

Resti della Biblioteca di Celso, 110-135 d.C. Efeso.

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sofia. Ma di che cosa si tratta esattamente, e in che cosa consiste questa differenza? Il problema non è qui più di nomi ma di concetti, e in sostanza rinvia alla domanda “che cos’è la filosofia?”

hanno considerato come tale: un’ampia gamma di possibilità di pensiero che non si può ridurre a una definizione univoca e assoluta; per rispondere adeguatamente, dovremmo dunque attendere la fine del nostro racconto sulla storia della filosofia.

Gli oggetti specifici della filosofia sono cambiati nel tempo

Se noi discutessimo, per esempio, delle origini della geometria, dei caratteri che la differenziano da altre forme di sapere e la rendono riconoscibile attraverso i secoli, potremmo dire che si tratta, per lo più, dello studio delle proprietà delle figure piane o solide. La geometria può essere dunque definita, e riconosciuta, sulla base degli oggetti su cui verte la sua ricerca. Ma esistono oggetti specifici della filosofia? Le risposte sono spesso in contrasto tra loro da configurare nel corso della storia della riflessione filosofica immagini di essa radicalmente diverse fra loro. In realtà, rispondere a “che cosa è la filosofia?” non può essere così lineare come per la geometria. Bisognerebbe dire che questa risposta consiste nell’insieme delle diverse risposte fornite nel corso della riflessione filosofica e che dunque determinare la specificità del sapere filosofico coincide con la sua storia. Filosofia è ciò che nel corso del tempo i filosofi

3.2 LA NASCITA DELLA FILOSOFIA SECONDO ARISTOTELE Aristotele ci guida nella comprensione delle origini

Noi però stiamo cercando di capire che cosa sia accaduto all’inizio di questa storia, quando in un certo senso essa ha avuto origine. In questa ricerca possiamo avvalerci della guida preziosa, ma tendenziosa, di Aristotele, che, nel IV secolo a.C., definisce per la prima volta con rigore sistematico i confini e gli oggetti della filosofia, che, secondo lui, fino ad allora non aveva ancora raggiunto la sua maturità. La filosofia della natura

Per Aristotele una parte importante, ma non l’unica, della filosofia è costituita dalla filosofia della natura: suoi oggetti specifici sono gli elementi primi di cui sono composti i corpi naturali, e soprattutto le cau-

Giorgione, I tre filosofi, 1504. Vienna, Kunsthistorishes Museum.

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L’influenza di Aristotele

L’influenza di Aristotele è stata così grande che ancora oggi i testi sulla storia della filosofia accettano la sua impostazione e ne ripercorrono le stesse fasi, elencando gli stessi personaggi e gli stessi problemi. Ma certamente le cose non sono così semplici: Talete, per esempio, è senza dubbio un sapiente che si è interessato ai fenomeni naturali e alla loro spiegazione, oltre ad avere notevoli abilità tecniche e pratiche. Ma se qualcuno si fosse complimentato con lui per aver dato vita alla “teoria delle cause”, egli non avrebbe compreso né la parola né di che cosa gli si attribuisse il merito. Alle origini: uno sguardo generale sul mondo

Più in generale, gli antichi sapienti delle origini avevano certo un interesse complessivo sulla natura, gli uomini, gli dèi; le loro osservazioni, le ipotesi che formulavano, avevano senza dubbio il carattere della generalità; ma questo non è ancora un carattere distintivo della filosofia. Anche i fondatori della cultura greca, come Omero ed Esiodo, avevano concezioni molto generali sul mondo, sulla vita degli uomini, sulle origini e la natura della divinità, ma essi erano poeti, non filosofi. I poeti e i filosofi, non si possono neppure distinguere sulla base della forma (orale o scritta, in poesia o prosa) delle loro opere. Se è vero che i poemi omerici inizialmente vengono composti e recitati solo oralmente, anche uno dei primi filosofi, Pitagora, ha tramandato il suo insegnamento solo per via orale − e lo stesso ha fatto anche Socrate − e se è vero che alcuni dei primi filosofi scrivono in prosa (come Anassimandro, Eraclito e più tardi Anassagora), è anche vero che alcuni dei più importanti fra loro, Parmenide ed Empedocle, scrivono invece in versi. Mito e lògos

Tutto questo rende molto incerta la linea di confine che separa la sapienza dei poeti antichi da quella dei primi filosofi. Spesso si è sostenuto che questa

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se capaci di spiegare i processi che riguardano questi corpi, e dunque l’intero universo fisico. Sulla base di questa definizione, Aristotele può ricostruire la dinastia dei suoi predecessori che si sono occupati della questione degli elementi e delle cause. Così egli individua una genealogia della filosofia, che inizia con lo ionico Talete, procedendo con altri pensatori ionici come Anassimene e Anassimandro; egli include poi sapienti della Magna Grecia come Pitagora e i suoi discepoli, e conclude con Platone. Qui termina la preistoria della filosofia e inizia – naturalmente con Aristotele stesso – la sua storia vera e propria.

linea consista nella differenza fra il mito e il lògos, cioè fra il racconto di imprese eroiche e il “discorso razionale” sulla realtà naturale e la vita umana, costruito dai filosofi con la sola forza del pensiero. C’è sicuramente del vero in questa ipotesi, ma anch’essa va meglio delimitata. La sapienza antica

Da una parte, anche gli antichi poemi sono ricchi di insegnamenti e di conoscenza, tanto che Omero è considerato per secoli «il maestro di tutti i greci», che non smettono mai di studiare le sue opere; del resto, la teologia dei greci (ciè le idee intorno alla divinità sulle quali si basava la loro religione e una parte del loro modo di vivere) non aveva altre fonti e altre autorità se non appunto i poemi di Omero e di Esiodo. Dall’altra, anche molti importanti filosofi, come Parmenide ed Empedocle, pretendevano che il loro discorso si basasse su di una sorta di ispirazione divina; Eraclito scriveva brevi ed enigmatiche sentenze che assomigliavano a quelle pronunciate dagli oracoli divini, come quello di Apollo nel santuario di Delfi.

3.3 LE PECULIARITÀ DEL LÒGOS FILOSOFICO La differenza fra il mito poetico e il lògos della filosofia, ossia il carattere specifico che definisce quest’ultima, deve essere allora individuata in modo più complesso. Fin dai suoi incerti inizi, il discorso filosofico si distingue non tanto per le conoscenze in esso contenute, per la generalità delle sue asserzioni sulla realtà, o per il modo con cui esse vengono formulate; piuttosto, questo discorso si definisce progressivamente per due aspetti decisivi. È un discorso che riflette su se stesso

Si tratta di un discorso che riflette su se stesso, cioè, in un certo senso, di un discorso di secondo grado: il discorso della filosofia non si limita ad asserire tesi intorno alla realtà, alla natura, agli uomini e agli dèi, ma si pone la questione di come sia possibile conoscere questi oggetti intellettuali, di che cosa garantisca la verità di queste tesi, e inoltre la loro preferibilità di fronte ad altre tesi alternative e contrapposte. Le condizioni di verità del discorso mirano a garantire la sua autonoma validità e autorità indipendentemente da chi lo pronunci e da chi l’abbia ispirato. Quando Eraclito scrive «non seguite me, ma il lògos» afferma precisamente l’indipendenza, l’autonomia, la validità universale di questo discorso-ragione, in cui la filo-

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sofia stava riconoscendo il suo compito specifico. Inoltre il discorso della filosofia non si limita a descrivere come vivono gli uomini, o a suggerire il modo in cui dovrebbero vivere, come hanno fatto Omero ed Esiodo; esso punta anche a formulare le ragioni per le quali un modo di vita sia preferibile a un altro, a chiarire le norme, i criteri, i valori universalmente validi ai quali ci si dovrebbe conformare per condurre una vita buona e giusta.

3.4 PERCHÉ LA FILOSOFIA È NATA IN GRECIA?

È un discorso argomentativo

Assenza di uno stato centralizzato

Di conseguenza, il discorso filosofico deve argomentare anche la validità delle proprie tesi: cioè mostrare, in modo persuasivo e incontrovertibile, se possibile per tutti e per sempre, che le sue asserzioni intorno allo stato del mondo e alle norme di vita possono offrire, senza ricorrere ad alcuna autorità esterna, la garanzia della propria verità.

1. In Grecia, dopo il crollo dei regimi micenei, non esisteva un forte apparato statale centralizzato: né monarchia, né esercito, né potere giudiziario.

Riflessività e argomentazione delimitano l’ambito della filosofia

Sulla base di questi due caratteri (riflessivo e argomentativo), che si sono definiti progressivamente, possiamo delimitare l’ambito specifico di quella forma, di quello stile intellettuale che prenderà il nome di filosofia. È partendo da qui che ora possiamo porci una seconda domanda: perché la filosofia è nata in Grecia, e non nelle più antiche culture mediterranee e orientali che la precedono di millenni? La risposta ci fornirà ulteriori chiarimenti sulla natura specifica del discorso filosofico. Magritte, La voce dei venti, 1928. Collezione privata.

Le condizioni in cui si sviluppano la società e la cultura greche a partire dal IX-VIII secolo a.C. si possono identificare – in comparazione con l’ambiente confinante del vicino Oriente (Mesopotamia, Persia, Egitto) e se si vuole anche dell’estremo Oriente (India, Cina) – sulla base di una importante serie di assenze.

Assenza di un’autorità religiosa unificata e di libri sacri

2. In Grecia non esistevano né una Chiesa né una casta sacerdotale unificate e dotate di potere sullo Stato e sulla società; non vi erano neppure uno o più libri sacri che contenessero verità dogmatiche interpretate unicamente dai sacerdoti. La religione greca era composta da miti e da culti locali, e i suoi unici testi di riferimento erano le opere di poeti come Omero ed Esiodo, che non derivano da nessuna “rivelazione” divina, come accade invece per la Bibbia o più tardi per il Corano, i testi fondatori delle grandi religioni monoteistiche che si presentano come dettati direttamente dalla divinità a profeti da essa scelti per comunicarli agli uomini. Assenza dell’autorità di una tradizione culturale secolare

3. In Grecia non esisteva l’autorità di una tradizione culturale secolare: la sola tradizione a cui tutti i greci facevano riferimento è quella della cosiddetta “guerra di Troia”, ma si tratta di un’invenzione letteraria elaborata a posteriori nei poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea. Platone racconta che il primo legislatore di Atene, Solone, vissuto alla fine del VII secolo a.C., avrebbe visitato l’Egitto, e che i sacerdoti di quell’antico paese gli avrebbero detto: «Voi greci siete sempre bambini!», cioè privi della memoria di una lunghissima tradizione. In effetti, rispetto alle società e alle culture del vicino e del lontano Oriente, i greci erano davvero “infantili”, perché possedevano un breve passato storico e per la modernità della loro formazione. Le pòleis: comunità indipendenti e autolegittimate

I greci vivevano dunque in un certo senso in un vuoto: vuoto di statualità, di autorità sacerdota-

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Donato Bramante, Eraclito e Democrito, 1480 ca. Milano, Pinacoteca di Brera.

le, di tradizione; la società greca si è organizzata in piccole comunità indipendenti, le città-stato (pòleis). In ognuna di esse, il potere viene conquistato dalle aristocrazie locali, ma immediatamente sorgono dei conflitti sia all’interno dei diversi gruppi aristocratici, sia fra questi e i cittadini che non ne accettano la supremazia. La cosa più interessante dal nostro punto di vista è che in queste comunità il potere non è legittimato da alcuna garanzia esterna né umana (diritto ereditario), né divina (investitura da parte di un sacerdozio). La pretesa al potere deve dunque autolegittimarsi: per il valore in guerra, per la capacità di governare nell’interesse della comunità, o, nei regimi democratici del V secolo a.C., per volontà della maggioranza dei cittadini. La società greca si forma dunque nel contesto di un’assenza di sovranità, un’assenza surrogata dal confronto – che ora si può definire propriamente politico – fra parti diverse e contrapposte, che si svolgeva nelle assemblee cittadine e che era basato non sull’autorità, ma soprattutto sulla forza persuasiva della parola. Lo stesso si può affermare per l’amministrazione della giustizia: il giudizio non era affidato al sovrano o al sacerdote in virtù della loro autorità, ma ai rappresentanti della comunità cittadina, che godevano di uguali diritti: prevaleva dunque l’opinione di chi disponeva di prove e di argomenti migliori, più validi e più persuasivi, privilegiando ancora la forza della parola.

La specificità della cultura greca: la capacità persuasiva del discorso

È nelle assemblee politiche e nelle giurie dei tribunali che si forma il carattere specifico della cultura greca: basata sulla competizione, sul confronto fra tesi contrapposte, che richiedono dunque di prendere una decisione in base alla forza degli argomenti. Questo non esclude, naturalmente, in caso di grave crisi, il ricorso alle armi, anche se l’uso della forza militare è considerato sempre come una patologia sociale, uno stato di malattia del “corpo” della comunità; ricorso che conferma l’assenza di autorità statali o sacerdotali superiori ed esterne alla città e che costringe i cittadini a dirimere i loro conflitti con la violenza, se ogni altro modo si era rivelato impraticabile. Anche la filosofia deve autolegittimarsi

Torniamo ora al nostro problema: le origini del pensiero filosofico. La riflessione filosofica nasce nello stesso vuoto di autorità statale, sacerdotale, tradizionale, in cui si sviluppa la società greca. Se la verità sul mondo, gli dèi, la natura, la giustizia, la vita umana fosse stata codificata e imposta dall’autorità dello Stato, della religione, di una tradizione immutabile, non ci sarebbe stato alcun posto per la filosofia. Al contrario, essa nasce quando la ricerca della verità si pone come una possibilità aperta, un compito, un progetto. Ma la pretesa del nascente discorso filosofico di dire la verità deve – proprio come il discorso della politica e del pote-

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re – legittimarsi da sé, affermare la propria autorità in virtù delle sue sole forze, che sono quelle del ragionamento argomentato e della prova razionale. Rivalità teoriche e pluralità di verità possibili

Questa necessità di autolegittimazione si pone tanto nei confronti del pubblico, cui il discorso della filosofia si rivolge, quanto nei confronti dei rivali: quelli tradizionali, come la sapienza dei poeti, e quelli nuovi, come le tesi contrapposte nell’ambito stesso della filosofia. L’esistenza di rivalità teoriche, di una pluralità di verità possibili, fa parte della natura della filosofia: poiché non ci sono dogmi da rispettare, né alcuna ortodossia, cioè “opinione giusta”, imposta dall’esterno, è inevitabile che la ricerca filosofica dia luogo a una pluralità di approcci diversi alla verità, di visioni del mondo alternative, che possono dipendere dalla posizione sociale dei singoli filosofi, dalla loro collocazione politica, dalle loro convinzioni religiose, dal loro ambiente culturale. Tutte le posizioni però hanno, e devono avere, un tratto comune: lo sforzo di trovare degli argomenti validi per sostenere la propria preferibilità rispetto alle tesi rivali.

3.5 METODI DI FONDAZIONE DEL DISCORSO FILOSOFICO

I modi sperimentati dalla filosofia delle origini per sostenere la validità delle proprie tesi si possono riassumere in tre tipi principali. Le forme mitiche o sapienziali

1. Il primo accomuna la filosofia alle forme mitiche della sapienza poetica. Si tratta del riferimento a una ispirazione divina (Parmenide), alla rivendicazione di doti personali sovrumane e semidivine dello stesso filosofo (Pitagora, Empedocle) o della proposizione di tesi presentate nella forma suggestiva di sentenze oracolari (Eraclito). In questi casi la neo-nata filosofia si muove ancora sullo stesso terreno delle forme di sapienza consolidate e note al suo pubblico, benché i contenuti del suo messaggio si differenzino nettamente da esse per il carattere astratto (cioè non narrativo, ma universalmente valido) delle asserzioni formulate intorno al mondo, alla natura, alla vita. L’inferenza logica

2. Il secondo tipo è specificamente filosofico. Si tratta dell’inferenza logica, che mira a produrre enunciati la cui verità risulti oggettiva (cioè indipendente da fattori esterni alla forma stessa dell’enunciato) e

dunque incontrovertibile. La forma primaria di questa inferenza – che è anche la “matrice” da cui si svilupperà la complessità del futuro pensiero logico – è quella della tautologia, ossia il predicare l’identità del soggetto a se stesso e nell’esclusione di predicazioni contrarie. «L’essere è, e non è possibile che non sia» (Parmenide): cioè A è uguale ad A, e se B è diverso da A non si può dire che A sia uguale a B. Circa due secoli più tardi, Aristotele avrebbe costruito una teoria dei modi di inferenza logica enormemente più articolata rispetto alla forma originaria della tautologia, pur basandosi ancora su di essa. L’analogia

3. C’è poi un altro tipo di argomentazione, meno rigoroso dell’inferenza logica, ma più flessibile e più adatto a interpretare la varietà e complessità dei fenomeni del mondo. Si tratta dell’analogia, che consiste nell’analizzare la struttura di un fenomeno noto per derivarne la comprensione di uno ignoto. Esempi di spiegazioni analogiche

Per esempio, se bisogna capire la composizione dei corpi naturali partendo dagli elementi primari della natura, si può pensare all’opera del pittore, che mescolando i colori primi della tavolozza può tracciare un numero infinito di figure (Empedocle). Oppure: gli astri del cielo possono essere pensati come frammenti di metallo incandescente, come quelli che il fabbro produce quando lavora martellando il ferro sull’incudine (Anassagora). I filosofi delle origini ricorrono a una vastissima serie di questi procedimenti analogici, basati spesso sull’esperienza tecnica o su quella psicologica e politica; qualche volta venivano invece escogitati dei semplici esperimenti in funzione del problema da risolvere. L’analogia: potenzialità esplicative e immaginazione teorica

Questi procedimenti analogici hanno una forte capacità euristica (dal greco heurìsko, “trovo”), sono cioè in grado di trovare spiegazioni plausibili per fenomeni in sé ignoti. Naturalmente essi si basano sul presupposto, difficilmente dimostrabile, che i fenomeni e i processi messi a confronto abbiano strutture identiche o simili. Quello che conta, tuttavia, è che l’analogia costituisce un prezioso strumento di analisi e di scoperta al servizio di quell’enorme sforzo di immaginazione teorica messo in atto dalla filosofia delle origini, per comprendere l’infinita complessità di un mondo naturale ancora inesplorato. L’ipotesi di strutture analoghe per tutti gli ambiti dei fenomeni naturali è quindi necessaria per

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Tratti essenziali del discorso filosofico

I caratteri che distinguono gli inizi del discorso filosofico – generalità delle tesi formulate, sforzo di argomentazione razionale della loro verità, immaginazione produttiva di teorie – costituiranno i tratti fondamentali anche della filosofia matura, costruita da Platone e Aristotele, anche se a un livello di complessità e di articolazioni concettuali molto più elevato.

4. Chi erano i filosofi? Se ci chiedessimo oggi “chi sono i filosofi?”, potremmo rispondere “le persone che insegnano filosofia nelle scuole e nelle università”. Pur con qualche eccezione, potrebbe essere una buona risposta; anche se il percorso che ha portato a una quasi completa istituzionalizzazione scolastica della filosofia è durato dei secoli. Esso infatti è iniziato verso la fine dell’epoca greco-latina, ma si è compiuto soltanto in età moderna, fra Ottocento e Novecento. Questa risposta sarebbe invece completamente sbagliata se si riferisse agli inizi della filosofia: il filosofo allora era una figura ben diversa da quella odierna.

Il contesto

ridurre questa complessità, altrimenti incomprensibile, a una serie controllabile e pensabile di processi, che si possono analizzare partendo da quelli già noti e spiegabili.

Nell’antichità la filosofia era anche un modo di vita

Una prima e fondamentale differenza tra i filosofi antichi e quelli contemporanei è che, per i primi, la filosofia non era solo una professione o un lavoro intellettuale fra i tanti altri, ma un modo di vita: il filosofo si distingueva dagli altri uomini non solo per quello che pensava, che scriveva e che insegnava, ma anche per il modo in cui viveva. Questo aspetto vale in modo particolare per i filosofi delle origini, ma avrebbe caratterizzato l’intera storia della filosofia antica. Le comunità filosofiche

Un carattere costante era la tendenza dei filosofi a vivere in comunità: una comunità che per alcuni dei filosofi delle origini, come i pitagorici, si presentava addirittura come una setta religiosa, e che più tardi diventerà il gruppo dei maestri e dei loro discepoli. Questa forma di vita comunitaria fa sì che spesso i loro concittadini vedano i filosofi antichi come dei personaggi sospetti, accusati di arroganza e di spirito antisociale ed eversivo, a volte persino ridicoli, anche se al tempo stesso essi sono facilmente riconoscibili rispetto agli uomini “comuni”. Inoltre, si riteneva che il modo di vita dei filosofi dovesse rispecchiare fedelmente il loro pensiero e ogni trasgressione nella condotta quotidiana rispetto alle idee professate veniva percepita come uno scandalo, un’inaccettabile contraddizione. Ma, a parte queste costanti, la figura del filosofo ha conosciuto tutta una serie

Sebastiano Ricci, Diogene e Alessandro, particolare, 1684-1685. Parma, Galleria Nazionale.

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di trasformazioni già nel corso del mondo antico. È importante ripercorrerne le tappe, perché non esiste ovviamente filosofia senza filosofi, e la loro collocazione sociale e culturale risulta decisiva per l’analisi stessa della loro opera intellettuale.

4.1 I MAESTRI DI VERITÀ L’audacia dei fondatori

I “filosofi” degli inizi erano personaggi consapevoli della novità e dell’audacia del loro messaggio. Pretendere di dire la verità sul mondo e sulle sue origini, sugli dèi e sul loro rapporto con gli uomini, sul significato e sul destino della vita umana – una verità che spesso si scontrava con quella trasmessa dai racconti mitologici e dei poeti – era un’impresa degna di personaggi eccezionali. Essi stessi si sentivano e si presentavano come “maestri di verità”, come profeti ispirati, come uomini dotati di qualità e di intelligenza sovrumane (questo vale certo più per personaggi come Pitagora, Eraclito, Parmenide, Empedocle, che per i sapienti ionici, Talete, Anassimandro e Anassimene, della cui posizione sociale e del cui ruolo intellettuale sappiamo troppo poco).

La sfida sapienziale all’ignoranza dei “mortali”

Questi uomini lanciavano dunque il loro messaggio di conoscenza come una sfida rivolta contro l’ignoranza e la cecità mentale dei loro contemporanei, che essi spesso definivano “mortali”, lasciando quindi intendere di possedere qualcosa di simile all’immortalità divina. In effetti, Pitagora era considerato dai suoi discepoli un discendente di Apollo, Empedocle si presentava come un uomo “divino”, Parmenide si dichiarava depositario di una rivelazione trasmessagli direttamente dalla personificazione della Verità, Eraclito pronunciava sentenze simili a quelle dell’oracolo di Delfi. I destinatari del messaggio

A chi si indirizzavano il messaggio e la sfida di questi protofilosofi? In primo luogo, a un gruppo ristretto di seguaci e discepoli, che in certi casi, come per i pitagorici, poteva trasformarsi in una vera e propria setta religiosa. Ma, in secondo luogo, essi si rivolgevano agli uomini in generale, in cui però si può riconoscere la comunità cittadina in cui questi sapienti agivano, predicando forse nelle sue piazze (come Empedocle), o davanti ai suoi templi, o nel corso delle sue festività politiche e religiose (come forse Eraclito e Parmenide).

Pier Francesco Mola, Socrate insegna ai giovani la coscienza di sé, 1644 ca. Lugano, Museo Civico.

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Una cosa è comunque certa: la potenza e l’importanza del messaggio di questi maestri di verità, la condizione sovrumana che essi si attribuivano e che veniva loro riconosciuta dai discepoli, fanno sì che la loro pretesa di verità sia immediatamente accompagnata da una pretesa al potere sulla comunità umana. Comprendere, accettare e seguire il loro messaggio significa mutare la vita di individui e città, riconoscere nuove norme morali, politiche, religiose e nuove concezioni del mondo. Dunque i maestri di verità sono anche “maestri di vita”, e perciò destinati al comando sulla vita degli uomini. Regalità filosofica e azione di governo

In alcuni casi, e per un certo periodo di tempo, questa pretesa di regalità filosofica ha successo: Pitagora e i pitagorici esercitano per qualche decennio il governo su alcune città della Magna Grecia, Parmenide è probabilmente legislatore della città di Elea, mentre una sorte meno felice tocca forse a Eraclito, ignorato dai suoi concittadini di Efeso benché vantasse una discendenza dagli antichi sovrani della città. Incerto è anche il destino di Empedocle, per quanto egli fosse circondato da un numeroso gruppo di seguaci. Violente reazioni cittadine alle pretese politiche dei filosofi

Queste pretese al potere sulla città oltre che sulla verità non durano a lungo, pur lasciando una traccia profonda nel ri-fondatore della filosofia, Platone; anzi, esse destano alla fine una reazione violenta da parte delle comunità cittadine. I pitagorici vengono in parte massacrati, in parte espulsi da Crotone e Metaponto, e nelle altre città menzionate non resta alcuna traccia di “potere filosofico”. Altre accuse, culminate in processi famosi, colpiscono in seguito la filosofia: nel V secolo a.C. Anassagora è esiliato da Atene, e all’inizio del IV secolo a.C. Socrate è addirittura condannato a morte. Benché entrambi questi processi si basassero su accuse di empietà religiosa, in realtà i loro veri motivi erano politici, così come politico è il processo con cui, verso la fine del IV secolo a.C., si tenta, inutilmente, di mettere al bando da Atene le grandi scuole filosofiche, quella platonica e quella aristotelica, accusate entrambe di tramare contro la democrazia e l’indipendenza della città. La “vocazione imperiosa” della filosofia

Nonostante queste traversie, talvolta anche tragiche, una memoria della sua “vocazione imperiosa” non

Il contesto

La pretesa di verità porta con sé la pretesa al potere sulla comunità

avrebbe abbandonato la filosofia, in forme diverse, durante tutta la sua esistenza nel mondo antico; anche se la sua capacità di controllo si restringe sempre di più al solo ambito dei discorsi.

4.2 LA RI-FONDAZIONE: I LIBRI E LA SCUOLA Platone: tra i maestri di verità e la ricerca di verità parziale, non definitiva

Vissuto a cavallo fra il V e il IV secolo a.C., Platone rappresenta una figura di transizione nella storia della figura del filosofo antico. Alla tradizione dei maestri di verità lo accomunano una condizione sociale eccezionale e la convinzione che il filosofo – per le sue doti straordinarie e per il suo sapere – possa vantare un diritto alla sovranità e al governo della comunità umana. D’altra parte, il suo modo di praticare la filosofia si distingue profondamente da quello dei suoi predecessori: non si ha più la pretesa di possedere una sapienza totale, e dunque la proclamazione di un messaggio definitivo sulla verità, ma di indirizzare la ricerca, complessa e laboriosa, alla possibile conquista di verità parziali e non definitive. Miti antichi e argomentazioni razionali

Come i vecchi sapienti, Platone ricorreva ancora a raffigurazioni mitiche del mondo, ma l’aspetto dominante del suo lavoro filosofico consisteva nell’argomentazione razionale, nella confutazione delle dottrine altrui e talvolta anche delle proprie, sempre suscettibili di revisione e di ulteriori sviluppi. Questa ricerca instancabile non pretendeva di essere ispirata dalla rivelazione divina, ma si fondava sulle sole forze della ragione: per questo aspetto “moderno” della sua filosofia, Platone era vicino soprattutto all’esperienza dei sofisti, che egli combatteva sul loro stesso terreno della discussione razionale e del confronto fra argomenti. Platone: il primo grande corpo di scritti filosofici

Allievo di un maestro, Socrate, che non aveva scritto nulla, Platone è invece l’autore del primo grande corpo di scritti filosofici della storia dell’Occidente. Ma anche qui Platone è in una posizione di transizione: i suoi scritti non sono trattati filosofici ma dialoghi, cioè rappresentazioni di discussioni svoltesi tra diversi interlocutori, in cui le rispettive tesi vengono esposte, dimostrate o confutate, in un aperto confronto di pensiero che non raggiunge mai conclusioni chiuse e definitive.

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L’Accademia: la prima scuola di filosofia

Il Liceo e il corso di studi

Anche la scuola fondata da Platone, l’Accademia, occupa la medesima posizione, in bilico fra epoche diverse. Da un lato, essa assomigliava alle antiche comunità di sapienti come la setta pitagorica, cioè non si limitava all’insegnamento e all’apprendimento, ma nutriva anche aspirazioni politiche, e manteneva una certa ispirazione anche religiosa, presentandosi come un gruppo dedito al culto delle Muse. D’altro lato, l’Accademia è certamente la prima scuola di filosofia moderna, con un suo programma di ricerca e di studio, tanto che a essa si sarebbero ispirate tutte le successive scuole dei filosofi.

Ognuno di questi trattati costituisce la base, o il risultato, di corsi di lezioni tenuti da Aristotele nella sua scuola, il Liceo, che mantiene l’antico carattere di una comunità di vita e di lavoro fra studiosi, ma si organizza ormai come un’istituzione dedicata alla formazione regolare di specialisti nei vari ambiti del sapere filosofico. Con Aristotele, la filosofia antica entra nella fase della sua maturità; ma senza saperlo, e forse senza volerlo, Aristotele costituisce inoltre la premessa per ulteriori trasformazioni della figura del filosofo.

Aristotele: una nuova figura di filosofo

4.3 LE SCUOLE, LE TRADIZIONI E IL COMMENTO

Il grande allievo di Platone, Aristotele, attraversa invece con decisione la linea di confine fra le due epoche, inaugurando così una nuova fase della storia della figura del filosofo, di cui egli deve certamente essere considerato il vero fondatore. Aristotele abbandona ogni sogno e desiderio di sovranità dei filosofi sulla città: il dominio della filosofia riguarda ora solo il campo della conoscenza e del sapere. Il pubblico cui Aristotele si rivolge è in primo luogo quello dei discepoli, destinati a diventare a loro volta filosofi di professione. Certo Aristotele parla anche della città e della politica, ma ormai nella forma di oggetti di riflessione e di conoscenza teorica, che può avere degli effetti sulla politica, ma solo indirettamente. Distinzione di ambiti e discipline

Distinguendosi ormai drasticamente non solo dai maestri di verità, ma dallo stesso Platone, Aristotele articola inoltre il campo della filosofia in una pluralità di ambiti e discipline diverse (logica, fisica o filosofia della natura, filosofia pratica – etica e politica –, psicologia, metafisica, teologia) che presentano ognuna dei principi e dei metodi propri che non andavano sovrapposti e confusi, come accadeva nella globalità indistinta dei messaggi sapienziali ma anche nelle complesse discussioni dialogiche di Platone. Il trattato filosofico

A ognuno di questi campi disciplinari Aristotele dedica uno o più scritti, che ormai sono in forma di trattato, cioè di un’esposizione organica che parte dalla discussione delle tesi precedenti e dalla formulazione del metodo adeguato di ricerca, ed esamina ordinatamente il materiale di conoscenza disponibile, giungendo infine alle conclusioni teoriche pertinenti.

Dopo Aristotele: l’istituzionalizzazione della filosofia

Dopo Aristotele, negli ultimi decenni del IV e nei primi del III secolo a.C., la filosofia antica assume la configurazione istituzionale che l’avrebbe caratterizzata fino alla fine del suo percorso. È questa l’epoca delle scuole e dei loro maestri, ormai propriamente professori di filosofia, anche se essi verranno stipendiati direttamente dallo Stato solo in epoca imperiale romana. Le quattro scuole e lo scetticismo

Si consolidano le due prime scuole, l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico. Ne nascono, anch’esse ad Atene, due nuove, quella stoica (fondata da Zenone) e quella di Epicuro. Si forma anche un’altra corrente di pensiero, lo scetticismo fondato da Pirrone, che però non avrebbe mai costituito una vera e propria scuola regolarmente organizzata. Capiscuola e ortodossia

Queste scuole, vecchie e nuove, presentano alcuni importanti caratteri comuni: sono dirette da un caposcuola, e i successivi maestri formano una specie di “dinastia” filosofica; sono vincolate al rispetto del pensiero del fondatore, dando così luogo per la prima volta a forme di ortodossia filosofica (più accentuata per stoici ed epicurei, meno per i platonici). La secolare persistenza delle grandi scuole filosofiche produce effetti di grande rilievo. In primo luogo, esse costituiscono il veicolo attraverso il quale si trasmettono e si consolidano le tradizioni di pensiero alle quali fanno capo, costituendo così le tradizioni del platonismo, dell’aristotelismo, dello stoicismo e dell’epicureismo.

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Il contesto

La rivalità tra le scuole e le conseguenze

In secondo luogo, si assiste a un’accesa rivalità fra le diverse scuole, ognuna delle quali tende a stabilire la superiorità della propria dottrina, in vista di un successo sia in campo teorico sia in campo pratico. Irrigidimento delle posizioni filosofiche

Rivalità e controversie causano anche un irrigidimento delle opposte posizioni filosofiche, tese a fortificarsi contro le critiche dei rivali. Questo irrigidimento sviluppa a sua volta alcune forme del tutto nuove del pensiero filosofico e della sua produzione di testi, che risultano tipiche della filosofia nella sua fase “scolastica”, cioè dal III secolo a.C. fino alla fine dell’età antica. Il commento come spiegazione e difesa dei testi antichi

Il commento ai testi del fondatore caratterizza soprattutto la scuola platonica e quella aristotelica: commentare un testo significa renderlo disponibile ai discepoli, quindi spiegarlo, chiarirne le oscurità, mostrarne il rapporto con altri testi eliminando anche quelle lacune e quelle contraddizioni presenti a volte nei testi antichi e che possono apparire come punti deboli della dottrina, criticabili dagli avversari. Commentare un testo significa in un certo senso tradurlo in un linguaggio filosofico più aggiornato, più comprensibile e più agguerrito nella competizione fra scuole rivali. Non bisogna pensare che il lavoro del commento sia privo di originalità filosofica; al contrario, sotto l’apparenza della dichiarata fedeltà al maestro fondatore, i commenti sono spesso ricchi di analisi filosofiche innovative, proprio nella misura in cui l’esigenza di chiarimento e di aggiornamento del pensiero degli antichi induce a svilupparne potenzialità teoriche rimaste implicite, o prospettive che erano loro estranee. La trasformazione in sistemi filosofici

La necessità di normalizzare i testi fondatori delle diverse tradizioni, eliminandone le contraddizioni, le oscillazioni fra tesi diverse, l’apertura problematica, per disporre di insiemi di tesi filosofiche lineari, ordinate e difendibili, comporta la progressiva trasformazione di quei testi in un sistema; ossia in un corpo dottrinale compatto, coeso, definitivo e chiuso. Né Platone né Aristotele, e neppure Zenone, compongono un simile corpo dottrinale; il compito della sistematizzazione delle loro dottrine spetta invece ai loro seguaci di età scolastica, che dispongono

Preparativi per un dramma satirico. 410 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

a tal fine del lavoro compiuto nei commenti di cui si è parlato. Il “sistema” delle teorie di Platone, di Aristotele, di Zenone e dei suoi successori, come Crisippo, diventa così la base dell’insegnamento nelle scuole di filosofia, e un’arma potente di difesa e di offesa di cui esse si dotano per affrontare il conflitto con le scuole rivali. La nascita del manuale filosofico e il suo ruolo

Più dei testi originali, e anche più dei complessi commenti a loro dedicati, il sistema filosofico si presta a esposizioni riassuntive e schematiche, che vengono elaborate nei manuali di scuola. L’esigenza di disporre di questi strumenti per un insegnamento rapido e chiaro è particolarmente forte fra i seguaci della tradizione platonica: i testi del maestro, per il loro complesso carattere dialogico, non si prestano a una facile comprensione e a un rapido apprendimento. I manuali filosofici, che spesso non assomigliano al pensiero originale del fondatore (per esempio Platone), svolgono però un ruolo prezioso per il consolidamento e la resistenza delle tradizioni filosofiche.

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Lo schema del Cosmo secondo Platone, miniatura da un codice latino del Timeo, XI secolo.

Questa serie di complesse operazioni attuate dalle scuole di filosofia hanno un profondo effetto sulla configurazione stessa della ricerca filosofica e sulle sue forme di pensiero. Nascita di un linguaggio tecnico e specialistico

In primo luogo: la necessità di disporre di testi scritti in un linguaggio uniforme, in cui ogni termine abbia un significato ben definito e univoco, determina la formazione di un linguaggio tecnico e specialistico della filosofia, sempre più lontano dalla lingua di uso comune, che Platone, Aristotele, Zenone ed Epicuro hanno usato in prevalenza. Questo linguaggio tecnico contribuisce ad allontanare la filosofia dalla possibilità di essere compresa da un pubblico colto ma non specialistico, a distanziarla quindi sempre di più dalla vita e dalla comunicazione quotidiana, riducendone il pubblico agli studiosi appartenenti alle scuole filosofiche. Nascita di una cultura rivolta ai libri e lontana dalla realtà

In secondo luogo: la pratica del commento ai testi della tradizione e la specializzazione del linguaggio filosofico producono un altro effetto molto durevole: l’interesse, lo sguardo, si rivolgono sempre di più verso i libri, i testi dei classici, e parallelamente si allontanano dal mondo reale, cioè dalla natura, dalla vita associata degli uomini, e dalle loro spiegazioni. Per esempio: quando si pone la que-

stione di capire e magari di migliorare l’organizzazione politica della vita umana, Platone osserva la città, la sua storia, i suoi conflitti e i suoi problemi; ora, di fronte allo stesso ordine di questioni, si leggono invece la Repubblica di Platone o la Politica di Aristotele. Quest’ultimo, per spiegare la struttura del corpo degli animali, ricorre all’osservazione diretta, giungendo fino alla dissezione anatomica. Ora invece di osservare il delfino e la scimmia, si studiano le pagine che Aristotele dedica a questi animali nei suoi scritti zoologici. Rilevanza delle questioni propriamente filosofiche

Anche questo contribuisce a specializzare la filosofia facendone un ambito autonomo di discorsi e di problemi. È perciò naturale che in questo quadro assumano un rilievo centrale le questioni specificamente filosofiche, come quelle relative alla teologia, alla metafisica, alla cosmologia, alla teoria dell’anima, mentre i problemi relativi al mondo esterno (le scienze della natura o la politica) passino in secondo piano, e interessino il discorso filosofico solo attraverso la mediazione dei testi che se ne sono occupati in passato. Il controcanto dello scetticismo

A queste tendenze si accompagna, fino ai primi decenni del III secolo d.C., una specie di controcanto, l’indirizzo scettico: esso continua a mettere tenacemente in dubbio la possibilità che la ragione

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5. La fine della filosofia antica Dalla libera pòlis all’autorità di uno stato centralizzato

La filosofia è nata in Grecia, come abbiamo visto, in un’epoca di crisi di sovranità, nell’epoca, cioè, in cui si è formata la pòlis, la piccola comunità politica libera e indipendente. Nelle fasi successive dello sviluppo della società antica, quella crisi viene colmata prima dalle monarchie ellenistiche, poi dalla repubblica di Roma e soprattutto dallo Stato imperiale romano. Queste nuove strutture di potere dispongono di una solida autorità statale, che a sua volta si appoggia a un forte apparato burocratico, militare e giudiziario. Nasce, insomma, una forma di Stato più vicina a quella che noi conosciamo a partire dalla modernità occidentale. Per quanto riguarda il pensiero filosofico, la formazione di forti Stati centralizzati e autoritari ha prodotto effetti di diversa natura: da un lato, essa ha definitivamente reso irrealistica e anacronistica l’antica pretesa della filosofia (ancora viva in Platone) di assurgere direttamente al potere politico, e di farne uno strumento per la riforma morale della società. Questo contribuisce alla trasformazione del filosofo da profeta e maestro di verità, aspirante alla regalità, in professore, insegnante di una disciplina particolare, per quanto importante e prestigiosa. Istituzionalizzazione del pluralismo scolastico e riassestamento sistematico

Dall’altro lato, gli Stati ellenistici e quello romano hanno messo a disposizione dei filosofi importanti risorse per i loro studi, come le biblioteche pubbliche, e hanno accettato il pluralismo delle opinioni filosofiche, fino al punto di istituire, come abbiamo visto, cattedre statali di filosofia destinate alle principali tradizioni di pensiero. Questo pluralismo non è stato abolito neppure quando, con Costantino all’inizio del IV secolo, il cristianesimo diventa la religione ufficiale dell’Impero romano. Alla nuova situazione politica e sociale la filosofia reagisce organizzando un proprio riassestamento si-

Il contesto

umana raggiunga verità definitive, dogmatiche, su argomenti (come Dio, l’anima, l’universo, l’essere) non suscettibili di un controllo empirico, cioè basato sull’osservazione diretta. Ben lungi dal costituire una posizione irrazionalistica, lo scetticismo può essere considerato come una delle ultime difese della razionalità antica contro lo slittamento verso forme, irrazionali, di misticismo e fideismo religioso.

stematico, imperniato sulla difesa delle sue grandi tradizioni di pensiero e sviluppando soprattutto il versante metafisico e teologico della propria ricerca (anche in rapporto alla sfida che il cristianesimo portava a quelle tradizioni, ora considerate pagane). L’inizio del declino: saldatura tra impero e religione

Ma la filosofia antica si trova ormai in una situazione precaria, stretta com’è fra uno Stato imperiale sempre più autoritario e militarizzato e una crescente intolleranza religiosa verso ogni forma di pensiero non ortodossa. Il momento della crisi e del collasso, per una forma di pensiero che è nata e cresciuta proprio nell’assenza di entrambe queste dimensioni storiche, non poteva essere lontano. Possiamo collocarlo intorno a due date, che hanno un valore simbolico. 529: chiusura della scuola di Atene

Nel 529 l’imperatore Giustiniano, rigido custode dell’ortodossia cristiana, chiude la scuola filosofica di Atene, lontana erede dell’Accademia platonica, considerata ormai come un intollerabile covo di paganesimo e di libertà di pensiero. I filosofi platonici di Atene cercano allora rifugio in Persia, ma un secolo più tardi anche il regno persiano viene travolto dall’espansione araba in Oriente, animata dalla nuova religione islamica. 642: distruzione della Biblioteca di Alessandria

Intorno al 642 gli arabi invadono l’Egitto e distruggono definitivamente la grande Biblioteca di Alessandria. Secondo un aneddoto, il califfo conquistatore avrebbe detto: «Se i libri di questa biblioteca dicono le stesse cose del Corano, sono inutili, e vanno distrutti; se dicono cose diverse, sono empi, e a maggior ragione vanno distrutti». La frase è sicuramente leggendaria, ma esprime bene l’incompatibilità fra il pensiero filosofico antico e l’insorgere delle opposte intolleranze religiose, quella cristiana e quella islamica, con le rispettive ortodossie. Crollo delle società antiche, fine della filosofia antica

Con il crollo delle società antiche, prima quella della pòlis poi quella monarchica e imperiale, finisce dunque anche la stagione del pensiero filosofico che ne ha accompagnato lo sviluppo. In seguito, la filosofia avrebbe faticosamente cercato la via per una ricostruzione, seguendo un percorso intermedio tra la fedeltà alla propria tradizione originaria e i vincoli imposti dal nuovo contesto sociale, politico e religioso.

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1. I presocratici:

gli inizi della filosofia 594-593 a.C. Riforma costituzionale di Solone ad Atene.

620 a.C. Legislazione di Dracone ad Atene.

561 a.C. Pisistrato tiranno di Atene.

EVENTI EVENTI FILOSOFICI

625 ca. a.C. Talete nasce a Mileto.

610 ca. a.C. 586 ca. a. C. Anassimandro Anassimene nasce a nasce a Mileto. Mileto.

LE DOMANDE

570 ca. a.C. Pitagora nasce a Samo, Senofane a Colofone.

550 ca. a.C. Morte di Talete.

540 ca. a.C. 528 ca. a.C. Eraclito nasce Morte di Anassimene. ad Efeso; morte di Anassimandro.

515 ca. a.C. Parmenide nasce ad Elea.

La scuola di Mileto

Eraclito

Pitagorici

• Quali fenomeni sono ricompresi nel termine greco phy`sis, cioè “natura”?

• Che cos’è la sapienza? Chi la possiede? In che cosa si distingue il sapiente dai molti stolti che popolano il mondo?

• Qual è il destino dell’anima dopo la morte dell’essere umano? Esiste un modello di vita ideale per la cura dell’anima o non vi è differenza tra i modi di vivere degli uomini?

• Qual è il principio che dà origine ai processi naturali?

• Esiste un principio universale che ci permette di superare le apparenti contraddizioni della realtà e di coglierne l’unità originaria? Che tipo di principio è? È possibile darne una rappresentazione fisica?

• In che modo i rapporti numerici possono aiutarci a comprendere la vera natura della realtà? Quali fenomeni possiamo osservare per comprovare questa intuizione? • Tutti i numeri sono perfettamente intelligibili?

I TESTI

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RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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T1 Eraclito, Il lògos

➥ Tutorial: Eraclito, Sulla natura ➥ Biblioteca: K.R. Popper, Ritorno ai presocratici

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Essere saggi è la virtù più grande, e sapienza è dire il vero e agire secondo natura intendendo. (Eraclito, frammento 112)

508 a.C. Riforma costituzionale ad Atene del democratico Clistene.

493 ca. a.C. Empedocle nasce ad Agrigento.

491-490 a.C. 481-478 a.C. Prima guerra Seconda guerra greco-persiana. greco-persiana.

490 ca. a.C. Zenone nasce ad Elea; morte di Pitagora.

449 a.C. Pace di Callia.

485 ca. a.C. 470 ca. a.C. Melisso Morte nasce di Eraclito. a Samo.

460 ca. a.C. Democrito nasce ad Abdera; morte di Senofane.

445 ca. a.C. Morte di Parmenide.

421 a.C. Pace di Nicia tra Atene e Sparta.

Empedocle, Anassagora, Democrito

• Qual è la via da percorrere nella ricerca della verità?

• Tutto ciò che esiste è ingenerato o è prodotto di generazione?

• Quali sono le caratteristiche dell’essere, che ci conducono ad affermare che una cosa è? È possibile dimostrare l’esistenza di queste caratteristiche? In che modo?

• In che modo è possibile spiegare la molteplicità e la complessità dei fenomeni naturali? • Il cosmo ha una struttura intelligibile o è il prodotto dell’azione puramente meccanica di componenti che si combinano tra loro, e perciò in sé privo di finalità?

T2 Parmenide, La via della verità: l’essere

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

404 a.C. Fine della guerra del Peloponneso.

440 ca. a.C. 432 ca. a.C. 430 ca. a.C. 380 ca. a.C. Morte di Morte di Morte di Morte di Democrito. Empedocle. Melisso. Zenone.

La scuola eleatica

• Possiamo pensare il non essere?

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431 a.C. Guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta.

399 a.C. Socrate è messo a morte dal governo democratico ateniese.

LE DOMANDE

I TESTI

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1. Chi sono i presocratici? La nascita della filosofia

Le domande della filosofia

Rintracciare le origini di qualsiasi fenomeno – e dunque anche della filosofia – costituisce un compito tutt’altro che facile. Si ritiene che la parola philosophìa sia attestata solo a partire da Pitagora e forse da Eraclito, ma in entrambi i casi non è affatto certo che i due pensatori abbiano effettivamente utilizzato il termine. La filosofia, intesa come disciplina, con la sua complessità e in particolare con la capacità di riflettere su se stessa (sulle proprie procedure, sul proprio linguaggio, sui propri limiti), nasce solo con Platone. Sarebbe però difficile negare che nei due secoli che hanno preceduto la comparsa di Platone siano presenti consistenti tracce di uno stile di pensiero, di modelli di ragionamento, e per certi aspetti di vere e proprie dottrine, che noi siamo portati a considerare filosofici. Insomma, se è vero che la filosofia nasce veramente solo con Platone, è altrettanto vero che la sua incubazione dura almeno due secoli e che in questa lunga fase gli elementi di interesse filosofico sono numerosi e di notevole rilevanza. Del resto esistono problemi e domande che sembrano in qualche modo connaturati all’uomo e che presentano di per se stessi un carattere in qualche modo filosofico: interrogativi come quelli relativi alla struttura dell’universo, alla collocazione in esso dell’uomo, al rapporto tra quest’ultimo e la divinità, al modo di associarsi in comunità politiche, alla natura e ai limiti della conoscenza, pur se formulati in un linguaggio ancora lontano da quello astratto della filosofia platonica e aristotelica, appartengono inevitabilmente all’orizzonte del domandare filosofico. Da questo punto di vista si può parlare – e si è effettivamente parlato – di una filosofia dei poemi omerici, di una filosofia delle opere di Esiodo e dei grandi poeti arcaici, come Pindaro.

Pietro Paolo Rubens, Democrito ed Eraclito, 1603. Princeton, collezione Piasecka Johnson.

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L’età antica

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I presocratici

Bisogna però anche riconoscere che solo a partire da certe figure questi interrogativi, e le riflessioni con le quali si è tentato di fornire risposte adeguate, hanno assunto le modalità tipiche del pensiero filosofico: queste figure, questi autori sono solitamente indicati con il termine “presocratici”. Una lunga e consolidata consuetudine, dunque, riunisce gli autori di interesse filosofico attivi tra la fine del VII e gli inizi del IV secolo a.C. sotto la denominazione di presocratici, ossia “precedenti Socrate”. In verità, alcuni di essi sono contemporanei di Socrate (Democrito nacque nel 460 a.C., cioè dieci anni dopo Socrate), ma la denominazione possiede un significato culturale piuttosto che storico, intendendo sottolineare che gli autori in questione appartengono a una fase in qualche modo ancora di gestazione della filosofia, destinata a vedere definitivamente la luce con Socrate (che non scrisse nulla) e con il suo grande allievo Platone.

La perdita delle opere

Il primo dato che occorre tenere presente quando si parla di presocratici è quello relativo all’assenza delle loro opere. A differenza di Socrate molti dei presocratici compongono degli scritti (trattati, raccolte di aforismi, poemi), ma nessuno di essi è giunto integro fino a noi; in effetti, la letteratura di interesse filosofico antecedente a Platone è andata completamente perduta. Come possiamo allora ricostruire il pensiero di questi autori? In un modo allo stesso tempo semplice e complesso: ossia attraverso le informazioni che ci trasmettono gli autori successivi, in primo luogo Platone e Aristotele (soprattutto quest’ultimo, il quale costituisce una fonte davvero preziosa sulla riflessione filosofica che lo ha preceduto). Perché questa ricostruzione si presenta semplice e insieme complessa? Essa è semplice perché Aristotele (e in misura minore anche Platone) sembra conoscere abbastanza bene le dottrine dei pensatori presocratici e le riporta in modo apparentemente preciso; dice, per esempio, che il tal filosofo – nel nostro caso Talete – affermava che principio (archè) di tutte le cose fosse l’acqua (o in generale l’elemento umido). La difficoltà risiede nel fatto che Aristotele trasferisce nel suo linguaggio, ossia nella sua terminologia e nei suoi schemi mentali, le concezioni dei suoi predecessori. In riferimento al caso appena menzionato, ossia l’attribuzione a Talete della dottrina secondo cui l’acqua è principio di tutte le cose, risulta infatti del tutto improbabile che Talete abbia effettivamente usato la parola archè. Le cose sono poi complicate dal fatto che il termine archè può assumere in greco diverse sfumature di significato: può indicare per esempio il “principio”, cioè l’elemento costitutivo di una data cosa, cioè la materia di cui è fatta (e questo è il senso in cui verosimilmente la utilizza Aristotele), può significare “inizio”, riferendosi per esempio al momento in cui ha inizio un determinato processo, oppure può essere usato anche per designare il fondamento ultimo, ciò su cui le altre cose poggiano. Casi come questi sono numerosissimi e riguardano praticamente ogni testimonianza in nostro possesso sugli autori presocratici. Insomma, in generale sembra difficile stabilire con esattezza il significato di una dottrina, anche quando colui che la trasmette lo fa con una certa precisione, appunto perché egli è portato, più o meno consapevolmente, a trasferire le concezioni che sta citando all’interno dei propri schemi concettuali e linguistici. Senza poi contare che un autore come Aristotele – sempre per fare l’esempio più significativo – è solito attribuire agli autori di cui sta parlando più di quanto essi abbiano effettivamente sostenuto; egli infatti è convinto che il compito del filosofo non sia tanto quello di riportare fedelmente quanto un suo predecessore ha affermato, bensì quello di fare emergere quanto quel certo pensatore avrebbe dovuto dire in base ai suoi stessi presupposti: Aristotele, dunque, tende a far dire a ogni suo predecessore più di quanto questi abbia effettivamente detto. Questa discussione ha lo scopo di mettere in guardia chi si avvicina al pensiero di autori di cui noi non possediamo le opere dai pericoli impliciti in un approccio eccessivamente disinvolto. Quando leggiamo notizie sul pensiero dei presocratici dobbiamo tenere presente che si tratta non solo di un pensiero lontano da noi (e forse per questo ci appare tanto misterioso e affascinante), ma anche lontano e diverso da quello degli autori che lo riportano.

1.1 Il problema delle fonti

Aristotele come fonte e il problema della definizione di archè

Testimonianze “tendenziose”

Un pensiero lontano ma ricostruibile

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Due tipi di informazioni: le testimonianze...

... e i frammenti

Sarebbe però ugualmente sbagliato abbandonarsi al pessimismo e ritenere che il senso della riflessione dei presocratici debba risultare per noi del tutto inattingibile, inafferrabile. Si tratta solo di affrontare ogni informazione con attenzione e cautela, nella convinzione che l’eco dei primi filosofi arrivi a noi attenuata e non sempre comprensibile al primo ascolto. Prima di passare all’esposizione delle concezioni degli autori presocratici, occorre fare un’ultima precisazione. Le informazioni relative a essi di cui siamo in possesso (grazie alle opere dei pensatori successivi) sono di due tipi. Le prime consistono in resoconti nei quali un certo autore, per esempio Aristotele, riporta con le proprie parole il pensiero di un suo predecessore; egli dice, per esempio, che Talete ritiene che la Terra poggi sull’acqua e che per questo rimanga a galla. Informazioni di questo tipo, nelle quali non vengono riportate le parole dell’autore presocratico ma ne viene riassunto il senso (una specie di parafrasi), vengono chiamate “testimonianze”. In altri casi, invece, il nostro informatore riporta una citazione letterale dell’opera dell’autore presocratico (che evidentemente ha davanti agli occhi); in questo caso egli cita direttamente una parte dello scritto e si comporta in modo simile a noi quando, per riportare le parole di qualcuno, le collochiamo tra virgolette. Le informazioni di questo secondo genere vengono chiamate “frammenti” e sono chiaramente distinte dalle testimonianze. È chiaro che i problemi sopra sollevati riguardano principalmente le testimonianze, ma anche i frammenti non ne sono immuni: basti pensare al fatto che spesso il frammento dell’autore presocratico in nostro possesso è di poche righe (talora anche di una sola riga) e questo rende molto difficile ricostruire il contesto originario nel quale era inserito. Il senso di questa lunga premessa consiste dunque nell’invito ad avvicinarsi ai presocratici con prudenza, senza però abbandonare la speranza di assaporare il senso di un pensiero misterioso e affascinante. Tutte le cautele sopra formulate non devono tuttavia indurci a rinunciare a cogliere le linee essenziali di una riflessione che talora non manca di colpire la sensibilità dell’uomo contemporaneo.

PER SINTETIZZARE • Quali sono le maggiori difficoltà che incontriamo nella ricostruzione del pensiero dei presocratici?

LA PERDITA DELLE OPERE. TESTIMONIANZE E FRAMMENTI LE OPERE DEI PRESOCRATICI SONO ANDATE PERDUTE

ne abbiamo però tracce nelle opere degli autori successivi (soprattutto Aristotele)

testimonianze = resoconti di altri autori che riassumono il senso delle teorie dei presocratici

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frammenti = citazioni letterali delle teorie dei presocratici presenti in opere di altri autori

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2. La scuola di Mileto Gli inizi nelle colonie greche dell’Asia Minore

Autonomia delle colonie e scambi culturali

I fisiologi o fisici: studiosi della natura a tutto campo

La ricerca dei principi universali

Le prime tracce di un pensiero dotato di caratteri in qualche modo riconducibili alla dimensione della filosofia si trovano tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. all’estremo limite orientale del mare Mediterraneo, in Ionia, nell’Asia Minore (l’odierna Turchia). A Mileto, città situata sulle coste ioniche del Mediterraneo, si sviluppa una tradizione di pensiero abbastanza unitaria, anche se non doveva trattarsi di una vera e propria scuola. Personaggi come Talete, Anassimandro e Anassimene entrano quasi certamente in contatto, sebbene è poco probabile che esistano tra loro rapporti di discepolato simili a quelli che si incontreranno nei secoli successivi. Ma perché gli inizi della filosofia (o di qualcosa che le assomiglia) si situano proprio in Ionia, in una regione colonizzata dai greci, e non nella madrepatria, ossia in Grecia? È probabile che un certo influsso sia stato esercitato dall’autonomia di queste città e dallo spirito genericamente democratico che vi si respira. Non bisogna tuttavia dimenticare che l’Asia Minore presenta una collocazione geografica particolarmente favorevole ai contatti con altre civiltà: l’egiziana, la fenicia, la mesopotamica. È dunque possibile che proprio in questa regione abbiano cominciato a circolare nuclei di sapere (per esempio la geometria, fiorente in Egitto, e l’astronomia, straordinariamente sviluppata presso i babilonesi) destinati a essere ripresi e approfonditi dai greci. Aristotele, quando si riferisce ai pensatori ionici, non li chiama “filosofi”, bensì “fisiologi” (physiòlogoi) o “fisici” (physikòi), ossia studiosi della natura (phy`sis). Questo perché i loro interessi sono essenzialmente incentrati intorno alla natura, intesa nel significato più ampio del termine. La parola “natura” comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita, di generazione (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti “nascere, generarsi”) e in generale di movimento delle cose. I fisiologi ionici sono dunque interessati a tutto ciò che accade nel mondo: ai movimenti degli astri e al cambiamento delle stagioni (sono astronomi e meteorologi), alla descrizione della configurazione delle terre (sono anche geografi), ai processi biologici che riguardano i viventi; ma anche ai principi della geometria e perfino alle modalità di associazione tra gli uomini (non mancano infatti interessanti spunti di carattere politico e sociale). In tutti questi campi essi si impegnano nel tentativo di reperire principi esplicativi universali, validi in campi diversi. Tentano spesso di operare generalizzazioni, per esempio da un fatto noto a uno ignoto: si tratta dell’applicazione di un ragionamento di tipo analogico, sul quale torneremo tra breve.

2.1 Talete: il più saggio tra i sapienti Simbolica ampiezza di interessi

Talete (625-550 ca. a.C.) esprime in forma emblematica l’estrema articolazione dei temi trattati dai fisiologi ionici; le sue conoscenze, prima ancora che filosofiche, appaiono di natura sapienziale (non a caso il suo nome compare nella lista dei Sette sapienti). Egli ha interessi in campi molto svariati, spaziando dall’astronomia alla meteorologia, dalla geometria alla biologia e ai fenomeni del magnetismo e in ciascuno di questi ambiti acquisisce conoscenze di notevole importanza. Sappiamo infatti che stabilisce il principio secondo cui il diametro divide un cerchio in due parti uguali (anche se forse non fornisce di questo teorema una vera e propria dimostrazione), ma gli vengono inoltre attribuiti altri teoremi, e l‘invenzione del metodo per misurare le piramidi sulla base della loro ombra (che va calcolata nel momento del giorno in cui essa è equivalente all’altezza del corpo). Studia anche il fenomeno dell’eclissi solare, stabilendone la causa nell’interposizione della Luna tra il Sole e la Terra, ma è anche in grado, almeno se prestiamo fede a una famosa testimonianza di Aristotele, di far fruttare economicamente le sue conoscenze meteorologiche: infatti, avendo previsto un abbondante raccolto di olive, acquista tutti i frantoi della zona per poi affittarli a prezzo estremamente vantaggioso. Per queste sue molteplici scoperte viene definito da Diogene Laerzio «il più saggio dei Set-

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L’acqua, il principio di tutte le cose

L’illimitato: origine e fine di tutto

Processi di condensazione e rarefazione

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te sapienti», ossia quegli individui semileggendari, vissuti tra il VII e il VI secolo a.C. ai quali si attribuiscono delle sentenze che riassumono il pensiero morale greco delle origini. Non c’è dubbio, comunque, che la sua concezione più nota è quella secondo la quale l’acqua è principio (archè) di tutte le cose. Si è già avuto modo di osservare quanto sia difficile stabilire il significato di una simile affermazione, ma è probabile che con essa Talete non voglia sostenere tanto che l’acqua è l’elemento da cui derivano tutte le cose, quanto che la vita si accompagna spesso alla presenza dell’elemento umido (e si tratta di un’osservazione alla quale noi stessi possiamo pervenire). La supremazia dell’acqua ha in Talete anche un’applicazione di carattere cosmologico nella concezione secondo la quale la Terra poggia sull’acqua. Si tratta di un caso tipico di applicazione della procedura dell’analogia, attraverso la quale si riferisce a un caso ignoto una spiegazione che funziona in un caso noto e osservabile. Aristotele attribuisce infatti a Talete il seguente ragionamento: «La Terra resterebbe al posto per via del suo stare a galla, come un legno o qualcosa del genere; infatti nessuna di queste cose ha la natura di restare per aria, bensì sull’acqua».

2.2 Anassimandro: l’illimitato come origine di tutto Mentre Talete non scrive probabilmente nulla, il suo concittadino Anassimandro (610540 a.C.) compone quasi certamente un’opera in prosa, poi intitolata, secondo un uso destinato a imporsi nei secoli successivi, Sulla natura. Di questa sua composizione letteraria possediamo un unico frammento, che restituisce dunque le prime parole del pensiero occidentale. Esse suonano misteriose e piene di fascino: «Principio degli enti è l’illimitato […] e ciò da cui le cose hanno generazione, proprio lì si dissolvono, secondo la necessità. Esse infatti si rendono reciprocamente giustizia della loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Non è molto semplice intuire il senso di questa strana affermazione che sembra parlare di una questione fisico-cosmologica (generazione e dissoluzione delle cose) con un linguaggio etico e giuridico (giustizia e ingiustizia): il termine centrale è senz’altro àpeiron, che significa “privo di limite” (composto dal prefisso privativo a e dal sostantivo pèras, “limite”), ossia appunto “illimitato” e forse “infinito”. Probabilmente Anassimandro intende sostenere che tutte le cose nascono da una sorta di magma originario, l’illimitato appunto, e in esso sono destinate a tornare, forse per rigenerarsi ancora. Egli poi sembra sostenere che nel momento stesso in cui nascono, e dunque si affermano nella loro individualità, le cose commettono una sorta di ingiustizia (forse a danno dell’illimitato, forse delle altre cose) e per questo pagano una pena, consistente nel ritorno all’illimitato originario. 2.3 Anassimene: il principio delle cose è l’aria Il terzo rappresentante della cosiddetta scuola di Mileto è Anassimene (586-528 a.C.), attivo nella seconda metà del VI secolo a.C. I suoi interessi principali furono la meteorologia, l’astronomia e la ricerca attiva dell’archè, ossia dell’origine dell’universo. Se Talete vede nell’acqua l’elemento da cui si origina la vita, Anassimene osserva che i processi naturali risultano meglio comprensibili ipotizzando la centralità dell’aria. Il ragionamento che dovrebbe supportare questa concezione rappresenta perfettamente il modo di procedere dei fisiologi di Mileto: secondo Anassimene gli elementi fisici si producono a causa di processi di condensazione e rarefazione dell’aria, che costituisce dunque una sorta di sostrato originario. In questo modo Anassimene riporta le differenze qualitative tra i fenomeni di tipo quantitativo. Nella prima testimonianza a lui attribuita leggiamo infatti: «L’aria rarefacendosi diviene fuoco, condensandosi vento, e poi nube, e, se si condensa ancora di più, acqua, poi terra, e poi pietre, e da queste altre cose ancora». Come si vede, siamo di nuovo di fronte a una procedura analogica: anche qui, infatti, dopo aver individuato un rapporto esplicativo nei fenomeni osservabili, questo viene esteso a fenomeni di portata più ampia, che sfuggono alla nostra percezione. La ricerca ionica rappresenta così il primo serio tentativo di stabilire cause naturali (l’acqua,

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l’aria, l’illimitato) per i fenomeni, annullando o riducendo di molto il ruolo delle divinità tradizionali, alle quali Omero ed Esiodo avevano assegnato il primato nella determinazione degli accadimenti dell’universo.

ALLE ORIGINI DELLA FILOSOFIA. LA SCUOLA DI MILETO CONTESTO STORICO-CULTURALE

città autonome e libere

contatti con altre civiltà

LA SCUOLA DI MILETO

fisiologi con interessi naturalistici molto ampi: astronomia, biologia, fisica, meteorologia

I FISIOLOGI IONICI

Talete

Anassimandro

Anassimene

elemento umido: l’acqua

magma originario illimitato: l’àpeiron

elemento: aria

processi di generazione e dissoluzione

processi di generazione e dissoluzione

processi di rarefazione e condensazione

PER SINTETIZZARE • Qual è la provenienza di Talete, Anassimandro e Anassimene? Qual è il tratto comune e distintivo del loro pensiero?

3. Eraclito: il filosofo oscuro Un pensatore misterioso e aristocratico

Sulle coste dell’Asia Minore, a Efeso, non lontano da Mileto, vive e opera una delle figure più affascinanti e misteriose della filosofia antica: Eraclito. Nato a Efeso nel 540 a.C. da una famiglia aristocratica cui si attribuiva un’origine regale, durante la sua vita mantiene una posizione ferocemente antidemocratica, rifiutandosi di partecipare alla stesura della nuova costituzione della città. Misterioso Eraclito deve apparire anche agli antichi, visto che si merita l’appellativo di “oscuro”: un epigramma conte-

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Il genere letterario T1

nuto nell’Antologia Palatina (la principale raccolta di epigrammi dell’antichità) invita a «non volgere troppo in fretta i fogli di Eraclito di Efeso, sono tenebre oscure come la notte; ma se ti guida un iniziato, la luce è più chiara di quella del sole». In queste poche parole è contenuto il senso del messaggio di Eraclito: esso deve apparire oscuro ai molti, i quali vivono nell’ignoranza delle loro opinioni private, ma, se correttamente inteso, è in grado di svelare verità profonde e inaccessibili alla moltitudine, verità capaci di trasformare l’esistenza degli uomini. Lo stesso genere letterario scelto da Eraclito per comunicare le verità profonde alle quali è pervenuto esprime in modo emblematico il carattere generale del suo pensiero: il suo scritto, infatti, al quale venne assegnato successivamente il consueto titolo Sulla natura, è costituito per lo più da brevi ed enigmatiche sentenze, veri e propri aforismi, che hanno lo scopo di celare alla moltitudine il loro significato recondito. FILOSOFI A CONFRONTO

Il solo sapiente e i molti stolti

L’armonia degli opposti

Tutto scorre: permanenza del mutamento

Il lògos e la sua pluralità di significati

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L’opposizione tra l’unico sapiente (sveglio e saggio) e la molteplicità degli stolti (dormienti e ignoranti) conosce infatti con Eraclito la sua più radicale formulazione. Si tratta di un’opposizione che è destinata ad attraversare in varia forma la riflessione dei presocratici: la ritroveremo in Parmenide e in Empedocle, ma anche nel pitagorismo.

Riguardo ai molti, ossia alla maggioranza degli uomini, scrive Eraclito che «ascoltando privi di intelligenza assomigliano ai sordi», e che a loro si riferisce il detto «pur presenti, sono assenti». Questi hanno come unica preoccupazione quella di «saziarsi come bestie», cioè sono interessati solo ai bisogni primari, quelli più bassi, mentre i migliori tra gli uomini ambiscono a ben altro, cioè ad acquisire «fama perenne su tutte le cose mortali». Secondo Eraclito la maggior parte degli uomini si ostina a muoversi all’interno di orizzonti privati e individuali; perdendo la visione d’insieme, gli uomini non sono in grado di comprendere la legge profonda del reale, che rappresenta una sorta di principio universale al quale tutto si adegua. Proprio in relazione alla capacità di cogliere l’insieme delle cose, infatti, si distinguono gli uomini svegli da quelli che dormono: i “dormienti” credono che il significato delle cose risieda nella loro individualità e che esso possa dunque venire compreso se tali cose vengono considerate singolarmente, ossia separando le une dalle altre. Nulla di più ingenuo e falso, secondo Eraclito, perché vi è una concordanza nelle differenze, un’«armonia di entrambe le parti, come quella dell’arco e della lira». Eraclito intende dire che le cose che gli uomini ritengono opposte e inconciliabili – come la salute e la malattia, la vita e la morte – non sono che due aspetti di una medesima cosa, anche in considerazione del fatto che l’una non può esistere senza l’altra. In uno degli aforismi più celebri, il frammento 88, leggiamo: «La medesima cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando sono quelli, e quelli di nuovo mutando divengono questi». Quest’ultima affermazione ci mette di fronte a un altro motivo centrale della riflessione di Eraclito: l’idea che le cose siano interessate da un processo incessante di divenire, in cui l’unico elemento di permanenza, ossia di stabilità, è costituito proprio dal mutamento stesso. Eraclito ritiene che la guerra (pòlemos) rappresenti in un certo senso l’essenza stessa delle cose: nel conflitto si scontrano e si armonizzano gli opposti in un processo di perpetuo divenire, espresso dalla formula pànta rèi, ossia “tutto scorre”. La natura in qualche modo fondante della guerra o conflitto viene enunciata nel frammento 53, il cui esordio è oscuro e celeberrimo: «Conflitto è padre di tutte le cose, di tutte è re». La parola centrale della riflessione di Eraclito è però un’altra. Si tratta della parola lògos, che possiede in lui (come in generale nella lingua greca) una pluralità di significati. Il lògos di Eraclito è la legge cosmica universale, ossia l’identità e la co-implicazione degli opposti; è il pensiero razionale in grado di cogliere questa legge; ma è anche il discorso sapienziale che trova nel vero filosofo il suo portavoce. Nel frammento 50, egli afferma

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Difficoltà nel cogliere il lògos, principio universale della realtà

L’immagine fisica del lògos: il fuoco

infatti: «Prestando attenzione non a me, ma al lògos, è saggio convenire che tutte le cose sono uno». Del resto, il suo scritto si apre con una dichiarazione di fede nella profonda verità del lògos e con l’ammissione delle difficoltà che gli uomini hanno nella comprensione di questa verità: «Di questo lògos [legge, discorso], che è vero, mai possiedono gli uomini intelligenza»; questa sentenza, la prima della raccolta, prosegue affermando che, per quanto tutto accada secondo questo principio, gli uomini sembrano non averne esperienza. Il lògos rappresenta dunque il principio universale della realtà, la legge cosmica che regola gli accadimenti e che consente di pensare alla pluralità delle cose e degli eventi come la manifestazione di un’unica realtà. Secondo Eraclito il lògos possiede anche una sorta di immagine fisica, che è costituita dal fuoco. Quest’ultimo rappresenta l’elemento visibile che esprime in modo emblematico il carattere intrinsecamente contraddittorio della realtà: per vivere, ossia per essere, il fuoco deve bruciare, cioè annullare, qualcosa; in lui pertanto vita e morte coincidono. FILOSOFI A CONFRONTO

Questo lògos-fuoco viene poi identificato con la divinità: viene così anticipata una concezione destinata ad affermarsi in modo organico nello stoicismo. Il divino, afferma Eraclito, è «giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame», e in questa armonia di opposti risiede la natura del dio. È indubbio che il pensiero di Eraclito presenti tratti oracolari, che lo rendono in molti passaggi quasi incomprensibile. Esso esercita tuttavia un’influenza significativa sulla filosofia antica: il grande Platone, che entra in contatto con un eracliteo del suo tempo (un certo Cratilo), non manca di restarne affascinato; gli stoici, poi, costruiscono il loro complesso sistema fisico proprio sulla base dei concetti fondamentali di Eraclito, e in particolare sull’identità tra la ragione universale e il fuoco cosmico.

IL LÒGOS DI ERACLITO continuo divenire come elemento di stabilità: «tutto scorre»

unità degli opposti che si svela ai sapienti mediante il lògos

CENTRALITÀ DEL LÒGOS È LA LEGGE COSMICA (lògos è detto anche il discorso razionale che rivela tale legge e il discorso sapienziale che la pronuncia)

immagine fisica del lògos: il fuoco

PER SINTETIZZARE • In che modo Eraclito spiega il divenire? Che valore ha il lògos nella sua riflessione?

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

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4. Pitagora e il pitagorismo Pitagora, originario anch’egli dell’isola di Samo, vive e opera invece sul versante opposto del Mediterraneo tra la Calabria e la Puglia, a quel tempo parte della Magna Grecia (che comprendeva l’intera Italia meridionale). Nato nel 570 a.C. abbandona per motivi politici la sua città e si trasferisce a Crotone, colonia greca nell’attuale Calabria, dove fonda una scuola filosofica destinata ad avere una grande influenza politica (soprattutto su Crotone e altre città della Magna Grecia). FILOSOFI A CONFRONTO

Il maestro di verità e la cerchia pitagorica

Quasi contemporaneo di Eraclito, Pitagora presenta più di un elemento in comune sia con il pensatore di Efeso sia con Parmenide, anch’egli attivo nella Magna Grecia, in Campania. Questi tre filosofi, che incarnano in modo emblematico la figura del maestro di verità, si dichiarano in possesso di un sapere eccezionale, precluso agli uomini comuni; un sapere che, una volta acquisito, consentirebbe di condurre una vita virtuosa e quasi divina sia in ambito privato sia pubblico (ossia in politica). Ancor più che in Eraclito e Parmenide, il messaggio di Pitagora assume i connotati di una vera e propria rivelazione divina, tanto che la cerchia pitagorica si profila quasi subito come una setta religiosa, oltre che un gruppo politico. Del resto, se la tesi secondo la quale le filosofie antiche (soprattutto quelle dei primi secoli) si prefiggono l’obiettivo di trasmettere un modello di vita è vera in generale, essa è ancora più vera nel caso del pitagorismo, che assume da subito tale carattere.

La vocazione politica

Sappiamo con certezza che i pitagorici tentano a più riprese – talora anche con successo – di prendere il potere e applicare nelle città in cui si trovano i dettami filosofico-religiosi della propria setta, spesso alleandosi con le fazioni più aristocratiche e conservatrici delle stesse città; nel corso di queste lotte per l’egemonia cittadina subiscono anche significativi rovesci, vengono cacciati (per esempio da Crotone) e in alcuni casi addirittura massacrati. La loro vocazione politica sarà ereditata da Platone, il quale, con la sua Accademia, si propone un compito di rifondazione intellettuale, politica e religiosa non dissimile da quello perseguito dai pitagorici. Su Pitagora si è scritto molto, a cominciare dall’antichità. Si tratta certamente di una figura che sconfina nel mito e nella leggenda, anche se la sua esistenza storica non viene più messa in dubbio. L’autorità e il prestigio di cui poteva godere il suo personaggio erano così ampi che per secoli i pitagorici attribuirono a lui tutte le loro dottrine, rendendo in questo modo a noi quasi impossibile stabilire con precisione quali fossero effettivamente le concezioni formulate da Pitagora (il quale, tra l’altro, non compose alcuna opera scritta). Sembra comunque possibile affermare che già in Pitagora siano presenti i due motivi centrali del pensiero pitagorico successivo, vale a dire: 1. una concezione, più o meno definita, dell’anima come entità diversa e separata, ossia indipendente, dal corpo; 2. un certo interesse per il numero, alla cui natura venivano ricondotti molteplici fenomeni fisici. Esamineremo questi due motivi separatamente nei prossimi due paragrafi.

Pitagora fra storia e leggenda

Immortalità e trasmigrazione delle anime

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4.1 L’immortalità dell’anima e il ciclo delle reincarnazioni Sembra certo che a Pitagora si debba l’introduzione nella cultura greca di alcune credenze di origine orientale (probabilmente egiziana o addirittura indiana) concernenti l’immortalità dell’anima. I pitagorici credono infatti che l’anima sia un’entità diversa dal corpo e indipendente da quest’ultimo: secondo la teoria della metempsicosi (“passaggio delle anime”), una volta cessata la vita di un corpo l’anima si incarnerebbe in un altro, dando così luogo a un processo di vera e propria trasmigrazione.

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FILOSOFI A CONFRONTO

Egizi, orfici e pitagorici

Priorità dell’anima sul corpo

Trasmigrazione e purificazione

Pitagora mago e sciamano

Lo storico greco Erodoto (vissuto nel V secolo a.C.) fa risalire l’origine di questa dottrina agli Egizi, precisando che fu poi assimilata dalla religione orfica (quella cioè fondata dal leggendario poeta tracio Orfeo nel VI secolo a.C.), dai seguaci di Bacco e infine dai pitagorici. Orfici e pitagorici giocarono entrambi un ruolo significativo nella diffusione di queste credenze relative alla natura dell’anima, ma è indubbio che solo all’interno del pitagorismo esse sono oggetto di una riflessione veramente approfondita.

All’interno di un simile quadro, l’anima viene concepita come un’entità immortale, destinata dunque a sopravvivere al corpo nel quale si trova di volta in volta a essere incarnata. Secondo Pitagora l’elemento veramente proprio dell’individuo non è dunque il suo corpo, bensì la sua anima: di conseguenza, non è al corpo che si rivolge il messaggio sapienziale dei pitagorici, ma all’anima. Pitagora, inoltre, ritiene che i corpi nei quali l’anima si può reincarnare non sono solamente quelli degli uomini, ma anche quelli di altri esseri viventi, per esempio degli animali. Si spiega in questo modo il divieto, formulato nell’ambito delle prescrizioni morali e religiose della setta, di cibarsi di carne, dal momento che nell’animale ucciso potrebbe esserci stata l’anima che era stata precedentemente di un uomo e che in un uomo si sarebbe potuta incarnare in una successiva fase. In verità, basterebbe prestare attenzione all’insieme delle prescrizioni pitagoriche, per rendersi conto che l’intero modo di vita della setta è finalizzato al conseguimento di una vera e propria purificazione dalle esigenze, della corporeità; non manca infatti neppure l’invito all’astinenza sessuale. I discepoli di Pitagora vedevano nel maestro una sorta di sciamano, un individuo dotato di capacità e poteri eccezionali (si narrava, per esempio, che fosse in grado, conosciuto un individuo, di elencarne le precedenti venti incarnazioni e che fosse in possesso di qualità divinatorie, in grado cioè di predire il futuro). La sua autorevolezza era tale che gli adepti della setta ne parlavano senza in realtà nominarlo, ma indicandolo con espressioni quali “colui”, “il divino” e così via; basti ricordare che il motto “lo ha detto lui” (in latino ipse dixit) si riferisce proprio a Pitagora.

L’addio di Orfeo ad Euridice in presenza di Hermes, V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

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La scuola pitagorica e gli sviluppi della matematica

Numeri e geometria

4.2 Le dottrine matematiche Se l’attribuzione a Pitagora di una concezione dell’immortalità dell’anima, della sua alterità rispetto al corpo e in generale della trasmigrazione sembra abbastanza sicura, più complessa si presenta la questione per quanto riguarda le dottrine numeriche. In realtà molte delle concezioni matematico-scientifiche attribuite dalla tradizione a Pitagora sorsero all’interno della sua scuola in un’epoca successiva, soprattutto grazie all’opera di Filolao di Crotone (470-390 a.C.). Tuttavia un certo interesse per i numeri e per le loro qualità dovette quasi certamente caratterizzare anche il primo pitagorismo, e forse l’insegnamento dello stesso Pitagora. Occorre tenere presente che quando si parla di numeri a proposito dei pitagorici non si deve pensare a entità astratte e separate dalla realtà fisica; i numeri dei pitagorici sono quasi certamente entità concrete: ogni numero viene rappresentato visivamente per mezzo di sassolini e possiede una precisa forma geometrica (che il 9 sia un quadrato viene, per esempio, espresso per mezzo della sua raffigurazione tramite 9 sassolini disposti nella forma di un quadrato).

L’EQUIVALENZA TRA NUMERI E SASSOLINI: LA RAPPRESENTAZIONE DEL NUMERO 9

Numeri, musica, armonia

In un secondo tempo si afferma l’idea che la realtà sia costituita da numeri e rapporti numerici e a questa convinzione i pitagorici pervengono anche grazie a una serie di osservazioni relative ad alcuni fenomeni fisici. Si rendono conto, per esempio, che i principali accordi musicali (noi diremmo le principali note) sono prodotte da precisi rapporti numerici tra le corde degli strumenti (la quarta = 4/3, la quinta = 3/2 e l’ottava = 2/1); concludono dunque che i numeri stanno alla base dei fenomeni musicali, ossia delle armonie. In seguito, proprio con Filolao, arrivano addirittura ad attribuire ai moti celesti, cioè ai movimenti degli astri, un carattere armonico, sostenendo però che si tratta di un’armonia che produce un suono che le orecchie umane non sono in grado di udire. L’importanza del numero, e in particolare dei numeri sui quali si fondano i principali accordi musicali, vale a dire 1, 2, 3 e 4, induce i pitagorici ad attribuire una particolare importanza alla figura che rappresenta questi numeri (la cui somma è un numero di per sé significativo, il 10), che è la tedrade, caratterizzata dalla seguente raffigurazione:

LA TETRADE

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Le scoperte matematiche

Numeri limitati e numeri illimitati

Secondo i pitagorici in questa figura (e nei numeri che essa rappresenta) era contenuta, o compressa, l’intera realtà: in effetti la sequenza 1-2-3-4 riproduce la successione punto (1: l’unità puntuale), linea (2: perché la linea è delimitata da due punti), figura (3: perché la figura geometrica minima, il triangolo, è circoscritto in tre punti) e solido (4: la piramide, il solido minimo, necessita di quattro punti). L’interesse dei pitagorici per la matematica è del resto ampiamente confermato dal fatto che a essi si è soliti far risalire la formulazione del celebre teorema di Pitagora (difficilmente dovuta allo stesso fondatore), e la scoperta delle grandezze incommensurabili (come la diagonale rispetto al lato del quadrato) e dei numeri irrazionali (come √2). Sembra che queste due ultime scoperte avessero provocato drammatici problemi teorici all’interno della setta, tanto che ne fu vietata la diffusione (la leggenda narra che un adepto, tale Ippaso, che aveva infranto il divieto, morì annegato in mare): è infatti probabile che entrambi questi ritrovati, con il riconoscimento di numeri non riconducibili all’unità e di grandezze tra loro non comparabili, mettessero in qualche modo in pericolo l’edificio teorico complessivo dei pitagorici, secondo i quali la realtà è numero e quest’ultimo presenta una natura perfettamente intelligibile. L’importanza assegnata ai numeri induce i pitagorici, almeno quelli delle generazioni successive, a vedere nei principi dei numeri i principi di tutte le cose. Essi dividono i numeri in due classi, quelli limitati e quelli illimitati: limitati risultano essere i numeri dispari (perché nella rappresentazione fisica operata con i sassolini essi ammettono un limite), illimitati quelli pari (per la ragione opposta). Ecco per esempio come sono rappresentati i numeri 4 (illimitato) e 5 (limitato):

IL NUMERO 4 E IL NUMERO 5

illimitato

limitato

FILOSOFI A CONFRONTO

In questo contesto, dunque, il limite (pèras) e l’illimitato (àpeiron) vengono considerati, almeno a partire da Filolao, come principi di tutte le cose (una simile dottrina, approfondita e modificata, sarà ripresa da Platone nelle sue ultime opere e nelle dottrine non scritte).

Una setta elitaria

L’eredità secolare

Il carattere elitario della setta pitagorica, infine, viene confermato dalle numerose notizie che narrano di una distinzione che vi era in vigore. Si tratta della separazione tra acusmatici, o uditori (da àkousma, “ascolto”), e matematici, o esperti nelle conoscenze (màthema significa infatti “conoscenza”). I primi sono semplici ascoltatori, i quali limitano la loro adesione alla setta all’ascolto e all’osservanza dei precetti morali fondamentali formulati da Pitagora; i secondi, invece, costituiscono un gruppo di studio avanzato, dedito probabilmente allo sviluppo delle dottrine scientifiche (matematiche, astronomiche, musicali) più complesse. L’influenza del pitagorismo sulla storia del pensiero antico è stata enorme e straordinaria-

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mente duratura: basti pensare che troviamo importanti scuole pitagoriche anche dopo il III secolo d.C. L’eccezionale prestigio della figura di Pitagora (mago, sciamano, ma forse anche filosofo-scienziato) rappresenterà per quasi un millennio l’autentico collante di tutta la tradizione pitagorica successiva.

PER SINTETIZZARE • Perché la scoperta dei numeri irrazionali avrebbe rappresentato un grave motivo di disorientamento e di crisi all’interno della cerchia pitagorica?

5. Parmenide e l’eleatismo Nello stesso periodo in cui operano Pitagora e i pitagorici, prima in Calabria e poi in Sicilia, nella cittadina campana di Elea (l’odierna Ascea) si forma una scuola, quella eleatica, destinata ad avere un limitato successo istituzionale ma una straordinaria influenza filosofica su tutto il pensiero occidentale.

Senofane di Colofone e la critica alla tradizione

Contro l’antropomorfismo della religione tradizionale

Lo scetticismo

5.1 Senofane di Colofone: le radici dell’eleatismo Nonostante il fondatore della scuola eleatica sia Parmenide, secondo Platone già con Senofane di Colofone sono individuabili motivi tipici di quella che lui definì la “stirpe eleatica”. Nato nel 570 a.C. a Colofone, nella Ionia, abbandona la sua città dopo la conquista persiana: viaggia a lungo, stabilendosi alla fine a Elea. Le sue opere, di cui ci sono giunti circa quaranta frammenti, comprendono poesie di vario genere (elegiache, conviviali e satiriche) e due poemi epici, La fondazione di Colofone e La fondazione della colonia di Elea. Il motivo principale per il quale Senofane può essere considerato un antesignano dell’eleatismo risiede nella fiducia da lui riposta nelle capacità della ragione e nella radicale critica alla tradizione. In particolare Senofane si scaglia con forza e ironia contro l’antropomorfismo della religione greca tradizionale (quella di Omero ed Esiodo). Ai suoi occhi l’abitudine di rappresentare gli dèi come se fossero uomini – e dunque, seppur immortali, in possesso degli stessi difetti di questi ultimi – costituisce il retaggio di una mentalità arcaica che la ragione si deve incaricare di smascherare. Con tono sarcastico, Senofane afferma in una delle sue opere: «Se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e potessero con queste disegnare […] i cavalli disegnerebbero figure di dèi simili a cavalli, e i buoi simili ai buoi». Nei pochi frammenti rimastici delle opere di Senofane sembra contenuta anche una prudente professione di scetticismo, o almeno un coraggioso riconoscimento dei limiti conoscitivi dell’uomo. Nel frammento 23 si legge infatti: «Il certo nessuno mai lo ha colto, né ci sarà qualcuno che lo colga, sia relativamente agli dèi sia relativamente a tutte le cose di cui parlo». Egli sembra dunque ammettere che la conoscenza certa e assoluta, in assenza di una rivelazione divina, risulta in qualche modo preclusa all’uomo: si tratta proprio di quella rivelazione divina che Parmenide dichiara di avere avuto. 5.2 Parmenide: la verità contro l’opinione FILOSOFI A CONFRONTO

Parmenide, «venerando e terribile»

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Parmenide (515-445 ca. a.C.) oltre a essere un pensatore straordinario per profondità e influenza, è anche il primo autore presocratico al quale sia Platone sia Aristotele sembrano riconoscere la caratura del filosofo vero e proprio. L’atteggiamento che i due grandi maestri del pensiero antico hanno verso Parmenide è duplice: da un lato, essi rimangono colpiti dalla radicalità e dalla profondità delle sue riflessioni; dall’altro, non mancano tuttavia di metterne in luce gli eccessi teorici, quasi che alla sua straordinaria profondità teorica non corrispondesse un’uguale capacità di gestire con moderazione questo acume (Platone definisce Parmenide «venerando e insieme terribile»).

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La tradizione sapienziale T2

Le due vie: l’essere e il non essere

L’impossibilità del non essere

Le difficoltà nell’interpretazione

I segnali dell’essere

Parmenide consegna il proprio pensiero a un poema (dal solito titolo Sulla natura), scritto in esametri omerici: nella scelta di scrivere in poesia e in particolare nell’utilizzo dell’esametro omerico si cela probabilmente l’intento di presentare una concezione che vuole riallacciarsi a forme di comunicazione sapienziale e arcaica: in questo senso, anche Parmenide (esattamente come Eraclito e Pitagora, e dopo di lui Empedocle) intende presentarsi come un maestro di verità. 5.2.1 La rivelazione della dea: l’essere e il non essere L’atmosfera sapienziale e volutamente arcaicizzante del poema è rafforzata dal fatto che a parlare al poeta, ossia a Parmenide, è una dea, che gli comunica una rivelazione profonda, alla quale gli uomini comuni non hanno accesso. In apertura del poema, la dea afferma la distinzione tra la «verità ben rotonda» (ossia perfettamente coerente), conosciuta dal filosofo, e le opinioni degli uomini (che non sono vere, ma alle quali bisogna necessariamente prestare attenzione, per comprenderle ed eventualmente per renderle almeno plausibili, ossia sensate). Le parole della dea assumono poi un andamento davvero misterioso, in cui risiede il cuore della filosofia parmenidea: «Ecco ora che dico, e tu fa’ tesoro del detto, quali sono le sole due vie di ricerca pensabili: l’una che è e che è impossibile che non sia, è la strada della persuasione poiché si accompagna alla verità, l’altra che non è e che è necessario che non sia, che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere; mai potresti conoscere ciò che non è, né potresti parlarne, è cosa impossibile». L’intero discorso di Parmenide è costruito a partire dalla disgiunzione primaria e fondamentale tra la via dell’essere e quella del non essere. La via dell’essere è quella che dice l’essere e che va percorsa fino in fondo, mentre quella del non essere va rifiutata come impossibile, appunto perché non è possibile né conoscere né nominare il non essere. Perché è impossibile nominare e conoscere il non essere? In primo luogo perché dire e pensare il non essere comporta, da una parte, la perdita di ogni riferimento: come si può infatti dire e pensare il nulla? D’altra parte, dire e pensare il non essere ci conduce inesorabilmente a una contraddizione: quando infatti diciamo «questa cosa non è», attribuiamo a essa contemporaneamente l’essere (in quanto “è” una cosa) e il non essere (in quanto “non è”). Che cosa significa tutto ciò? È davvero difficile, forse addirittura impossibile, stabilirlo con esattezza. Parmenide si esprime in un linguaggio fortemente conciso in cui ogni parola può essere intesa in modi differenti, e lo fu effettivamente già a partire da Platone e Aristotele. La ragione della difficoltà che i frammenti di Parmenide comportano risiede anche nel fatto che in lui l’aspetto logico (l’argomentazione stringente), quello ontologico (che riguarda la teoria dell’essere) e quello epistemologico (che concerne la dottrina della conoscenza) risultano strettamente connessi, mentre noi siamo portati a distinguerli. Le affermazioni contenute nel frammento sopra riportato devono la loro difficoltà anche all’assenza dell’indicazione del soggetto al quale si riferiscono; per fortuna si è conservato un altro frammento, l’ottavo, in cui Parmenide indica esplicitamente il soggetto del suo discorso, cioè l’ente o essere. Qui la dea, dopo avere ancora una volta messo in guardia il suo ascoltatore dal pensare e dal dire il non essere, afferma: «[…] Resta soltanto una via, ossia che è. […] L’essere è ingenerato e senza morte, tutto intero, di un unico genere, immobile e non è mai stato incompiuto o lo sarà, perché è tutto insieme ora, uno, continuo». 5.2.2 L’essere Dunque il discorso di Parmenide verte sull’essere. Ma che cosa rappresenta questo essere? Nel frammento Parmenide ce lo descrive, sempre in modo oscuro, affermando che è ingenerato, eterno, intero, di un unico genere, immobile, continuo: tuttavia anche qui le interpretazioni divergono. Ma Parmenide potrebbe anche voler sostenere che ogni cosa, per essere veramente una cosa, deve avere certe caratteristiche, che egli stesso chiama “segnali”, o “indicatori”, dell’es-

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sere. Si può dire che una cosa “è” solo quando questa è unitaria, identica a se stessa, ingenerata, perfettamente immobile (ossia del tutto inalterabile) e di un unico genere (cioè è dotata di un’unica caratteristica, priva di differenziazioni). Solo se provvista di queste caratteristiche la cosa potrà anche risultare perfettamente conoscibile, perché solo ciò che è può essere conoscibile e nominabile. Questo è dunque il dominio dell’essere. È importante precisare che se venissero meno queste caratteristiche che ci “segnalano” l’essere, entrerebbe inevitabilmente in scena il non essere. Infatti, se fosse generato, l’essere dovrebbe, prima di generarsi, risultare non essere; allo stesso modo, se non fosse di un unico genere (cioè se avesse molte caratteristiche), l’essere sarebbe composto anche dal non essere, dal momento che una certa qualità non è identica a un’altra. In tutti questi casi l’essere si trasformerebbe in non essere, infrangendo il perentorio divieto di dire e pensare il non essere. Si cadrebbe così in contraddizione, affermando in qualche modo che il non essere è, determinando così il naufragio della logica e dello stesso pensiero. FILOSOFI A CONFRONTO

L’interpretazione cosmologica dell’essere

L’essere di cui parla Parmenide potrebbe indicare il cosmo, ossia l’universo, e il significato delle affermazioni a esso relative potrebbe consistere nel fatto che l’universo, al di là di tutte le sue apparenti articolazioni (le sue parti), è in realtà unitario, immobile, ingenerato. Questa, più o meno, fu l’interpretazione che diede alle parole di Parmenide Melisso, l’ultimo grande rappresentante dell’eleatismo.

LE DUE VIE: L’ESSERE E IL NON ESSERE VIA DELL’ESSERE

VIA DEL NON ESSERE

dire o pensare l’essere (es. “qualche cosa è”) non implica contraddizione, a patto che la cosa sia:

dire o pensare il non essere (es. “qualche cosa non è”) implica contraddizione:

• unitaria • identica a se stessa • ingenerata

• si dovrebbe affermare una cosa

• immobile (inalterabile) • di un unico genere (non provvista di molteplici

• e poi subito dopo negarla

(quando dico “qualche cosa”) (quando aggiungo “non è”)

articolazioni o caratteristiche) • continua (ciò che non ha queste caratteristiche ricade nel non essere) IMPOSSIBILE

l’essere è, si può dire e conoscere

invito a percorrere l’unica via percorribile, quella dell’essere che conduce alla verità

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il non essere non è, non si può né dire né conoscere

divieto di dire e pensare il non essere

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Il divieto di dire e pensare il non essere

La via del non essere, che porta all’errore

Come si vede, la filosofia di Parmenide sembra articolarsi intorno al divieto di dire e pensare il non essere. Vedremo come questa radicale posizione ebbe notevole influenza nella successiva indagine sulla natura, che del non essere (inteso come divenire, come mutamento e come molteplicità) sembrava non poter fare a meno. Ma lo stesso Parmenide ammette che la maggior parte degli uomini (i “mortali”) seguono la seconda via: quella che porta all’errore di accettare la molteplicità della realtà e il divenire nel tempo, e quindi ammette il non essere. Questa via è imposta dall’inganno dei sensi, che ci mostrano cose molteplici e mutevoli: si tratta non di “verità” ma di “opinione”. FILOSOFI A CONFRONTO

La cosmologia verosimile di Parmenide e la cosmologia pitagorica

Nella seconda parte del suo poema, dedicata appunto all’opinione, Parmenide espone al suo discepolo una versione se non vera, almeno verosimile del mondo dell’opinione. Alla maniera dei fisiologi egli costruisce quindi una concezione della natura come derivata dal contrasto (e dalla mescolanza) fra luce e tenebra; la cosmologia “verosimile” di Parmenide appare quindi una versione di quella pitagorica, basata sui due principi del limite e dell’illimitato.

5.3 Zenone di Elea: la difesa logico-dialettica di Parmenide L’inventore della dialettica

La dimostrazione per assurdo

Allievo e seguace di Parmenide è Zenone di Elea (490-440 ca. a.C.). Il senso dell’opera di questo affascinante autore consiste nel tentativo di difendere Parmenide dagli attacchi che inevitabilmente vennero mossi a un pensiero tanto radicale quanto controintuitivo (ossia contrario, o diverso, da come intuitivamente ci aspetteremmo che stiano le cose). Zenone, infatti, mise a punto una raccolta di complessi argomenti che miravano a dimostrare l’erroneità delle tesi sostenute dagli avversari del suo maestro: per questa ragione Zenone viene considerato da Aristotele (e in qualche misura già da Platone) come l’inventore della dialettica, ossia del metodo confutatorio (capace cioè di mostrare l’infondatezza di una dottrina o di una tesi filosofica). Zenone procede pressappoco in questo modo. Prima di tutto prende uno degli assunti di Parmenide, cioè una delle caratteristiche dell’essere (i famosi “segnali”) enunciate dal maestro; poi si mette nei panni di un avversario di Parmenide e nega questo stesso assunto, sostenendo, per esempio, che l’essere non è uno ma molteplice, oppure che non è immobile ma in moto; quindi dimostra che dalla negazione di questo assunto discendono conseguenze assurde, oppure in contrasto con la stessa premessa o semplicemente paradossali: in questo modo può concludere che l’assunto parmenideo deve essere per forza vero, dal momento che la sua negazione determina esiti inaccettabili. FILOSOFI A CONFRONTO

Per inciso, occorre segnalare che la dimostrazione della verità dell’affermazione A attraverso la falsità dell’affermazione contraddittoria non-A rappresenta la struttura del metodo dialettico, e in questa forma verrà ripresa da Platone e Aristotele.

La non esistenza del movimento

Vediamo alcuni degli esempi più noti. Parmenide aveva sostenuto che l‘essere è immobile, ossia che tutto ciò che è (cioè che esiste) non può essere in movimento. Questa affermazione, a ben vedere, ha dei risvolti stupefacenti, dal momento che essa implica che il movimento ricada nel non essere, ossia che il movimento non esista. Zenone intende dunque dimostrare questa sconcertante tesi di origine parmenidea. Egli inizia con l’ammettere per ipotesi che il movimento esiste. Dunque, se c’è movimento, il mobile M partendo dal punto A raggiungerà il punto B; per raggiungere B, però, dovrà prima arrivare al punto C collocato esattamente a metà strada tra A e B, ma prima che in C dovrà inevitabilmente arrivare in D, che si trova tra A e C e così via all’infinito. È evidente che l’argomento di Zenone mira a dimostrare che il movimento non può nemmeno ini-

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Il paradosso di Achille: la dimostrazione dell’immobilità dell’essere

Dall’indagine sulla natura alla dialettica

ziare, perché per raggiungere qualsiasi punto occorre trovarsi in un punto precedente e così via all’infinito. Ancora più celebre dovette essere il paradosso di Achille (denominato per tradizione “piè veloce”) e della tartaruga: se il movimento esiste, ossia se l’essere non è immobile (come invece postulava Parmenide), Achille “piè veloce” raggiungerà la tartaruga. Poniamo allora che Achille si trovi nel punto dello spazio S0 e che la tartaruga sia un poco più avanti in S1; nel tempo T1 in cui Achille ha raggiunto il punto S1 in cui si trovava la tartaruga, questa avrà compiuto un piccolo movimento e si sarà spostata in S2, evitando così di essere raggiunta; anche nel lasso di tempo successivo T2 Achille non riuscirà a raggiungere la tartaruga perché questa si sarà spostata, sia pure di pochissimo. Il processo è destinato a proseguire all’infinito, senza che Achille riesca mai a raggiungere la tartaruga. Dunque Zenone può concludere che il movimento è impossibile o che la sua ammissione conduce a conseguenze ancora più ridicole di quelle derivanti dall’ipotesi dell’immobilità dell’essere. Analoghi ragionamenti portano Zenone a riflettere a proposito del molteplice e del divenire. In termini generali, dunque, si può dire che egli spostò l’indagine sulla natura dal piano fisico e sensibile (nel quale l’avevano collocata i fisiologi ionici) a quello logico-dialettico, radicalizzando spunti effettivamente presenti nel poema di Parmenide.

IL PARADOSSO DI ACHILLE E LA TARTARUGA

Per raggiungere la tartaruga Achille deve percorrere gli infiniti segmenti AB, BC, CD…. e, per percorrere infiniti segmenti, dovrà impiegare un tempo infinito: Achille dunque non raggiungerà mai la tartaruga.

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5.4 Melisso: l’essere è il cosmo L’ultimo rappresentante dell’eleatismo (anche se forse non ha mai soggiornato a Elea) è Melisso di Samo (485-430 a.C.). FILOSOFI A CONFRONTO

L’essere in senso fisico-cosmologico

La sua operazione è esattamente inversa a quella di Zenone. Se quest’ultimo ha fornito un’interpretazione del pensiero di Parmenide di carattere logico-dialettico, Melisso intende l’essere parmenideo in senso fisico-cosmologico e per lui l’essere altro non è che il cosmo, ossia l’universo. Tuttavia questo essere, per poter risultare effettivamente unico, dovrà inevitabilmente essere anche privo di limite, ossia illimitato (àpeiron) e infinito (a differenza dell’essere parmenideo che era invece equiparato a una sfera perfetta, e che risultava dunque finito).

L’infinità nel tempo

L’essere è per Melisso privo di limiti non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Egli ritiene infatti che l’essere, coincidente con il cosmo, sia ingenerato e incorruttibile: per dimostrarlo introduce una tesi che avrà un’importanza fondamentale nella storia della filosofia. Scrive infatti all’inizio del suo trattato Sulla natura o sull’essere: «Sempre era e sempre sarà, perché se fosse generato sarebbe necessario che, prima che fosse generato non fosse nulla, ma se prima era nulla, per nessuna ragione nulla si sarebbe potuto generare dal nulla». L’interesse di questa affermazione risiede soprattutto nel fatto che in essa si trova la prima esplicita formulazione del principio secondo il quale «nulla può nascere dal nulla» (nihil ex nihilo). Per comprendere quanto questo principio, in qualche modo implicito già nel poema parmenideo, abbia influito sulla riflessione naturalistica successiva, sarà sufficiente leggere la prossima sezione.

Nulla si genera dal nulla

PER SINTETIZZARE • Perché secondo Parmenide la via del non essere non è né pensabile né conoscibile?

6. Empedocle, Anassagora e Democrito L’influenza dell’eleatismo nella riflessione sulla natura

Come può la natura essere mutevole?

Logica eleatica e osservazione della natura

L’irruzione dell’eleatismo nel pensiero greco non è certo priva di conseguenze per il successivo corso della riflessione sulla natura: le dottrine di Parmenide (e dei suoi seguaci) sconvolgono come un vero e proprio terremoto il modo di accostarsi all’indagine naturalistica, dimostrando che non sarebbe stato più possibile condurre la ricerca intorno alla natura con i metodi dei primi naturalisti, i fisiologi ionici. Bisogna tenere conto del perentorio divieto di Parmenide relativo al non essere e al divenire, che rappresenta pur sempre, come abbiamo visto, una forma di non essere. «Mai potrai conoscere e nominare il non essere, è cosa impossibile», dichiara, implacabile, Parmenide; «nulla si può generare dal nulla», aggiunge, sulla medesima linea, Melisso, non facendo altro che esplicitare una posizione largamente implicita nel poema parmenideo. L’applicazione della stringente logica eleatica alla natura comporta dunque il rifiuto tanto della generazione, ossia della nascita, dal nulla, quanto del divenire, cioè della trasformazione di qualcosa in qualcos’altro. E ancora: l’essere parmenideo è uno, perché, se fosse molteplice, concederebbe diritto di cittadinanza anche al non essere, infrangendo il divieto. Ma la natura – lo vediamo tutti noi – manifesta continuamente processi di generazione e di trasformazione, e appare intrinsecamente molteplice. Com’è possibile descriverla negandole i tre aspetti (generazione, trasformazione, molteplicità) che sembrano caratterizzarla in quanto natura? Non si dimentichi che con “natura” traduciamo la parola greca phy`sis, che deriva dal verbo phy` o e che significa appunto “nascere, generarsi”. Non è azzardato vedere negli sviluppi del naturalismo successivi agli eleati il tentativo di

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conciliare, almeno in parte, i divieti parmenidei con la possibilità di indagare effettivamente la natura. La concezione elementaristica di Empedocle, la dottrina dei semi originari di Anassagora e la teoria atomistica di Leucippo e Democrito non rappresentano altro che lo sforzo di inglobare la riflessione logica di Parmenide nel cuore dell’indagine naturalistica. Questi autori tenteranno infatti di conciliare due esigenze apparentemente opposte: il rigore della logica eleatica e il carattere molteplice e diveniente della natura.

Naturalista, mago, filosofo, medico e politico

Conciliare naturalismo ed eleatismo

Le quattro radici: aria, acqua, terra e fuoco

Le radici originarie e incorruttibili

6.1 Empedocle: tra antichi e nuovi saperi Empedocle di Agrigento (493-432 a.C.) rappresenta forse la figura più straordinaria – o semplicemente la più complessa – tra quelle che si affacciano nel teatro della filosofia nelle prime fasi della sua storia. Grande naturalista, erede della tradizione fisiologica ionica ma anche sapiente alla maniera di Eraclito e di Pitagora (dal quale riprende i tratti oracolari del mago e dello sciamano, e la teoria della trasmigrazione delle anime), nel corso della sua vita entra in contatto con l’eleatismo (da cui eredita l’attenzione per gli aspetti logico-razionali dell’indagine sulla natura); tuttavia Empedocle è anche medico, guaritore e uomo politico, visto che ricopre un ruolo significativo nel processo di democratizzazione che interessa anche la sua patria. Come si vede si tratta di una figura complessa, ricca di tensioni e forse di ambiguità, ma proprio per questo capace di affascinare gli uomini di ogni tempo. L’opera più significativa di Empedocle, un poema in esametri dal titolo Sulla natura, intende rifarsi alle due grandi tradizioni della riflessione precedente, tentando di conciliarle: quella naturalistica di matrice ionica (presente nel tema dell’opera, la natura appunto) e quella parmenidea (in qualche modo evocata nella scelta del genere letterario, quello della poesia in esametri). Empedocle si propone quindi di inglobare la riflessione parmenidea nel cuore dell’indagine naturalistica. Per prima cosa, dunque, egli accetta i divieti eleatici relativi all’inammissibilità del non essere e alla generazione dal nulla, ma tenta di adattarli a una ricerca che sia immune dall’astrazione e dal radicalismo di Parmenide e di Zenone. Per Empedocle è vero che nulla si genera dal nulla, ed è anche vero che il divenire (ossia la trasformazione di qualcosa in qualcos’altro) in realtà non esiste. Non è vero, invece, che l’essere presenta una configurazione del tutto unitaria, perché, se così fosse, non si comprenderebbe la ricchezza della natura e dell’universo. 6.1.1 I quattro elementi, l’Amicizia e la Contesa Empedocle postula l’esistenza di quattro

radici fondamentali (che nella tradizione successiva saranno note come i quattro elementi): aria, acqua, terra e fuoco. Tali elementi, già individuati almeno in parte dai fisiologi ionici, sono l’origine di tutte le cose, che sono dunque formate dalla loro mescolanza. Ciò che gli uomini comuni chiamano generazione e divenire altro non è che la mescolanza di questi quattro elementi, i quali, aggregandosi e disgregandosi, danno origine alle diverse realtà individuali. Non esiste dunque una vera e propria nascita, perché i quattro elementi sono eterni e ingenerati; le cose sembrano originarsi e dissolversi, ma in realtà ciò che esiste veramente, ossia le radici fondamentali, non è soggetto a nascita e a morte, ma soltanto a mescolanza e a separazione. È molto ingenuo – tipico dei fanciulli, dice Empedocle – ritenere che i processi naturali consistano in nascita e morte; il sapiente invece è in grado di cogliere ciò che permane al di là dell’apparente divenire delle cose. FILOSOFI A CONFRONTO

L’essere parmenideo si è trasformato in Empedocle nelle quattro radici, che di quell’essere possiedono più di una caratteristica: sono ingenerate e incorruttibili, sempre esistenti (come l’essere di Melisso), identiche a sé, dotate, ciascuna, di un’unica caratteristica. La differenza rispetto a Parmenide sembra consistere nel fatto che esse sono molteplici, ossia quattro, perché solo ipotizzando una molteplicità originaria e irriducibile Empedocle crede di poter salvaguardare il carattere molteplice e articolato della natura.

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Amicizia e Contesa

All’ammissione dei quattro elementi originari Empedocle aggiunge l’ipotesi che i processi di aggregazione (cioè di mescolanza) e di disgregazione (ossia di separazione) delle radici siano causati da due forze cosmiche primordiali, alle quali egli assegna il nome di Amicizia o Amore e Contesa o Odio: la prima agisce come una sorta di forza di attrazione, la seconda come un principio di repulsione e allontanamento. Secondo Empedocle l’azione di Amicizia determina l’aggregazione degli elementi e la formazione delle cose, mentre la presenza di Contesa è causa dei processi di disgregazione e scomposizione. L’azione di questi due principi non è limitata alla formazione delle singole cose, ossia dei corpi individuali, ma si estende sul piano cosmico. A questo livello Empedocle sembra individuare due fasi estreme: quella del dominio assoluto dell’Amicizia, che comporta l’unità assoluta e perfetta degli elementi (i quali risultano compressi e unificati in una sfera), e quella in cui si impone la Contesa, che determina il totale isolamento delle quattro radici. Tra queste fasi estreme si collocano gli stadi intermedi in cui il dominio di una delle due forze primarie non è assoluto, proprio come dimostra l’attuale momento della storia del mondo; il cosmo che abitiamo ora rappresenta dunque, secondo Empedocle, solo uno stadio intermedio dell’eterno processo cosmico di aggregazione e disgregazione degli elementi primari.

LE ORIGINI DELLE COSE: LE QUATTRO RADICI (O ELEMENTI) E LE FORZE COSMICHE PRIMORDIALI RADICI (4 elementi ingenerati e incorruttibili, equivalente fisico-cosmica dell’essere parmenideo)

aria

acqua

terra

fuoco

FORZE COSMICHE (processi di aggregazione e disgregazione degli elementi)

Amicizia

La teoria della conoscenza: il simile conosce il simile

La trasmigrazione delle anime e il cammino di purificazione

La concezione dei quattro elementi non riveste, per Empedocle, solamente una funzione fisico-cosmologica, ma ai suoi occhi è in grado di spiegare anche i processi conoscitivi. A lui si deve la prima formulazione del principio secondo il quale «il simile viene conosciuto dal simile»; dunque, se noi conosciamo le cose, le quali sono composte dalle quattro radici fondamentali, è perché noi stessi siamo costituiti da queste radici: con l’acqua che è in noi percepiamo l’acqua presente nelle cose, con il fuoco conosciamo il fuoco e così via Empedocle – lo si è detto – è una personalità complessa e variegata: naturalista, ma anche mago e adepto della concezione orfico-pitagorica della metempsicosi (trasmigrazione delle anime). Nella sua seconda opera, intitolata Purificazioni (della quale ci restano solamente una quarantina di frammenti), la trattazione si colloca in un contesto tipicamente pita-

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Contesa

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gorico nella quale è possibile riscontrare la credenza nella concezione della trasmigrazione delle anime (anche se Empedocle preferisce forse parlare di demoni); in un frammento il poeta arriva a dire di se stesso: «Una volta già io nacqui ragazzo, ed un’altra fanciulla, ed arbusto ed uccello e muto pesce del mare». Come per i pitagorici, anche per Empedocle le anime dei viventi trasmigrano da un corpo all’altro: esiste dunque una sostanziale comunanza fra tutti gli esseri viventi, il che comporta inevitabilmente il divieto di cibarsi di carne e di fare sacrifici animali. Egli ritiene dunque che l’anima di chi è vissuto secondo le norme di purificazione ascetica finirà per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e tornerà a unificarsi con il mondo divino da cui proviene; al contrario, le anime “impure” si reincarneranno in forme di vita sempre più basse e degenerate. Empedocle, naturalista alla maniera ionica e mago alla maniera pitagorica, esprime in sé le tensioni e le ambiguità della riflessione presocratica, ma anche il fascino e la grandezza di questo pensiero.

IL CICLO COSMICO 1

unità assoluta e perfetta delle quattro radici. Dominio assoluto di Amicizia

AZIONE DI CONTESA E DI AMICIZIA

2

inizia la disgregazione: le radici cominciano a spezzarsi

I semi originari e la loro aggregazione

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PREVALE AMICIZIA

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il mondo che abitiamo si trova nella fase 2 o 4 del ciclo cosmico

PREVALE CONTESA

le quattro radici iniziano di nuovo ad aggregarsi

AZIONE DI AMICIZIA E DI CONTESA

3

massima disgregazione, isolamento delle radici. Dominio assoluto di Contesa

6.2 Anassagora: i semi infiniti e l’intelletto Come già aveva fatto Empedocle, anche Anassagora − nato nel 500 a.C. a Clazomene, in Ionia, − si pone il problema di conciliare i divieti logici parmenidei con un’indagine sulla natura che sia sensata e in qualche modo rispettosa dei dati fenomenici. A lui, tuttavia, − che è stato il primo filosofo attivo ad Atene e che faceva parte di un gruppo di intellettuali vicini a Pericle − le radici empedoclee devono apparire insufficienti per giustificare l’infinita varietà del mondo e delle cose che lo abitano. Per questo motivo postula una sorta di stadio primordiale in cui tutto si trova in tutto; si tratta di un magma primitivo costituito da un numero infinito di semi originari, i quali esprimono le qualità delle cose. In questo stadio primordiale si trovano i semi di tutte le cose, come per esempio dell’oro, del grano, della pelle e così via; attraverso la separazione dalla massa primordiale e l’aggregazione dei semi della stessa specie si sono originate le cose, così come noi le conosciamo. Tuttavia, spiega Anassagora, le cose di cui il mondo è fatto non sono mai purissime, poiché non sono costituite solo dai semi che le caratterizzano. Per esempio, in un pezzo di carne ci saranno in prevalenza semi di carne, ma non solo: in verità vi si trovano i semi di tutte le cose, anche se a prevalere sono naturalmente quelli di carne. Così è per qualsiasi altra cosa.

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Molteplicità e trasformazione

L’intelletto ordinatore

In questo modo Anassagora ritiene di essere in grado di spiegare alcuni fenomeni apparentemente paradossali, come, per esempio, il fatto che il pane, una volta ingerito, si trasformi in ossa, sangue e così via. Come è possibile che una cosa si trasformi in un’altra qualitativamente così diversa? La risposta di Anassagora è semplice e ingegnosa: nel pezzo di pane che mangiamo sono contenuti, in quantità minima, anche semi di tutte le altre cose. In questo modo si spiega il fatto che ingerendo un certo alimento esso si trasformi, andando ad accrescere le parti del nostro corpo: in quell’alimento sono semplicemente contenuti i semi delle parti del corpo. Per Anassagora, quindi, è possibile spiegare la molteplicità delle cose solo postulando che essa si trovi già nello stato originario del cosmo e poi in tutte le fasi dello sviluppo di questo, e soprattutto in tutti gli oggetti che lo compongono. Per Anassagora, tuttavia, l’ipotesi dei semi non è ancora sufficiente per chiarire come i corpi si siano formati. Essa è sufficiente a giustificare la varietà delle cose (perché la varietà è già data nello stadio primordiale) e il fatto che una possa trasformarsi in un’altra (perché in ogni composto sono presenti i semi di tutte quante le cose); sul piano cosmico, tuttavia, occorre postulare la presenza di una sorta di motore, un principio attivo che interviene sul magma originario dando così avvio al processo di separazione dei semi e all’aggregazione di quelli simili in modo da formare le cose così come noi le vediamo. Questo motore, o principio, è l’intelletto, che Anassagora chiama Intelletto (nous) ordinatore. Anch’esso è composto di semi, che non sono tuttavia mescolati tra loro, bensì puri, nel senso che è formato dai soli semi d’intelletto non mischiati a quelli delle altre cose. Afferma perentoriamente Anassagora a proposito di questo Intelletto: «Tutte le altre cose hanno parte a tutto, mentre l’Intelletto è qualcosa di illimitato e di separato e a nessuna cosa è mischiato […]».

LA FORMAZIONE DEL MONDO SECONDO ANASSAGORA INTELLETTO ORDINATORE, SEPARATO ED ETERNO impulso alla generazione infiniti semi eterni e immortali di tutte le cose = magma originario

formazione del mondo (ogni cosa contiene traccia di ogni seme)

La trasformazione dei semi eterni

Tra Empedocle e Anassagora esiste un’altra sensibile differenza. Se per Empedocle il mondo, e le cose che vi si trovano al suo interno, nascono quando gli elementi si mescolano, per Anassagora il mondo e le cose si formano quando i semi si separano dal magma originario, per poi unirsi (in base al principio della somiglianza) grazie all’intervento dell’Intelletto ordinatore. Un punto però rimane fermo: anche per Anassagora, esattamente come per Empedocle, non esiste veramente generazione e corruzione delle cose, ma solo trasformazione, dal momento che ciò che realmente esiste, ossia i semi, non nascono né periscono, essendo eterni e immortali.

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PER SINTETIZZARE • Che ruolo svolge l’intelletto nella concezione del cosmo di Anassagora?

La nascita dell’atomismo

6.3 Democrito: gli atomi e il vuoto Il terzo grande tentativo di produrre una riflessione sulla natura che sia rispettosa dei divieti formulati dagli eleati si deve a Democrito (460-380 a.C.) e al suo maestro Leucippo (vissuto nella seconda metà del V secolo a.C.). La concezione atomistica da loro proposta costituisce l’esperimento intellettuale più compatto e sistematico tra quelli emersi nei primi secoli della filosofia greca. FILOSOFI A CONFRONTO

L’influenza di Democrito sul pensiero antico è stata considerevole, visto che l’atomismo verrà ripreso e approfondito in epoca ellenistica da Epicuro, e grazie alla scuola epicurea si affermerà nel mondo greco e soprattutto in quello romano (grazie alla mediazione del grande poeta latino Lucrezio, vissuto nel I secolo a.C.).

I caratteri dell’essere sono trasferiti agli atomi

Secondo Democrito i caratteri dell’essere parmenideo (eternità, assenza di generazione, immutabilità, assoluta identità con sé) appartengono agli atomi (il termine greco àtomos significa “indivisibile”), entità piccolissime, invisibili e impossibili da percepire la cui assoluta indivisibilità costituisce la loro caratteristica principale. Essi rappresentano i “mattoni” fondamentali di cui sono costituite le cose, ossia i corpi che possiamo vedere: in effetti, questi ultimi si formano a partire dall’aggregazione di atomi e cessano di esistere nel momento in cui gli atomi si disgregano per dare origine a una nuova aggregazione, vale a dire a un nuovo corpo. Gli atomi, però, sono sottratti tanto alla generazione quanto alla distruzione, essendo appunto eterni e ingenerati (come le radici di Empedocle e i semi di Anassagora).

Apollo Sauroktònos, copia romana dell’originale di Prassitele del 340 a.C. Roma, Musei Capitolini.

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Forma, direzione e ordine degli atomi

Il vuoto

Un universo meccanico e necessario, privo di finalità

Dal momento che le cose presentano caratteristiche diverse le une dalle altre, secondo Democrito occorre postulare una differenza originaria concernente i loro elementi costitutivi, ossia gli atomi. Questi sono infiniti di numero e si distinguono gli uni dagli altri sulla base di tre fattori: la forma, la direzione e l’ordine. Secondo il paragone di Aristotele gli atomi sono come delle lettere dell’alfabeto, che combinandosi e disponendosi tra loro in maniera diversa formano parole e concetti diversi: due atomi possono essere distinti per forma o figura (come per esempio A e N); possono avere la medesima forma ma essere distinti per direzione (o posizione, orientamento, come per esempio N e Z); infine, vi è la distinzione per ordine (come per esempio il composto di atomi AN si distingue da quello NA). L’ultimo parametro menzionato è in grado di spiegare come due composti costituiti dagli stessi atomi possano presentare caratteristiche differenti. Perché gli atomi si possano aggregare dando così origine alle cose è però necessario postulare l’esistenza del vuoto. Nel vuoto, infatti, gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano; gli atomi di Democrito, a differenza degli atomi di cui parlerà un secolo dopo Epicuro, sembra che siano sprovvisti di peso: essi si muovono anche spinti da un vortice che talora si determina (per esempio a causa del vuoto improvviso di una certa regione dello spazio). È molto importante tenere presente che i processi cui i movimenti atomici danno luogo con le aggregazioni e le disgregazioni corporee risultano del tutto privi di un fine; l’universo democriteo, che era costituito da infiniti mondi, è ateleologico (privo di un tèlos, ossia di un fine, di uno scopo): si tratta di un universo meccanico e necessario, ma senza una finalità (tanto interna, quanto imposta dall’esterno). 6.3.1 La teoria della conoscenza democritea Il modello atomistico delineato da Democrito

Gli èidola

Una prima distinzione fra qualità primarie e secondarie

ha una natura fortemente sistematica, nel senso che è ideato per spiegare il maggior numero possibile di fenomeni. Un caso emblematico è rappresentato dalla teoria della percezione. Secondo Democrito la percezione si produce in virtù del fatto che dagli oggetti si staccano incessantemente atomi sottilissimi, chiamati immagini (èidola), che conservano e riproducono la configurazione delle cose alle quali appartengono; questi èidola raggiungono gli organi di senso, entrando nel nostro corpo attraverso i pori di cui la superficie di quest’ultimo è cosparsa. Se nel corso del loro tragitto queste immagini non subiscono modificazioni, esse danno luogo a percezioni sostanzialmente corrispondenti all’oggetto quale realmente è. Per Democrito anche fenomeni percettivi come il gusto e il tatto hanno una spiegazione all’interno della teoria atomistica. Il sapore aspro, per esempio, è prodotto dalla presenza di atomi aguzzi e dotati di angoli, mentre il dolce, al contrario, rimanda ad atomi di forma tondeggiante. È importante precisare che per Democrito la conoscenza ottenuta mediante i sensi, cioè attraverso la percezione, appartiene all’ambito dell’opinione, e non della verità. Da Parmenide Democrito sembra infatti riprendere la distinzione tra un sapere autentico e uno solo opinativo (ossia doxastico, da dòxa, “opinione”). Il primo, il sapere autentico, riguarda la dimensione più profonda e vera della realtà, ossia gli atomi (nella loro configurazione specifica) e il vuoto, che possono essere colti solo attraverso l’intelletto; il secondo, invece, è quello che proviene dalla sensazione, che si limita a restituire un livello secondario, ossia derivato, della realtà (colori, sapori, e così via). Dunque, quando assaporiamo qualcosa di aspro, ciò dipende dall’incontro tra l’èidolon (immagine atomica della cosa) e il nostro organo percettivo: la proprietà originaria dell’èidolon (quindi anche della cosa) è semplicemente quella di essere aguzzo, che si traduce a livello percettivo nella sensazione di asprezza; quest’ultima, però, è una proprietà derivata, che non appartiene di per sé alla cosa, o all’èidolon, ma risulta dall’incontro tra questa e l’organo di senso. FILOSOFI A CONFRONTO

In questo modo Democrito anticipa la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, destinata a fare la sua comparsa in forma sistematica nell’ambito della filosofia europea del Seicento.

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La convenzionalità delle leggi

Democrito si interessa anche di etica e morale, ma i frammenti relativi alle opere da lui dedicate a questi temi sono eccessivamente brevi e le dottrine appaiono di non facile ricostruzione.

LA TEORIA DELLA CONOSCENZA SECONDO DEMOCRITO livello ontologico (ciò che è)

corpi composti di atomi

èidola (immagini) emessi dai corpi

organi di senso

livello epistemologico (ciò che conosciamo)

SENSAZIONI percezione qualitativa: odori, sapori, colori e così via

RAGIONE percezione quantitativa: forma e grandezza degli atomi

qualità secondarie: soggettive e non misurabili

qualità primarie: misurabili e oggettive

FILOSOFI A CONFRONTO

Democrito accenna probabilmente alla distinzione tra natura e legge, spiegando che le differenze nel linguaggio e nei costumi tra i diversi popoli si giustificano in virtù del loro carattere convenzionale (è questo un motivo destinato ad assumere una rilevanza centrale nell’ambito della riflessione della sofistica).

Nel campo della morale Democrito stabilisce il fine dell’uomo nel conseguimento della tranquillità dell’animo, ossia in una sorta di controllo e misurazione delle passioni (va tenuto presente che per lui anche l’anima è composta di atomi, sia pure molto sottili). FILOSOFI A CONFRONTO

Con Democrito si misurarono sia Platone, nel Timeo, sia Aristotele, nella Fisica e nel Cielo, a conferma dell’importanza di questo autore che, grazie all’epicureismo, influenzerà enormemente tutto il pensiero antico e non solo.

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PER SINTETIZZARE • In che modo Empedocle, Anassagora e Democrito sono influenzati dall’eleatismo? In che cosa invece sembrano distaccarsene?

PER RIFLETTERE • Se tu fossi un allievo di Democrito quale ruolo assegneresti alla Provvidenza divina nella determinazione dei vari fenomeni fisici?

I PRESOCRATICI: TABELLA RIASSUNTIVA FILOSOFI

TALETE

TESI • l’acqua è principio (archè) di tutte le cose, nel senso che si accompagna spesso alla presenza della vita • ricerca i principi universali della realtà attraverso generalizzazioni dal noto all’ignoto (ragionamento analogico)

ANASSIMANDRO

• tutto nasce dall’“illimitato”, magma originario indistinto dove tutto è destinato a tornare (àpeiron)

ANASSIMENE

• tutto si produce dalla condensazione e rarefazione dell’aria, elemento originario da cui derivano gli altri (il fuoco per rarefazione, l’acqua, la terra e le pietre per condensazione)

ERACLITO

PITAGORICI

PARMENIDE

• l’essenza delle cose è il perpetuo divenire e la coincidenza degli opposti • la legge cosmica dell’eterno divenire è colta dal lògos, il pensiero razionale • la realtà è costituita da numeri e rapporti numerici • teoria della metempsicosi: immortalità e trasmigrazione delle anime • l’essenza delle cose è l’essere, principio eterno, ingenerato, immutabile e unitario senza il quale niente può esistere • è conoscibile solo ciò che è eterno e immutabile: ciò che appare mutevole e molteplice è falso

ZENONE

• la dialettica come metodo confutatorio: affermare che A è vero significa dimostrare che non-A è falso, o che da esso discendono conseguenze assurde = dimostrazione indiretta per assurdo o argome ntazione attraverso paradossi

MELISSO

l’essere, illimitato, infinito, ingenerato e incorruttibile, è il cosmo: nulla si genera dal nulla

EMPEDOCLE

• origine di tutte le cose sono quattro elementi fondamentali, aria, acqua, terra e fuoco, dalla cui aggregazione (Amicizia) e disgregazione (Contesa) cicliche tutto si forma • non esiste generazione e corruzione ma solo trasformazione

ANASSAGORA

DEMOCRITO

• i semi di tutte le cose si trovano in un magma originario, dal quale si separano per riaggregarsi in base al principio della somiglianza: separazione e riaggregazione sono avviate da un motore, l’Intelletto, composto di semi puri • gli atomi sono enti della materia piccolissimi e impercepibili, ingenerati, indivisibili ed eterni, che si aggregano muovendosi nel vuoto e che, quando si disgregano, generano altre cose • vi sono due tipi di conoscenza: quella sensoriale e quella intellettiva ed entrambe si producono in modo materiale attraverso il distacco dagli oggetti di sottili pellicole di atomi (èidola)

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SOMMARIO 1

CHI SONO I PRESOCRATICI?

Grecia, tra il VII e il VI secolo a.C. nasce una nuova forma di pensiero, legata alla tradizione sapienziale ma nello stesso tempo innovatrice. Questo movimento rappresenta le radici della nascita della filosofia in senso stretto, che avviene con Socrate e con Platone; per tale ragione gli esponenti di queste nuove forme di pensiero sono convenzionalmente detti “presocratici”. Abbiamo molte difficoltà a ricostruire il loro pensiero poiché delle loro opere ci sono pervenuti soltanto frammenti e testimonianze indirette. 2

LA SCUOLA DI MILETO

Le prime tracce del pensiero filosofico si trovano a Mileto, nella Ionia (attuale Turchia), dove si inizia a indagare la natura, la phy` sis. Per questa ragione Aristotele definisce i pensatori ionici “fisiologi”: essi ricercano i principi in grado di spiegare l’origine e lo sviluppo dei fenomeni naturali. Il primo tra questi è Talete, che individua il principio, ovvero l’archè, di tutte le cose nell’acqua. Seguono Anassimandro, che indica come origine il principio dell’“illimitato”, l’àpeiron, e Anassimene, che identifica tale principio con l’aria. 3

ERACLITO: IL FILOSOFO OSCURO

A Efeso, vive Eraclito, chiamato l’oscuro per la sua scelta di esprimersi attraverso brevi ed enigmatici aforismi. Il suo pensiero ha un taglio decisamente aristocratico: egli contrappone la figura solitaria del saggio, che è “sveglio”, cioè capace di conoscere la realtà nella sua dimensione più profonda e autentica, alla moltitudine degli uomini, i “dormienti”, che invece si basano solo sulle apparenze. Il saggio è in grado infatti di riconoscere l’armonia insita nel continuo divenire della realtà (espresso dalla formula pànta rèi), prodotto dall’incessante contrasto tra opposti. Il lògos (discorso, legge) è infatti la radice ultima delle cose che solo il saggio, ossia il vero filosofo, riesce a cogliere. Il lògos eracliteo, sul piano fisico, trova la propria immagine nel fuoco, in cui vita e morte si compenetrano incessantemente. 4

PITAGORA E IL PITAGORISMO

1-2 A Samo, un’isola della Ionia, nasce Pitagora, fondatore della scuola che da lui prende il nome a Crotone, in Magna Grecia. La cerchia pitagorica, una sorta di setta iniziatica, seguiva uno stile di vita rigidamente regolato dagli insegnamenti del maestro e svolgeva un’intensa attività politica. La dottrina pitagorica ha due fondamentali nuclei tematici: la concezione dell’anima immortale (di derivazione orfica), sottoposta al ciclo delle reincarnazioni, e che dunque necessita di un cammino di purificazione per la sua liberazione definitiva, e la teoria del numero, rappresentato geometricamente mediante entità fisiche concrete, ma concepito come principio sommo della realtà. Questo secondo aspetto è probabilmente frutto dell’elaborazione interna dei discepoli che avevano accesso ai misteri, i cosiddetti matematici (coloro che conoscevano la verità), mentre dalla condivisione di tali verità venivano esclusi gli acusmatici (semplici uditori). 5

PARMENIDE E L’ELEATISMO

1-2 Un’altra corrente presocratica è l’eleatismo, anticipato da Senofane, autore noto principalmente per la sua critica alla tradizionale concezione antropomorfica degli dèi. Il vero iniziatore è però Parmenide, le cui dottrine costituiscono, secondo Platone e Aristotele, il più autentico inizio della filosofia. La difficoltà del pensiero parmenideo consiste nel linguaggio sapienziale attraverso il quale viene espressa una concezione di straordinaria potenza e fortuna nella storia della filosofia: l’unica realtà è l’essere, che è identico a se stesso, eterno, unitario, immobile, ingenerato (caratteristiche, queste, dette “segnali” dell’essere); ciò che invece possiede qualità opposte (molteplicità, movimento, generazione) rientra nel non essere. Il non essere è, secondo Parmenide, impensabile e non conoscibile, perché fa cadere in contraddizione chiunque provi ad accostarlo.

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Difendendo le tesi di Parmenide, il discepolo Zenone elabora argomentazioni dialettiche che dimostrano l’impossibilità del movimento (celebre è quella di Achille e la tartaruga), del molteplice, e in generale del divenire.

4

Melisso di Samo, ultimo rappresentante della tradizione eleatica, identifica l’essere parmenideo con il cosmo, cui conferisce i caratteri già noti di immutabilità e di unitarietà: in esso non si dà generazione vera e propria, poiché nulla si genera dal nulla (nihil ex nihilo).

6

EMPEDOCLE, ANASSAGORA E DEMOCRITO

1 Gli autori successivi, Empedocle, Anassagora e Democrito, tornano agli interessi naturalistici, ma la loro ricerca è condizionata dai due divieti eleatici: il movimento non si può né dire né pensare; la generazione dal nulla è inaccettabile. Empedocle postula l’esistenza di quattro radici, o elementi (aria, acqua, terra e fuoco), che, mescolandosi o separandosi, sono all’origine della realtà nella sua apparente mutevolezza. Tali radici sono però eterne (in esse confluiscono i caratteri dell’essere parmenideo) e su di esse agiscono due forze cosmiche, Amicizia e Contesa, che operano i processi di aggregazione e disgregazione, producendo l’eterno ciclo del cosmo. La dottrina delle quattro radici è anche alla base di una teoria della conoscenza che avrà amplissima eco nei secoli successivi, sintetizzabile nell’espressione «il simile conosce il simile». Vicino ai pitagorici, Empedocle abbraccia la concezione della trasmigrazione delle anime, prevedendo anch’egli un cammino di purificazione in vista della liberazione del nucleo immortale dell’umano. 2 Anassagora formula una concezione della realtà adeguandosi anch’egli al divieto parmenideo: esiste un numero infinito di semi, originari ed eterni, che mescolandosi tra di loro danno origine alle cose: tutti sono presenti in tutto. Al di sopra di questi principi fisici egli pone un Intelletto separato che dà impulso e ordine al magma costituito dai semi, strutturando il cosmo. 3 L’ultima grande filosofia presocratica è l’atomismo, riconducibile a Leucippo e a Democrito: la realtà è secondo Democrito composta da infiniti piccoli corpi immodificabili e indivisibili, gli atomi (cui spettano i caratteri dell’essere parmenideo), diversi per forma, posizione e ordine. Aggregandosi in virtù dell’azione di vortici nel vuoto, essi producono la realtà differenziata. L’ordine del cosmo è dunque meccanico e necessitato, privo di ogni finalità. La teoria atomistica comprende anche una spiegazione della percezione, fondata sulle immagini di atomi (èidola), che colpiscono gli organi di senso: la conoscenza prodotta è opinione, mentre la verità si ottiene per mezzo dell’intervento dell’intelletto, che riconosce la costituzione atomica delle cose.

LESSICO

A

Anima. Traduzione del greco psychè, “anima” deriva dal latino anima (dal greco ànemos, “vento”), che significa “respiro, soffio vitale”. Indica quel principio della vita che in alcune religioni antiche (orfica, egiziana, babilonese) è distinto dal corpo e contrapposto a esso. Riprendendo tale contrapposizione, i pitagorici acuiscono il conflitto tra anima e corpo, proponendo un modello di vita radicale, volto alla purificazione, cioè al rigore dei costumi e al rifiuto delle esigenze della corporeità. Tale modello è funzionale alla liberazione definitiva dell’anima dal corpo, altrimenti costretto a reincarnarsi in esseri viventi inferiori, in base alla dottrina da loro condivisa della trasmigrazione delle anime (metempsicosi). Antropomorfismo. Dal greco ànthropos (“uomo”) e morphè (“forma”), significa “che ha una forma umana”. Indica la tendenza dell’uomo a pensare altre realtà (la natura, la divinità, le forze fisiche) modellandole su se stesso e attribuendo loro la propria condotta. Archè. Termine greco che significa “principio, origine”, e che può essere assunto sia in senso temporale (come

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principio od origine di un processo), sia in senso ontologico (ciò che viene prima per importanza, o valore). Secondo Aristotele, la ricerca dell’archè è il punto di partenza della riflessione dei presocratici. Atomo. Dal greco a- (prefisso che indica privazione) e il tema di tèmnein, “tagliare”, significa “ciò che non può essere tagliato, diviso” e indica le particelle elementari, i principi di Leucippo e Democrito posti alla base della realtà fisica. Gli atomi sono distinti per forma, direzione e ordine; la loro natura è eterna, dal momento che sono ingenerati e incorruttibili, mentre il divenire del cosmo è spiegato dagli atomisti mediante il riferimento ai processi di aggregazione e disgregazione che avvengono nel vuoto.

D

Dialettica. Dal greco dialèghesthai, “discutere, argomentare”. Con questo termine si indica l’arte della discussione e del confronto che, secondo Aristotele, nasce con il metodo argomentativo di Zenone di Elea. Questo metodo è incentrato sulla confutazione, ossia sulla contestazione della validità delle tesi assunte dagli avversari del suo maestro Parmenide: la suddetta confutazione viene effettuata mediante i cosiddetti “paradossi”.

Divenire. Con questo termine si indica il flusso ininterrotto che avvertiamo come costitutivo della realtà che ci circonda. In contrapposizione a tale inarrestabile flusso, concepito come mera apparenza (Eraclito) o come qualcosa di impensabile e inconoscibile (Parmenide), viene solitamente identificato un principio immutabile, che solo il vero filosofo può cogliere e riconoscere come ultimo fondamento della realtà (per Eraclito il lògos, per Parmenide l’essere).

E

Essere / Non essere. In Parmenide l’essere è il principio identico a sé, unico, unitario e immutabile del reale. Questo viene contrapposto al non essere, che è impensabile e inconoscibile perché ogni tentativo di pensiero o conoscenza di esso (“questa cosa non è”) ci conduce ad affermare qualcosa (“questa cosa”) e contemporaneamente a negarla (“non è”). Da ciò scaturisce il celebre divieto di dire o pensare l’essere, divieto che sarà difeso con argomentazioni dialettiche da Zenone, e che sarà al centro della riflessione fisico-cosmologica di Melisso di Samo. A tale divieto si atterranno anche i naturalisti successivi Empedocle, Anassagora e Democrito.

F

Fisiologi / Phy`sis. I physiòlogoi sono coloro che studiano la phy`sis, cioè la natura. Il termine è utilizzato da Aristotele per riferirsi ai pensatori ionici, gli interessi dei quali riguardano la natura nel senso più ampio del termine. La parola phy`sis comporta infatti un riferimento all’insieme dei processi di nascita (il verbo phy`o, da cui deriva il sostantivo phy`sis, significa infatti “nascere, generarsi”) e in generale di movimento delle cose.

M

Mescolanza / Separazione. Opposizione che nella teoria di Empedocle indica i due momenti di aggregazione e di disgregazione delle quattro radici (aria, acqua, terra e fuoco); tale opposizione è funzionale alla spiegazione del mutamento e della differenziazione del reale.

N

Nous. Termine greco che significa in origine “intuizione, comprensione immediata”, e viene poi a indicare ciò che è usualmente tradotto con il termine “intelletto”, “pensiero”. Anassagora designa con nous l’Intelletto ordinatore che agisce sul magma primordiale dei semi e sovrintende all’ordine dei fenomeni.

P

Paradosso. Termine greco formato da parà (“contro”) e dòxa (“opinione”) ossia “ciò che va contro l’opinione”. Zenone costruisce argomentazioni che inizialmente assumono le tesi degli avversari come vere, per poi ricondurle, tramite ragionamenti, ad esiti paradossali, ovvero assurdi. In questo modo egli intende mostrare l’erroneità delle tesi assunte dai critici di Parmenide, che sono invece comunemente accettate dalla maggioranza. Tra i paradossi più noti si ricorda quello di Achille “piè veloce” e della tartaruga, in base al quale se in una corsa immaginaria tra i due la tartaruga.

Presocratici. Definizione storiografica e culturale con cui si indicano i filosofi che precedono Socrate, non tanto dal punto di vista cronologico (alcuni sono a lui contemporanei), quanto per la loro riflessione che si colloca prima della “rivoluzione socratica”, a sua volta sostanzialmente all’origine delle dottrine di Platone, il primo filosofo della tradizione occidentale.

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QUESTIONARIO 1

CHI SONO I PRESOCRATICI? Quali sono gli autori detti “presocratici”? Qual è il motivo di questa denominazione? (max 4 righe)

2

LA SCUOLA DI MILETO Quali sono le caratteristiche comuni e quali le differenze tra i filosofi della scuola di Mileto? (max 6 righe)

3

L’ÀPEIRON DI ANASSIMANDRO Che cos’è l’àpeiron di Anassimandro? (max 2 righe)

4

LÒGOS E DIVENIRE Che tipo di relazione intercorre tra lògos e divenire nel pensiero di Eraclito? (max 4 righe)

5

UN FILOSOFO OSCURO Attraverso quale forma letteraria Eraclito esprime il suo pensiero? Per quali motivi sceglie tale forma? (max 3 righe)

6

LA CONCEZIONE PITAGORICA DELL’ANIMA Qual è la concezione pitagorica dell’anima? In che modo essa orienta l’etica, cioè la riflessione sul comportamento e sull’agire umano? (max 6 righe)

7

L’IMPORTANZA DEL NUMERO Che cosa intendono i pitagorici affermando che il numero è l’origine di tutte le cose? Quali caratteristiche attribuiscono ai numeri? (max 10 righe)

8

L’ESSERE E LA VERITÀ Illustra le due vie dell’essere e del non essere secondo Parmenide. (max 5 righe)

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ACHILLE E LA TARTARUGA Spiega il paradosso di Achille e la tartaruga illustrato da Zenone esponendo poi le conseguenze relative al problema del movimento. (max 10 righe)

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IL NATURALISMO DI EMPEDOCLE Quali sono i tratti eleatici e quali quelli naturalistici della concezione del mondo naturale di Empedocle? (max 10 righe)

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LA TEORIA DEI SEMI DI ANASSAGORA Qual è la differenza tra gli elementi di Empedocle e i semi di Anassagora? (max 4 righe)

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L’ATOMISMO DI DEMOCRITO Secondo Democrito come ha origine il movimento degli atomi? (max 3 righe)

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

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Il lògos US

I due frammenti qui riportati costituivano quasi certamente l’inizio dell’opera Sulla natura di Eraclito, una raccolta di aforismi che inaugura una tradizione di pensiero destinata a trovare espressione anche in Pitagora, Parmenide ed Empedocle. Fondata sull’opposizione tra una sapienza quasi divinizzata e accessibile solo a pochi uomini (o a uno solo) e la condizione di ignoranza e inconsapevolezza tipica degli uomini comuni, questa tradizione fa appello a un linguaggio misterioso ed evocativo. Già in queste poche righe sembra in un certo senso sintetizzato il nucleo del messaggio di questo oscuro e affascinante pensatore.

I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1969, B frammenti, 1, pp. 194-195.

Di questo logos1 che è sempre2 gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo logos3, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo. […] Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza.

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Stile, Lessico

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Stile

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già nell’esordio Eraclito vuole trasmettere l’idea di un sapere inaccessibile agli uomini comuni

l’uso della similitudine è frequente nei frammenti eraclitei

1. Lògos in greco ha una molteplicità di significati, ma i principali sono ragione, discorso. 2. Allusione all’eternità del mondo.

3. L’intero corso degli eventi sembra regolato da una sorta di ragione universale, che consiste nell’unità degli opposti; la sua espres-

sione fisica è il fuoco, che rappresenta il perpetuo fluire della realtà.

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L’A N T O L O G I A

Retorica

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura In questi frammenti Eraclito sottolinea la condizione di ignoranza e inconsapevolezza nella quale si trova a vivere la maggior parte degli uomini, equiparati numerose volte a “dormienti”; dall’altra egli riconosce che il principio universale che regola tutti gli accadimenti, cioè il lògos, è una realtà in qualche modo comune, nel senso che ogni uomo, se fa appello alla ragione universale che si trova in lui, è in grado di comprenderne il significato. Il fatto è che gli uomini sono portati a seguire percorsi individuali, rinchiudendosi in mondi privati, e allontantanandosi così dalla ragione universale, che dovrebbe essere comune a tutti. Stile Non c’è dubbio che la scelta stilistica di Eraclito, che ricorreva ad aforismi scritti in una prosa complessa e retoricamente elaborata, non può considerarsi neutra-

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le. Egli mirava, da una parte, a trasmettere l’idea che il suo sapere fosse profondo e quasi “divino”, e dall’altra a selezionare il lettore “autentico”, ossia quello in grado di comprendere il significato di parole a prima vista così oscure. Lessico Il termine chiave della riflessione eraclitea è lògos. Si tratta di una nozione complessa, dotata di numerosi significati, e che proprio in virtù di questa ambiguità semantica fu scelta dall’autore come parola-chiave del suo pensiero. Lògos indica infatti la natura profonda delle cose, le quali presentano una componente intimamente contraddittoria (vita-morte, quiete-movimento, gioventù-vecchiaia, giorno-notte); esso indica poi la legge dell’accadere degli eventi, ma anche il discorso rivelatore che esprime questa legge e perfino la ragione che è in grado di comprenderla.

L’età antica

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da Parmenide, Poema sulla natura, trad. a cura di G. Cerri, Bur, Milano 1999, Fr. 7/8, pp. 151-155 con alcuni significativi aggiustamenti.

Mai sarà dimostrato che è ciò che non è : tieni lontana la mente da questa via di ricerca, vezzo di molto sapere non ti induca su questa strada1, a mettere in opera occhio accecato, orecchio rombante, e lingua, valuta invece razionalmente la sfida polemica da me proferita. Allora di via ne resta soltanto una, ossia che è. Su questa ci sono numerosi segnali: che l’Essere è ingenerato e senza morte, tutto intero, di un unico genere, immobile, e non è mai stato incompiuto o lo sarà, perché è tutto insieme ora, uno, continuo2. Quale nascita infatti potrai cercare di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia interamente o non sia per nulla. Forza di prova neppure consente che nasca dal nulla altro accanto ad esso; per cui non lascia Giustizia né che nasca né che muoia, né lo scioglie dai ceppi, invece lo lega3; su questo e in relazione a questo è la scelta: è oppure non è. Secondo Destino è deciso che l’una strada occorre lasciare, impensabile e anonima, infatti vera strada non è, che invece l’altra è ed è autentica. Come poi potrebbe sussistere l’Essere? Come rinascere? Poni che sia nato, allora non è, sebbene sia sul punto di essere. Tolta è così di mezzo nascita e morte oscura. Mai potresti distinguerlo in parti, è tutto omogeneo; non più qui, meno lì, per cui non potrebbe consistere, è invece all’opposto tutto pieno di essere. È dunque tutto continuo: si stringe l’Essere all’Essere. Immobile allora nei ceppi delle sue grandi catene, è privo d’inizio, di fine, dato che nascita e morte sono

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Stile uso dell’esametro omerico, per conferire arcaica solennità al discorso

Obiettivo polemico

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contro il sapere enciclopedico di alcuni poeti e filosofi

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Retorica tramite domande retoriche Parmenide sollecita l’adesione del lettore alle sue tesi sconcertanti

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1. La polemica è rivolta contro il modello epistemologico dell’indagine naturalistica, che tendeva ad accumulare osservazioni nei più disparati campi (astronomia, geometria, fisica, biologia).

2. L’elenco dei “segnali”, cioè delle caratteristiche dell’Essere, scandisce il passaggio dalla dimensione logica (con l’opposizione tra le due vie di ricerca) a quella propriamente fisico-ontologica (dell’Essere).

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

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L’A N T O L O G I A

L’irruzione nell’ambito dell’indagine naturalistica greca del poema di Parmenide Sulla natura rappresenta senza dubbio un evento dirompente, destinato a modificare in maniera radicale i metodi e le forme della filosofia. L’opera coniuga due motivi apparentemente alternativi: il richiamo alla divinità, dalla quale l’autore attinge un sapere eccezionale e inaccessibile alla maggioranza degli uomini, e l’andamento puramente dimostrativo, caratterizzato dal ricorso a una logica stringente e ineluttabile. La tradizione ha conservato solo una ventina di frammenti, alcuni dei quali molto brevi, addirittura di una sola riga. La prima parte del poema, che si chiude proprio con i due frammenti 7 e 8, qui riportati, è consacrata alla descrizione della “via della verità”, cioè dell’Essere. Infatti, in termini generali, il poema di Parmenide può essere interpratato come un grandioso tentativo di bandire il non essere dal discorso intorno alla realtà. Nella seconda parte, invece, Parmenide tenta di fornire una qualche giustificazione alle opinioni dei mortali, cioè della maggior parte degli uomini, il cui sapere è solo apparente e in realtà contraddittorio.

FOC

Stile, Lessico

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US

n

La via della verità: l’essere

3. La Giustizia è qui un’entità mitica, una sorta di personificazione della legge naturale che vincola i processi fisico-cosmologici.

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Stile quella della sfera è l’immagine che per la sua perfetta compiutezza rappresenta meglio i caratteri dell’essere

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respinte lontano, certezza verace le esclude. Resta identico sempre in un luogo, giace in se stesso, dunque rimane lì fermo: potente necessità lo tiene rinchiuso nelle catene del ceppo, che tutto lo chiude all’intorno4. Non è dunque lecito che l’Essere sia incompiuto5: di ogni esigenza è privo, altrimenti mancherebbe di tutto. […] Dunque se c’è un limite estremo, è circoscritto da tutte le parti, simile a curva di sfera perfetta, ovunque di identico peso dal centro: perché è necessario che esso non sia maggiore o minore in questo o quel punto. Non v’ha parte il non essere, fine sarebbe questo del suo equilibrio, neppure l’Essere in modo che sia d’Essere qui più che lì, perché tutto è inviolabile: ovunque uguale a se stesso, ugualmente sta nei confini6.

4. Con l’accenno ai ceppi che costringono l’Essere, Parmenide sembra rievocare la condizione di Prometeo, l’eroe incatenato da Zeus. Per Prometeo, esattamente come per l’Essere, non è possibile sciogliere que-

sto eterno e ineluttabile legame. 5. L’espressione di una legge fisica-ontologica in termini di divieto religioso è motivo tipico del pensiero arcaico. 6. È possibile che qui sia sottesa anche

l’idea della sfericità dell’universo, che in quegli anni si stava imponendo come una delle tesi principali dell’indagine cosmologica e astronomica.

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L’A N T O L O G I A

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IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in quattro parti. Il presupposto che sta alle spalle dell’intera sequenza argomentativa è rappresentato dal celebre assunto formulato nel fr. 2, dove venivano distinte due “vie di ricerca”: la prima, quella della verità, stabiliva che l’Essere è ed è impossibile che non sia, mentre la seconda, quella dell’opinione dei mortali, si riferiva al non essere e andava dunque abbandonata, dal momento che “mai potresti conoscere ciò che non è, né potresti parlarne”. Nei primi versi del frammento 7 (righe 1-4) il lettore viene esortato ad allontanarsi dalla via del non essere e ad accogliere la sfida polemica proposta dalla filosofia di Parmenide. 1. Che tipo di sfida sta lanciando Parmenide? Esamina attentamente il verso, per capire qual è la facoltà cui fa egli appello contro il sapere fondato sui sensi proprio dei mortali. ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Secondo Parmenide asserire che “il non essere è” comporta una contraddizione intollerabile; il non essere pertanto va soppresso in ogni sua forma. Risultano allora illegittimi tutti quegli attributi o quegli stati che implicano un riferimento al non essere: la nascita (cioè il non essere ancora) e la morte (il non essere più); la composizione in parti (il non essere ciascuna parte le altre); il movimento e il divenire (che comportano cambiamento e dunque non essere più e non essere ancora); infine la stessa pluralità (che è pur sempre una forma di non essere, dato che ogni singola cosa non è un’altra). Rimane dunque un’unica via, quella dell’Essere, il quale ha certe caratteristiche (che escludono ogni possibile riferimento al non essere) (righe 5-8). 2. Quali sono queste caratteristiche? Quale termine usa Parmenide per indicarle? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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L’età antica

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Nella terza parte (righe 8-30), il discorso di Parmenide sulle caratteristiche (i “segnali”) dell’Essere presenta un andamento fortemente consequenziale. Proviamo a riassumerlo. L’Essere è privo di nascita e di morte, ossia atemporale, immobile, vale a dire non soggetto a cambiamento né sul piano spaziale né su quello logico, assolutamente coeso, privo di parti, uno e continuo. La presenza di differenziazioni all’interno dell’Essere comporterebbe infatti l’ammissione di una qualche forma di non essere, perché ci sarebbero “parti” qualitativamente o quantitativamente differenziate, e dunque dotate di meno essere di altre. I segnali dell’Essere vengono pertanto ricavati attraverso un ragionamento rigoroso, che esclude ogni possibile riferimento al non essere (es. se l’Essere fosse generato, allora prima non sarebbe stato, dunque si ricadrebbe nel non essere! Ne consegue che l’Essere deve essere ingenerato). 3. Prova ora tu a riprodurre il ragionamento di Parmenide, deducendo un altro dei segnali dell’Essere, come per esempio la sua immobilità o la sua unità. ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nell’ultima parte del brano (righe 31-36) Parmenide ricorre a un’immagine per aiutare il lettore a cogliere il senso profondo del suo ragionamento, condotto in precedenza secondo un rigido schema deduttivo. Perché la sfera è più adeguata di qualunque altra figura, o immagine, a rappresentare l’Essere parmenideo? 4 Prova a rileggere la parte quarta e a individuare le corrispondenze tra l’Essere e la sfera. ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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L’A N T O L O G I A

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Stile Il testo di Parmenide unisce un linguaggio fortemente evocativo a un’argomentazione che abbiamo visto essere rigidamente consequenziale, almeno nella parte che in cui egli dimostra i “segnali” dell’essere a partire dalla non ammissibilità del non essere. Come definiresti questo procedimento, in cui si assume una proposizione e ne se ricavano, attraverso passaggi logici controllati, le necessarie conseguenze?

Lessico Nel testo compare un termine specifico “segnali” (riga 6). Perché secondo te Parmenide impiega questo termine? Prova a riflettere sull’inizio del frammento, per cogliere il senso complessivo dell’invito che Parmenide ci rivolge, che non consiste in un accettare passivamente la sua tesi, ma nel comprenderla e percorrerla fino in fondo, fino alle conseguenze estreme (che sono anche le uniche accettabili). ........................................................................................................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

1. I presocratici: gli inizi della filosofia

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2. Socrate e i sofisti:

la filosofia della città 594-593 a.C. Riforma costituzionale di Solone ad Atene.

561 a.C. Pisistrato tiranno di Atene.

508 a.C. Riforma costituzionale di Clistene ad Atene.

491-490 a.C. Prima guerra greco-persiana.

481-478 a.C. Seconda guerra greco-persiana.

EVENTI EVENTI FILOSOFICI

485 a.C. Protagora nasce ad Abdera.

480 ca. a.C. Gorgia nasce a Lentini.

470 ca. a.C. Socrate nasce ad Atene.

Socrate e i sofisti

• Sono più importanti i beni esteriori o quelli interiori (condurre una vita buona)? • Che cos’è l’anima? Che rapporto intrattiene con il corpo? In che modo possiamo coltivarla e averne cura? • Chi detiene la sapienza nella città? LE DOMANDE

• In che modo è possibile dare inizio a un’autentica ricerca della verità e della sapienza? È un percorso da effettuare in solitudine, oppure ci si può giovare del dialogo? • Quanto è importante fare tabula rasa delle conoscenze false o parziali prima di dedicarsi alla ricerca? • In che modo si può giungere a stabilire se un’azione è giusta o ingiusta?

I TESTI

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RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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➥ Tutorial: Gorgia, Encomio di Elena ➥ Biblioteca: G.B. Kerferd, I sofisti, innovatori in un’epoca di transizione

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Ancora meno mi crederete se vi dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo. (Platone, Apologia di Socrate)

460 a.C. Ad Atene sale al potere Pericle.

459 ca. a.C. Trasimaco nasce a Calcedonia.

449 a.C. Pace di Callia.

431 a.C. Inizio della guerra del Peloponneso.

421 a.C. Pace di Nicia.

455 a.C. 443 ca. a.C. 436 ca. a.C. Ippia nasce Nasce Crizia in Elide. Antistene. nasce ad Atene.

435 ca. a.C. Nasce Aristippo di Cirene.

404 a.C. Fine della guerra del Peloponneso.

420 a.C. Protagora muore in un naufragio.

403 a.C. Caduta del governo dei Trenta tiranni.

413 ca. a.C. Nasce Diogene di Sinope.

362 a.C. Battaglia di Mantinea.

399 a.C. Socrate è messo a morte dal governo democratico ateniese.

336-323 a.C. Regno di Alessandro Magno.

366 ca. a.C. 355 a.C. 323 ca. a.C. Muoiono Muore Muore Antistene e Senofonte. Diogene. Aristippo di Cirene.

Socrate e i sofisti

• Ci possiamo fidare delle apparenze e delle giustificazioni che difendono il nostro punto di vista? • Perché gli uomini non perseguono il bene? Quanto può contribuire l’esercizio della conoscenza all’ottenimento del bene e della virtù? • Per essere felici dobbiamo far prevalere il nostro interesse personale su quello degli altri oppure dobbiamo seguire un modello di vita virtuoso?

LE DOMANDE

• E che cosa è la virtù? È unica o molteplice? • Che cosa significa condurre una “vita filosofica”? In che cosa consiste?

T1 Platone, L’uomo misura di tutte le cose T2 Platone, L’arte maieutica

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

✔ Cittadinanza e costituzione: La pena ✔ Fare filosofia: Bene/buono

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I TESTI

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1. Atene: il luogo della filosofia

I sofisti e Atene

La supremazia di Atene

Clistene e le riforme

Pericle e la svolta democratica

Imperialismo e democrazia: una contraddizione apparente

L’esigenza del consenso politico

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Per comprendere lo sviluppo del pensiero filosofico nel periodo compreso tra la seconda metà del V e la prima parte del IV secolo a.C. è necessario avere presenti le linee essenziali del quadro storico in cui questa riflessione avviene. Innanzitutto bisogna conoscere il luogo in cui essa si svolge, perché la filosofia di questo periodo è fortemente collegata alla città in cui si sviluppa: questa città naturalmente è Atene. È vero che alcuni dei principali protagonisti di questa fase del pensiero filosofico non sono ateniesi (come per esempio i due maggiori sofisti, Protagora e Gorgia), ma è altrettanto vero che essi soggiornano nella capitale dell’Attica, dove ottengono fama e prestigio (soprattutto Protagora, perché Gorgia, come vedremo, vive ad Atene per poco tempo). Ancora più importante però è il fatto che i sofisti formino una vera generazione di intellettuali, allievi e adepti, la cui attività politica e culturale si svolge unicamente ad Atene. Risulta dunque fondamentale fornire una breve descrizione del contesto storico in cui sorge il pensiero sofistico e, di riflesso, quello socratico e platonico. Nel corso del V secolo a.C. Atene acquista progressivamente una posizione di primo piano nell’ambito delle città-stato greche, le pòleis; il ruolo che essa riveste nelle vittoriose guerre contro i persiani (490-478 a.C.), infatti, le consente di ottenere una posizione di supremazia, che nei decenni successivi è rafforzata grazie a una spregiudicata politica di stampo, diremmo noi oggi, “imperialista”. Mediante un accorto sistema di alleanze, nelle quali Atene esercita una certa egemonia, riusce ad assoggettare, dal punto di vista sia economico sia politico, altre città e regioni. Imperialismo ed egemonia rappresentano però solo una faccia della medaglia: per un lungo periodo del V secolo a.C. la politica interna ateniese vive una vera e propria svolta democratica. In effetti già a partire dalla fine del VI secolo a.C., con le riforme di Clistene, la città crea una serie di istituti di tipo tendenzialmente democratico: particolarmente significativa è, per esempio, l’introduzione della Boulè, un’assemblea generale formata, per elezione democratica, da cinquecento membri; ancora più importante è l’estensione dei diritti politici a tutti i cittadini (naturalmente maschi, maggiorenni e liberi); inoltre le cariche pubbliche, ossia le magistrature, possono essere affidate, per sorteggio o per votazione, a chiunque; dunque, un minimo di competenza politica era richiesto a tutti. Per questo lo Stato prevede un piccolo indennizzo (lontano antenato delle nostre indennità di rappresentanza) per quei cittadini che partecipano alla vita pubblica e che sono quindi costretti a tralasciare momentaneamente i propri affari. Le riforme di Clistene – giunte al termine di un lungo processo di democratizzazione della vita cittadina iniziato quasi un secolo prima con Solone – garantiscono, per così dire, il quadro istituzionale della trasformazione in senso democratico di Atene; anche se la vera e propria svolta avviene con Pericle, al potere quasi ininterrottamente dal 460 al 429 a.C. Guida del partito democratico, egli governa Atene esercitando un potere pressoché assoluto nell’interesse dei ceti subalterni (artigiani e i lavoratori in generale), relegando ai margini l’aristocrazia tradizionale. Atene attua dunque una politica imperialista negli affari esteri e democratica in quelli interni. Può considerarsi una contraddizione? Solo apparentemente, perché in realtà è proprio l’atteggiamento aggressivo in politica estera che rende possibile mantenere all’interno una relativa pace sociale: i proventi economici che derivano dalla politica egemonica nei confronti di molte regioni della Grecia (sia continentale sia colonizzata) vengono impiegati per pagare le indennità e per finanziare iniziative collegate alla vita democratica (per esempio la costruzione di imponenti opere pubbliche, come il Partenone, l’allestimento di grandi feste e di spettacoli teatrali). L’elemento più significativo della democrazia dal punto di vista politico-culturale è però rappresentato dal sorgere di una nuova esigenza: quella di acquisire il consenso. In effetti, in un regime democratico la legittimazione al potere non viene più garantita dall’appartenenza a una determinata famiglia particolarmente prestigiosa e influente, ma deve essere

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conquistata ottenendo il consenso riguardo alle proprie idee e alle proprie proposte. Più precisamente: bisogna essere in grado di persuadere gli altri cittadini nelle assemblee e nei tribunali e bisogna acquisire una competenza che renda capaci di condurre nel migliore dei modi la vita pubblica e quella privata.

ATENE NEL V SECOLO A.C.: L’ETÀ DELLA DEMOCRAZIA poltica estera imperialista = Atene esercita l'egemonia su altre città e regioni

politica interna democratica = Clistene, ma soprattutto Pericle (460-429 a.C.)

esigenza di guadagnare il consenso politico per ottenere e conservare il potere

affermazione dei SOFISTI, “maestri del sapere”, che insegnano ai giovani facoltosi l’ARTE DELLA PERSUASIONE

2. I sofisti L’arte della persuasione

Professionisti della cultura

Non ci dovrebbe risultare difficile comprendere che in un simile quadro – del tutto nuovo per la vita ateniese – cominciano ad assumere un ruolo sempre più rilevante coloro che sono in grado di insegnare ai cittadini, dietro compenso, l’arte di parlare nelle assemblee e nei tribunali, ossia l’arte di persuadere. Costoro non sono altro che i famosi “sofisti”, i quali si presentano come gli unici in grado di insegnare l’arte politica, ossia l’insieme delle competenze – soprattutto linguistiche, ma anche comportamentali – che consentono a un cittadino di svolgere nel migliore dei modi la propria attività all’interno della società. I sofisti si vantano di sapere “rendere forte un discorso debole”: ritengono di saper argomentare in modo così efficace da trasformare una tesi inizialmente poco appetibile in una tesi attraente, inducendo la maggioranza dei cittadini riuniti in assemblea o dei giudici di un tribunale a preferirla. Ma chi sono i sofisti? Per prima cosa dobbiamo precisare che il termine “sofista” significa “maestro di sapere” e, dunque, “sapiente”. Si tratta di veri e propri professionisti della cultura, i quali prestano i propri servigi in cambio di denaro; generalmente i loro clienti sono i rampolli delle famiglie più facoltose. Inizialmente i sofisti più popolari non sono ateniesi, come i già menzionati Protagora e Gorgia; ma ben presto nella città attica si forma una vera e propria generazione di sofisti: Crizia, Antifonte e altri ancora, come Ippia che, pur non essendo ateniese di nascita, ad Atene acquista fama e prestigio. Dalle descrizioni contenute all’interno dei dialoghi di Platone è piuttosto evidente che i sofisti si possano paragonare a delle vere e proprie personalità mediatiche, e che la loro presenza domini la vita culturale ateniese per alcuni decenni. Sarebbe sbagliato tuttavia considerare la sofistica una scuola o un indirizzo filosofico unitario e compatto; infatti si tratta per lo più di un movimento, di un indirizzo generale, che i singoli autori sviluppano poi in maniera autonoma, alimentando divergenze anche signi-

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Dall’indagine della natura all’indagine dell’uomo

L’utilità pratica della riflessione filosofica

ficative su questioni importanti. Detto ciò, si possono comunque individuare alcuni denominatori comuni, che sembrano applicabili a quasi tutti i sofisti. Una diffusa tesi storiografica, in buona parte rispondente al vero, attribuisce al movimento sofistico il merito (o la colpa) di avere trasferito l’indagine filosofica dalla natura alla città e all’uomo. A differenza dei fisiologi ionici e dei naturalisti post-eleatici, che si interessano principalmente della natura (ossia dei processi che vi accadono e degli elementi che la compongono), i sofisti rivolgono la propria attenzione alla natura umana, alle condizioni e ai modi di vita all’interno della società, oltre che al linguaggio, strumento principale della comunicazione umana. Come abbiamo già detto, quest’idea è in larga parte vera, anche se alcuni sofisti orientano la propria indagine filosofica anche sul mondo e sulla sua struttura (o mancanza di struttura). Un altro motivo che sembra accomunare molti sofisti consiste nella tendenza a collocare il fine della riflessione nell’utilità pratica (soprattutto sul piano politico e giudiziario) piuttosto che nella conoscenza teoretica. FILOSOFI A CONFRONTO

Quella sofistica è, come vedremo, una vera e propria rivoluzione culturale (prima ancora che filosofica), che toccherà anche due filosofi che vi si opporranno più tenacemente, ossia Socrate e soprattutto Platone.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE E FILOSOFICA DEI SOFISTI SOFISTICA

ambito

strumento

scopo

trasferimento dell’indagine filosofica dalla natura all’uomo e all’ambiente sociale in cui vive (città)

centralità dello studio del linguaggio e delle sue potenzialità come strumento di intervento sul reale

il fine della riflessione filosofica non è solo conoscitivo, ma soprattutto pratico

2.1 Protagora: il relativismo L’uomo “misura di tutte le cose”

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Non esistono verità assolute

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Protagora di Abdera (485-420 circa a.C.) è senz’altro il sofista più celebrato e popolare, che ha ricoperto un ruolo significativo non solo in ambito culturale, ma anche nella scena politica; lo stesso Pericle gli affida importanti incarichi, tra cui quello di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi. Platone lo presenta come un vero e proprio maître à penser (letteralmente “maestro di pensiero”, cioè colui che riesce a dare un orientamento culturale all’ambiente in cui vive): non vi è dubbio infatti che egli abbia influenzato la cultura ateniese esercitando per ben quarant’anni la professione di sofista. Nella sua opera più importante, intitolata Verità, egli esprime già nella celebre apertura la centralità dell’essere umano: «Di tutte le cose è misura l’uomo [...]». Come altri filosofi dell’epoca però, Protagora viene accusato di empietà per le sue teorie agnostiche riguardo alla divinità, le sue opere vengono bruciate pubblicamente ed egli viene condannato all’esilio. Ma in che senso l’uomo sarebbe misura di tutte le cose? E poi, di quali cose esattamente? Bisogna ammettere che non è così semplice rispondere in modo univoco a questi due interrogativi (del resto gli stessi antichi forniscono soluzioni diverse).

L’età antica

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Relativismo conoscitivo e relativismo etico

Secondo l’interpretazione più comune e diffusa, la sentenza intende in primo luogo negare l’esistenza di verità e di norme assolute; le cose sono solo come e nel momento in cui appaiono agli uomini: non esistono un bene assoluto, un giusto assoluto, ma un bene e un giusto per gli uomini, e dunque un bene e un giusto che si modificano nella misura in cui cambiano i soggetti che li giudicano. È possibile che Protagora intenda sostenere una sorta di “sensismo universale”, in base al quale le cose sono così come appaiono di volta in volta alla percezione dei singoli individui. Tuttavia le parole del sofista nascondono quasi certamente un preciso significato politico: l’uomo, che rappresenta la misura di tutte le cose, non è solo il singolo individuo, ma anche una determinata comunità. Di conseguenza, a questo livello, Protagora sostiene che ciò che appare giusto e buono per una certa comunità (ossia per i cittadini di una città), costituisce anche la norma per la suddetta comunità: il sistema dei valori vigente ad Atene, quindi, riconosciuto come valido per i suoi cittadini, non è lo stesso in vigore a Sparta e al quale si uniformano gli spartani. Il relativismo di Protagora, come si vede, non concerne solo la dimensione conoscitiva (le cose appaiono diverse ai diversi soggetti che conoscono), ma anche, e forse soprattutto, il piano etico e morale (i valori mutano in relazione all’individuo e alla comunità cui egli appartiene). Dal momento che nelle questioni umane non si può acquisire una conoscenza certa e assoluta, bisogna accontentarsi del giudizio che appare di volta in volta migliore. Il compito del sofista consiste allora, secondo Protagora, nell’educare gli uomini a scegliere l’opzione che via via apparirà migliore, ossia più conveniente. FILOSOFI A CONFRONTO

Protagora raccontato da Platone: il Teeteto

In un famoso dialogo di Platone, il Teeteto, viene messo in scena un discorso di Protagora. Naturalmente è lo stesso Platone che ci mostra l’atteggiamento del famoso sofista, di cui intende mostrare l’efficacia e la forza argomentativa prima di passare alla critica delle sue posizioni, che egli non condivide affatto.

IL RELATIVISMO DI PROTAGORA «DI TUTTE LE COSE È MISURA L'UOMO»

non esistono verità o norme assolute indipendenti dall’uomo

relativismo conoscitivo = sensismo universale: essere = apparire

Dal relativismo al pragmatismo

Nel testo Platone espone dunque nel modo più convincente possibile la tesi del relativismo e di conseguenza del pragmatismo: secondo Protagora, la convinzione che non esistano verità assolute trova la sua conferma già al livello della percezione. L’esempio riportato da Platone è famoso: una persona ammalata può avere alterazioni nel gusto, e ritenere amaro tutto ciò che assaggia; mentre chi è sano avverte, gustando lo stesso cibo assaggiato dal malato, una sensazione di dolcezza. In questo caso non si può dire che la

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relativismo etico-politico = "buono" e "giusto" sono relativi a una certa comunità

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percezione del primo sia corretta e la seconda sia errata: in effetti sono entrambe “vere” nella misura in cui il soggetto prova queste esperienze (cioè ne è la “misura”). Ma poiché lo stato di salute è migliore (cioè praticamente preferibile) di quello della malattia, il medico cercherà di riportare le sensazioni del malato a quelle del sano. Così, le decisioni politiche e morali su ciò che è giusto e buono dipendono dalle valutazioni dei singoli e da quelle collettive delle città: anche in questo caso, non si può dire che una di queste decisioni sia più “vera” di un’altra (per esempio: i greci seppelliscono i loro morti, altri popoli invece bruciano i cadaveri). Il compito del buon consigliere, cioè del sofista, è quello di convincere individui e comunità a prendere non le decisioni più vere (cosa che sarebbe impossibile) ma quelle più utili e più efficaci ai fini della prosperità personale e collettiva. Una simile concezione filosofica prenderà il nome di “pragmatismo”. Il dono della virtù politica

Protagora raccontato da Platone: il Protagora Il mito di Prometeo ed Epimeteo

2.1.2 La natura democratica della città Protagora sembra sostenere la tesi secondo cui tutti gli uomini sono in grado di partecipare all’attività politica, in quanto tutti possiedono la virtù politica; come si può facilmente immaginare, questa posizione è stata considerata da alcuni come una sorta di principio di legittimazione della democrazia ateniese. Anche in questo caso, noi conosciamo questa tesi attraverso l’opera di Platone: egli dedica infatti a Protagora un celebre dialogo, in cui mette in scena il grande sofista che pronuncia un magnifico discorso, in cui viene esposto il mito di Prometeo ed Epimeteo. Nell’omonimo dialogo platonico Protagora racconta che Zeus aveva affidato a Epimeteo (che significa “poco preveggente”) il compito di distribuire agli esseri viventi gli strumenti naturali con i quali avrebbero affrontato la vita. Con scarsa accortezza costui aveva esaurito tutti i doni (forza, velocità e il folto mantello per proteggersi dal freddo) distribuendole tra gli animali, e non aveva più nessuna capacità da attribuire all’uomo. Così era giunto a soccorrerlo Prometeo (colui che “vede prima” e che dunque è previdente), il quale aveva assegnato agli uomini l’abilità tecnica, che nel mito è rappresentata del dono del fuoco. Anche così, tuttavia, gli uomini non erano in grado di sopravvivere poiché non erano in grado di associarsi tra di loro formando delle comunità, e tendevano anzi a entrare in conflitto gli uni con gli altri. Interviene infine Zeus, che distribuisce a tutti gli uomini (dunque non solo ad alcuni) la giustizia e il rispetto reciproco, che costituiscono, secondo Protagora, la virtù politica. FILOSOFI A CONFRONTO

Quest’ultima, dunque, non appartiene a un gruppo circoscritto, ma a tutta l’umanità, o meglio a tutti i cittadini di una pòlis. Tutti sono perciò in possesso di quella minima competenza politica che li rende in grado di prendere parte agli affari pubblici. L’educazione impartita dal sofista consisterà in una sorta di affinamento di questa disponibilità alla vita politica che tutti gli uomini possiedono. Questa concezione della distribuzione collettiva della virtù politica troverà la sua più aspra critica nella Repubblica di Platone.

Le testimonianze dirette: le opere di Protagora

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Sebbene la figura di Protagora sia magistralmente delineata nei dialoghi platonici, che fanno sì che la sua affascinante presentazione sia ormai passata alla storia, bisogna tuttavia ricordare che ci sono giunte anche testimonianze dirette di Protagora, tramite le sue opere. In una di queste, dal titolo Antilogie, per confermare la sua tesi circa la natura relativa della verità, egli dimostra che per ogni questione o problema sia possibile fornire due lògoi, ossia due ragionamenti, in contrasto fra loro. Questo atteggiamento scettico deve caratterizzare anche l’opera Sugli dèi, nella quale è contenuta una coraggiosa professione di agnosticismo. Afferma infatti Protagora: «Intorno agli dèi non posso sapere nulla, né che esistono né che non esistono, e neppure di che natura sono, opponendosi a tale conoscenza molte cose: in particolare l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita».

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PER SINTETIZZARE • Che tipo di atteggiamento assume Protagora rispetto alla verità? E riguardo alle divinità?

PER RIFLETTERE • Immagina di essere un allievo di Protagora. In che modo ti porresti di fronte al fatto che molti Stati del mondo ancora oggi non hanno una forma istituzionale democratica? E inoltre, riterresti che tale condizione sia causata dall’incapacità politica dei cittadini di quei Paesi? Sempre rimanendo fedeli all’insegnamento di Protagora, quale potrebbe esserne la ragione?

2.2 Gorgia: la potenza della parola L’opera principale e le tre tesi

Prima tesi: nulla esiste

Seconda tesi: se anche ci fosse qualcosa, sarebbe inconoscibile

Terza tesi: se anche qualcosa esistesse e fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile

Tra i sofisti solo Gorgia di Lentini (480 ca-370 ca a.C.) può competere con Protagora per profondità filosofica e per influenza sulla tradizione successiva. Nato a Lentini, presso Siracusa, egli è stato, secondo alcune fonti, un discepolo di Empedocle. Dopo aver abbandonato gli studi naturalistici, Gorgia viaggia per tutta la Grecia e soggiorna ad Atene, dove diventa uno dei principali sofisti. Nella sua lunga attività, scrive molte opere e redige numerosi manuali di retorica diffusi negli ambenti filosofici e letterari del tempo. Lo scritto Sul non essere o sulla natura, la sua opera più importante, manifesta già nel titolo l’intento che lo animava; si tratta di un testo polemico indirizzato contro l’eleatismo, e in particolare contro Melisso, il cui scritto, ricordiamo, si intitola Sulla natura o sull’essere. In quest’opera Gorgia sostiene tre tesi: 1. nulla è (nulla esiste); 2. se anche ci fosse qualcosa, esso sarebbe inconoscibile; 3. se anche fosse conoscibile, risulterebbe comunque incomunicabile. Proviamo ad analizzare distintamente le tre tesi sopra indicate. Per Gorgia nulla esiste. È probabile che egli intenda sostenere non tanto che una cosa ci sia o non ci sia in assoluto, ma che non possiamo attribuire un predicato determinato a nessuna cosa, non possiamo cioè dire che essa possiede una certa qualità piuttosto che un’altra. Proviamo a comprendere la natura della sua argomentazione con un esempio. Ammettiamo che ci sia qualcosa: esso sarebbe o generato oppure ingenerato. Se fosse generato, dovrebbe essersi generato dal nulla; ma, come sappiamo proprio da Melisso e da Parmenide, nulla si può generare dal nulla; tuttavia non può neppure risultare ingenerato, perché, se lo fosse, non avrebbe principio e dunque sarebbe infinito; e ciò che è infinito, sia nello spazio sia nel tempo, non può essere in nessun luogo. Dunque, conclude Gorgia, nulla è. Ammettiamo ora che qualcosa esista, possieda cioè una qualità determinata: questa cosa secondo Gorgia non sarebbe conoscibile. Egli ritiene infatti che il nostro pensiero risulti del tutto inadeguato a cogliere l’esistenza di qualcosa che si trova al di fuori di esso. Questo sarebbe dimostrato, tra l’altro, dal fatto che molte nostre rappresentazioni mentali (per esempio cocchi che corrono sul mare, oppure chimere, e così via) non corrispondono a qualcosa di effettivamente esistente: essere e pensiero appartengono per Gorgia a due universi in qualche modo incomunicabili. Ammettiamo ora che qualcosa esista e sia conoscibile: secondo Gorgia non vi sarebbe la possibilità di comunicarla, per la semplice ragione che il linguaggio rappresenta un dominio estraneo alla realtà. Per comunicare, infatti, ci serviamo di nomi, che sono secondo Gorgia irriducibili alle cose. Esiste insomma, agli occhi di Gorgia, uno scarto ineliminabile che separa l’ordine della realtà e l’ordine del discorso intorno a essa. FILOSOFI A CONFRONTO

Siamo, come si sarà capito, agli antipodi dell’eleatismo, per il quale l’essere è, è perfettamente conoscibile dal pensiero e limpidamente comunicabile attraverso la parola.

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Non è chiaro quale forza dimostrativa Gorgia attribuisca effettivamente a questi suoi argomenti e che genere di filosofia (relativistica, scettica oppure nichilista) miri a costruire tramite essi: è tuttavia molto probabile che egli li consideri persuasivi almeno quanto quelli opposti degli eleati (finalizzati a dimostrare la necessità dell’essere, la sua assoluta conoscibilità e il legame inscindibile tra esso e il linguaggio).

GORGIA CONTRO L’ELEATISMO SUL NON ESSERE O SULLA NATURA: REPLICA DI GORGIA A MELISSO (e in generale all’eleatismo)

nulla esiste

anche ammettendo che qualcosa esista, sarebbe inconoscibile

anche ammettendo che qualcosa esista e sia conoscibile, sarebbe incomunicabile

se qualcosa esiste deve possedere una data qualità

la mente non è infatti adeguata a cogliere l’esistenza di qualcosa di esterno a essa

il linguaggio non è infatti adeguato a esprimere la realtà delle cose

esempio: il mondo è generato/ingenerato

se generato: sarebbe generato dal nulla, ma niente si genera dal nulla

se ingenerato: non avrebbe principio, dunque sarebbe infinito: ma l'infinito non è contenuto in nessun luogo

il mondo non è generato

il mondo è generato

impossibile

IL MONDO NON ESISTE = NULLA ESISTE

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Utilizzando procedure di tipo deduttivo, molto simili a quelle di cui si è servito per esempio Melisso, Gorgia si propone di dimostrare la possibilità di pervenire a risultati del tutto opposti, che siano comunque ugualmente persuasivi. Linguaggio e realtà

2.2.1 La funzione persuasiva del linguaggio Per il grande sofista siciliano, tuttavia, il fatto

L’Encomio di Elena

che il linguaggio sia eterogeneo e incommensurabile rispetto alla realtà (o a ciò che presumiamo essere tale) non costituisce un elemento di debolezza, ma rappresenta in un certo senso la ragione della sua straordinaria forza. Questo perché, secondo Gorgia, il linguaggio viene svincolato dalla realtà: non è più costretto a riprodurla, ma può muoversi liberamente e costruire qualcosa di simile a degli “universi paralleli”. In particolare la parola, ormai svincolata dall’obbligo di sostenere la realtà, può rivolgersi all’anima di chi ascolta, allo scopo di persuaderla, di commuoverla, di calmarla, di infonderle coraggio e naturalmente anche di spaventarla. In un simile contesto si comprende facilmente come la retorica, ossia l’arte della parola, acquisisca una rilevanza assoluta, rappresentando infine la disciplina più importante. Per Gorgia la parola è il “gran dominatore”, «che con un piccolissimo corpo sa compiere cose divinissime». Dalla parola e dalla capacità di usarla dipendono infatti i destini dell’uomo (e in qualche modo anche la possibilità di raggiungere la felicità). Uno straordinario esempio di capacità di usare la parola viene fornito da Gorgia nel suo splendido Encomio di Elena. Costei, come è noto, era considerata la responsabile della guerra di Troia e dunque dei terribili lutti arrecati ai greci e ai loro avversari troiani. Gorgia mostra con il suo encomio di poter smontare questa accusa, dimostrandone l’infondatezza: Elena, sostiene Gorgia, non è responsabile di ciò che ha fatto, perché la causa del suo comportamento, ossia l’abbandono del tetto coniugale al seguito dell’amante Paride, risiede: 1. nel disegno del caso; oppure 2. nel volere degli dei; oppure 3. nel decreto della necessità; oppure ancora 4. nella violenza di chi l’ha rapita; oppure 5. nella potenza irresistibile di Eros (ossia del richiamo amoroso); oppure infine 6. nelle capacità persuasive del linguaggio. In tutti questi casi Elena non è affatto responsabile e quindi non può essere accusata. L’Encomio di Elena rappresenta uno degli esempi più suggestivi dell’abilità retorica dei sofisti e della loro straordinaria capacità di mettere in discussione ciò che si considera vero e affidabile in virtù di una tradizione consolidata e apparentemente inattaccabile.

PER SINTETIZZARE • Che tipo di atteggiamento ha Gorgia nei confronti dell’eleatismo?

Oltre Protagora e Gorgia: gli sviluppi della sofistica

La separazione tra natura e legge

2.3 La sofistica: l’illuminismo greco Protagora e Gorgia sono i massimi rappresentanti del movimento sofistico, ma non gli unici, in quanto la ricchezza e l’originalità di questa tendenza culturale non si esauriscono con loro. Figure come Prodico di Ceo, Ippia di Elide, Trasimaco di Calcedonia, Crizia, Antifonte e altre ancora, segnano profondamente la vita culturale e politica di Atene nella seconda metà del V secolo a.C. Del resto, come si è detto, la sofistica non è una vera e propria scuola filosofica, bensì un movimento complesso al cui interno convivono, accanto a importanti denominatori comuni, anche divergenze altrettanto significative. Molti sofisti sviluppano la loro riflessione intorno a uno dei motivi teorici più importanti, ossia la separazione tra “natura” (phy`sis) e “legge” (nòmos) e l’irriducibilità della legge, stabilita dagli uomini, a un fatto puramente naturale. Questa concezione trova concreti elementi in suo favore in seguito ai contatti dei greci con altre popolazioni, avvenuti durante

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Antifonte: le norme giuridiche si oppongono alle naturali tendenze umane

La sopraffazione, principio guida degli individui

le guerre con i persiani. Questi contatti, infatti, rendono evidenti le differenze non solo delle leggi (che dunque non sono affatto naturali), ma addirittura degli stessi codici morali, cioè i valori, degli uomini: ciò che appare giusto per un popolo, è considerato profondamente ingiusto (e perciò condannato) da un altro. In un’operetta dal titolo Discorsi doppi si afferma: «Se si ordinasse a tutti gli uomini di radunare in uno stesso luogo tutte le cose che essi ritengono vergognose, e una volta fatto ciò si ordinasse poi a ciascuno di prendere dal mucchio ciò che ritiene bello, non ne resterebbe neppure una, ma tutti si dividerebbero tutto». Non sarebbe possibile formulare una dichiarazione più esplicita di “relativismo culturale”; la sofistica infatti sostituisce l’oggettivismo etico di origine arcaica (per cui i valori sono dati nella natura) con il relativismo, che investe tutti gli aspetti (bene-male, giusto-ingiusto, vero-falso, bello-brutto). La riflessione sul rapporto tra natura e legge assume in alcuni sofisti un’importanza davvero centrale. Antifonte, per esempio, oppone in forma radicale i due termini, sostenendo che la legge prescriva una serie di norme che sono sostanzialmente contrarie alla tendenza naturale degli uomini. Nato nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene, dove vive e insegna durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), egli ricopre infatti un ruolo piuttosto rilevante nello sviluppo delle teorie sulla natura umana e sulla vita in società. Gli uomini, secondo Antifonte, sarebbero portati per natura a ottenere la massima soddisfazione e il benessere personale, anche a scapito degli altri individui. I sistemi giuridici, invece, frenano questa tendenza naturale, costringendo gli uomini a non danneggiarsi a vicenda. Di conseguenza ciascuno di noi si attiene a queste norme non perché le reputa naturali (e dunque in sintonia con il proprio intimo sentire), ma solo perché teme di subire le conseguenze che deriverebbero dalla loro trasgressione. Se si potesse commettere ingiustizia – pare perfino sostenere Antifonte – senza doverne pagare le conseguenze (per esempio rendendosi invisibili), lo si farebbe senza alcuna esitazione. Questo avverrebbe perché il principio naturale che guida le azioni umane è quello della sopraffazione. Tuttavia, temendo di finire vittime della sopraffazione altrui, gli uomini decidono di stipulare una sorta di “patto di non aggressione”, che viene garantito dalle norme giuridiche. Esse sono dunque stabilite dagli stessi uomini, i quali, temendo gli effetti che si produrrebbero nel caso di un perenne conflitto di tutti contro tutti (che è la condizione naturale), decidono di stipulare delle regole finalizzate alla loro conservazione. FILOSOFI A CONFRONTO

Il “patto sociale” viene dunque percepito come una violenza imposta alla natura. Non è sicuro che Antifonte sviluppi interamente il ragionamento che abbiamo riportato; non ci sono però dubbi che a partire dalla distinzione, da lui accettata e approfondita, tra natura e legge, tesi come quelle appena menzionate circolassero negli ambienti culturali della sofistica e siano state riprese e confutate da Platone.

Callicle: critica radicale della democrazia

Callicle raccontato da Platone nel Gorgia

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2.3.1 L’estremizzazione del dibattito su natura e legge Le posizioni sopra riportate vengono ulteriormente radicalizzate da alcuni sofisti. Si arriva, per esempio, a sostenere che le leggi non sono solamente una dolorosa necessità alla quale gli uomini ricorrono per scongiurare i rischi di un perenne conflitto generalizzato, ma perfino che esse rappresentino una vera e propria anomalia della natura, dal momento che consentono a coloro che sono naturalmente più deboli di imporsi sugli individui più forti. Platone attribuisce una tesi di questo genere al misterioso Callicle in uno dei più celebri dialoghi dedicati alla sofistica, ossia il Gorgia. L’esistenza storica di Callicle non è sicura, ma egli certamente costituisce, nell’immagine costruita dal grande filosofo, il portavoce del radicalismo sofistico. Secondo Callicle (o chi per lui) le leggi non sono altro che ipocriti stratagemmi orchestrati dai più deboli allo scopo di sottomettere i più forti, impedendo loro

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La “giustizia di natura” di Callicle

di dare libero sfogo alla superiorità naturale di cui sono dotati. La norma naturale, che le leggi in modo ipocrita riescono a modificare, prevede invece il dominio dei più forti, ossia di coloro che sono in grado di imporre il loro istinto di sopraffazione. Il Callicle di Platone pronuncia un discorso che al riguardo non lascia spazio a equivoci: «Questo è il criterio di giustizia: chi vale di più comanda a chi vale di meno, e possiede più cose. (….) Ti dico, per Zeus, che chi agisce così agisce secondo la natura della giustizia, ossia secondo la legge della natura, anche se forse non secondo la legge convenzionale degli uomini». Callicle sostiene infatti, sempre nel racconto di Platone, che gli uomini siano ammaestrati fin da piccoli a trattenere la loro aggressività in nome del bene comune, ma se nascesse un uomo di energia e forza superiore, capace di imporsi su tutti noi in virtù delle sue doti naturali, allora «brillerebbe la giustizia di natura». FILOSOFI A CONFRONTO

La prima e la seconda sofistica

Un attacco più radicale alle tesi democratiche non sarebbe di certo possibile. La sofistica, che è nata in un contesto sostanzialmente vicino alle posizioni democratiche (basti pensare a Protagora), presenta nella sua seconda generazione tesi di chiara impronta aristocratica, a ulteriore dimostrazione della natura variegata e non monolitica di questo straordinario movimento di pensiero.

Trasimaco: la giustizia come l’utile del più forte

Sulla linea teorica cui fanno riferimento le posizioni appena ricostruite, ma operando un’ulteriore radicalizzazione, si muove Trasimaco di Calcedonia. Nato nel 459 a.C. a Calcedonia, in Bitinia (Asia Minore), egli è un abile oratore ed esercita la sua attività ad Atene, durante la guerra del Peloponneso. Trasimaco ci è particolarmente noto grazie alla presentazione di Platone nel I libro della Repubblica, in cui viene presentato come un sofista di primissimo livello, grande avversario di Socrate. Secondo Trasimaco la giustizia consiste effettivamente nell’osservanza delle leggi; giusto, dunque, è fare ciò che nei vari Stati le leggi prescrivono, anche se, osserva Trasimaco, questo è solo il primo passo verso la comprensione della natura della giustizia. Infatti, a stabilire di volta in volta che cosa sia giusto, ossia a formulare le norme giuridiche, è sempre il più forte (il più ricco, il più potente o semplicemente la maggioranza). Dunque, chi detie-

Sandro Botticelli, La Calunnia, 1497. Firenze, Museo degli Uffizi.

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Crizia: la religione come strumento del potere

Ippia: l’universalismo conoscitivo

ne il potere (in quanto è il più forte) decide che cosa sia giusto e lo fa nel proprio esclusivo interesse. Si comprende così la celebre tesi di Trasimaco secondo la quale la giustizia non è altro che «l’utile del più forte». Di conseguenza, se in una determinata città i più forti sono gli aristocratici, costoro stabiliranno delle leggi a proprio vantaggio, ossia delle leggi di carattere aristocratico; ma la medesima situazione si determina in un regime democratico, dove la maggioranza, che detiene il potere, emanerà normative di stampo democratico al solo scopo di conservare e rafforzare il proprio potere. Il diritto dunque, secondo Trasimaco, si fonda in realtà sulla forza, ossia sul potere e le leggi non possiedono un carattere neutrale rispetto ai conflitti: questa convinzione è un’ingenuità intollerabile, oltre che una profonda falsità; la legge infatti non regola i conflitti, ma si limita a codificare il risultato di rapporti di forza reali. Nel contesto di radicalismo teorico e politico che stiamo prendendo in esame si inserisce anche la riflessione dell’ateniese Crizia (455-403 a.C.), che esercita la sua abilità retorica nell’ambito della politica. Egli riveste un ruolo rilevante negli avvenimenti politici dell’Atene degli ultimi anni del V secolo a.C.: membro influente del partito oligarchico, è uno dei Trenta tiranni che assumono il potere nel 404 a.C. e instaurano un governo violento, che sconvolge Platone, suo nipote, segnandone le scelte successive. Nel dramma Sisifo Crizia sostiene che la stessa religione, ossia la credenza nell’esistenza degli dèi e nelle punizioni che attendono i malvagi dopo la morte, non sia altro che uno strumento di cui il potere si dota allo scopo di preservarsi: chi governa si serve della paura che la religione trasmette agli uomini per indurre i governati al rispetto delle leggi (stipulate forse nel solo interesse dei governanti medesimi). Agli occhi del sofista, dunque, la religione costituisce una sorta di instrumentum regni (“strumento del potere assoluto”), finalizzato a estendere il potere coercitivo delle leggi anche dove esse rischiano di risultare impotenti (ossia nelle coscienze e nell’oscurità dei comportamenti sottratti alla visibilità pubblica). Di questa grande stagione di intellettuali fa parte anche Ippia che, secondo Platone, assume la fisionomia di una vera celebrità. Nato nel 443 a.C. circa in Elide, nel Peloponneso, viaggia ad Atene, Sparta, Olimpia e in Sicilia per tenere delle conferenze e per impegni politici, in qualità di ambasciatore. Brillante e colto, è il prototipo dell’universalismo conoscitivo, dal momento che pretende di essere esperto in tutti i campi del sapere (si vanta, tra l’altro, di essere in grado di fabbricarsi da solo i propri vestiti e calzari). La sua abilità oratoria dipende soprattutto dal possesso della capacità di imparare a memoria interi discorsi (a lui si deve la formulazione di una vera e propria mnemotecnica).

GLI SVILUPPI DELLA SOFISTICA ANTIFONTE

CALLICLE

TRASIMACO

CRIZIA

IPPIA

1. il principio guida naturale degli uomini è quello della sopraffazione reciproca

1. la giustizia di natura è quella per cui si impone il più forte

1. la giustizia è l’utile del più forte

1. la religione è uno strumento nelle mani del potere costituito

1. l’uomo può costruire un sapere interdisciplinare, che lo rende autonomo

2. le leggi sono osservate solo per timore delle conseguenze

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2. le leggi sono addirittura un "pervertimento" della naturale tendenza umana

2. la legge non regola i conflitti, ma si limita a codificarli, cioè a dare le disposizioni a favore degli interessi del potere costituito

2. essa permette al potere di raggiungere la sfera della coscienza, che non può essere raggiunta dal codice normativo

2. può avvantaggiarsi nell’accumulo delle conoscenze di tecniche mnemoniche specifiche

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I sofisti e l’“illuminismo greco”

A proposito del movimento sofistico si è parlato di “illuminismo greco”. In effetti, molti sofisti mettono in discussione convinzioni radicate, nel campo della realtà (soprattutto Gorgia), della conoscenza (ancora Gorgia e Protagora), della politica e in particolare della natura del potere (Antifonte, Callicle, Trasimaco), della religione (Protagora e Crizia), imponendo in tutti questi ambiti i diritti della ragione. Si tratta, molto spesso, di una ragione spregiudicata, che arriva a mettere in discussione, e perfino a sconvolgere, schemi teorici e comportamentali profondamente radicati nella tradizione. La fase successiva della riflessione filosofica si pone l’obiettivo di ricostruire un orizzonte teorico e politico consistente, in grado di affrontare la grandiosa sfida lanciata dai sofisti. Esattamente a questo compito di rifondazione si accinsero Socrate e soprattutto Platone.

PER SINTETIZZARE • In che modo i sofisti di “seconda generazione” affrontano il tema del rapporto tra legge e natura?

3. Socrate e la filosofia Il “caso Socrate”

Socrate è probabilmente il filosofo più famoso dell’intera storia del pensiero occidentale. La sua vita, il suo insegnamento e soprattutto la sua morte ne fanno una sorta di profeta della filosofia. Nato ad Atene nel 470 a.C., fin da giovane s’interessa di filosofia avvicinandosi al pensiero di Anassagora e intrattenendo alcuni rapporti con Parmenide, Zenone e con i pitagorici. Ben presto però egli orienta la propria ricerca sui temi della sofistica, come l’uomo e il linguaggio, tanto che alcuni lo considerano un sofista; in realtà Socrate critica duramente il loro insegnamento e dal 430 a.C. inizia una propria “missione educativa” nei confronti dei propri concittadini, che ha luogo in modo informale (per strada, nelle case, nell’agorà, ossia nella piazza delle assemblee cittadine) e gratuito, a differenza dell’insegnamento sofistico. Nonostante la sua vita esemplare e il suo atteggiamento di cittadino modello, egli entra in conflitto sia con il potere democratico, che lo vede come un possibile avversario, sia con quello oligarchico, opponendosi al regime dei Trenta tiranni. Nel 399 a.C. viene addirittura accusato di aver corrotto i giovani, di non riconoscere le divinità tradizionali e di introdurne di nuove. Il processo politico e l’autodifesa di Socrate, narrati dal suo allievo Platone nell’Apologia, ci mostrano un cittadino-filosofo che, in nome della giustizia e della sottomissione alle leggi del suo Stato, accetta la condanna a morte rifiutando di patteggiare una pena alternativa (come pure sarebbe stato possibile). La sentenza viene eseguita nella primavera dello stesso anno con una bevanda a base di cicuta, che Socrate assume mentre discute con i suoi discepoli sul destino dell’anima. FILOSOFI A CONFRONTO

Socrate ha influenzato pressoché tutte le correnti successive della filosofia antica: i cinici, i cirenaici, i megarici; durante l’ellenismo, gli scettici e gli stessi stoici; e successivamente sia i medioplatonici sia i neoplatonici e perfino i tardi pitagorici sono da considerarsi, per alcuni aspetti, “socratici”.

D’altra parte però non vi è alcuna certezza circa il suo reale pensiero: Socrate infatti non scrive nulla (come Pitagora) e le sue idee vengono interpretate in modi diversi già dai suoi allievi diretti (Platone, Antistene, Senofonte, Euclide di Megara, Aristippo di Cirene). Come se non bastasse, i resoconti più importanti sull’attività e sulla riflessione di Socrate offrono immagini tra loro diverse e a tratti perfino contrastanti: Aristofane, il grande commediogra-

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Una personalità poliedrica

fo, nella sua opera Le Nuvole lo dipinge come un sofista; Platone, al contrario, lo presenta come il loro più tenace e battagliero avversario; Senofonte ne parla come di un cittadino esemplare, sempre rispettoso della morale e dei costumi della pòlis; Aristotele lo vede invece come un filosofo iper-razionalista, sostenitore di tesi spregiudicate e paradossali soprattutto nel campo della morale e dell’etica. Chi ha ragione? Probabilmente tutti. Socrate è tutte queste cose insieme, perché il suo insegnamento presenta effettivamente tratti che possono essere interpretati secondo ognuno degli aspetti sopra citati. FILOSOFI A CONFRONTO

Con i sofisti condivide, per esempio, la convinzione che la riflessione filosofica debba concentrarsi sull’uomo e sulle modalità del vivere in società; ma è anche un avversario dei sofisti perché tenta di superarne il relativismo etico, stabilendo norme universali del pensare e dell’agire; inoltre si oppone tenacemente all’idea, tipicamente sofistica, secondo la quale la competenza politica appartenga a tutti gli individui (egli si oppone così alla tendenza della democrazia ad affidare le cariche pubbliche a chiunque).

La testimonianza platonica

La filosofia come cura dell’anima

L’Apologia di Socrate

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Egli inoltre si dimostra un cittadino modello, disposto ad accettare addirittura la condanna a morte pur di non sottrarsi a una decisione presa dalla sua città; infine, secondo la presentazione che ne fa Aristotele (ma su questo è spesso d’accordo anche Platone, allievo diretto di Socrate), Socrate è portavoce di un certo radicalismo intellettualistico nel campo dell’etica e della morale. Si è osservato che le immagini di Socrate sorte immediatamente dopo la sua morte sono differenti e in parte contrastanti, anche se tutte restituiscono aspetti e motivi effettivamente presenti nella sua attività e nel suo insegnamento. Non c’è dubbio, comunque, che la testimonianza più significativa sia quella contenuta nei dialoghi platonici, soprattutto in quelli giovanili, che infatti vengono definiti “dialoghi socratici”. Essi non restituiscono solo alcuni specifici concetti sostenuti da Socrate, ma anche (e soprattutto) un elemento centrale della sua attività filosofica: la straordinaria freschezza e vivacità del suo modo di intendere la filosofia; la stessa forma del dialogo rende poi nel modo più efficace il modello di insegnamento socratico. Prima di dare avvio all’esposizione del pensiero socratico – almeno laddove esso può essere ricostruito – occorre fare una premessa di ordine generale. Bisogna cioè precisare che l’intero discorso filosofico di Socrate è incentrato intorno a un protagonista ben preciso, un protagonista che era già apparso sulla scena della riflessione greca: si tratta dell’anima, alla quale i pitagorici avevano già assegnato un ruolo centrale. Per Socrate ciò che è veramente proprio dell’uomo, il suo sé, non è il corpo, non sono i beni che egli possiede, bensì l’anima; la filosofia socratica, quindi, assume i contorni di un grande progetto di cura dell’anima.

3.1 Il programma filosofico socratico Nell’Apologia di Socrate Platone riporta i discorsi che il suo maestro avrebbe pronunciato dinanzi ai giudici, per difendersi dalle accuse che gli erano state mosse. Questo scritto è stato spesso considerato come il suo testamento spirituale, ma esso è qualcosa di più: l’Apologia espone una sorta di programma filosofico di Socrate. Egli vi afferma con decisione: «Sono andato ad elargire in privato, individuo per individuo, quello che ritengo essere il massimo beneficio: ho cercato di persuadere ognuno di voi a non curarsi di alcuna delle proprie cose prima che di se stesso, del modo di diventare il più possibile buono e saggio, né delle cose della città prima che della città stessa». In questa affermazione è condensato il senso del programma socratico, che sembra riunificare due importanti tradizioni della riflessione filosofica precedente: quella pitagorica, che assume come centrale la cura per l’anima, e quella sofistica, che ha come suo fulcro la città, dunque il vivere in società.

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FILOSOFI A CONFRONTO

La concezione socratica dell’anima

. Ciascun uomo dovrebbe dunque per prima cosa curarsi della propria anima: su questo aspetto Socrate sembra condividere con i pitagorici sia l’opinione che l’anima costituisca un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo, sia la convinzione che essa sopravviva alla morte del corpo e sia dunque immortale.

Nelle sue ultime ore di vita – raccontate da Platone nel Fedone – Socrate cerca di convincere i propri amici che ciò che l’attende, ossia la morte, non sia in realtà un male, perché non riguarda ciò che egli possiede di più caro e intimo, vale a dire la sua anima. È difficile stabilire se le dimostrazioni dell’immortalità dell’anima che Platone attribuisce al filosofo in questo dialogo spettino effettivamente a lui, e soprattutto se egli le ritenesse davvero delle prove rigorose. Sembra però certo che Socrate attribuisca alla credenza nell’immortalità dell’anima un valore morale, perché tale convinzione si rivela ai suoi occhi un significativo sostegno al comportamento virtuoso. Per questa ragione, anche se non si è assolutamente certi del fatto che l’anima sia immortale, vale la pena correre il rischio di considerarla tale, anzi, è quasi indispensabile in casi come questo essere disposti a questo tipo di “incantamento”.

IL PROGRAMMA FILOSOFICO SOCRATICO TRADIZIONE SOFISTICA

TRADIZIONE PITAGORICA

+ filosofia come cura dell’anima = ricerca della virtù e conoscenza del bene

Socrate: l’incantamento della filosofia

L’oracolo delfico: Socrate è il più sapiente degli uomini

Chi è il più sapiente? Dai politici agli artigiani...

Il modo di fare filosofia di Socrate sembra presentarsi come un grandioso “incantamento” rivolto all’anima degli ascoltatori, che però non deve essere indirizzato agli elementi irrazionali, bensì alla ragione; per Socrate, infatti, l’anima è essenzialmente ragione. La filosofia deve dunque persuadere, incantare, indirizzare l’anima verso la scelta della vita giusta. Nel presentare il proprio percorso filosofico Socrate spiega che il proprio obiettivo, inizialmente, era quello di smentire la celebre sentenza dell’oracolo delfico, secondo il quale lui, Socrate, sarebbe il più sapiente degli uomini. Dal momento che egli ritiene di non sapere nulla, si mette alla ricerca di qualcuno che sia effettivamente sapiente, in modo da potere smentire il verdetto divino. Si rivolge allora ai politici, per rendersi subito conto che costoro si reputano sapienti senza esserlo veramente, perché non possiedono una precisa conoscenza di ciò che è bello e buono. Quindi interroga i poeti per valutare il grado di conoscenza che essi hanno delle cose su cui scrivono; ma anche in questo caso comprende immediatamente che costoro sono addirittura meno adeguati di chiunque altro a spiegare il contenuto delle loro opere, dimostrando così che a guidarli non è la sapienza (sophìa) ma semmai la dote naturale e l’ispirazione. Infine si rivolge agli specialisti delle arti manuali, vale a dire agli artigiani, per rendersi conto che costoro sono sapienti, in quanto possiedono un sapere oggettivo, controllabile ed efficace; tuttavia, essi non possono pretendere di estendere alla morale e alla politica il campo di applicazione delle loro conoscenze, che rimane circoscritto all’oggetto di cui si occupano. La loro è infatti una conoscenza tecnica, che non ha nulla a che fare con la virtù. In ogni caso, nella sua ricerca continua e metodica, Socrate attira su di sé l’ostilità dei propri interlocutori, che non accettano di essere messi in discussione.

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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indagine sull’uomo in rapporto alla pòlis = definizione della giustizia e ruolo del cittadino nello Stato

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La sapienza come “sapere di non sapere”

I limiti dei saperi tradizionali e la ricerca autentica

Al termine di questa indagine Socrate si trova dunque costretto a riconoscere la validità del verdetto divino: egli è davvero il più sapiente degli uomini, ma la sua sapienza consiste essenzialmente nell’ammettere la propria ignoranza, ossia nel “sapere di non sapere”, inteso come punto di partenza di ogni indagine che voglia professarsi autenticamente filosofica. Socrate è ignorante esattamente come lo sono coloro che si proclamano sapienti; la sua sapienza dipende dalla consapevolezza della propria ignoranza. Il risultato della lunga indagine socratica è dunque negativo: i saperi diffusi nella città o non sono per niente saperi (come i presunti saperi dei politici), o sono conoscenze limitate e immediate, prive di consapevolezza (come quelli dei poeti), oppure sono ristretti a un ambito tecnico e non riguardano ciò che l’uomo ha di più proprio, ossia la sua anima (come nel caso degli artigiani). Giunto al termine della sua ricerca, Socrate accetta il verdetto dell’oracolo e lo fa proprio, rinunciando ad acquisire tutti quei falsi saperi, e determinando con questa scelta consapevole il punto di partenza della sua ricerca autentica: «Cosicché mi chiesi, per salvare il senso dell’oracolo, se preferivo rimanere così come ero, senza essere sapiente di quel loro tipo di sapienza ma neppure ignorante della loro ignoranza, o di condividerle con loro entrambe. A me stesso e all’oracolo, risposi che mi conveniva rimanere come ero».

SOCRATE E LE RAGIONI DELL’ORACOLO DELFICO CHI È PIÙ SAPIENTE DI SOCRATE?

i politici credono di sapere, ma ignorano ciò che è bello e buono = sapere puramente apparente

i poeti scrivono in virtù di qualche dote naturale e dell'ispirazione = sapere irriflesso, non consapevole

gli artigiani possiedono un qualche sapere tecnico = sapere circoscritto a un ambito limitato

nessuno è più sapiente di Socrate (Oracolo), perché sa di non sapere

Il sapere di non sapere socratico si configura, dunque, come il presupposto (libero da presupposti) di qualsiasi indagine il cui scopo sia quello di fondare in modo del tutto razionale un comportamento morale, scelta o decisione che sia.

La critica dei falsi saperi

Ironia e maieutica

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3.2 Il metodo filosofico socratico L’intera attività di Socrate sembra configurarsi come una radicale messa in discussione delle pretese di conoscenza avanzate dalle diverse figure intellettuali del tempo. Egli si impegna a dimostrare che il sapere di cui si vantano i suoi interlocutori (sofisti, uomini politici, poeti e artigiani) non è un sapere reale e, per conseguire questo risultato, il filosofo si avvale di tre strumenti: 1. l’ammissione (ironica) del proprio non sapere; 2. la maieutica; 3. la confutazione. Dichiarandosi ignorante, (1) Socrate costringe i suoi interlocutori a mettere in gioco il loro presunto sapere. Essi non possono tirarsi indietro e infatti espongono con grande sicurezza la loro opinione sulla natura dell’oggetto su cui verte di volta in volta la discussione, come la virtù, il

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T2

La confutazione

La ricerca dell’essenza

bene, il coraggio, la giustizia, la conoscenza, e così via. Socrate non si limita però ad ascoltare ciò che costoro hanno da dire, (2) ma li induce a un lavoro di introspezione, attraverso il quale essi estraggono dalla loro anima le opinioni che vi si trovano, e dichiara che, comportandosi in questo modo, egli è simile a una levatrice, che aiuta la partoriente a generare. A questo punto (3) entra in scena la procedura confutatoria, con la quale Socrate dimostra l’inconsistenza di queste opinioni: induce i suoi interlocutori in contraddizione, mettendo in luce di volta in volta i falsi presupposti da cui le loro risposte dipendono, oppure dimostrando il carattere parziale e non universale di queste risposte. Il risultato della confutazione socratica consiste nell’evidenziare la natura solo apparente dei saperi diffusi nella città, e per farlo Socrate si serve di un procedimento molto simile a quello utilizzato da Zenone: in un primo tempo egli accetta la tesi dell’interlocutore, poi ne esamina tutte le implicazioni, e infine la confuta, mettendone in luce l’intima contraddittorietà, oppure l’inaccettabilità delle conclusioni che da essa si possono ricavare (si tratta di una delle possibili versioni del metodo dialettico). Gli interlocutori di Socrate non conoscono veramente ciò che affermano di sapere; essi non sono infatti in grado di fornire una definizione dei concetti sui quali ragionano, o meglio, non fanno altro che presentare pseudo-definizioni del tutto inadeguate. La corretta definizione coglie il “che cosa è” della cosa, ossia la sua essenza: quest’ultima deve possedere il carattere dell’universalità, deve cioè risultare applicabile a tutti i casi particolari. Le varie definizioni proposte dai suoi interlocutori, invece, quando non sono autocontraddittorie, risultano parziali e non generalizzabili. Per esempio, se definisco la giustizia come «la restituzione di ciò che è stato prestato», dovrò riconoscere come giusto ogni atto di riconsegna di oggetti affidatimi, in qualunque situazione; ma immaginiamoci il caso-limite in cui io sia costretto a restituire delle armi a qualcuno che, dopo avermele prestate, è impazzito, e che con esse potrebbe causare dei danni o fare del male a sé o agli altri. Come potrei definire giusto questa restituzione? Il senso del ragionamento è dunque il seguente: se non si conosce esattamente che cosa sia una certa virtù, non si può stabilire se un’azione sia o meno virtuosa. Se non so che cosa è la giustizia, per esempio, come posso pretendere di stabilire se quella determinata azione sia o meno giusta? E ancora, come posso pretendere di insegnarla, come faceva la maggior parte dei sofisti?

IL METODO SOCRATICO AMMISSIONE IRONICA DEL PROPRIO NON SAPERE

l’interlocutore espone le proprie opinioni

MAIEUTICA

l’interlocutore è indotto all’introspezione

CONFUTAZIONE

viene mostrata l’inconsistenza delle opinioni prima sostenute

RICERCA DELL'ESSENZA

tentativo di dare una definizione universale

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Conoscenza delle virtù e comportamento virtuoso

La tesi della virtù come conoscenza

L’intellettualismo etico socratico

La conoscenza del bene implica la sua attuazione

3.3 Il rapporto tra virtù, conoscenza e felicità L’esigenza, da Socrate costantemente manifestata, di conoscere ciò di cui si parla rinvia a un altro dei motivi centrali della sua riflessione. Secondo Socrate il comportamento virtuoso non può prescindere dal sapere: solo se si conosce che cosa è la virtù si possono attuare comportamenti veramente virtuosi, ossia fondati su una piena consapevolezza del proprio agire. Pare dunque che il fondamento di ogni comportamento morale risieda nella conoscenza della virtù corrispondente a questo comportamento: per essere autenticamente coraggiosi, per esempio, occorre conoscere che cosa sia il coraggio, perché ogni virtù è collegata in modo inscindibile alla consapevolezza che il soggetto deve possedere nell’atto di agire. Essere coraggiosi senza saperlo equivale a non esserlo affatto, tanto che Socrate arriva a formulare il paradosso in base al quale è preferibile fare il male volontariamente piuttosto che il bene in modo inconsapevole (appunto in considerazione del fatto che, per lui, chi conosce il bene, è irresistibilmente portato a farlo). Su questo punto però è opportuno soffermarsi brevemente. Sembra che per Socrate la conoscenza della virtù (e dunque del bene) sia di per sé sufficiente a essere virtuosi e buoni. Chi conosce il bene non può non attuarlo; pertanto, chi compie atti non virtuosi, lo fa solo perché non sa che cosa siano la virtù e il bene. Si tratta della controversa tesi secondo la quale “la virtù è conoscenza”. Secondo Socrate la forza di attrazione del bene risulta così forte che è sostanzialmente impossibile sottrarvisi. La ragione per cui si compie il male risiede nell’ignoranza del bene: se un certo individuo si comporta ingiustamente, è perché non conosce che cosa sia la giustizia; se lo sapesse, non potrebbe che attuarla. Questa posizione (secondo cui l’intelligenza, ossia la conoscenza, è sufficiente alla virtù) è nota come “intellettualismo etico socratico” e comporta, come si è detto, una serie di paradossi, divenuti celebri. Uno di questi recita: «Nessuno compie il male volontariamente», che implica appunto la tesi secondo la quale l’errore morale dipenda in ultima analisi da un deficit conoscitivo. Si tratta di posizioni effettivamente sostenute da Socrate nei dialoghi di Platone; esse rinviano, come già anticipato, alla convinzione che il bene, una volta conosciuto razionalmente, può soltanto essere messo in pratica. Per questo, se l’uomo compie il male, lo fa solo per ignoran-

Antonio Canova, Socrate che beve la cicuta, 1787. Milano, Fondazione Cassa di Risparmio delle Province Lombarde.

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za del bene: se un certo individuo sa che per lui x è bene, compie x; se egli mette invece in atto l’azione y, è perché crede erroneamente che per lui y sia un bene. Scegliendo y anziché x, egli reputa erroneamente che y gli procurerà più piaceri di x; in questo modo, un simile individuo è vittima di una sorta di confusione, prodotta in realtà dal fatto che non sa quale sia il vero bene. Si tratta dell’errore tipico in cui incorre, per esempio, l’edonista, ossia colui che ricerca smodatamente il piacere, ritenendo che per lui sia un bene abbuffarsi di cibo senza tenere conto (per ignoranza) dei danni che un simile comportamento è destinato a procurargli. FILOSOFI A CONFRONTO

La critica di Aristotele: il fenomeno dell’incontinenza

La tesi socratica secondo la quale la conoscenza del bene è sufficiente alla virtù gli è valsa l’accusa, mossagli da Aristotele, di avere ignorato il fenomeno dell’incontinenza o debolezza della volontà, secondo il quale, pur conoscendo il bene, spesso gli uomini mettono in atto comportamenti malvagi (o comunque non virtuosi).

CONOSCENZA DEL BENE E COMPORTAMENTO VIRTUOSO ASSIOMA

COROLLARIO 1

COROLLARIO 2

se x è un bene e A lo conosce, allora A necessariamente compie x (intellettualismo etico di Socrate: conoscenza = bene)

se A non compie x, allora o x non è un bene oppure A non lo conosce (se si conosce il bene è impossibile non perseguirlo)

se y è un male e A compie y, allora A crede erroneamente che y sia un bene (se si compie il male è solo per ignoranza del bene)

La convergenza di virtù e felicità

Il problema dell’unità della virtù

Quanto detto finora a proposito del bene e della virtù deve essere riferito, come si è visto all’inizio, non al corpo bensì all’anima, che costituisce il vero protagonista del discorso socratico. Socrate non parla di un bene del corpo o di una virtù del corpo, ma del bene e della virtù dell’anima. Il suo ragionamento doveva essere più o meno il seguente: gli uomini desiderano essere felici; in effetti ottenere la felicità costituisce il fine di ogni comportamento. Ma la felicità non è separabile dal bene, e in particolare da ciò che è buono per l’anima (il sé dell’uomo coincide infatti con la sua anima); dunque, per essere felici, si deve essere buoni e virtuosi, ossia realizzare il bene dell’anima, bene che si identifica con la virtù. È qui opportuno rilevare che con Socrate per la prima volta compare all’orizzonte filosofico occidentale un’etica di tipo eudaimonistico, in base alla quale il fine dell’azione umana risiede nell’acquisizione della eudaimonìa, cioè della felicità. Virtù e felicità infatti tendono, per Socrate, a coincidere, e in ogni caso formano una coppia di elementi non separabili. Un altro tema centrale della riflessione socratica era quello dell’unità della virtù. Egli si chiede se la virtù sia unica oppure se esistano molte virtù tra loro diverse: saggezza, coraggio, giustizia, santità, temperanza sono nomi diversi di una medesima cosa, la virtù appunto, o sono invece parti di un concetto generale, oppure entità indipendenti l’una dall’altra? La risposta socratica è probabilmente articolata e non priva di una certa raffinatezza: egli sostiene la tesi secondo la quale esiste una sorta di complicazione pragmatica tra le virtù; o più semplicemente, Socrate afferma che le virtù sono diverse l’una dall’altra per quanto concerne il loro contenuto concettuale (la definizione del coraggio, per esempio, è diversa da quella della giustizia o della temperanza); tuttavia, le virtù nella pratica si intrecciano, nel senso che chi ne possiede una, possiede anche le altre: non si può essere coraggiosi senza contemporaneamente essere anche giusti e temperanti.

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Il “dèmone” socratico

Tra l’anima, la virtù e il bene sembra che Socrate collocasse un’altra, importante figura teorica. Si tratta del celebre dèmone (daimònion), per il quale egli viene accusato di introdurre nuove divinità. Socrate allude infatti a una sorta di voce interiore (qualcosa di simile forse alla nostra coscienza), derivante direttamente dalla divinità, che lo mette in guardia dal compiere determinate azioni. Stando a quanto ci racconta Platone nell’Apologia, Socrate non partecipa mai attivamente alla vita politica ateniese, seguendo le indicazioni di questo dèmone («c’è in me qualcosa di divino e demoniaco», afferma Socrate nel celebre discorso), che interviene unicamente per distoglierlo dal compiere specifiche azioni e non per incoraggiarlo in altre. Con il richiamo al dèmone Socrate pare collegare l’ambito dell’anima, di cui il dèmone sembra rappresentare una sorta di parte o istanza divina, a una dimensione superiore, quasi a stabilire una relazione privilegiata tra la ragione e la divinità. Per Socrate, dunque, il fine dell’azione consiste nell’ottenere la felicità, e tale acquisizione dipende dalla conoscenza – e dalla conseguente inevitabile messa in pratica – della virtù e del bene (magari ascoltando la voce divina del dèmone).

VIRTÙ E FELICITÀ gli uomini desiderano la felicità, ossia ogni comportamento umano è finalizzato al conseguimento della felicità (principio delle etiche eudaimonistiche)

la felicità non è separabile dal bene (da ciò che è bene per l’anima)

per essere felici si deve realizzare ciò che è bene per l’anima

PER ESSERE FELICI SI DEVE ESSERE BUONI E VIRTUOSI

Che cosa è il bene?

Il bene come ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale

Il dialogo: attuazione della ricerca filosofica e strumento maieutico

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3.4 Bene, felicità e vita filosofica Ma che cosa è il bene che l’uomo dovrebbe conoscere e attuare? Che cosa è la virtù corrispondente a questo bene? Non abbiamo ancora risposto a queste domande, poiché lo stesso Socrate non definisce chiaramente il bene. Egli preferisce confutare i punti di vista dei suoi interlocutori piuttosto che sostenere una tesi in forma assertoria e definitiva, anche se questo non significa che egli non avesse un’opinione precisa sulla natura del bene. In un passo dell’Apologia, infatti, il filosofo afferma: «Ancora meno mi crederete se vi dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete sentito discutere o esaminare me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo». Ecco dunque il bene al quale deve aspirare ogni uomo: la ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale. Secondo Socrate una ricerca che metta in gioco tutti i presupposti, che non si accontenti dei risultati di volta in volta conseguiti, comporta già di per sé l’acquisizione della virtù e del bene, perché una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta e in questo consiste la ricerca filosofica. Si comprende allora la scelta socratica del dialogo come strumento della ricerca del bene e della virtù: per Socrate è anche il metodo che consente di estrapolare dall’anima degli interlocutori ciò che di autentico essa nasconde. Socrate dichiara, come si è visto, di non avere opinioni proprie, ma di essere capace, come una levatrice, di aiutare a far nascere le opi-

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Il lascito: il modello di vita socratico

nioni degli altri. In questo senso la filosofia socratica si configura come “maieutica”, ossia esercizio di recupero di quelle verità che si celano dentro ciascuno di noi, e che hanno a che fare con la dimensione della razionalità e della virtù. Come si sarà capito, l’eredità socratica si presenta, da un lato, davvero imponente, ma, dall’altro, estremamente difficile da gestire. Socrate incarna per secoli il modello della vita filosofica, un modello di vita sostanzialmente opposto a quello della vita attiva del politico. Nella sua stessa vicenda biografica è del resto facilmente leggibile lo scontro con la città, i suoi valori, le sue dinamiche associative e i suoi meccanismi di consenso. Socrate è stato dunque per secoli il modello del saggio isolato, condannato a morte dalla propria città, ma mai veramente sconfitto dai suoi tribunali. FILOSOFI A CONFRONTO

Questo tipo di eredità è raccolto in larga parte dalle scuole socratiche e attraverso di esse passa nella filosofia ellenistica, dominata dalla figura del saggio autarchico. Tuttavia, questa immagine isolata e autosufficiente della saggezza è avvertita anche come la ragione della sconfitta storica del socratismo. In questa direzione si muove il maggiore degli allievi di Socrate, Platone, il quale tenta di ricalibrare l’insegnamento del maestro, per evitare che tale prezioso lascito vada perduto: egli elabora un programma complessivo in cui la virtù del singolo individuo viene inserita in un quadro più ampio, quello della città giusta, in cui l’etica (l’esistenza virtuosa dell’individuo) troverà compimento nella politica (la vita associata con gli altri uomini).

La testimonianza di Senofonte

L’accusa di Antifonte e la risposta di Socrate: la felicità del filosofo

Lo storico ateniese Senofonte (430-355 a.C.) è uno dei principali allievi di Socrate, e nei suoi Memorabili offre una preziosa testimonianza della vita e del pensiero del maestro. Sebbene sia molto meno profonda filosoficamente rispetto all’interpretazione di Socrate fornitaci da Platone, la testimonianza di Senofonte fornisce l’immagine di un Socrate “morale” che influenza profondamente le successive generazioni di socratici “minori” (così definiti rispetto a Platone). Nella testimonianza dell’allievo Senofonte, Socrate si difende dall’accusa mossagli dal sofista Antifonte di essere un “maestro di infelicità” perché è povero, non ha alcun successo sulla scena sociale e non professa il suo insegnamento vendendolo dietro compenso. A queste accuse Socrate risponde con una serie di argomenti, centrati sull’idea della libertà e dell’autonomia del saggio, che con la sobrietà della sua vita si mette al riparo dal ricatto della ricchezza e dei piaceri. Riducendo i falsi bisogni, il filosofo si libera dalla dipendenza sociale, può dedicarsi ai veri amici, al bene della comunità e ai piaceri semplici di una vita sobria. Ecco la risposta di Socrate: «Mi sembra, o Antifonte, che tu creda che la felicità sia lusso e ricercatezza, io credo invece che non avere bisogno di niente sia proprio degli dèi e l’aver bisogno del meno possibile sia la condizione più vicina al divino e siccome il divino è il migliore, ciò che è più vicino a lui è più vicino al migliore». FILOSOFI A CONFRONTO

L’autonomia del saggio: Socrate, i cinici e gli stoici

Ancora sulla testimonianza di Senofonte: l’insegnamento socratico

La “virtù” del saggio è ciò che garantisce la vera felicità, che non consiste nel possesso e nel consumo di ricchezze, ma nell’autonomia e nella radicale libertà di pensiero e di azione. Queste convinzioni socratiche influiscono profondamente sulla morale dei cinici e successivamente su quella degli stoici.

Senofonte ci racconta poi un’altra discussione di Socrate e Antifonte su un’altra importante questione: l’insegnamento della sapienza. Antifonte sostiene che coloro che insegnano debbano essere retribuiti: visto che tutto ha un prezzo, è necessario e doveroso che i maestri si facciano pagare, a meno che essi non ritengano che il sapere che trasmettono abbia scarso o nessun valore. Pertanto egli critica Socrate, che invece insegna gratuitamente nelle vie e nelle piazze della città, senza chiedere nulla in cambio. A questo attacco, sferrato con una certa violenza, Socrate risponde con pacata serenità affermando che vendere la propria sapienza

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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è un atto indegno per un cittadino e un gentiluomo. Socrate inoltre ammette di trarre piacere dalle conversazioni con gli amici, durante le quali essi possono imparare ciò che di buono egli stesso sa; e in questo rapporto di amicizia, in cui si condividono le conoscenze, non è previsto nessuna vendita di sapere, ma un guadagno reciproco: «Come un altro, o Antifonte, si compiace di un bel cavallo, o di un cane o di un uccello, così, e ancora di più, io traggo piacere dai buoni amici, e se so qualcosa di buono lo insegno loro e li introduco presso altre persone dalle quali credo otterranno benefici per il conseguimento della virtù; e i pensieri preziosi dei sapienti del passato, che essi hanno lasciato scritti sui loro libri, li ripercorro leggendoli e commentandoli con gli amici. E quando troviamo qualcosa di valido, lo scegliamo e consideriamo un gran guadagno il diventare reciprocamente amici». Senofonte ci mostra dunque un’immagine di Socrate che è in grado di raggiungere la felicità cui aspira il saggio, circondandosi di amici che condividono con lui l’unico vero piacere che spetta all’uomo, quello derivante dalla sapienza e dalla virtù.

PER SINTETIZZARE • Quali sono gli aspetti della realtà che maggiormente interessano i sofisti e Socrate? Qual è, in termini generali, il fine della ricerca filosofica secondo i sofisti? • E secondo Socrate?

PER RIFLETTERE • Se tu fossi un allievo fedele allo spirito di Socrate pensi che collaboreresti con Wikipedia, l’enciclopedia gratuita on line? Se sì, quale sarebbe il tuo contributo? Che tipo di atteggiamento terresti nei confronti dei suoi editori volontari, che compilano e “pubblicano” liberamente ogni giorno, ogni minuto, ogni istante, centinaia di voci sui più svariati temi o personaggi?

Le scuole socratiche minori e l’idea del saggio

Antistene: la ricerca dell’universale

Da Antistene a Diogene: il cinismo

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3.5 L’eredità di Socrate: le cosiddette “scuole socratiche” Come abbiamo affermato in precedenza, Platone è senza dubbio il più importante dei discepoli di Socrate, ma non l’unico. Come detto, l’eredità del suo pensiero è complessa e articolata, e ha dato vita a diverse correnti filosofiche autonome, che riprendono e sviluppano motivi effettivamente presenti nell’insegnamento del maestro. Si è soliti indicare questi indirizzi con l’espressione “scuole socratiche”, aggiungendo spesso l’aggettivo “minori” (per distinguerle da Platone e dalla sua scuola). In generale bisogna osservare che tali scuole (ma sarebbe più corretto parlare di indirizzi di pensiero) recuperano l’eredità individualista della riflessione socratica, concentrando quasi tutte la loro attenzione sull’idea del saggio, inteso come figura autonoma e indipendente nei confronti sia dei beni esterni sia delle istituzioni cittadine. Il più anziano dei discepoli “minori” di Socrate è probabilmente Antistene (436-366 ca a.C.), che si concentra in particolare su due aspetti dell’insegnamento socratico: la ricerca dell’universale, ossia della definizione delle realtà intorno alle quali verte la discussione (la virtù, il bene, l’uomo e così via), e l’idea del saggio come individuo autarchico (cioè autosufficiente, indipendente), privo di bisogni e di ambizioni. Lo studio del problema della definizione, ossia la ricerca del “che cosa è” ciascuna cosa, lo porta a negare la possibilità stessa di formulare vere e proprie definizioni universali. Sembra che egli ritenesse che di ogni cosa fosse legittimo solo ripetere il nome, senza pretendere di fornirne una definizione. Antistene si scaglia dunque contro la teoria platonica delle idee, affermando, secondo una testimonianza, «o Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità». Nel campo della morale Antistene sostiene un ideale molto radicale, che, partendo dall’identità tra virtù e felicità stabilita da Socrate, nega con decisione la desiderabilità dei beni esterni (la ricchezza, la bellezza e così via). Ancora più in là si spinge il suo allievo Diogene di Sinope (413-323 ca. a.C.), al quale si deve il nome di “cinismo”, che solitamente viene usa-

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L’edonismo di Aristippo di Cirene e dei cirenaici

to per indicare questo movimento. Sembra che Diogene conducesse un’esistenza simile a quella dei cani (da cui il nome “cinici”), e che non si curasse delle consuetudini e delle norme civili: era solito mangiare e bere senza ciotola e addirittura espletare davanti a tutti le proprie funzioni fisiologiche. Lasciando da parte i numerosi aneddoti che lo riguardano, l’elemento più significativo dalla filosofia di Diogene consiste nel rifiuto delle convenzioni sociali, dunque delle dinamiche associative umane, mentre attribuisce una fiducia assoluta alla virtù interiore, intesa come unica via per il conseguimento della felicità. Apparentemente diverso è il percorso intrapreso da Aristippo di Cirene (vissuto in Libia, 435-366 a.C.) e dal movimento che a lui si richiama (i cirenaici). FILOSOFI A CONFRONTO

Anche Aristippo parte dall’equazione socratica tra virtù e felicità, ma ne ricava conclusioni sostanzialmente opposte a quelle dei cinici.

Socrate aveva stabilito che il bene possedesse una forza di attrazione alla quale non è possibile resistere (tanto che, per lui, la conoscenza del bene costituisce una garanzia della sua realizzazione); Aristippo osserva che il bene a cui tendono gli uomini è rappresentato dal piacere (hedonè), che costituisce dunque il principale centro di attrazione dei comportamenti individuali: bene e piacere perciò devono essere senza dubbio identificati. Per questo si è soliti vedere in Aristippo il primo rappresentante della tradizione edonistica dell’etica greca, destinata a essere sviluppata e approfondita nel corso dell’ellenismo da Epicuro. Tutto ciò sembra fortemente antisocratico; occorre però precisare che per Aristippo l’uomo non deve essere dominato dai piaceri, bensì dominarli, ossia non diventarne mai schiavo, ma saperne godere, restando padrone di se stesso (proprio quest’ultimo motivo lo riconduce nel contesto del socratismo).

LE SCUOLE SOCRATICHE Antistene

• ricerca dell’universale • rifiuto dei bene esterni

Diogene

• rifiuto delle convenzioni • perseguimento della sola virtù interiore

Aristippo

bene = ricerca del piacere, ma controllo di sé

cirenaici e tradizione edonistica

ricerca del piacere

INDIRIZZO CINICO

INDIRIZZO CIRENAICO

Centralità e autonomia del saggio

Al di là delle differenti e autonome prospettive sviluppate, il tratto che accomuna le scuole socratiche minori risiede senza dubbio nella centralità attribuita all’individuo e nell’idea che il saggio sia svincolato dalle istituzioni cittadine e dal corso degli eventi esterni. Proprio a questo livello si collocano quegli aspetti del pensiero socratico che saranno ereditati dalle filosofie ellenistiche.

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SOMMARIO ATENE: IL LUOGO DELLA FILOSOFIA

1

1 Dalla seconda metà del V secolo a.C. fino alla prima parte del IV secolo a.C. lo sviluppo della filosofia risulta strettamente legato ai cambiamenti politici e culturali che avvengono ad Atene. In particolare, lo sviluppo in senso democratico della pòlis (culminato con Pericle) apre la strada a una folta schiera – piuttosto eterogenea in quanto a orientamenti teorici e metodologici – di “professionisti della politica”, i sofisti. Al centro del loro insegnamento, rivolto ai giovani interessati a intraprendere la carriera politica, vi è la retorica, ossia l’arte di persuadere l’interlocutore. I SOFISTI

2

1 La riflessione filosofica dei sofisti risulta incentrata sull’essere umano e sul suo rapporto con la pòlis, a differenza della riflessione precedente dei presocratici, interessati soprattutto alla natura. Il tema della centralità dell’uomo trova in Protagora, il sofista più celebre insieme a Gorgia, la sua piena teorizzazione. La sua sentenza «di tutte le cose è misura l’uomo» esprime una forma di relativismo sia conoscitivo, secondo il quale non esistono verità assolute, sia etico, secondo cui non esistono norme morali o giuridiche valide per ogni cultura o società. Compito del sofista è dunque quello di educare gli uomini a scegliere l’opzione più conveniente rispetto alle circostanze concrete; il sofista è dunque orientato verso una forma di pragmatismo. Vicino alla fazione democratica, Protagora sostiene che tutti gli uomini possiedono la virtù politica, e che dunque tutti siano in grado di accedere alle cariche pubbliche. 2 La riflessione filosofica di Gorgia si incentra soprattutto su due questioni: la polemica contro la scuola eleatica e la riflessione sul linguaggio e le sue potenzialità. Riguardo alla prima questione Gorgia sostiene, contro gli eleati, in particolare Melisso, che l’essere non è, non è conoscibile né comunicabile. Riguardo alla seconda, egli sostiene una sostanziale incommensurabilità tra linguaggio e realtà: la parola è svincolata dalle cose e ha perciò il potere di creare mondi paralleli e di agire direttamente sull’animo di chi la ascolta; da ciò ne consegue l’esaltazione della retorica, che, se correttamente usata, può mutare i destini degli uomini. 3 Uno dei suoi temi centrali della riflessione dei sofisti è il rapporto tra natura e legge, che viene declinato in modo differente a seconda degli autori. Antifonte sostiene un sostanziale conflitto tra tendenze naturali umane, che spingono verso l’affermazione individuale, e norme giuridiche, che le regolano: lo Stato è così concepito come il risultato di un “patto di non aggressione” stipulato tra gli uomini. Posizioni più radicali sono invece quelle di Callicle, per cui le leggi sono una perversione dell’ordine naturale, che avvantaggiano i deboli rispetto ai forti, destinati naturalmente al predominio; di Trasimaco, che definisce la giustizia come «l’utile del più forte», in modo da provarla di ogni componente etico-morale; di Crizia, che concepisce la religione come uno strumento impiegato dai potenti per controllare le coscienze, quella dimensione intima che sfugge ad ogni normativa. SOCRATE E LA FILOSOFIA

3

1 Dal momento che Socrate non scrive nulla, per ricostruire il suo pensiero filosofico è necessario ricorrere ai resoconti della sua vita e dei suoi discorsi raccolti dai suoi allievi (fra i quali il più importante è indubbiamente Platone). La figura di Socrate è sfuggente e difficile da ricondurre a schemi prestabiliti: sappiamo però che egli pone al centro della propria riflessione la cura dell’anima. Aver cura dell’anima, per Socrate, significa anzitutto rendere prima se stesso e poi i propri concittadini più buoni, più saggi, più giusti; questa ricerca di miglioramento è confermata dalla sua dottrina dell’immortalità dell’anima, in base alla quale l’identità dell’essere umano coincide proprio con la dimensione interiore (ciò che di più divino è in noi). Questo progetto viene realizzato a partire dalla sentenza dell’oracolo delfico secondo la quale Socrate sarebbe l’uomo più sapiente; tale sapienza consiste nella consapevolezza della propria ignoranza («sapere di non sapere»).

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2 Questa consapevolezza sgombra il campo da errate convinzioni, creando lo spazio per la costruzione filosofica, che si realizza mediante il dialogo: interrogando i suoi concittadini, Socrate mostra la falsità e l’inconsistenza dei saperi diffusi. Questa operazione è realizzata attraverso gli strumenti dell’ironia (inizia sempre con una esplicita dichiarazione di ignoranza), della maieutica (aiuta l’interlocutore a partorire le opinioni nascoste nella propria anima), e infine della confutazione (critica radicale delle tesi pronunciate dall’interlocutore). In questo procedimento è centrale la ricerca della definizione dei concetti (virtù, coraggio e così via), definizione che deve cogliere l’essenza della cosa, cioè il carattere universale o “comune” del concetto in gioco. 3 Sul piano morale, Socrate afferma che esiste una reale coincidenza tra sapere e bene, e di conseguenza quando si conosce il bene non si può fare a meno di praticarlo (intellettualismo etico). Tale conoscenza conduce quindi l’essere umano alla virtù, che coincide con la felicità (la vita più felice è quella del saggio, che ricerca la verità e opera virtuosamente). 4 Ma in che consiste il bene? Secondo Socrate è la stessa ricerca razionale delle condizioni dell’agire morale a determinare il fine ultimo della sua filosofia e del suo stile di vita. 5 Eredi del pensiero e del modello socratico di vita filosofica sono sia la scuola cinica di Antistene e Diogene, che estremizza la ricerca della virtù interiore, rifiutandosi di accettare le convenzioni sociali, sia quella di Aristippo e dei cirenaici, per cui il bene coincide con il piacere (edonismo).

LESSICO

A

Agnosticismo. Dottrina filosofica che afferma l’incapacità umana di conoscere la verità assoluta, poiché fuori dalla portata della ragione. Per quanto riguarda gli dèi – sostiene l’agnostico – non possiamo affermare con certezza né la loro esistenza né la loro inesistenza, poiché entrambe queste risposte vanno al di là della capacità della ragione. Anima. L’oggetto principale della filosofia socratica, concepita come “cura dell’anima”. Per Socrate, che riprende in questo l’insegnamento pitagorico, l’anima costituisce un’entità diversa ed eterogenea rispetto al corpo ed è immortale. Essa è vista come ciò che costituisce il vero “sé” di ogni individuo, ciò di cui ogni uomo dovrebbe primariamente prendersi cura.

C

Confutazione. Procedimento attraverso cui Socrate, nel corso del dialogo, arriva a mostrare l’insostenibilità della tesi dell’interlocutore, o perché essa ha conseguenze assurde o perché si rivela contraddittoria rispetto ad altre tesi ammesse dall’interlocutore stesso.

D

Definizione. Espressione verbale che coglie l’essenza, il “che cosa è” di una data cosa, la quale a sua volta costituisce l’oggetto della discussione. Socrate spinge continuamente l’interlocutore a fornire una definizione che abbia il carattere dell’universalità (per esempio chiede che cosa sia il coraggio), tale che possa essere applicabile a ognuno dei singoli oggetti che si possono riferire al concetto di cui si sta parlando (la definizione di coraggio deve essere valida per tutti i casi concreti, cioè per definire tutte e solo le azioni coraggiose). Dialogo. Per Socrate il dialogo è il metodo stesso della filosofia. Attraverso il dialogo le opinioni del singolo vengono fatte emergere e portate alla consapevolezza, in modo che possano diventare oggetto di discussione. Nel corso del dialogo, l’interlocutore viene stimolato continuamente a precisare le proprie tesi e a valutarle, per saggiarne la sostenibilità, in un processo di ricerca della verità che si configura come infinito.

E

Essenza È il “che cos’è” di un cosa e che è comune a un certo insieme di cose. Per esempio, tutti i cavalli sono accomunati da qualcosa, e questo qualcosa è precisamente la loro essenza (come chiamarla? La cavallinità?).

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La ricerca di Socrate (almeno per come ce la presenta Platone) è orientata alla scoperta delle definizioni, che traducono le essenze delle cose.

I

Ironia. È l’atteggiamento che Socrate assume di fronte al proprio interlocutore, fingendosi assolutamente ignorante in merito all’argomento che sarà affrontato nel corso del dialogo. In questo modo egli lo illude di essere più sapiente e lo induce a parlare diffusamente delle proprie opinioni, che verranno poi attentamente esaminate e confutate.

L

Linguaggio Per il sofista Gorgia il linguaggio è incommensurabile al reale, ossia non rispecchia fedelmente la realtà delle cose. Tale divergenza tra linguaggio e realtà rappresenta per Gorgia il punto di forza del linguaggio stesso, che, svincolato dalla realtà, è capace di costruire i discorsi più svariati, i quali agiscono sull’anima dell’ascoltatore, inducendola a compiere un’azione piuttosto che un’altra. Anche in Socrate il linguaggio ha un ruolo centrale, dato che è lo strumento essenziale per il dialogo; il suo impiego non ha come fine la persuasione, ma la conoscenza della verità.

M

Maieutica Dal greco maieutikè tèchne, “arte ostetricia”, in senso figurato è una tecnica del dialogo socratico capace di far emergere le opinioni dell’interlocutore attraverso il metodo delle domande e risposte. Attraverso domande precise Socrate aiuta a far “partorire” all’interlocutore quelle conoscenze che sono già presenti nella sua anima ma che egli non sa di possedere (vale la pena ricordare che la madre di Socrate era una levatrice). Il termine allude anche al fatto che la ricerca della verità possa essere un processo doloroso, nel senso che non siamo facilmente disposti a liberarci delle nostre credenze e che il “parto” delle verità può rivelarsi laborioso.

P

Pòlis. “Città-stato” della Grecia classica. Le pòleis sorgono attorno al VII-VI secolo a.C. e sono caratterizzate dai sistemi di governo più disparati. Atene, in particolare, costituisce nella sua fase di transizione verso la democrazia (V-IV secolo a.C.) la sede per eccellenza in cui i sofisti e Socrate elaborano la loro riflessione filosofica.

R

Relativismo / Pragmatismo. Il relativismo è quella posizione filosofica che rifiuta l’esistenza di verità assolute (relativismo teoretico o conoscitivo) e di norme universalmente valide (relativismo morale). Protagora assume posizioni relativiste che lo conducono a sostenere una forma di pragmatismo: individui e comunità non devono mirare ad assumere delle decisioni che siano “vere”, ma piuttosto che risultino utili ed efficaci rispetto agli obiettivi perseguiti.

Retorica. Dal greco retorikè tèchne, “arte dell’eloquenza”, è quella disciplina che ha come obiettivo il raggiungimento dell’eloquenza, intesa come capacità di parlare o di scrivere bene, finalizzata alla persuasione dell’interlocutore. La retorica costituisce il nucleo dell’insegnamento impartito dai sofisti ai giovani di classe agiata nell’Atene democratica del V-IV secolo a.C., affinché essi possano prevalere nelle discussioni politiche; la potenza di questa disciplina viene esaltata sia da Protagora sia da Gorgia.

V

Virtù. In generale, nel pensiero della Grecia classica si intende con virtù ciò che rende qualcosa o qualcuno ciò che dovrebbe essere, ossia ciò che ne realizza l’essenza. Per Socrate l’essenza dell’uomo, ciò che egli ha di veramente proprio, è la sua anima, che ha carattere razionale, e si perfeziona pertanto mediante la conoscenza. Attraverso la ricerca costante, realizzata con il dialogo, l’anima può infatti conoscere la virtù, e conseguentemente metterla in pratica, dato che chi conosce il bene non può che compierlo (intellettualismo etico).

Vita filosofica. Lo stile di vita del saggio, dedito alla ricerca filosofica. Socrate incarna il modello di tale stile di vita, sostenendo che la ricerca della verità sia ciò che, sola, rende la vita degna di essere vissuta. Le scuole socratiche “minori” (cinici e cirenaici) metteranno al centro della propria riflessione e del loro agire l’ideale socratico, interpretandolo in modi differenti; questo sarà poi trasmesso all’ellenismo, animato da altre correnti filosofiche (stoici ed epicurei), per le quali la filosofia sarà uno stile di vita, piuttosto che una speculazione puramente teorica.

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QUESTIONARIO 1

ATENE: IL LUOGO DELLA FILOSOFIA Come bisogna mettere in relazione tra loro l’evoluzione in senso democratico delle pòleis nel V secolo a.C. e il diffondersi dell’insegnamento sofistico? (max 5 righe)

2

I SOFISTI Quali discipline sono al centro dell’insegnamento dei sofisti e a chi si rivolgono? (max 3 righe)

3

IL RELATIVISMO DI PROTAGORA In che senso la famosa affermazione di Protagora secondo cui «di tutte le cose è misura l’uomo» può essere considerata una professione di relativismo? (max 2 righe)

4

LA NATURA DEMOCRATICA DELLA CITTÀ Attraverso quale genere di argomento Protagora difese la propria concezione democratica della politica? (max 3 righe)

5

LA FUNZIONE PERSUASIVA DEL LINGUAGGIO Qual è il rapporto tra il linguaggio e la realtà secondo Gorgia? (max 3 righe)

6

NATURA E LEGGE IN ANTIFONTE Come si configura il rapporto tra natura e legge nel pensiero di Antifonte? (max 4 righe)

7

CALLICLE E TRASIMACO E IL CONCETTO DI GIUSTIZIA Che tipo di concezione dello Stato e delle sue leggi hanno Callicle e Trasimaco? (max 7 righe)

8

INSTRUMENTUM REGNI Che cosa pensa Crizia riguardo alle divinità e alla fede religiosa? (max 4 righe)

9

SOCRATE E LA FILOSOFIA In che senso la filosofia socratica si configura come un grande progetto di “cura dell’anima”? (max 3 righe)

10

IL PIÙ SAPIENTE DEGLI UOMINI Perché, secondo Socrate, l’oracolo delfico lo designa come il più sapiente? (max 3 righe)

11

LA CRITICA DEI FALSI SAPERI Quali sono i tre strumenti del dialogo socratico? (max 5 righe)

12

VIRTÙ, CONOSCENZA E FELICITÀ Che cosa si intende con “intellettualismo etico”? (max 4 righe)

13

L’EREDITÀ SOCRATICA Quali sono e quale caratteristica comune presentano le scuole socratiche “minori”? (max 4 righe)

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L'uomo misura di tutte le cose US

Attraverso la finzione drammatica del dialogo, Platone tratta in questo passo del Teeteto il nucleo centrale dell’insegnamento protagoreo, ossia la nota affermazione per cui l’uomo è misura di tutte le cose. Nell’intreccio di tematiche teoretiche ed etico-politiche il brano espone con chiarezza i termini del relativismo di Protagora, che da un lato è diretto verso la negazione dell’esistenza di verità e norme assolute, dall’altro mira a stabilire il “conveniente” come criterio guida nelle scelte della vita della comunità.

da Platone, Teeteto, 166 d – 167 d, trad. di L. Antonelli, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 101-103.

Io affermo che la verità sta così come ho scritto: e cioè che ciascuno di noi è misura tanto delle cose che sono, quanto di quelle che non sono 1, e che noi siamo enormemente diversi l’uno dall’altro, perché per uno appaiono e quindi sono alcune cose, mentre per un altro appaiono e sono altre cose. Sono ben lungi dal dire, poi, che non esistano sapienza e uomini sapienti: definisco tale, piuttosto, colui che, trasformando uno di noi, per il quale una cosa appaia e sia brutta, riesca a fargliela apparire ed essere bella. E tu non attaccare di nuovo il mio ragionamento, prendendolo alla lettera. Cerca di comprendere ancora più chiaramente, piuttosto, ciò che intendo dire. Ricordati, infatti, di quel che si è detto nei ragionamenti precedenti: a una persona malata appare amaro ciò che mangia e, in effetti, così è per lei, mentre per una persona sana è e appare il contrario. Nessuno dei due va considerato più sapiente – non è nemmeno possibile, infatti – e non si deve affermare che chi è malato è ignorante, perché ha simili impressioni2, mentre chi è sano è sapiente, perché ne ha di diverse: è necessario, piuttosto, far sì che questa condizione muti nell’altra, dato che la seconda è migliore. E così anche nell’educazione: bisogna cambiare un certo carattere in un altro migliore; solo che il medico attua il mutamento attraverso i farmaci, mentre il sofista adopera i discorsi3. Perché non è che qualcuno abbia fatto sì che un’altra persona, che prima aveva impressioni false, dopo il mutamento ne abbia di vere. E non è possibile formarsi opinioni su ciò che non è, né provare impressioni diverse da quelle che si provano: queste ultime, invece, sono sempre vere. […] Ciò che a ciascuna città sembra essere giusto e bello, tale è anche per essa, fintanto che continui a pensarla così: ma il sapiente ha fatto sì che, per i cittadini di ognuna di quelle città, siano e appaiano giuste cose convenienti4 invece di cose cattive. Secondo lo stesso ragionamento, anche il sofista, capace di fornire questa educazione ai suoi allievi, è sapiente e degno di ricevere ingenti retribuzioni5 da parte di coloro che ha educato.

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Lessico

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5

in greco mètron, che può essere inteso anche come “parametro”, “criterio”

è riecheggiata e superata la dicotomia posta da Parmenide tra essere e non essere

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Lessico

Lessico letteralmente “colui che sa”; Protagora rivendica la dignità e l’utilità della sua professione: il sofista è il medico dell’anima

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1. Si tratta del principio fondamentale del relativismo di Protagora: non esistono verità e norme assolute, ma solo verità e norme che sono tali per gli uomini, e che dunque si modificano nella misura in cui cambiano i soggetti interessati. 2. Ogni forma di esperienza conoscitiva

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in cui un soggetto è colpito da uno stimolo esterno. 3. Protagora ribadisce qui il convincimento sofistico che la parola sia capace di mutare, attraverso la persuasione, l’animo umano. 4. Il sofista deve convincere individui e

comunità a prendere non le decisioni più vere (che sarebbe impossibile), ma quelle più utili, più efficaci ai fini della prosperità personale e collettiva. 5. Protagora si riferisce al fatto che i sofisti per il loro insegnamento pretendevano un compenso in denaro.

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IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in tre parti. Nella prima parte del brano (righe 1-18) Protagora enuncia il famoso principio secondo cui l’uomo sarebbe misura di tutte le cose, nel senso che a ogni uomo le cose possono apparire in maniera diversa rispetto a un altro. In sostanza, per Protagora non si danno verità assolute, le cose sono come appaiono ai singoli uomini o anche allo stesso uomo, in momenti diversi. Ma è lo stesso sofista a precisare che ciò non significa affatto negare l’esistenza della sapienza e del sapiente. 1. Sapresti spiegare a che tipo di conseguenze conduce la sapienza di Protagora? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella seconda parte del brano (righe 19-24) Protagora paragona l’azione del sofista a quella del medico, con una differenza fondamentale che riguarda i mezzi impiegati: l’una infatti ricorre ai farmaci, l’altra ai discorsi. Entrambe operano comunque un mutamento nei soggetti a cui si rivolgono.



...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella terza e ultima parte del brano (righe 25-31) Protagora sviluppa le implicazioni etico-politiche del suo relativismo. Se, infatti, nella parte precedente aveva illustrato e argomentato le conseguenze che derivano dalla sua posizione in ambito conoscitivo, adesso affronta l’effetto che essa ha sul vivere concreto della comunità a cui appartiene. In questo senso, le decisioni politiche e morali su ciò che è giusto e buono dipendono dalle valutazioni dei singoli e da quelle collettive delle città: anche qui, non si può dire che una di queste decisioni sia più “vera” di un’altra.



...........................................................................................................................................................................................................................................................

L’A N T O L O G I A

2. Prova adesso tu, semplificando, a riprodurre il ragionamento proposto da Protagora per dare corpo a questa tesi.

3. Qual è dunque per Protagora il compito del sofista? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Lessico In questo brano compaiono due termini chiave del pensiero di Protagora. Proponi una definizione di entrambi i termini, utilizzando gli elementi che puoi trovare nel testo. misura:

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...........................................................................................................................................................................................................................................................

sofista: .......................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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L’arte maieutica

Retorica, Stile, Obiettivo polemico

Il celebre passo del Teeteto platonico mette a fuoco i tratti salienti del metodo dialettico di Socrate. Il fondamento di tale metodo è l’arte maieutica, cioè la capacità di far “partorire” nei giovani interlocutori del filosofo quelle verità che essi già possiedono, anche se in forma embrionale, nella loro anima. In alternativa e in netto contrasto con l’insegnamento dei sofisti, Socrate individua nel confronto dialogico e nella dissimulazione ironica del non-sapere le vie maestre per raggiungere la verità. .

da Platone, Teeteto, 50 b-e, trad. it. cit., pp. 53-55.

TEETETO - Certo. SOCRATE - La mia arte maieutica ha le stesse caratteristiche di quella delle levatrici1: differisce solo per il fatto che aiuta a partorire gli uomini e non le donne, e che si prende cura delle loro anime in travaglio e non dei loro corpi. Essa, poi, ha una capacità enorme: riuscire a verificare con ogni artificio se la mente di un giovane dà alla luce un pensiero illusorio e falso o se ne genera uno di genuino e vero. Perché, sotto questo aspetto, io sono davvero nella stessa situazione delle levatrici: non genero sapienza. Ed è vero ciò che molti ormai mi hanno rimproverato: che, pur interrogando gli altri, non mi pronuncio mai riguardo a nulla, con la motivazione che non sono affatto sapiente. La causa di tutto ciò è che il dio2 mi spinge a esercitare l’arte maieutica, ma mi ha impedito di generare. Io, di conseguenza, non sono sapiente in nulla, né mai una scoperta geniale ha visto la luce, come un figlio, dalla mia anima: tuttavia, di quelli che mi frequentano, all’inizio, alcuni almeno sembrano davvero ignoranti. Poi, però, con l’aumentare della confidenza, tutti quelli a cui il dio lo conceda raggiungono risultati così stupefacenti, che se ne rendono conto sia loro che gli altri. Ed è evidente che ciò avviene senza che loro abbiano imparato assolutamente nulla da me: è da se stessi che hanno tratto i molti splendidi pensieri che partoriscono. In realtà, il merito di aver favorito il parto va al dio e a me, questo è chiaro. Tuttavia, molte persone ormai non vogliono riconoscerlo e, sottovalutando il mio apporto, si ritengono le uniche responsabili del proprio risultato positivo: per propria scelta o persuase da altri, quindi, se ne vanno prima del tempo e in tal modo, frequentando cattive compagnie, abortiscono il resto dei pensieri. Un cattivo svezzamento3 ha fatto dunque morire anche ciò che io avevo aiutato a portare alla luce: e quelli, perseguendo con maggiore accanimento le falsità e le illusioni che non la verità4, hanno finito con l’apparire ignoranti tanto a sé quanto agli altri.

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Retorica uso della celebre metafora della levatrice per illustrare il suo metodo dialettico

Lessico è il celebre tema del “sapere di non sapere”

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Obiettivo polemico Socrate in questo passo individua il proprio bersaglio nell’attività dei sofisti

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1. La maieutica è letteralmente l’“arte ostetricia”: Socrate la impiega per far partorire la verità agli altri, come le ostetriche (“levatrici”) fanno partorire i figli alle donne. 2. Il riferimento è all’Apollo di Delfi, il cui

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oracolo avrebbe sentenziato che Socrate era il più sapiente degli ateniesi. 3. In questo contesto il termine indica, in parallelo con il passaggio che avviene nel bambino dal latte materno a un’alimentazione

più complessa, il rendersi autonomi nel proprio percorso di formazione intellettuale. 4. Falsità e illusioni sono per Socrate le dottrine dei sofisti, che non fanno altro che insegnare l’apparenza del sapere.

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ANALISI DEL TESTO piente degli ateniesi. Certo della propria mancanza di sapere, Socrate aveva interpretato l’oracolo come un invito a mettere alla prova i presunti sapienti, dei quali finirà poi per smascherare l'ignoranza. Retorica Socrate utilizza in questo brano la celebre metafora della levatrice per rendere vivida l’immagine di come egli intenda il proprio impegno filosofico: stimolare e aiutare i suoi interlocutori a tirar fuori (partorire) dalla propria anima quanto hanno di vero.

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Obiettivo polemico Nell’invettiva contro i “cattivi maestri” è chiaro il bersaglio polemico socratico, che è anche soprattutto bersaglio platonico: si tratta dell’insegnamento sofistico, che viene additato come capace di diffondere soltanto falsità e illusione, ossia apparenza di sapere.



Stile Dichiararsi “non sapiente in nulla” è una mossa cruciale della strategia dialettica di Socrate. La funzione ironica del “non sapere”, infatti, è la condizione per dare inizio al dialogo con l’interlocutore in cui di volta in volta si imbatte e condurlo attraverso la confutazione a cogliere il vero.



Guida alla lettura All’inizio del brano Socrate paragona il proprio metodo dialettico all’arte delle levatrici (la “maieutica”), che sostiene di aver appreso dalla madre Fenarete, la quale appunto praticava questa professione. Ma – precisa subito Socrate – vi è una differenza sostanziale: in primo luogo, la sua arte non è rivolta alle donne partorienti, ma agli uomini; in secondo luogo, l’oggetto delle sue cure non sono i corpi gravidi, ma le «anime in travaglio». Attraverso lo strumento del dialogo Socrate intende quindi stimolare i suoi giovani interlocutori a trovare in se stessi la via per raggiungere il vero. Il processo dialettico nasce però da una dichiarazione di ignoranza. Socrate, infatti, ripete di essere personalmente incapace di portare alla luce teorie proprie. Questa presunta “sterilità intellettuale” corrisponde tuttavia alla capacità di aiutare i giovani che sono potenzialmente fecondi a “partorire” i propri pensieri. Grazie al metodo della confutazione, poi, Socrate è in grado di mettere alla prova i pensieri venuti alla luce, per eliminare quelli che risultano erronei e rendere più robusti quelli che risultano adeguati. Il “dio” al quale ci si riferisce in questo passo è Apollo, il cui oracolo di Delfi aveva indicato in Socrate il più sa-

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CITTADINANZA E COSTITUZIONE

La pena

Il processo di Socrate Nell’Atene del V secolo a.C. Socrate è un cittadino che ha rapporti problematici con il potere politico: durante il regime dei Trenta tiranni (404 a.C.), si oppone all’ordine di arrestare un loro nemico, mentre dai democratici viene visto come un possibile avversario, per il fatto che fra i suoi discepoli ci sono spesso importanti esponenti dell’aristocrazia. Nel 399 a.C. Socrate viene accusato di corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità al posto di quelle tradizionali. A queste accuse segue un processo: Socrate si difende, ma, in nome del rispetto delle leggi dello Stato, accetta la condanna a morte e rifiuta la possibilità di ottenere una pena alternativa. La sentenza viene eseguita e Socrate muore, dopo aver bevuto la cicuta La pena nel costituzionalismo moderno In tutti i sistemi giuridici, antichi e moderni, la pena consiste in una “reazione” alla violazione della legge. La pena, cioè, ha il senso di una retribuzione: consiste in una “sofferenza” imposta come contraccambio degli effetti negativi provocati dal reato commesso. Questa retribuzione ha preso il posto della vendetta, che nel diritto moderno non è permessa. La pena stabilita per chi commette un reato viene comminata dall’autorità giudiziaria secondo quello che dice la legge e in seguito a un legittimo processo. Il potere di punire viene attribuito all'autorità pubblica, che ha una posizione di imparzialità rispetto

Leggi Socrate «Ma bisogna, giudici, che […] teniate in mente questa verità, che non può esserci male per un uomo buono, né da vivo né da morto […] mi è chiaro che ormai per me morire ed esser liberato dal peso dell’azione era la cosa migliore. […] Ma è già l’ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi dei due però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che al dio».

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Non mi sento irritato, cittadini ateniesi, da quanto è avvenuto avete votato a mio sfavore […]. Dunque quest’uomo propone per me la pena di morte. (Socrate) alle vittime del reato ed è vincolata al rispetto di determinate procedure legali. Un’ulteriore evoluzione si ha con il graduale processo di “umanizzazione” della pena. Nel XIX secolo, così, si passa dalla pena di morte e dalla pena corporale all’affermazione della detenzione carceraria come modello principale di pena per i delitti più gravi. Tuttavia, la detenzione continua a rappresentare l'idea della pena come inflizione di un castigo come corrispettivo per il reato commesso. L'evoluzione più recente del diritto penale, quindi, tende a sostituire la detenzione con pene a carattere extradetentivo o che, comunque, pongano minori limiti alla libertà personale: la detenzione domiciliare, il lavoro socialmente utile, la sanzione pecuniaria e così via. Pena e garantismo nella Costituzione italiana La Costituzione italiana afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e garantisce loro il diritto alla giustizia, cioè la possibilità di rivolgersi a un giudice per difendersi e far valere i propri diritti. La giustizia, infatti, è un servizio offerto dallo Stato a tutti in condizioni di parità. Chi commette un reato riceve una sanzione, cioè una pena; questa pena, secondo i principi umanitari cui si ispira la Costituzione, non ha solo una funzione punitiva (come in passato), ma è finalizzata al recupero sociale del condannato. In Italia la pena di morte introdotta dal regime fascista viene abolita con la Liberazione (1945). Infat-

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Orazio De Ferrari, Socrate in carcere, 1630 ca. Collezione privata.

ti, la pena capitale è caratteristica dello Stato totalitario, mentre il suo rifiuto è coerente con i principi della democrazia. La pena è diversa a seconda della gravità dei reati. Si distingue fra pene principali (ovvero la detenzione, perpetua o temporanea, e il pagamento di una somma di denaro, multa o ammenda) e pene accessorie (per esempio, l’interdizione dai pubblici uffici) per chi si sia reso colpevole di reati contro la cosa pubblica (come la corruzione). Le pene sono previste in una misura compresa fra un minimo e un massimo, di modo che il giudice possa graduare la pena tenendo conto del singolo caso, diverso da tutti gli altri. La Costituzione italiana afferma il principio di legalità quando stabilisce che si può essere puniti solo in base a una legge emanata dal Parlamento in vigore prima del reato commesso (art. 25). Si tratta di una garanzia fondamentale, perché solo l'esistenza di una legge permette al cittadino di regolare il proprio comportamento secondo la legalità e impedisce gli abusi, per esempio l'introduzione di norme speciali destinate a colpire determinati comportamenti o determinate persone. La Costituzione afferma poi che la responsabilità penale è personale: non si può essere puniti per reati commessi da altri e ogni cittadino risponde solo delle proprie azioni.

Leggi la Costituzione Art. 3 Tutti i cittadini [...] sono eguali davanti alla legge. Art. 24 Tutti possono agire in giudizio per la tu-

tela dei propri diritti e interessi legittimi [...]. La difesa è diritto inviolabile [...]. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Art. 25 [...] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge [...]. Art. 27 La responsabilità penale è personale. L’im-

putato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [...]. Non è ammessa la pena di morte. Art. 111 La giurisdizione si attua mediante il giusto

processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. [...].

RIELABORA E RIFLETTI 1. Spiega il comportamento di Socrate durante il processo cui viene sottoposto (max 3 righe). 2. Spiega in che cosa consiste il principio di legalità cui si ispira la Costituzione (max 5 righe). 3. In un testo di almeno 10 righe commenta gli articoli della Costituzione che si riferiscono alla pena.

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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FARE FILOSOFIA Bene/buono 1. “Bene” e “buono” come valutazione positiva Il termine “bene” e il corrispondente aggettivo “buono” rientrano senz’altro tra le parole più comunemente usate nel linguaggio quotidiano. Pur ammettendo tutte le ambiguità, le ambivalenze e le difficoltà che possiamo incontrare nel loro uso, normalmente questi termini servono a esprimere valutazioni positive, lodare, raccomandare, ossia pronunciare giudizi di valore positivi. Naturalmente, è sempre possibile trovare usi di questi termini che non siano valutazioni («Ha lasciato ai poveri tutti i suoi beni»), ma l’uso valutativo è sicuramente prevalente. Anche all’interno di quest’uso ci sono molte differenze.

stia esprimendo un giudizio morale quando dico «Maria è buona».

2. Bene in sé e bene in vista di altro La prima distinzione importante quando si parla del bene e del termine “buono”, tuttavia, non è quella tra bene morale e bene non-morale, sulla quale torneremo. La distinzione più importante è tra ciò che è bene in sé e ciò che è bene in vista di altro, o come strumento per raggiungere un altro bene (che potrebbe essere un bene in sé) o come qualcosa che contribuisce, come parte, a un bene più ampio: per esempio, una nota all’interno di un pezzo musicale. Problemi: 1) esiste il bene in sé? 2) è un unico bene o sono più beni? 3) qual è o quali sono? Que-

BENE

uso valutativo di ”bene”

uso non valutativo di ”bene”

Valutazioni morali e non morali “Bene” è in ge-

nerale ciò che merita l’aggettivo “buono”, cioè ciò che possiede la bontà, ma questa attribuzione della bontà non deve avere necessariamente un significato morale. In generale, queste parole vengono utilizzate per attribuire un valore positivo a qualcosa o a qualcuno; in particolare si può dire che la maggior parte delle volte non le utilizziamo con un significato morale. L’uso morale e l’uso non morale vanno distinti attentamente. Non c’è niente di “morale”, per esempio, nel pronunciare il giudizio «Queste ciliegie sono buone», mentre è del tutto verosimile che io

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sta distinzione, molto importante, non è completamente scontata. A questo riguardo ci possiamo infatti porre tre tipi di problemi. Anzitutto, possiamo chiederci se in realtà ci sia qualcosa che è un bene in sé, indipendentemente dal rapporto con qualcos’altro. E non manca chi lo nega. In secondo luogo, ci possiamo anche chiedere se, ammettendo che esista qualcosa che è un bene in sé (un bene assoluto), si tratti di un unico bene o se invece non possano essere più beni a costituire un bene in sé. Un terzo problema consiste poi nell’indicare quale sia questo bene in sé (o quali siano, se devono essere più d’uno). Le indicazioni possono naturalmente essere molto diverse. Per esempio, si può pensare che il piacere (inclusa l’assenza di dolore) abbia questo carattere di assolutezza; ma per qualcuno l’unica cosa che abbia valore in se stessa potrebbe essere la virtù morale, o la bellezza, o l’amore. Se i beni in sé sono più di uno, poi, la verità potrebbe consistere nell’esistenza di diverse cose che siano beni in sé (assoluti) e che l’errore sia proprio voler indicare un unico bene in sé, conferendogli un’assolutezza che invece spetterebbe a ciascuno di una molteplicità di beni.

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Il problema dell’oggettività del bene A questo

problema si collega anche quello dell’oggettività del bene: il bene – o i beni – è qualcosa che nasce nelle valutazioni che vengono date, quindi è una creazione della valutazione, oppure è qualcosa di valido anche indipendentemente dai soggetti che giudicano e dalle valutazioni, e che le valutazioni sono in grado semplicemente di scoprire?

BENE

bene in sè

bene in vista di altro

• c’è qualcosa che è un bene in sé? • se esiste un bene in sé, è un bene unico o ci sono vari beni in sé? • quale o quali sono questi beni in sé?

problema dell’oggettività del bene: il bene è dipendente o indipendente dalle valutazioni soggettive?

3. Bene morale e bene non morale Un’importante distinzione nel modo di usare le parole “bene” e “buono” consiste, come si è detto, nella distinzione tra un uso morale e un uso non morale. L’attribuzione di bontà o di valore nel caso morale e nel caso non morale si distingue però almeno per due diversi aspetti. Innanzitutto, nei due casi sono diversi gli oggetti che chiamiamo “buoni”; inoltre, sono diversi i criteri, e quindi le ragioni che vengono date per un giudizio di valore di tipo non morale in confronto con un giudizio di valore di tipo morale.

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Oggetto della valutazione del bene morale è l’individuo nei tratti della sua personalità Di re-

gola, quando attribuiamo la bontà morale ci riferiamo agli esseri umani e quando parliamo della bontà degli esseri umani intendiamo la bontà morale. Anche in questo caso, però, è possibile prevedere eccezioni. Se, per esempio, un dialogo si svolge tra cannibali, il giudizio di valore «Maria è buona» potrebbe voler indicare qualcosa di diverso dalla sua bontà morale; ma bisogna ammettere che si tratta di un’ipotesi che non rientra fra le interpretazioni probabili o verosimili, almeno per la nostra cultura. In particolare, noi pensiamo che possano essere detti moralmente buoni gli esseri umani nella loro individualità. E cos’è che valutiamo degli esseri umani, quando li chiamiamo “buoni”? Di solito, si parla della bontà morale degli esseri umani riferendoci a qualche elemento della personalità. Quando diciamo «Maria è buona» intendiamo riferirci a qualche tratto specifico della personalità morale di Maria, per esempio al suo carattere, ai motivi del suo agire o alle sue intenzioni in un comportamento determinato che ha magari avuto un esito negativo. Il motivo dell’azione è alla base del giudizio di “bontà” morale della stessa In generale, il rife-

rimento al motivo per cui si compiono le azioni sembra essere uno degli elementi principali grazie ai quali diciamo di qualcuno che è buono in senso morale. Per essere “buono”, cioè, non sembra sufficiente un comportamento corretto (“giusto”): secondo un esempio che viene fatto spesso, è un’azione giusta, e per alcuni un dovere, aiutare una signora anziana ad attraversare la strada. Si può essere tutti d’accordo che si tratti di un’azione giusta, che rimane tale qualunque sia lo stato d’animo del soggetto che compie l’azione. Ma per giudicare la bontà di questa azione il riferimento decisivo è proprio allo stato d’animo: se la signora è stata aiutata per vanagloria, l’azione rimarrà giusta, ma se questo è il motivo non sarà più considerata buona. Ragioni e criteri della valutazione morale Dunque, l’oggetto della valutazione del bene morale, è un aspetto particolare che consiste in qualche elemento della personalità di un essere umano o di più esseri umani. Ma sono particolari, nelle valutazioni di tipo morale, anche le ragioni o i criteri che adduciamo per spiegare la nostra valutazione: questi sono giustificazioni, argomenti di tipo morale, che magari consideriamo impliciti e che crediamo, spesso, che siano condivisi da chi ci ascolta, se non ci soffermiamo a spiegarli ulteriormente.

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Bene/buono

La ragione o la giustificazione che diamo di un certo giudizio di bontà morale presuppone quindi che si accettino certi criteri di bontà morale. Se mi venisse richiesto di fornire una ragione per aver giudicato “buona” l’azione della persona che accompagna la signora al di là della strada, probabilmente risponderei che la “bontà” che attribuisco a quell’azione e, di conseguenza, a quella persona, consiste nel suo essere altruista o, più esplicitamente, nel fatto che questa persona ha procurato un sollievo o attenuato un disagio alla signora.

BENE

significato/uso morale di ”bene”

significato/uso non morale di ”bene”

• differenza di oggetti (la bontà morale si riferisce solo a qualche aspetto della personalità degli uomini, quella non morale può riferirsi a qualunque cosa o persona) • differenza di criteri (criteri condivisi che hanno natura morale o hanno natura non morale) • differenza di ragioni (ragioni morali o non morali)

Gli oggetti della valutazione non morale: qualsiasi cosa o persona La maggior parte delle volte che uti-

lizziamo i termini “bene” e “buono” non li intendiamo in senso morale, ma in un senso non morale. È per esempio in questo significato che pronunciamo il giudizio «Queste ciliegie sono buone». Qui emerge ancora la distinzione a cui si è accennato sopra: gli oggetti del giudizio sono le ciliegie, e le ragioni che adduciamo sono ragioni di tipo non morale, per esempio che queste ciliegie sono molto dolci, consistenti, saporite. Nel caso di un giudizio di bene non morale, comunque, gli oggetti del giudizio sono molto, infinitamente più numerosi di quelli del giudizio di bene morale, che sono invece limitati alle componenti della personalità. Molte cose e molti oggetti possono essere giudicate/giudicati buone/buoni in questo senso. Esseri umani buoni in senso non morale Natu-

ralmente, non è affatto detto che i giudizi sul bene non morale non abbiano come oggetto del giudizio degli esseri umani, ma in questo contesto gli esseri umani oggetto del giudizio lo sono per caratteristiche che non sono di tipo morale. Un buon professore, un buon pilota o un buon dentista possono tutte essere persone che non sono “buone” in senso morale, ma rimangono buoni professori, piloti e dentisti, in un giudizio di valore che adesso dobbiamo giustificare non attraverso criteri morali, perché non sono questi, qui, i criteri rilevanti, ma attraverso un altro tipo di ragioni riferite in modo specifico ad aspetti non morali come le qualità del professore, del pilota e del dentista. Il buon professore non sarà necessariamente un buon pilota o un buon dentista, perché le caratteristiche del buon professore sono diverse da quelle del pilota e del dentista; se anche lo fosse sarebbe un caso, non qualcosa che ci aspetteremmo come ovvia, e nemmeno come probabile. Valutazione non morale e criteri di eccellenza

La condivisione dei criteri Naturalmente, ciò è

valido in un contesto in cui gli altri, chiunque essi siano, condividono i criteri ai quali io dichiaro di ispirarmi e che adduco come ragione per il mio giudizio. Se gli altri non condividono questi criteri o questo orizzonte di valori, la mia ragione non sarà una ragione, cioè non sarà una giustificazione o una spiegazione del mio giudizio; o, almeno, non lo sarà per gli altri. Ciò che qui si vuole dire è innanzitutto che il giudizio sulla bontà morale deve essere giustificato con ragioni a sua volta morali, secondo certi criteri che hanno natura morale.

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Il giudizio di bene non morale è in questo caso relativo a un oggetto determinato ma anche a un certo criterio di, chiamiamola così, eccellenza di quel tipo di oggetto. Nel giudizio non morale parlare di uomini non è la caratteristica più importante: il giudizio di bontà viene dato costantemente su un oggetto o un’istituzione qualunque, ed è un giudizio che accomuna una buona ciliegia, una buona automobile o un buon coltello. Tutti questi sono oggetti che, nella propria categoria di oggetti e soltanto in essa, vengono detti “buoni”. Naturalmente, le ragioni date presuppongono anche in questo contesto una condivisione di criteri

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con coloro ai quali le ragioni si danno. Per esempio, come non è una ragione il criterio dell’altruismo per coloro che non riconoscono nell’altruismo un criterio della bontà morale, così non è una ragione per valutare come “buono” un professore il criterio della capacità di spiegare bene la propria materia per coloro che credono che un buon professore si valuti piuttosto secondo il criterio di saper mantenere la disciplina o di vestire in giacca e cravatta. Giudizi di valore: oggettività e criteri comuni

I giudizi di valore o di bontà, di qualunque tipo essi siano, presuppongono sempre criteri comuni di

giudizio, se questo giudizio vuole essere condiviso da altri. Qui torna a essere importante, se si è alla ricerca di criteri condivisi, il problema accennato sopra dell’oggettività dei giudizi che riguardano il bene, cioè dei giudizi di valore: c’è un bene oggettivo e assoluto che qualcuno è in grado di riconoscere e che, se non viene riconosciuto da altri, implica che questi ultimi siano in errore? Oppure il giudizio sul bene è un giudizio che non scopre il valore, ma lo attribuisce, ed è quindi un giudizio che dipende, per la sua validità, dal soggetto che pronuncia il giudizio?

Barbara Kruger, Senza titolo, 1991, installazione. New York, Mary Boone Gallery

2. Socrate e i sofisti: la filosofia della città

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Il libro Il visconte dimezzato di Italo Calvino DETTAGLI DI PUBBLICAZIONE Titolo: Il visconte dimezzato

1a edizione: 1952

TRAMA Intorno alla metà del Settecento il visconte Medardo di Terralba durante una battaglia in Boemia viene diviso in due metà (il «Gramo» e il «Buono»): una è salvata dai medici dell’esercito, l’altra viene curata da due eremiti. Il Gramo torna a Terralba, dove comincia a compiere ogni sorta di malvagità e si guadagna l’ostilità della gente del feudo; il Buono invece pratica il bene verso tutti, ma suscita ugualmente fastidio. Il Buono e il Gramo si innamorano entrambi della contadina Pamela, che preferisce il Buono. I suoi genitori, tuttavia, vorrebbero che la figlia sposasse il Gramo, così lei accetta la proposta del Gramo ma nello stesso tempo chiede al Buono di sposarla. Il giorno del matrimonio le due metà si ritrovano all’altare, ma il Gramo arriva in ritardo e Pamela sposa il Buono. Il Gramo, tuttavia, rivendica di essere anche lui marito per metà e così ha luogo un duello in seguito al quale le due metà, ferite, vengono ricucite insieme. Al suo risveglio, il visconte di nuovo intero sposerà Pamela e insieme avranno molti figli.

CITAZIONE «Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti».

MOTIVO D’INTERESSE Il romanzo è un apologo della condizione umana e suggerisce alcune riflessioni sull’ambiguità del bene e del male intesi in senso morale. Tutti noi, disse Calvino, riusciamo a realizzare solo una o alcune parti di noi stessi. L’unico equilibrio possibile consiste probabilmente nell’armonia fra l’istinto e la coscienza: l’amore per Pamela è il solo elemento in comune fra il Gramo e il Buono, a causa al quale essi entrano in conflitto ma grazie a cui infine si riuniscono. Il romanzo affronta il problema della coesistenza del bene e del male nella chiave del divertimento, cui è attribuita una funzione pienamente “sociale”. Benché una metà soltanto sia quella cattiva, entrambe risultano insopportabili agli abitanti del feudo. D’altra parte, esse riflettono entrambe sui benefici che l’essere così divisi comporta: ognuna può considerare il mondo secondo la propria prospettiva in un modo più approfondito. La divisione a metà richiama dunque l’incompletezza della condizione umana, che non può realizzarsi pienamente. Anche gli altri personaggi del romanzo, infatti, continuano a cercare la loro identità. L’ambiguità presente negli uomini determina comportamenti e azioni che, nel libro, non vengono né condannati né giustificati a priori dal punto di vista morale. Dal punto di vista morale, dunque, la distinzione fra bene e male è difficilmente tracciabile in senso assoluto. L’intera vicenda, poi, è vista attraverso gli occhi di un bambino nell’ambito di un racconto di fantasia, che lascia al lettore libertà di interpretazione. Nascono da ciò alcune riflessioni: esiste qualcosa che può essere considerato un bene in sé indipendentemente dal rapporto con qualcos’altro? E, se esiste un bene assoluto, si tratta di un bene unico o ve ne sono diversi? Infine: come è possibile individuare questo o questi beni?

PER RIFLETTERE

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■ La distinzione tra ciò che è bene in sé e ciò che è bene in vista di altro non è del tutto scontata. Prova a fare un esempio di qualcosa che ritieni buono in senso assoluto e di qualcosa che, invece, consideri buono come strumento per raggiungere qualcos’altro. L’età antica

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Il film The Departed di Martin Scorsese SCHEDA TECNICA Titolo originale: The Departed Anno: 2006

Regia: Martin Scorsese Genere: drammatico

TRAMA A Boston il giovane Colin Sullivan, grazie alla protezione del boss Frank Costello, fa carriera nella polizia e nel frattempo passa a Costello informazioni utili alle sue attività criminali. Anche Billy Costigan, cresciuto negli ambienti della malavita irlandese come Sullivan, cerca di entrare nella polizia e deve infiltrarsi nella banda di Costello. Si innamora di una psichiatra criminale, Madolyn, che però ha una relazione con Sullivan. Costigan capisce che nella polizia c’è una talpa; Sullivan e il boss giungono alla stessa conclusione: un informatore della polizia infiltrato è entrato nella loro banda. In uno scontro a fuoco muore un poliziotto e si scopre che questi era infiltrato nella banda di Costello. Il boss crede così di aver eliminato la talpa. Nel frattempo il sergente Dignam, per alcuni screzi con Sullivan, si dimette e il comando del caso passa così proprio a Sullivan; intanto, Costello va a recuperare una partita di cocaina in un magazzino abbandonato e Costigan informa Sullivan, che però non passa l’informazione a Costello: ha scoperto che il boss è un informatore protetto dall’FBI e teme che possa denunciarlo. Nell’operazione, dunque, i poliziotti tendono una trappola e Costello muore, ucciso dallo stesso Sullivan. Costigan, in seguito, capisce che l’infiltrato è Sullivan e lo arresta, ma viene ucciso. Dopo i funerali, il caso viene archiviato: ma, tornando a casa, Sullivan si trova davanti l’ormai ex sergente Dignam, che lo uccide davanti alla porta.

CITAZIONE «Quando avevo la tua età, i preti ci dicevano che potevamo diventare poliziotti o criminali. Oggi quello che ti dico io è questo: quando hai davanti una pistola carica, qual è la differenza?»

MOTIVO D’INTERESSE Se si vuole fare carriera, a Boston, le strade possibili sembrano solo due: la polizia o il crimine organizzato. Tuttavia, rispetto a una separazione così netta del bene dal male, la storia dei personaggi di questo film permette di considerare questi concetti in una dimensione problematica. Da una parte c’è il poliziotto Sullivan, talpa della banda di Costello; dall’altra c’è Costigan, figlio e nipote di criminali, infiltrato dalla polizia nel gruppo del boss. I due sono l’uno il doppio speculare dell’altro: legati alla polizia e alla criminalità, innamorati della stessa donna, alla ricerca di un futuro diverso. I buoni sanno essere cattivi, insomma, e i cattivi possono essere buoni. Entrambi i personaggi hanno lo stesso incarico: scoprire la talpa, cioè se stessi. Tutti e due vivono una duplice identità e la perdono. La talpa ha qui un ruolo anche metaforico: è un animale che scava la terra e si nutre di vermi. Così, nel film la divisione manichea fra bene e male si confonde e i ruoli di vittima e carnefice si scambiano continuamente. Tuttavia gli uomini condannano sia i giusti sia gli ingiusti e alla fine non è il bene che trionfa: il film si conclude con un atto di vendetta privata. Ciò permette di interrogarsi sul problema dell’oggettività del bene. Se i giudizi sulla bontà devono poter essere condivisi, occorrono criteri comuni per giudicare. Ma ciò che si intende per “bene” è frutto di valutazioni, cioè di punti di vista diversi e dipendenti da variabili quali il contesto sociale o l’orientamento individuale, oppure è valido indipendentemente da queste valutazioni?

PER RIFLETTERE ■ Il film pone il problema se gli individui siano capaci di influenzare l’ambiente in cui crescono e vivono o se sia questo a forgiarli attraverso l’educazione morale, l’insegnamento di principi, l’indicazione modelli. te l’individuo è in grado di svincolarsi da questi modelli e 2. Socrate e idisofi sti: la Secondo filosofia della città insegnamenti, scegliendo autonomamente se farli propri o seguirne altri?

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3. Platone Platone e il suo tempo 431 a.C. Inizia la guerra del Peloponneso.

430 a.C. Pericle perde il potere e muore l’anno successivo.

428-427 a.C. Platone 421 a.C. Pace nasce di Nicia. ad Atene.

418 a.C. Ripresa della guerra del Peloponneso con la battaglia di Mantinea.

406 a.C. Muoiono Sofocle ed Euripide, grandi tragici greci.

403 a.C. 404 a.C. Caduta Fine della del governo guerra dei Trenta del Peloponneso. tiranni.

399 a.C. Socrate è messo a morte dal governo ateniese.

EVENTI VITA E OPERE

404 a.C. Il sanguinoso governo dei Trenta tiranni rappresenta la prima grande delusione politica di Platone.

399 a.C. Con la morte di Socrate, Platone abbandona definitivamente l’idea di una partecipazione politica attiva ad Atene.

398-390 a.C. Scrive i primi dialoghi giovanili, detti "socratici" (Lachete, Eutifrone, Carmide).

389-388 a.C. Viaggio a Taranto, che prosegue verso Siracusa, presso il tiranno Dionisio I.

I luoghi di Platone

Taranto Prima tappa del suo primo viaggio. Atene Platone vi nasce, e vi conduce praticamente tutta la sua vita (qui fonda l’Accademia e scrive le sue opere), fino alla morte.

Siracusa Seconda tappa del suo primo viaggio e destinazione del suo secondo e terzo viaggio.

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RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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➥ Tutorial: Platone, Fedro ➥ Biblioteca: L. Canfora, Il fallimento di Platone

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A meno che, dissi io, i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura ora tende a uno di questi poli con esclusione dell’altro, non vengano obbligatoriamente impediti, non vi sarà, caro Glaucone, sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del genere umano. (Platone, Repubblica)

359 a.C. Sale al trono macedone Filippo II.

371 a.C. Battaglia di Leuttra.

388-387 a.C. Rientra ad Atene e vi fonda l’Accademia: inizia la fase matura della sua produzione (Menone, Fedone, libri II-X della Repubblica).

367-366 a.C. Secondo viaggio a Siracusa.

361-360 a.C. Terzo viaggio a Siracusa: fallisce il tentativo di instaurarvi un regime ispirato ai principi della Repubblica.

351 a.C. Demostene attacca Filippo di Macedonia con le Filippiche e le Olintiache.

360 a.C. Rientro ad Atene: scrive i dialoghi "dialettici" (Parmenide, Sofista, Timeo, le Leggi).

338 a.C. Battaglia di Cheronea.

347 a.C. Muore ad Atene.

Le domande di Platone • Possiamo avere una conoscenza scientifica del mondo fisico, che è in continuo mutamento? • Tutta la realtà si esaurisce nel mondo che cade sotto i nostri sensi, o esiste qualcosa che va al di là della nostra percezione? • In che modo possiamo fondare una conoscenza affidabile e rigorosa? • Che cosa è la virtù? Perché è preferibile la virtù al vizio? • Che rapporto c’è tra anima e corpo? • L’anima ha una natura unitaria? • Si possono disciplinare gli impulsi irrazionali? • In che modo il singolo individuo può raggiungere la piena realizzazione di sé? • Qual è l’essenza della giustizia? • Chi è il filosofo? Quale tipo di conoscenza possiede? Quali sono i suoi obblighi morali?

I testi Il classico La Repubblica T1 La nobile menzogna / Il mito dei metalli (414 B-415 D) T2 L'idea del Buono (508 C-509 B) T3 Il mito della caverna (517B-E) T4 La critica della democrazia (557 A-561 D)

L’antologia T5 La natura delle idee e il problema della partecipazione (131 A-E) T6 La nascita di Eros e la natura della filosofia (203 A-204 D) T7 La conoscenza e la reminiscenza (74 A-75 C)

3. Platone

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✔ Tesi a confronto: Platone: governo totalitario o governo democratico? ✔ Cittadinanza e costituzione: La partecipazione politica ✔ Fare filosofia: Giustizia/giusto 06_CAP3.indd 103

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1. Platone e le ragioni della filosofia L’inizio della speculazione filosofica occidentale

I concetti, protagonisti del pensiero filosofico in quanto tale

Chiunque legga anche poche pagine dei dialoghi di Platone è in grado di comprendere – e forse di condividere – il celebre giudizio del logico e matematico inglese Alfred North Whitehead (1861-1947), secondo il quale l’intera tradizione filosofica occidentale non è altro che una serie di note a Platone. In effetti, leggendo gli scritti del filosofo sembra davvero di assistere a qualcosa di simile all’atto di nascita della filosofia, una nascita con la quale in seguito si confrontano pressoché tutti i successivi sviluppi, anche quelli degli autori che si propongono di criticare e superare Platone. Sostenere che con Platone ha inizio la speculazione filosofica occidentale significa affermare che nei suoi scritti la filosofia entra per la prima volta nel proprio ambito, e ciò è vero per due ordini di ragioni: 1. perché Platone sembra formulare e tentare di risolvere tutti i problemi che siamo abituati a considerare filosofici (Che cosa e come esiste? Che cosa posso conoscere? Perché devo comportarmi bene? Quali principi devono regolare il mio rapporto con gli altri uomini?); 2. perché nei suoi dialoghi viene costruita per la prima volta l’immagine del “fare” filosofico, inteso come un’attività peculiare che possiede un linguaggio, un metodo, uno stile di pensiero propri, differenti da quelli di altre forme di sapere e conoscenza come la scienza, l’arte e la poesia. I grandi protagonisti teorici della filosofia platonica sono anche quelli del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, la città e il cosmo. I dialoghi di Platone contengono il primo importante tentativo di organizzare in un complesso unitario e coerente (ma non per questo sistematico) i rapporti tra questi protagonisti: il che significa che in essi trovano posto, spesso strettamente connesse le une alle altre, l’ontologia (teoria dell’essere), l’epistemologia (teoria della scienza e della conoscenza), l’antropologia, la psicologia, l’etica, la teoria politica e la cosmologia, prima ancora di diventare discipline autonome.

1.1 La sfida della sofistica FILOSOFI A CONFRONTO

In verità questo spettacolare progetto filosofico rappresenta una formidabile risposta alla sfida che nel corso del V secolo a.C. i sofisti lanciavano alla cultura tradizionale. Per poter parlare nuovamente di essere, verità, bene e giustizia, infatti, occorre respingere il poderoso attacco che la sofistica, proponendo un sostanziale relativismo, muoveva a queste nozioni.

Il relativismo sofistico di Gorgia

Protagora: l’uomo misura di tutte le cose

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Un autore come Gorgia negava la stessa esistenza di una realtà oggettiva esterna al soggetto, e comunque la possibilità per l’uomo di conoscerla e di comunicarla agli altri uomini: se non esiste la realtà, non esiste una verità assoluta che si riferisca a essa. Ma se le cose stanno così, anche il linguaggio sarà svincolato dalla realtà e potrà costituirsi come un universo indipendente e a sé stante. Il destinatario del suo messaggio sarà l’anima, ma il contenuto di questo messaggio non avrà più vincoli oggettivi esterni ai quali obbedire. In poche parole: l’eliminazione del riferimento del discorso alla verità determina il suo uso efficace, come strumento disponibile a chiunque per convincere gli altri ad agire come si desidera, cioè alla persuasione retorica. Anche Protagora stravolge totalmente l’idea di una verità assoluta, valida per tutti, ritenendo che l’uomo (inteso sia come individuo sia come comunità politica) costituisca la vera misura delle cose. Per Protagora, quindi, il sofista non ha il compito di affermare la verità delle cose, ma di persuadere gli ascoltatori, ed eventualmente di spingerli a scegliere ciò che è bene non in assoluto bensì per loro, cioè a scegliere l’utile.

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Gli esiti di un’impostazione di questo tipo potevano però essere ancora più radicali. Quando il criterio dell’utile acquista un’importanza tanto rilevante, la ragione in base alla quale si agisce in un modo piuttosto che in un altro può diventare quella del soddisfacimento indiscriminato dei propri desideri e dei propri impulsi, fino ad arrivare a una vera e propria sopraffazione degli altri. Alcuni rappresentanti della sofistica, come Antifonte, Callicle e Trasimaco, arrivano infatti ad affermare con vigore le ragioni del potere e della forza, identificando addirittura la giustizia con l’utile del più forte. Del resto una posizione del genere rispecchia in larga misura la situazione di perenne conflitto che pervade la vita politica dell’Atene del V secolo a.C., dominata dallo scontro tra ricchi e poveri, oligarchici e democratici. Venuta meno una realtà oggettiva da conoscere, sfumati i valori pubblici da condividere e ai quali conformarsi, l’individuo rischia di smarrire anche la propria identità. L’anima – che da qualche decennio era diventata la protagonista di questa identità – diviene preda del discorso più seducente, dell’oratore più abile, e si adegua in modo acritico ai valori che di volta in volta le vengono presentati.

Conseguenze incontrollabili delle teorie sofistiche

LA VITA E LE OPERE 428-427 a.C. Platone nasce ad Atene da una importante famiglia aristocratica. La madre apparteneva a una famiglia di cui aveva fatto parte il grande legislatore Solone, mentre quella del padre si pensa discendesse da Codro, leggendario re di Atene. 404 a.C.

Alla fine della guerra del Peloponneso si instaura ad Atene il sanguinoso governo dei Trenta tiranni, di cui fa parte Crizia, zio materno di Platone: per lui si tratta della prima tragica delusione politica.

399 a.C.

Altro evento che segna drammaticamente la vita di Platone è la morte di Socrate, condannato dal governo democratico ateniese. Il giovane Platone rinuncia a partecipare attivamente alla vita politica e inizia una vita di studi, dedicandosi in questa prima fase prevalentemente a temi morali.

398-390 a.C. Compone i dialoghi cosiddetti “socratici”, o “giovanili” (come per esempio Lachete, Eutifrone, Carmide), in cui si ricercano le definizioni delle virtù, e che si concludono in modo aporetico (non forniscono cioè una soluzione definitiva). 389-388 a.C. Platone viaggia a Taranto, dove conosce Archita, filosofo pitagorico; si reca poi a Siracusa, dove soggiorna presso il tiranno Dionisio I, stringendo amicizia con Dione (un parente del tiranno), che diventa suo allievo. 388-387 a.C. Rientrato ad Atene, fonda l’Accademia. Inizia la fase matura, in cui scrive alcuni dei suoi dialoghi più noti come il Menone, il Fedone, la maggior parte della Repubblica (libri II-X). 367-366 a.C. 361-360 a.C. Secondo e terzo viaggio a Siracusa, in cui, con la collaborazione di Dione, tenta senza successo di instaurarvi un regime improntato ai principi esposti nella Repubblica. 360 a.C.

Rientrato ad Atene, si ritira nell’Accademia e compone i dialoghi della tarda maturità, come il Parmenide, il Sofista, il Politico, il Timeo, le Leggi (ultima opera).

347 a.C.

Muore ad Atene, circondato dai suoi allievi.

1.2 Diagnosi e terapie filosofiche La verità, dunque, è malata, così come lo sono anche la città (in preda a conflitti non mediabili) e l’anima (ormai vittima di un conformismo irrazionale).

3. Platone

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FILOSOFI A CONFRONTO

Il progetto platonico: guarire verità, città e anima attraverso il discorso filosofico

Solo tenendo presente questo contesto si può comprendere il senso del progetto filosofico di Platone: per rispondere alla sfida dei sofisti, che egli ritiene colpevoli di aver contribuito a scatenare la crisi appena descritta, bisogna essere in grado di approntare una grandiosa terapia filosofica, che guarisca verità, città e anima. Occorre sostituire all’universo soggettivistico e parcellizzato dei sofisti un mondo unitario, stabile e coeso; e inoltre, per Platone, è necessario predisporre un discorso che sia in grado di persuadere le anime alle quali si rivolge.

La filosofia infatti non è assimilabile né all’atto di dare la vista a un cieco, né al riempimento di un vaso vuoto, ma richiede necessariamente il concorso di chi apprende, perché prevede un vero e proprio rivolgimento dell’anima. In questo risiede il nocciolo della risposta di Platone alla grande sfida sofistica: nella costruzione di un discorso che riesca a persuadere, indirizzando le anime verso la conoscenza (finalmente dotata di oggetti stabili), verso la virtù (fondata su valori assoluti, criteri di valutazione non soggettivi) e verso la politica (definitivamente rifondata); i dialoghi di Platone intendono attuare questo grande progetto filosofico.

2. Il maestro, il dialogo, la maturità La tragica delusione politica

Platone appartiene a una delle più prestigiose, ricche e autorevoli famiglie dell’aristocrazia ateniese e trascorre i primi trent’anni della sua vita in un ambiente dominato dall’impegno politico e sociale. Tuttavia due eventi segnano in modo decisivo il corso della sua esistenza e determinano in lui il rifiuto di partecipare attivamente alla vita politica ateniese: il sanguinoso governo dei Trenta tiranni (che rivela l’arroganza e la ferocia dell’oligarchia) e il processo intentato a Socrate da parte del restaurato regime democratico (che evidenzia così i propri limiti politici). Quest’ultimo evento, in particolare, che determina la morte del maestro, condiziona l’esperienza intellettuale di Platone e le ragioni stesse del suo progetto filosofico.

L’immedesimazione tra lettore e personaggi

2.1 Il dialogo L’Atene della fine del V secolo a.C. si presenta dunque agli occhi di Platone come una città drammaticamente scissa, lacerata da profondi conflitti sociali ed economici, culturalmente e moralmente degenerata, malata. Solo una radicale rifondazione delle ragioni del vivere insieme, dei valori e dei fini dell’agire, ossia dell’etica e della politica, può consentire di rigenerarla. La decisione di scrivere dei dialoghi, anziché dei trattati sistematici, è perfettamente riconducibile a questa esigenza fondamentale: i dialoghi platonici sono rivolti anzitutto ai suoi concittadini, ed è per questo che sono ambientati ad Atene e che i protagonisti che li animano sono spesso ateniesi o personaggi comunque noti al pubblico ateniese. Quasi sempre Socrate vi recita il ruolo principale, e molto spesso il dibattito si presenta come una confutazione operata dal maestro sulle opinioni dei suoi interlocutori. Costoro – uomini politici, generali, sofisti, retori, esperti in una qualche particolare tecnica – credono di conoscere un determinato tema, del quale sono ritenuti gli specialisti, ma le incalzanti domande di Socrate, brevi e dirette, dimostrano in modo inequivocabile che, in realtà, si tratta di un sapere solo apparente: i sostenitori delle diverse opinioni, infatti, si contraddicono continuamente, dimostrando nel migliore dei casi di conoscere solo alcuni esempi del campo di cui si vantano di essere esperti. I sofisti che affermano di sapere che cosa sia la virtù, riescono solo a fornire alcuni casi di comportamento virtuoso, non generalizzabili, dimostrando di non sapere che cosa sia realmente la virtù. Platone, mettendo in scena il presunto sapere di personaggi facilmente riconoscibili dai suoi lettori, induce questi ultimi a mettere in discussione le proprie certezze che, in sostanza, sono quelle maggiormente diffuse nella società ateniese. Il dialogo produce, dunque, un effetto di identificazione o almeno di riconoscimento tra il lettore e i personaggi che vi prendono parte. Quando un lettore assiste alla confutazione

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La pòlis, teatro del dialogo

Socrate, protagonista dei dialoghi con la confutazione

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di un’opinione che lui stesso reputa vera, viene in un certo senso confutato insieme a quell’opinione e al personaggio che nel dialogo la sostiene; inoltre, questo lettore viene anche avviato da Platone (attraverso Socrate) alla filosofia, intesa come modo corretto e razionale di porre e tentare di risolvere i problemi. Si può dunque affermare che l’insieme dei dialoghi platonici costituisca contemporaneamente un grande sforzo di confutare le opinioni correnti, l’immagine di un percorso di apprendimento che interessa i personaggi che vi partecipano, incluso il lettore, e un vero e proprio invito al pensiero filosofico.

2.2 La maturità: l’Accademia, l’impegno politico e la scienza

L’Accademia come centro di ricerca filosofica e di formazione politica

L’impegno politico: i viaggi a Siracusa e i tentativi di fondazione della città giusta

La problematica scientifica: i dialoghi dialettici

I dialoghi non sono tuttavia l’unico strumento al quale Platone affida il compito di rifondare la città avviando i suoi concittadini alla filosofia, ma essi rappresentano in un certo senso il primo stadio del progetto di cui si è parlato. In un secondo momento vi è la scuola, che vorrebbe essere sia un centro di ricerca filosofico-scientifica sia un luogo di formazione delle classi dirigenti, ossia dei politici. All’età di circa quarant’anni (nel 388-387 a.C.), Platone fonda l’Accademia, un’istituzione che si presenta esteriormente come una fondazione religiosa deputata al culto delle Muse (il nome Accademia deriva da Academo, una sorta di eroe locale al quale era intitolato il bosco in cui l’Accademia si trovava). In realtà, al suo interno Platone tiene dei veri e propri seminari, in cui vengono sviluppati e approfonditi i temi filosofici e scientifici contenuti nei dialoghi. Inoltre, vi si propone il programma educativo che avrebbe dovuto formare i celebri filosofi-re: in questo senso l’Accademia costituisce qualcosa di simile a una moderna “scuola di partito”, in cui si preparano coloro che avrebbero dovuto gestire il potere nella città rifondata. La prova che l’obiettivo di creare le condizioni per realizzare effettivamente uno Stato nuovo, fondato sul sapere e sulla filosofia, rappresenti una preoccupazione costante e mai abbandonata dell’impegno filosofico di Platone, è fornita in modo inequivocabile dai tre viaggi a Siracusa che egli intraprende nell’arco di quasi trent’anni, successivi alla fondazione dell’Accademia. Con l’appoggio di un suo allievo, Dione, imparentato con i tiranni di Siracusa, Platone tenta in più occasioni di instaurare nella città siciliana un regime basato sui principi filosofici esposti nella Repubblica. I tre tentativi però falliscono – soprattutto a causa delle invidie che Platone suscita presso la corte siracusana – ma testimoniano quanto Platone desideri attuare concretamente (e non solo teorizzare) la kallìpolis, ossia la città perfetta e giusta. Naufragato anche il terzo tentativo di instaurare un potere filosofico a Siracusa (361 a.C.), Platone si ritira definitivamente ad Atene, consacrando gli ultimi decenni della sua vita alla stesura di importanti dialoghi in cui prevalgono la problematica teoretica e scientifica (come il Parmenide, il Timeo, il Sofista, il Filebo). Tuttavia, egli non abbandona mai la questione del governo razionale e dell’ordinamento della città, temi ai quali dedica rispettivamente il Politico e i dodici libri delle Leggi, che costituiscono la sua ultima opera, l’unica in cui non compare Socrate.

LA PRESUNTA CRONOLOGIA DEI DIALOGHI PRINCIPALI DIALOGHI GIOVANILI O SOCRATICI (399-388 a.C.) I fase: • Ione • Ippia minore • Apologia di Socrate • Lachete • Eutifrone • Ipparco • Carmide • Critone • Liside • Ippia maggiore • Repubblica (libro I) II fase: • Protagora • Gorgia • Menesseno • Eutidemo

3. Platone

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DIALOGHI MATURI (387-361 a.C.)

DIALOGHI TARDI (361-347 a.C.)

• Menone • Fedone • Simposio • Repubblica (libri II-X) • Cratilo • Fedro; • Teeteto • Parmenide • Sofista • Politico • Filebo

• Timeo • Crizia • Leggi • Lettere VII e VIII (di cui è discussa l’autenticità)

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3. Virtù, desiderio, felicità La giustizia e il desiderio

La felicità per i sofisti: l’appagamento dei desideri

In ampi settori degli ambienti intellettuali ateniesi della seconda metà del V secolo a.C. si diffonde l’idea che la virtù non consenta di ottenere con certezza la felicità individuale. Il controllo virtuoso dei desideri è considerato in alcuni casi come una manifestazione di debolezza; la pratica della stessa virtù politica (cioè interpersonale) per eccellenza, ossia della giustizia, può rappresentare, almeno per le frange più radicali del pensiero sofistico, un vero e proprio impedimento all’acquisizione della felicità individuale. Si arriva ad ammettere che la giustizia sia una sorta di male minore, che viene accettato solo per scongiurare i rischi di un male ancora peggiore, che consiste nel subire ingiustizia da parte degli altri. Nel Gorgia Platone assegna al sofista Callicle una serie di tesi, da cui emerge l’idea che l’uomo è portato per sua natura a soddisfare i propri desideri e che la felicità consiste in tale soddisfacimento. FILOSOFI A CONFRONTO

A Socrate, che argomenta in favore della temperanza, ossia della capacità di autoregolarsi tenendo a freno le passioni e i desideri, Callicle oppone la convinzione che i cosiddetti temperanti sono in realtà gli individui più sprovveduti e infelici. Si tratta di un attacco davvero formidabile all’idea socratica di virtù: per Callicle, come per molti sofisti dell’epoca, la virtù di Socrate è adatta solo agli uomini deboli, ossia a coloro che non sono in grado di perseguire la vera felicità, ottenuta solo con il soddisfacimento pieno e continuo dei desideri, di qualsiasi tipo essi siano.

Scena di simposio, cratere a figure rosse, VI sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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3.1 L’otre forato: il flusso dei piaceri

La felicità per Socrate: l’autonomia dei desideri

Ovviamente Socrate tenta di rispondere a Callicle osservando che l’incessante soddisfacimento dei desideri non può produrre felicità perché è simile al riempimento di una botte forata, che richiede continuamente di essere riempita senza tuttavia raggiungere mai la totale pienezza. Invece, la felicità autentica dovrebbe consistere in uno stato di autonomia dai desideri esterni, simile alla condizione di una botte senza buchi, che non ha bisogno di essere continuamente riempita. Per Socrate l’uomo di Callicle è paragonabile al caradrio, un uccello talmente ingordo da mangiare mentre evacua. A un simile argomento il terribile Callicle replica però che la felicità socratica rischia davvero di assomigliare alla felicità che possono provare le pietre o i morti: egli, infatti, pensa alla felicità come a una condizione dinamica e non statica, poiché il piacere non può che derivare da un flusso continuo di beni. È indubbio che la risposta di Socrate presenti una certa analogia con quella che sarà la risposta di Platone: anch’egli sostiene che la superiorità dell’uomo virtuoso, ossia giusto, di fronte a quello vizioso e ingiusto, consiste in una certa quiete o autosufficienza dell’anima, cioè nel fatto che egli non ha bisogno di soddisfare continuamente bisogni determinati da una mancanza. Tuttavia è altrettanto vero che Platone potrà pervenire a questa conclusione solo al termine di un complesso processo argomentativo, nel quale subentra una nuova nozione di anima e viene introdotta l’idea che la virtù e la felicità individuali non possano prescindere dalla virtù e dalla felicità collettive, cioè della città.

PER SINTETIZZARE • Platone ha mai partecipato attivamente alla vita politica ateniese? In che modo ha espresso il suo interesse per il tema politico?

3.2 La giustizia come legge del più forte FILOSOFI A CONFRONTO

L’attacco di Callicle all’idea socratica di virtù viene ripreso e radicalizzato dal celebre sofista Trasimaco, personaggio che compare nel I libro del celebre dialogo, intitolato la Repubblica.

La sfida di Trasimaco: giustizia come utile del più forte

Eliminazione della componente morale della giustizia

Trasimaco arriva ad affermare che la giustizia non sia altro che l’utile del più forte, cioè di chiunque detenga il potere: chi possiede il potere (si tratti del più ricco o della maggioranza) può legiferare, ossia promulgare le leggi, e lo farà a proprio esclusivo vantaggio, con l’obiettivo di perpetuare il proprio potere. Gli altri cittadini si adeguano alle leggi e in questo senso si comportano secondo giustizia, ma non ne traggono alcun vantaggio; per Trasimaco, dunque, la giustizia è l’utile del potere costituito. È davvero difficile non essere colpiti dalla forza, ma per certi versi anche dall’attualità, delle posizioni esposte dal sofista. Si tratta di tesi che sembrano sviluppare in forma radicale un sentimento che doveva risultare abbastanza diffuso nei circoli intellettuali vicini alla sofistica. Con le sue affermazioni, Trasimaco mira a neutralizzare la componente morale della giustizia: essa non ha a che fare con il bene della collettività, ma solo con l’utile di chi detiene il potere. Inoltre, la tesi di Trasimaco può essere considerata alla stregua di una sorta di “teorema generale del potere”, perché prescinde del tutto dal tipo di governo, dal momento che pretende di essere valido per ogni forma costituzionale (la tirannide, l’aristocrazia e la democrazia). Per Callicle moderazione e giustizia non sono altro che ostacoli al conseguimento della felicità; per Trasimaco la giustizia non è altro che l’utile di chi detiene il potere e non ha nulla a che fare con il bene comune: è solo uno strumento (abilmente camuffato) attraverso il quale chi governa si prefigge di perpetuare il proprio dominio.

3. Platone

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L’ATTACCO DEI SOFISTI ALLA VIRTÙ E ALLA GIUSTIZIA ATTACCO ALLA VIRTÙ (CALLICLE)

ATTACCO ALLA GIUSTIZIA (TRASIMACO)

felicità = soddisfacimento completo del desiderio

l’uomo tende per natura a realizzare il proprio esclusivo vantaggio (utile)

i desideri altrui sono in conflitto con i nostri

solo chi ha il potere ha i mezzi per perseguire il proprio esclusivo vantaggio (utile)

necessità di sopraffare gli altri

i mezzi per perseguire il proprio vantaggio (utile) sono le leggi

conflitto tra felicità e virtù, che implica la moderazione dei desideri

chi detiene il potere, emanerà leggi a proprio vantaggio: la giustizia è l’utile del più forte

eliminazione del nesso tra felicità e virtù

L’impulso umano alla sopraffazione e il patto per arginarla

L’aldilà

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eliminazione della componente morale della giustizia

3.3 Le leggi, un patto tra deboli Sulla medesima linea si collocano le tesi esposte dai fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, nel II libro della Repubblica. Qui i sistemi giuridici, ossia gli insiemi delle leggi, vengono concepiti come il risultato di una sorta di patto, al quale gli uomini pervengono al fine di evitare la condizione di belligeranza permanente nella quale si trovano per natura. Ogni individuo è naturalmente portato a conseguire il massimo grado di benessere per se stesso a discapito degli altri: l’impulso naturale che lo anima è dunque quello della sopraffazione, che gli consente di soddisfare tutti i desideri, imponendosi sui suoi simili. Tuttavia, poiché anche gli altri individui sono mossi dal medesimo impulso, egli corre costantemente il rischio di essere sopraffatto, ossia di essere vittima altrui. La condizione ideale consisterebbe quindi nell’arrecare ingiustizia agli altri senza subirla a propria volta; ma il rischio più grande è naturalmente quello di essere vittima dell’ingiustizia degli altri senza potersi vendicare. Di qui l’esigenza di stabilire una sorta di patto che riduca al minimo questo rischio, e le leggi possono essere equiparate a una sorta di male minore, a metà strada tra la suprema felicità (data dall’attuazione dell’istinto a imporsi sugli altri) e la massima infelicità (prodotta dal subire ingiustizia). Le leggi saranno dunque osservate per il timore di una sopraffazione reciproca continua, che reca infelicità e danno: questa sarebbe l’origine della giustizia. Tuttavia, se gli uomini potessero praticare l’ingiustizia senza subirne le conseguenze (per esempio rendendosi invisibili), lo farebbero senza indugio, come dimostra il mito del pastore Gige, il quale, trovato un anello che ha il potere di renderlo invisibile, commette le peggiori scelleratezze, uccidendo il re, seducendone la moglie e impadronendosi del potere. La vita ingiusta è dunque preferibile a quella giusta, perché è la sola che possa garantire la felicità non solo in questo mondo, ma addirittura nell’aldilà. Infatti, chi attraverso l’ingiustizia ha acquisito cospicue ricchezze può, tramite i sacrifici, ingraziarsi gli dèi, garantendo-

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si in questo modo la felicità anche in un’eventuale vita ultraterrena. L’attacco alla virtù e alla giustizia è davvero formidabile e a Platone bisogna riconoscere il merito di avere esposto con grande obiettività e rigore le ragioni dei suoi avversari. La radicalità della sfida richiede un notevole impegno teorico, che Platone espone accuratamente nel grande dialogo dedicato al tema della giustizia, la Repubblica.

4. La giustizia nella pòlis: i filosofi-re La nascita della pòlis non a causa della paura, ma del bisogno

Consapevolezza dei bisogni e divisione del lavoro

Innanzitutto Platone intende rispondere direttamente alla tesi sofistica (probabilmente di Antifonte) relativa all’origine dello Stato, ossia dell’associazione tra gli uomini. Questi ultimi, secondo Platone, si riuniscono in società dandosi dei codici giuridici da rispettare (nei quali risiede la giustizia) non a causa della paura, bensì del bisogno. Gli individui acquistano cioè consapevolezza del fatto di non essere autosufficienti rispetto ai bisogni elementari, e si rendono conto che è più economico (in termini di tempo e più in generale di efficienza) se ciascuno svolge solo il mestiere per il quale è naturalmente portato, scambiando poi l’eccedenza del suo lavoro con quella prodotta dagli altri lavoratori. In questo modo il calzolaio produrrà più scarpe di quante ne occorrano a lui e alla sua famiglia e scambierà questa eccedenza con gli abiti preparati dal sarto, i cibi forniti dal contadino, la casa costruita dal muratore. Per Platone il nucleo primordiale di ogni società sorge nel momento in cui gli individui cominciano a dividersi i compiti fondamentali. Le prime figure professionali saranno quelle dell’agricoltore, del muratore, dell’operaio tessile e del calzolaio, i quali potranno soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo: nutrirsi, abitare e vestire. Anche i commercianti avranno un ruolo decisivo in questa città primitiva, dal momento che solo la loro esistenza consentirà di affrancare le altre figure dal compito di vendere i loro prodotti e renderà così più efficiente il sistema produttivo e distributivo. Così, coloro che, fisicamente meno dotati, sono inadatti a svolgere compiti più pesanti (contadino, muratore, e così via) saranno destinati al compito di vendere le mercanzie. In questo modo le risorse di ciascuno saranno impiegate al meglio, consentendo una produttività maggiore e migliorando conseguentemente le condizioni di vita dell’intera collettività.

L’ORIGINE DELLA PÒLIS bisogni umani (nutrimento, vestiario, riparo)

Il principio collaborativo alla base della giustizia

produzione dei beni per soddisfare i bisogni

NASCITA DELLA PÒLIS

Il principio in base al quale gli uomini si associano è dunque di natura collaborativa e non conflittuale: ci si riunisce in base a regole alle quali tutti devono conformarsi, non per paura ma per bisogno. Secondo Platone già a questo livello primordiale di organizzazione umana si può intravedere una traccia della giustizia: si tratta del fatto che ognuno svolge solo l’attività professionale per la quale è naturalmente portato. La divisione del lavoro costituisce una forma embrionale di giustizia perché fa in modo che le capacità di ogni individuo siano finalizzate al bene comune. Per Platone, tuttavia, la divisione dei compiti può costituire solo una traccia di giustizia poiché prescinde ancora da tre fattori fondamentali: 1. l’analisi dello sviluppo della città con la genesi di nuove figure professionali; 2. l’esigenza, costantemente avvertita da Platone, di stabilire un vincolo stretto tra virtù (e dunque giustizia e felicità) e sapere; 3. una nuova e rivoluzionaria concezione dell’anima. Vediamo nel dettaglio come vengono sviluppati questi tre temi.

3. Platone

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la divisione dei compiti facilita la produzione dei beni

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Le patologie del superfluo

T4

I militari, custodi della città

Il ruolo dei militari nella costruzione della città giusta

L’educazione: al primo livello ginnastica e musica ...

L’attacco alla poesia epica e tragica T1

... al livello superiore matematica e filosofia

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4.1 La degenerazione della pòlis Lo sviluppo della città originaria determina il sorgere di nuove figure sociali, assenti dalla prima organizzazione sociale. Alla città autosufficiente e frugale sopra descritta si sostituisce una città “gonfia di lusso”, in cui non si soddisfano più solo i bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, abitare), ma anche quelli superflui. Si assiste allora alla nascita di nuove figure professionali, come gli specialisti della cosmesi, i parrucchieri, gli artigiani di prodotti di lusso e di suppellettili per la casa, i cuochi e infine i medici, incaricati di curare le malattie provocate dai nuovi eccessi alimentari. Non è difficile vedere in questa descrizione un’allusione, neppure troppo velata, all’Atene del V secolo a.C., che agli occhi di Platone altro non è che una città “gonfia di lusso” e per questo profondamente malata (non bisogna dimenticare che nell’elenco delle nuove professioni Platone include anche i poeti, specialmente quelli tragici, emblema della vita culturale ateniese del V secolo a.C.). Con l’insorgere di nuovi bisogni si determina anche l’esigenza di allargare i confini del territorio cittadino, che appare ormai insufficiente a soddisfare le necessità nate nel passaggio dalla città primitiva a quella sfarzosa. Di qui la genesi di un’altra figura professionale, quella dei militari, il cui compito consiste sia nell’estendere il territorio cittadino, sia nel difendere quest’ultima dalle mire espansionistiche delle altre città. 4.2 La terapia: la paidèia Secondo Platone proprio partendo dalla figura professionale del militare, sorta al culmine della città lussuosa e malata, può iniziare il processo che conduce alla città perfetta, ossia alla città fondata sulla giustizia. In effetti, se i membri del ceto militare vengono sottoposti a un rigoroso processo educativo, che ne rafforzi le doti fisiche, morali e intellettuali, essi possono rappresentare il punto di svolta nella direzione della costruzione della kallìpolis, la città “bella e buona”. Il fondamento dell’educazione (paidèia) dei custodi o guardiani della comunità deve essere costituito secondo Platone dalla ginnastica e dalla musica, alle quali spetta il compito di irrobustire rispettivamente le qualità fisiche e quelle morali e intellettuali dei nostri guardiani. Platone fa riferimento qui soprattutto alla letteratura (che è parte della musica, poiché essa comprende al suo interno tanto il testo quanto il ritmo e l’armonia), proponendo un diverso modello di formazione letteraria, che si fonda sulla clamorosa messa al bando della poesia epica e di quella tragica, che erano state entrambe fondamentali nella tradizione culturale ed educativa dei greci. Queste vengono invece escluse dall’educazione dei futuri custodi, perché colpevoli, agli occhi di Platone, di fornire un’immagine falsa e pericolosa degli dèi, ai quali vengono attribuiti sentimenti (come l’invidia) e comportamenti (come l’inganno) tipicamente umani. Inoltre la tragedia, con le storie drammatiche e gli eventi tragici che racconta, rischia di provocare una vera e propria scissione dell’io (cioè dell’anima) dello spettatore, che si identifica con i personaggi della rappresentazione e come loro viene turbato e sconvolto. Platone si dimostra ancora una volta attento ai rischi che l’ingresso dell’irrazionalità e delle passioni provoca alla salute dell’anima, e particolarmente accorto nei confronti dell’educazione dei giovani, i quali non sono in grado di cogliere il senso nascosto (ammesso che ve ne sia uno) di queste storie tragiche. Essi possono essere sconvolti da queste rappresentazioni, perciò è necessario che ascoltino unicamente racconti che insegnino loro la virtù, e non i comportamenti moralmente riprovevoli e sconvenienti che l’epica e la tragedia tradizionalmente trasmettono. Secondo Platone la ginnastica e la musica (ormai depurata dalla poesia epica e da quella tragica) costituiscono solo il primo livello dell’educazione che bisogna trasmettere ai guardiani, occupando per così dire i gradini più bassi, quelli elementari, del programma educativo. Dopo gli insegnamenti di ginnastica e musica, i custodi devono essere avviati a un rigoroso percorso di studi matematici, composto dall’aritmetica, dalla geometria piana, dalla geometria solida, dall’astronomia, dall’armonia musicale e infine dalla filosofia (o dialettica). Solo così potrà emergere all’interno del ceto dei guardiani un gruppo di individui partico-

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larmente dotati dal punto di vista morale e intellettuale: i celebri filosofi-re, ai quali deve essere affidato il compito di governare le città. FILOSOFI A CONFRONTO

Come si vede, la paidèia, ossia l’educazione immaginata da Platone, risulta essenzialmente di natura matematica e non retorico-letteraria, e si oppone così a quella propagandata nello stesso periodo dall’oratore Isocrate, la cui scuola rappresenta una rivale e una concorrente dell’Accademia platonica.

L’EDUCAZIONE DEI FILOSOFI-RE PRIMO LIVELLO

SECONDO LIVELLO

TERZO LIVELLO

SELEZIONE FINALE

musica (depurata da poesia epica e tragica) e ginnastica

matematica (aritmetica, geometria piana, geometria solida, astronomia armonia musicale)

filosofia o dialettica

dal gruppo dei custodi si selezionano i filosofi-re (migliori per doti intellettuali e morali)

4.3 I filosofi-re Un progetto rivoluzionario

Platone si dimostra perfettamente consapevole della natura persino eversiva della sua proposta relativa al governo dei filosofi: egli ammette di rischiare addirittura di finire annegato, sommerso dall’onda di ridicolo e disprezzo che potrebbero scatenare le sue parole. Non per questo rinuncia tuttavia a esporre il suo progetto con grande chiarezza: «A meno che, dissi io, i filosofi non regnino nelle città, oppure quanti ora sono detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia (…) non vi sarà, caro Glaucone, sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del genere umano». Secondo Platone solo il governo dei filosofi, cioè degli individui intellettualmente e moralmente più dotati all’interno del gruppo dei custodi, può garantire, attraverso l’instaurazione della giustizia, la felicità dei cittadini, sia nella vita privata sia in quella pubblica.

I rischi del potere

Tuttavia, il nostro filosofo è ben consapevole dei rischi impliciti in ogni forma di potere. In particolare la brama di ricchezza gli appare come la principale fonte di pericoli per il benessere e la felicità collettivi. Del resto la stessa lezione del terribile Trasimaco andava esattamente in questa direzione: chi detiene il potere emana le leggi a proprio esclusivo vantaggio, con l’unico obiettivo di perpetuare il potere e consolidare la ricchezza. Per ovviare a questo genere di pericoli Platone arriva a stabilire il divieto per i governanti e per gli ausiliari (cioè i militari) di possedere qualsiasi forma di proprietà privata. Si tratta di un divieto che non concerne solo i beni materiali (casa, terreno e denaro), ma si estende addirittura agli affetti, ossia alla famiglia: governanti e custodi non potranno possedere né beni, né mogli, né figli, tutto dovrà essere messo in comune. Alle spese per il loro sostentamento provvederanno gli altri cittadini, cioè i produttori, ai quali è invece consentito il possesso di beni privati. La vita in comune che i governanti sono chiamati a condurre determinerà anche un rafforzamento dei vincoli di amicizia e solidarietà, garanzia di unità e coesione del gruppo dirigente, e grazie a esso anche dell’intera comunità politica.

4.4 L’abolizione della proprietà privata

Tutto in comune per il bene proprio e della comunità

3. Platone

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I rischi della proprietà privata

Gravi rischi correrebbero invece i governanti e i militari se fosse loro concesso di possedere delle proprietà: da amministratori disinteressati della città si trasformerebbero infatti in padroni avidi di ricchezze e gelosi dei propri beni, in continua ostilità verso i propri sudditi. Così, i dissidi interni finirebbero per esporre la città alle insidie dei nemici esterni, condannandola a scomparire sotto gli attacchi delle città rivali.

I RISCHI DELLA PROPRIETÀ PRIVATA I GOVERNANTI HANNO UNA FAMIGLIA E POSSIEDONO BENI PROPRI

essi avvertono l'esigenza di salvaguardare i propri interessi

diventano amministratori dei propri beni, trascurando quelli della città

conflitto dei governanti con i concittadini

indebolimento della città

la città è esposta agli attacchi esterni, dunque è a rischio la sua stessa sopravvivenza

“Mio” e “non mio”

Secondo Platone, invece, il benessere della città si ottiene quando i governanti e i militari perseguono tutti insieme un unico bene, quello collettivo, non potendo distinguere, all’interno della città stessa, la proprietà propria da quella altrui. In un celebre passo, Platone afferma che la città meglio governata è quella in cui la maggior parte delle persone dicono “mio” e “non mio” della stessa cosa e con la medesima considerazione: è importante, cioè, che i più abbiano in comune cose e persone, in modo che ciascuno non agisca per il proprio tornaconto personale, ma per il bene di tutti. Questo tipo di governo, assolutamente rivoluzionario, potrà essere garantito solo dai filosofi. Si è osservato come Platone fosse consapevole della natura paradossale della sua tesi relativa alla necessità del governo dei filosofi; in realtà, per poterla argomentare e comprendere compiutamente, occorre fare riferimento a un’altra celebre concezione platonica, quella relativa alla natura complessa e articolata dell’anima. Solo in questo modo risulterà più chiara la ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di guidare lo Stato.

PER SINTETIZZARE • In che modo secondo Platone sorgono e si sviluppano le città? • Che tipo di patto si stabilisce tra i cittadini che si danno un ordinamento sociale condiviso e leggi comuni?

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PER RIFLETTERE • In una recente intervista Bill Gates, genio dell’informatica e dell’imprenditoria, ha dichiarato che il mondo di oggi ha più bisogno di ingegneri che di filosofi. Se tu fossi un allievo di Platone, saresti d’accordo con questa affermazione? In che modo potresti eventualmente replicare?

5. L’anima e la giustizia FILOSOFI A CONFRONTO

Il corpo carcere dell’anima

Le passioni del corpo e i loro effetti

Ascetismo del corpo e virtù dell’anima

Platone eredita da Socrate e dai pitagorici l’idea che l’anima sia un’essenza unitaria e che in essa risieda la dimensione del valore e del bene per l’individuo. Nel Fedone Socrate riprende la formula di origine pitagorica secondo la quale il corpo (sòma) è il carcere (sèma) dell’anima e che il conseguimento della virtù deve passare attraverso l’annullamento delle esigenze e dei desideri corporei.

Al corpo, infatti, appartengono i desideri (del cibo, del sesso e del denaro), ma anche le paure e ogni forma di turbamento: le paure, soprattutto delle malattie, distolgono l’uomo dalla ricerca della virtù; lo stesso effetto è prodotto dalle passioni e dall’immaginazione, che ci coinvolge a tal punto da impedirci di soffermare la nostra mente su qualunque pensiero. Anche le guerre, secondo Platone, derivano in ultima istanza dai bisogni del corpo, perché il loro fine è l’acquisizione delle ricchezze, utili per migliorare il tenore di vita (si pensi alle critiche rivolte da Platone alla città opulenta, “gonfia di lusso”). Si tratta di veri e propri ostacoli alla conoscenza e al raggiungimento della virtù, che può essere ottenuta solo liberandosi dall’influenza nefasta del corpo, in modo che l’anima possa finalmente rivolgersi alle cose che veramente sono, alla vera realtà. Una simile posizione, con il rifiuto che essa comporta dell’elemento corporeo, finisce inevitabilmente per condurre a una concezione ascetica del conseguimento della virtù: solo nella sua assoluta purezza l’anima può acquisire la virtù e per farlo essa deve abbandonare totalmente le ragioni della corporeità, con i desideri e i turbamenti che porta con sé. FILOSOFI A CONFRONTO

Una posizione del genere è sostenuta dai pitagorici e quasi certamente anche da Socrate, il grande maestro di Platone.

5.1 La rivoluzione psicologica: l’anima scissa e conflittuale Lo studio dell’anima attraverso lo studio delle istanze del corpo

Il conflitto con se stessi risultato della scissione dell’anima

Platone espone una teoria tanto spettacolare quanto sconvolgente dal punto di vista della tradizione socratico-pitagorica, che sarà destinata a segnare il successivo corso del pensiero occidentale. Un’attenta analisi delle motivazioni che determinano l’agire umano lo conduce infatti a introdurre nel cuore dell’anima le istanze della corporeità: Platone osserva che, se l’anima è il motore delle nostre azioni, essa non può essere considerata come un’essenza unitaria, dal momento che appare spesso portatrice di esigenze tra loro opposte. Chi di noi non si è trovato, anche più di una volta, in una situazione di apparente conflitto con se stesso, magari desiderando in modo irrazionale qualcosa e contemporaneamente valutando (questa volta in modo razionale) i rischi che comporta il soddisfacimento di quel desiderio? La nostra anima ci fa desiderare qualcosa di piacevole (per esempio abbuffarci di patatine fritte), ma allo stesso tempo essa ci mette in guardia dai pericoli che la salute correrebbe se attuassimo questo proposito. Secondo Platone questa situazione di conflitto si spiega ipotizzando che nell’anima sono presenti elementi (che egli chiama “parti” o “specie”) diversi tra loro: l’uno irrazionale, che

3. Platone

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ci spinge a soddisfare desideri connessi al corpo (cibo, bevande e sesso); l’altro razionale e calcolativo, che ci induce a valutare le conseguenze del nostro comportamento. FILOSOFI A CONFRONTO

Questo significa che all’interno dell’anima è presente quell’elemento irrazionale che Socrate e i pitagorici attribuivano esclusivamente alla sfera corporea.

I desideri irrazionali riconducibili a fonti diverse

I tre centri motivazionali

L’analisi platonica opera poi un’ulteriore distinzione, anch’essa prodotta dall’osservazione delle motivazioni che determinano il comportamento umano. Platone osserva che non tutti i desideri irrazionali si possono ricondurre a una medesima fonte: infatti non tutti i desideri sono direttamente collegabili al corpo; ne esistono di altra natura, come per esempio quelli collegati al riconoscimento sociale, all’ambizione di gloria e di successo. Anche in questo caso il confronto con la nostra esperienza può esserci di aiuto per comprendere il pensiero di Platone: chi di noi non ha desiderato il riconoscimento sociale derivante, per esempio, dal successo in qualche disciplina sportiva? Per esemplificare questo genere di desideri, Platone menziona il caso degli eroi omerici, soprattutto del più valoroso di essi, il grande Achille, che in battaglia cerca gloria e riconoscimento. Si tratta anche in questo caso di pulsioni irrazionali, ma qualitativamente diverse da quelle legate al soddisfacimento degli istinti corporei. L’anima non è dunque unitaria, ma presenta al suo interno una struttura composta in cui si possono individuare tre elementi, ossia tre centri motivazionali: due irrazionali e uno razionale e calcolativo. Quello connesso ai desideri corporei viene chiamato “desiderante”; quello rivolto al riconoscimento sociale viene definito “impulsivo”, “animoso”, “volitivo” o anche “collerico”; l’elemento razionale, infine, è chiamato da Platone “elemento calcolativo”.

LA RIVOLUZIONE PSICOLOGICA PRIMA DISTINZIONE (Repubblica)

SECONDA DISTINZIONE (Repubblica)

anima

anima

elemento irrazionale: spinta al soddisfacimento dei bisogni

elemento razionale: valutazione delle conseguenze dei comportamenti (calcolo)

conflittualità

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elemento (irrazionale) desiderante: spinta al soddisfacimento dei desideri corporei

elemento (irrazionale) impulsivo: spinta all’ottenimento del riconoscimento sociale

elemento razionale: desiderio di conoscenza e di giustizia

conflittualità superabile

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La Biga alata raffigurata in un cammeo del I sec. d.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

5.2 Scontri e alleanze nell’anima: la biga alata Elemento irrazionale e impulsivo insieme contro elemento desiderante

Differenza tra elemento desiderante e impulsivo

Il mito della biga alata

La vita psichica di ogni individuo è dunque caratterizzata dal conflitto tra queste tre istanze. L’instaurarsi di una condizione virtuosa nell’anima è legata alla capacità dell’elemento razionale di imporsi sugli altri due. D’altra parte, Platone è perfettamente consapevole che la ragione è costantemente soggetta alle immani pressioni dei desideri e corre il rischio di soccombere; tuttavia essa può trovare un alleato nell’elemento irrazionale non desiderante, ossia nella parte impulsiva e collerica, che, se guidata dal principio razionale, è in grado di tenere a freno le istanze della parte inferiore. Platone è infatti convinto che l’elemento impulsivo e impetuoso possa essere persuaso dalla ragione e utilizzato da quest’ultima per le proprie finalità. La psicologia platonica assume dunque i caratteri di un sottile gioco di alleanze, che ha come posta in gioco l’acquisizione della virtù. La differente natura dei due principi irrazionali, quello desiderante e quello impulsivo, in rapporto alla ragione emerge chiaramente nella celebre immagine del carro alato e dei cavalli che lo conducono: attraverso tale immagine Platone si propone di esprimere in forma mitica la struttura tripartita dell’anima, narrandone il celebre viaggio nell’iperuranio. L’immagine mitica adottata da Platone per rappresentare l’anima umana è quella della biga alata, trainata da due cavalli, l’uno bianco, buono e docile, l’altro nero e malvagio. L’auriga (che rappresenta la parte razionale dell’anima) deve guidare la biga in modo da impedire al cavallo malvagio (ossia la parte desiderante dell’anima, legata ai bisogni del corpo) di predominare sull’altro, quello buono (la parte animosa, o impulsiva dell’anima). Tenendo a freno il cavallo malvagio, che trascinerebbe la biga verso il basso, l’auriga può compiere il viaggio nell’iperuranio (cioè nel cielo, dove stanno gli dèi). Questo racconto intende mostrare che l’anima può trattenere i desideri più ignobili, quelli irrazionali e corporei, ed elevarsi fino alla visione delle virtù della temperanza, della giustizia e della conoscenza.

3. Platone

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LA BIGA ALATA IMMAGINE

AURIGA

CAVALLO BIANCO

CAVALLO NERO

PARTE PSICHICA

razionale

impulsiva

desiderante

FUNZIONE CORRETTA

comando

alleanza

subordinazione

Tre tipologie caratteriali, tre diverse funzioni nello Stato

Il parallelismo tra anima e città

Le tre virtù: sapienza, coraggio e temperanza

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5.3 Il parallelismo tra anima e città Abbiamo già avuto modo di anticipare che la concezione dell’anima tripartita riveste un ruolo centrale nella teoria platonica dello Stato, ma ora è necessario approfondire la questione. Secondo Platone le anime di tutti gli uomini possiedono i tre centri motivazionali di cui si è detto, ma tendenzialmente nell’anima di ogni uomo c’è una parte che prende il sopravvento sulle altre due. Questo fa sì che quell’uomo possa essere considerato, a seconda dei casi, razionale, impetuoso o desiderante. Platone procede oltre e afferma che esiste una sostanziale corrispondenza tra la natura psichica degli individui e l’attività professionale che essi sono chiamati a svolgere all’interno dello Stato. Gli uomini nei quali domina la parte razionale dell’anima saranno quelli che avranno il compito di governare la città: essi, infatti, possiedono le qualità raziocinanti e calcolative, oltre a quelle morali, che li rendono capaci di agire nell’interesse di tutti gli altri cittadini, ossia dello Stato nel suo complesso. Gli uomini in cui domina l’anima impulsiva e collerica vengono identificati con i guerrieri veri e propri, cioè con coloro che avranno il compito di proteggere la città dai nemici esterni e di sedare eventuali rivolte interne (provenienti, per esempio, dal terzo gruppo). La stragrande maggioranza dei cittadini, infine, presenta un’anima dominata dalla parte desiderante; costoro sono per Platone i produttori (contadini, artigiani, commercianti), ossia coloro che sono incaricati di fornire i beni necessari alla sopravvivenza materiale dell’intera comunità. Come si vede, Platone ha istituito una sorta di parallelismo tra anima e città: entrambe presentano una struttura tripartita e la loro vita è caratterizzata da conflitti e alleanze. Infatti, come l’anima razionale può controllare i desideri della parte inferiore alleandosi con il principio volitivo e impetuoso, così i governanti (i filosofi-re) possono tenere a freno le pretese della maggioranza irrazionale dominata dai desideri peggiori, e riuscire così a guidare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini (non solo nel proprio), alleandosi con l’apparato militare. Allo scopo di rafforzare questa analogia tra microcosmo (l’anima) e macrocosmo (la città), Platone mette in evidenza un ulteriore parallelismo, consistente nel fatto che le virtù peculiari di ciascuna parte dell’anima sono le stesse dei gruppi sociali che corrispondono a queste parti. Così la virtù propria dell’anima razionale (e dei governanti filosofi) sarà la sapienza, ossia la conoscenza dei valori assoluti a cui si deve ispirare la pratica politica; la virtù della parte impetuosa (e dei militari) non potrà che essere il coraggio, cioè la capacità di sacrificarsi nell’interesse di tutta la città; infine, la virtù del principio desiderante (e del ceto produttivo) si identifica con la moderazione o temperanza, che è la capacità di tenere a freno e controllare gli istinti corporei. A differenza delle altre due virtù, quest’ultima appartiene in realtà a tutti i cittadini, sia pure in modo diverso: infatti, mentre nel caso dei produttori la moderazione consiste nel controllo dei desideri e nell’accettare il comando degli altri due gruppi, nel caso dei militari essa risiede nella capacità di obbedire agli ordini dei governanti, che a loro volta devono essere disponibili a prendere decisioni non nel proprio interesse bensì in quello della comunità.

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IL PARALLELISMO ANIMA-PÒLIS ANIMA

PARTE RAZIONALE

PARTE IMPULSIVA

PARTE DESIDERANTE

VIRTÙ

sapienza

coraggio

temperanza

CITTÀ GIUSTA

filosofi-re

militari

produttori

5.4 L’essenza della giustizia

Giustizia: ognuno svolge il proprio compito naturale

Rapporto gerarchico e armonico tra le parti

Questo lungo percorso attraverso la struttura dello Stato e dell’anima e attraverso le specifiche virtù delle loro parti conduce infine Platone a individuare l’essenza della giustizia, che è appunto l’obiettivo della nostra riflessione. La giustizia nell’anima sarà analoga alla giustizia nella città e consisterà nel principio in base al quale ciascuna parte (dell’anima e della città) svolge il compito per il quale è naturalmente portata. Così un’anima giusta sarà un’anima in cui governa la parte migliore, ossia quella razionale, e in cui il principio collerico si allea alla ragione, per tenere a bada le istanze provenienti dalla parte desiderante. Allo stesso modo una città sarà giusta se a governarla saranno i filosofi, se il ceto militare seguirà le indicazioni dei governanti e se i produttori accetteranno il comando che viene imposto nel loro stesso interesse. Da tutto ciò risulta chiaro che per Platone la giustizia – nell’anima come nella città – equivale a una sorta di rapporto gerarchico e armonico tra le parti, ossia a una condizione in cui ciascuna parte svolge la sua funzione naturale: si tratta della celebre formula del “fare le proprie cose”, cioè realizzare pienamente la virtù propria di ciascun elemento. FILOSOFI A CONFRONTO

La risposta ai sofisti su virtù, felicità e salute

A conclusione del suo ragionamento Platone può riprendere l’antica equivalenza socratica tra virtù e felicità, fondandola però su basi molto più solide e, in questo modo, rendendola immune dagli attacchi dei sofisti. A Callicle, il quale sosteneva che la felicità dell’uomo veramente libero consiste nel pieno soddisfacimento di tutti i desideri, Platone può ora rispondere che una simile condizione è in realtà quella in cui si trova chi è schiavo della parte peggiore di sé, ossia del principio desiderante.

Il tiranno rappresenta l’individuo dominato dalla ricerca spasmodica e mai soddisfatta dei piaceri; ma proprio per questo egli è schiavo di se stesso, cioè dei propri desideri: la sua anima è incurabilmente malata. Sana, e dunque felice, è invece l’anima di chi riesce a imporre il governo della parte migliore, ossia della ragione. Un discorso analogo vale naturalmente per lo Stato: sarà felice, perché sana e veramente libera, solo quella comunità in cui governeranno coloro che sono naturalmente portati a governare, ossia i filosofi-re; gli altri individui invece potranno essere veramente liberi solo adeguandosi alle indicazioni che provengono dai governanti.

3. Platone

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Sudditanza e costrizione

Aristocrazia del sapere

5.5 Libertà e sudditanza L’idea platonica di libertà non potrebbe risultare più lontana da quella implicita nella nostra sensibilità individualistica e democratica. Bisogna perciò concentrarsi sulle ragioni che spingono Platone a formulare una simile posizione: egli è convinto che l’obbedienza ai governanti non sia dannosa per i sudditi, bensì un vantaggio: facendosi guidare da chi è razionale e virtuoso (dunque migliore), essi garantiranno a se stessi la migliore condotta di vita possibile in relazione alla loro natura. Come si vede, quella platonica è un’idea aristocratica della legittimità al potere, ma non si tratta di un’aristocrazia della nascita, bensì del sapere. I filosofi sono chiamati a governare non perché appartengono a una stirpe di antica nobiltà, ma perché sono gli unici a possedere la conoscenza che consente di dirigere lo Stato nell’interesse di tutti e di portarlo così al conseguimento della giustizia e della felicità.

PER SINTETIZZARE • Perché è importante secondo Platone analizzare la struttura dell’anima umana per comprendere l’essenza della giustizia? • In che modo tale analisi si ripercuote sulla concezione della giustizia nella città?

5.6 Tra laicità e giudizio divino Giustizia = armonia = felicità

Le considerazioni svolte fin qui hanno dimostrato come Platone costruisca la propria risposta alla grande sfida riguardante la giustizia e la vita giusta secondo i sofisti. Egli riesce al termine di un lungo percorso teorico a dimostrare che la vita giusta è davvero preferibile a quella ingiusta, in quanto garantisce il raggiungimento della felicità individuale. Come si vede, siamo all’interno di una prospettiva strettamente laica, perché la preferibilità della virtù è garantita da ragioni interne alla vita dell’uomo: l’uomo giusto è felice perché la giustizia equivale all’armonia e alla salute dell’anima, e un’anima sana è anche un’anima felice. Tutto ciò non è però ancora sufficiente a garantire alla giustizia una vittoria incontrovertibile sull’ingiustizia; bisogna infatti procedere ulteriormente e chiarire che anche nella vita dell’aldilà il giusto riceverà premi meravigliosi mentre l’ingiusto è destinato a patire ogni sorta di castighi.

LA RISPOSTA AI SOFISTI: GIUSTIZIA E FELICITÀ GIUSTIZIA = «fare le proprie cose» ogni parte svolge la sua funzione naturale (sia nell’anima sia nella città)

armonia e salute (sia nell’anima sia nella città)

FELICITÀ (sia nell’anima sia nella città)

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L’immortalità dell’anima

Per sostenere quest’ultima tesi Platone deve ovviamente anche dimostrare che l’anima è immortale e sopravvive alla morte del corpo. FILOSOFI A CONFRONTO

Quello dell’immortalità dell’anima rappresenta un tema tipicamente socratico, derivato, come si è visto, dal cuore della tradizione pitagorica. Nei dialoghi platonici si trovano numerosi tentativi di argomentare in favore dell’immortalità dell’anima, anche se bisogna ammettere che non sempre questi tentativi appaiono veramente convincenti; in realtà è difficile stabilire se e in che misura Platone li considerasse davvero definitivi. Probabilmente ai suoi occhi le cosiddette prove in favore dell’immortalità dell’anima hanno l’obiettivo di persuadere e indirizzare verso comportamenti virtuosi più che quello di convincere razionalmente.

A questo proposito occorre tenere presente ciò che Platone afferma attraverso Socrate alla fine della lunga sezione del Fedone, dedicata ai premi e ai castighi che attendono le anime dopo la morte. Il filosofo spiega che sarebbe poco razionale pretendere che le cose stiano esattamente come sono descritte nel mito; tuttavia, credere che l’anima sia immortale è un rischio che vale la pena di correre, non perché si sia certi che le cose stiano effettivamente così, ma perché ritenerlo aiuta a conseguire la virtù.

6. Verità, conoscenza e discorso: le idee Il sapere dei filosofi

Funzione normativa e parametrica delle idee

La ragione per la quale i filosofi vengono investiti del compito di dirigere lo Stato risiede, come si è visto, nel loro sapere, ossia nel fatto che sono in possesso della sapienza; essi dispongono infatti di conoscenze eccezionali, ignote agli altri cittadini. Non si è ancora detto però in che cosa consista esattamente questo sapere. Che cosa conoscono veramente i filosofi che li rende adatti a governare le città? La risposta platonica a questo interrogativo è molto nota e viene di solito considerata una delle tesi più celebri e importanti del nostro pensatore. I filosofi conoscono i modelli perfetti e assoluti dei valori, che occorre mettere in pratica nella vita dello Stato; cioè essi conoscono le idee o forme. Solo se si conosce esattamente che cosa sia la giustizia si è poi in grado non solo di applicarla nella concreta attività politica, ma anche di stabilire se e in che misura un certo comportamento sia giusto. In quanto paradigmi le idee hanno una duplice funzione: 1. normativa, in quanto stabiliscono le norme assolute dell’agire morale e politico, fungendo quindi da guida dell’azione; 2. parametrica, in quanto costituiscono i parametri per la valutazione del valore di una certa azione, permettendo così di giudicare in modo corretto le azioni compiute. FILOSOFI A CONFRONTO

Come si ricorderà, i sofisti ponevano in dubbio l’esistenza di valori autenticamente universali; per loro infatti il giusto, il bello, il bene e persino il vero, risultavano nozioni di carattere relativo che potevano mutare di significato a seconda dei contesti, delle situazioni, dei luoghi e dei tempi in cui occorrevano. Ciò che è giusto in un certo momento, per una certa persona o in una certa città non lo è più in un altro momento o in un’altra città. Platone è consapevole della potenzialità dirompente che l’affermazione di un simile relativismo (morale ed epistemologico) contiene in sé e per questo avverte in modo pressante l’esigenza di stabilire in via definitiva la natura assoluta e non contrattabile dei valori.

3. Platone

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Distinguere la natura dei valori dalle loro immagini

Filosofi veri e falsi

Dall’idea del giusto alla sua applicazione nella vita della città

Definizione delle idee come vero essere

Unicità dell’idea, molteplicità delle cose che ne partecipano

Conoscenza certa e universale: un esempio matematico

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6.1 Il bello in sé come paradigma Se i sofisti, i retori, gli uomini politici dell’Atene del V secolo a.C. credono all’esistenza di molte cose belle, di molti comportamenti giusti e trascorrono il loro tempo a osservare questa molteplicità (nei tribunali, nei teatri, nelle riunioni di folla), il filosofo è invece colui che è davvero in grado di distinguere la natura unitaria del bello, del giusto e degli altri valori dalla molteplicità delle cose considerate belle e giuste. Le parole di Platone suonano attuali, perché sembrano alludere alla natura instabile e variegata del mondo dei mass media e dello spettacolo. È essenziale riconoscere che gli appassionati di spettacoli e gli esperti di tecniche e di attività pratiche si perdono nell’osservazione delle cose belle, e non considerano la natura vera del bello, la bellezza in sé: per questo essi sembrano sognare, più che vivere. Solo pochissimi uomini, i filosofi, riescono ad avvicinarsi alla bellezza in sé, all’idea del bello, distinguendola dalle molte cose belle che popolano il mondo: solo costoro sono davvero in grado di pensare, e sono come svegli, desti rispetto alla moltitudine che sogna. Il loro pensiero, che ha come oggetto la natura più autentica delle cose, le idee, è una conoscenza solidamente fondata, stabile, mentre la maggioranza delle persone ha semplicemente delle opinioni, per natura mutevoli e inaffidabili. Per Platone, dunque, la legittimazione al governo deriva ai filosofi dal possesso di un sapere speciale, rivolto a oggetti speciali, le idee appunto. In realtà, Platone non sostiene che i filosofi conoscano solo le idee, ma afferma che essi sanno distinguere le idee e le cose che di queste partecipano. Ciò significa che anche la conoscenza delle idee va messa in rapporto con la questione dell’applicazione pratica di questi modelli, ossia con il problema di come, una volta distinta l’idea del giusto dalle molte azioni giuste, l’idea del giusto possa trovare applicazione nella vita della città. 6.2 La natura delle idee Ma cosa sono queste famose idee? Si tratta di entità unitarie e indivisibili, fuori dal tempo, immobili, ingenerate e imperiture, non percepibili attraverso i sensi ma conoscibili con il solo pensiero: esse costituiscono la vera realtà, sono cioè il vero essere. Le cose sensibili, che secondo la maggior parte degli uomini rappresentano l’unica realtà esistente, costituiscono per Platone solo delle copie e delle immagini delle idee. Le idee sono invisibili, mentre le cose particolari sono visibili: questo significa che le idee non si possono percepire (con gli occhi o uno qualsiasi degli altri organi sensoriali); ciò non comporta, però, che esse risultino inconoscibili; infatti le idee sono visibili per mezzo di occhi particolari, quelli dell’anima e dell’intelletto. Nella stessa parola greca èidos (e anche idèa) è contenuto un riferimento alla visibilità (i due termini infatti significano “aspetto”, “forma”); si tratta, per Platone, di una visibilità intellettuale e non fisica. Le idee sono essenze unitarie e indivisibili; quindi significa che, mentre esistono molte cose belle, esiste una sola idea del bello, che rimane sempre identica a se stessa, a differenza delle molte cose belle, che possono diventare brutte. Quando Platone afferma che solo le idee sono veramente, mentre le cose particolari sono e non sono, egli intende sostenere che le idee sono interamente ciò che sono, mentre le molte cose sensibili possono essere un determinato carattere, ma anche non esserlo: l’idea del bello è in se stessa bella, le molte cose belle sono e non sono belle. 6.3 Perché le idee? Per comprendere meglio il significato della teoria delle idee è utile indicare due delle ragioni che hanno indotto Platone a postulare la loro esistenza. La prima ragione è relativa all’epistemologia, è legata cioè al tema della conoscenza. Platone parte dalla constatazione che esista una conoscenza certa e universale, e l’esempio più evidente gli viene fornito dalle discipline matematiche: noi sappiamo che una proposizione come «la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è uguale a 180°» è universalmente vera. Proprio per essere tale, tuttavia, una simile conoscenza non può rivolgersi a nessuno dei mol-

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La predicazione presuppone l’esistenza dell’idea del predicato

ti triangoli empirici, quelli cioè che disegniamo sulla lavagna o su un foglio di carta; nessuno di essi possiede i caratteri di perfezione richiesti dalla definizione appena riportata. Ciò significa che quando sosteniamo che gli angoli di un triangolo equivalgono alla somma di due angoli retti (180°), ci riferiamo in realtà a un triangolo ideale, un triangolo perfetto che realizzi completamente l’essenza dell’essere triangolo, che consiste appunto nel possedere angoli interni la cui somma sia uguale a 180°. Le cose sensibili sono per Platone mutevoli e instabili; questa è la ragione per la quale intorno a esse non può esserci una vera e propria conoscenza, appunto perché mutano costantemente e non possono essere fissate da una proposizione con valore universale. La conoscenza deve invece rivolgersi a entità stabili, sottratte al flusso delle cose sensibili: le idee (immobili, ingenerate, incorruttibili ed eterne) costituiscono appunto le realtà alle quali si rivolge il sapere scientifico. La seconda ragione ha a che fare con la semantica, ossia con la questione del significato dei nomi che utilizziamo. Quando assegniamo uno stesso predicato – per esempio “bello” – a molte cose, dicendo che una certa ragazza o una statua è bella, ci serviamo del predicato nominale “bello” assegnandogli implicitamente lo stesso significato. Per Platone ciò è possibile solo ipotizzando l’esistenza di qualcosa che è bello in se stesso, di qualcosa cioè che corrisponde al significato del predicato “bello”: questo qualcosa è esattamente il bello in sé, ossia l’idea del bello.

IDEE E MONDO SENSIBILE IDEE

COPIE SENSIBILI

• invisibili • incorporee • ingenerate • immutabili • fuori dal tempo

• visibili • corporee • generate • mutevoli • nel tempo

oggetti stabili = conoscenza certa e universale (verità) = scienza

oggetti instabili = conoscenza incerta (verosimiglianza) = opinione

6.4 Il bello in sé: l’ascesa erotica Nell’idea del bello la bellezza in se stessa

Dal bel corpo all’idea del bello

Per Platone l’unica realtà assolutamente bella è l’idea del bello perché, mentre le altre cose (un corpo o un discorso) sono belle in forma derivata, il bello in sé è bello in forma originaria. Inoltre, le altre cose possono risultare belle in quanto partecipano dell’idea del bello, e dunque possiedono la bellezza; viceversa il bello in sé non partecipa della bellezza, ma risulta in qualche modo identico a essa: nell’idea del bello la bellezza non si trova più in qualcos’altro, bensì in se stessa, come risulta dalla celebre concezione dell’ascesa erotica esposta dalla sacerdotessa Diotima nel Simposio. Diotima afferma di voler iniziare Socrate (che come di consueto è il personaggio principale del dialogo) ai misteri d’amore: ella gli indicherà un percorso di ascensione, di elevazione dell’anima umana, che inizialmente ama cose più indegne, ma può imparare a rivolgere il suo amore verso oggetti più nobili.

3. Platone

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L’amore di cui parla Diotima è quello per il bello, che sorge spontaneamente nell’uomo in giovane età, ed è rivolto all’inizio alla bellezza corporea. L’ascesa inizia con la scoperta che tutti i corpi belli sono accomunati da un’identica bellezza e che questi suscitano una passione che deve essere tenuta a freno (di nuovo Platone insiste sulla necessità di moderare l’elemento irrazionale umano). Secondo Diotima, esperta d’amore, per evitare la dissolutezza, è opportuno che la passione suscitata dalla bellezza dei corpi sia convogliata dapprima interamente verso un unico corpo bello. In seguito, si apprenderà ad apprezzare maggiormente la bellezza delle anime rispetto a quella dei corpi, e di conseguenza quella dei ragionamenti ben condotti; è un cammino, questo, che conduce progressivamente a scorgere la bellezza in cose sempre più elevate e più nobili: nelle istituzioni, nelle leggi e infine nelle scienze. Al culmine di questo percorso l’uomo sarà quindi in grado di cogliere la bellezza in sé, quella che rimane sempre identica a se stessa, in virtù della quale tutte le cose belle si dicono tali, e a coltivare quella scienza del bello che non si aggrappa a cose concrete, mutevoli, che sono a volte belle, a volte brutte, ma che ha come proprio oggetto la bellezza in sé. Per Platone, dunque, la stessa bellezza corporea, percepita dai sensi, rappresenta un primo passo in direzione della conoscenza dell’idea del bello; questa ascesa rappresenta dunque esemplarmente il modo con cui è possibile conoscere il mondo delle idee.

PER SINTETIZZARE • Che tipo di esigenze ha condotto Platone a postulare l’esistenza del mondo delle idee? • Che ruolo gioca la sensazione nella conoscenza delle idee?

6.5 La partecipazione del sensibile alle idee Partecipazione e causalità

Il ruolo della sensazione nella conoscenza delle idee

Le nozioni a priori

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Dalle precedenti considerazioni possiamo ricavare una tesi fondamentale della filosofia platonica: le molte cose belle sono tali in virtù della partecipazione all’idea del bello. Questo significa che l’idea del bello, come tutte le altre idee, esercita un ruolo causale nei confronti delle molte cose che partecipano di essa, perché risulta in qualche modo causa del fatto che esse possiedono una determinata proprietà. Non è facile tuttavia precisare in che senso le idee siano cause delle altre cose, anche perché Platone non lo dice con chiarezza. Si potrebbe ritenere che esse siano cause logiche, cioè che rivestano il ruolo di spiegazioni delle cose: le singole cose belle sono belle in quanto la conoscenza dell’idea del bello ci consente di riconoscerle come belle, cioè di scorgere in esse quella determinata qualità. Ma si potrebbe anche sostenere che le idee siano cause perché producono effettivamente nelle cose sensibili quella data proprietà che hanno in comune con esse: in questo caso l’idea del bello sarebbe in qualche modo presente nelle cose belle, causando in loro il possesso della proprietà della bellezza. La questione va comunque lasciata aperta, anche perché Platone potrebbe avere inteso la causalità delle idee in entrambi i modi menzionati.

6.6 La reminiscenza Secondo Platone la conoscenza che noi abbiamo delle idee è di natura intellettuale e non sensibile; tuttavia, egli sembra riconoscere che anche la sensazione possa giocare un ruolo significativo nel processo che conduce alla conoscenza delle idee. Infatti, essa può risvegliare in noi una conoscenza sopita, ma in qualche modo presente nella nostra anima: quando percepiamo due oggetti che crediamo uguali – osserva Platone – acquisiamo la nozione di uguaglianza. Quest’ultima, tuttavia, non può derivarci dalla percezione di due cose uguali appartenenti al mondo sensibile, per la semplice ragione che in questo mondo non esistono casi di uguaglianza perfetta. Secondo Platone, noi tendiamo a considerare uguali due realtà sensibili solo perché possediamo già una nozione di uguaglianza, che non può derivare dall’esperienza sensibile. La nozione di uguaglianza è una nozione a priori, ossia indipendente dall’esperienza e a es-

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Le tre Grazie, pittura murale, da Pompei, I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La conoscenza è reminiscenza T7

sa anteriore. Per spiegare come essa sia presente in noi, Platone sostiene, in forma mitica, che la nostra anima prima di incarnarsi in un corpo abbia visto (cioè conosciuto) il mondo delle idee, e dunque anche l’idea dell’uguale. Questa conoscenza si è poi sopita nel corso della vita, anche se essa può venire risvegliata dall’esperienza di casi di uguaglianza riscontrabili nelle cose sensibili; questi casi non possono essere perfetti, ma risvegliano in noi il ricordo della vera uguaglianza, quella ideale. Così per Platone ciò che comunemente si ritiene una conoscenza non è altro che il ricordo o la reminiscenza di qualcosa che noi possediamo già da sempre, sia pure in modo inconsapevole: ecco quindi spiegata la celebre tesi secondo la quale la conoscenza è reminiscenza.

6.7 Dialettica e matematica a confronto

Metodo ipotetico della matematica: dalle ipotesi alle conclusioni

La conoscenza relativa alle idee, ossia la dialettica, costituisce per Platone la forma suprema di conoscenza. Essa presenta analogie con la matematica, dalla quale però si differenzia perché la razionalità matematica ha un andamento discorsivo (viene infatti chiamata diànoia, ossia “pensiero discorsivo”); la dialettica ha invece una natura intuitiva e noetica (solitamente viene indicata con il termine nòesis, cioè “intuizione intellettiva”). Ciò significa che vi sono due caratteristiche essenziali che distinguono il sapere matematico-dianoetico da quello filosofico-dialettico. Il sapere matematico si avvale infatti di: 1. un metodo ipotetico, cioè parte da ipotesi assunte come evidenti, e ne indaga le conseguenze; 2. dell’utilizzo di figure sensibili. Analizziamo ora la prima differenza. La matematica è una disciplina ipotetica perché, spiega Platone, i matematici partono da ipotesi ammesse come evidenti (ossia i principi, i postulati, gli assiomi), e da esse deducono una serie di conseguenze (cioè i teoremi), che sono coerenti con le ipotesi poste all’inizio e proprio per questo da esse dipendenti. Ciò significa che tali conseguenze non possono essere considerate vere in assoluto, ma sola-

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Metodo non ipotetico della dialettica: dalle ipotesi al principio assoluto

Uso di figure sensibili nella matematica, di idee nella dialettica

Il segmento

L’epistemologia dipende dall’ontologia

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mente nel caso in cui le ipotesi iniziali siano vere. Il matematico tuttavia, secondo Platone, non si preoccupa di stabilire se le ipotesi siano vere, ma si limita a servirsene, una volta che esse risultano evidenti e dunque accettate: per questo il sapere matematico non si può considerare una conoscenza nel senso autentico del termine (visto che non è certo di cogliere la verità). Il dialettico, invece, risale al di là delle ipotesi verso un principio non ipotetico, che dovrebbe garantire la verità delle ipotesi di cui di volta in volta si serve. Anch’egli parte da ipotesi ma, a differenza del matematico, non le considera come dei principi indimostrabili, bensì tenta di risalire al di sopra di esse, fino a raggiungere il principio non ipotetico, che, come si vedrà, è rappresentato dall’idea del bene. La differenza tra il filosofo e il matematico concerne quindi la direzione stessa del ragionamento messo in atto: entrambi partono dallo stesso punto (le ipotesi), ma il dialettico risale verso l’alto, ossia verso un’ipotesi superiore e non si ferma finché non ha raggiunto il principio assoluto, non più ipotetico; il matematico, invece, muove verso il basso e si limita a dedurre le conseguenze che derivano dalle ipotesi ammesse, senza preoccuparsi della verità delle stesse. Passiamo ora a esaminare la seconda differenza. Questa consiste nel fatto che i matematici, e specialmente gli studiosi di geometria, si servono nelle loro dimostrazioni di figure sensibili. Essi, per dimostrare un certo teorema, ricorrono a delle vere e proprie costruzioni (prolungano un lato, costruiscono una figura a partire da un’altra e così via) e con ciò dimostrano di appartenere alla dimensione sensibile. Viceversa il dialettico opera basandosi unicamente sulle idee, stabilendo tra esse relazioni di dipendenza, di inclusione ed esclusione, senza mai ricorrere alle immagini. Il dialettico lavora infatti sulle idee, che hanno una natura non sensibile ma intelligibile, rispetto alla quale la sensazione non ci è di alcun aiuto. Il sapere dialettico è inoltre più perfetto e adeguato di quello matematico, perché non assume nulla come vero, ma procede mediante l’intuizione noetica nell’indagine delle verità, che sono alla base di ogni altra conoscenza.

6.8 I quattro gradi della conoscenza Secondo Platone l’intero universo della conoscenza presenta una simmetria rigida con il mondo dell’essere, perché a ogni forma di conoscenza corrisponde un ben determinato tipo di oggetti. Egli immagina di collocare lungo un segmento le quattro forme cognitive alle quali l’uomo ha accesso, e spiega come ciascuna di queste forme si rivolga a uno specifico genere di oggetti. In primo luogo divide il segmento in due parti, la prima corrispondente alla conoscenza intelligibile (la conoscenza vera e propria), la seconda a quella sensibile (una conoscenza di tipo inferiore, che appartiene all’ambito dell’opinione). Poi opera un’ulteriore partizione, spiegando che la prima sezione del segmento, quello della conoscenza intelligibile, si divide a sua volta in due parti: la prima che corrisponde alla conoscenza dialettica, che si rivolge alle idee; la seconda a quella matematica, che ha per oggetto le entità matematiche (numeri e figure). Anche la seconda sezione, quella della conoscenza sensibile, presenta due parti: nella prima si trova la credenza, i cui oggetti sono costituiti dalle cose sensibili; nella seconda si colloca l’immaginazione, che dovrebbe rivolgersi alle copie degli oggetti sensibili, dunque, molto probabilmente, ai prodotti artistici, che sono appunto imitazioni delle cose sensibili. In generale, nella parte inferiore del segmento si trovano forme di conoscenza che appartengono alla opinione (dòxa), mentre nella parte superiore si collocano le conoscenze vere e proprie (ragionamento matematico e sapere dialettico). Il punto veramente importante di questo schema consiste nella convinzione, tipicamente platonica, che l’epistemologia, cioè il tipo di conoscenza, dipenda dall’ontologia, ossia dalla natura degli oggetti ai quali essa si rivolge. Mentre noi siamo abituati a pensare che dello stesso oggetto si possano avere diverse forme di conoscenza (a seconda del metodo con il quale questo oggetto viene studiato), per Platone, a un livello generale, se ci sono due

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conoscenze diverse (per esempio l’una opinabile, l’altra scientifica), la causa risiede essenzialmente nel fatto che esse si rivolgono a due generi di oggetti differenti: nel nostro caso, rispettivamente, agli oggetti sensibili e alle idee. Riassumendo: la prima metà del segmento è quella della conoscenza intelligibile o pensiero (che verte sull’essenza delle cose), articolata in dialettica e matematica; la seconda metà è quella dell’opinione (che verte sul divenire), articolata in credenza e immaginazione. Proviamo a rendere il tutto ancora più esplicito con il seguente schema.

MODALITÀ E GRADI DELLA CONOSCENZA segmento della conoscenza CONOSCENZA

intellezione

opinione

GRADI DI CONOSCENZA

dialettica

matematica

credenza

immaginazione

OGGETTI

idee

enti matematici

oggetti naturali

manufatti artistici

ONTOLOGIA

mondo soprasensibile, essere

mondo sensibile, divenire

6.9 L’idea del buono

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L’idea del buono è la suprema categoria etica

L’idea del buono attiva le potenzialità conoscitive dell’individuo

Nel corso di queste pagine si è spiegato a più riprese che il sapere dei filosofi è innanzitutto rivolto alle idee e che dal possesso di questo sapere dipende il loro diritto a governare lo Stato nell’interesse di tutti i cittadini. In verità, secondo Platone, a legittimare i filosofi a dirigere lo Stato è soprattutto la conoscenza di un’idea particolare, l’idea del buono (o del bene), che rappresenta il vertice dell’intero mondo delle idee. Il possesso di tutte le altre conoscenze, e in particolare il possesso delle virtù (giustizia, coraggio e così via), acquista rilevanza solo se viene messo in rapporto alla conoscenza dell’idea del buono. Quest’ultima è infatti in grado di rendere utili, ossia applicabili, tutte le altre forme di virtù e conoscenza. In questo senso il buono costituisce la suprema categoria pratica perché rappresenta il criterio in base al quale i filosofi devono prendere le decisioni per l’intera comunità dei cittadini. Inoltre il buono è il vero fine dell’azione, perché ogni attività mira al bene, si pone cioè l’obiettivo di realizzare qualcosa che viene considerato come un bene, che però non sia apparente, ma reale. L’importanza dell’idea del buono non è solo di natura etica: la stessa conoscenza delle idee è resa possibile dalla presenza dell’idea del buono. Quest’ultima si comporta nell’ambito del mondo intelligibile come il sole all’interno del mondo sensibile: la presenza del sole, che è causa della luce, consente ai colori di essere visti e di essere percepiti dai nostri occhi; allo stesso modo agisce il buono, che rende conoscibili le idee e permette alla nostra anima di conoscerle. Questo significa che l’idea del buono attiva la nostra potenzialità conoscitiva, induce cioè la nostra anima a rivolgersi verso il mondo delle idee; ed essa è dunque causa di conoscenza e verità, ma non solo. Come il sole è la causa della generazione delle cose sensibili, ma non si identifica con la generazione, il buono è la causa dell’essere delle idee, ma non si identifica con l’essere: in realtà lo trascende, ossia si colloca al di là di esso. Dunque, l’idea del buono è anche causa dell’essere, ossia causa ontologica. Quest’ultimo punto rappresenta uno dei nodi teorici più complessi e irti di difficoltà dell’intera filosofia platonica. Intorno al suo significato si scontravano già gli interpreti antichi, e ancora oggi esso è oggetto di continue dispute tra gli studiosi.

3. Platone

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Platone vuole probabilmente affermare che le stesse idee – che sono entità eterne, ingenerate e incorruttibili, perfette e identiche a sé – prevedono un principio, che risulta a esse in qualche modo superiore. Si tratta però di una sorta di primus inter pares: da una parte il buono appartiene all’universo ontologico, in quanto è esso stesso un’idea (sia pure un’idea particolare); dall’altra, invece, esso è superiore alle altre idee, probabilmente perché non presenta una struttura simile a quella di una normale idea. Il punto è che a questo livello teorico, cioè al vertice della filosofia platonica, sembrano coesistere elementi in parte contraddittori; ciò dipende dalla natura stessa di un principio – l’idea del buono appunto – che ha una funzione etica e ontologica: in quanto principio etico, cioè di valore, esso si colloca al di là dell’esistente, perché deve rappresentare un fine non ancora realizzato; in quanto principio ontologico, invece, esso appartiene all’essere, perché non può risultare causa di qualcosa con cui non ha alcun rapporto.

PER SINTETIZZARE • Qual è, per Platone, la suprema forma di conoscenza? Quali analogie e differenze presenta con la matematica?

7. Dialettica, idee, principi Gli ultimi dialoghi: i rapporti tra idee

Parmenide, Sofista, Politico, Filebo

L’esame della contraddittorietà delle idee

I predicati opposti

Le idee partecipano delle idee: il simile è dissimile, l’uno è molteplice

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I dialoghi successivi alla Repubblica sembrano indicare un certo spostamento di prospettiva teorica da parte di Platone; in particolare assume una rilevanza sempre maggiore la questione dei rapporti tra le idee. Gli scritti composti nella fase centrale della sua vita (Fedone, Simposio, Repubblica) trattano spesso della relazione tra le idee intelligibili e le cose sensibili, sostenendo che queste ultime partecipano delle idee, oppure che ne sono copie, immagini o manifestazioni spazio-temporali. In molti dei dialoghi composti da Platone negli ultimi tre decenni di vita (soprattutto Parmenide, Sofista, Politico e Filebo) il problema del rapporto tra idee e cose particolari, pur non scomparendo, perde leggermente di importanza e viene affiancato e talora sostituito dalla questione di come le idee entrino in relazione fra loro. Nell’ultimo periodo Platone sembra interessato soprattutto al fatto che la contraddizione (che in una prima fase della sua elaborazione era relegata all’ambito delle cose sensibili, ma rispetto a cui le idee apparivano immuni) si insinua nel cuore stesso dell’essere, cioè del mondo delle idee. Si è visto che le cose sensibili presentano una natura contraddittoria, in quanto ciascuna di esse è, e contemporaneamente non è: Elena, che è la causa del conflitto tra achei e troiani, è bella in rapporto a una comune donna, ma brutta nei confronti di una dea; viceversa, le idee dovrebbero risultare immuni da questa natura contraddittoria. A un esame più accurato, tuttavia, anche le idee presentano al loro interno una struttura contraddittoria, perché anch’esse possono possedere predicati opposti: l’idea del simile, per esempio, è anche dissimile, appunto perché è dissimile da altre entità (per esempio, dall’idea del bello o dall’idea dell’uguale). Un altro esempio: l’idea dell’uno è anche molteplice, dal momento che ammette più di una caratteristica (per esempio, oltre all’unità, l’esistenza) così come l’idea del molteplice è unitaria, appunto in quanto essa è una singola idea. Secondo Platone l’esistenza di una pluralità di determinazioni all’interno di ciascuna idea si spiega grazie alla concezione della interrelazione tra le idee: non solo i sensibili partecipano delle idee, ma anche queste ultime hanno rapporti di partecipazione reciproca. In questo modo si spiega perché l’idea del simile sia anche dissimile: essa ricava infatti il possesso di questa proprietà dalla partecipazione all’idea della dissomiglianza, che la rende dissimile dalle altre idee; analogamente l’idea dell’uno ha molteplici determinazioni perché partecipa dell’idea del molteplice. Quindi: per Platone a partecipare delle idee non sono solamente le cose sensibili ma le idee stesse.

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La contraddittorietà: dalle cose alle idee

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Nel Parmenide Platone si riferisce a questa scoperta come a una specie di “prodigio” teorico: il mondo delle idee, intese come modelli, paradigmi, di tutte le cose sensibili, dovrebbe metterci al riparo dalla contraddittorietà: invece quest’ultima si estende anche al mondo delle idee, ed è proprio su questo aspetto che bisogna lavorare per comprendere la vera natura della realtà. Se il principio della partecipazione viene esteso anche alle idee ed esse si relazionano le une alle altre in un complesso intreccio di rapporti, sarà compito del dialettico ricostruirli. In effetti, nei dialoghi posteriori alla Repubblica, non a caso chiamati spesso “dialettici”, il tema della dialettica come studio delle relazioni interne al mondo delle idee acquista una rilevanza assolutamente centrale.

LA CONTRADDITTORIETÀ: DALLE COSE ALLE IDEE Fedone, Simposio, Repubblica

bellezza

bruttezza

mondo delle idee mondo sensibile

Elena di Troia

CONTRADDIZIONE

Parmenide, Sofista, Politico, Filebo simile

dissimile

è il simile in sé, l’essenza stessa della somiglianza

CONTRADDIZIONE

è dissimile rispetto a tutte le altre idee

3. Platone

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mondo delle idee

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Allegoria della Dialettica, pagina miniata dal De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, XV sec.

Inclusione ed esclusione reciproca: idee che comunicano e idee che non comunicano

Lo studio della natura attraverso il quadro teorico della dialettica

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7.1 La dialettica come sintassi ideale Se si accetta l’assunto secondo il quale le idee comunicano tra di loro, risulterà inevitabile concepire la dialettica – che è la scienza delle idee – come una sorta di sintassi ideale, ossia come un’indagine relativa ai rapporti di inclusione ed esclusione reciproca tra le idee. Platone si chiede, infatti, quali idee comunichino tra loro e quali invece non possano comunicare; egli osserva, per esempio, che l’idea di uomo può partecipare dell’idea di camminare, mentre non può avere rapporti di comunicazione positiva con l’idea di volare. La proposizione «Socrate vola» è falsa, prima ancora che per la sua evidente falsità empirica, perché l’idea di uomo (di cui Socrate costituisce una manifestazione) è logicamente inconciliabile con quella del volare, appunto a causa dell’assoluta assenza di una relazione di partecipazione tra le due. Si direbbe che lo studio dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee rappresenti una sorta di analisi delle condizioni necessarie (ma non sufficienti) della verità delle asserzioni empiriche: prima ancora di stabilire se Socrate stia camminando oppure stia volando, occorre essere in grado di valutare se le idee in questione possano o meno comunicare tra di loro. L’eventuale comunicazione rappresenta la condizione necessaria (ma non sufficiente) della verità della frase «Socrate cammina»: per confermarne la verità bisogna darne prova empirica, valutando se effettivamente l’uomo chiamato Socrate stia camminando; l’assenza di comunicazione tra le corrispettive idee, invece, è già in se stessa condizione necessaria e sufficiente della falsità dell’affermazione «Socrate vola». 7.2 Generi e specie, divisione e ricomposizione L’indagine delle relazioni di inclusione ed esclusione tra le idee riveste una notevole importanza nello studio delle realtà naturali, perché permette di stabilire i rapporti tra generi e specie, fornendo così il quadro teorico generale per la conoscenza della natura. Platone e i suoi allievi dedicano grande attenzione alle divisioni interne dei singoli generi, ossia a come un genere (per esempio animale) si divide nelle sue specie (per esempio vertebrati e invertebrati), e al contrario all’appartenenza di una specie a un certo genere (per esempio uo-

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mo ad animale). Si tratta nel primo caso del metodo della diàiresis, cioè della divisione del genere nelle sue specie, e, nel secondo, del metodo della sy`nthesis, ossia della riconduzione della specie al proprio genere di appartenenza, che ottengono un grande successo nella scuola di Platone e poi in quella aristotelica. Secondo Platone la dialettica fornisce, dunque, il quadro teorico di riferimento alle ricerche particolari. La meticolosità di queste ricerche ha suscitato la sarcastica reazione degli avversari di Platone; basti pensare che il comico Epicrate (in Ateneo, Deipnosofisti, 2,59 D-F) si diverte in un suo racconto a dileggiare perfidamente Platone e dei suoi allievi, che vengono rappresentati nel momento della massima concentrazione, tutti presi dalla formulazione della definizione della pianta della zucca, mentre si scervellano nel tentativo di ricostruire il genere cui apparterrebbe l’innocuo ortaggio, fra l’imbarazzo e lo scherno di coloro che assistono all’incredibile scena.

7.3 I cinque generi sommi I generi sommi: le idee presenti in tutte le idee

Essere, identico e diverso

Moto e quiete

I generi sommi come le vocali

Lo studio sistematico dei rapporti di partecipazione reciproca tra le idee conduce poi Platone a individuare alcune idee delle quali tutte le altre partecipano: si tratta di idee generalissime, che sono presenti in tutte le idee, oltre che nelle cose sensibili. In virtù di questa loro generalità, le idee in questione sono chiamate “generi sommi” e il ragionamento attraverso il quale Platone perviene a isolare queste idee, sebbene abbastanza complesso e tortuoso, può essere riassunto nei seguenti termini: 1. ogni idea, per il fatto stesso di essere (cioè di esistere e di essere quella determinata idea), deve partecipare del genere dell’“essere”; 2. essa, in quanto è identica a se stessa, deve partecipare anche del genere dell’“identico”; 3. dal momento che essa è anche diversa da tutte le altre idee, ha un rapporto di partecipazione con il diverso, cioè con l’idea della “diversità”. Dunque essere, identico e diverso costituiscono i primi tre generi sommi isolati. Differente il caso delle idee di moto e quiete, o immobilità: esse sono meno inclusive perché, se una cosa partecipa del moto non può contemporaneamente partecipare anche dell’immobilità, e viceversa; inoltre, moto e immobilità, a differenza di essere, identico e diverso, non possono ammettere una partecipazione reciproca. Platone arriva dunque ad ammettere cinque idee generalissime (i “generi sommi”): le prime tre assolutamente universali, ossia l’essere, l’identico e il diverso; le altre due, il moto e la quiete, dotate di un grado di universalità minore. La funzione di queste idee somme (e in particolare delle prime tre) è equiparata da alcuni studiosi a quella esercitata nelle nostre lingue dalle vocali, che sono presenti in tutte le parole: come le vocali, anche i generi sommi sono presenti dappertutto e regolano la trama dei rapporti interni al mondo delle idee.

7.4 Il parricidio di Parmenide: la riammissione del non essere Platone e Parmenide sul non essere

L’analisi condotta da Platone sui generi sommi e in particolare l’esame di uno di essi, il diverso, ha importanti conseguenze relative alla natura del non essere. FILOSOFI A CONFRONTO

Ricorderai che Parmenide escludeva ogni forma di non essere dal discorso vero; egli infatti era arrivato a formulare un vero e proprio divieto di dire e pensare il non essere. Platone giunge invece, al termine di un complesso ragionamento, a riammettere il non essere nel cuore del discorso filosofico.

Il non essere relativo

Non si tratta più, tuttavia, del non essere assoluto al quale si riferiva Parmenide, bensì di un non essere relativo, ossia del non essere di cui ci serviamo quando sosteniamo che una certa cosa non è una determinata altra cosa: il movimento, per esempio, non è l’immobilità, è cioè diverso da essa. A un livello più generale, poi, il fatto che una qualsiasi idea sia, ossia

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esista e sia quella determinata idea, significa immediatamente che essa è diversa da tutte le altre, cioè non è nessuna delle altre. Ecco perciò fare la sua comparsa il non essere, inteso non in senso assoluto, ma appunto relativo: non essere una determinata cosa o qualità. Infatti, nel Sofista, Platone fa parlare lo Straniero di Elea, un personaggio che funge da protagonista al posto solitamente assegnato a Socrate: lo Straniero presenta il diverso come l’ultimo dei generi sommi, sottolineandone così la funzione centrale nello sviluppo tardo della teoria delle idee. Sostenere che tutte le idee siano diverse tra di loro (l’una non è l’altra) significa riaffermare la possibilità di intendere il non essere nel discorso filosofico e ribadirne il ruolo essenziale: senza il non essere (relativo, non assoluto) non vi è dialettica, dunque non si dà la scienza delle idee. FILOSOFI A CONFRONTO

Il parricidio

Platone si rende conto della portata anti-parmenidea del suo ragionamento e infatti chiama “parricidio” (uccisione del padre) l’introduzione del non essere nel cuore della dialettica: Parmenide è considerato da Platone una sorta di proprio padre spirituale; del resto, l’ammissione del non essere nel cuore dell’essere (cioè delle idee) sembra costituire l’esito inevitabile di una concezione che intende la dialettica come la scienza dei rapporti di inclusione ed esclusione tra le idee. Il punto di vista platonico presuppone l’idea che ogni determinazione implichi in qualche modo una negazione.

IL PARRICIDIO DI PARMENIDE PARMENIDE

PLATONE

l’essere esclude il non essere (non si può dire che una cosa non è)

l’essere, costituito dalle idee, esclude il non essere assoluto (perché le idee sono immutabili e imperiture)

tuttavia, le idee sono diverse tra loro: l’una non è l’altra

il non essere non esiste

Le conseguenze dell’interconnessione tra le idee

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il non essere relativo esiste

7.5 Unità e molteplicità L’esistenza di una interconnessione tra le idee ha come inevitabile conseguenza che ciascuna di esse, pur essendo un’entità unitaria, presenta una sorta di articolazione interna, determinata appunto dai rapporti di partecipazione con le altre idee. Se le idee vengono concepite come entità complesse, strutturate dalla relazione con le altre idee, si giunge ad attenuare la rigida separazione fra le idee stesse e le cose empiriche: tale separazione era propria della forma originaria della teoria delle idee, in cui la “semplicità” immutabile delle idee era contrapposta alla “pluralità” mutevole delle cose. Ora, il mondo ideale resta certamente distinto da quello delle cose sensibili, ma funge più da modello per pensare le cose stesse che da alternativa ontologica rispetto a esse. Per esempio, l’idea di uomo (che ha le proprietà di esistere, di essere identica a se stessa, diversa dalle altre, in moto o immobile, e che inoltre appartiene ai generi di “animale”, “terrestre”, “bipede”) appare come uno strumento per la

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Idee e numeri

Idee e numeri: la ricerca delle determinazioni di ogni singola idea

comprensione dell’essenza dell’uomo concreto, sensibile, piuttosto che un altro esemplare di “uomo” ideale, privo di rapporti con l’uomo concreto. In quest’ultima fase della sua riflessione sembra inoltre che Platone abbia equiparato le idee ai numeri, proprio a causa della natura in qualche modo complessa della costituzione delle idee. L’idea di uomo, per esempio, è indubbiamente una realtà unitaria, esistente in se stessa, separata e indipendente dai molti uomini che di essa partecipano. Tuttavia, essa è anche in qualche modo molteplice, proprio in virtù del fatto che ammette relazioni con altre idee, per esempio quella di animale, o quella di bipede: l’essenza dell’uomo si definisce infatti come “animale bipede”. Non è chiaro in che misura Platone abbia sviluppato l’equiparazione tra idee e numeri, ma è indubbio che in un dialogo tardo come il Filebo egli afferma con tutta chiarezza che il compito del dialettico consista nello stabilire l’esatto numero di determinazioni che entrano a fare parte di ogni singola idea. Almeno in questo senso si può effettivamente dire che per l’ultimo Platone le idee sono numeri, cioè risolvibili e interpretabili in “formule” numeriche.

7.6 Le dottrine non scritte: l’uno e la diade La questione della natura complessa delle idee – e dunque del loro rapporto con i numeri – ritorna a proposito di un altro problema; si tratta del fatto che le idee ammettono in qualche modo dei principi a esse superiori. FILOSOFI A CONFRONTO

In effetti, Aristotele sembra attribuire al suo maestro una concezione che non viene formulata chiaramente nei dialoghi, ma che forse Platone espone nelle sue lezioni all’interno dell’Accademia.

I principi superiori: l’uno e la diade

In base a questa dottrina – che noi conosciamo soprattutto grazie alla testimonianza di Aristotele – le idee deriverebbero da due principi a esse superiori: l’uno e la diade indeterminata. Dal momento che ogni idea è una realtà unitaria, essa partecipa dell’uno; poiché essa, d’altra parte, è anche molteplice, dipende da un principio di molteplicità, la diade appunto: le idee dunque si generano quando una molteplicità di determinazioni viene raccolta in un’unità, quella della singola idea; si tratta di una generazione che non è temporale, ma logica: le idee, come sappiamo, sono immutabili ed eterne. Aristotele aggiunge poi che Platone avrebbe identificato l’uno con la causa del bene, la diade con quella del male. Anche a proposito di questa affermazione bisogna dire che essa non si ritrova nei dialoghi, ma, almeno per la sua prima parte (l’identificazione dell’uno e del bene), essa non sembra contrastare con ciò che Platone scrive in essi, soprattutto nella Repubblica, dove l’idea del buono presenta qualche analogia con il principio dell’unità. In ogni caso, bisogna riconoscere che gli sviluppi della riflessione platonica intorno alla natura complessa e articolata delle idee danno luogo alla teoria dei principi e alla concezione delle idee-numeri di cui parla Aristotele a proposito delle misteriose “dottrine non scritte”.

8. Il cosmo e le sue cause

Il Timeo La verosimiglianza criterio di indagine del cosmo

Lo studio approfondito delle relazioni logiche e ontologiche interne al mondo delle idee non ha fatto mai perdere di vista a Platone l’importanza di una trattazione filosofica del mondo fisico. A questo tema è dedicato uno dei suoi dialoghi più lunghi e complessi, il Timeo, in cui Platone si propone di indagare l’origine e la struttura del cosmo. A tale proposito occorre fare una considerazione preliminare, che è esattamente la stessa di Platone. Egli dichiara – fedele al principio epistemologico più volte richiamato – che la forma di ogni trattazione dipenda dalla natura dell’oggetto intorno al quale essa verte. Questo significa

3. Platone

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che solo del mondo dell’essere, ossia delle idee, si potrà avere una trattazione propriamente scientifica che consenta di giungere alla verità; viceversa, del mondo fisico, che è soggetto a mutamento e instabilità, l’unico discorso possibile dovrà essere di natura probabile e verosimile: questo discorso è quindi presentato come un racconto mitico simile alla verità, ma non coincidente del tutto con essa. Tra la verità e la verosimiglianza vige poi il medesimo rapporto che si stabilisce tra l’essere e la generazione (o divenire), cioè tra le idee e il mondo sensibile. Si tratta per la precisione della relazione che lega il modello alla sua copia: come la generazione (copia) sta all’essere (modello) così la verosimiglianza (copia) sta alla verità (modello). Da tutto ciò consegue che i discorsi relativi al mondo fisico – che è per sua natura mutevole e instabile – non potranno che risultare essi stessi instabili e comunque privi del carattere della certezza, che compete solamente alla conoscenza delle idee.

PRIME RELAZIONI TRA MONDO IDEALE E MONDO SENSIBILE IDEE

modello

essere

verità

COSMO

copia

generazione (o divenire)

verosimiglianza

Il riconoscimento dell’esistenza di questi vincoli epistemologici non deve però indurre a ritenere che lo studio del mondo fisico rappresenti qualcosa di poco significativo, relegato all’ambito dell’azzardo. Nulla sarebbe più distante dal punto di vista di Platone; egli infatti si sforza di fornire un’analisi accurata della struttura del mondo, un’analisi però che non rinuncia mai a riconoscere i propri limiti, dipendenti appunto dall’oggetto di studio.

Il modello ideale, causa del cosmo

Il demiurgo, l’artigiano divino che fabbrica il cosmo

Lo spazio-materia e la copia imperfetta

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8.1 Le cause dell’origine dell’universo Secondo Platone il fatto che l’universo sensibile sia una realtà generata implica un’importante conseguenza: esso deve avere una causa, proprio perché ogni realtà generata ne possiede una. La causa del cosmo è rappresentata dal modello ideale, cioè dal mondo delle idee; tuttavia quest’ultimo va in un certo senso messo in movimento, deve essere cioè attivato, perché solo in questo modo può effettivamente rappresentare la causa del mondo fisico. Per alludere al movimento causale del modello ideale Platone ricorre a una celeberrima immagine, quella del demiurgo. Egli afferma che un artigiano divino, il demiurgo appunto, vuole che il cosmo sensibile assomigli il più possibile al modello intelligibile, cioè al mondo delle idee, e per questo fabbrica un prodotto che riproduce i caratteri di completezza e perfezione del modello. Il mondo, infatti, è una copia del modello ideale, fabbricata da un dio buono, che però non è un dio creatore, come quello ebraico e cristiano (che infatti genera dal nulla), ma appunto un dio artigiano, che agisce su un materiale preesistente. Ecco in estrema sintesi il ragionamento di Platone: il demiurgo è buono (forse perché partecipa dell’idea del buono); dal momento che è buono, risulta anche del tutto privo di invidia; ciò significa che egli desidera che l’universo generato sia anch’esso buono e bello; dunque lo fabbrica avendo come modello il mondo delle idee, che è infatti perfetto e divino. Il demiurgo agisce su un materiale preesistente, una specie di spazio-materia, ossia qualcosa che possiede sia i caratteri della pura estensione, sia quelli di una materialità informe. Questo principio è disordinato e instabile, e offre una sorta di resistenza all’artigiano che lo plasma: ciò fa sì che il mondo non sia del tutto identico al suo modello, ma solamente simile, sia cioè una copia inevitabilmente deformata.

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8.2 Le due cause: intelligente e necessaria

Il principio intelligente e la persuasione della necessità

Vi sono, dunque, due cause fondamentali che spiegano la genesi e la struttura dell’universo: la prima è la causa intelligente, costituita insieme dal demiurgo e dalle idee; la seconda è una sorta di causa “necessaria”, cioè indispensabile alla costituzione dei corpi, ma dotata di una sua inerzia, che offre quindi una certa resistenza all’azione delle cause intelligenti. Tutto ciò che è corporeo, irrazionale e disordinato nel mondo dipende dalla presenza di questa seconda causa, che esprime in qualche modo la dimensione della necessità, intesa come un ambito opposto a quello dell’intelligenza. Il mondo che noi conosciamo non è altro che il prodotto della mescolanza tra queste due cause, le quali non vanno però poste sullo stesso piano, poiché il principio intelligente e razionale (demiurgo e idee) esercita una certa prevalenza e riesce a “persuadere” il principio che ha i tratti della necessità. La formazione del mondo assomiglia dunque, metaforicamente, all’opera del buon politico, che deve convincere i cittadini della bontà delle sue proposte.

LA FORMAZIONE DEL COSMO CAUSE (stadio iniziale)

INTERVENTO DEL DEMIURGO

STADIO FINALE

cause intelligenti = idee (modelli perfetti ed eterni) + demiurgo (buono e non invidioso)

il demiurgo tenta di ordinare (persuadere) la materia instabile e caotica guardando alle idee, modelli perfetti eterni

produzione del mondo sensibile (soggetto al divenire) copia imperfetta del mondo delle idee

causa necessaria = materia instabile e caotica, che offre resistenza all’azione delle cause intelligenti

8.3 La supremazia della razionalità L’anima del cosmo

La supremazia della causa razionale nei confronti di quella necessaria si esprime attraverso il ruolo giocato dall’anima. Il cosmo per Platone è un essere vivente e, come tale, possiede un’anima, oltre che un corpo costituito dai quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco (quelli già indicati da Empedocle): l’anima esercita il comando sul corpo e ne guida il movimento. La presenza di quest’anima cosmica risulta massimamente evidente al livello dei movimenti degli astri, che si comportano in conformità a precise leggi matematiche (razionali). Il ragionamento di Platone presenta il seguente andamento: il cosmo sensibile è un essere vivente e ciò risulta evidente dal fatto che esso si muove, ossia che al suo interno accadono processi (di crescita per esempio) e vere e proprie traslazioni locali (pensa al moto degli astri), ma se un essere si muove lo può fare solo perché possiede un’anima. Dunque, il mondo ha un’anima, che è stata posta dal demiurgo al centro del mondo, per guidarlo e regolarne i movimenti; essa compenetra il corpo cosmico dappertutto e arriva ad avvolgerlo dall’esterno, quindi, l’anima cosmica assolve al ruolo di mediatrice tra la perfezione delle idee, principio intelligente, e il caos della materia precosmica, principio che esprime la necessità.

3. Platone

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I quattro elementi e i poliedri

Abbiamo detto che l’intelligenza prevale sulla necessità: ciò è dimostrato dal fatto che i corpi fisici elementari, ossia i quattro elementi, presentano al loro interno una struttura matematica, per la precisione geometrica. Ciascun elemento risulta infatti composto da poliedri regolari: il fuoco da tetraedri (piramidi), l’acqua da icosaedri (solidi con venti facce), l’aria da ottaedri (solidi con otto facce), la terra da esaedri (cubi). Essi a loro volta risultano scomponibili in triangoli, che, infine, si formano a partire da due tipi di triangoli fondamentali, il triangolo isoscele rettangolo e il triangolo scaleno rettangolo. Ciò significa che la materia plasmata, ordinata in virtù dei principi intelligenti (demiurgo e idee) è in ultima analisi costituita da strutture geometrico-matematiche, dunque da entità intelligibili. FILOSOFI A CONFRONTO

La novità della fisicamatematica del Timeo rispetto alla tradizione antica e l’influenza sulla fisica novecentesca

È facile constatare come la fisica-matematica del Timeo si ponga in alternativa sia all’elementarismo di Empedocle sia all’atomismo di Democrito: per Platone la sfera della materia non è veramente autonoma ma rimanda a un piano fondativo a essa superiore, rappresentato dalle figure geometriche, cioè da entità ideali. Una tesi come questa presenta più di un’analogia con alcune posizioni della fisica del Novecento, e infatti il premio Nobel Werner Heisenberg, così come altri, ha fatto riferimento al Timeo per le sue riflessioni filosofiche; per le stesse ragioni, molto prima, il grande dialogo esercita un’influenza determinante nella Rivoluzione scientifica seicentesca, quando, con Galileo, nasce la fisica moderna.

LA STRUTTURA GEOMETRICO-MATEMATICA DELLA MATERIA ELEMENTI

POLIEDRI REGOLARI

fuoco

tetraedro (piramide)

aria

ottaedro

acqua

icosaedro

terra

esaedro (cubo)

PER SINTETIZZARE • Che tipo di racconto è quello impiegato da Platone nel Timeo per spiegare l’origine del cosmo? Perché?

PER RIFLETTERE • Se tu fossi un allievo di Platone, che tipo di obiezioni potresti sollevare contro la teoria del Big Bang, che vede lo sviluppo dell’universo come un processo di espansione e raffreddamento di una materia densa e calda, e che lascia ipotizzare dunque un modello cosmogonico (vale a dire, di nascita dell’universo) diverso da quello platonico?

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9. Eros e filosofia: alla ricerca di una mediazione Conciliare l’inconciliabile

La tensione tra gli estremi

Nelle pagine precedenti si è visto come la riflessione platonica prenda le mosse dalla constatazione dell’esistenza di scissioni apparentemente inconciliabili: tra l’essere (le idee) e il divenire (le cose sensibili), tra l’intelligibile e il sensibile, tra la ragione e la sensazione, tra la conoscenza e l’opinione, tra l’anima e il corpo. Essa però è costantemente percorsa dal tentativo di mediare tra questi estremi e di stabilire dei punti d’incontro tra gli opposti. Si direbbe anzi che l’essenza stessa della filosofia platonica consista esattamente nell’immane sforzo di fare incontrare l’alto e il basso, l’intelligibile e il sensibile, ossia di innalzarsi verso l’“alto” della verità e dei valori, e poi di trasferire quaggiù ciò che si trova lassù: di conoscere le idee e di applicare nella città le norme ideali, di costruire nel nostro mondo un’imitazione della kallìpolis, cioè della città perfetta, ideale, dunque utopica, ma, proprio per questo, modello cui si deve orientare l’agire politico.

9.1 Eros demone mediatore Simposio: Eros entità intermedia

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Desiderio e mancanza: la tensione verso la conoscenza

Eros (il filosofo): la ricerca instancabile della sapienza

La funzione mediatrice che Platone assegna alla filosofia trova l’espressione più straordinaria nella descrizione della figura di Eros, solitamente considerato il dio dell’amore. Secondo Platone, infatti, in Eros si manifesta la stessa natura del filosofo, che consiste nel riconoscimento della propria mancanza, del proprio deficit, e nello sforzo di colmare, ovviamente nei limiti del possibile, questa mancanza. Nel Simposio, il grande dialogo dedicato all’amore, Platone spiega che, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, Eros non è un dio, quindi perfetto e autosufficiente, bensì un demone, ossia un’entità intermedia collocata tra gli uomini e gli dèi. La sacerdotessa Diotima racconta infatti a Socrate nel Simposio il mito della nascita di Eros: egli deve la sua natura intermedia alla combinazione delle caratteristiche dei suoi genitori, il padre Pòros (espediente) e la madre Penìa (privazione, povertà). Dal padre Eros riceve il desiderio delle cose belle e buone e soprattutto la capacità di procurarsele; dalla madre egli eredita lo stato di mancanza, cioè l’assenza del bene e del bello. Questa intermedietà spiega l’aspetto più significativo di Eros, ossia la sua natura tensionale, il fatto che egli aspiri a qualcosa di cui non è in possesso. Platone delinea così con il mito di Eros l’immagine del filosofo, che avverte costantemente una sensazione di insoddisfazione, incompletezza, pur essendo ingegnoso e scaltro, abile nelle argomentazioni, e capace di ricercare tenacemente ciò che desidera. E ciò che egli desidera è la conoscenza, perché è amante delle cose “belle e buone”, che tuttavia non raggiunge mai pienamente, pur perseguendole con determinazione. Scrive infatti Platone che il filosofo è colui che sta a metà tra sapienza (propria degli dèi) e ignoranza (tipica degli uomini comuni, rozzi): «[…] nessuno degli dèi filosofa né aspira a diventare sapiente perché lo è già […]. D’altra parte nemmeno gli ignoranti filosofano, né desiderano diventare sapienti, perché proprio questo l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno».

9.2 La filosofia come tensione erotica FILOSOFI A CONFRONTO

Il filosofo platonico non è, dunque, né il sapiente (sophòs) arcaico, alla maniera di Parmenide e di Eraclito, né l’uomo comune, ignorante e privo di tensione verso la conoscenza.

Il filosofo come Eros: l’amore per la sapienza

Come indica la stessa parola, la philo-sophìa è amore e tensione verso la sapienza (philèin significa “tendere”, “desiderare”, “amare”; sophìa significa “sapienza”); essa è la constatazione di una condizione di insufficienza e mancanza, e contemporaneamente è il desiderio di colmare questa assenza. Il filosofo, come Eros, possiede le capacità per realizzare il proprio

3. Platone

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La filosofia, mediazione tra mondo ideale e reale

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obiettivo, perché in se stesso ha le qualità per superare la condizione di partenza e per accedere alla conoscenza. Fuor di metafora, questo significa che l’uomo possiede nella sua anima un principio, quello razionale, che, se correttamente valorizzato, gli consente di arrivare a conoscere il mondo delle idee e di applicare le norme di quel mondo anche alla vita politica. La filosofia comporta dunque per Platone un aspetto erotico, cioè tensionale: essa è investita del compito di operare quelle mediazioni già accennate in precedenza; mediazioni sia verso l’alto, sia verso il basso. Verso l’alto: attraverso la conoscenza del bello corporeo si raggiunge il bello ideale, rappresentato dall’idea del bello; lo stimolo fornito dalla bellezza dei corpi e poi delle costituzioni politiche spinge l’anima a desiderare di conoscere la bellezza in se stessa. Verso il basso: la conoscenza delle idee induce il filosofo, giunto finalmente al termine del suo cammino ascensionale, ad applicare nel mondo terreno la perfezione delle norme ideali; l’impegno politico del filosofo-re non è altro che l’esigenza di costruire nella città concreta un’immagine il più possibile simile alla città perfetta, giusta e felice pensata nel grande dialogo sulla giustizia, ossia nella Repubblica.

9.3 La caverna Per Platone la filosofia non è solo il cammino verso la conoscenza (delle idee), ma è anche lo sforzo di applicare nel mondo ciò che si è conosciuto. Questo aspetto emerge molto chiaramente in un altro grande mito platonico, quello della caverna.

Prigioniero liberato che contempla il mondo esterno alla caverna.

Prigioniero liberato che torna a informare i suoi compagni della vera realtà.

Ombre proiettate dalla luce.

Uomini prigionieri nella caverna.

Illustrazione del mito della caverna in un'incisione del 1604 dell'olandese Jan Saenredam.

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La liberazione dalle opinioni comuni

Il ritorno del filosofo nella caverna

Il dovere del ritorno per trasmettere il sapere agli altri

Platone immagina che la condizione esistenziale degli uomini sia simile a quella di prigionieri incatenati nel fondo di una caverna; alle loro spalle si trova un muretto sopra il quale altri uomini fanno passare delle statuette; un fuoco collocato dietro i prigionieri fa sì che le ombre delle statuette vengano proiettate davanti ai prigionieri. Costoro, incatenati fin da bambini, credono che la realtà consista solamente nelle ombre che vengono proiettate davanti a loro, ma se uno di essi viene liberato dalle catene può rendersi conto, con grande sorpresa, che ciò che riteneva essere l’unica realtà (le ombre) altro non è che il riflesso di qualcos’altro (le statuette), ossia l’immagine e la copia di qualcosa che è più reale. Se poi gli viene permesso di uscire dalla caverna, potrà vedere le cose effettivamente esistenti, ossia gli uomini veri e le altre cose naturali, potrà poi rivolgere lo sguardo agli astri del cielo e infine verso il sole e si renderà così conto che la vera realtà è quella che si trova al di fuori della caverna. Attraverso questo celebre mito Platone intende alludere alla situazione dell’uomo rispetto alla conoscenza: la vera conoscenza è quella delle idee, relativa a oggetti che, esattamente come quelli collocati al di fuori della caverna, sono fuori dalla portata dell’uomo prigioniero delle opinioni comuni; essa culmina con la visione dell’idea del bene, espressa nel racconto dal sole, che costituisce il vertice del processo conoscitivo. Il mito suggerisce un secondo elemento, del tutto fondamentale per il nostro discorso: Platone precisa che il prigioniero liberato, una volta conosciuta la vera realtà che si trova al di fuori della caverna, ha il dovere di fare ritorno nella caverna e tentare in tutti i modi di educare gli altri uomini sulla base delle conoscenze che egli nel frattempo ha acquisito. Ancora una volta per Platone non è sufficiente il cammino verso l’alto; occorre anche il percorso verso il basso, che è il sentiero che il filosofo deve percorrere per applicare nel nostro mondo i principi acquisiti attraverso la conoscenza delle idee. Platone arriva ad ammettere che colui che ha contemplato la vera realtà, ossia le idee e l’idea del bene, preferirebbe trascorrere la sua vita contemplando questi oggetti; proprio per questo deve essere costretto a fare ritorno nella caverna, cioè nella città degli uomini, per educare anche questi ultimi. Questo rientro però non è indolore per colui che ha acquisito la conoscenza: egli apparirà goffo, maldestro e incapace di districarsi nelle più comuni faccende umane, perché, metaforicamente, non riesce subito ad adattarsi a quell’oscurità in cui vivono gli uomini. Chi ha contemplato la verità avrà difficoltà a raccontarla: Platone è dunque consapevole delle difficoltà che il filosofo incontra nel mondo della politica. Il filosofo è però anche perfettamente convinto che solo tornando nella caverna, ossia nella città, chi ha contemplato le idee può essere utile agli altri uomini; per questo arriva a stabilire per i filosofi una vera e propria costrizione al governo, anche contro la loro volontà. Con il racconto del ritorno nella caverna del prigioniero liberato, Platone allude quindi al dovere del filosofo di tornare tra gli uomini e di guidarli sulla base dei modelli ideali da lui appresi. In questo modo la costrizione al governo, inizialmente presentata nella forma di un’imposizione (stabilita per legge), si trasforma in una sorta di dovere morale – quello di liberare anche gli altri uomini – al quale il filosofo non può sottrarsi.

PER SINTETIZZARE • Secondo Platone, perché non è possibile identificare filosofia e sapienza? Qual è il mito che illustra la vera natura del filosofo?

9.4 Irrazionalità, persuasione e mito La forza persuasiva del mito

Tanto il mito della nascita di Eros quanto l’immagine della caverna esprimono in modo plastico la condizione del filosofo. In realtà Platone ricorre spesso allo strumento del mito per presentare in forma compiuta tesi che sarebbe difficile articolare ricorrendo alle

3. Platone

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L’irrazionalità umana

normali procedure argomentative. Questo non significa però che ciò che Platone racconta attraverso il mito non possa essere detto anche in forma assertiva, cioè nella forma di una dichiarazione positiva: il mito della caverna, per esempio, non fa che presentare in una visione d’insieme concezioni che sono già state formulate nel corso del dialogo. La forza del mito consiste piuttosto nella sua capacità di generare un maggiore coinvolgimento dell’ascoltatore e del lettore e, dunque, nella capacità di persuadere con più forza. Del resto, gli stessi miti relativi ai premi e alle punizioni che attendono l’uomo nell’aldilà hanno proprio la funzione di esortare alla virtù e lo possono fare con una forza maggiore di quella che è in grado di esibire una dimostrazione razionale. Il grande progetto di persuasione che percorre l’intera filosofia platonica non può tralasciare gli aspetti irrazionali e, in questo senso, il mito assolve a una funzione ben precisa: il richiamo a quest’ultimo aspetto testimonia la consapevolezza platonica della natura doppia dell’uomo, razionale e insieme irrazionale. La straordinaria potenza del discorso filosofico platonico risiede proprio nella capacità di indirizzarsi a tutti gli elementi in campo. La posta in gioco – che è la rifondazione dell’uomo (del suo sapere, dei suoi valori, del suo modo di vivere insieme agli altri uomini) – è troppo alta perché qualcosa di veramente importante venga lasciato ai margini. Per condurre l’uomo verso la verità, cioè verso la ragione e la conoscenza, è inevitabile rivolgersi anche agli aspetti non razionali del suo essere.

10. L’eredità: l’Accademia Le discipline matematiche

Eudosso: lo studio del movimento dei pianeti

L’Accademia, l’istituzione fondata da Platone intorno al 388 a.C., rappresenta, oltre che una sorta di scuola per la formazione dei futuri politici, un importante centro di ricerca filosofico-scientifica. Al suo interno vengono effettivamente condotte ricerche specialistiche di alto livello, soprattutto nel campo delle discipline matematiche, da Platone considerate un vero e proprio preludio alla dialettica, ossia alla filosofia. Tra le scienze matematiche studiate all’interno dell’Accademia un posto di primo piano spetta all’astronomia, di cui si occupano in particolare Filippo di Opunte (l’autore dell’Epinomide) e il grande Eudosso di Cnido. A quest’ultimo si deve la formulazione del primo modello planetario su basi matematiche: Eudosso, infatti, tenta di costruire un meccanismo matematico che sia in grado di ricondurre i movimenti dei pianeti, apparentemente irregolari, alla composizione di più moti regolari e uniformi. Altrettanto significativo è l’apporto di Eudosso nel campo della matematica; a lui si deve sia la sistematizzazione della teoria delle proporzioni, sia la scoperta del metodo di esaustione, un procedimento utile per calcolare lunghezze, aree e volumi di difficile determinazione. Entrambi i contributi faranno parte del grandioso edificio degli Elementi che Euclide costruirà di lì a pochi decenni. Alla morte di Platone, avvenuta come detto nel 347 a.C., la guida dell’Accademia passa a suo nipote, Speusippo, che manifesta un notevole interesse per le scienze matematiche. FILOSOFI A CONFRONTO

Speusippo: il primato delle entità matematiche

Egli arriva anzi a considerare gli enti matematici (i numeri e le figure) come le uniche realtà intelligibili realmente esistenti: ciò significa che Speusippo rifiuta le idee platoniche e le sostitusce al vertice della gerarchia ontologica con le entità matematiche.

Senocrate: l’identità tra idee platoniche e i numeri

Il successore di Speusippo, Senocrate, tenta invece una soluzione conciliatoria, sostenendo che le idee platoniche siano in realtà identiche ai numeri matematici. In questo modo egli pone le basi per qualcosa di simile a un sapere universale (màthesis universalis), in cui tutti i rapporti ontologici (quelli studiati dalla dialettica di Platone) possono essere espressi in forma matematica, cioè quantificati.

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FILOSOFI A CONFRONTO

Una posizione di questo genere verrà spesso ripresa dai platonici successivi, sia antichi sia moderni, ma verrà anche combattuta da tutti coloro che non saranno disposti a rinunciare al carattere aperto e problematico del platonismo.

L’affermarsi di soluzioni così differenti a proposito di una delle concezioni più importanti della filosofia platonica – quella delle idee che viene rifiutata da Speusippo e modificata in misura considerevole da Senocrate – dimostra quanto sia notevole il grado di apertura che caratterizza la vita dell’Accademia e soprattutto quanto Platone sia aperto alla critica e alla messa in discussione delle proprie convinzioni filosofiche.

L’Accademia di Platone, mosaico da Pompei, I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

3. Platone

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Tesi a confronto

Platone: governo totalitario o governo democratico? La concezione politica della Repubblica platonica ha sin dall’antichità suscitato reazioni contrastanti tra gli interpreti. Si tratta di un ampio dibattito che non sembra destinato a spegnersi, tanto che ai nostri giorni è ancora viva la querelle se l’utopia di uno Stato ideale governato da filosofi-re sia il preludio al totalitarismo oppure una via possibile verso la democrazia. La distanza tra critici intransigenti ed entusiasti fautori è netta: se, infatti, alcuni studiosi vedono nell’esaltazione del principio della superiorità dello Stato (o della classe) la mortificazione dell’individuo e dunque additano la costruzione teorica platonica come il tentativo di neutralizzare e sconfiggere il liberalismo democratico, altri, invece, rintracciano al centro del progetto platonico un’idea forte della comunità, intesa come partecipazione attiva e condivisione degli interessi e dei bisogni di tutti gli individui che la compongono. Le riflessioni che proponiamo di seguito nelle Tesi 1 e 2 testimoniano i due differenti orizzonti interpretativi appena abbozzati.

TESI 1 - KARL RAIMUND POPPER da La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario

L’utopia di uno Stato ideale retto da filosofi-re conduce al totalitarismo È inerente al programma di Platone un tipo di approccio alla politica che è, a mio giudizio, estremamente pericoloso. La sua analisi è di grande importanza pratica dal punto di vista di una ingegneria sociale razionale. L’approccio platonico al quale alludo può essere considerato come tipico dell’ingegneria utopica […]. Il tentativo utopico di realizzare uno stato ideale, usando un modello globale di società, è tale da richiedere un forte potere centralizzato di pochi e, quindi, da portare verosimilmente all’instaurazione di una dittatura. […] È importante afferrare esattamente il senso profondo di questa critica: io non critico l’ideale proclamando che un ideale non può mai essere realizzato, che sempre deve restare un’utopia […]. Quella che io critico sotto il nome di ingegneria utopica è la pretesa di una ricostruzione globale della società, cioè di cambiamenti di immensa portata, le cui conseguenze pratiche è impossibile prevedere, data la limitatezza delle nostre esperienze. Essa pretende di pianificare razionalmente la società nella sua interezza, benché non si disponga neanche in minima parte della conoscenza fattuale che sarebbe necessaria per legittimare una pretesa così ambiziosa. Noi non possiamo possedere siffatta conoscenza perché abbiamo insufficiente esperienza pratica di questo genere di pianificazione e la conoscenza dei fatti deve essere fondata sull’esperienza. Allo stato delle cose, la conoscenza sociologica per l’ingegneria in larga scala è semplicemente inesistente.

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TESI 2 - MALCOLM SCHOFIELD da Plato. Political Philosophy

Al centro del progetto politico platonico si trova un’idea forte della comunità Ciò che tutti sanno della Repubblica è che è il primo grande lavoro di utopismo politico mai scritto […]. Già questo, per alcuni, equivale a un campanello d’allarme: non rappresentava la costruzione di un’utopia un vicolo cieco per il pensiero politico e (ancor di più) per la ricerca della felicità? […] Popper vide nella Repubblica il primo progetto razionalizzato su vasta scala nella tradizione occidentale di una società chiusa e autoritaria. […] Popper era certo che Platone delineasse un piano d’azione, in verità per prendere il potere nelle proprie mani in qualità di re-filosofo. Per Popper […] il nodo centrale dell’interpretazione è l’applicabilità o l’inapplicabilità del suo ideale politico alla società umana. […] La questione della possibilità o impossibilità non è, in definitiva, ciò su cui noi dovremmo concentrarci. Allora, che cos’è ciò su cui dovremmo invece concentrarci? In una parola: la comunità – l’idea della comunità (koinonìa); l’idea […] che la partecipazione è ciò che rende una città reale o buona. In breve, Platone sviluppa lo stesso tipo di problema che virtualmente affronta ogni filosofo che scrive (parla) di uguaglianza o giustizia o democrazia. Questi sono ideali che noi vogliamo perseguire nelle nostre attività sociali e politiche. Allo stesso tempo vogliamo riconoscerne la validità in quanto ideali, pur ammettendo che è immensamente difficile offrire una spiegazione adeguata di come una società egualitaria o giusta o democratica dovrebbe effettivamente essere o di come ciò possa essere effettivamente realizzato.

IL COMMENTO Nel primo testo Karl Raimund Popper, uno dei maggiori filosofi della scienza del secolo appena trascorso nonché uno dei massimi esponenti del liberalismo politico europeo, articola la sua celebra critica alle concezioni politiche platoniche. Agli occhi di Popper la Repubblica platonica rappresenta lo sforzo di andare oltre il liberalismo democratico in favore di un collettivismo radicale. In questo senso, Platone si sarebbe opposto a quelle tendenze, in parte emergenti nell’ambito della riflessione sofistica, che miravano ad assegnare il primato all’individuo ed esprimevano in forma embrionale un punto di vista vicino a quello delle moderne democrazie liberali. Il vero bersaglio di Popper è, però, il concetto di utopia inteso come un progetto di “ingegneria sociale”: un piano di trasformazione artificiale e forzosa della vita umana, inteso a migliorarla secondo criteri, metodi e valori che sono conosciuti soltanto da un piccolo gruppo di governanti-sapienti. Di opinione nettamente contraria, invece, è Malcolm Schofield, un importante studioso inglese di Platone, che nel secondo testo replica alle critiche di Popper, mostrando come esse non colgano in realtà il vero pensiero del filosofo ateniese. Platone per Schofield non propone un modello coercitivo, un piano ingegneristico di trasformazione dell’umanità, ma solo un paradigma ideale – l’utopia come progetto di un mondo possibile –, al quale ispirarsi nella concreta azione politica e morale. Al centro di questo modello non sta il “totalitarismo” condannato da Popper, ma un’idea forte della comunità. Quello di Platone, conclude Schofield, è dunque da considerare un utopismo realistico.

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SOMMARIO 1

PLATONE E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA

I temi della filosofia platonica sono i protagonisti del pensiero filosofico in quanto tale: l’essere, la verità, la giustizia, l’anima, l’uomo, la città e il cosmo. Platone raccoglie infatti la poderosa sfida della sofistica sostenendo che la verità, l’anima umana e la città siano in realtà ammalate, e che solo una radicale terapia filosofica possa risanarle. Egli rivendica la possibilità di una vera conoscenza, che riguardi oggetti stabili e immutabili, e di criteri morali rigorosi. Le anime degli uomini e la città tutta, ora preda degli istinti peggiori a causa della propaganda dei sofisti e della degenerazione dei costumi, devono ritrovare il loro equilibrio naturale, che si radica sulla certezza della verità e della virtù. 2

IL MAESTRO, IL DIALOGO, LA MATURITÀ

La vita di Platone, segnata dall’incontro con Socrate, mostra un continuo e instancabile impegno filosofico-scientifico, politico e culturale, caratterizzato nella maturità dalla fondazione dell’Accademia e dai tre viaggi a Siracusa, in cui Platone cerca di attuare il rivoluzionario modello politico da lui ideato. La scelta di scrivere dialoghi, anziché trattati, mostra il suo sforzo costante di entrare in un rapporto vivo con il lettore, teso a modificare mentalità e comportamenti sia del singolo individuo, sia della collettività. 3

VIRTÙ, DESIDERIO, FELICITÀ

La sfida della sofistica viene interpretata da Platone fino alle sue più estreme conseguenze. Le tesi esposte da alcuni personaggi dei suoi dialoghi, quali i sofisti Callicle (nel Gorgia) e Trasimaco (nella Repubblica) mostrano come la giustizia sia considerata nei crudi termini dell’utilità e del vantaggio del più forte, conformemente a un’antropologia e a un’etica che legittimano pienamente la soddisfazione incontrollata dei desideri individuali e, quindi, la sopraffazione degli altri come via necessaria per il raggiungimento della felicità. 4

LA GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE

L’analisi condotta da Platone della nascita della città e del suo sviluppo, lo porta anche a diagnosticarne la degenerazione e ad approntare una terapia incentrata sull’educazione (paidèia). Solo con una rigorosa educazione dei giovani si formerà un adeguato ceto dirigente, selezionato sulla base delle qualità intellettuali e morali: sono i filosofi-re, coloro ai quali spetterà il compito di governare la città con la collaborazione dei militari, che a loro volta dovranno tenere a freno le istanze del ceto produttivo, più numeroso e più irrequieto. D’altro canto, per evitare conflitti interni alla città, governanti e militari dovranno rinunciare a ogni forma di proprietà privata e operare nell’interesse esclusivo della comunità. 5

L’ANIMA E LA GIUSTIZIA

Nelle sue linee generali, la psicologia platonica si articola in due stadi. Nel primo, elaborato nel Fedone e nella prima parte della Repubblica, si presenta un irriducibile e insanabile conflitto tra l’anima e un corpo-prigione (sòma-sèma). Nel secondo, che segue lo sviluppo della Repubblica, viene riconosciuta nell’anima stessa la presenza di due elementi irrazionali, quello desiderante e quello impulsivo (rispettivamente istanza del corpo e delle aspirazioni al riconoscimento sociale) che si affiancano alla ragione, costituendo i tre centri motivazionali dell’anima stessa. Il ripristino della gerarchia e del giusto equilibrio tra questi elementi conduce l’uomo alla virtù e alla felicità. Platone istituisce poi uno stretto parallelismo tra anima e città: all’ordine gerarchico fra i tre centri motivazionali dell’anima – razionale, impulsivo e desiderante – deve corrispondere quello fra i tre gruppi sociali che incarnano tali istanze, rispettivamente governanti, militari e produttori. Solo così si avrà la città perfetta (kallìpolis).

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VERITÀ, CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE

In risposta al relativismo della sofistica, la teoria delle idee postula delle entità, le idee, la cui conoscenza coincide con il possesso della verità. Le idee costituiscono il vero essere; esse sono infatti ingenerate, imperiture, indivisibili, modelli del mondo sensibile, generato, corruttibile e divisibile. Le cose sensibili stanno con le idee in un rapporto di partecipazione (per esempio, le molteplici cose belle sono tali perché partecipano dell’idea della bellezza). Il mondo ideale è conosciuto dall’anima umana prima della sua incarnazione e tale conoscenza si risveglia (reminiscenza) grazie alla sensazione. La conoscenza umana si articola quindi in quattro gradi, in relazione agli oggetti presi in esame: la dialettica è la scienza delle idee; la matematica, che possiede un grado inferiore di certezza perché lavora sui concetti, ma fa ricorso a ipotesi e a immagini, come le figure geometriche; la credenza ha come oggetto le cose sensibili e l’immaginazione i manufatti. Il processo conoscitivo è attivato dall’idea del Bene, che per Platone è l’idea suprema e causa delle altre idee. 7

DIALETTICA, IDEE, PRINCIPI

Negli ultimi dialoghi, detti “dialettici” (Parmenide, Sofista, Filebo), Platone affronta le possibili interrelazioni tra le idee, cioè i loro rapporti di inclusione e di esclusione reciproca. Egli ricostruisce così le articolazioni dei generi nelle specie, e le modalità di raggruppamento delle specie stesse all’interno dei generi: la dialettica è dunque a fondamento dello studio della realtà naturale. Questa ricerca conduce poi alla scoperta dei cinque “generi sommi” (essere, identico, diverso, moto, quiete), e al “parricidio” di Parmenide, cioè alla riammissione nel cuore della dialettica del non essere, inteso come “diverso” (non essere relativo). Nella fase finale, l’articolazione delle idee diventa sempre più strutturata, fino all’equiparazione delle idee con i numeri, e ai problematici risvolti delle cosiddette “dottrine non scritte”, in cui Platone, secondo Aristotele, avrebbe introdotto due principi originari, l’uno e la diade, dai quali deriverebbe logicamente l’intero mondo ideale. 8

IL COSMO E LE SUE CAUSE

Nel Timeo Platone presenta un’analisi della realtà fisica, la cui validità epistemologica è quella della verosimiglianza, non della verità (il racconto infatti è in forma mitica). Narrando l’origine del cosmo, Platone ne indica le cause: da una parte le idee e il demiurgo, che sono cause intelligenti; dall’altra un principio caotico e informe (una sorta di materia che fa resistenza all’azione del demiurgo), che rappresenta la causa necessaria. Il demiurgo, dio buono, plasma questo caos primordiale, imprimendovi un ordine che rispecchia quello del mondo ideale. L’azione dell’intelligenza sulla necessità è dimostrata dalla struttura geometrico-matematica in cui si imprigiona la materia dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco). Questa matematizzazione della realtà fisica eserciterà un potente influsso su tutta la storia della filosofia e sugli sviluppi scientifici dal Seicento all’età contemporanea. 9

EROS E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE

Esigenza primaria di Platone è quella di trovare una mediazione tra le opposizioni, apparentemente inconciliabili, di essere e divenire, intelligibile e sensibile, sapienza e ignoranza. Figura emblematica è quella di Eros, demone, cioè entità intermedia tra il mondo ideale e quello sensibile, che ha una natura tensionale: aspira alle cose belle e si industria per impossessarsene, senza mai riuscirci completamente. Eros rappresenta il filosofo, che desidera la sapienza della quale è privo, figura intermedia tra gli dèi (che tutto sanno) e gli uomini comuni (che tutto ignorano). Il mito della caverna rappresenta allora il dramma dell’uomo che solo faticosamente può giungere alla conoscenza e che, appresa la verità, ha l’obbligo del ritorno nel mondo, dove egli deve mettere il suo sapere al servizio della comunità, cercando di trasferire, per quanto possibile, la perfezione del mondo ideale nel mondo sensibile e imperfetto che tutti abitiamo.

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L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA

Gli interessi prevalenti nell’Accademia sono di tipo dialettico, naturalistico e matematico. Tra le figure di spicco ricordiamo Filippo di Opunte e Eudosso di Cnido per l’astronomia; quest’ultimo conferisce un impulso significativo anche alla matematica. Alla morte di Platone, la direzione passa a Speusippo, che ribadisce la centralità delle entità matematiche; a lui subentra poi Senocrate, che tenta una conciliazione tra questa via e quella platonica della teoria delle idee. Questi sviluppi attestano la fecondità e l’apertura dell’istituzione fondata da Platone.

LESSICO

A

Anima-corpo. L’anima è per Platone una entità incorporea e immortale. Nella prima fase, e soprattutto nel Fedone, egli concepisce il corpo come la prigione dell’anima, che la obbliga a subire i suoi bisogni e impulsi. Nella Repubblica, invece, le istanze pertinenti alla sfera somatica vengono direttamente trasposte all’interno dell’anima stessa, in cui si identificano tre centri motivazionali: la ragione, l’elemento impulsivo o animoso, e l’elemento desiderante (nel Fedro rappresentati nel mito della biga alata). L’anima trova il suo equilibrio e la sua salute quando la ragione presiede alle altre due istanze, collaborando con l’elemento impulsivo.

D

Demiurgo. In greco “artigiano”. Figura mitica del Timeo che rappresenta l’azione causale dell’intelligenza sulla necessità materiale nella produzione del cosmo. Rappresentato come un dio buono, non invidioso, il demiurgo plasma questo principio informe preesistente prendendo a modello il mondo ideale, di cui il mondo sensibile, il nostro, è una copia imperfetta, a causa della resistenza offerta dalla necessità all’ordine intelligibile.

Desiderio. Nel Fedone l’origine dei desideri è ricondotta prevalentemente alla sfera corporea, di cui il desiderio è espressione; nella Repubblica, invece, è il prodotto di un’istanza psichica, dunque dell’anima stessa, che aspira al soddisfacimento dei bisogni più bassi ed elementari; questa va regolamentata e diretta dalla razionalità, che con la collaborazione dell’istanza impulsiva può conferire equilibrio e stabilità all’anima umana. Dialettica. Per Platone la dialettica è la scienza stessa (epistème), ossia lo studio delle idee e dei loro rapporti reciproci. Essa è dunque l’unica via che conduce alla verità, raggiungendo i fondamenti ultimi dell’essere. Le altre forme di conoscenza, che non hanno a che fare con gli oggetti ideali (come la credenza e l’immaginazione) appartengono all’ambito dell’opinione, che manca di stabilità; anche la matematica, che assume ipotesi e ne deduce conseguenze, avvalendosi di immagini (geometria), non è capace di cogliere la verità, le è subordinata. Dialogo. Forma letteraria prediletta da Platone, che rifiuta l’uso del trattato per esporre le sue tesi filosofiche. Queste emergono dall’intreccio delle posizioni esposte dai personaggi, tra i quali il principale è in genere Socrate. L’effetto prodotto è il coinvolgimento diretto del lettore, che si identifica con i vari personaggi, giungendo infine a mettere in dubbio le proprie certezze, irretito dalle argomentazioni critiche platoniche rivolte contro le opinioni più comuni allora in circolazione.

E

Eros. In Platone, Eros è un demone, entità intermedia tra il mondo ideale e quello sensibile; la sua natura tensionale, che ricerca verità e bellezza, senza riuscire a possederle completamente, rappresenta emblematicamente il filosofo, che desidera la sapienza ma non può conseguirla. La tensione erotica è perciò il motore che attiva la sete di conoscenza posseduta dagli uomini che hanno una natura più nobile e che sono capaci di riconoscere il vero bene.

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F

Felicità. Sinonimo di vita buona o realizzata. Contro le istanze individualistiche proposte dalla sofistica, Platone propone l’identificazione della felicità con la virtù: felice è colui che ha il controllo di sé e delle proprie passioni, ed è capace così di riconoscere il vero bene, compatibile con la propria natura, dai beni apparenti. Felice è dunque chi può realizzare al meglio la propria natura, concorrendo anche al benessere (felicità) della collettività.

G

Generi sommi. Sono le cinque idee generalissime delle quali tutte le altre partecipano, ossia “essere”, “identico”, “diverso”, “moto” e “quiete”. Giustizia. La ricerca e la definizione della giustizia rappresenta uno dei temi centrali della filosofia platonica. Politicamente, essa è garantita da un ordinamento della città, dove ognuno compie le cose che gli sono proprie per natura: i filosofi governano con la collaborazione dei militari, che custodiscono la città, mentre la moltitudine produce i beni necessari al sostentamento collettivo. All’interno dell’anima la giustizia è garantita dal governo della ragione, che guida e orienta l’agire umano, con la collaborazione dell’elemento impulsivo.

I

Idea del buono. Fine ultimo delle azioni morali o virtuose, dunque imprescindibile sul piano etico, essa gioca un ruolo di assoluta rilevanza anche sul piano epistemologico, poiché è l’idea suprema, che attiva la potenzialità conoscitiva umana. Sul piano ontologico, l’idea del buono è la causa stessa dell’essere delle idee, ma non si identifica con questo, trascendendolo.

Idea / Forma. Dal greco èidos o idèa, “forma”, “figura”, “idea”. Le idee costituiscono per Platone l’unico vero fondamento ontologico, poiché sono il vero essere in contrapposizione al divenire sensibile. Sono entità intelligibili (soprasensibili), immutabili, atemporali, indivisibili, modello su cui si fonda il mondo sensibile, che ne è copia imperfetta. Esse inoltre costituiscono sia i principi-guida delle azioni, sia i criteri con cui le azioni devono essere valutate, e sono perciò un riferimento indispensabile sia per la vita morale, sia per quella politica, sia per ogni forma di conoscenza, che trova in esse la sua radice immutabile e stabile di verità.

P

Paidèia. La paidèia, in greco “educazione”, assume in Platone un ruolo etico-politico nevralgico: è solo attraverso una corretta formazione dei giovani che si può dar vita a una classe dirigente in grado di ripristinare la giustizia nella città rifondata.

Partecipazione. Esprime il rapporto che le cose sensibili intrattengono con le idee (una cosa è bella perché partecipa della bellezza). Nella fase matura, Platone individuerà questo tipo di rapporto anche tra le idee stesse, che assumono i caratteri di strutture complesse, in cui sono presenti una pluralità di determinazioni (l’idea del simile è dissimile dalle altre, perché partecipa in una qualche misura dell’idea della dissomiglianza; è identica a se stessa perché partecipa dell’idea dell’identico, e così via).

R

Reminiscenza. La teoria secondo la quale l’anima umana, che ha conosciuto le idee prima dell’incarnazione (quindi della nascita del singolo uomo), è in grado di risvegliare questa conoscenza, come ricordo delle idee precedentemente “viste”.

U

Utopia. Dal greco ou, “non”, e tòpos, “luogo”, ossia “luogo inesistente”. La kallìpolis delineata nella Repubblica ha carattere utopico ma anche normativo: il modello deve informare e innervare ogni agire politico, affinché la realtà possa avvicinarsi quanto più possibile al paradigma (si pensi ai tentativi di Platone di realizzare a Siracusa lo stato-ideale).

V

Virtù. Traduzione del greco aretè, che significa anche “eccellenza”; essa esprime soprattutto qualità morali. La ricerca platonica ha come tema iniziale proprio l’identificazione della vera natura delle virtù (poi culminante con la teoria delle idee). Nella fase matura assumono rilevanza centrale le virtù della sapienza, del coraggio, della temperanza o moderazione (che corrispondono a parti dell’anima e a componenti della città) e della giustizia, che rappresenta il perfetto equilibrio di queste componenti.

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QUESTIONARIO 1

PLATONE E LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA In che cosa consiste la terapia filosofica proposta da Platone? (max 2 righe)

2

PLATONE E IL DIALOGO Per quali ragioni Platone sceglie la forma del dialogo? (max 5 righe)

3

LA CRITICA AI SOFISTI Qual è la critica principale rivolta da Platone alla concezione della felicità proposta dai sofisti? (max 3 righe)

4

LE TEORIE DEL GORGIA E DELLA REPUBBLICA Qual è l’esito teorico cui giungono le argomentazioni di Callicle e Trasimaco, personaggi del Gorgia e della Repubblica? (max 6 righe)

5

LA CENSURA DELLA POESIA Per quali ragioni Platone istituisce una rigida censura della poesia classica?

6

LA GIUSTIZIA NELLA PÒLIS: I FILOSOFI-RE Quali sono i quattro livelli nei quali si articola il processo educativo (paidèia) che conduce alla formazione dei filosofi-re? (max 15 righe)

7

L’ANIMA E LA GIUSTIZIA Esponi i cardini concettuali sui quali ruota la “rivoluzione psicologica” che intercorre tra il Fedone e la Repubblica. Illustra poi l’immagine della biga alata del Fedro. (max 20 righe)

8

VERITÀ, CONOSCENZA E DISCORSO: LE IDEE Quali sono le principali funzioni delle idee nella concezione platonica? (max 5 righe)

9

L’IDEA DEL BELLO Nel Simposio Diotima spiega a Socrate in che modo dall’ammirazione delle cose belle ci si possa elevare alla contemplazione dell’idea del bello. Prova a ripercorrere le tappe di questa ascesa. (max 8 righe)

10

DIALETTICA E MATEMATICA Quali sono le principali differenze di metodo tra dialettica e matematica? Quale metodo secondo Platone è superiore? (4 righe)

11

I GRADI DELLA CONOSCENZA Quali sono i quattro gradi della conoscenza? (max 8 righe)

12

L’IDEA DEL BUONO Descrivi le caratteristiche fondamentali dell’idea del buono. (max 6 righe)

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DIALETTICA, IDEE, PRINCIPI Che cosa sono i “generi sommi”? Quali sono? (max 10 righe)

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PLATONE E IL “PARRICIDIO” DI PARMENIDE Platone compie un “parricidio”: riammette la pensabilità del non essere. Esso però non è più inteso, come in Parmenide, in senso assoluto, ma relativo; che cosa significa? (max 10 righe)

15

IL COSMO E LE SUE CAUSE Quali sono le cause della produzione del cosmo? Che tipo di struttura hanno gli elementi? (max 10 righe)

16

EROS E FILOSOFIA: ALLA RICERCA DI UNA MEDIAZIONE Quale figura mitica è scelta da Platone per rappresentare il filosofo? Puoi illustrare le ragioni di tale scelta? (max 10 righe)

17

PLATONE E IL MITO DELLA CAVERNA Quale messaggio vuole trasmettere Platone con il mito della caverna? (max 8 righe)

18

LA FUNZIONE DEL MITO Qual è la funzione del mito nella filosofia di Platone? (max 5 righe)

19

L’EREDITÀ: L’ACCADEMIA Quali sono gli ambiti verso i quali la ricerca dell’Accademia si orienta dopo la morte di Platone? (max 3 righe)

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Il classico La Repubblica Il genere La Repubblica è un dialogo in 10 libri dedicato al tema della giustizia. La scena viene collocata ad Atene e i protagonisti sono, oltre a Socrate, alcune figure significative della società e della cultura dell’epoca, tra le quali si segnalano il sofista Trasimaco (protagonista del I libro) e Adimanto e Glaucone, fratellastri di Platone e principali interlocutori di Socrate nei rimanenti nove libri. Nella Repubblica la prospettiva individuale e quella politica risultano strettamente collegate: la giustizia si configura come l’armonia delle parti, ossia la condizione nella quale i centri psichici dell’individuo e i gruppi sociali della città presentano un corretto rapporto, consistente nel rispetto del principio che attribuisce il comando all’istanza, psichica o sociale, cui spetta per natura.

IL CLASSICO



Il titolo Il titolo Repubblica deriva dal greco politèia, che significa letteralmente “costituzione”. In reazione alle gravi delusioni politiche procurategli sia dalla democrazia ateniese, sia dal governo dei Trenta tiranni che le successe, Platone delinea la sua proposta politica, immaginando un nuovo modello di città, la “città bella”.



Storia L’opera di Platone è ripartita tradizionalmente in tetralogie (gruppi di quattro opere), e La Repubblica, insieme al Clitofonte (probabilmente spurio), al Timeo e al Crizia ne forma l’ottava. È considerata tra le opere della maturità di Platone, poiché a questa fase risalirebbe la composizione dei libri II-X, mentre il libro I sarebbe stato scritto da un Platone giovane, ancora molto vicino all’insegnamento socratico. Perché è considerato un classico? L’importanza di quest’opera dipende dalla straordinaria ricchezza di temi e problemi in essa presenti, che ne fanno lo scritto in cui il pensiero platonico trova la sua espressione più ampia. In esso psicologia, antropologia, etica e teoria dello stato convergono in una complessa strategia finalizzata alla rifondazione dell’uomo e delle modalità del suo vivere associato. Nell’opera non mancano tuttavia importanti digressioni che toccano fondamentali questioni di ordine epistemologico e ontologico, ed è presente addirittura una discussione relativa al massimo oggetto di conoscenza, ossia l’idea del buono. In particolare, quando Platone avanza la celebre tesi che attribuisce ai filosofi il diritto di esercitare il comando sugli altri gruppi sociali, egli caratterizza questi individui come gli unici dotati di un sapere eccezionale, consistente nella conoscenza del mondo delle idee e dell’idea del buono.

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LA STRUTTURA DELL’OPERA

Libro secondo e terzo

Perché è preferibile la giustizia all’ingiustizia. La genesi della città ingiusta e il processo educativo che la riconduca alla condizione di giustizia

Libro quarto

Teoria della giustizia e parallelismo tra pòlis e anima individuale; ingiustizia come disaccordo delle parti dell'anima

Libro quinto

La forma di vita comunitaria della città giusta e il governo dei filosofi

Libro sesto e settimo

Il sapere dei filosofi. Questioni ontologiche (teoria delle idee e idea del buono), epistemologiche (il rapporto della filosofia con le altre scienze, la natura della dialettica); la formazione dei governanti

T1 La nobile menzogna / Il mito dei metalli

Libro ottavo

Riassunto dei discorsi precedenti; il processo di dissoluzione della città giusta nelle forme degenerate di governo

Libro nono

La peggiore forma degenerata di governo (la tirannide) e la superiorità della vita giusta (quella filosofica), che garantisce la felicità, su quella ingiusta

Libro decimo

Critica delle arti imitative; premi e punizioni dopo la morte; la giustizia è desiderabile per se stessa

3. Platone

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IL CLASSICO



Libro primo

Discussione su ”che cosa è la giustizia”. Prime proposte e confutazione socratica. Intervento di Trasimaco: giustizia è l’utile del più forte

I TESTI



T2 L’idea del Buono

T3 Il mito della caverna

T4 Nascita e dissoluzione della democrazia

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T1

La nobile menzogna/Il mito dei metalli Alla fine del II libro della Repubblica Platone aveva rivolto un formidabile atto di accusa alla mitologia tradizionale, quella di Omero e di Esiodo, colpevole di fornire un’immagine falsa e pericolosa degli dèi, ai quali vengono attribuiti comportamenti e vizi tipici degli uomini (gelosia, vendetta, permalosità, ambizione, e così via). Il filosofo era arrivato addirittura a bandire i racconti tradizionali dalla città ideale. Egli si rende tuttavia conto che la circolazione di racconti condivisi è fondamentale per garantire un elevato grado di coesione ai membri di una società e per questo propone alcuni miti alternativi a quelli tradizionali. Uno dei più interessanti è quello relativo alla diversa composizione degli uomini (d’oro, argento e ferro) che Platone chiama “nobile menzogna”.

da Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, 2007, 414B-415D, pp. 527-531.

«Ma, a proposito di quelle menzogne che, come dicevamo or ora, possono rendersi opportune1, quale espediente potremo trovare per raccontare una nobile e farla credere in primo luogo a quegli stessi governanti, e altrimenti quale al resto della città?» […] «Quale?» disse. «Niente di nuovo» dissi io, «ma qualcosa di fenicio, che è già accaduto in passato in molti luoghi, come raccontano i poeti che l’hanno fatto credere, ma che non è successo ai nostri tempi e non so se potrebbe succedere; comunque ci vuole molta forza di persuasione per farlo credere»2. […] «[...] Cercherò di convincere in primo luogo i governanti stessi e i soldati, poi anche il resto della città, che solo in sogno essi pensavano che gli fosse capitato di ricevere da noi tutto quell’allevamento e quell’educazione; ma che in verità durante quel tempo essi si trovavano già nelle viscere della terra, dove venivano plasmati e allevati, loro e le loro armi, ed era fabbricato ogni altro equipaggiamento. E quando furono perfettamente approntati, la terra come una madre3 li mandò fuori […]. “Siete dunque tutti fratelli voi nella città” diremo loro raccontando la nostra favola, “ma il dio, quando vi ha plasmato, nella generazione di quelli tra voi che sono capaci di esercitare il potere ha mescolato dell’oro, perciò sono i più pregevoli; in quella delle guardie, argento; ferro e bronzo nei contadini e negli altri artigiani4. In quanto dunque siete tutti congeneri, per lo più genererete una discendenza simile a voi, tuttavia può accadere che dall’oro nasce prole d’argento e dall’argento d’oro, e così via secondo tutte le possibilità. Perciò a coloro che detengono il potere il dio ordina in primo luogo e soprattutto che di nulla siano così buoni guardiani e di nulla abbiano una cura così attenti come dei loro figli, per vedere quale di questi metalli sia mescolato nella loro anima; e se uno di essi presenta tracce di bronzo o ferro, non se



FOC

Stile

Lessico

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il mito è equiparato al discorso falso

Stile effetto che vuole sortire il mito

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IL CLASSICO

US

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20

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Lessico uso di toni religiosi

1. L'allusione è alla fine del II libro. 2. Le narrazioni mitiche si riferiscono a eventi non verificabili, perché collocati in un lontano passato o provenienti da terre lontane.

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3. L'idea che gli uomini nascano dalla terra è concezione diffusa nella cultura greca dell'epoca. 4. Già in Esiodo era presentato un mito che

stabiliva un collegamento tra tipi di uomini e metalli.

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ne impietosiscano in alcun modo, ma concedendo alla sua natura la dignità che le spetta, lo respingano fra gli artigiani o fra i contadini, e se d’altra parte nascono fra costoro alcuni che presentino tracce d’oro o d'argento, rendano loro l’onore dovuto ed elevino gli uni al rango di difensori, gli altri a quello di guardie […]».

ANALISI DEL TESTO

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Stile Secondo Platone, dato che non tutti i cittadini possono essere persuasi dalla forza stringente delle sue argomentazioni razionali, è necessario ricorrere all’uso di miti rispondenti a precise esigenze dei governanti, esigenze che tuttavia sono direttamente rivolte al bene comune. In quanto narrazioni condivise, questi miti vanno a costituire il patrimonio di sapere di una comunità, rafforzandone lo spirito identitario.



L’idea del Buono US

Alla fine del V libro Platone ha formulato il principio secondo il quale solo il governo dei filosofi può fare cessare i mali che affliggono le città. La fama piuttosto equivoca che circonda i filosofi, spesso accostati a sofisti perdigiorno, rende necessario circoscrivere il loro profilo intellettuale. I filosofi, a differenza dei sofisti e degli altri (pseudo)intellettuali, conoscono le idee, che costituiscono le uniche entità che possono essere oggetto di autentico sapere. Essi arrivano, al termine di un lungo e complesso percorso educativo, a conoscere anche l’idea del buono, presentata nel brano a seguito nella celebre analogia con il sole, sua immagine.

da Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, 2007, 508C-509B, pp. 827-831.

«Sai che gli occhi» dissi io «quando vengano rivolti verso oggetti i cui colori non sono più illuminati dalla luce del giorno, bensì da quella notturna, si indeboliscono e sembrano quasi ciechi, come se non possedessero più la chiarezza della vista?» «Certo» disse. «Quando invece, penso, si rivolgono verso oggetti che il sole illumina vedono distintamente e appare che quegli stessi occhi possiedono tale chiarezza.» «Sì.» «Allo stesso modo concepisci così anche il comportamento dell’anima: quando si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall’es-

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Stile, Lessico

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Lessico le idee

3. Platone

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mini: alcune, quelle dei filosofi, d’oro, altre, quelle dei militari, d’argento, altre ancora, quelle dei produttori, di bronzo e ferro.

IL CLASSICO

Guida alla lettura Si espone qui la cosiddetta “nobile menzogna”, una sorta di supplemento retorico-mitico, che può aiutare a rafforzare il grado di coesione tra i cittadini e far accettare la rigida gerarchia funzionale anche a coloro che sono destinati a ruoli subordinati. L’immagine della nascita degli uomini dalla terra e della loro composizione metallica rafforza da un lato il senso di fratellanza tra i cittadini (per la loro comune origine), rende accetta la gerarchia funzionale, che, in base al mito, non è determinata dalla tradizione o da scelte arbitrarie, ma dalla natura. È quest’ultima, infatti, che forgia in modo differente le anime degli uo-

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Lessico le cose sensibili

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Lessico il principio responsabile della natura di un’altra cosa

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1. Per Platone solo quando l’anima si rivolge alla idee può ottenere una conoscenza fissa e stabile, ossia la scienza. 2. Quando l’anima si rivolge invece al mondo sensibile la conoscenza ricade nell’ambito dell’opinione. 3. Il Buono ha uno statuto superiore a quello di scienza e verità, perché ne è la fonte.

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sere, allora lo pensa e lo conosce e si manifesta nella pienezza del pensiero1 ; quando invece si volge a ciò che comporta oscurità - l’ambito di ciò che nasce e perisce -, allora opina2 e s’indebolisce, mutando su e giù le sue opinioni, e sembra ormai non aver più pensiero.» «Così sembra infatti.» «Ciò che garantisce la verità agli oggetti conosciuti e dà a chi conosce la facoltà di farlo, afferma essere l’idea del buono: in quanto è causa di scienza e verità , pensala come conosciuta; ma per quanto belle siano entrambe, conoscenza e verità, sarai nel giusto se riterrai che questa idea è diversa e ancor più bella di esse. Ma come nella sfera visibile la luce del sole e la vista correttamente si possono ritenere simili al sole, ma non è corretto ritenere che esse siano il sole, così in quest’altra sfera è corretto ritenere che scienza e verità siano entrambe simili al buono, ma scorretto sarebbe pensare che l’una o l’altra di esse sia il buono: degna di onori ancor più alti è la condizione del buono3.[…] ma esamina ancor meglio la sua immagine, in questo modo.»«Come?» «Ammetterai, io credo, che il sole non soltanto procura agli oggetti visibili la facoltà di essere visti, ma anche la generazione e l’accrescimento e il nutrimento, pur non essendo esso stesso generazione.» «E come potrebbe?» «Ammetterai pertanto che agli oggetti di conoscenza non deriva dal buono solo l’esser conosciuti, ma che essi ne traggono inoltre l’essere e l’essenza, pur non essendo il buono un’essenza, bensì ancora al di là dell’essenza superandola per dignità e potenza.

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura L’analogia va interpretata in primo luogo in termini epistemici, relativi cioè alla dimensione conoscitiva. Come il sole è la condizione di visibilità dei colori degli oggetti e un attivatore della potenzialità visiva degli occhi, allo stesso modo l’idea del buono è la condizione di conoscibilità delle realtà intelligibili (le idee), e l’attivatore della potenzialità cognitiva dell’anima. Come il sole emana la luce, permettendo il processo visivo, così il Buono è ciò da cui deriva la verità, una sorta di luce intelligibile che rende le idee accessibili all’intelletto. L’analogia tocca però anche anche il piano ontologico. Le idee ricevono infatti dall’idea del Buono non solo la conoscibilità, ma anche l’essere e l’essenza. L’espressione va interpretata in senso parzialmente metaforico (in quanto eterne e immutabili, le idee non si generano). L’essere conferito dal Buono è l’insieme delle proprietà comuni a tutte le idee (eternità, unicità, perfezione, immutabilità, auto-identità); l’essenza, invece, è costituita dalle qualità che rendono una data idea quella particolare idea, diversa da tutte le altre. L’analogia tra il buono e il sole si con-

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clude con un celebre quanto misterioso accenno alla collocazione del Buono “al di là” dell’essenza. Stile In questo brano Platone non formula una definizione del Buono. Di fronte alle richieste degli interlocutori, che lo sollecitano a parlare del buono come aveva fatto in precedenza delle virtù (cioè per mezzo di una definizione), il personaggio Socrate si schermisce, dichiara di non essere in grado di farlo e si limita a ricorrere a un’analogia. Lessico L’affermazione secondo cui il Buono è “al di là dell’essenza” alla fine del brano ha dato luogo a molteplici interpretazioni. Essa può indicare che la dimensione del valore, rappresentata dal buono, è irriducibile a quella dell’essere; ma può anche alludere al fatto che il principio non appartiene agli enti, non è cioè un ente determinato. Oppure ancora riferirsi alla natura “terza” del buono, che non è né soggetto né oggetto, ma appunto condizione della relazione tra questi due poli.

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da Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, 2007, 517B-E, pp. 849-851.

– Questa immagine pertanto, caro Glaucone, io dissi, va applicata tutta intera a quel che dicevamo prima: la regione che ci appare tramite la vista è da paragonare alla dimora dei prigionieri, la luce del fuoco che sta in essa alla potenza del sole1; ponendo poi la salita quassù e la contemplazione di quel che vi è quassù come l’ascesa dell’anima verso il luogo del noetico non ti ingannerai sulla mia aspettativa, dal momento che vuoi conoscerla. Dio solo sa se può esser vera. Questo è comunque quel che a me appare: all’estremo confine del conoscibile vi è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore2, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero3; e che deve averla vista chi intenda agire saggiamente sia nella vita privata sia in quella pubblica. – Sono d’accordo anch’io, disse, almeno come mi è possibile. – Sì allora, dissi io: convieni anche su questo fatto, che non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù: è in effetti del tutto verosimile che sia così, se anche questo sta nel modo descritto dalla nostra immagine. – Verosimile, certo, disse. – E allora pensi che in questo ci sia qualcosa di sorprendente, dissi io: che un uomo, passato da divine contemplazioni alle umane sventure, agisca goffamente e appaia molto ridicolo, se, quando ancora vede male perché non si è assuefatto abbastanza all’oscurità che lo circonda, viene costretto a contendere, nei tribunali o altrove, sulle ombre del giusto o sulle statuette che proiettano queste ombre, e a disputare sul modo in cui tutto ciò vien concepito da coloro che mai hanno visto la giustizia in sé? – Per nulla affatto sorprendente, disse.

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Lessico cioè il mondo delle idee, che si colgono con il nous, l’intelletto

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Lessico il filosofo è colui che conosce il Buono

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Stile la giustizia umana è solo una copia, o addirittura un’ombra dell’idea di giustizia

Lessico

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la giustizia in sé è l'idea di giustizia

1. “La regione che ci appare tramite la vista” è il mondo sensibile, che nell’allegoria è la caverna di cui siamo prigionieri; la lu-

3. Platone

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ce del fuoco nella caverna corrisponde alla luce del sole. 2. Oltre alle idee, l’idea del Buono genera la

IL CLASSICO

Il libro VII della Repubblica si apre con il celebre mito della caverna. Nel racconto platonico i prigionieri, da sempre in catene e costretti a guardare ombre di statuette proiettate dal fuoco nella parete della caverna, credono che la realtà si esaurisca in quelle pallide e sfocate immagini. Non suppongono neppure che vi sia una realtà esterna, illuminata da una fonte di luce autentica, che è il sole. Se qualcuno di loro riesce a liberarsi dalle catene e a scoprire la verità, non gli sarà facile riabituarsi alla vita nell’oscurità. Nel brano seguente Platone spiega il senso filosofico di questo mito.

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Retorica



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Il mito della caverna

luce e “il suo signore”, cioè il sole. 3. Nel mondo intelligibile il Buono è la fonte di verità e scienza.

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IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in tre parti. Nella prima parte (righe 1-8) Platone afferma che vi è una corrispondenza (anche se non necessariamente puntuale) tra elementi dell’allegoria e gradi di realtà. Nel rievocare questa corrispondenza, l’anima si eleva al mondo intelligibile. 1. Che cosa è la “regione che ci appare tramite la vista”? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella seconda parte (righe 8-16) Platone spiega che l’anima, elevandosi verso il mondo intelligibile, coglie l’idea del Buono. L’uomo afferra così il vero ordine delle cose: il Buono è la fonte di ogni verità e scienza, così come di ogni valore morale. ■

2. Quali sono gli effetti che produce la visione nel comportamento degli uomini?

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A questo punto (righe 17-31) Platone spiega a Glaucone quali sono le conseguenze di questa visione noetica. Colui che ha contemplato la vera realtà difficilmente si riabitua al vivere quotidiano, dove appare goffo e ridicolo, e non riesce più a trovare sintonia con gli uomini comuni. 3. Qual è il vero desiderio di chi ha potuto contemplare il Buono?



IL CLASSICO

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Retorica L’immagine della caverna ha una funzione specifica nella proposta politica platonica. Vi si prospetta infatti il ritorno nella caverna da parte dei pochi uomini che ne sono usciti. Qual è il senso del loro rientrare in essa? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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da Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, 2007, 557A-561D, pp. 971-987 (con tagli interni):

«In che modo dunque» dissi «costoro vivono nella città, e qual è, ancora, la natura di una tale costituzione? È chiaro infatti che l’uomo della stessa natura risulterà un democratico.» «Chiaro» disse. «Prima di tutto: non sono liberi, e la città non diventa piena di libertà di azione e di parola? e non vi è piena licenza di fare ciò che si vuole?» «Così almeno si dice.» «Ma dove c’è licenza, è chiaro che lì ognuno può organizzarsi una forma di vita secondo le proprie scelte.» «Chiaro.» […] «Non aver alcun obbligo di governare in questa città» dissi «neppure se sei capace di governare1, né d’altra parte di esservi governato se non lo vuoi, o di combattere se gli altri combattono, né di restare in pace quando gli altri vi restano, se non desideri la pace; o ancora, se una qualche legge ti impedisce di amministrare il potere o la giustizia, nondimeno tu puoi comandare e giudicare se questo ti aggrada - un simile modo di vivere non è divinamente piacevole nell’immediato?» «Forse sì» disse, «appunto nell’immediato.» […] «Considera allora» dissi io «com’è in privato l’uomo dello stesso genere. Oppure dobbiamo indagare in primo luogo, come abbiamo fatto per la costituzione, in che modo si formi?» […] «Vive quest’uomo in seguito, credo, spendendo denaro, sforzi e tempo per i piaceri non necessari [E] non meno che per quelli necessari?2 ma se è fortunato e il furore bacchico non va troppo oltre, anzi, un po’ anche per l’avanzare degli anni, il più del tumulto finisce per passare, allora lascia rientrare parte dei piaceri esiliati e non affida tutto se stesso a quelli che l’hanno invaso, sicché conduce la sua vita avendo ristabilita una certa eguaglianza fra i piaceri: consegna cioè il comando su se stesso a quello che di volta in volta gli si presenti, come se fosse stato sorteggiato, finché ne è sazio, e poi ancora a un altro, non disprezzandone nessuno ma crescendoli tutti in modo egualitario.» «Proprio così.» «Ma un discorso vero» dissi io «proprio non lo accetta né lo lascia en-

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Lessico radicalizzazione del concetto di libertà, che fa sì che vengano meno tutti gli obblighi e i doveri

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Retorica ironico, il comando dovrebbe spettare alla ragione

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1. In democrazia nessuno ha obblighi. Nella “città bella”, invece, i filosofi sono “costretti” a governare, anche se preferirebbero de-

3. Platone

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dicarsi interamente alla vita speculativa, ossia alla ricerca scientifica. 2. I piaceri necessari sono quelli la cui sod-

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Dopo avere delineato i contorni della città perfetta governata secondo i canoni della giustizia, Platone passa a esaminare nei libri VIII-IX il processo di disgregazione che dalla città divina (in quanto governata secondo i divini principi dell’intelletto e della filosofia) conduce alla forma più degradata e nefasta di governo, la tirannide. Nel brano che segue è vividamente descritta la degenerazione della democrazia e del tipo umano che la caratterizza.

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Lessico, Stile



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La critica della democrazia

disfazione preserva la vita (come il nutrirsi e il vestire), mentre quelli non necessari sono i godimenti superflui.

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Lessico rimando all’ideale greco di bellezza insieme fisica e morale

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IL CLASSICO



3. La filosofia praticata dai cittadini democratici è probabilmente la sofistica.

trare nel posto di guardia, se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i primi, reprimere e asservire i secondi: in tutte queste occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e degni di pari rispetto.» «È esattamente così» disse «che si comporta chi si trova in questo stato.» «E non conduce così la sua vita» dissi io «compiacendo giorno per giorno il desiderio che gli si presenta: ora beve vino al suono del flauto, poi beve solo acqua e fa una cura dimagrante; ora si dà agli esercizi fisici, a volte invece s’impigrisce e non si cura di niente, poi si atteggia come se dedicasse il suo tempo alla filosofia3. Spesso prende parte alla vita politica, e balza alla tribuna per parlare e agire a casaccio. E se mai gli capita di provare invidia per certi uomini di guerra, si lascia trascinare in quella direzione, oppure per gli uomini d’affari, si rivolge a quest’altra, e non c’è nella sua vita alcun ordine né obbligo; tuttavia, chiamando questa forma di vita piacevole, libera e beata, egli vi si dedica per la sua intera esistenza.»

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Il governo democratico e il corrispettivo individuo presentano tratti del tutto particolari: come nella città tutti gli individui sono uguali (senza differenze tra competenti e incompetenti) e a turno esercitano il comando, senza responsabilità né obblighi di sorta, allo stesso modo l’individuo democratico è completamente preda dell’anarchia dei desideri e si disperde nei piaceri. Il principio della libertà, ormai trasformata in licenza, rende la vita nella città democratica molto varia e perciò, nell’immediato, gradevolissima. Si intravede però l’esito finale del processo di degenerazione delle norme e dei costumi che porterà alla tirannide, che nasce quando i cittadini si consegnano a un difensore, spesso un demagogo, il quale li priva poi di ogni libertà.

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Lessico La democrazia è quella forma di società che distribuisce a tutti una “sorta di uguaglianza”. Nelle Leggi Platone distingue due tipi di uguaglianza: a) quella “democratica”, in cui gli onori e gli incarichi vengono distribuiti in ugual misura sia ai competenti che agli incompetenti, e b) quella autentica, nella quale “sempre si assegna proporzionalmente a chi è più grande per virtù onori più grandi, a chi invece si trova nella condizione opposta per virtù e per educazione ciò che a ciascuno spetta” (Leggi, 757 C-D). Stile Il tono del dialogo appare sarcastico, poiché della democrazia mette in risalto, come maggior pregio, il carattere multiforme e vario, la volubilità estrema e l’abbandono al piacere dei suoi cittadini.

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La natura delle idee e il problema della partecipazione

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Lessico, Il Parmenide, forse il dialogo più complesso e astratto di Platone, è dedicato alla conceObiettivo polemico zione delle idee. Al colloquio, che si immagina avvenuto ad Atene nel 450 a.C., prendo-

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le idee

Lessico le cose sensibili

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Lessico dell’idea della somiglianza

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Lessico il modo in cui l’idea è presente nella cosa

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1. Le cose giuste o belle sono dette giuste o belle in virtù della partecipazione alle corrispondenti idee di giustizia o di bellezza. 2. Parmenide presenta nella forma di

3. Platone

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un dilemma la questione di come le cose partecipino delle idee: o per intero o per parti. 3. Se l’idea è in sé indivisa ed è presente

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Ma rispondimi su questo punto: ti sembra, come affermi, che esistono forme, e che partecipando di esse queste altre cose ne assumono il nome, come accade alle cose simili che diventano tali partecipando della somiglianza, alle grandi partecipando della grandezza, alle belle e alle giuste rispettivamente della bellezza e della giustizia?»1 «Proprio così» rispose Socrate. «Ma allora ciascuna realtà che partecipa, partecipa di tutta la forma o di una parte?2 […] Ti sembra, dunque, che la forma sia presente nella sua interezza in ciascuno dei molti, rimanendo essa una, o come?» «Perché, che cosa lo impedisce, Parmenide?» chiese Socrate. «Se fosse una e identica, sarebbe presente contemporaneamente nella sua interezza nei molti, che però sono separati, e in questo modo essa sarebbe separata da sé»3. «No - replicò Socrate -. Almeno se si comporta come il giorno che, restando unico e identico, è contemporaneamente in molti luoghi, senza essere separato da sé. Se si comportasse così, anche ciascuna forma sarebbe una e identica, presente contemporaneamente in tutte le cose». «Socrate - riprese - il tuo è un modo brillante di fare in modo che un’unica identica forma sia contemporaneamente in più luoghi, come se, avvolti molti uomini con un velo, dicessi che esso, uno e nella sua interezza, si trova sopra molti. O non è questo il genere di presenza al quale intendi riferirti?» «Forse» rispose. «Ma il velo starebbe nella sua interezza su ciascuno, oppure una parte di esso coprirebbe uno e un’altra un altro?» «Una parte».



da Platone, Parmenide, a cura di F. Ferrari, Bur 2004, 131A-E, pp. 211-17 (con tagli interni).



no parte un giovanissimo Socrate, Parmenide, già vecchio e affermato filosofo, e il suo allievo Zenone, l’inventore della dialettica. Per risolvere le difficoltà e le aporie collegate alla natura delle cose sensibili, che sembrano possedere qualità opposte (se sono molte, ciascuna di esse sarà una e molteplice, identica e diversa, e così via), Socrate propone di ipotizzare l’esistenza di entità speciali, le idee appunto. Secondo la sua opinione esse sarebbero in grado di spiegare le caratteristiche delle cose sensibili evitando le contraddizioni messe in luce da Zenone. Ma Parmenide sottopone a una serrata critica la proposta di Socrate, iniziando proprio dalla nozione di “partecipazione”.

in tutte le molteplici cose sensibili nella sua interezza, allora sarà più volte separata da se stessa: prima conseguenza inaccettabile.

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4. Parmenide insiste sulla divisibilità dell’idea, che Platone invece rifiuta. 5. Se l’idea è presente nelle cose sensibili come un velo, allora le cose parteciperanno di una sua parte; ma l’idea è una e indivisa, e come tale non può essere frazionata: seconda conseguenza inaccettabile.

«Ma allora, Socrate, - riprese Parmenide - le forme in sé sono divisibili e ciò che partecipa di esse dovrebbe partecipare di una parte4, e la forma non sarebbe più presente nella sua interezza in ciascuna cosa, ma ad essere presente sarebbe una parte di ciascuna forma». «Così almeno sembra». «Vorresti perciò sostenere, Socrate, che la forma, che è una, in verità sarà per noi divisa, e sarà ancora una?» «Assolutamente no» rispose5. «Fai attenzione - continuò. - Se dividi in parti la grandezza in sé, ciascuna delle molte cose grandi sarà grande in virtù di una parte di grandezza che è più piccola della grandezza in sé. Non si tratta di un risultato privo di senso?» «Certamente» rispose. […] «Ma allora, in che modo, Socrate, - chiese Parmenide - secondo te le altre cose parteciperanno delle forme, visto che non possono partecipare né a singole parti né alla totalità?»

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Le obiezioni che Parmenide muove alla teoria delle idee avanzata da Socrate costituiscono uno esempio di come, secondo Platone, tale concezione non debba venire intesa. Parmenide assume una serie di presupposti che risultano fallaci e che spiegano le aporie alle quali egli perviene. Un caso esemplare è rappresentato dall’esame della nozione di partecipazione. Se le cose possiedono un certo carattere, per esempio sono grandi, in virtù della partecipazione all’idea, in questo caso all’idea del grande, esse devono partecipare in uno di questi due modi: a) all’idea nella sua interezza, oppure b) a parti dell’idea. In entrambi i casi si determinano conseguenze inaccettabili. Dunque, secondo Parmenide, la nozione di partecipazione va respinta. Lessico Platone inserisce due similitudini per mostra-

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re il diverso modo di concepire la nozione di “partecipazione”. Nella prima, l’idea è come il giorno, che è in molti luoghi, senza essere diviso, né separato da sé; nella seconda, invece l’idea è come un velo che avvolge molte cose insieme. Nella prima similitudine l’idea si comporta come una proprietà, la quale può essere con-divisa senza con ciò risultare divisa; la seconda assume invece una concezione “fisica“ della partecipazione (il velo ha dimensioni, per cui è divisibile). Obiettivo polemico Platone intende dunque mostrare che “appiattendo“ la natura delle idee su quella delle cose fisiche si producono aporie simili a quelle di Parmenide; non essendo questo il modo corretto di intendere le idee, le confutazioni di Parmenide possono essere superate.

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Nel Simposio Platone affronta direttamente uno dei temi che attraversano l’intera sua riflessione filosofica: l’amore. Nel corso del dialogo si susseguono numerosi discorsi (tenuti da poeti, tragici e comici, medici, logografi) sulla natura di Eros e sulla funzione che esso esercita sia nell’ambito dei rapporti tra gli uomini sia nella più ampia sfera dei processi naturali. Nel prendere la parola Socrate critica la posizione di chi aveva visto in Eros un dio, riprendendo un mito che dice essergli stato raccontato dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea. Qui come altrove il mito serve a Platone per supportare in maniera immaginifica l’argomentazione filosofica.

da Platone, Simposio, trad. di G. Calogero, Laterza Bari, 203A-204D, pp. 73-75.

In occasione della nascita di Afrodite1 gli dei si trovavano a banchetto, e tra gli altri c’era anche il figlio di Saggezza, Ingegno. Dopo che ebbero pranzato, venne a chieder l’elemosina, come accade quando c’è un festino, Povertà; e stava vicino alla porta. Ingegno, intanto, ubriaco di nettare (ché il vino non c’era ancora), entrato nel giardino di Zeus, vi era stato còlto da un sonno profondo. Allora Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto e concepisce Amore. Ecco perché Amore, generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite. E come figlio d’Ingegno e di Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzi tutto, è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi ruvido e ispido e scalzo e senza tetto; e abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire a ciel sereno sulle soglie e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la miseria. Per parte del padre, d’altronde, è ardente insidiatore del bello e del buono, valoroso e impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di capire e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore ed esperto di filtri e sofista. E non è nato né immortale né mortale, ma nello stesso giorno ora germoglia e vive, quando gli va bene, ora muore, e poi di nuovo risuscita grazie alla natura del padre; e quel che acquista gli sfugge subito di mano, sicché Amore non è mai né povero né ricco. Anche tra sapienza ed ignoranza, egli sta in mezzo: e la ragione è questa. Nessuno degli dei filosofa, né aspira a diventar sapiente; lo è già, infatti; e se mai altri sia sapiente, non filosofa. D’altra parte, nemmeno gl’ignoranti filosofano, né desiderano diventar sapienti; ché proprio questo, anzi, l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede invece perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno2. - Ma allora, o Diotima, domandai, chi è che filosofa, se non sono né i sapienti né gl’ignoranti? - Chiaro anche per un bambino questo, ormai: son quelli che stanno in mezzo tra gli uni e gli altri, e tra cui è anche Amore. La sapienza infatti è tra le cose più belle, e Amore è amore del bello; sicché è forza che Amore

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1. Afrodite rappresenta la dea della bellezza, e non è un caso che Eros sia stato concepito durante i festeggiamenti per la nascita di questa dea. In effetti per Platone Eros si identifica con la volontà di generare nel bello. 2. Diotima descrive la condizione del filosofo in termine di consapevolezza del proprio deficit conoscitivo e di desiderio di superare questo stato di mancanza. La tensione erotica parte da questa consapevolezza, ossia da qualcosa di simile al socratico “non sapere”, per poi indirizzarsi verso la méta della conoscenza e verso l’acquisizione del bene e del bello.

3. Platone

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Lessico, Retorica, Stile

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La nascita di Eros e la natura della filosofia



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3. Eros non è l’oggetto della tensione erotica, cioè la sfera del divino (del bene e del bello), ma il soggetto, ossia l’agente, colui che mira a raggiungere il divino: in altre parole Eros non è l’amato ma l’amante.

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sia filosofo, e tale essendo stia nel mezzo tra il sapiente e l’ignorante. E anche di questo il motivo è nella sua nascita: perché è nato di padre sapiente e ricco di mezzi, e di madre non sapiente e povera. Questa dunque, caro Socrate, è la natura del dèmone. Che tu l’abbia, d’altronde, immaginato altrimenti, non è cosa da meravigliarsi: tu hai creduto, per quanto mi sembra di poter congetturare dalle tue parole, che Amore fosse l’amato, non l’amante. Per questo, penso, l’Amore ti appariva bellissimo. E difatti l’oggetto dell’amore è ciò che e veramente bello e soave e perfetto e beato; mentre, chi ama, ha tutt’altro aspetto, quale io t’ho descritto3.

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L’A N T O L O G I A



Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in due parti. Nella prima (righe 1-29), Diotima illustra il racconto mitico della nascita di Eros (cioè di Amore): Eros è figlio di una donna mortale, Povertà-Mancanza, e dalla madre ha ereditato la sua condizione di indigenza; il padre è invece un dio, Poros, cioè Ingegno-Espediente, e da lui Eros ha ricevuto la capacità di superare l’iniziale condizione di mancanza e di pervenire all’acquisizione dei beni di cui va in cerca, cioè il bello, il buono e la stessa conoscenza. 1. Alla fine della prima parte risulta chiaro che la figura che sta delineando Diotima con il mito della nascita di Eros è quella del filosofo. Perché il filosofo sta a metà tra la condizione divina e quella umana? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Infine (righe 30-43), nella descrizione di Eros non si cela solamente un riferimento alla natura “erotica” dell’attività filosofica. Essa rappresenta anche un’allusione alla figura di Socrate, che è il filosofo per eccellenza. Socrate è l’amante, cioè colui che ricerca la virtù e la conoscenza, dunque è la personificazione della filosofia. Essa è infatti una disciplina erotica perché possiede una natura tensionale, caratterizzata dalla consapevolezza di una mancanza e dal desiderio di superarla. 2. Chi sono, secondo Diotima, amato e amante? Quali sono le loro diverse caratteristiche? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Lessico Quali sono i termini e le situazioni che nel brano richiamano la pratica della filosofia? ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Retorica/Stile Perchè secondo te Platone fa risalire il mito della nascita di Eros alla sacerdotessa Diotima? Che tipo di sapere potrebbe comunicare questa figura di donna, misteriosa e dedita al culto degli dèi? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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Guarda ora, disse Socrate, se le cose stanno in questo modo. Noi affermiamo, se non erro, che esiste qualcosa che è uguale, non voglio dire di un legno uguale a un altro legno né di una pietra uguale ad un’altra pietra né di altro di questo genere, ma di una cosa che è diversa rispetto a tutti questi uguali, l’uguale in sé; dovremo affermare che è qualcosa o no? - Dobbiamo affermarlo sicuramente, per Zeus, disse Simmia; e come! - E sappiamo anche ciò che è in se stesso? - Certamente, rispose. - E di dove ne abbiamo avuta la cognizione? Non forse da ciò di cui si parlava un momento fa, o legni o pietre a altre cose qualunque, vedendo che sono uguali? Non è da questi uguali che abbiamo avuto l’idea di quell’uguale che è diverso da questi? O non ti pare che sia diverso? Considera anche per questa via. Forse che pietre uguali e legni uguali non accade talora che, pur essendo gli stessi, ad uno paiono uguali, e ad un altro no? - Proprio così. - Ma dimmi, gli uguali in sé si dà mai il caso che ti paiano disuguali, o l’uguaglianza disuguaglianza? - Non accade proprio mai, Socrate. - Infatti non sono la stessa cosa, disse Socrate, questi uguali e l’uguale in sé. - In nessun modo, è chiaro, Socrate. - Ma nondimeno, disse, è proprio da questi uguali che pure sono diversi da quell’uguale, che tu hai potuto concepire ed acquisire la cognizione di esso? - È verissimo ciò che dici, rispose. […] - E dimmi, riprese Socrate, ci capita qualcosa del genere riguardo agli uguali nei legni e nelle altre cose uguali di cui parlavamo un momento fa? Ci paiono uguali nello stesso modo in cui appunto è l’uguale in sé, oppure sono manchevoli in qualche cosa, o in nulla, rispetto ad esso, quanto ad essere tali come l’uguale? - Sono manchevoli, disse, e molto, anzi. - E allora, quando qualcuno, veduta una cosa, pensi: «Questa cosa che ora io ho sotto gli occhi tende ad essere simile ad un’altra, ad una delle realtà

Lessico

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l’idea dell’uguale

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Lessico pietre o legni uguali

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Lessico le idee

3. Platone

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da Platone, Fedone, trad. di P. Fabrini, Bur, 74A-75C, p. 181-187.

L’A N T O L O G I A

Nel Fedone Platone ricostruisce le ultime ore di Socrate, il quale attende in carcere con alcuni discepoli e amici il momento in cui dovrà bere la cicuta. Di fronte alla disperazione dei suoi interlocutori egli cerca di dimostrare che la morte non è altro che separazione dell’anima dal corpo, e che dunque essa non è per lui un male. Nel corso di questa lunga discussione tra gli interlocutori del filosofo si distinguono due pitagorici, Simmia e Cebete, ai quali il tema dell’anima sembra particolarmente caro. Uno degli argomenti che Socrate porta in favore dell’autonomia dell’anima nei confronti del corpo consiste nella dimostrazione della natura della conoscenza, la quale si identifica con la reminiscenza, ossia con il ricordo di una conoscenza precedentemente acquisita. In questo caso a Socrate non preme dimostrare l’immortalità dell’anima, cioè la sua sopravvivenza alla morte del corpo, quanto la sua preesistenza, cioè il fatto che l’anima esisteva anche prima di incarnarsi in un corpo mortale.

FOC

Lessico, Argomentazione



US

La conoscenza e la reminiscenza

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Lessico l’idea

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Lessico la cosa sensibile

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Lessico solo mediante quella sensibile

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L’A N T O L O G I A



Lessico le cose sensibili tendono alla perfezione dell’idea

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1. Il rapporto tra cosa sensibile (o relazione tra cose sensibili, come, qui, nel caso dell’uguaglianza) e idea è di tipo imitativo, descrivibile nei termini di copia/modello. 2. L’ipotesi che l’anima abbia contemplato il mondo delle idee prima di incarnarsi in un corpo esprime in forma mitica una concezione filosofica ben precisa, quella secondo la quale la conoscenza autentica rappresenta un fenomeno a-priori, indipendente cioè dall’esperienza sensibile.

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assolute, ma è manchevole e non può essere tale quale è quella, e anzi è da meno», non siamo noi d’accordo che inevitabilmente, credo, chi pensa così si trovi ad essersi fatta in precedenza un’idea di ciò a cui afferma che quella tal cosa assomiglia1, ma rispetto al quale resta manchevole? - Inevitabilmente. - Ma, dimmi, è capitato anche a noi qualcosa del genere o no, rispetto agli uguali e all’uguale in sé? - Senza alcun dubbio. - Dunque è inevitabile che noi si sia avuto un’idea dell’uguale già prima di quel tempo in cui, vedendo per la prima volta le cose uguali, siamo arrivati a pensare che tutti questi uguali aspirano bensì ad essere come l’uguale, ma gli restano al di sotto. - È così. - Ma certamente siamo d’accordo anche in questo, che non per altra via ci è potuto venire questo pensiero, né è possibile che da altro ci venga, se non dal vedere o dal toccare o da qualche altra delle percezioni sensibili; perché qui e considero tutt’uno. - Giacché valgono lo stesso, Socrate, disse, almeno rispetto a ciò che il nostro ragionamento si propone di dimostrare. - Ma, naturalmente, è appunto da queste sensazioni che deve venirci il pensiero che tutti gli uguali sensibili aspirano ad essere quello che è l’uguale in sé, e di esso restano tuttavia al di sotto. O come vogliamo dire? - Così. - Prima, dunque, che cominciassimo a vedere e ad ascoltare e a far uso degli altri nostri sensi, bisognava in qualche modo che ci trovassimo ad aver già acquisito la conoscenza dell’uguale in sé, che cosa realmente è, se è vero che poi dovevamo riferire a quello le cose che dai sensi ci risultavano uguali, pensando che tutte fanno del loro meglio per essere tali quale è quello, mentre gli rimangono al di sotto. - È inevitabile in conseguenza di ciò che s’è detto prima, Socrate. - Ora, non è vero che, subito appena nati, noi vedevamo e udivamo e avevamo gli altri sensi? - Sicuramente. - Bene, ma non bisognava anche, noi affermiamo, che prima di questi avessimo già acquisito la conoscenza dell’uguale? - Sì. - E dunque, a quanto pare, è necessario che l’avessimo acquisita prima di nascere2. - Così pare.

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IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in quattro parti. Nella prima (righe 1-8) Socrate si assicura che l’interlocutore, Simmia, ammetta ancora l’esistenza dell’idea dell’uguale. Si tratta di un’idea di relazione tra cose (come quella di somiglianza, maggiore o minore e così via). 1. Come viene definita nel brano l’idea dell’uguale? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Socrate si sofferma poi (righe 9-24) sul rapporto tra cose sensibili e idea corrispondente. Questo rapporto si definisce come di natura imitativa: la vista di due pezzi di legno che mi paiono uguali fa emergere il ricordo dell’idea di uguale, proprio perché l’uguaglianza tra i legni è imitazione dell’idea di uguale. È dunque la via dell’esperienza sensibile che suscita il ricordo dell’idea. 2. Le copie sensibili sono identiche rispetto al modello?

........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella quarta parte del brano (righe 31-72) Socrate porta a conclusione l’argomentazione di cui ha posto le premesse. Se ammettiamo che esista l’idea dell’uguale, che il ricordo di questa sia suscitato in noi dall’esperienza sensibile e che però le cose di cui facciamo esperienza siano in realtà ’manchevoli’, cioè imperfette copie dell’idea dell’uguale; allora, perché possiamo fare questo paragone, sarà necessario ammettere che abbiamo conosciuto l’idea dell’uguale in precedenza.

L’A N T O L O G I A

3. Come vengono caratterizzate le cose sensibili rispetto all’idea dell’uguale?



Nella terza parte (righe 25-30) Socrate stabilisce con l’interlocutore un confronto puntuale tra l’uguaglianza delle cose sensibili (i pezzi di legno che appaiono uguali) e l’idea dell’uguale.



...........................................................................................................................................................................................................................................................

4. Rileggi bene l’argomentazione. Quando devo aver conosciuto l’idea dell’uguale? Quali sono le conseguenze di questa conclusione? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Lessico In questo brano Platone illustra la sua cosiddetta teoria della “reminiscenza”. In che cosa consiste? ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Argomentazione Abbiamo qui un esempio eccellente di come Platone costruisca la propria argomentazione attraverso il dialogo. Il lettore, che segue questo incalzante susseguirsi di battute, viene condotto man mano all'intima adesione alla posizione socratica. Questo processo viene favorito dalla progressiva identificazione da parte del lettore con uno dei personaggi del dialogo: quale? ...........................................................................................................................................................................................................................................................

3. Platone

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CITTADINANZA E COSTITUZIONE

La partecipazione politica

Sofisti e partecipazione politica C’è un legame stretto tra sofistica e democrazia: i sofisti, infatti, sono “maestri del sapere” che insegnano ai cittadini la tèchne politikè, cioè l’arte politica, l’insieme delle competenze (relative al linguaggio ma anche al comportamento) di cui i cittadini hanno bisogno per partecipare attivamente alla vita associata. I sofisti ricevono un compenso per insegnare a rendere forte un discorso debole, rispondendo così a una nuova esigenza nata per la democrazia ateniese del V-IV secolo a.C., cioè l’acquisizione del consenso da parte dei cittadini. Nel regime democratico di Atene il potere è legittimato appunto dal consenso che viene raccolto intorno alle idee e alle proposte. Per questo occorre acquisire la capacità di persuadere gli altri cittadini nei tribunali e nelle assemblee. La partecipazione politica nel costituzionalismo moderno Con il termine “partecipazione”, inteso in senso politico, si indica il prendere parte a un certo atto o processo, ma anche l’essere parte di un organismo o di un gruppo. La partecipazione politica è l’insieme di azioni e di comportamenti che mirano a influenzare più o meno direttamente la scelta dei detentori del potere politico e le loro decisioni, per conservare o modificare la struttura e i valori del sistema di interessi dominante.

Leggi Platone «[…] il sapiente ha fatto sì che, per i cittadini di ognuna di quelle città, siano e appaiano giuste cose convenienti invece di cose cattive. Secondo lo stesso ragionamento, anche il sofista, capace di fornire questa educazione ai suoi allievi, è sapiente e degno di ricevere ingenti retribuzioni da parte di coloro che ha educato».

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E [...] nell’educazione: bisogna cambiare un certo carattere in un altro migliore; solo che il medico attua il mutamento attraverso i farmaci, mentre il sofista adopera i discorsi. (Platone) Nelle democrazie contemporanee si è verificato il declino della partecipazione politica tradizionale, causato da vari fattori, tra i quali il fatto che nella società industriale contemporanea il Parlamento non è più il centro del potere reale e si indebolisce la capacità rappresentativa della classe politica, che tende all’autoconservazione. Questo ha portato alla nascita di forme alternative alla democrazia rappresentativa, basate su una forte partecipazione della società civile. Così, sono emersi vari movimenti di opinione e attività sociale e politica, a livello nazionale e globale, che si propongono come alternativi o complementari all’attuale sistema di rappresentanza politica della democrazia partecipativa. Esprimono in modi diversi un crescente bisogno di inclusione e partecipazione politica da parte della società civile. Questa partecipazione è aperta a tutti i cittadini in quanto tali, con un ruolo significativo delle associazioni nella gestione della cosa pubblica. Tale partecipazione è basata sul rapporto tra le istituzioni e i movimenti politici espressi dalla società civile. La partecipazione politica nella Costituzione La Costituzione italiana rappresenta il frutto del lungo cammino effettuato dalla dittatura fascista a una partecipazione politica compiuta nell’Italia democratica.

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Le scene di sacrificio costituivano nell’antichità un esempio di partecipazione politica. Particolare del rilievo detto l’Apoteosi di Omero, 125 a.C. Londra, British Museum.

Leggi la Costituzione Art. 1 […] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. I partiti politici sono uno degli strumenti con cui i cittadini possono partecipare alla determinazione della politica nazionale; si tratta di associazioni “private” di cittadini che condividono le stesse idee politiche e si uniscono per farle valere, presentando agli elettori proposte e persone da eleggere al Parlamento. Queste organizzazioni costituiscono dei corpi intermedi fra la società e lo Stato, fondamentali per il funzionamento della democrazia. La democrazia italiana, infatti, è una democrazia rappresentativa, parlamentare e organizzata attraverso i partiti: i cittadini, cioè, non possono esercitare da soli poteri deliberativi, tranne che nel caso del referendum abrogativo delle leggi (art. 75 Cost.). Quest’ultimo è uno strumento di democrazia diretta, attraverso il quale cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali possono chiamare il popolo a pronunciarsi direttamente per eliminare delle leggi approvate dal Parlamento.

Art. 3 […] È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 49 Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi

liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale […]. Art. 51 Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso

possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge […]. Art. 75 È indetto referendum popolare […] per

deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge […], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

RIELABORA E RIFLETTI 1. Spiega il ruolo dei sofisti nell’ambito della democrazia ateniese del V-IV secolo a.C. (max 3 righe). 2. Commenta il significato dell’espressione “partecipazione politica” (max 5 righe). 3. In un testo di almeno 10 righe illustra i modi previsti dalla Costituzione italiana per rendere possibile la partecipazione dei cittadini alla vita politica.

3. Platone

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FARE FILOSOFIA Giustizia/giusto I molteplici usi dei termini I termini “giustizia” e “giusto” si presentano di continuo nel linguaggio quotidiano a proposito degli argomenti più diversi. La giustizia è tradizionalmente, nel cristianesimo, una virtù. Tuttavia ci riferiamo alla giustizia anche quando parliamo della facoltà di giudicare, premiare o punire riferendoci, per esempio, alla magistratura, o comunque all’apparato repressivo e penale («assicurare un individuo alla giustizia», o «è stata una pena giusta»), o alla giustizia umana e, magari, divina. Si parla spesso, poi, di un’azione giusta, di una persona giusta, di una legge giusta, di una società giusta, ma anche della misura giusta di un vestito, di una giusta richiesta o di un giusto prezzo. Le accezioni più rilevanti Ci sono quindi molti

modi per parlare di giustizia e di cose giuste e molti significati di questi termini. Qui ne affrontiamo solo alcuni che sembrano più importanti. Parlare della “misura giusta” di un vestito, per esempio, significa semplicemente parlare dell’adeguatezza del modo in cui è stata tagliata una certa stoffa rispetto a un certo corpo. Più importanti sono però gli usi di “giusto” e “giustizia” che rimandano a due principali significati: la correttezza morale, da un lato, e la distribuzione (dei beni o di un trattamento) o la retribuzione (di una colpa o di un merito), dall’altro.

1. La giustizia come correttezza morale Azioni “moralmente corrette” o “sbagliate”

Quando diciamo che un’azione è giusta intendiamo che un’azione è conforme a certi criteri di valutazione morale o, più semplicemente, a certi criteri morali. Nella lingua italiana il contrario di “giusto” in questo significato non è tanto “ingiusto” quanto “sbagliato”. Si potrebbe addirittura dire che la coppia più adeguata da utilizzare per parlare del “giusto” o della “giustizia” in questo significato sia la coppia “moralmente corretto”/”moralmente sbagliato”.

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Usi non morali di “giusto” Dire a qualcuno che ha compiuto un’azione giusta significa, cioè, dirgli che ha compiuto l’azione, o un’azione, moralmente corretta. Naturalmente, questo significato di “giusto” come “corretto” ha un’applicazione anche al di fuori della morale, per esempio quando si parla di un gioco e delle mosse “giuste”, per esempio una mossa nel gioco degli scacchi o del calcio: «Era la mossa giusta da fare», «ha fatto il passaggio giusto», «da quella posizione era giusto tirare in porta» e così via. Il giudizio su un’azione, quando si tratta di un giudizio morale («hai compiuto l’azione giusta»), riguarda di solito l’aspetto esterno delle azioni, ossia la loro giustizia e non la loro “bontà”: un’azione giusta rimane tale anche se non viene compiuta con uno spirito o per un motivo particolarmente nobile. La “giustizia” (o “correttezza morale”) di un’azione non dipende dal fatto che dietro di essa ci sia un motivo buono, ciò che invece sarebbe importante per valutare la bontà dell’azione e quindi dell’individuo che la compie. Se l’azione giusta viene compiuta per interesse personale, vanagloria, esibizionismo, essa rimane un’azione giusta anche se esiteremmo – a dir poco – a giudicarla un’azione buona.

2. Assolutezza della giustizia Un problema che si può porre, se ci interroghiamo sulle azioni che possono essere giuste o sbagliate, è se ci siano azioni assolutamente giuste oppure se la valutazione morale dipenda dall’atteggiamento soggettivo di chi giudica, da una certa educazione o da una certa cultura e così via. Assolutismo e relativismo morale Secondo una certa interpretazione della moralità, ci sono azioni assolutamente giuste o assolutamente sbagliate che rimangono giuste o sbagliate in qualunque contesto e in qualunque situazione. Possono esistere, tuttavia, alcune eccezioni. Per alcuni, per esempio, è assolutamente sbagliato

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Jenny Holzer, Segni di Sopravvivenza, insegna luminosa. New York

uccidere un essere umano, quindi questa azione è vietata in modo assoluto. Ci sono, però, almeno alcune eccezioni: nel caso del divieto di uccidere, molti di coloro che condividono l’assolutezza di questa norma, per esempio, riconoscono la possibilità (cioè il permesso morale) di uccidere per legittima difesa, se si è un soldato in guerra o un militante rivoluzionario. La possibilità di uccidere, inoltre, è ammessa da chi sostiene la pena di morte. Un’interpretazione diversa è quella secondo cui la giustizia delle azioni dipende o meno da fattori soggettivi, storici o culturali: qualcuno può giudicare corretta moralmente un’azione che qualcun altro giudica sbagliata, con differenze anche radicali tra diverse persone, tra diversi periodi storici o tra diverse civiltà e culture (anche in uno stesso periodo storico).

3. Platone

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3. Azione giusta e dovere “Giusto” e “doveroso” L’idea di “azione giusta” è

senz’altro collegata al concetto di “dovere”. Suonerebbe in effetti paradossale e strano affermare che l’azione che in un certo contesto è un dovere non sia anche giusta, nel senso di “moralmente corretta”: tutti i doveri sono, per chi li considera tali, almeno azioni giuste. Estensione dei concetti di “giusto” e “dovere” Ma

non è detto che tutte le azioni giuste siano doveri, cioè azioni obbligatorie: ci possono essere azioni giuste che non sono doveri. Questo caso si verifica, per esempio, quando ci sono diverse azioni giuste che io posso compiere,

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Giustizia/giusto

senza poterle compiere tutte: ho il dovere di compierne almeno una, ma non tutte queste azioni giuste sono doveri. Ciò vale tanto più se il mio dovere è raggiungere un certo scopo o un certo risultato: se io devo – cioè ho il dovere di – nutrire mio figlio, ci possono essere diverse azioni alternative altrettanto giuste che fanno sì che io adempia con esse al mio dovere (per esempio scegliendo un’alternativa tra cucinare e portare mio figlio in trattoria). Detto in altre parole: il significato di “giusto” è più ampio di quello di “dovere” e ci sono più azioni “giuste” rispetto a quelle che costituiscono veri e propri doveri.

4. A ciascuno il suo La giustizia come “equità” Un significato impor-

tante di “giustizia” e del termine “giusto” riguarda l’equità, ossia l’idea di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta, secondo una definizione tradizionale della giustizia. GIUSTIZIA

giustizia come rightness = correttezza morale

giustizia come justice = equità

(corretto = conforme a criteri morali)

(attribuire a ciascuno ciò che gli spetta)

• azioni moralmente corrette/azioni moralmente sbagliate

• giustizia in ambito sociale

• giustizia come valore assoluto/ giustizia dipendente da fattori soggettivi, storici e culturali • azioni giuste che sono doveri (obbligatorie)/ azioni giuste che non sono doveri

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• giustizia in ambito giuridico • giustizia in ambito economico

È un significato decisamente diverso da quello di “moralmente corretto”, che abbiamo considerato finora: ora si tratta di giudicare giusto quel comportamento o anche quell’uomo che realizzi un ideale di giustizia riguardante, per esempio, la distribuzione di determinati beni o la retribuzione con determinati premi o con determinate punizioni. È in questa circostanza che il contrario di “giusto”, almeno nella maggior parte dei casi, è più adeguatamente espresso con il termine “ingiusto”. Nella lingua inglese, infatti, la giustizia intesa come “correttezza morale” è detta rightness, mentre in questo secondo significato è detta justice. Giustizia sociale e distribuzione dei beni Anche nel caso della distribuzione dei beni ci saranno numerosi pareri radicalmente discordanti tra loro, a seconda dei diversi ideali, appunto, di “giustizia”. A questo proposito, è curioso che si accetti più facilmente una differenza di opinioni perché si pensa che sia abbastanza naturale pensarla in modo diverso in materie più esplicitamente dipendenti dalla divergenza di posizioni politiche. Sembra diffusa l’opinione, infatti, che la morale sia qualcosa di necessariamente condiviso e che il disaccordo su questioni politiche sia sostanzialmente meno grave. Si tratta in questo caso della distribuzione dei beni, e differenti concezioni della giustizia sociale prevedono diversi modi di distribuirli. Il problema dei criteri della distribuzione Questo è un significato molto importante del termine “giustizia”: coinvolge molti aspetti della vita sociale e rientra nella concezione della giustizia come problema dell’assegnazione a ciascuno di quello che gli (o le) spetta (suum cuique tribuere, secondo un detto antico). È chiaro che la formulazione generale del problema enunciata nel detto non dice come e secondo quali criteri si possa determinare che cosa o quanto concretamente spetti a ciascuno. Si può infatti pensare che a ciascuno spetti una certa quantità di beni uguale, approssimativamente uguale, oppure anche molto diversa, a seconda del criterio che viene utilizzato per stabilire che cosa sia “giusto”. Uguaglianza di trattamento a parità di condizioni

Ma questo significato non ha semplicemente una dimensione economica: può riguardare anche la giustizia nel trattare le persone. Di frequente ci troviamo a valutare come ingiusto un comportamento che per esempio, senza un’apparente giustificazione, tratti in modo diverso soggetti che in linea di principio ci sembra abbiano diritto a un trattamento uguale: almeno secondo certi

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criteri ampiamente diffusi nelle società occidentali, tutti i cittadini hanno diritto a un trattamento analogo quando si trovano nelle medesime condizioni, salvo eccezioni motivate. Dunque verrebbe di solito ritenuto ingiusto, per esempio, che a qualcuno fosse permesso di passare con il rosso a un semaforo, dato che tutti gli altri devono fermarsi e lasciar passare quelli che hanno il verde (un’eccezione motivata sarebbe che si trattasse di un’autoambulanza con la sirena accesa e un ferito grave a bordo). Un esempio classico di ingiustizia, vera o almeno percepita come tale, riguarda l’ambito familiare e la consueta protesta da parte dei figli sulla disparità di trattamento: l’obiezione rivolta ai genitori è solitamente che sono “ingiusti” proprio nel senso che offrono un trattamento diverso a persone che hanno

una condizione e pretese simili. Ma gli esempi e i parallelismi potrebbero continuare estendendosi a molte altre situazioni. Retribuzione di premi e punizioni L’idea che a cia-

scuno spetti il suo è importante anche in un ambito particolare, quello della pena o della punizione: non è un caso che si parli di punizioni o di pene giuste e ingiuste e di premi giusti e ingiusti. Normalmente, la giustizia o l’ingiustizia della punizione (o del premio) è valutata o rispetto all’effettivo compimento dell’azione o del comportamento da premiare o da punire, o rispetto all’entità del premio o della punizione. Lo stesso principio vale in ambito giuridico: per pene eccessivamente lievi o eccessivamente severe utilizziamo infatti l’aggettivo “ingiusto”.

Operai della Fiat manifestano per i diritti dei lavoratori negli anni Settanta.

3. Platone

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Giustizia/giusto

Il libro Uomini e topi di John Steinbeck DETTAGLI DI PUBBLICAZIONE Titolo originale: Of Mice and Men

1a edizione: 1937

TRAMA Negli anni Trenta del Novecento, in una fattoria della California, lavorano in condizioni molto dure alcuni braccianti. Un giorno arrivano Lennie e George, in fuga da un’altra fattoria, dove Lennie ha provocato l’ennesimo guaio. I due compagni incarnano dei veri e propri opposti: Lennie è un ragazzone ingenuo e dotato di grandissima forza fisica, che non sa controllare; è affetto da un ritardo mentale e si affida completamente a George, smilzo e acuto. Nella fattoria ci sono anche Candy (il più vecchio), Crooks (pacifico e socievole uomo di colore), Curley (figlio del padrone, indisponente e scontroso e svelto di mani) e sua moglie (profondamente insoddisfatta, sempre in giro per i campi e i locali riservati ai braccianti, con cui esibisce un atteggiamento provocante). George raccomanda a Lennie di star lontano dalla donna, ma Lennie un giorno, accarezzandola, finisce per spezzarle l’osso del collo. Quando il corpo senza vita della donna viene trovato, comincia la caccia all’uomo. Così, George si vede costretto a uccidere Lennie, sparandogli un colpo di pistola alla testa, per salvarlo dalla vendetta di Curley e degli altri braccianti.

CITAZIONE Il titolo del romanzo deriva da una poesia dello scozzese Robert Burns (1759-1796), nella quale il lavoro di un topo viene infine distrutto dall’aratro dell’uomo: «Ma, topolino, non sei il solo / a comprovare che la previdenza può esser vana: / i migliori piani dei topi e degli uomini / vanno spesso di traverso, / e non ci lasciano che dolore e pena / invece della gioia promessa!».

MOTIVO D’INTERESSE I temi fondamentali del racconto riguardano la discriminazione razziale e sessuale, la malattia e il dolore, la condizione di sfruttamento dei soggetti socialmente più vulnerabili. L’ambiente nel quale si muovono e agiscono i personaggi è caratterizzato dalla solitudine, dall’incomunicabilità e, soprattutto, dal prevalere della legge del più forte. Crooks, per esempio, a causa del colore della sua pelle alloggia separatamente rispetto agli altri braccianti ed è spesso oggetto della furia del padrone. Il secondo tipo di discriminazione riguarda la moglie di Curley. La donna, infatti, viene considerata da tutti una fonte di guai. Con il personaggio di Candy, cui è stata amputata una mano, viene poi introdotto il tema della malattia, che compare nel racconto anche come disturbo mentale, espresso nel personaggio di Lennie. Ma il tema principale è la protesta contro lo sfruttamento e contro la discriminazione degli “irregolari”, e il sogno di una vita migliore. Questo richiama il significato del termine “giustizia” come attribuzione a ognuno di ciò che gli spetta. Tale significato non va però inteso qui in una dimensione soltanto economica, ma anche sociale, e riguarda l’uguaglianza di trattamento a parità di condizioni.

PER RIFLETTERE

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■ In inglese rightness è la giustizia intesa come correttezza morale, mentre justice significa “equità”. Prova a fare un esempio di qualcosa che può essere considerato corretto da un punto di vista morale ma non lo è necessariamente sul piano dell’equità, o viceversa. L’età antica

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Il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri SCHEDA TECNICA Titolo: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto Anno: 1970

Regia: Elio Petri Genere: drammatico, poliziesco

TRAMA Il giorno della sua promozione il “dottore”, capo della sezione omicidi, uccide l’amante, Augusta Terzi. Dopo il delitto dissemina la scena di prove e poi, nel corso delle indagini, ricatta, facilita o depista i colleghi che seguono il caso. Ritenendosi al di sopra di ogni sospetto, vuole dimostrare che i rappresentanti del potere sono immuni anche di fronte a prove schiaccianti. (La stessa Terzi invitava il “dottore” ad abusare del proprio potere e lo provocava parlandogli della propria relazione con il giovane Pace, uno studente “rivoluzionario”). Il film mostra dunque la scissione del potere attraverso l’assoluta insospettabilità di questo potere, da una parte, e, dall’altra, la sua ugualmente insospettabile debolezza. Ma è il proprio potere a riportare l’ordine riaffermando se stesso: il “sistema” aiuta l’assassino facendo ricadere i sospetti su un giovane che potrebbe testimoniare contro il colpevole. In seguito, tuttavia, sarà lo stesso colpevole a desiderare di essere punito, ma questa punizione gli viene negata dalla sua posizione e dal potere che da essa gli deriva. L’unico che potrebbe denunciarlo è proprio Pace, che però preferisce tacere per ricattarlo. Il “dottore” decide quindi di consegnare una lettera ai colleghi nella quale confessa la sua colpa, poi si ritira in casa. Mentre aspetta che vengano a prelevarlo, si addormenta e sogna di essere costretto da superiori e colleghi a firmare la confessione della propria innocenza. Al risveglio lo attende il finale vero e proprio del film, con l’arrivo delle autorità di polizia.

CITAZIONE «Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!».

MOTIVO D’INTERESSE Il film riflette sui meccanismi di funzionamento del potere e sull’immunità di chi detiene ed esercita quel potere. Abbiamo visto che tra i significati del termine “giustizia” c’è anche quello di “uguaglianza di trattamento”: in questo senso, il film evidentemente conclude che la legge non è uguale per tutti e permette di riflettere sul “lato-ombra” della giustizia, cioè sul potere esercitato attraverso strumenti repressivi e spionistici. Si produce, così, una divergenza fra la giustizia e la legge che dovrebbe garantire tale giustizia. In un contesto del genere Augusta Terzi si rivela una variabile non prevedibile nella fantasia di onnipotenza del potere, e va eliminata. Tuttavia, l’assolutismo che domina il sistema incarnato dal “dottore” si ritrova anche sul fronte opposto. Lo studente anarchico, che a quel sistema si contrappone, rappresenta inconsapevolmente un alter ego del “dottore” e ragiona come lui: non lo denuncia perché al principio di autorità cui lui stesso obbedisce fa comodo pensare che tutti coloro che fanno parte del sistema siano ugualmente criminali. Questo richiama il problema della distinzione tra “giusto” e “doveroso”, che non necessariamente coincidono: da una parte c’è, per lo studente, il dovere di denunciare il colpevole, dall’altra la sua convinzione che la vera giustizia possa essere compiuta solo tacendo.

PER RIFLETTERE ■ Ritieni che la scelta dello studente sia giusta o ingiusta rispetto al significato di “giustizia” precedentemente analizzato? 3. Platone

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4. Che cos’è la giustizia?

492-479 a.C. Guerre greco-persiane. Si afferma l’egemonia di Atene.

431-404 a.C. Guerra del Peloponneso tra Sparta e i suoi alleati e Atene e la Lega di Delo.

EVENTI FILOSOFI

I FILOSOFI E LE LORO TESI

LE RISPOSTE

427 a.C. Platone nasce ad Atene.

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FUNZIONE STRUMENTALE DELLA GIUSTIZIA: la giustizia è l’utilità, o lo strumento, del potere e di chi lo detiene

NATURA CONVENZIONALE DELLA GIUSTIZIA: è frutto di un patto stabilito dagli uomini per paura e debolezza, dietro il quale si cela la tendenza dell’uomo alla sopraffazione

Platone Repubblica

Platone Repubblica

in quanto rispetto della legge, la giustizia è uno strumento del potere vantaggioso per i governanti, ma svantaggioso per i sudditi (tesi di Trasimaco)

avere fama di essere giusti è utile per poter tramare segretamente azioni ingiuste e sopraffare gli altri senza doverne rendere conto (conclusioni di Adimanto) la giustizia è solo una maschera sociale che gli uomini indossano per paura; l’esistenza della legge non cancella le pulsioni aggressive dell’uomo (tesi di Glaucone)

RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque. (Martin Luther King)

404-403 a.C. Fine della guerra del Peloponneso e fine dell’egemonia ateniese. Ad Atene viene instaurato il regime dei Trenta Tiranni.

371-362 a.C. Grazie a Epaminonda si afferma l’egemonia di Tebe.

338-336 a.C. Filippo, re di Macedonia, ottiene l’egemonia sulla Grecia centrale.

384 a.C. Aristotele nasce a Stagira.

334-324 a.C. Alessandro, figlio di Filippo, conquista l’Impero persiano.

323 a.C. Morte di Alessandro Magno.

347 a.C. Platone muore ad Atene.

322 a.C. Aristotele muore a Calcide.

LE RISPOSTE

GIUSTIZIA COME ORDINE SOCIALE E GARANZIA DI FELICITÀ: è un potere giusto esercitato con il consenso di tutto il corpo sociale

Platone Repubblica

Aristotele Etica nicomachea

la giustizia è conformità alle regole della città e tale conformità è la condizione che rende possibile la vita sociale

la giustizia paga e conviene perseguirla nella vita privata e in quella pubblica, perché solo essa garantisce agli uomini la felicità. La giustizia è per l’anima individuale e per la comunità ciò che la salute è per il corpo

la giustizia consiste nell’osservanza della legge, perché questa prescrive le norme politiche e morali del comportamento mirando alla felicità collettiva e, dunque, a quella dei singoli individui

T2 Giustizia è una città che canta all’unisono

T3 La virtù del giusto e la legge

T1 La legge di Zeus

4. Che cos’è la giustizia?

I FILOSOFI E LE LORO TESI

Platone Protagora

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✔ Filosofia e letteratura: T4 Sofocle, Le leggi non scritte degli dèi T5 Dante, L’uomo di filosofia deve respingere l’umiliazione e l’ingiustizia 07_cap4.indd 175

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1. Breve storia del termine “giustizia”

Omero: le norme condivise dalla comunità

Equivalenza tra “giusto” e “legale”

Platone: giustizia come virtù individuale e sociale

Che cos’è la giustizia nella vita individuale e collettiva? Questa domanda si ponevano in modo particolarmente acuto nella società greca, in cui non esistevano una forte autorità religiosa né un forte potere statale, che avrebbero imposto di rispondere: «Giustizia è il rispetto dei comandamenti della religione», o «giustizia è ubbidire ai voleri del sovrano». A quella già formulata si aggiungeva poi un’altra domanda: perché dovremmo essere giusti anziché ingiusti? Gli sforzi richiesti dal rispetto delle norme di giustizia vengono ricompensati? Anzitutto occorre chiarire il senso del termine “giustizia”. Già in Omero “giustizia” indica l’insieme delle norme, condivise da una comunità, che regolano i comportamenti e i rapporti fra gli uomini. A tali norme tutti devono adeguarsi: chi non le accetta si pone al di fuori della società umana. Con la nascita della legislazione pubblica la parola “giustizia” indica le regole del funzionamento dei tribunali e le sanzioni che essi comminano ai trasgressori della legge della città. Si stabilisce così una stretta equivalenza fra “giustizia” e “legge”: l’azione giusta è quella conforme alla legge. Questa posizione, molto diffusa nel pensiero filosofico fra V e IV secolo a.C., era accettata anche da un filosofo critico come Socrate. La tesi dell’equivalenza tra giustizia e legge ha due aspetti rilevanti: 1. la politicizzazione della giustizia, perché la legge è espressione della volontà della comunità cittadina; 2. il fatto che la giustizia riguardava soprattutto la sfera dell’azione, in particolare di quelle azioni che riguardavano i rapporti sociali. In seguito, soprattutto con Platone, la giustizia diviene anche una “virtù” individuale: riguarda cioè non più solo le azioni compiute, ma il soggetto agente. Platone cercherà di unire l’aspetto soggettivo e l’aspetto sociale del problema della giustizia concependo anche la comunità politica (la pòlis) quale soggetto collettivo; esso deve essere giusto e virtuoso come l’individuo. In questo modo Platone tenta di rispondere a questioni oggetto di dibattito filosofico: • Quali sono le origini delle norme di giustizia? • Tali norme corrispondono alla natura originaria dell’uomo o sono in conflitto con essa? • Esse sono davvero necessarie alla vita sociale? • Che cosa significa che giustizia equivale a legge se possono esistere leggi ingiuste, come quelle applicate dai tribunali ateniesi che avevano condannato a morte un uomo giusto come Socrate? • Se le leggi esprimono la volontà politica di una città e possono mutare con il cambiamento delle maggioranze che esprimono tale volontà, la norma morale della giustizia è altrettanto mutevole? L’uomo giusto non sarà allora altro che chi è più pronto a conformarsi al corso variabile delle vicende politiche nella sua città? PER SINTETIZZARE • Come unisce Platone l’aspetto soggettivo e l’aspetto sociale della questione della giustizia?

2. Origini e necessità della giustizia: il “mito” di Protagora Una teoria sulla nascita della società

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Nel dialogo Protagora Platone introduce, fra i personaggi, il grande sofista Protagora, che narra un mito sulle origini dell’umanità e sulla nascita della giustizia. Il mito contiene precisi elementi di una teoria sullo sviluppo dell’umanità e sulla formazione della società, cioè: 1. l’uomo è per natura un animale indifeso di fronte agli altri animali e all’ambiente in cui vive (“fase di Epimeteo”);

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Giustizia e comunità politica

2. tuttavia l’uomo è in grado di inventare tecniche che lo proteggano dall’ambiente naturale (anzitutto, la costruzione di armi di offesa e di difesa), ma la sua naturale aggressività rende impossibile la convivenza nella società (“fase di Prometeo”); 3. gli uomini possono comunque acquisire le doti morali del reciproco rispetto e della giustizia, cioè dell’osservanza delle regole della convivenza sociale. Queste doti formano la “virtù politica”; grazie a essa possono nascere le comunità politiche (pòleis), basate sulla collaborazione e non sull’aggressività (“fase di Zeus”). Da questa visione, sostanzialmente ottimistica, Protagora trae importanti conseguenze: • poiché tutti gli uomini possiedono la virtù politica, essi hanno pari diritto a partecipare alle decisioni politiche della loro comunità: si tratta del principio base della democrazia greca; • con le sue istituzioni e le sue leggi la città opera per l’educazione dei cittadini: essa consolida lo spirito di giustizia e previene il ritorno degli impulsi aggressivi. Dunque, per Protagora la giustizia è condizione di possibilità della vita sociale e il senso della giustizia si forma nel corso dello sviluppo della civiltà umana; l’esistenza delle comunità politiche prova che il senso della giustizia è stato acquisito.

PER SINTETIZZARE • Che cosa intende Protagora per “virtù politica”?

3. La giustizia come strumento del potere: la Repubblica

Il teorema di Trasimaco

Nella Repubblica di Platone compare un personaggio, Trasimaco, che rappresenta una corrente di pensiero critico molto importante nella cultura ateniese del IV secolo a.C. Trasimaco accetta la tesi di Protagora e di Socrate per cui la giustizia è conformità alle leggi della città, che sono la condizione della vita sociale, però formula un “teorema” innovativo e radicalmente critico, secondo il quale: 1. giustizia è rispetto della legge; 2. ma in ogni comunità politica le leggi sono promulgate da chi detiene il potere e sono finalizzate alla conservazione di questo potere; 3. dunque, il rispetto delle leggi da parte dei sudditi è nell’interesse del potere e della sua conservazione da parte dei governanti; 4. allora la giustizia non è altro che lo strumento del potere: i sudditi sono “giusti” perché c’è la costrizione delle leggi, ma questo per loro è un male, mentre è un bene per i potenti. Confutare Trasimaco è molto difficile anche per Platone. Platone giudica valida la struttura dell’argomentazione di Trasimaco, ma ritiene che possa esistere un gruppo di governanti che non esercita il potere nel proprio interesse, ma in quello della comunità. Il rispetto delle leggi, in questo caso, non sarebbe utile al potere ma a tutta la comunità.

PER SINTETIZZARE • Che cos’è la giustizia secondo il teorema di Trasimaco?

4. La giustizia: convenzione, ordine sociale e garanzia di felicità Nella Repubblica entrano poi in scena i personaggi di Glaucone e Adimanto. Essi non condividono la tesi di Trasimaco, ma ritengono che tale tesi ponga una sfida importante alla quale Socrate dovrebbe rispondere adeguatamente.

4. Che cos’è la giustizia?

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Glaucone: un patto per frenare l’ingiustizia

Adimanto: l’ingiusto non teme neppure gli dèi

Le parti dell’anima

La società tripartita

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Giustizia, armonia, felicità

Secondo Glaucone: 1. l’istinto radicato nella natura umana consiste nel desiderio di sopraffazione: esso spinge ogni uomo a causare ingiustizia a tutti gli altri per prevalere su di loro; 2. ma ogni uomo si rende conto che il rischio di subire ingiustizia è molto superiore alla sua possibilità di avere successo nella sopraffazione restando impunito. Per paura e debolezza, dunque, gli uomini hanno stretto un patto: con esso rinunciano a causarsi reciprocamente ingiustizia e stabiliscono l’obbligo della giustizia, sancito dalle leggi comuni; 3. questa rinuncia non cancella l’istinto primario della natura umana: la giustizia è solo una “maschera” sociale che gli uomini indossano per paura, e la nascita della comunità politica e della legge non elimina le pulsioni aggressive. Adimanto trae le conclusioni del ragionamento di Glaucone: 1. è utile avere pubblica fama di uomini giusti, per godere della stima dei concittadini e poter tramare segretamente azioni ingiuste senza doverne rendere conto; 2. non ha senso minacciare gli ingiusti appellandosi alle punizioni divine, perché o gli dèi non esistono oppure esistono, ma non si occupano delle cose umane e non c’è motivo di temerli. Comunque, gli dèi sono sensibili ai sacrifici e alle offerte votive; dunque gli ingiusti, grazie alle ricchezze accumulate con le loro trame, riescono a propiziarsi il favore divino. Questi argomenti sfidano Socrate (cioè Platone) a dimostrare che la giustizia è vantaggiosa sia nella sfera pubblica sia in quella individuale. Come Protagora, Trasimaco e Glaucone, anche Platone ritiene che nella natura umana ci sia una insopprimibile tendenza alla sopraffazione; ma Platone pensa che la giustizia imposta dal patto sociale non sia soltanto uno strumento del potere o una maschera che cela tale tendenza. L’anima dell’uomo è composta da tre parti: • due sono irrazionali e tendono alla soddisfazione dei piaceri e all’affermazione aggressiva di sé, quindi all’ingiustizia; • la terza è razionale: essa orienta gli uomini a comportamenti equilibrati e li rende giusti, alieni dai piaceri smodati e attenti a rispettare se stessi e gli altri. Analogamente, la società è composta da tre tipi di uomini: 1. quelli in cui prevale il principio razionale; 2. quelli in cui comanda il principio aggressivo e prepotente; 3. quelli che sono dominati dal desiderio dei piaceri. È giusta la società in cui governa il primo tipo di uomini, con l’alleanza e il consenso, o almeno la sottomissione volontaria, degli altri due tipi. Al tipo aggressivo spetta invece l’attività militare, svolta agli ordini dei governanti razionali. Al tipo dedito ai piaceri si addicono le attività finalizzate al guadagno e svolte, anch’esse, sotto il controllo dei governanti razionali. Platone formula dunque il principio secondo il quale la giustizia, nell’individuo e nella società, consiste nel «fare le cose proprie»: cioè nell’accettazione, da parte di ogni componente dell’anima e della comunità, di svolgere il ruolo e la funzione per i quali è naturalmente dotato, senza pretendere di assumere posizioni di comando per le quali è inadatto. A questo punto, Platone è pronto a rispondere alla sfida di Trasimaco e di Glaucone: la giustizia non è l’interesse dei forti, né la protezione dei deboli, né è contraria alla natura umana. Secondo Platone la giustizia è per l’anima individuale e per la comunità quello che la salute è per il corpo, in cui ogni parte svolge la propria funzione: la giustizia è benessere e felicità. La salute dei corpi è l’equivalente, per l’individuo e la società, del benessere e della felicità. Insomma, “la giustizia paga” e conviene perseguire la virtù della giustizia nella vita privata e in quella pubblica, perché essa è l’unica garanzia della felicità.

PER SINTETIZZARE • Perché, secondo Platone, la virtù della giustizia è vantaggiosa? • In che cosa la tesi di Glaucone e Adimanto si distingue dalla posizione espressa da Trasimaco?

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5. Politica e morale in Aristotele I tre ambiti della giustizia

La dimensione politica

Giustizia politica e giustizia secondo natura

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Il rapporto tra virtù politica e virtù morale

il dilemma di Aritotele

Aristotele ha analizzato le varie accezioni del concetto di “giustizia”, distinguendo tra: 1. “giustizia correttiva”: essa rientra nella sfera giudiziaria e si riferisce alle pene comminate dai tribunali a chi trasgredisce la legge; 2. “giustizia distributiva”: essa appartiene alla sfera economica e riguarda l’equità dei rapporti nella società civile; 3. “giustizia perfetta”: è la giustizia in senso pieno, che si attua nella sfera della politica, cioè dei rapporti fra cittadini. Nell’Etica nicomachea Aristotele sostiene che la giustizia consiste nell’osservanza della legge, perché la legge prescrive le norme politiche e morali del comportamento mirando alla felicità collettiva e, quindi, alla felicità individuale. Nella dimensione politica la giustizia è una virtù di relazione fra persone; quindi la giustizia è un “bene per gli altri”, in un senso opposto a quello sostenuto da Trasimaco: chi agisce in modo giusto reca vantaggio agli altri, oltre che a se stesso, mentre Trasimaco pensava che l’uomo giusto recasse vantaggio ai potenti e danno a se stesso in quanto loro suddito. Tuttavia Aristotele ammette che, poiché alcune leggi possono essere stabilite non correttamente, può aprirsi un contrasto fra l’uomo giusto e l’uomo buono: l’uomo giusto obbedisce alla legge in ogni caso; l’uomo buono segue la virtù morale, come vedremo più avanti. Aristotele stabilisce un rapporto fra giustizia politica e giustizia secondo natura. Esse non sono contrapposte: la giustizia secondo natura ricade nella sfera politica, ma si applica agli uomini che vivono in società in ogni luogo e in ogni tempo; la giustizia politica (o legale), invece, può variare da luogo a luogo e secondo i tempi. In ogni caso, poiché per Aristotele l’uomo è per natura un «animale politico», e tende dunque a vivere in società politiche governate dalla legge, c’è una sostanziale coincidenza fra dimensione politica, legge come norma delle relazioni fra gli uomini, e giustizia come virtù morale che consiste nell’osservanza della legge. Nel trattato sulla Politica Aristotele si pone il problema del rapporto fra politica e morale. La virtù del “buon cittadino” consiste nello svolgere il ruolo assegnatogli dalla comunità in cui vive e nel rispettare le leggi. Quindi, tale virtù varia a seconda delle funzioni del cittadino e delle forme costituzionali della comunità politica cui egli appartiene: in una democrazia sarà buon cittadino chi rispetta le leggi democratiche, in una tirannide chi accetta le leggi tiranniche. La virtù morale, invece, è unica per tutti. Essa, per esempio, proibisce le azioni tiranniche imposte dal regime tirannico con le sue leggi, azioni che invece deve compiere il “buon cittadino” che vive sotto una tirannide. Ora, si chiede Aristotele, ci sono casi in cui il buon cittadino coincide con l’uomo moralmente buono? L’identificazione fra morale e politica sarebbe possibile nella “costituzione perfetta”, le cui leggi prescrivono solo ciò che è moralmente buono, e in cui tutti i cittadini siano buoni. Ma per Aristotele una coincidenza del genere è impossibile, o è possibile solo nei buoni governanti (che sono abili politici e, allo stesso tempo, uomini virtuosi). Questa è un’idea platonica, ma essa contraddice una tesi di Aristotele: la tesi per cui tutti i cittadini devono a turno essere governanti e governati; quell’idea introduce invece una differenza insuperabile fra i «buoni» governanti e gli altri cittadini, che non possono essere tutti altrettanto virtuosi. Aristotele si muove dunque entro un dilemma: o si rifiutano le costituzioni storiche per realizzare quella ideale, o ci si rassegna all’imperfezione delle leggi e quindi alla separazione fra “virtù politica” e “virtù morale”. Il dilemma nasce dal principio per cui la giustizia è rispetto della legge: osservandolo si è certamente buoni cittadini, ma difficilmente si è uomini moralmente giusti; infatti, le leggi sono conformi alle costituzioni, che solitamente non rispecchiano l’ideale della costituzione perfetta.

PER SINTETIZZARE • È possibile, per Aristotele, la coincidenza fra il buon cittadino e l’uomo moralmente buono?

4. Che cos’è la giustizia?

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Platone, La legge di Zeus Il brano seguente è tratto dalla prima parte del Protagora, dialogo scritto da Platone presumibilmente nel periodo compreso tra il 399 e il 387 a.C. Il brano contiene la trattazione sulle tre fasi, rispettivamente di Epimeteo, di Prometeo e di Zeus, cioè le figure mitologiche attraverso le quali Platone, nell’ambito della prospettiva sostanzialmente ottimistica espressa da Protagora, delinea la sua teoria dello sviluppo dell’umanità e della formazione della società.

da Platone, Protagora, trad. di G. Reale, Bompiani, Milano 2001, 321 B-323 A, pp. 41, 43, 45.



L’A N T O L O G I A



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1. Epimeteo, figlio del titano Giapeto e fratello di Prometeo, costituisce l’antitesi di quest’ultimo, essendo maldestro e poco accorto. 2. Prometeo, eroe greco figlio di Giapeto e della ninfa Climene e fratello di Epimeteo, è un benefattore dell’umanità e, secondo alcune tradizioni, ne è anche il creatore, modellando il primo uomo dalla creta. Per aver rubato il fuoco agli dèi Prometeo viene punito da Zeus, che lo fa incatenare sul Caucaso. 3. Nella mitologia greca Efesto, figlio di Era e Zeus, è il dio del fuoco, dei metalli e dei vulcani. 4. Atena è una delle principali divinità della mitologia greca e, secondo la tradizione più nota, nacque dalla testa di Zeus. Atena è la personificazione della saggezza, dell’intelligenza, delle opere di pace e delle arti. 5. Zeus è il maggiore tra gli dei greci. Ultimo figlio di Rea e di Crono, che divorava i figli per timore di essere spodestato, Zeus viene salvato da Rea; divenuto adulto, riesce a far vomitare a Crono i propri fratelli e insieme a loro lo spodesta, dividendo con essi il potere. A Zeus viene assegnato il dominio del cielo e di tutto l’universo. 6. L’acropoli è la rocca, o la parte elevata, di Atene così come di tutte le antiche città greche. 7. Ermes, figlio di Zeus e di Maia, è il dio greco dell’astuzia, dei commerci e dell’eloquenza.

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Orbene, Epimeteo1, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurite tutte le facoltà per gli animali: ma a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. […] Prometeo2 viene a vedere la distribuzione, e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai si avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo […] ruba a Efesto3 e ad Atena4 la loro sapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus5, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli6, dimora di Zeus […]. Entra dunque furtivamente nella officina di Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all’uomo. […] Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano Città. Pertanto perivano a opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse […]. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes7 a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: «Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un’arte. […] anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?» E Zeus rispose: «A tutti quanti! […] perché non potrebbero sorgere Città, se solamente pochi uomini ne partecipassero […]». Così, Socrate, […] quando [gli Ateniesi] si radunano in assemblea per questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino il consiglio di chiunque […].

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Platone, Giustizia è una città che canta all’unisono

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1. Il riferimento è allle classi degli artigiani, dei commercianti, dei guerrieri, dei consiglieri e dei guardiani. 2. Compito. La giustizia, secondo Platone, consiste nell’accettare di svolgere il ruolo e la funzione per i quali si è naturalmente dotati.

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4. Che cos’è la giustizia?

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– E ancora, se in una qualsiasi città i governanti e i governati condividono la stessa opinione su chi debba comandare, lo stesso accadrà anche in questa. Non credi? – Certo, disse, nel modo più assoluto. – E in quale gruppo di cittadini, quando si trovano in questa condizione, diresti che è presente l’atteggiamento di moderazione? nei governanti o nei governati? – In un certo senso in entrambi, disse. – Vedi dunque, dissi io, che poco fa eravamo bravi indovini supponendo che la moderazione sia simile ad una sorta di armonia? – Ma perché? – Perché, a differenza del coraggio e della sapienza, la cui presenza in una sola parte della città basta a renderla rispettivamente sapiente e coraggiosa, non così agisce la moderazione, bensì si estende senz’altro attraverso l’intera città, facendo cantare insieme all’unisono lo stesso canto ai più deboli e ai più forti e a quelli di mezzo, per intelligenza, se vuoi, o se vuoi per forza, o anche per numero o ricchezze o altre simili cose: sicché nel modo più corretto possiamo dire che questa concordia è moderazione, accordo conforme a natura fra chi è peggiore e migliore su chi debba comandare nella città e in ciascun individuo. […] – Allora senti, dissi, se c’è qualcosa in quel che intendo. Ciò che fin dall’inizio abbiamo stabilito si debba fare in ogni circostanza, quando fondavamo la città. – in questo consiste, mi pare, o in qualche sua forma, la giustizia. Abbiamo in effetti stabilito, e ripetuto più volte, se ben ricordi, che ciascuno1 debba svolgere una sola delle attività comprese nella città, quella per la quale la sua natura risulti più adatta2. […] – E dunque che la giustizia consista nel fare le proprie cose senza moltiplicare le proprie attività, questo almeno l’abbiamo sentito da molti altri e noi stessi l’abbiamo detto più volte. […] – E questa attitudine che compete con le altre verso la realizzazione della virtù della città non dovresti riconoscerla come giustizia? […] – E non dirai che il maggior delitto contro la propria stessa città è ingiustizia?



da Platone, La Repubblica, trad. di M. Vegetti, BUR, Milano 2007, 4,431 A-434 C.



Il brano qui riprodotto è tratto dal libro IV della Repubblica, dialogo di Platone suddiviso in dieci libri. L’opera affronta il problema politico, che è fondamentale nel pensiero di Platone, essendo il fine della riflessione filosofica. Nel libro IV Platone sostiene che nello Stato ideale i guerrieri, come le altre classi di cittadini, non potranno lamentarsi dei loro doveri, poiché ognuno raggiunge il proprio benessere attraverso quello generale. Vengono inoltre esaminate le tre virtù fondamentali (saggezza, coraggio e temperanza) e la giustizia, virtù suprema.

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Aristotele, La virtù del giusto e la legge Questo brano è tratto dal libro V dell’Etica nicomachea, che è stata sempre considerata l’opera principale di Aristotele sull’etica. L’aggettivo “nicomachea” che compare nel titolo si riferisce con ogni probabilità al figlio del filosofo, Nicomaco. L’Etica nicomachea è il risultato delle lezioni tenute, molto probabilmente, da Aristotele nel Liceo negli anni del suo secondo soggiorno ad Atene (335-323 a.C.). L’opera è suddivisa in dieci libri, il quinto dei quali è dedicato alla trattazione della giustizia.

da Aristotele, Etica nicomachea, 5, 1129 B ss., trad. di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2001. 5



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1. La giustizia secondo natura (o naturale) è caratterizzata, secondo Aristotele, dalla generalità: essa si applica agli uomini che vivono in società in ogni luogo e in ogni tempo. 2. La giustizia legale, secondo Aristotele, può variare da luogo a luogo e secondo i tempi; in ciò essa si distingue dalla giustizia secondo natura, benché non sia contrapposta a quest’ultima (poiché, secondo la teoria aristotelica, entrambe ricadono nella sfera politica).

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Siccome si è detto che chi va contro la legge è ingiusto, e chi rispetta la legge è giusto, è chiaro che tutto ciò che è secondo legge è giusto, in un certo senso: ciò che viene stabilito dall’arte del legislatore è secondo la legge, e ciascuna di tali disposizioni la diciamo giusta. Le leggi si pronunciano su tutto e tendono all’utile comune, per tutti o per i migliori, o comunque per chi governa secondo virtù, o secondo qualche altro criterio consimile, di modo che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo giusto ciò che produce e preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politica. La legge prescrive di compiere le opere tipiche dell’uomo coraggioso, […] allo stesso modo secondo tutte le altre forme di virtù e cattiveria, la legge prescrive le prime e proibisce le seconde, in modo corretto quando è stabilita correttamente, meno bene quando è stabilita in modo affrettato. Ora questo tipo di giustizia è virtù completa, non in generale, ma rispetto al prossimo. […] il giusto si dà nei rapporti di coloro che sono sottoposti alla legge, e la legge si dà per le persone tra cui si può avere ingiustizia, dato che la giustizia è il distinguere tra giusto e ingiusto; quindi per coloro tra cui si dà ingiustizia, si dà anche l’agire ingiusto. […] Il giusto relativo alla sfera politica si divide in naturale e legale. Naturale1 è quello che ha dovunque lo stesso potere e non dipende dall’opinare o dal non opinare, legale2 è quello che in origine non fa differenza se sia in un certo modo o in un altro, ma, quando viene formulato, fa differenza (per esempio, quando si stabilisce che il riscatto sia due mine, o di sacrificare una capra e non due pecore) e inoltre ciò che è stabilito legalmente riguardo ai casi singoli (come di sacrificare a Brasida) e quanto viene stabilito per decreto.

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Filosofia e letteratura

T4

Sofocle, Le leggi non scritte degli dèi Nella tragedia da cui è tratto il brano seguente (441 a.C.) Sofocle affronta il problema dell’inconciliabilità fra la giustizia umana e quella divina: la prima è rappresentata dal divieto di Creonte, tiranno di Tebe, di seppellire il corpo di Polinice, che aveva guidato un esercito contro Tebe; la seconda è invece incarnata nell’atto di Antigone, sorella di Polinice, che ha disobbedito all’ordine e ha dato sepoltura al morto sfidando la tirannia. Quest’ultima, nel divieto stabilito da Creonte, rivela tutto l’arbitrio di cui è capace dietro un’apparenza di legalità.

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1. Ordinato. 2. Creonte si riferisce al divieto di dare sepoltura a Polinice. 3. Così i greci antichi chiamavano l’aldilà.



CREONTE – I più temprati orgogli più si piegano […].

4. Che cos’è la giustizia?

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CREONTE – […] (Ad Antigone) Ma tu dimmi, in breve, senza troppi discorsi: lo sapevi, ch’era stato bandito1 di non farlo2? […] ANTIGONE – Sapevo? E come no? Tutti sapevano. CREONTE – Eppure osasti calpestar le leggi? ANTIGONE – Giove certo non fu, chi me le impose, né la Giustizia agl’Inferi3 compagna codeste leggi fissò mai fra gli uomini. Io non pensai che tanta forza avessero gli ordini tuoi, da rendere un mortale capace di varcare i sacri limiti delle leggi non scritte e non mutabili. Non son d’ieri né d’oggi, ma da sempre vivono: e quando diedero di sé rivelazione, è ignoto. Né volevo io, per timore d’un orgoglio d’uomo, a condanna divina espor me stessa. Sapevo di morire in un domani, no? s’anche non l’avessi tu bandito. Ora, se innanzi tempo ho da morire, io lo chiamo un vantaggio: per chi vive tra dolori infiniti, com’io vivo, perché la morte non sarebbe un bene? Per me, avere la sorte che tu dài, sofferenza non è. Dovendo invece sopportare che fosse senza tomba il morto che già nacque da mia madre, di quello avrei sofferto: ora, di questo io non soffro. E ti sembro irragionevole? Naturalmente; dinanzi ad un folle rispondo d’un reato di follia.



da Sofocle, Antigone, a cura di G. Lombardo Radice, Einaudi, Torino 1966, pp. 24-27.

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Ed il più duro ferro irrigidito da fiamma rovente vedi più spesso indebolirsi e frangersi. E con più breve freno i più animosi cavalli anche si domano. Non deve aver orgoglio chi degli altri è schiavo. Ma lei, che seppe l’insulto superbo, calpestando le leggi a tutti esposte, nuovo disprezzo dopo il gesto primo aggiunge ora nel vanto dell’azione compiuta, e ride. Uomo non io, non più sarei, lei sì, sarebbe un uomo, allora, se tanta audacia non fosse colpita. Di mia sorella sia pure la figlia4 e sia pure più sangue mio d’ogni altra creatura di sangue a me congiunta e protetta da Giove… ah, no! Non lei, né la sorella sua5 potranno mai evitare durissimo destino. Davvero, dunque, da che cosa più luminosa gloria avrei potuto attinger mai che dall’aver deposto nella tomba un fratello?... Oh!... Tu l’udresti come tutti costoro son contenti di me, se la paura non legasse loro la lingua. Sì, ma la tirannide fra tanti privilegi ha pur codesto: e dire e fare quello che si vuole.



CREONTE – Sola fra tutto il popolo di Cadmo6 tu sei colei che di questo s’avvide. 65

4. Creonte è, infatti, zio di Antigone (e, quindi, di Polinice). 5. Ismene, vicina alla sorella ma priva della forza con cui Antigone si oppone al tiranno. 6. Cadmo, figura della mitologia greca, era considerato il fondatore di Tebe.

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ANTIGONE – Vedono anch’essi; ed è per te, che tacciono. CREONTE – Non ti vergogni d’avere pensieri così lontani da quelli degli altri?

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ANTIGONE – Non è vergogna la venerazione d’un fratello del sangue e della carne.

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Dante, L’uomo di filosofia deve respingere l’umiliazione e l’ingiustizia

T5

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1. Pavidità, meschinità, rifiuto della responsabilità. 2. Nicolò Donati, nipote di Gemma Donati (moglie di Dante). Nicolò si occupò attivamente della famiglia durante l’esilio di Dante. 3. Esuli. 4. La “multa” di cui parla Dante (oblatio, nel testo) consisteva in un rito di umiliazione: i condannati per motivi politici dovevano recarsi a San Giovanni per chiedere e ottenere il perdono. 5. Allontani da sé, eviti. 6. Un volgare delinquente, un delinquente comune.

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4. Che cos’è la giustizia?

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L’A N T O L O G I A

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Nella vostra lettera, ricevuta con la dovuta reverenza e col dovuto amore, ho visto, con animo grato e con affettuosa attenzione, quanto vi stia a cuore il mio ritorno in patria; perciò mi sento obbligato verso di voi tanto più strettamente quanto più è raro che capiti agli esuli di trovare degli amici. In quanto alla risposta a ciò che mi chiedete, anche se non sarà quale forse la desidererebbe la pusillanimità1 di qualcuno, affettuosamente vi prego che la sottoponiate all’esame della vostra saggezza prima di giudicarla. Ecco, dunque, che con la lettera vostra, di mio nipote2 e di diversi altri amici sono stato messo al corrente di un decreto, di recente uscito a Firenze, di amnistia per gli sbanditi3, grazie al quale, se volessi pagare una certa quantità di danaro e patire l’onta della multa4, potrei essere assolto e ritornare subito. In ciò ci sono due cose ridicole e malconsigliate, o padre: dico malconsigliate per quelli che le hanno espresse, giacché la vostra lettera, formulata con maggior discrezione e saggezza, non conteneva niente di simile. È forse questa la generosa revoca con cui Dante Alighieri è richiamato in patria, dopo avere patito l’esilio per quasi tre lustri? E la fatica e l’impegno continuo nello studio? Si guardi5 l’uomo che vive in consuetudine con la filosofia da una tale umiliazione dell’animo, tanto da sopportare di presentarsi come un carcerato, alla maniera di un Ciola6 e di altri disgraziati. Si guardi l’uomo che predica la giustizia dal pagare col suo danaro, dopo avere patito offese, chi ha compiuto l’offesa, come gli fosse benemerito. Non è questa la via del ritorno in patria, o padre mio; ma se opera vostra, prima, o di altri, poi, se ne troverà un’altra che non pregiudichi la fama e l’onore di Dante, la accetterò a passi non lenti; ché se per nessuna via siffatta si entra a Firenze, io non vi entrerò mai. E che? Forse non vedrò dovunque lo specchio del sole e delle stelle? Forse non potrò, sotto qualunque cielo, meditare dolcissime verità, senza dovermi prima rendere infame, anzi miserabile al popolo e alla città di Firenze? Certo il pane non mi mancherà.



da Dante, Epistole, XII, trad. di M. Felisatti, Rizzoli, Milano, 1965.



Nel brano seguente, tratto da una lettera a un amico fiorentino (probabilmente un religioso), Dante Alighieri (1265-1321) spiega le ragioni del suo rifiuto di accogliere il provvedimento del 19 maggio 1315 con cui il comune di Firenze concedeva agli esuli in possesso di determinate caratteristiche la possibilità di rientrare a Firenze. Essi avrebbero però dovuto pagare una somma di denaro e fare pubblico atto di umiliazione. Dante era stato citato in giudizio nel 1302 con l’accusa, tra l’altro, di opposizione sediziosa alla politica papale; dichiarato colpevole, viene condannato a una multa di 5.000 fiorini, a due anni di confino e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nella lettera egli respinge la possibilità offerta per tornare a Firenze, ritenendo le condizioni imposte ingiuste e vergognose.

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CHE COSA HAI IMPARATO IDENTIFICA LE TESI

I

1 Che cosa rappresenta la giustizia, nel Protagora di Platone, rispetto alla vita sociale? 2 Confronta la tesi sulla giustizia che rispettivamente Trasimaco e Glaucone formulano nella Repubblica di Platone: quali differenze puoi individuare? 3 Al pari di Glaucone, Protagora e Trasimaco, anche Platone individua una forte tendenza alla sopraffazione nella natura dell’uomo. Qual è il ruolo che, rispetto a tale tendenza, egli attribuisce alla giustizia? 4 Qual è, secondo Aristotele, il rapporto tra la giustizia, la dimensione morale e la dimensione politica nella vita dell’uomo? 5 Il personaggio di Antigone, nella tragedia di Sofocle, esprime un’idea molto netta di “giustizia”, che emerge dalla contrapposizione fra le leggi degli uomini e quelle degli dèi. Questa concezione ti sembra riconducibile a qualcuna di quelle dei filosofi esaminati in questo percorso o trovi in essa elementi di originalità? RICONOSCI LE ARGOMENTAZIONI E L’OBIETTIVO POLEMICO

II

1 Ricostruisci l’argomentazione con la quale Platone (T1) mostra, attraverso l’esistenza delle comunità politiche, che gli uomini hanno acquisito il senso della giustizia. 2 Qual è la concezione che Platone esprime nella Repubblica (T2) e come ribatte alla tesi di Trasimaco? 3 In che cosa puoi individuare la contrapposizione fra l’idea di “giustizia” che emerge dall’Etica nicomachea di Aristotele (T3) e la concezione dell’uomo giusto espressa invece da Trasimaco? 4 Nella sua argomentazione svolta da Aristotele nell’Etica nicomachea (T3) quale rapporto ritieni che emerga tra il concetto di “giustizia” e quello di “legge”? 5 Prova a confrontare le posizioni di Platone (T1) e di Aristotele (T3) sul tema della giustizia: qual è la strategia argomentativa con cui essi sostengono ciascuno la propria posizione? 6 Quali sono, nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute (T5), gli obiettivi polemici di Dante? III

ANALIZZA IL LESSICO, LA RETORICA E LO STILE

1 Nel Protagora (T1) Platone utilizza alcune figure della mitologia greca nell’ambito della propria trattazione. Ritieni che lo strumento del mito possa essere valido anche nell’ambito della filosofia contemporanea? Cerca di sostenere la tua posizione con almeno un esempio. 2 Analizza l’uso che del termine “giustizia” fanno Platone (T1 e T2) e Aristotele (T3) e cerca di indicarne le differenze. 3 Sia Aristotele (T3) sia Sofocle (T4) fanno riferimento al concetto di “legge”. Quale senso acquistano i due termini nelle loro opere? Trovi in essi delle differenze di rilievo? 4 Antigone e Creonte rappresentano, nella tragedia di Sofocle (T4), due ben diversi tipi di giustizia. Ritieni che la forma letteraria della tragedia sia efficace ai fini di tale contrapposizione?

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CHE COSA NE PENSI TU A

SUGGERISCI UNA CONNESSIONE

Nell’immaginario popolare la giustizia è una dea bendata, che brandisce con la mano destra una spada e regge nella mano sinistra una bilancia. A tuo giudizio qual è il significato di questi attributi, in particolar modo del velo che copre gli occhi? A quale delle posizioni filosofiche esaminate ritieni di poterli ricondurre? ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... ......................................................................................... .........................................................................................

B

IMPIEGA ALTRE FONTI

Riflettendo sul tema della giustizia nella vita individuale e nella vita collettiva degli uomini, anche tenendo conto delle tue conoscenze e dei tuoi interessi, sei in grado di indicare un’altra concezione rispetto a quelle analizzate nel capitolo? Cerca di formularla in un max di 5 righe, chiarendo, nella tua esposizione: • dove hai incontrato questa tesi (chi l’ha formulata, in quale documento l’hai incontrata, in quale occasione e così via); ..................................................................................................................................................................................................................................................... .....................................................................................................................................................................................................................................................

• quali sono i contenuti fondamentali di questa tesi. ..................................................................................................................................................................................................................................................... .....................................................................................................................................................................................................................................................

C

ESPRIMI LA TUA OPINIONE

Una volta giunto alla conclusione di questo capitolo, avendo riflettuto sui brani tratti dai testi filosofici e dai testi letterari e traendo spunto dalla tua esperienza e dalle tue conoscenze, sei in grado di esprimere un’opinione personale sul rapporto che esiste fra la giustizia e la legge? Cerca di argomentarla in un saggio breve, ricorrendo, come si fa spesso in filosofia, alla confutazione della tesi opposta. Adotta lo stile che ritieni più adeguato all’esposizione e che secondo te più chiaramente mette in rilievo i contenuti o ha maggiori possibilità di convincere l’interlocutore. Puoi eventualmente utilizzare anche a immagini, similitudini o esempi tratti dalla vita quotidiana.

4. Che cos’è la giustizia?

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5. Aristotele Aristotele e il suo tempo 371 a.C. Epaminonda sconfigge gli spartani a Leuttra: inizia l’egemonia di Tebe (Beozia) sulla Grecia.

404 a.C. Fine della guerra del Peloponneso.

EVENTI VITA E OPERE

384 a.C. Aristotele nasce a Stagira, nel nord della Grecia.

367 a.C. Ingresso di Aristotele nell’Accademia platonica, dove rimarrà per venti anni.

I luoghi di Aristotele Stagira Vi nasce Aristotele.

Asso (Asia Minore) Vi soggiorna dopo aver lasciato Atene.

Pella (Macedonia) Prima del rientro ad Atene vi soggiorna, e vi istruisce il giovane Alessandro Magno.

Mitilene (Isola di Lesbo) Meta di un altro viaggio.

Atene Vi si trasferisce a diciassette anni, dove frequenta l’Accademia diretta da Platone, fino alla morte del maestro, poi vi torna per fondare il Liceo.

Calcide (Isola di Eubea). Vi si rifugia a seguito della morte di Alessandro Magno, e vi trascorre l’ultimo anno della sua vita.

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RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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➥ Tutorial: Aristotele, Etica nicomachea 1 e 2 ➥ Biblioteca: I. Düring, Aristotele e Platone

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E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo […] se non amassimo ancor di più l’osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura […]. Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso. (Aristotele, Parti degli animali)

362 a.C. Epaminonda muore in battaglia: Tebe comincia così a perdere la sua egemonia.

348 a.C. Morte di Platone; Aristotele lascia Atene.

359 a.C. Sale al trono macedone Filippo II.

347-336 a.C. Viaggi di Aristotele ad Asso (Asia Minore) e a Mitilene, nell’isola di Lesbo.

351 a.C. Demostene attacca Filippo II di Macedonia nei suoi celebri 338 a.C. discorsi, le Filippiche Battaglia e le Olintiache. di Cheronea.

343-341 a.C. Aristotele diventa precettore del giovane Alessandro alla corte macedone.

336 a.C. Morte di Filippo II, cui succede il figlio Alessandro Magno.

335 a.C. Aristotele rientra ad Atene e vi fonda la sua scuola, il Liceo (o Peripato); inizia la fase matura della sua produzione.

334-331 a.C. Alessandro combatte i persiani, riportando vittorie anche in Siria, Fenicia ed Egitto.

323 a.C. Aristotele si ritira in Calcide, nell’isola di Eubea.

323 a.C. Morte di Alessandro Magno.

322 a.C. Morte di Aristotele; gli succede alla direzione del Liceo il suo discepolo Teofrasto.

Le domande di Aristotele • • • • • • • • • • • • •

È possibile secondo Aristotele conoscere il mondo naturale, sottoposto a un incessante divenire? Quale disciplina può dare indicazioni metodologiche a tutte le altre scienze? Quali sono i principi fondamentali per ogni ragionamento sensato? Che rapporto c’è tra linguaggio e realtà? È possibile studiare l’essere in quanto essere? Quali sono i principi ultimi che costituiscono la realtà? Esiste un fine in natura o tutto è dominato dal caso? È vero che ogni evento ha una causa? Esiste un principio divino? In che rapporto sta con il mondo? Il mondo è eterno o generato? È destinato alla dissoluzione o è imperituro? Quali sono le virtù? Quali sono le virtù etiche e qual è la loro caratteristica comune? Come funziona la conoscenza umana? Che rapporto ha con la felicità? L’anima è immortale? I testi Il classico La Metafisica T1 Origini della sapienza T2 La filosofia prima come scienza dell’essere in quanto essere T3 L’essere primo è la sostanza) T4 Il dio di Aristotele: il motore immobile

L’antologia T5 Origini e natura della pòlis T6 Che cos’è la felicità? T7 Elogio della biologia

5. Aristotele

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✔ Tesi a confronto: Aristotele: la natura ha un fine? ✔ Cittadinanza e costituzione: Il principio democratico

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1. Il primo professore La sistematizzazione del sapere

Il rapporto con Platone

Dal platonismo giovanile al naturalismo della maturità?

Nonostante l’atto di nascita della filosofia risalga a Platone, è solo con il più grande allievo di Platone, Aristotele, che la filosofia assume i contorni di un imponente edificio teorico, nel quale ogni singolo segmento di sapere occupa una posizione ben precisa nell’economia complessiva della conoscenza. In questo senso è possibile affermare che, se Platone è il primo grande filosofo, Aristotele è senza dubbio il primo “professore di filosofia”, perché è colui che tenta di organizzare in modo coerente e sistematico tutto il campo del sapere allora accessibile, in modo da rendere disponibile questo immenso patrimonio alle future generazioni. Se Platone scrive i dialoghi anche allo scopo di trasformare le anime e di indirizzarle verso l’amore per la filosofia, Aristotele compone i suoi trattati essenzialmente con l’obiettivo di insegnare, ossia di trasmettere un sapere in qualche modo consolidato. Naturalmente le differenze tra Aristotele e Platone non si riducono a quella appena richiamata. Esse sono numerose e verranno ampiamente evidenziate nel corso di questo capitolo. Tuttavia, occorre precisare subito che, nonostante tali differenze, in certi casi radicali, Aristotele non cessa mai veramente di sentirsi e, per molti aspetti di essere, un platonico. In verità, nel momento stesso in cui si parla di Aristotele e dei suoi rapporti con il grande maestro, bisogna fare i conti con un’importante tesi storiografica, particolarmente in voga durante la prima metà del XX secolo. Secondo i sostenitori di questa tesi, il pensiero di Aristotele avrebbe nel corso dei decenni subito una radicale trasformazione: a un periodo iniziale caratterizzato da un’adesione pressoché totale al platonismo sarebbe succeduta una fase più matura, segnata invece da un distacco sempre più marcato dalle tesi platoniche. Dunque, mentre il giovane Aristotele, allievo di Platone presso l’Accademia, avrebbe aderito

Luca della Robbia, Platone e Aristotele, 1437-39. Firenze, campanile di Giotto.

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a tutte le principali dottrine del suo maestro (per esempio alla teoria delle idee e a quella dell’immortalità dell’anima), l’Aristotele maturo si sarebbe trasformato in una sorta di filosofo della natura fedele all’esperienza, cioè empirista, profondamente avverso al platonismo. Le ricerche condotte in questi ultimi decenni hanno però dimostrato che questa ipotesi storiografica non è più sostenibile. In realtà, già quello che sappiamo sulla produzione del giovane Aristotele dimostra che egli non è mai veramente “platonico”, se con questo termine si intende indicare un pensatore che aderisce in modo completo alla filosofia di Platone (sappiamo, per esempio, che Aristotele criticò fin da subito la teoria delle idee). Egli tuttavia non si distanzia mai del tutto dal platonismo e dunque è sempre in qualche modo “platonico”, se con ciò ci si riferisce alla maniera complessiva di fare filosofia e soprattutto al riconoscimento di alcuni aspetti essenziali del platonismo.

Distanze nella vicinanza

LA VITA E LE OPERE 384 a.C.

Aristotele nasce a Stagira, nella penisola Calcidica (Grecia settentrionale), da genitori greci; suo padre, Nicomaco, era probabilmente medico presso il re di Macedonia.

367 a.C.

Si trasferisce ad Atene ed entra a far parte dell’Accademia di Platone, dove rimarrà per vent’anni, come suo allievo e poi collaboratore, fino alla morte del maestro. Ad Atene egli vive come un meteco, cioè uno straniero residente stabilmente in città, ma privo di diritti politici. In questo periodo tiene lezioni di retorica e logica; compone inoltre il trattato Sulle idee, molti libri della Fisica, lo scritto Sul cielo, alcuni libri della Metafisica, e, fra gli scritti logici, le Categorie e i Topici.

348-347 a.C. Alla morte di Platone si reca presso Ermia, tiranno di Atarneo (Asso), alleato del re macedone Filippo, del quale sposò una parente di nome Pizia. 345-344 a.C. Si reca a Mitilene, nell’isola di Lesbo, dove conosce Teofrasto, il suo più brillante collaboratore. 343-342 a.C. Viene chiamato alla corte del re macedone Filippo, che gli affida l’educazione del giovane Alessandro (il futuro Alessandro Magno che dominerà la Grecia e conquisterà l’impero persiano). 335 a.C.

Lascia la corte macedone, probabilmente alla morte di Filippo (cui succede Alessandro) e, ormai cinquantenne, torna ad Atene, dove fonda una propria scuola, chiamata Peripato (perché all’interno vi era una passeggiata, in greco perìpatos) o Liceo (perché collocata nel giardino dedicato ad Apollo Licio). Compone parti importanti della Metafisica, della Politica, dello scritto Sull’anima, e i grandi trattati biologici (Le parti degli animali, La generazione degli animali).

323 a.C.

Alla morte di Alessandro, in Persia, Aristotele ha sessant’anni. Si trova ad affrontare la reazione del partito antimacedone ateniese, che si schiera contro di lui per la sua vicinanza a Filippo e ad Alessandro, oltre che ad Antipatro, governatore ad Atene per incarico del re. Rischiando l’accusa di empietà, abbandona Atene e si trasferisce nell’isola di Eubea, in Calcide.

322-321 a.C.

Muore nella casa materna, in Calcide.

1.1 Gli scritti e il loro ordinamento L’ordinamento di Andronico

Prima di parlare degli scritti di Aristotele bisogna premettere che la forma in cui noi oggi li leggiamo non è dovuta al loro autore (come invece accade per i dialoghi di Platone). In verità il corpus aristotelico deve la sua attuale struttura ad Andronico di Rodi, un seguace di Aristotele vissuto nel I secolo a.C. Egli sistematizza il materiale attribuito ad Aristotele allora in circolazione, lo ordina raggruppandolo in opere unitarie e lo dispone secondo una ben precisa sequenza.

5. Aristotele

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L’ORDINAMENTO DI ANDRONICO DEL CORPUS ARISTOTELICO

LOGICA (ORGANON)

FILOSOFIA DELLA NATURA

• Categorie • Sull’interpretazione • Analitici primi (in due libri)

• Analitici secondi (in due libri) • Topici (in otto libri) • Confutazioni sofistiche

• Fisica (in otto libri) • Sul cielo (in quattro libri) • Generazione e corruzione (in due libri) • Meteorologia (in quattro libri) • Sull’anima (in tre libri)

• Ricerche sugli animali (in dieci libri) • Le parti degli animali (in quattro libri) • Il moto degli animali • La generazione degli animali (in cinque libri)

• una serie di operette minori di argomento naturalistico

METAFISICA

• Metafisica (in quattordici libri)

• Etica nicomachea (in dieci libri)

• Etica eudemia (in otto libri)

ETICA (le due etiche hanno in comune tre libri)

POLITICA

• Politica (in otto libri)

• la Costituzione degli Ateniesi (scritto rinvenuto in un papiro nel 1890, parte di un’opera che raccoglieva 158 costituzioni)

OPERE POIETICHE

• Retorica (in tre libri)

• Poetica (in due libri, di cui si è conservato solo il primo)

Un esempio clamoroso: il titolo Metafisica

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Come si vede la produzione di Aristotele è davvero sterminata; e le opere a noi pervenute, raccolte da Andronico, non sono che una parte di quelle effettivamente composte dal grande filosofo di Stagira. Il corpus degli scritti di Aristotele – lo si è già osservato – si presenta in una forma che non è quella stabilita dal suo autore. Il caso più clamoroso è certamente costituito dalla Metafisica, da molti considerata il capolavoro di Aristotele e uno dei libri più importanti dell’intera storia della filosofia. Se qualcuno di noi, dopo aver letto la Metafisica, potesse per assurdo incontrare Aristotele e si complimentasse con lui per avere scritto quest’opera, il nostro filosofo rimarrebbe stupefatto, non solo perché lui non scrisse nessun testo con quel titolo, ma soprattutto perché la parola “metafisica” gli era del tutto ignota. In effetti, Metafisica è il titolo coniato (o utilizzato) da Andronico per indicare quell’opera che nella sua sistemazione segue gli scritti di argomento fisico: ta metà ta physikà significa infatti “cose che vengono dopo i libri di fisica”. È anche vero che molti dei quattordici libri che compongono la Metafisica sfiorano tematiche relative a questioni non fisiche (per esempio, come vedremo, la questione dell’esistenza di sostanze immobili); da qui la parola “metafisica” ha preso a indicare anche un discorso che riguarda entità non fisiche, oppure i principi e le cause delle realtà fisiche.

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Raggruppamenti arbitrari?

Appunti per le lezioni

I dialoghi perduti

Quello che vale per la Metafisica vale in realtà anche per le altre opere di Aristotele. Per la forma in cui ci sono note oggi, esse devono molto al lavoro di sistemazione di Andronico, il quale raggruppa i libri di argomento affine facendo di essi un’opera unitaria. Questo tuttavia non significa che gli scritti di Aristotele che noi leggiamo siano dotati di un’unitarietà del tutto estrinseca (derivata cioè dal di fuori): in effetti già Aristotele aveva avvicinato molti libri di argomento affine, considerandoli parti di una medesima trattazione. Bisogna però tenere presente che la forma attuale dei suoi scritti è essenzialmente il frutto dell’opera editoriale di un aristotelico, ossia Andronico, vissuto oltre trecento anni dopo la morte di Aristotele. Il discorso appena fatto vale per le opere di scuola. In effetti, tutti gli scritti che compongono l’attuale corpus aristotelico non sono pensati e composti per essere pubblicati (alla maniera dei dialoghi platonici). Essi costituiscono in realtà appunti, schemi e canovacci approntati come ausilio all’attività di insegnamento, alla quale era destinata la maggior parte degli sforzi di Aristotele (che è, in questo senso, davvero il “primo professore di filosofia”). Ciò spiega un certo disordine che li caratterizza, la presenza di ripetizioni e di uno stile che si adatta più alla lezione orale che alla trasmissione scritta. Si è soliti indicare questo tipo di opere con l’aggettivo “esoteriche” (destinate cioè all’interno della scuola: èso in greco significa “interno”) o “acroamatiche” (da akròasis che significa “lezione”, “ascolto”). In verità Aristotele, soprattutto nel periodo della sua permanenza nell’Accademia di Platone, compone anche scritti destinati alla pubblicazione: anche se nessuna di queste opere ci è pervenuta (possediamo solo ampi frammenti), alcuni di questi sono dialoghi (come l’Eudemo), composti certamente sul modello di quelli platonici. Dunque, per una sorta di paradosso della tradizione, noi oggi possiamo leggere le opere che Aristotele non ha pensato di destinare alla pubblicazione, ossia gli scritti esoterici, ma non possediamo quelli che sono stati composti per essere pubblicati, e che si è soliti definire “essoterici”, ossia destinati all’esterno della scuola (èxo in greco significa appunto “fuori”). La ragione di questo sta nel fatto che i dialoghi, considerati troppo inferiori a quelli platonici, non venivano più trascritti, mentre la scuola conservava i trattati per la loro ricchezza di dottrine.

2. Le ragioni di Aristotele

Aristotele: avvicinare la filosofia alla realtà quotidiana

Salvare il mondo, non costruirne uno a parte

Prima di esporre in tutta la sua vastità l’impresa filosofica di Aristotele, è opportuno tentare di comprendere le ragioni che stanno alla base di questo immenso sforzo intellettuale e il suo senso nel quadro della costruzione della filosofia occidentale. Platone ha fondato la filosofia come ambito di sapere autonomo e come una nuova e specifica forma di razionalità. Ha inoltre conferito alla figura intellettuale del filosofo una legittimità culturale, un prestigio sociale e perfino un’autorevole pretesa al governo della città. Tuttavia, dal punto di vista di Aristotele, in questo suo sforzo di fondazione della filosofia Platone ha corso rischi eccessivi, che consistono soprattutto in una separazione della filosofia dal mondo in cui gli uomini vivono e di cui hanno esperienza. Dotare la filosofia di un proprio ambito di sapere autonomo e alternativo (l’ambito delle idee), pretendere che la filosofia abbia il diritto e il dovere di cambiare radicalmente il modo di vita tradizionale degli uomini ed evocare scenari estranei al comune patrimonio di conoscenze (la genesi del mondo da parte del demiurgo, la tesi dell’immortalità dell’anima), rischia secondo Aristotele di rinchiudere la nuova forma di sapere e di vita in una specie di ghetto, certamente nobile ma troppo lontano dalla realtà della vita. Per Aristotele, invece, occorre «salvare la filosofia» ma allo stesso tempo anche «salvare il mondo» che l’esperienza comune ci permette di conoscere, salvare i saperi che intorno a questo mondo si sono venuti costituendo, le forme di vita collettiva che la tradizione ci ha consegnato: si tratta, in una parola, di far sì che la filosofia abiti nel nostro mondo e non in un proprio mondo a parte costruito dalla potente immaginazione teorica del maestro.

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Un solo mondo, quello sensibile

Un mondo ordinato in sé

L’enciclopedia del sapere, compito della filosofia

Comprendere e spiegare cause e ragioni La filosofia: una sobria supremazia

2.1 I cinque capisaldi della filosofia di Aristotele Questo straordinario programma aristotelico può essere anticipato in alcuni punti, che verranno in seguito esposti in modo più analitico. • C’è un solo mondo, quello che conosciamo attraverso i sensi, quello di cui parla il nostro linguaggio quotidiano; la conoscenza di questo mondo è stata progressivamente acquisita dagli uomini, ed essa si è accumulata nella tradizione del sapere. È illusorio e fuorviante introdurre, accanto o sopra a questo mondo, un altro livello di realtà, come quello delle idee platoniche; • questo mondo è in sé ordinato; c’è una legalità insita sia nei processi della natura sia nella società umana. Questa legalità garantisce la regolarità dei fatti naturali e umani e il loro orientamento verso la condizione migliore possibile. Per assicurare l’ordine del mondo non c’è dunque alcun bisogno di interventi esterni (come sono in Platone quello divino del demiurgo e quello umano del filosofo-re); • le conoscenze di cui disponiamo intorno al mondo possono essere organizzate in un’enciclopedia del sapere in grado di spiegare la struttura di ognuno dei campi diversi in cui il mondo è diviso. Compito della filosofia è quello di costruire e chiarire queste conoscenze, disporle ordinatamente nel piano generale dell’enciclopedia, individuare gli elementi concettuali che garantiscono l’unità e la coerenza del sistema dei saperi, e quindi del mondo che essi descrivono; • la filosofia non deve cambiare il mondo né inventare mondi possibili, ma comprendere e spiegare l’unico mondo esistente: spiegare vuol dire capire le cause e le ragioni per le quali le cose stanno così come sono, sia nell’ambito dei processi naturali sia in quello dei comportamenti umani; • in questo modo la filosofia non risulta più separata dal mondo, ma torna ad abitare nel campo dei saperi sulla natura e sull’uomo; in quanto capace di organizzare e chiarire questi saperi, mantiene la sua supremazia sulle conoscenze (come ha preteso Platone), ma non si presenta più come alternativa radicale rispetto a esse, e rinuncia all’ambizione di governare direttamente la vita degli uomini. Il primato della filosofia è dunque in Aristotele meno ambizioso, più sobrio e misurato, rispetto alla pesante eredità trasmessagli dal maestro. PER SINTETIZZARE • Qual è il compito della filosofia per Aristotele? In che modo, su questo punto centrale, egli prende le distanze da Platone? • In che modo reagisce Aristotele alla concezione platonica che postula un mondo delle idee separato e trascendente?

3. L’edificio del sapere Autonomia dei saperi

Per accostarsi in maniera corretta al pensiero di Aristotele occorre avere chiaro il modo in cui egli concepisce il complesso edificio del sapere. FILOSOFI A CONFRONTO

A differenza di Platone, che vede nella dialettica un sapere dotato di un carattere universale e in qualche modo egemone nei confronti di tutte le altre discipline, Aristotele stabilisce fin da subito un notevole grado di autonomia per le diverse forme di conoscenza.

La realtà e i suoi ambiti: la rinuncia a un sapere assoluto

La realtà risulta ai suoi occhi divisa per generi, ossia per ambiti, relativamente autonomi (per esempio la natura vivente, le matematiche, i fenomeni celesti, l’etica e la politica). Questo fa sì che si debba rinunciare alla pretesa di individuare un sapere assoluto e uni-

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versale; ogni ambito dell’essere, cioè ogni genere della realtà, possiede infatti propri principi, del tutto indipendenti rispetto a quelli propri degli altri ambiti. Vedremo che Aristotele non rinuncia del tutto a proporre elementi di unificazione (e questo è senz’altro uno degli aspetti in cui si manifesta la sua fedeltà al platonismo), ma si tratta di un’unificazione indubbiamente più debole rispetto a quella cui ambisce la dialettica di Platone.

3.1 La classificazione delle scienze

La tripartizione delle scienze

Si è detto dunque che per Aristotele il sapere, esattamente come la realtà che esso si propone di conoscere, si presenta articolato in diversi ambiti. In verità, se si osserva con attenzione la divisione degli scritti di Aristotele operata da Andronico, si può constatare che questo aristotelico del I secolo a.C. segue con scrupolo la classificazione delle scienze prospettata da Aristotele ed è dunque, almeno sotto questo aspetto, fedele al pensiero del grande filosofo. In effetti la successione delle opere di Aristotele presentata da Andronico prevede, dopo le opere di logica: • l’insieme degli scritti concernenti le discipline teoretiche (fisica, cosmologia, biologia, metafisica); • le opere dedicate alle discipline pratiche, vale a dire essenzialmente l’etica e la politica; • le opere consacrate alle scienze poietiche, ossia alle arti (e qui il riferimento è alla retorica e alla poetica).

LA TRIPARTIZIONE DELLE SCIENZE DISCIPLINE TEORETICHE (THEORÌA = CONTEMPLAZIONE)

DISCIPLINE PRATICHE (PRÀXIS = AZIONE)

DISCIPLINE POIETICHE (PRODUTTIVE: PÒIESIS = PRODUZIONE)

• fisica (o filosofia seconda) • matematica • filosofia prima (o metafisica)

• etica • politica

• retorica • poetica

riguardano le realtà che non possono essere diverse da come sono, dunque gli oggetti necessari

riguardano l’ambito dell’azione, dunque del contingente (non necessario)

riguardano l’ambito della produzione, dunque del contingente

Le discipline teoretiche: fisica, matematica e metafisica

Ora, questa tripartizione tra discipline teoretiche, pratiche e poietiche è esattamente quella sostenuta da Aristotele. Procediamo ora con l’analisi. Le discipline teoretiche (da theorìa, che significa “contemplazione”) si occupano di quelle realtà che non possono essere diverse da come sono; si potrebbe dire che l’ambito al quale si rivolgono le scienze teoretiche è costituito dall’insieme degli enti necessari, cioè appunto quelli che sono necessariamente come sono. Secondo Aristotele le discipline teoretiche sono tre: • la fisica o filosofia seconda (che studia l’insieme delle cose che appartengono alla natura, cioè la phy`sis); • la matematica (che si occupa degli enti matematici: numeri e figure); • la filosofia prima (che, come detto, prenderà in seguito il nome di metafisica).

5. Aristotele

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Le discipline pratiche: l’universo del contingente

Le discipline poietiche: la produzione finalizzata al contingente

Se le scienze teoretiche studiano le cose che non possono essere diversamente da come sono, le discipline pratiche si rivolgono all’ambito dell’azione (pràxis, appunto), che è esattamente costituito da cose che possono risultare anche diverse da come sono, in quanto hanno a che fare con la deliberazione, cioè la scelta, degli uomini. Io posso decidere di comportarmi in un certo modo (per esempio di votare un partito piuttosto che un altro, di andare o non andare a trovare un mio amico), mentre una realtà fisica (come una pianta) o una matematica (come un triangolo) non possono certamente essere diverse da come sono. In altre parole, le discipline pratiche attengono all’universo del contingente (ciò che può essere o anche non essere), mentre quelle teoretiche all’ambito del necessario. Mentre le azioni propriamente dette, oggetto delle scienze pratiche, hanno in se stesse il proprio fine (cioè nell’esecuzione stessa di una certa azione), le produzioni sono azioni che hanno il loro fine al di fuori di sé, ossia nella cosa che esse producono. Si tratta per Aristotele del campo delle tecniche, cioè delle arti. Discipline di questo tipo sono dette “poietiche” perché risultano finalizzate alla produzione di qualcosa (pòiesis significa “produzione”). Le produzioni, esattamente come le azioni, possono essere e non essere e appartengono dunque al dominio del contingente. PER SINTETIZZARE • È possibile per Aristotele ottenere un sapere assoluto, valido per tutti gli ambiti della realtà? • Qual è il criterio in base al quale si stabilisce la classificazione delle scienze?

4. La logica La logica come strumento dell’indagine

Il linguaggio, strumento di comunicazione della verità

Dalla suddetta classificazione restano fuori, come avrai notato, le opere che si trovano all’inizio dell’ordinamento di Andronico, cioè gli scritti di argomento logico. Questo accade perché la logica non è una disciplina a parte, non si occupa cioè di una regione determinata dell’essere, ma costituisce lo strumento di cui si servono le altre discipline. Si spiega così la denominazione di Organon (òrganon significa “strumento”) con cui si è soliti indicare l’insieme degli scritti logici di Aristotele. Le scienze, tutte le scienze, si servono di discorsi, ragionamenti, inferenze e deduzioni (vedremo tra breve il significato di queste nozioni) e, ancora prima, esse si servono di nomi, verbi e proposizioni, cioè del linguaggio. La logica di Aristotele si propone esattamente di indagare la natura di tutte queste cose e in primo luogo del linguaggio, inteso come strumento di espressione e comunicazione della verità.

4.1 L’analisi delle proposizioni Il primo livello dell’analisi deve dunque riguardare i componenti elementari del discorso, ossia i termini di cui sono costituite le proposizioni (e di conseguenza i ragionamenti, le inferenze e le deduzioni). Ogni proposizione è formata da nomi e da verbi (gli aggettivi vengono considerati nomi) che, come si vede dal seguente schema, hanno natura del tutto differente: NOMI E VERBI SECONDO ARISTOTELE

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NOME

VERBO

segno per convenzione significativo di qualcosa, senza indicazione di tempo (es. “salute”)

segno di cose che si dicono di qualcos’altro, con in aggiunta l’indicazione del tempo (es. «il tale sta in salute»; «stava o starà in salute»)

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L’analisi della proposizione: solo i discorsi dichiarativi possono essere veri o falsi

Le discipline poietiche: la produzione finalizzata al contingente

La quantità delle asserzioni: universalità, particolarità e individualità

La combinazione di qualità e quantità nelle asserzioni

Rapporti di esclusione

Asserzioni tra loro contrarie o contraddittorie

Dopo aver chiarito la distinzione tra nomi e verbi, unità minime del discorso, Aristotele passa ad analizzare la natura del discorso stesso, cioè della proposizione. Aristotele sostiene che non tutti i discorsi, ossia non tutte le proposizioni costituite da nomi e verbi, sono dichiarativi: esistono infatti discorsi che non dichiarano nulla, come per esempio la preghiera oppure il comando. Mentre le proposizioni dichiarative (o asserzioni) sono soggette alla logica del vero-falso, sono cioè o vere (se esprimono uno stato di cose reale) o false (se dicono qualcosa che non esiste nella realtà), i comandi e le preghiere risultano sottratti a questa dicotomia. Un comando può essere o non essere rispettato, ma di esso non si può dire che sia vero o falso: se un tale dice che una persona sta mangiando un biscotto, io posso rispondergli che è vero o falso, ma se mi ordina di chiudere la porta io posso farlo o non farlo, ma certamente non posso dire che sia falso. Stabilito che solo i discorsi dichiarativi (o asserzioni) sono soggetti all’alternativa vero-falso, Aristotele aggiunge che simili discorsi possono essere affermativi, se affermano “qualcosa” di qualcosa o qualcuno (per esempio «Socrate è bianco»), o negativi, se negano che a qualcosa o a qualcuno appartenga una certa caratteristica (per esempio «Socrate non è allievo di Platone»). Il discorso dichiarativo più semplice è quello nel quale a un nome viene assegnato un verbo (per esempio «Socrate corre»). Secondo Aristotele un discorso di questo genere è vero se esprime uno stato di cose esistente, ossia se collega cose che risultano collegate anche nella realtà (la proposizione «Socrate corre» è vera se Socrate effettivamente corre); è vera però anche quella proposizione che nega un collegamento quando anche nella realtà questo collegamento non esiste (per esempio l’asserzione «Socrate non è nero» è vera perché nega un collegamento, quello tra Socrate e l’essere nero, che nella realtà in effetti non c’è). Il discorso è invece falso se non esprime uno stato di cose esistente: sono perciò false quelle proposizioni che collegano ciò che nella realtà non è collegato e negano un collegamento che invece esiste nella realtà. Nell’analisi che Aristotele conduce della natura delle proposizioni, l’affermazione e la negazione costituiscono le qualità delle asserzioni. Molto importante è poi la quantità che ha a che fare con il grado di universalità del soggetto di cui si afferma o si nega qualcosa. Se dico, per esempio, che «tutti gli uomini sono bipedi» esprimo una caratteristica che si riferisce a un soggetto universale (tutti gli uomini); se invece affermo che «qualche uomo è nero» mi riferisco a un soggetto particolare (qualche uomo); se, infine, sostengo che «Socrate è bianco» sto parlando di un soggetto individuale (Socrate). Le proposizioni possono dunque essere, a seconda della loro quantità, universali, particolari o individuali. Quantità e qualità si combinano nelle asserzioni, come puoi vedere negli esempi che seguono: • proposizione universale affermativa: «tutti gli uomini sono bianchi»; • proposizione universale negativa: «nessun uomo è bianco»; • proposizione particolare affermativa: «qualche uomo è bianco»; • proposizione particolare negativa: «qualche uomo non è bianco». A partire dalle combinazioni appena menzionate, che mettono insieme la qualità (affermativa o negativa) e la quantità (universale, particolare e singolare) delle asserzioni, Aristotele stabilisce poi dei rapporti di esclusione tra i giudizi relativi al medesimo soggetto, introducendo le importanti nozioni di contrario e contraddittorio. Egli osserva, per esempio, che le asserzioni universali affermative («tutti gli uomini sono bianchi») e le corrispondenti universali negative («nessun uomo è bianco») possono essere entrambe false: sono quindi contrarie, ma non contraddittorie (cioè necessariamente una vera e l’altra falsa). Le asserzioni particolari affermative («qualche uomo è bianco») e quelle particolari negative («qualche uomo non è bianco») possono risultare entrambe vere: dunque non sono né contrarie (entrambe false) né contraddittorie (l’una vera e l’altra falsa). Contraddittorie, ossia una vera e necessariamente l’altra falsa, devono invece risultare le proposizioni universali affermative («tutti gli uomini sono mortali») e particolari negative

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(«qualche uomo non è mortale»), oppure quelle universali negative («tutti gli uomini non sono quadrupedi») e particolari affermative («qualche uomo è quadrupede»). Prova ora a fare la verifica di questi rapporti di esclusione sullo schema seguente, noto come il “quadrato degli opposti”:

IL QUADRATO DEGLI OPPOSTI contrarie ie

r ito dd

ra nt o c co nt ra d

UNIVERSALE NEGATIVA (per esempio: «nessun uomo è mortale»)

dit or

subalterne

subalterne

UNIVERSALE AFFERMATIVA (per esempio: «ogni uomo è mortale»)

ie

PARTICOLARE AFFERMATIVA (per esempio: «qualche uomo è mortale»)

Premesse e conclusione

non contrarie

PARTICOLARE NEGATIVA (per esempio: «qualche uomo non è mortale»)

4.2 La teoria del sillogismo Una volta stabilita la natura delle asserzioni (o proposizioni), Aristotele si impegna ad analizzare i rapporti che le legano quando esse si collegano le une alle altre all’interno di un ragionamento. La teoria aristotelica del sillogismo viene sviluppata negli Analitici primi e costituisce senz’altro una delle concezioni più importanti del filosofo. Il sillogismo è formato da tre proposizioni, cioè da due premesse e da una conclusione, che deriva a sua volta in modo necessario dalle premesse. Perché si dia un sillogismo è necessario che le due premesse abbiano un termine comune, il quale deve risultare soggetto in una e predicato nell’altra (almeno nel caso del sillogismo perfetto); tale termine comune viene chiamato “medio”, proprio in quanto collega, ossia media, i due estremi, i termini che si trovano in ciascuna delle due premesse per poi ricomparire insieme nella conclusione. Un esempio renderà facilmente comprensibile il meccanismo immaginato da Aristotele:

SILLOGISMO PERFETTO (O DI PRIMA FIGURA) PRIMA PREMESSA

tutti gli animali (medio = soggetto)

sono mortali

SECONDA PREMESSA

tutti gli uomini

sono animali (medio = predicato)

CONCLUSIONE

La conclusione è una deduzione

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tutti gli uomini sono mortali

Come si vede, il termine “animale” compare nelle due premesse in posizione diversa, essendo soggetto della prima («tutti gli animali») e predicato della seconda («sono animali»). Esso fornisce dunque la mediazione tra i due estremi (“uomini” e “mortali”), i quali vengono collegati nella conclusione. È molto importante tenere presente che la conclusione non rappresenta una novità rispetto alle due premesse, ma risulta in qualche modo implicita in esse e il meccanismo del sillogismo si limita a esplicitarla attraverso un procedimento deduttivo. Questa è infatti la

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Deduzione e inferenza

Le figure del sillogismo

natura del sillogismo: di essere una deduzione che, date due premesse, ricava in modo necessario la conclusione che in esse è in qualche modo implicita. In questo modo possiamo chiarire il rapporto tra deduzione e inferenza: la deduzione è un tipo di inferenza, intendendo per inferenza quel procedimento per cui da una proposizione vera si ricava un’ulteriore verità, da questa un’altra ancora, e così via. Aristotele si impegna poi in una complessa e articolata serie di distinzioni tra i differenti tipi di sillogismo. A seconda della posizione occupata e della funzione esercitata dal termine medio si hanno differenti tipi di sillogismo, che Aristotele chiama “figure”. Se, come nell’esempio sopra riportato, il termine medio funge da soggetto della premessa maggiore (così chiamata perché più universale) e da predicato di quella minore, avremo un sillogismo di prima figura (ossia un sillogismo perfetto). Spostando il temine medio (che viene assunto come predicato in entrambe le premesse o come soggetto in entrambe), abbiamo altri due tipi di figure: il sillogismo di seconda figura (termine medio come predicato in entrambe le premesse) e il sillogismo di terza figura (termine medio come soggetto in entrambe le premesse).

SILLOGISMO DI SECONDA FIGURA PRIMA PREMESSA

nessun uomo

è immortale (medio = predicato)

SECONDA PREMESSA

ogni dio

è immortale (medio = predicato) nessun uomo è dio

CONCLUSIONE

SILLOGISMO DI TERZA FIGURA PRIMA PREMESSA

tutti i greci (medio = soggetto)

sono bianchi

SECONDA PREMESSA

tutti i greci (medio = soggetto)

sono uomini

CONCLUSIONE

qualche uomo è bianco

Esplicitare, non scoprire

Fatte queste distinzioni, la cosa veramente importante è infatti rappresentata dalla natura consequenziale del ragionamento sillogistico. Come abbiamo visto, nella conclusione non viene scoperto qualcosa di nuovo rispetto alle premesse, ma semplicemente esplicitato ciò che in esse risultava implicito: bisogna infatti ricordare che in un ragionamento sillogistico formalmente perfetto si può ricavare una conclusione falsa, se false sono le premesse. Questo significa che il sillogismo non rappresenta uno strumento euristico, ossia un mezzo per trovare nuove conoscenze, bensì un tipo di ragionamento che ha finalità essenzialmente espositive. Attraverso il sillogismo, in particolare il sillogismo scientifico (di cui si parlerà immediatamente) noi non troviamo nuove verità, ma esplicitiamo quelle che sono contenute nelle premesse.

Premesse vere e universali

Secondo Aristotele il sillogismo è un ragionamento conclusivo che costituisce lo strumento espositivo principale di cui dovrebbero servirsi le scienze. In effetti, un tipo particolare di sillogismo è costituito dalla dimostrazione, che si ha quan-

4.3 La dimostrazione e i principi delle scienze

5. Aristotele

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Premesse prime e principi

I principi propri di ciascuna scienza

I principi comuni a più scienze

do le premesse del sillogismo sono proposizioni vere, prime, universali e necessarie. Se un ragionamento sillogistico, osserva Aristotele, parte da premesse vere e universali, allora esso potrà considerarsi una dimostrazione; la forma di conoscenza che si ha in questo caso è la scienza vera e propria. Le premesse vere e universali sono dunque per Aristotele principi della dimostrazione sillogistica e costituiscono i principi delle diverse scienze. Poiché le singole scienze presentano un andamento deduttivo, nel quale le conseguenze derivano dalle premesse e queste ultime sono a loro volta conclusioni di sillogismi precedenti, al vertice di ogni scienza si collocano delle premesse prime e immediate, che non possono essere ricavate da altre premesse: queste premesse prime sono appunto i principi. Secondo Aristotele i principi delle scienze possono essere di diverso tipo. Esistono principi propri di ciascuna scienza, ossia principi che solo una determinata scienza possiede: tali sono, per esempio, le ipotesi, con le quali si assume l’esistenza degli oggetti della scienza stessa, oppure le definizioni di questi oggetti (come nel caso della definizione di numero pari per l’aritmetica o quella di retta per la geometria). Questo tuttavia non esclude che ci possano essere principi comuni a più scienze (per esempio, quello che afferma che «sottraendo uguali ad uguali si ottengono uguali», che trova applicazione sia nell’aritmetica sia nella geometria). In questo caso, essi sono comuni “per analogia”, nel senso che svolgono la medesima funzione in ambiti diversi. 4.3.1 Principio di non-contraddizione e principio del terzo escluso Accanto ai principi propri di una singola scienza e ai principi comuni a più scienze esistono addirittura principi comuni a tutte le scienze, ossia a ogni sapere: si tratta del principio di non-contraddizione e del principio del terzo escluso (in realtà queste due denominazioni sono poste-

M.C. Escher, Incontro, 1944, litografia. Per il principio di contraddizione questa sequenza non può esistere nella realtà.

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Il principio di non-contraddizione

Il “principio del terzo escluso”

Non deducibilità dei principi

La prova per via indiretta: la confutazione della negazione

riori ad Aristotele). Ogni ragionamento sensato, e dunque anche il ragionamento scientifico e la dimostrazione sillogistica (che è il metodo attraverso il quale prende forma la scienza), presuppongono questi due principi. Il primo principio, quello di non-contraddizione, sostiene che «è impossibile allo stesso tempo e nel medesimo senso affermare e negare qualcosa in riferimento allo stesso soggetto». Ciò significa, in termini più semplici, che è impossibile attribuire e non attribuire allo stesso soggetto l’identico predicato nello stesso tempo e nel medesimo significato: per esempio, non si può dire di Socrate che è bianco e che non è bianco nello stesso tempo e con il medesimo significato di “bianco”. Il secondo principio generale della logica, chiamato più tardi “principio del terzo escluso”, sostiene che di un medesimo soggetto si deve affermare o negare il possesso di una certa determinazione, senza che ci sia una terza possibilità tra l’affermazione e la negazione: per esempio, di Socrate si deve dire che è bianco o che non è bianco, senza che ci sia una terza possibilità. I principi della scienza non possono evidentemente essere ricavati da altri principi, perché, se così fosse, non sarebbero veramente principi (ossia premesse prime, dal momento che sarebbero ricavabili da qualcosa di anteriore); la loro verità dovrà dunque essere garantita per mezzo di una procedura diversa dalla dimostrazione sillogistica. Nel caso dei principi comuni a tutte le scienze (ma sarebbe più corretto dire comuni a ogni tipo di ragionamento sensato) Aristotele sostiene che la loro verità può essere provata per via indiretta, mostrando l’insostenibilità del loro rifiuto. Il principio di non-contraddizione, per esempio, viene difeso mostrando che anche colui che lo rifiuta se ne serve in qualche modo, nel momento stesso in cui pretende di respingerlo. Infatti, sostiene Aristotele, ogni discorso sensato, e dunque anche il discorso che pretende di respingere il principio di non-contraddizione, deve presupporre questo principio, proprio in quanto intende essere un discorso sensato. È infatti sufficiente che l’ipotetico avversario del principio di non-contraddizione dica qualcosa perché la sua stessa posizione venga confutata: dal momento che è immediatamente costretto a usare le parole in un significato preciso (fosse anche un significato che solo lui conosce) e non in un altro, si serve anch’egli, sia pure implicitamente, del principio di non-contraddizione. Proprio in virtù dell’assoluta impossibilità di condurre un discorso senza ricorrere al principio di non-contraddizione, Aristotele lo definisce come il principio più saldo. FILOSOFI A CONFRONTO

La procedura impiegata per questa dimostrazione viene considerata da Aristotele (erede in questo di una tradizione che affonda le proprie radici già nell’eleatismo di Zenone) di tipo dialettico. Nel caso appena considerato, il punto di partenza consiste nel concedere all’avversario del principio di non-contraddizione l’opinione che egli stesso sostiene, ossia che il principio possa essere respinto. Nell’atto stesso in cui lo respinge, dicendo qualcosa, egli se ne serve, e dunque finisce con il confutare la sua stessa posizione iniziale.

Quale prova per gli altri principi scientifici?

4.3.2 I principi propri e comuni a più scienze: l’induzione Dunque i principi comuni a

tutte le scienze vengono provati dialetticamente, ossia tramite la confutazione della loro negazione. E i principi propri di ciascuna scienza o comuni a più scienze? Ovviamente neppure essi possono essere dimostrati attraverso il sillogismo, perché, come si è detto, il sillogismo scientifico, cioè la dimostrazione, deve partire da premesse vere e prime, e in quanto prime esse non possono essere ricavate da altre premesse. Aristotele dimostra di essere perfettamente consapevole che i sistemi assiomatico-deduttivi non sono in grado di auto-fondarsi, dal momento che richiedono l’ammissione di principi esterni al sistema stesso. Del resto, osserva Aristotele, se anche i principi primi fossero ricavabili da premesse a essi antecedenti, si rischierebbe di proseguire all’infinito nella ricerca di un inizio.

5. Aristotele

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I principi e l’atto dell’intelletto

Sensazione, ricordo, esperienza

Intelletto e universalizzazione dell’esperienza

Induzione: l’intelletto come principio della scienza

Se dunque i principi delle varie scienze non possono essere dimostrati, come si arriva a conoscerli? Ecco la risposta di Aristotele: egli sostiene che i principi vengono conosciuti per mezzo dell’intelletto, ossia di un atto, in qualche modo infallibile, che giunge al termine di un complesso processo iniziatosi dalle sensazioni. Aristotele immagina un processo di questo tipo: la sensazione si riferisce a realtà particolari (per esempio alla percezione della figura di Socrate), la ripetizione di molte sensazioni produce il ricordo (che gli uomini hanno in comune con altri animali), mentre la successione di ricordi inerenti a uno stesso oggetto genera l’esperienza, che è invece propria dei soli esseri umani. L’esperienza di un certo oggetto induce a cogliere in esso determinate caratteristiche universali: per esempio l’esperienza, derivata dalla sensazione e dal ricordo, di molti uomini, induce a cogliere in essi la caratteristica universale, cioè il fatto che sono animali razionali o bipedi. L’intelletto consiste proprio nella capacità di cogliere l’aspetto universalizzabile di molte osservazioni. L’asserzione «l’uomo è un animale razionale», colta attraverso l’atto di universalizzazione dell’esperienza, cioè appunto attraverso l’intelletto, può valere come principio della dimostrazione scientifica. Aristotele chiama induzione questo processo di universalizzazione che è in grado di cogliere, a partire da molti casi particolari, una caratteristica universale. Ai suoi occhi l’intelletto, in quanto facoltà capace di determinare i principi della scienza, risulta in una certa misura superiore alla scienza stessa. Egli scrive infatti negli Analitici secondi che l’intelletto è il principio della scienza. Proviamo ora a formulare un elenco completo dei principi delle scienze, seguendo il seguente schema:

I PRINCIPI DELLE SCIENZE PRINCIPI…

ESEMPI

… comuni a tutte le scienze

principio di non-contraddizione

METODO DI CONOSCENZA

ARGOMENTAZIONE DIALETTICA (provati per via indiretta) … comuni a più scienze

principio del terzo escluso

… propri di ciascuna scienza

principio per cui “sottraendo uguali a uguali si ottengono uguali”

… propri di ciascuna scienza

definizione: «l’uomo è un animale bipede»

INDUZIONE

Andamento dimostrativo e indimostrabilità dei principi

La scienza concreta non parte da principi

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4.4 Le scienze: struttura, pratica ed esposizione In questo modo Aristotele presenta un panorama epistemologico allo stesso tempo complesso e coerente. Le scienze assumono per lui un andamento dimostrativo e si servono di sillogismi; le conclusioni dei sillogismi non fanno che esplicitare il contenuto informativo implicito nelle premesse. Ogni scienza deve però possedere premesse prime, ossia principi non dimostrabili mediante sillogismi; queste si ottengono facendo ricorso all’intelletto, che compie una sorta di universalizzazione induttiva dei dati ricavati mediante l’esperienza. Al termine di questo lungo discorso sulla struttura della scienza aristotelica bisogna però constatare che nella maggior parte delle sue opere scientifiche Aristotele non procede secondo i dettami epistemologici presentati negli scritti di logica. La scienza concreta praticata da Aristotele molto raramente assume la forma deduttiva propria della dimostrazione sillogistica, che parte da principi generali.

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Distinzione metodologica tra scoperta ed esposizione

In realtà questa differenza si spiega facilmente se si tiene presente che il metodo finora descritto riguarda un momento particolare della scienza, vale a dire il momento espositivo, ossia la presentazione dei risultati. Questi vengono effettivamente presentati nella forma di una catena deduttiva di proposizioni, connesse in modo consequenziale le une alle altre. Tuttavia, quando si tratta di scoprire nuove verità, Aristotele procede in maniera sostanzialmente diversa. Egli parte dai fenomeni, sia quelli percettivi sia quelli linguistici, e li esamina attraverso argomentazioni di natura dialettica, mettendone così alla prova la coerenza: per esempio egli valuta l’accettabilità delle conclusioni che derivano da certe assunzioni. In questo modo stabilisce, sia pure implicitamente, una fondamentale distinzione nell’ambito della scienza: la distinzione tra il momento euristico, di ricerca, e il momento espositivo, cioè tra la scoperta e la presentazione dei risultati. PER SINTETIZZARE • Qual è la funzione della logica nell’ordinamento scientifico aristotelico? • In che cosa consiste la dimostrazione secondo Aristotele?

5. Le categorie e il primato della sostanza La premessa nei Topici

La predicazione

Come definizione Come genere Come proprietà

Come accidente

I predicabili e le categorie

Alle opere di logica appartiene anche lo scritto Categorie, dal quale si possono ricavare importanti spunti circa la concezione aristotelica della realtà. Per comprendere la natura delle concezioni sviluppate in quest’opera, occorre però chiarire il senso di alcune riflessioni che Aristotele presenta in un altro scritto di logica, i Topici. Aristotele si concentra sulla natura del rapporto di predicazione, quello nel quale di qualcosa (il soggetto) si predica qualcosa (il predicato). Al termine di un esame approfondito di tutti i casi possibili di predicazione, egli arriva a sostenere che un predicato può appartenere a un soggetto in uno di questi quattro modi: • come sua definizione, quando, per esempio, si dice che «l’uomo è un animale razionale»; • come suo genere, nel caso in cui si dice che «l’uomo è un animale» (essendo animale il genere della specie uomo); • come sua proprietà, ossia quando il predicato non esprime l’essenza, cioè la definizione, del soggetto, ma una proprietà, che, pur non essendo essenziale, appartiene solo a quel soggetto. Per esempio, se diciamo «l’uomo è grammatico» (ossia capace di leggere e scrivere), indichiamo una proprietà che appartiene solo all’uomo, ma non a tutti gli uomini; tale predicato non ne costituisce l’essenza (che invece è animale razionale e, questa, appartiene a tutti gli uomini); • infine come suo accidente, cioè come una proprietà che può appartenere al soggetto ma può anche non appartenergli. Per esempio, se diciamo «l’uomo è bianco», indichiamo una proprietà che può appartenergli ma anche non appartenergli (visto che l’uomo può essere anche nero o diventare nero una volta che sia abbronzato).

5.1 Le dieci categorie L’analisi dei tipi di predicazione non si ferma però qui. Aristotele conduce un esame accuratissimo dei modi in cui un predicato può relazionarsi a un soggetto nelle forme del linguaggio comune, cioè nel modo in cui noi parliamo spontaneamente delle cose. Al termine di questa analisi egli arriva a sostenere che i quattro tipi di predicazione sopra menzionati (definizione, genere, proprietà e accidente) devono ricadere in uno di dieci casi generalissimi, cioè in una delle dieci categorie aristoteliche (kategorìa significa in greco appunto “predicazione”). Si chiamano categorie, infatti, i dieci modi in cui si può dire qualcosa di qualcos’altro: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, giacere, avere, agire e patire.

5. Aristotele

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I MODI DI PREDICAZIONE: LE CATEGORIE SOSTANZA

Socrate (sostanza prima)

Socrate è un uomo (sostanza seconda)

QUANTITÀ

di due cubiti, di due metri

Socrate è alto due metri

QUALITÀ

bianco, grammatico

Socrate è bianco

RELAZIONE

doppio, mezzo, maggiore

Socrate è maggiore di Callia

LUOGO

nel Liceo, in piazza

Socrate è in piazza

TEMPO

ieri

Socrate è venuto ieri

GIACERE (cioè “essere in una data situazione”)

è sdraiato, è seduto

Socrate è seduto

AVERE

ha i calzari, è armato

Socrate ha i calzari

AGIRE

tagliare, bruciare

Socrate taglia

PATIRE

essere tagliato, essere bruciato

Socrate è tagliato

La sostanza, la prima delle categorie, separata dalle altre

La sostanza prima: un individuo determinato

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La natura delle categorie e il tipo di relazione che le lega viene investigato con scrupolo nello scritto dedicato a questo tema. Aristotele osserva che le dieci categorie non sono sullo stesso piano, dal momento che una di esse possiede una significativa priorità nei confronti delle altre. Questa categoria gode infatti di un’assoluta indipendenza, perché può esistere anche senza le altre, mentre queste non possono esserci senza di essa; ciò significa che una delle categorie risulta separata, ossia indipendente, dalle altre. Inoltre, aggiunge Aristotele, questa prima categoria non può essere detta delle altre, ossia non può essere predicata delle altre, mentre queste ultime sono dette, cioè predicate, di questa. In altre parole, la prima categoria è soggetto e non predicato (vedremo tra breve il caso in cui anche essa può risultare predicato), mentre le altre nove sono predicati di essa. A questo punto possiamo svelare il nome di questa categoria principale, che può essere senza le altre, mentre le altre non possono essere senza di lei (ciò significa che la presuppongono sempre): si tratta della sostanza.

5.2 Sostanze prime e seconde L’enfasi che Aristotele pone sulla natura primaria della sostanza, ossia sul fatto che essa è la prima delle categorie, è notevole. Ancora più importanti sono gli esempi di sostanza menzionati nelle Categorie: per Aristotele sostanza è quella detta nel senso primario, che non si predica di un soggetto, come per esempio “un certo uomo”, “un certo cavallo”. La sostanza, per Aristotele, è per prima cosa un individuo, ossia una realtà singola (e non universale); la struttura grammaticale del linguaggio (soggetto individuale + predicati) rivela così la struttura stessa della realtà oggettiva. Senza qualcosa di individuale e determinato verrebbe meno il termine di riferimento primario intorno a cui parlare e dire qualcosa. In effetti, senza il mio amico Alberto (sostanza), io non posso predicare che è bianco (qualità), che è alto un metro e ottanta (quantità),

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Le sostanze seconde: specie e genere

che è fratello di Paola (relazione), che si trova al bar dietro l’angolo (luogo) alle 12.30 del 28 gennaio (tempo), che sta giocando a biliardo (agire) e che per questo verrà sgridato dal professore (patire). Aristotele osserva però che non esistono solo le sostanze prime, ossia gli individui, ma anche le sostanze seconde, che possono essere predicate delle sostanze prime (e solo di quelle). Per esempio, se del mio amico Alberto dico che è un uomo e dell’uomo che è un animale, predico di un soggetto (Alberto = sostanza prima) la sua specie (uomo = sostanza seconda) e della specie il suo genere (animale = ancora sostanza seconda, ma più generale). Il punto è che, per Aristotele, la priorità spetta alla sostanza prima, ossia all’individuo, nei confronti della sostanza seconda (specie e genere).

SOSTANZE PRIME E SOSTANZE SECONDE SOCRATE (SOSTANZA PRIMA)

uomo (specie = sostanza seconda)

animale (genere = sostanza seconda)

FILOSOFI A CONFRONTO

Il primato dell’individuo, entità concreta e determinata

La sostanza: soggetto o sostrato

Emerge qui un aspetto molto importante della filosofia aristotelica, poiché si sostiene che la specie (per esempio “uomo”) è più sostanza del genere (per esempio “animale”) in quanto più vicina alla sostanza prima (per esempio “Socrate”). Aristotele indica così in modo chiaro l’indirizzo generale della sua impostazione, che consiste nel costante richiamo al primato dell’individuo, ossia dell’entità determinata e concreta, nei confronti delle entità universali. In questo motivo risiede indubbiamente uno degli elementi che lo allontanano dal suo maestro Platone, il quale ha manifestato la sua preferenza per l’universale nei confronti del particolare, quindi, in termini aristotelici, per i predicati nei confronti dei loro soggetti.

La sostanza, ossia il livello dotato di maggiore consistenza ontologica (ciò che è essere in senso primario e principale), è dunque rappresentata per Aristotele dall’individuo concreto (Socrate, questo cavallo determinato, il tavolo sul quale si trova il libro che sto leggendo). Il primo criterio che fa di una sostanza una sostanza è perciò la sua individualità, l’essere un individuo. Abbiamo anche notato che la sostanza si caratterizza per un elemento linguistico, consistente nel fatto di essere soggetto e non predicato (con l’eccezione delle sostanze seconde che sono predicato di quelle prime: per esempio “uomo” di “Socrate”). Aristotele esprime quest’idea affermando che la sostanza è soggetto o sostrato di predicazione, nel senso che su questa poggiano i diversi predicati.

5. Aristotele

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Il linguaggio è la via di accesso per la comprensione della struttura della realtà

Individuo, soggetto o sostrato di predicazione, indipendente dalle altre cose: la sostanza aristotelica è tutte queste cose. Vedremo più avanti come la teoria della sostanza subirà delle modifiche nel corso della riflessione aristotelica (che tuttavia non metteranno in discussione questi tre parametri). In conclusione di questa esposizione della concezione delle categorie è necessario fare una considerazione di ordine generale. Avrai notato come Aristotele costruisca la propria dottrina delle categorie, e in particolare la propria concezione del primato della sostanza, a partire dall’analisi del linguaggio. La sostanza, egli dice, è soggetto e non predicato; la sostanza è ciò di cui si dicono le altre cose, ma essa non viene detta di queste. Per Aristotele l’analisi della struttura del linguaggio, ossia essenzialmente l’analisi della struttura soggetto-predicato, costituisce un’eccellente via di accesso alla comprensione della struttura della realtà. Questo dipende da una sua importante convinzione, quella secondo la quale il linguaggio rappresenta una sorta di specchio del mondo, nel senso che nella struttura del linguaggio si rispecchia in qualche modo la struttura ontologica della realtà. PER SINTETIZZARE • Qual è il procedimento con cui Aristotele ricava le dieci categorie? • Perché la sostanza è la categoria primaria?

6. Il divenire del mondo: principi e cause

La Fisica: gli aspetti generali della realtà

Enti per natura ed enti per altre cause: il principio del mutamento

Oggetto della fisica è la realtà soggetta a mutamento

La conoscenza della natura è la conoscenza delle cause e dei principi

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A questo punto siamo nelle condizioni di poter finalmente esporre le dottrine aristoteliche relative al mondo. Nell’ordinamento degli scritti dovuto ad Andronico, dopo le opere di logica (che come ricorderai non riguardano un aspetto determinato della realtà, ma costituiscono uno strumento per lo studio di tutti i suoi ambiti) trovano posto i trattati di fisica, ossia gli scritti dedicati alla natura (phy`sis appunto). La prima e più importante di queste opere è la Fisica, nella quale Aristotele presenta gli aspetti più generali della sua concezione della natura, per riservare ad altri scritti lo studio dei singoli campi che la costituiscono. Prima di tutto occorre chiarire che cosa intenda Aristotele per “natura”, o meglio a quali entità egli restringa l’ambito di ricerca della fisica. Per Aristotele gli enti per natura sono quelle realtà che hanno in se stesse il principio del mutamento (kìnesis, “movimento”, “mutamento”), o quello della stasi, e si distinguono dalle cose che non sono per natura, ma per altre cause, come per esempio in virtù dell’arte. Un prodotto dell’arte, ossia della tecnica, è, per esempio, un letto: esso non ha in se stesso il principio del proprio essere, ossia del fatto di diventare un letto, e infatti a fabbricarlo è il falegname. Viceversa una pianta rappresenta un ente “per natura” perché possiede in se stessa il principio del proprio divenire (da ogni seme di quercia nasce sempre una quercia). È molto importante tenere presente che per Aristotele il mutamento non è solamente il moto di traslazione locale, ossia il movimento spaziale; anche la crescita e la diminuzione sono una forma di mutamento, così come lo è l’alterazione (per esempio il fatto che i capelli da neri divengano bianchi). La fisica è la disciplina che si propone di studiare le realtà soggette a mutamento nel senso che abbiamo appena visto, ossia quelle entità che hanno in se stesse il principio e la causa del mutamento. Per Aristotele la conoscenza della natura, così come la conoscenza di qualsiasi altra cosa, coincide con la conoscenza delle cause e dei principi dell’ambito in questione. La fisica si propone dunque di stabilire i principi del movimento, essendo quest’ultimo il tratto che definisce le cose naturali.

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6.1 I principi del movimento In difesa del movimento

Indagine sui principi del divenire: i contrari

I contrari secondo Aristotele sono la privazione e la forma

Il sostrato o soggetto: ciò che permane nel processo del divenire

La materia: l’elemento soggiacente

FILOSOFI A CONFRONTO

Prima di indagare il numero e la qualità di questi principi, Aristotele deve sgombrare il campo dagli eccessi della filosofia eleatica, che aveva negato che il divenire, ossia il movimento, facesse parte della natura. In realtà Aristotele non si imbarca in una vera e propria confutazione delle tesi di Parmenide, che sosteneva l’impossibilità del movimento; egli si limita a osservare che il movimento è parte integrante della natura, come attestano ampiamente i sensi. L’accettazione dell’evidenza fenomenica costituisce uno dei punti in cui Aristotele si distingue da Platone.

Stabilito che il mutamento (sia nel senso del movimento locale sia in quello più generale del divenire) costituisce l’elemento caratterizzante della natura, Aristotele ha il problema di reperire i principi (archài) di questo divenire. A tal fine, egli inizia con il prendere in considerazione le opinioni dei suoi predecessori, secondo un metodo di indagine per lui tipico. Egli constata che, per molti di coloro che prima di lui hanno indagato la natura, i principi del divenire sono i contrari (caldo e freddo, amicizia e contesa, condensazione e rarefazione). Dal momento che le opinioni – soprattutto se dotate di un elevato grado di condivisione – difficilmente risultano del tutto errate, è possibile che anche quest’ultima sia corretta. In effetti, afferma Aristotele, i contrari sono principi del divenire: non si tratta, tuttavia, degli elementi stabiliti dai suoi predecessori, ma di due contrari dotati della massima generalità. Spieghiamoci meglio. Dal momento che ogni processo di cambiamento presenta una fase iniziale, in cui l’entità che diviene è priva del carattere che acquisirà alla fine del processo, e una fase finale, in cui questo carattere risulta finalmente presente, Aristotele arriva a sostenere che la privazione e la forma rappresentano i contrari al cui interno avviene ogni processo naturale. La forma è esattamente quella condizione che l’ente in trasformazione assume alla fine del processo, mentre la privazione costituisce lo stadio in cui questa forma è ancora assente. Tuttavia, sostenere che i contrari, ossia forma e privazione, sono principi del divenire non è ancora sufficiente. Aristotele osserva, infatti, che se non si ammette tra i principi anche ciò che diviene, il processo del divenire perderebbe di unità. Non basta dunque avere individuato la forma e la privazione; occorre postulare un terzo principio, ossia quel qualcosa che passa da una condizione di mancanza di forma, cioè di privazione, a una condizione di pieno possesso della forma stessa. Per Aristotele questo terzo principio è il sostrato o soggetto, ossia quel termine che permane nel passaggio dalla privazione alla forma. Se, per fare il solito esempio, dobbiamo spiegare il fatto che il nostro amico Alberto da bianco diventa nero (perché ha trascorso l’estate al mare), ossia dobbiamo individuare i principi di un determinato processo naturale, potremo dire che Alberto è il soggetto, o sostrato, del mutamento, che non-nero è la privazione e che nero è la forma, ossia la condizione finale assunta dal sostrato al termine del processo. Per spiegare la natura del sostrato, che in un certo senso è anche la materia del divenire, Aristotele ricorre all’esempio della statua di bronzo: la figura che questa statua assume, per esempio quella del guerriero Achille, è appunto la forma; lo stato iniziale, ossia quello del bronzo non ancora lavorato, rappresenta la privazione, mentre il bronzo stesso è la materia, ossia ciò che permane dall’inizio alla fine del divenire, l’elemento che soggiace al mutamento.

I PRINCIPI DEL DIVENIRE stato iniziale

stato finale

PRIVAZIONE DELLA FORMA

FORMA

SOSTRATO (materia)

5. Aristotele

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Principi identici per analogia, ossia in senso funzionale

Un esempio

La ricerca della funzione, ossia il ruolo delle entità

La tendenza della materia

Potenza e atto

È molto importante avere ben chiaro che i principi del divenire non sono vere e proprie entità, identiche in tutti i processi. Non si deve infatti credere che ci siano un’unica materia, un’unica privazione e un’unica forma. Questi tre principi sono gli stessi in tutti i processi solo per analogia, nel senso che l’elemento che funge da privazione in un certo processo non è lo stesso di quello che svolge la stessa funzione in un altro; essi, dice Aristotele, sono gli stessi non numericamente, ma per analogia, ossia perché svolgono la medesima funzione. Tutto ciò risulterà chiaro con un esempio. Se devo spiegare il processo che riguarda il diventare grammatico di Socrate (ossia il fatto che Socrate impari a leggere e a scrivere) dirò che la forma è rappresentata dall’essere grammatico, la privazione dal non essere grammatico, mentre il soggetto-sostrato è ovviamente costituito da Socrate stesso. Se poi devo spiegare la formazione di una statua di bronzo raffigurante Zeus, dirò che la statua con la forma del dio è la forma, la massa di bronzo priva di forma è la privazione, mentre il bronzo stesso non può che identificarsi con la materia-sostrato. Come si vede, i principi dei due processi non sono i medesimi in senso assoluto, ma lo sono in senso funzionale, dal momento che, per esempio, il bronzo nel secondo processo svolge la medesima funzione di materia svolta da Socrate nel primo (e questo vale anche per gli altri due principi). Questo aspetto è molto importante, perché mette bene in evidenza la tendenza di Aristotele a interpretare la realtà attraverso un’analisi che potremmo chiamare trasversale. Non è tanto importante stabilire quali entità svolgano un certo ruolo, bensì il ruolo stesso, ossia la funzione svolta dalle diverse entità nei processi del divenire.

6.2 Potenza e atto Quanto appena detto viene poi confermato dal fatto che Aristotele utilizza un’altra coppia di nozioni per comprendere i processi del divenire. Egli osserva, prima di tutto, che non ogni materia è destinata ad assumere qualsiasi tipo di forma finale: per esempio, un insieme di mattoni può diventare una casa, ma non una nave. Ciò significa, secondo Aristotele, che il divenire è in verità retto da una sorta di tendenza che trasforma una certa potenzialità in realtà; in altre parole, a diventare una casa potrà essere solo quella materia che è potenzialmente in grado di assumere quella certa forma. Ecco dunque introdotte due ulteriori nozioni: quella di potenza e quella di atto. Una certa cosa assume una certa forma, ossia diventa qualcosa di determinato (per esempio una casa), se la materia da cui il processo è partito risulta potenzialmente in grado di diventare ciò che è diventata (nel nostro caso i mattoni sono in potenza ciò che diventeranno in atto, ossia la forma che assumeranno: nel nostro esempio una casa).

DALLA POTENZA ALL’ATTO POTENZA (dy`namis)

ATTO (enèrgheia o entelècheia)

una certa materia è potenzialmente in grado di assumere una certa forma

la materia assume la forma finale che possedeva in potenza

esempio: i mattoni sono potenzialmente in grado di diventare una casa

esempio: i mattoni formano effettivamente una casa

Il divenire naturale tende a uno scopo

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L’introduzione delle nozioni di potenza e atto è molto importante perché intorno a esse Aristotele costruisce la propria concezione del divenire naturale, che ai suoi occhi è esatta-

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mente il passaggio dalla potenza all’atto, ossia la realizzazione di una potenzialità contenuta già nella materia. Vedremo, infatti, come i processi fisici che accadono nel mondo sono per Aristotele l’espressione di un finalismo o teleologismo (dal greco tèlos che significa “fine”, “scopo”) che caratterizza la natura, il quale si realizza nel passaggio dalla potenza all’atto. Ma prima di tornare su questo punto, è giunto il momento di esaminare da vicino la sua concezione delle quattro cause.

6.3 Le cause

La natura, come l’arte, muove in vista di un fine

L’arte imita la natura, perché hanno la stessa struttura causale Le quattro cause

Ampiezza e completezza della nozione di causa

Il divenire si spiega dunque attraverso il ricorso a tre principi: la materia, la privazione e la forma. Secondo Aristotele, una comprensione ancora più approfondita della dinamica che regola il divenire, ossia la nascita e la trasformazione delle cose, può essere raggiunta per mezzo della teoria delle quattro cause, che non è che uno sviluppo della concezione dei principi. In effetti, l’introduzione della teoria delle cause consente ad Aristotele di mettere in luce la natura finalisticamente orientata dei processi fisici che accadono nel mondo. Il punto decisivo del ragionamento di Aristotele consiste nel richiamare il fatto che anche la natura, esattamente come l’arte, muove in vista di un fine. Vi è tra le due un’unica differenza: nell’arte questo finalismo è immediatamente visibile, mentre nella natura è in qualche modo nascosto. Il presupposto da cui prende avvio l’argomentazione di Aristotele è che l’arte imita la natura, ossia presenta una struttura causale simile a quest’ultima. Ma se è così, per comprendere come si comporta la natura, può essere utile indagare la struttura causale della produzione artistica. Prendiamo dunque un qualsiasi manufatto, per esempio il tavolo sul quale è appoggiato il libro che sto leggendo. Secondo Aristotele il suo essere tavolo è prodotto in virtù dell’intervento di quattro cause: • la prima è la materia di cui esso è fatto (poniamo il legno): questa è la causa materiale; • abbiamo poi la forma che il tavolo assume, cioè la sua struttura formale (il modo in cui la materia è disposta): si tratta della causa formale; • il terzo componente che interviene è rappresentato da ciò che ha prodotto il tavolo, ossia da colui che ha impresso il movimento e ha fatto sì che quella data materia assumesse quella determinata forma (nel caso del tavolo sarà il falegname): si tratta della causa motrice o efficiente; • infine, gioca un ruolo fondamentale il fine per cui il tavolo è stato costruito (per esempio sorreggere libri e computer): questa è la causa finale. Da quanto appena detto, risulta chiaro che il grande filosofo aveva un’idea di causa sostanzialmente diversa da quella con la quale noi siamo abituati a fare i conti. La nostra idea di causa è limitata a ciò che produce qualche cosa come suo effetto; viceversa la nozione di causa aristotelica è molto più ampia e comprende tutte le componenti (materiali, formali, efficienti e finali) che fanno sì che una certa cosa esista (nel modo in cui esiste) o che un certo processo si sia determinato.

LE QUATTRO CAUSE CAUSA

DEFINIZIONE

ESEMPIO DEL TAVOLO

materiale

la materia dell’ente

il legno

formale

la forma dell’ente (disposizione della materia)

la forma specifica (rotonda, quadrata)

motrice o efficiente

ciò che ha prodotto il mutamento

il falegname che l’ha prodotto

finale

il fine (o scopo) per cui è avvenuta la produzione

il poter sorreggere qualcosa (libri, computer)

5. Aristotele

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Stretta connessione tra principi e cause

Enti naturali e manufatti

Un esempio

6.4 Arte e natura È altresì evidente che la dottrina delle cause rappresenta uno sviluppo e un approfondimento della dottrina dei principi; basterà notare che le due teorie sono strettamente connesse: il principio della forma racchiude in sé la causa formale e quella finale; il principio della materia-sostrato risulta sostanzialmente identico alla causa materiale; l’unica novità è costituita dalla causa motrice, la cui introduzione è dovuta, come detto, all’analogia con la produzione tecnica. Anche le cause, esattamente come i principi, non sono le stesse per tutte le cose, ma sono identiche solo per analogia. Ciò va inteso nel senso sopra spiegato per cui ciascuna delle quattro cause di una certa cosa, per esempio un letto, ha una funzione analoga alla corrispondente causa di un’altra cosa, per esempio una casa: il legno del letto corrisponde ai mattoni della casa, il falegname al muratore, il sorreggere all’abitare. Secondo Aristotele il ricorso all’esempio dell’arte è funzionale a chiarire la natura delle cause che agiscono nell’ambito della natura (appunto perché l’arte non fa che imitare la natura). Gli enti naturali presentano dunque le medesime cause che abbiamo individuato nel caso dei manufatti, che sono prodotti dall’arte umana. Facciamo un esempio e consideriamo il nostro solito amico Alberto. Si tratta di un essere vivente, e dunque anche di un’entità fisica, ossia naturale (esistente per natura). Anche Alberto avrà una causa materiale: si tratta della materia di cui è fatto il suo corpo, cioè le ossa, il sangue, la pelle e così via. La sua causa formale sarà invece il modo in cui quella da-

Filippo, Olimpiade e Alessandro quali Dioniso, Arianna e Pan, da Vergina, III sec. a.C. Salonicco, Museo Archeologico.

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La coincidenza di tre cause

Nella natura, come nell’arte, c’è un fine

Il fine della natura

ta materia è organizzata, ossia appunto il principio di organizzazione della materia; trattandosi di un essere vivente, questo principio di organizzazione non può che essere l’anima. La causa efficiente o motrice di Alberto sarà invece ciò che ha dato avvio alla sua generazione, il principio primo del movimento, cioè, nel suo caso, i genitori (particolarmente il padre, che è il responsabile della trasmissione della forma, l’anima, mentre la madre offre la materia della generazione). Infine, la causa finale di Alberto non può che essere la piena realizzazione della sua forma, ossia dell’anima; questa piena realizzazione sarà, come vedremo più avanti, la felicità, che è il fine dell’uomo (oltre che, come per tutti gli esseri viventi, la riproduzione della specie). Aristotele non manca di osservare che nel caso degli esseri viventi tre cause su quattro finiscono con il coincidere. In effetti, la forma e il fine sono già immediatamente la stessa cosa, trattandosi dell’anima e della sua piena realizzazione (ossia del pieno sviluppo delle sue potenzialità); ma anche la causa motrice appartiene al medesimo ambito, perché, se è vero che il padre non è identico al figlio, è però vero che la forma, pur non essendo identica dal punto di vista numerico (l’anima del padre di Alberto non è la stessa di Alberto), è identica dal punto di vista della specie (essendo l’anima di un uomo). Dunque, dal punto di vista specifico, anche la causa motrice è identica a quella formale e finale. L’analogia tra natura e arte serve ad Aristotele soprattutto per dimostrare che anche nella natura è attivo un orientamento finalizzato, cioè teleologico. Nell’arte questo orientamento è chiaramente percepibile, ma il fatto che nella natura sia meno immediatamente evidente non significa che sia assente. Questo è particolarmente chiaro, secondo Aristotele, nel caso delle piante e degli animali diversi dall’uomo: le piante producono le foglie per proteggere il frutto, le rondini costruiscono i nidi e i ragni la tela per la loro sopravvivenza e per la loro riproduzione; essi agiscono chiaramente senza deliberazione, perché privi di intelligenza. Ciò che li spinge ad agire è l’orientamento verso un fine, che essi non comprendono razionalmente (cosa che invece può fare l’uomo), ma che è comunque proprio della loro natura. Dunque, ciò che accade nella natura accade in vista di un fine e la causa finale orienta il divenire naturale (al contrario di quanto pensavano gli atomisti, per i quali non esiste un fine nella natura). Vedremo come questa idea eserciti un ruolo decisivo nella concezione aristotelica degli esseri viventi e in generale della natura.

PER SINTETIZZARE • Quali sono i principi del divenire, necessari alla spiegazione di ogni mutamento?

7. La struttura dell’universo: cosmologia e teologia Centralità del movimento nella fisica aristotelica

Tre nozioni fondamentali nella fisica aristotelica: luogo, vuoto e tempo

Si è osservato che la nozione centrale dell’intera impalcatura della fisica aristotelica è quella di mutamento. Abbiamo anche constatato che per Aristotele il mutamento è di diversi tipi: accanto al movimento locale, ossia allo spostamento di luogo, c’è il mutamento secondo la sostanza, che equivale alla generazione di qualcosa che prima non esisteva (per esempio la nascita di un uomo o di un animale); il movimento può essere anche di natura quantitativa, interessare cioè la categoria della quantità (per esempio la crescita di un essere vivente), oppure di natura qualitativa e riguardare la categoria di qualità (pensa a un frutto che maturando cambia colore). Non c’è dubbio, comunque, che per Aristotele il movimento locale continui a occupare una posizione di primo piano nel complesso della sua trattazione. Se il movimento è la nozione centrale della fisica aristotelica e se l’opera che si intitola Fisica si propone di studiare gli aspetti generali della natura, è ovvio che essa sia in larga misura dedicata al tema del movimento. In tale contesto si comprende come Aristotele si concentri a lungo su una serie di nozioni che riguardano il movimento, pur non essendo identiche a esso.

5. Aristotele

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FILOSOFI A CONFRONTO

Troviamo così nella Fisica una lunga trattazione del luogo, che rappresenta ciò in cui avviene il movimento; del vuoto, la cui esistenza viene, in polemica con gli atomisti, radicalmente negata; del tempo, che Aristotele definisce come «il numero del movimento secondo il prima e il poi»; in effetti, senza la percezione da parte dell’anima del movimento di qualcosa non può esserci percezione del tempo, che risulta dunque inestricabilmente collegato al movimento.

Movimento circolare e rettilineo

7.1 Dalla fisica alla cosmologia La teoria del movimento, e in particolare la concezione dei moti naturali, rappresenta poi l’ambito nel quale Aristotele tenta di stabilire una connessione tra la fisica e la cosmologia. Si tratta di una riflessione di importanza epocale, destinata a egemonizzare il pensiero occidentale fino alle porte dell’età moderna. Secondo Aristotele esistono due tipi di movimento naturale, quello circolare e quello rettilineo (stiamo ovviamente parlando del movimento locale). Nel mondo terrestre i moti naturali sono di tipo rettilineo, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso (ogni altro movimento, per esempio quello parabolico, è forzato e non naturale, come nel caso del lancio di pietre o frecce). Dunque, nel mondo terrestre esistono solo due tipi di movimento rettilineo, quello dal centro (dal basso in alto) e quello verso il centro (dall’alto in basso). FILOSOFI A CONFRONTO

La natura dei quattro elementi determina il tipo di moto

Gli strati dell’universo e i moti naturali

In questo stesso mondo ci sono, secondo Aristotele (che qui riprende una celebre concezione presocratica), quattro elementi primari, ossia quattro corpi semplici: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco.

Dunque, conclude Aristotele, la natura di ciascuno di questi corpi semplici determina il tipo di moto naturale delle cose composte in prevalenza di quell’elemento: due di questi corpi tenderanno a muoversi verso l’alto (aria e fuoco), due verso il basso (acqua e terra). Aristotele immagina l’universo come una totalità piena di materia distribuita a strati. Il centro, ossia la parte più bassa, è occupato dalla terra, quindi si trova l’acqua mentre in alto hanno il loro luogo naturale l’aria e il fuoco (che è l’elemento situato più in alto). I moti naturali dei corpi si spiegano postulando il principio secondo cui gli elementi tendono a occupare il loro luogo naturale e a restarvi. Dunque la terra e l’acqua (e i corpi che sono composti prevalentemente di esse, come le pietre, la pioggia, gli stessi organismi animali) tenderanno a dirigersi verso il basso, mentre il fuoco e l’aria verso l’alto (come le fiamme).

LUOGHI E MOVIMENTI NATURALI DEGLI ELEMENTI (O CORPI SEMPLICI) ELEMENTI FUOCO

LUOGHI

MOVIMENTO DEGLI ELEMENTI

alto verso l’alto (si allontana dal centro)

ARIA ACQUA TERRA

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basso (centro dell’universo)

verso il basso (si avvicina al centro)

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Il movimento circolare degli astri presuppone una diversa materia costitutiva

L’universo è l’unione del mondo terrestre e del mondo astrale

Etere e incorruttibilità degli astri

Astri eterni e divini

Si è detto però che i moti naturali sono di due tipi: rettilineo (dal centro e verso il centro) e circolare. Ora, l’evidenza osservativa ci permette di constatare che gli astri (che sono corpi fisici) si muovono di moto circolare. Dal momento che il loro moto circolare non può che essere naturale (è infatti impensabile che gli astri si muovano perché forzati) e dal momento che il tipo di moto circolare dipende dalla natura del corpo di ciò che si muove, non si potrà evitare la seguente conclusione: gli astri sono composti di una materia diversa rispetto a quella di cui sono formati i corpi collocati nel mondo terrestre. La conclusione di Aristotele è abbastanza clamorosa. L’universo è diviso in due parti: il mondo terrestre, che viene solitamente chiamato “mondo sublunare” (ossia al di sotto della Luna), è materialmente composto dai quattro elementi della tradizione empedoclea; al di sopra di esso si trova il mondo astrale, che è costituito di una materia diversa da quella dei quattro corpi terrestri, ossia dal quinto elemento. Aristotele chiama questo quinto corpo “etere”, «dotato di una natura tanto più nobile quanto più è distante dai corpi che si trovano quaggiù». A differenza dei corpi del mondo sublunare, l’etere non ha né pesantezza né leggerezza. Ma la cosa veramente importante è un’altra. Abbiamo visto che l’ammissione dell’etere è motivata dall’esigenza di spiegare l’esistenza di un moto naturale, quello circolare, strutturalmente differente rispetto ai moti naturali del mondo sublunare (che sono rettilinei). In verità l’etere spiega anche un’altra caratteristica fondamentale dei corpi astrali, ossia la loro incorruttibilità. Infatti – argomenta Aristotele – la composizione materiale dei corpi è causa non solo del tipo di movimento locale che li caratterizza, ma anche del mutamento in senso lato. I corpi terrestri, essendo costituiti dai quattro elementi, risultano corruttibili (cioè suscettibili di trasformazione, decadenza, dissoluzione e, nel caso dei viventi, di morte); viceversa gli astri, composti di etere, sono incorruttibili. Questo significa che l’unico mutamento che conoscono è lo spostamento locale in circolo; sono eterni e incorruttibili e per questo possono essere assimilati agli dèi. Su questo punto bisogna ricordare che la separazione tra terra e cielo posta da Aristotele sarà destinata a segnare l’intero corso della cultura e della scienza occidentali fino a Galileo, che si impegnerà a dimostrare che anche i corpi celesti (per esempio la Luna) sono composti dello stesso materiale della Terra. FILOSOFI A CONFRONTO

Un universo pieno, finito e stratificato

Un universo unitario

L’eternità del mondo e la sua causa prima

L’universo, o cosmo, aristotelico è dunque un’entità piena (abbiamo visto che non esiste il vuoto), finita (per Aristotele non esiste neppure una sostanza infinita e dunque il mondo è, diversamente da quanto pensavano gli atomisti, finito) e in qualche modo stratificata. Nella regione sublunare si trovano, disposti dal centro alla periferia, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco mentre al di sopra, nella sfera astrale, vi è l’etere, che è la sostanza di cui sono composti i corpi celesti.

Naturalmente le quattro zone del mondo sublunare non sono affatto separate le une dalle altre; esiste infatti una comunicazione incessante, uno scambio di posto tra gli elementi, che sono portati a tornare al loro luogo naturale. I fenomeni meteorologici sono l’esempio più evidente di questi processi di trasformazione degli elementi terrestri. D’altra parte, secondo Aristotele, anche il mondo astrale esercita una qualche influenza sui processi fisici che accadono nel mondo sublunare. Pensa, per esempio, all’azione esercitata dalla Luna sulle maree o a quella del movimento annuale del Sole, che determina il cambiamento delle stagioni. L’universo, sebbene diviso in due regioni ben distinte, costituisce comunque una realtà unitaria, la cui caratteristica fondamentale è costituita, come più volte sottolineato, dal mutamento. Secondo Aristotele il mondo è eterno: non ha avuto inizio e non avrà fine. Eterne e immodificabili sono, come diremo meglio a proposito degli scritti biologici, le specie che lo abitano. Dal momento che è eterno e si trova in costante movimento (generazione e corruzione, moto locale, alterazione e così via), per conoscerlo in modo autentico occorre in-

5. Aristotele

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dividuare la causa (prima) di questo movimento (non dimenticare che conoscere qualcosa vuole dire per Aristotele conoscerne la causa). Se il mondo è eterno ed eterno è anche il movimento che lo attraversa, la causa di questo movimento non potrà che essere eterna. Inoltre dovrà essere una causa eternamente in atto, dal momento che, se fosse in potenza, avrebbe bisogno di qualcosa che renda possibile il passaggio dalla potenza all’atto (per Aristotele solo ciò che è in atto può mettere in moto qualcos’altro, ossia consentire il passaggio dalla potenza all’atto). Abbiamo visto che l’esistenza del divenire nel mondo sublunare dipende in qualche misura dal movimento del cielo, ossia del mondo astrale, e il primo movimento del cielo è quello della sfera delle stelle fisse. FILOSOFI A CONFRONTO

Aristotele, seguendo un’opinione dominante tra gli astronomi antichi (almeno a partire dall’Accademia), immagina che le stelle della volta celeste siano “incastonate” su una sfera; per questo diventa fondamentale individuare la causa del movimento della sfera delle stelle fisse, da cui dipendono in varia misura tutti i movimenti del cosmo (dei pianeti, ma anche del Sole e della Luna, che gli antichi consideravano appunto pianeti) e i movimenti del mondo sublunare.

IL COSMO ARISTOTELICO

Il motore immobile, causa prima del movimento degli astri

T4

Il nous: primo motore immobile

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7.2 Dalla cosmologia alla teologia Quale realtà può muovere il cielo delle stelle fisse, restando però immobile, perché, se si muovesse, occorrerebbe trovare anche per essa un ulteriore motore? Dunque: che cosa è e come muove un motore immobile? La soluzione escogitata da Aristotele rappresenta certamente una delle sue teorie più controverse, esposta in modo compiuto nel XII libro della Metafisica (composto quasi sicuramente in età giovanile). Deve trattarsi di qualcosa di immateriale, perché, se fosse materiale, si muoverebbe anch’esso (abbiamo visto infatti che sia i corpi composti dai quattro elementi terrestri, sia quelli composti di etere si muovono). Questo motore deve dunque essere atto puro (e non potenza), forma pura (e non materia), eterno (come il movimento che deve spiegare), ma immobile. L’unica realtà che risponde a tutte queste caratteristiche, che Aristotele chiama il primo motore immobile, è la divinità, concepita però non come persona, alla maniera degli dèi omerici,

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Pensiero di pensiero

Il primo motore immobile «muove in quanto amato»

Amore come desiderio d’imitazione della perfezione

Un principio eternamente in atto Il primo motore immobile come causa motrice e finale Un principio divino

Attività divina e attività filosofica

Il divino e l’ordine del movimento

bensì come Intelletto, ossia pensiero (nous). Il pensiero è una realtà fisicamente immobile, muove senza contatto e non è materiale. L’attività dell’Intelletto è quella di pensare ma, si tratta di un pensiero eterno e mai interrotto (a differenza di quello umano, che è intervallato). Ma un pensiero rivolto a che cosa? Non a una realtà inferiore, perché, se così fosse, vedrebbe irrimediabilmente sminuito il suo statuto ontologico, ossia il suo prestigio. Il pensiero del primo motore immobile non potrà che rivolgersi alla realtà più alta in assoluto, cioè a se stesso: sarà – come scrive Aristotele – «pensiero di pensiero». Ma come muove il primo motore immobile? La risposta aristotelica è che questo motore (atto puro, forma pura, pensiero di pensiero) muove in quanto è oggetto di amore da parte del cielo. L’attrazione prodotta dall’amore e dal desiderio pare infatti ad Aristotele l’unica modalità in cui un motore può muovere qualcosa senza risultare lui stesso mosso: se desidero un oggetto mi muovo verso di esso o comunque faccio qualcosa in funzione di esso, senza che quest’ultimo si muova. Il primo motore immobile, dice dunque Aristotele, «muove in quanto amato». Ma amato da chi? Probabilmente dagli astri o meglio dalle sfere in cui essi si trovano (le quali dovranno, per potere amare, possedere un’anima). “Amore” significa qui desiderio di imitare la perfezione, cioè l’assoluta immobilità, del primo motore; le sfere astrali, in quanto composte della materia eterea, non possono essere del tutto immobili, ma si avvicinano a questa condizione grazie al loro moto circolare, che è uniforme ed eterno, senza principio né fine. Tutto ciò significa che la causa efficiente del movimento del cosmo (ossia il suo motore) è in realtà una causa finale (cioè il fine che genera movimento nelle altre cose). In estrema sintesi, proviamo dunque a restituire i punti essenziali del ragionamento complesso, e a tratti sconcertante, che Aristotele conduce nel XII libro della Metafisica: 1. il divenire naturale, ossia il passaggio dalla potenza all’atto, necessita di un principio che sia eternamente in atto, cioè che sia sottratto al divenire stesso (il movimento ha bisogno di qualcosa che non si muova); 2. lo studio della natura culmina nell’ammissione di una sostanza non materiale, il primo motore immobile (che è pura forma senza materia), che costituisce la causa motrice e finale dell’intero movimento dell’universo e dunque dell’intera natura; 3. dal momento che il primo motore immobile viene senz’altro identificato con Dio, la cosmologia di Aristotele trova il suo apparente compimento in una sorta di teologia metacosmica (in quanto il principio supremo viene collocato al di là, in greco metà appunto, del cosmo); 4. la natura dell’attività della divinità è molto simile a quella del filosofo: Dio compie sempre e senza sosta ciò che il filosofo può fare solo in momenti limitati della sua vita (l’attività del pensiero, con la felicità che la accompagna); il Dio aristotelico sembra davvero rappresentare l’eternizzazione e la divinizzazione dell’attività del filosofo; 5. a differenza della divinità biblica e cristiana, il dio aristotelico non crea il mondo e non lo ama (giacché pensa soltanto se stesso), e tanto meno interviene nelle sue vicende. Esso si limita ad assicurare l’ordine e la regolarità dei movimenti del cosmo: quelli degli astri in primo luogo, e tramite essi anche quelli del mondo sublunare (regolarità delle stagioni, del ritmo giorno/notte, della riproduzione delle specie animali). PER SINTETIZZARE • In che modo è costituito l’universo aristotelico? • Quale funzione svolge il principio divino in questa concezione?

PER RIFLETTERE • Se tu fossi un allievo di Aristotele, potresti accettare l’idea, tipica della scienza contemporanea, secondo la quale i fenomeni che si verificano nell’universo sono continui processi di disgregazione e aggregazione di particelle?

5. Aristotele

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8. I viventi e l’anima: biologia e psicologia Il finalismo e le specie dei viventi

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Il carattere costitutivo della natura – lo si è detto più di una volta – è rappresentato dal suo finalismo, ossia dal fatto di essere orientata verso il bene o il meglio. Questo aspetto si manifesta sia a livello macrocosmico, ossia nel mondo considerato come totalità, sia a livello microcosmico, ossia nei singoli processi naturali e nella struttura delle singole specie viventi. A livello macrocosmico il finalismo è soprattutto evidente nella regolarità dei movimenti astrali, dai quali, come si è detto, dipendono anche i processi fisici del mondo sublunare. Ma l’orientamento teleologico della natura si esprime in modo massiccio e sistematico anche all’interno del mondo sublunare.

8.1 Biologia e zoologia Per Aristotele la bellezza del mondo non è confinata all’ambito celeste, quello occupato dagli astri: al contrario, è proprio negli aspetti apparentemente più insignificanti del mondo sublunare che il finalismo (per Aristotele equivalente a ordine e bellezza) emerge in maniera più interessante. Proprio lo studio di quegli esseri che sembrano non presentare particolari attrattive offre «grandissime gioie a chi sia capace di comprenderne le cause», ossia a chi sia capace di cogliere la causa finale. FILOSOFI A CONFRONTO

Indagine a tutto campo sulle specie viventi

È un merito indubbio di Aristotele quello di non avere confinato lo studio della natura agli aspetti più manifestamente “nobili”; in realtà, diversamente dal suo maestro, Aristotele ha mostrato di non disprezzare nessun aspetto della natura. Non si è fatto scrupolo di interrogare figure professionali solitamente poco considerate (se non addirittura disprezzate), come cacciatori, pescatori, macellai, pastori o allevatori, da cui ricavò una serie impressionante di informazioni su una quantità sterminata di specie viventi (catalogò oltre cinquecento specie animali).

La materia dei viventi: tessuti e organi

Secondo Aristotele la materia di cui sono costituiti gli esseri viventi si unisce in modo da dare luogo a due forme di organizzazione: • le parti omogenee, ossia quelle parti che, se suddivise, danno luogo a parti dello stesso tipo, e che corrispondono all’incirca ai nostri tessuti (le ossa, la carne); • le parti non omogenee, le quali, se divise, non presentano parti simili al tutto (pensa, per esempio, alla mano, che si divide in dita e non in altre mani) e che corrispondono sostanzialmente ai nostri organi. È chiaro che la complessità di un essere vivente dipende dalla presenza in esso di un maggior numero di parti non omogenee, ossia di organi, i quali gli consentono di svolgere funzioni via via più complesse. È molto importante tenere presente che per Aristotele non è l’esistenza dell’organo a provocare lo sviluppo di una determinata funzione, ma al contrario sono le funzioni proprie di una certa specie a richiedere che essa possegga organi adatti a compiere quelle funzioni. Per fare un esempio, non è la presenza dei denti canini a consentire lo sviluppo in certe specie animali dell’alimentazione a base di carne, ma accade esattamente il contrario: al fine di poter mangiare carne certi animali hanno una dentatura appropriata. La natura, insomma, è finalizzata e – aggiunge Aristotele – non fa nulla invano. La struttura delle specie, ossia la configurazione che possiedono gli organismi, dipende finalisticamente dal tipo di attività che esse devono svolgere. Dal momento che una certa specie deve poter svolgere una determinata funzione, ecco che la natura dota quella specie di un organismo orientato a svolgere l’attività che le è propria. L’impostazione finalistica della biologia e della zoologia conosce eccessi anche divertenti, almeno ai nostri occhi. A proposito della posizione della bocca degli squali (situata, come noto, nella parte inferiore del corpo), che di fatto rende più difficile la cattura di altri pesci, Aristotele osserva che anch’essa risulta stabilita dalla natura per il meglio; infatti, se lo squa-

Fine, funzione, organo

La natura non fa nulla invano

Un esempio curioso: lo squalo

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La sopravvivenza e l’eternità delle specie

lo avesse una bocca che gli consentisse una facile introduzione di cibo, essendo il più potente e vorace dei pesci, non cesserebbe di abbuffarsi, con grave danno alla salute sua e alla sopravvivenza delle altre specie marine. Va tenuto comunque presente che per Aristotele la dinamica finalistica che governa la natura agisce all’interno delle singole specie e non, salvo poche eccezioni, tra le specie. In altri termini, la struttura di ogni specie ha come fine la sopravvivenza della specie stessa e non quella di altre. Il mondo – lo si è detto – è per Aristotele eterno e gli astri, composti di etere, sono individualmente eterni. I viventi del mondo sublunare, composti dai quattro elementi tradizionali, non possono invece risultare individualmente eterni; lo saranno però dal punto di vista della specie, che è infatti eterna e non soggetta a mutamenti (Aristotele non era certo un sostenitore dell’evoluzionismo).

8.2 Psicologia: l’anima Anima: principio di organizzazione corporea

Per comprendere la biologia e la zoologia di Aristotele occorre affrontare ora un altro importante tema: l’anima. Gli esseri viventi, infatti, sono tali in virtù del fatto di avere la vita e quest’ultima, secondo Aristotele, viene garantita loro dall’anima. Ciò che caratterizza tutti i viventi è dunque la presenza dell’anima, intesa però non come sostanza separata e in-

Cavallo e cavaliere di Capo Artemision, 140 a.C. ca. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

5. Aristotele

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L’anima è atto del corpo che ha la vita in potenza

L’anima è la forma dei viventi

dipendente dal corpo (alla maniera platonica), bensì come principio di organizzazione della materia corporea. Per Aristotele l’anima è «atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza»; ciò significa che la sua presenza fa sì che una certa materia, che ha la vita in potenza, diventi effettivamente un essere vivente. Secondo Aristotele i corpi che in potenza hanno la vita sono quelli dotati di organi adatti a esplicare le funzioni vitali: piante e animali. È importante tenere presente che l’anima di questi esseri viventi non è altro che il principio di organizzazione del corpo e, in quanto tale, non è separabile dalla materia corporea che organizza. Ricorderai che il principio di organizzazione di una data materia è per Aristotele la forma: ciò significa che l’anima è la forma degli esseri viventi. FILOSOFI A CONFRONTO

Contro l’immortalità

Contro Platone, dunque, Aristotele sostiene che non vi può essere alcuna immortalità dell’anima individuale; addirittura “ridicola” è poi considerata l’ipotesi della metempsicosi o reincarnazione delle anime poiché i corpi, osserva Aristotele, non sono vestiti che si possono indossare e cambiare, ma sono lo strumento di cui l’anima è la funzione: non c’è la vista senza l’occhio, né vita senza corpo.

Le tre funzioni vitali

La vita presenta gradi e aspetti differenti, come l’osservazione fenomenica consente di costatare: accanto al livello riproduttivo, vegetativo e nutritivo, esiste un’attività vitale di tipo sensitivo e motorio e, da ultimo, addirittura intellettuale. Se le cose stanno in questi termini, non potranno che esistere diverse funzioni di organizzazione della materia corporea: una funzione vegetativa (propria delle piante), una sensitiva (caratteristica di tutti gli animali) e una intellettiva (propria dell’animale uomo): • la prima funzione, quella vegetativa, presiede all’attività di riproduzione, crescita e nutrimento; • la seconda, quella sensitiva e motrice, consente agli animali di percepire (tramite gli organi dei cinque sensi) e di muoversi; • la terza infine, quella intellettiva, permette agli uomini di pensare e di volere. Quando l’anima come principio di vita e organizzazione della materia è presente si ha un essere vivente, altrimenti si ha materia priva di vita (come una pietra oppure un cadavere, che è un corpo cui è venuto meno il principio di organizzazione vitale).

LE FUNZIONI DELL’ANIMA FUNZIONE

ATTIVITÀ

ESSERI VIVENTI

vegetativa

riproduzione, crescita e nutrimento

piante

sensitiva

percezione e movimento

animali

intellettiva

pensiero e volontà

uomo

La gerarchia funzionale

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Negli esseri in cui è presente una certa funzione superiore, sensitiva o intellettiva, è automaticamente presente anche quella inferiore. Così l’anima sensitiva degli animali comprende anche le funzioni dell’anima vegetativa (che è invece l’unica posseduta dalle piante); e analogamente nella funzione intellettiva sono attive anche le capacità funzionali dell’anima vegetativa e di quella sensitiva.

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8.3 La percezione e l’intelletto L’attività dell’anima sensitiva: la percezione

Le analisi condotte da Aristotele nello scritto Sull’anima sono molto importanti, anche se non sempre facili da comprendere e riassumere in poche parole. Di notevole interesse risultano le sue considerazioni relative al fenomeno della percezione (che esprime l’attività dell’anima sensitiva). Essa avviene per opera dei cinque sensi e poi di un sesto senso, chiamato “senso comune”, il quale consente di percepire stimoli comuni a più di un senso (il movimento dei corpi, per esempio, si percepisce proprio grazie al senso comune). Secondo Aristotele la percezione consiste nell’assunzione da parte dell’organo di senso della forma sensibile dell’oggetto percepito. Procediamo con ordine. Sia l’organo sia la forma dell’oggetto sono in potenza rispetto alla percezione: l’organo di senso è un senziente in potenza (cioè è capace di sentire, percepire), la forma dell’oggetto un percepibile in potenza (è fatta in modo tale da poter essere percepita, sentita), e diventano in atto quando si incontrano, ossia nell’atto della percezione. In quel momento si forma infatti nei nostri organi di senso un’immagine dell’oggetto percepito, un’immagine che viene conservata dalla memoria.

LA PERCEZIONE SOGGETTO = organo di senso senziente in potenza

ATTO DELLA PERCEZIONE = la forma sensibile dell’oggetto viene assunta dall’organo di senso

OGGETTO = oggetto sensibile, che possiede una forma sensibile percepibile in potenza

nell’organo si forma un’immagine dell’oggetto percepito

l’immagine viene conservata nella memoria

Intelletto passivo e intelletto attivo

Secondo Aristotele un procedimento più o meno simile a quello della percezione avviene anche a proposito del pensiero (che, come si è detto, è una funzione propria ai soli uomini). I concetti, in effetti, si formano in maniera simile alle percezioni sensibili. L’intelletto, che gioca a livello dell’intellezione un ruolo analogo a quello esercitato dai sensi nella percezione, è capace di cogliere nell’immagine sensibile delle cose la loro forma intelligibile (per esempio la forma intellegibile “uomo” è presente nell’immagine sensibile di Alberto, immagine, questa, ottenuta mediante la percezione che i miei sensi hanno di Alberto). Ora, come i sensi sono senzienti in potenza e vengono attivati dall’incontro con la forma sensibile dell’oggetto percepito, allo stesso modo l’intelletto è in potenza e viene attivato nel momento in cui entra in contatto con le forme intelligibili. L’intelletto viene assimilato da Aristotele a una tavoletta di cera, completamente liscia, ma disposta a ricevere le lettere che vengono in essa impresse (lo stadio in cui la tavoletta è vuota corrisponde evidentemente alla fase potenziale dell’intelletto). Fino a qui l’analogia con la percezione sensibile sembra esprimere abbastanza bene il funzionamento del meccanismo della formazione dei concetti. Ma a questo punto le cose si complicano ulteriormente e in un modo che sembra quasi impossibile da comprendere completamente. Aristotele, infatti, opera una successiva distinzione, davvero misteriosa: egli sostiene che accanto all’intelletto passivo (nous pathetikòs), quasi certamente identico alla tavoletta di cera di cui si è appena detto, esiste anche un intelletto attivo, detto poi “produttivo” o “poietico” (da poièin, che significa “fare”), il quale sarebbe sempre in atto (e non passerebbe, come quello passivo, dalla potenza all’atto).

5. Aristotele

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Che cos’è l’intelletto attivo?

Ora, che cosa sia questo misterioso intelletto attivo è questione sostanzialmente ancora irrisolta (i commentatori aristotelici, sia antichi sia moderni, hanno scritto montagne di pagine sulla questione senza mai venirne completamente a capo). Si tratta di un intelletto separato, ossia indipendente dal corpo, mentre, come sappiamo, l’intelletto passivo è una funzione del corpo e non può esistere senza di esso. In quanto separato dal corpo e indipendente da esso, l’intelletto attivo potrebbe non essere individuale, potrebbe cioè non appartenere a ciascun uomo (alcuni vi hanno voluto vedere un riferimento al primo motore immobile, che è infatti un intelletto separato ed eternamente in atto). Ma la questione non può dirsi veramente risolta e, probabilmente, non è poi così importante per la comprensione del percorso filosofico di Aristotele. Si può forse dire che quella dell’intelletto attivo è un’ipotesi necessaria a soddisfare lo schema atto-potenza che per Aristotele è indispensabile per spiegare qualsiasi attività (in questo caso quella del pensiero), come il motore immobile era un’ipotesi necessaria a spiegare l’esistenza del movimento nella natura del cosmo.

9. La filosofia prima o metafisica La Metafisica, opera composita

Più di una volta è accaduto, nel corso di questa esposizione, di accennare alla Metafisica, per dire, per esempio, che non si tratta di un’opera compiuta, ma di un insieme di trattati di argomento tra loro simile (ma non identico), raggruppati in uno scritto unitario dopo la morte di Aristotele. Si è anche osservato che la parola stessa “metafisica” è posteriore ad Aristotele. È arrivato il momento di analizzare più da vicino quest’opera e soprattutto le questioni filosofiche che essa tratta.

Atlante, copia romana del II secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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9.1 La natura della sapienza L’indagine sulle cause e sui principi della sapienza

T1 Le caratteristiche: universale e rivolta alle cose di rango superiore

Conoscenza delle cause, fine a se stessa

Supremazia della sapienza ed eredità platonica

Nel libro I della Metafisica, Aristotele dichiara che l’oggetto della sua ricerca è la natura della sapienza (sophìa), che corrisponde a un sapere dotato di una certa superiorità nei confronti delle altre forme di conoscenza; e dal momento che, come ben sappiamo, conoscere qualcosa significa per Aristotele conoscere le cause, anche la ricerca che egli si appresta ad affrontare dovrà riguardare le cause e i principi della sapienza. Ma che cos’è questa misteriosa sapienza? Prima di tutto bisogna stabilire quali sono le caratteristiche che questa disciplina deve possedere e, in proposito, Aristotele è abbastanza preciso. Egli dice, infatti, che la sapienza deve possedere, tra le altre, due proprietà ben definite; il problema è che queste due proprietà sembrano, almeno a prima vista, contraddirsi l’una con l’altra. Infatti la sapienza deve essere allo stesso tempo universale e occuparsi anche di oggetti dotati di rango superiore. Tuttavia, se è universale, essa deve in un certo senso studiare tutte le cose in generale; se invece è rivolta alle realtà di rango superiore (più alte e dunque divine), deve limitarsi a studiare solo quel tipo di realtà. La sapienza (o filosofia prima), dunque, deve essere conoscenza universale e rivolgersi alle cose più difficili, cioè le più lontane da noi e perciò divine; deve poi essere conoscenza delle cause; inoltre, deve essere una conoscenza disinteressata, ossia non perseguita in vista di qualcosa, ma per se stessa; infine – e forse proprio per le ragioni appena menzionate – essa deve risultare anche superiore rispetto alle altre conoscenze. Come si è visto, la maggiore difficoltà che deve affrontare chi voglia comprendere la natura della sapienza consiste nel conciliare il carattere universale di questa disciplina e il suo contemporaneo rivolgersi a degli oggetti particolari (le cose più difficili e più alte, ossia divine). FILOSOFI A CONFRONTO

In verità, l’esigenza di far convergere questi due aspetti in una disciplina filosofica non è una novità di Aristotele, ma una ben precisa eredità di Platone. Ricorderai infatti che la dialettica platonica era contemporaneamente la scienza più universale e quella rivolta agli oggetti di rango più elevato, vale a dire le idee. Aristotele, tuttavia, rifiuta le idee e non può di conseguenza identificare la sua sapienza con la dialettica. È però inevitabile osservare che la filosofia prima di Aristotele eredita esigenze tipiche del platonismo, anche se tenta di soddisfarle in un modo sostanzialmente diverso da come aveva fatto Platone.

9.2 Lo studio dell’essere L’oggetto della filosofia prima è l’essere in quanto essere

T2

L’essere non è una nozione univoca

Si è visto che una delle caratteristiche della sapienza è quella di essere un sapere in qualche modo universale, ossia relativo all’universale. Dal momento che la cosa più universale di tutte è senza dubbio l’essere, la nostra scienza ricercata deve studiare l’essere. Tuttavia non una sezione determinata dell’essere (per esempio l’essere materiale) o un modo determinato di essere (per esempio quello della fisica che studia gli esseri in quanto hanno in se stessi il principio del movimento): la filosofia prima deve studiare l’essere in generale, ossia, come dice Aristotele con una formula destinata a divenire celebre, «l’essere in quanto essere». Bisogna infatti precisare che l’evidenza linguistica e quella fenomenica inducono Aristotele a concludere che «l’essere si dice in molti modi». Si tratta di una tesi importante, ma che cosa significa? Affermando che l’essere si dice in molti modi, Aristotele intende prima di tutto sostenere che quella di essere non è una nozione univoca, ossia dotata di un solo significato, valido per tutte le sue applicazioni. Univoci o sinonimi sono quei termini che hanno il medesimo significato in tutte le occasioni in cui li adoperiamo: se il termine “animale” è univoco, perché significa la stessa cosa quando lo riferiamo a “uomo” e a “bue”, l’essere non è una nozione univoca, perché quando la usiamo intendiamo dire cose molto diverse (in espressio-

5. Aristotele

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Unitarietà e molteplicità dell’essere

Il senso primario e l’unitarietà dell’essere

La sostanza, senso primario dell’essere

T3

La ricerca sulle cause e i principi della sostanza

Limite della concezione della sostanza come individuo concreto

I candidati alla qualifica di sostanza

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ni quali «Alberto è un uomo», «è giorno», «è così», «Alberto è marito di Chiara» è facile rendersi conto che il verbo essere è usato in sensi abbastanza differenti). Tuttavia, osserva Aristotele, l’essere non è neppure così molteplice da non avere la minima unitarietà; non è, cioè, una nozione del tutto equivoca. Equivoci sono infatti quei termini che hanno in comune solo il nome, senza condividere nulla del significato. Se dico, per esempio, che mia nonna ha perso i denti e che la forchetta ha tre denti, uso la parola denti in significati del tutto differenti. L’essere per Aristotele non è così molteplice da risultare del tutto equivoco. 9.2.1 L’essere e la sostanza L’essere, dunque, non è univoco, ma neppure equivoco; non

possiede un’unità forte, ma neppure è del tutto privo di unità. Aristotele dice infatti che l’essere si dice in molti modi, ma tutti in relazione a un senso principale e per farsi capire si serve di un esempio. Quando noi usiamo il termine “sano” – dicendo che sana è una passeggiata, sana una certa dieta, sana la medicina – pensiamo implicitamente a un senso primario cui tutti questi usi si riferiscono: la salute. Allo stesso modo, esiste un senso primario dell’essere al quale tutti gli altri si riferiscono e che tutti gli altri in qualche misura presuppongono: la sostanza. Si tratta di una conclusione che non può però sorprenderci, perché già dalle Categorie sappiamo che la sostanza è la prima delle categorie, quella senza la quale nessuna delle altre può esistere. Oggi si è soliti definire la concezione aristotelica secondo la quale la sostanza rappresenta il senso primario dell’essere come “teoria del significato focale”. In effetti, la sostanza è in un certo modo il “fuoco”, ossia il centro, verso il quale convergono tutti gli usi della nozione di essere, nel senso che tutti presuppongono la sostanza: essere bianco, essere alto due metri, essere in riposo o essere parente di qualcuno sono tutte caratteristiche che presuppongono che ci sia una sostanza alla quale appartengono e di cui vengono detti. Aristotele può dunque indirizzare la sua ricerca della sapienza o filosofia prima lungo una via più definita. Può dire, per esempio, che la ricerca delle cause e dei principi dell’essere in quanto essere è in qualche modo circoscrivibile alla ricerca intorno alle cause e ai principi della sostanza, che è appunto il significato focale dell’essere. Chiedersi che cosa sia l’essere – afferma Aristotele in modo perentorio – equivale a chiedersi che cosa sia la sostanza. 9.2.2 Lo studio della sostanza Ma che cos’è dunque la sostanza? Abbiamo già visto, stu-

diando le Categorie, che la sostanza è qualcosa di individuale (è una cosa determinata), qualcosa che non si predica di altro ma di cui le altre cose si predicano (è un soggetto e non un predicato). Insomma, le sostanze sono gli individui concreti che popolano il mondo (Alberto e non uomo in generale, Fido e non cane in generale). Aristotele non sembra però del tutto soddisfatto di questa concezione che risale al periodo giovanile, quando si trovava nell’Accademia, e per questo la riprende con l’intenzione di approfondirla. Uno dei libri più importanti e difficili della Metafisica, il VII, è infatti interamente dedicato alla questione di che cosa sia la sostanza, che, abbiamo detto, è il senso primario e focale dell’essere. Aristotele esamina con grande scrupolo tutti i candidati possibili a questo titolo, analizzando, come è solito fare, le dottrine dei suoi predecessori. Secondo lui i candidati alla qualifica di sostanza (e dunque al titolo di senso primario e focale dell’essere) sono quattro: • la materia (sponsorizzata da alcuni filosofi presocratici); • la forma; • il sinolo (in greco syn-olon, cioè “totalità composita”), ossia l’unione di materia e forma; • l’universale (sponsorizzato da Platone). Aristotele rimane sempre convinto che la sostanza debba essere una realtà individuale e continua a credere che essa sia separata, cioè indipendente, dalle altre cose (possa cioè esistere senza le altre, ma queste ultime non possano esistere senza la sostanza); infine, non cessa di pensare che la sostanza sia un soggetto di predicazione e non un predicato. In base a questi tre fondamentali parametri, affronta l’esame dei quattro candidati al titolo di sostanza.

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FILOSOFI A CONFRONTO

Esame della materia

Esame dell’universale

Esame del sinolo

Esame della forma o essenza

Prima di tutto la materia. Per Aristotele essa è in qualche modo sostanza, come hanno creduto alcuni fisici presocratici (per esempio Talete con l’acqua e Anassimene con l’aria), perché è soggetto di predicazione, ma lo è in senso molto debole.

La materia, infatti, non è separabile, non esiste in se stessa, ma è sempre accompagnata dalla forma (non è pensabile una “materia prima” del tutto informe: al massimo esistono gli elementi, in cui la materia ha già la forma di acqua, aria, terra o fuoco); inoltre la materia non è veramente un individuo, ma può essere individuata solo dalla presenza di una forma. Il candidato più debole è senza dubbio l’universale, ossia l’idea platonica. Per Aristotele l’universale non è sostanza in nessun senso, neppure in quello debole della materia. Infatti, l’universale non è separabile (bianco non esiste senza quella determinata cosa bianca), è predicato – e non soggetto – e soprattutto non è e non può essere un individuo (l’universale è esattamente il contrario dell’individuo): Socrate può essere un uomo giusto, ma “giusto”, detto di nessuno, non significa nulla. Restano dunque la forma e il sinolo di materia e forma. Tutti noi ci aspetteremmo da Aristotele una chiara e inequivoca presa di posizione in favore del sinolo, ossia dell’unione di materia e forma nella singola realtà individuale (il corpo e l’anima di Socrate costituiscono la sostanza “Socrate”), e in effetti Aristotele non ha nessuna difficoltà ad ammettere che il sinolo è sostanza in senso proprio. Tuttavia egli dedica una grande parte del libro VII della Metafisica a dimostrare che ancora più del sinolo di materia e forma è sostanza la forma o essenza.

CHE COS’È LA SOSTANZA SOSTANZA

materia = è sostanza in senso debole

universale = non è sostanza in alcun senso

sinolo (unione di materia e forma) = è sostanza in senso proprio

forma o essenza = è sostanza ancora più del sinolo di materia e forma

9.3 La forma causa dell’essere Nuovo criterio di sostanzialità: essere causa

La forma organizza e unifica la materia: è causa dell’essere

Per potere pervenire a questo risultato, cioè che la forma o essenza è sostanza, il nostro filosofo deve far intervenire un nuovo e fondamentale criterio di sostanzialità (oltre a quelli stabiliti precedentemente nelle Categorie e confermati nella Metafisica): si tratta del fatto che la sostanza deve anche assumere la funzione di causa dell’essere. Ma se la sostanza è causa, allora sostanza in senso primario non è più l’unione di materia e forma, ma la forma, la quale riveste la funzione di causa del fatto che una certa materia assume le vesti di una determinata cosa. Perché – si chiede Aristotele – quell’insieme di materia formato da ossa, sangue e carne è il nostro amico Alberto? La risposta è chiara: perché una certa forma (nel caso di Alberto la sua anima) fa sì che quella materia si organizzi in quel determinato modo e dia origine a quell’individuo che noi conosciamo come Alberto. E ancora: perché quell’ammasso di mat-

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toni, legno e acciaio è diventata la scuola che io frequento tutti i giorni? Perché quella materia è stata organizzata dalla forma della scuola ed è diventata questo determinato edificio. Quindi, se una cosa è quello che è, lo deve primariamente alla forma, che organizza e unifica la materia, assumendo così la funzione di causa dell’essere. FILOSOFI A CONFRONTO

La forma è universale o individuale?

La sostanza, in quanto identica alla forma, fornisce la ragione per cui una certa cosa è quella determinata cosa, per cui una certa materia è disposta in maniera tale da essere quella determinata cosa. Ma la forma di una cosa non è universale? La forma del tavolo, ossia ciò che consente al tavolo su cui è appoggiato il libro che sto leggendo di essere quel tavolo, non è la medesima del tavolo situato a fianco del mio? E se è la stessa, non si deve concludere che la forma è universale (essendo la medesima per due tavoli diversi) e non più individuale? Non aveva allora ragione Platone con le sue idee (che sono forme universali)?

La forma è individuale: identica per specie, ma diversa per numero

La risposta di Aristotele non lascia spazio a dubbi: egli dichiara con molta precisione che la forma è individuale (altrimenti non potrebbe essere sostanza). Certo, egli ammette che dal punto di vista della definizione la forma del tavolo A è identica alla forma del tavolo B, ma aggiunge che dal punto di vista numerico la forma di A è diversa da quella di B: dunque esse sono identiche perché hanno la stessa definizione (sono cioè identiche per specie), ma diverse perché l’una non è l’altra (sono cioè diverse per numero). Del resto basta pensare al caso degli esseri viventi, la cui forma sostanziale è l’anima. L’anima di Alberto non è la stessa di quella del suo amico Daniele, sebbene la definizione sia per entrambi la stessa (trattandosi di un’anima razionale, umana). Per Aristotele la forma, ossia l’essenza di qualcosa, può rappresentare la sostanza solo perché questa forma resta qualcosa di individuale (che è propria di un individuo e non comune a più individui). Sviluppando la sua concezione della forma come sostanza dell’individuo, Aristotele arriva a sostenere che la forma è anche atto, mentre la materia è potenza. Tuttavia questo non può davvero sorprenderci: la forma è ciò che fornisce il principio di organizzazione a una data materia; se è così, allora la forma è proprio ciò che attua le potenzialità della materia, consentendo a quest’ultima di diventare qualcosa di determinato, ossia un individuo.

La forma rappresenta la sostanza perché individuale

La forma attua la potenzialità della materia

PER SINTETIZZARE • In che modo viene modificata la concezione della sostanza aristotelica nel libro VII della Metafisica rispetto a quella, già conosciuta, enunciata nelle Categorie?

Diversi tipi di sostanza: quale rapporto tra di loro?

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9.4 Una scienza teologica unificata? Il cammino di Aristotele verso la determinazione della natura della filosofia prima si è snodato finora attraverso due tappe fondamentali: la dottrina dell’essere in quanto essere e la teoria della sostanza. Il collegamento tra queste due concezioni risulta abbastanza chiaro: l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in rapporto a un senso primario e principale, quello della sostanza; dunque, l’indagine intorno all’essere può legittimamente trasformarsi in un’indagine intorno alla sostanza. Bisogna tuttavia tener presente che le sostanze sono molte e strutturalmente diverse tra loro. Esistono sostanze fisiche soggette al movimento e alla corruzione, esistono sostanze fisiche prive di vita, esistono poi anche sostanze fisiche mobili ma incorruttibili (per esempio gli astri), ed esistono, forse, anche sostanze non fisiche, ossia né mobili né corruttibili. Qual è il rapporto tra queste sostanze? Esiste la possibilità di formulare una teoria unificata della sostanza? La risposta che Aristotele fornisce a quest’ultimo interrogativo non è chiara; o forse è sem-

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La ricerca di ciò che è primo tra le sostanze

Una sostanza prima tra le sostanze materiali: la sostanza astrale

Le sostanze immateriali

La scienza teologica studia le sostanze immobili

plicemente problematica, perché la domanda stessa è tale da non consentire una risposta inequivocabile. Vediamo con ordine. Anche a proposito della questione relativa ai rapporti tra le sostanze, Aristotele adotta il consueto metodo. Nel caso della trattazione dell’essere in quanto essere egli aveva sostenuto che, poiché l’essere si dice in molti sensi, occorre individuare il senso primario e principale (che noi sappiamo essere la sostanza); a proposito della sostanza egli fa un ragionamento analogo: poiché esistono molte sostanze, occorre stabilire quali sono le sostanze prime, occorre cioè stabilire ciò che è primo nell’ambito delle sostanze. Sappiamo che esistono sostanze materiali, mobili e corruttibili: si tratta delle sostanze sensibili collocate nel mondo sublunare. Sappiamo anche che esistono sostanze materiali, mobili e incorruttibili: si tratta dei corpi astrali, formati dall’etere. Tra questi due tipi di sostanza, prima è senza dubbio la sostanza astrale incorruttibile, eterna e sempre identica a sé; tra l’altro, abbiamo anche visto che gli astri sono causa del movimento dei corpi del mondo sublunare. Ma siamo sicuri di dover stabilire l’ordine tra questi due soli tipi di sostanze? Siamo sicuri, in altre parole, che non ci siano sostanze superiori a quelle fisiche? Noi sappiamo infatti proprio dalla trattazione della fisica che oltre a questi due tipi di sostanza esistono anche sostanze immobili e incorruttibili, cioè il primo motore immobile e gli altri motori (Aristotele crede infatti che ogni sfera abbia un motore immobile che la muova; tra questi, più nobile è il motore della prima sfera, quella delle stelle fisse). Dunque, se queste sostanze immobili esistono – ed esse esistono – la filosofia prima, o sapienza, studierà queste sostanze. Dal momento però che queste sostanze sono divine (sono pure forme, puri atti e hanno la vita degli dèi), Aristotele arriva ad affermare che questa disciplina non è altro che la scienza teologica.

Tintoretto, Le origini della Via Lattea, particolare, 1575. Londra, National Gallery.

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La metafisica è una scienza teologica?

Aristotele aggiunge poi che questa scienza è anche universale perché si occupa delle cause e dei principi dell’essere in generale. Infatti, i motori immobili sono esattamente le cause dell’essere delle altre sostanze e la sostanza è il primo dei significati dell’essere. Bisogna però ammettere che questa conclusione non sembra risolvere tutti i problemi collegati alla definizione della filosofia prima e della scienza dell’essere. Aristotele si limita a sostenere che le sostanze fisiche dipendono da quelle non fisiche (in questo senso “metafisiche”, ossia al di là di quelle fisiche); aggiunge che i motori immobili causano il movimento delle sfere astrali (per mezzo del desiderio che provocano in queste ultime); ma poi non costruisce una vera e propria scienza teologica, ossia una scienza dei rapporti tra le varie sostanze immobili, né una teoria che enunci chiaramente in che senso esse siano “cause” dell’essere delle altre sostanze (certo non le creano, e neppure ne determinano la struttura, che è interamente dovuta agli autonomi processi fisici della natura materiale). Resta il fatto che l’enorme complessità del progetto della filosofia prima (che da allora noi siamo abituati a chiamare metafisica) presenta elementi di unificazione, i quali, tuttavia, non portano mai a una vera e propria sistematizzazione.

10. L’etica L’oggetto delle scienze pratiche sono le azioni umane

Nelle azioni umane si rintracciano delle regolarità e tendenze

L’etica

Volontarietà e deliberazione delle azioni considerate dall’etica

Il fine delle azioni: il conseguimento di un bene

I beni sono molti: beni in se stessi e beni strumentali

Il bene supremo: la felicità T6

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Nell’ordinamento del corpus aristotelico, dopo le opere dedicate alle discipline teoretiche si trovano gli scritti consacrati alle scienze pratiche. Si tratta, come abbiamo sottolineato, di quelle discipline che hanno per oggetto realtà che possono essere anche diversamente da come sono, cioè in generale l’ambito soggetto alla scelta e alla decisione. È chiaro dunque che le scienze pratiche, cioè le scienze dell’azione (pràxis), hanno a che fare con l’uomo e con i suoi comportamenti. Aristotele è consapevole che la trattazione delle azioni non potrà pretendere l’esattezza propria delle discipline teoretiche (si rivolgono a realtà necessarie, ossia che non possono esser diverse da come sono); tuttavia egli è convinto che anche nell’ambito delle azioni umane siano presenti regolarità e tendenze che un’indagine scientifica è in grado di determinare con una certa precisione. La prima delle discipline pratiche è l’etica, ossia la scienza che si occupa del carattere (èthos) e del comportamento degli uomini. All’etica sono dedicati due scritti sicuramente autentici, l’Etica eudemia e l’Etica nicomachea. L’etica studia dunque le azioni degli uomini, in particolare le azioni volontarie e perciò responsabili; ciò che faccio perché costrettovi da altri non appartiene alla sfera della valutazione etica, mentre vi appartiene quello che faccio in stato di ubriachezza, perché ho comunque deciso di ubriacarmi. Inerenti all’etica sono inoltre le azioni che comportano una scelta e una deliberazione: non posso decidere sul corso del Sole, ma se andare al cinema o studiare questo capitolo, e solo questo secondo caso è suscettibile di valutazione morale. Le prime domande che l’etica si pone non possono che essere le seguenti: perché gli uomini agiscono? Qual è il fine delle loro azioni? La risposta è abbastanza semplice. Tutti infatti concordano nel ritenere che il fine di ogni azione è il conseguimento di un bene: potrà trattarsi di un bene solo apparente (ossia di qualcosa che appare tale a colui che compie l’azione), ma comunque sempre di un bene si tratta. Ora, l’osservazione empirica delle azioni degli uomini induce a ritenere che i beni siano molti, essendo molti i fini delle azioni. Ci saranno beni in se stessi e beni che vengono perseguiti come mezzi per l’ottenimento di altri beni.

10.1 Il bene supremo: la felicità Ma qual è il bene a cui tutto tende? In altri termini: qual è il bene supremo in vista del quale, in ultima analisi, tutte le azioni umane vengono fatte? Anche qui – secondo Aristotele – esiste un sostanziale consenso tra gli uomini: il bene supremo è costituito dalla felicità. Gli uomini agiscono allo scopo di essere felici, come l’esperienza mostra in modo eviden-

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Concezioni della felicità e stili di vita

Felicità e virtù: la realizzazione della propria natura

te (il richiamo alla validità del dato fenomenico costituisce, anche qui, una caratteristica del modo di procedere aristotelico). Il disaccordo – e con esso i problemi – inizia quando si tratta di determinare che cosa sia la felicità. Per alcuni la felicità consiste nel piacere (hedonè), per altri nell’onore; per altri ancora nella conoscenza e nella contemplazione (theorìa). In realtà queste tre opzioni esprimono tre differenti modi non solo di intendere la felicità, ma anche il senso stesso della vita. In effetti in questa contrapposizione è implicito il confronto tra forme di vita differenti: quella edonistica (dedita alla ricerca dei piaceri), quella politica (rivolta all’acquisizione dell’onore e del prestigio sociale) e infine quella teoretica o contemplativa (rivolta essenzialmente alla conoscenza). Tra questi stili di vita, Aristotele è convinto che ve ne sia uno che è migliore degli altri; per capire la sua scelta occorre ricostruire il percorso che lo porta a questa conclusione. Prima di tutto, bisogna osservare che per Aristotele la felicità consiste nella piena attuazione di una certa capacità; qualcuno, quindi, è felice quando realizza pienamente la propria natura e, in questo senso, è facile comprendere come la felicità sia collegata alla virtù, che coincide infatti con l’utilizzo pieno e perfetto di qualcosa. Dunque, la felicità per l’uomo sarà la condizione completa di sviluppo delle capacità che gli sono proprie.

LE CONCEZIONI DELLA FELICITÀ E LA SUPREMAZIA DELLA VITA CONTEMPLATIVA TUTTE LE AZIONI UMANE SONO DIRETTE ALLA FELICITÀ

la felicità può essere ricercata in modi diversi

nel piacere (hedonè)

nell’onore (timè)

nella contemplazione (theorìa)

vita edonistica

vita politica

vita contemplativa (teoretica)

vita migliore perché realizza pienamente la natura umana, che è razionale Felicità come pieno sviluppo della capacità intellettiva

Felicità come virtù contemplativa

Abbiamo visto che, in quanto vivente, l’uomo possiede un’anima, che presiede e organizza tutte le funzioni del suo essere. Abbiamo anche visto che l’anima umana possiede tre differenti funzioni: quella vegetativa (comune anche alle piante e agli animali), quella sensitiva e motrice (comune a tutti gli animali) e quella intellettiva (propria dei soli uomini). È dunque inevitabile concludere che la felicità per l’uomo dovrà corrispondere al pieno sviluppo della funzione più alta della sua anima, ossia quella intellettiva. Il senso del ragionamento di Aristotele sembra perciò il seguente: se la felicità è un’attività prolungata che consiste nell’esercizio pieno e perfetto delle funzioni dell’anima e se l’anima attiva differenti funzioni, la felicità suprema sarà quella consistente nell’esercizio

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Ragione pratica e ragione teoretica

Diversi aspetti dell’anima, diverse virtù: virtù etiche e virtù dianoetiche

Funzione sensitiva e giusto mezzo

La scelta tra eccesso e difetto

Il giusto mezzo dipende dalla situazione

Le singole virtù, giusto mezzo tra i due estremi

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della funzione più alta dell’anima. Dunque essa andrà identificata con la vita contemplativa o teoretica, ossia con l’esercizio pieno e perfetto dell’attività suprema dell’anima, che è la ragione. Quest’ultima però non presenta un solo aspetto, ma è pratica e teoretica, in corrispondenza della presenza di due elementi distinti: quello deliberativo, o della scelta (connesso alla dimensione pratica), e quello propriamente conoscitivo (legato alla dimensione teoretica). Ma su questo punto si farà ritorno tra breve. Come si può intuire già sulla base di quanto detto finora, la virtù per Aristotele non può essere qualcosa di unico. Infatti esistono differenti aspetti dell’anima, ossia differenti modalità del suo agire; di conseguenza non potranno che esserci differenti virtù, ciascuna legata a un’attività propria dell’anima. In generale, l’anima presenta due funzioni principali, quella razionale e quella sensitiva o appetitiva (in cui si esprimono le nostre tendenze e i nostri desideri); dunque dovranno esserci due tipi di virtù: le prime proprie della funzione razionale e intellettiva – chiamate per questo “virtù dianoetiche” (da diànoia che significa “pensiero razionale”) –, le seconde proprie invece della parte appetitiva – e definite “virtù etiche” (da èthos che significa “carattere”).

10.2 Le virtù etiche Aristotele spiega che le virtù etiche costituiscono la piena realizzazione di una funzione dell’anima appetitiva (o desiderativa), che non è propriamente razionale, ma che alla ragione può obbedire, seguendone i dettami. La virtù in generale rappresenta una disposizione stabile, dunque non occasionale, che Aristotele chiama “abito”. La virtù etica costituisce così una disposizione stabile capace di scegliere il giusto mezzo tra due estremi. Si tratta di una delle concezioni più discusse di Aristotele. Per comprenderla, occorre pensare al campo dell’esperienza umana come a un continuum caratterizzato dalla presenza del più e del meno (pensiamo alla temperatura). In questo continuo di affezioni e passioni nel quale è immersa l’anima umana (stiamo parlando della funzione appetitiva, cioè dei desideri che ci motivano all’azione), il soggetto deve essere in grado di cogliere il mezzo tra due estremi, l’uno segnato dall’eccesso, l’altro dalla mancanza. Partendo da questi presupposti, Aristotele arriva a considerare ogni virtù etica, ossia ogni virtù della parte appetitiva dell’anima, come un giusto mezzo tra due estremi, l’uno secondo l’eccesso l’altro secondo il difetto. Proviamo a chiarire il concetto di “giusto mezzo” riprendendo un esempio aristotelico. Se si deve stabilire il corretto regime alimentare di un uomo, bisogna aver chiara la sua condizione, la sua disposizione naturale e la situazione in cui si trova. Un atleta avrà bisogno di una maggiore quantità di alimenti, mentre colui che ha appena cominciato ad allenarsi si dovrà accontentare di una quantità minore: tale quantità sarà calcolata di volta in volta sulla base della sua situazione (è dunque soggetta a variazione), e non sarà definibile una volta per tutte, facendo una semplice media matematica tra una quantità eccessiva e una troppo ridotta. Il giusto mezzo dell’etica aristotelica non è dunque di natura aritmetica, ossia quantificabile una volta per tutte. Si tratta, invece, di un giusto mezzo situazionale, connesso cioè al soggetto che agisce e alle condizioni concrete della sua azione. Un comportamento che risulta vizioso in un caso (per esempio fuggire di fronte all’avanzata dei nemici) può rivelarsi saggio, e dunque virtuoso, in un altro caso (se assume i caratteri di una ritirata tattica utile a preparare la controffensiva). L’esame condotto da Aristotele delle diverse virtù etiche mira a mettere in luce come ciascuna di esse costituisca il giusto mezzo tra due estremi. Così il coraggio sarà il giusto mezzo tra la temerarietà (eccesso) e la codardia (difetto); la moderazione o temperanza sarà la medietà (situazionale e non aritmetica) tra l’incontinenza, ossia la ricerca sfrenata dei piaceri (eccesso), e l’insensibilità ai piaceri (difetto); la liberalità (o generosità) si collocherà in una posizione mediana tra la prodigalità (eccesso) e l’avarizia (difetto). Aristotele sostiene infatti che «nel dominio dei piaceri e dei dolori […] la via di mezzo è la moderazione».

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ESEMPI DI VIRTÙ COME GIUSTO MEZZO AMBITO

DIFETTO

VIRTÙ (giusto mezzo)

ECCESSO

PAURE E ARDIMENTI

codardia (difetto di audacia ed eccesso di paura)

coraggio

temerarietà (eccesso di audacia)

PIACERI E DOLORI

insensibilità (difetto nei piaceri)

moderazione (temperanza)

incontinenza (eccesso nei piaceri)

RICCHEZZE E AVERI

avarizia (eccesso nel prendere e difetto nel dare)

liberalità (generosità)

prodigalità (eccesso nel dare e difetto nel prendere)

ONORE E DISONORE

meschinità

magnanimità (fierezza)

buffoneria

IRA

indifferenza

mitezza

iracondia

ALIMENTAZIONE

anoressia

dieta equilibrata

ingordigia

Abitudine ed educazione, fondamentali per l’esercizio della virtù

Secondo Aristotele – e siamo a un altro aspetto importantissimo della sua etica – a determinare la capacità di scegliere il giusto mezzo concorrono in maniera decisiva l’abitudine e l’educazione. In altre parole, per assumere un abito morale virtuoso è molto importante essere educati fin da piccoli alla virtù; è fondamentale poi che ci si abitui ad assumere determinati comportamenti, anche se, almeno inizialmente, essi non risultano del tutto interiorizzati. In ogni caso, per Aristotele la conoscenza di una certa virtù non garantisce affatto la sua realizzazione: si può sapere che cosa è la liberalità (cioè generoso, ma senza eccessi), senza poi riuscire a comportarsi in modo liberale. FILOSOFI A CONFRONTO

Contro Socrate: conoscenza del bene e suo esercizio non coincidono

Imitazione e ruolo dei modelli

Non c’è dubbio che in quest’ultima posizione agisca una forte componente anti-socratica (e anti-intellettualistica); Aristotele, infiatti, respinge l’idea che la conoscenza del bene sia garanzia di un comportamento virtuoso; per lui è sempre possibile che il soggetto morale, pur conoscendo il bene, non lo persegua, a causa di una sorta di debolezza di carattere (esperienza, quest’ultima, che probabilmente ciascuno di noi nella vita avrà fatto).

Nel contesto generale dell’etica aristotelica gioca un ruolo molto importante il tema dell’imitazione. Se un comportamento virtuoso può essere assunto anche grazie all’abitudine (almeno inizialmente), diventa decisiva la presenza di modelli concreti di comportamento virtuoso, ossia di cittadini che possano essere imitati dai giovani. In questo senso, il primo luogo in cui viene esercitata una forma di educazione alla virtù è senz’altro la famiglia. Fondamentale diventa allora la funzione di modello del padre: tieni costantemente presente che per Aristotele il soggetto del discorso etico è un cittadino adulto, maschio e libero.

PER RIFLETTERE • Se tu fossi un allievo di Aristotele, ti convincerebbe l’idea che un corso teorico, in cui si spiegano i danni dovuti alle dipendenze (droga, abuso di alcol, fumo), sia sufficiente per convincere qualcuno a disintossicarsi?

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Funzione intellettiva e saggezza

Saggezza e scelta

Saggezza come capacità pratica

Fini dell’azione e valori sociali condivisi

10.3 Le virtù dianoetiche Il discorso fatto finora si riferisce sostanzialmente alle virtù etiche, ossia alle virtù della funzione appetitiva dell’anima. Abbiamo però visto che l’anima umana presenta anche una funzione dianoetica, ossia intellettiva: la virtù corrispondente a questa parte sarà in qualche modo superiore alla virtù etica, come la funzione intellettiva è superiore a quella appetitiva. In realtà, secondo Aristotele gli aspetti dell’anima intellettiva sono due, e due dovranno dunque essere le virtù a essi corrispondenti: la sapienza (sophìa) e la saggezza (phrònesis). Qui diremo soprattutto della seconda. La saggezza (chiamata anche “prudenza”) è la più importante delle virtù pratiche. Infatti, mentre la virtù dianoetica suprema, la sapienza, costituisce una sorta di ragione teoretica, in quanto si propone di conoscere le cose che non possono essere diversamente da come sono (cioè gli enti necessari), la saggezza costituisce la virtù conoscitiva relativa alle azioni e ai comportamenti umani, ossia alle cose che possono essere in un modo ma anche essere diversamente. In quanto virtù dianoetica, la saggezza è una forma di conoscenza ed ha per oggetto l’ambito della deliberazione, ossia quello della scelta. Ma in che cosa consiste precisamente questa suprema virtù pratica? La risposta di Aristotele è problematica. Egli sembra infatti considerare la saggezza come la disposizione permanente che consente a chi la possiede di individuare i mezzi necessari per conseguire fini già stabiliti. Si tratta insomma di una capacità pratica (perché rivolta all’ambito delle azioni) che, accompagnata a una solida e duratura virtù etica, permette all’individuo di raggiungere la felicità. Il problema risiede nel fatto che, almeno apparentemente, non è propriamente il soggetto a stabilire i fini da perseguire. Questi, infatti, sembrano dipendere da un suo atto di volontà, che a sua volta dipende in larghissima misura dall’insieme delle tendenze e dei valori condivisi dal corpo sociale: da ciò che il padre, la legge, i cittadini insigni, la tradizione della società cui apparteniamo ci propongono come giusto e condivisibile. La decisione relativa alla bontà di una certa azione non viene prodotta da un ragionamento pratico (il quale si limita invece a stabilire i mezzi adeguati per conseguire un certo fine), ma viene presa da un soggetto morale che tende a conformarsi a ciò che la società reputa essere conveniente o virtuoso.

VIRTÙ ETICHE E VIRTÙ DIANOETICHE ANIMA UMANA

funzione sensitiva (appetitiva)

grado di nobiltà delle virtù

funzione vegetativa

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funzione intellettiva

virtù etiche (del giusto mezzo)

saggezza (ragione pratica)

virtù dianoetiche

sapienza (ragione teoretica)

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FILOSOFI A CONFRONTO

Un’etica conservatrice e descrittiva?

Normalità e normatività

Muovendo da considerazioni simili a queste, molti studiosi hanno accusato l’etica aristotelica di essere sostanzialmente conservatrice e comunque fortemente descrittiva. Conservatrice, perché si limiterebbe ad accettare come validi i valori condivisi da una data comunità, senza sottoporli al vaglio critico della ragione; descrittiva, perché si propone di descrivere come effettivamente si comporta il cittadino (eventualmente quello virtuoso), senza però prescrivere norme in grado di modificare in meglio lo stato delle cose (come invece ha fatto Platone).

Si tratta di accuse che hanno una qualche legittimità. L’etica di Aristotele non manca infatti di una certa tendenza al naturalismo: egli considera come naturale, normale, immutabile e legittimo ciò che esiste per il solo fatto che esiste. Bisogna però osservare che nella sua idea di normalità (e dunque di naturalità) si rintraccia comunque il tentativo di presentare, tra le varie opzioni in campo, quella che a lui appare effettivamente la migliore e dunque la preferibile.

11. La politica FILOSOFI A CONFRONTO

. Anche nel campo della sua riflessione politica Aristotele dimostra di essere contemporaneL’uomo animale politico

La pòlis e la sua origine

La famiglia, primo nucleo associativo

Dipendenze e gerarchie, facoltà deliberativa e autorità

amente un erede e un critico di Platone. In ogni caso, il suo pensiero non sarebbe davvero comprensibile senza quello del grande maestro. Da Platone Aristotele riprende l’idea secondo la quale l’uomo è naturalmente portato ad associarsi. La vita politica, ossia la vita comunitaria, non è dunque il frutto di un contratto (magari stipulato per paura di venire sopraffatti dagli altri), ma costituisce, in certa misura, la condizione naturale dell’uomo: l’uomo – come recita una celebre definizione di Aristotele – è dunque un animale politico. Chi non vive con gli altri uomini – afferma perentoriamente Aristotele – è simile a un dio o a una belva, perché la condizione normale e naturale degli uomini è quella di vivere in forma associata.

La forma di associazione politica che Aristotele ha in mente è quella costituita dalla pòlis, ossia dalla città-stato diffusa in Grecia da ormai qualche secolo. Tuttavia, la pòlis rappresenta la forma di associazione umana più complessa, ma non la prima in ordine di tempo; la città, infatti, rappresenta l’insieme di più villaggi e questi a loro volta nascono dal raggruppamento di più famiglie. Ciò significa che la famiglia costituisce il nucleo primitivo e fondamentale dell’associazione umana. La famiglia è fondata sul naturale istinto di un uomo e una donna a procreare, garantendo così la prosecuzione della specie. Essa è dunque composta, nella sua forma basilare, da un maschio adulto (che è capofamiglia), da una donna, dai loro figli (i maschi destinati a diventare a loro volta capi-famiglia) e da un numero variabile di schiavi. All’interno di questa struttura si vengono a instaurare relazioni di dipendenza naturale, che sono tuttavia diverse a seconda dei casi: l’uomo esercita il comando sulla donna, che è anch’essa libera e in possesso della facoltà deliberativa, ma che manca di autorità; il padre esercita la potestà sui figli, i quali, se maschi, sono destinati a succedergli; infine, il padrone comanda sullo schiavo, che è privo della facoltà deliberativa e che dunque ha interesse a essere comandato da chi la possiede. Aristotele ritiene infatti che gli schiavi siano dotati di ragione solo nella misura in cui questa serve loro per comprendere i comandi del padrone. Si deve osservare che Aristotele sembra riconoscere alla schiavitù una sorta di naturalità (in realtà questo vale sostanzialmente per i barbari), anche se poi ammette che in alcuni casi gli schiavi sono tali non per natura ma per effetto di episodi determinati (per esempio i prigionieri di guerra).

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Famiglia e economia

È molto importante tenere presente che per Aristotele la famiglia non è solo un nucleo di carattere affettivo, ma essa esercita anche una funzione economica fondamentale. L’òikos, ossia la casa comprensiva di tutti i suoi membri (schiavi inclusi) e dei beni materiali (terreni, attrezzi e così via), costituisce agli occhi di Aristotele la cellula socio-economica fondamentale della città-stato (esiste anche una disciplina che la studia: l’oikonomìa, appunto). FILOSOFI A CONFRONTO

In questo senso egli non manca di polemizzare anche aspramente con Platone, il quale, come ricorderai, aveva sostenuto l’esigenza di sopprimere la famiglia dalla città perfetta (almeno per le classi dei governanti e dei guerrieri); Platone riteneva infatti che questa fosse inammissibile sia dal punto di vista delle relazioni affettive (mogli e figli dovevano essere in comune) sia da quello economico (la proprietà privata era eliminata). Aristotele, al contrario, ritiene dannoso che tutto sia in comune, perché, se così fosse, nessuno se ne prenderebbe effettivamente cura.

Dalla famiglia alla pòlis: partecipazione politica dei cittadini liberi T5

Schiavi, donne e lavoratori non partecipano al governo

Se la famiglia costituisce la prima forma di aggregazione, lo Stato rappresenta certamente l’associazione umana compiuta e perfetta. La pòlis è per Aristotele una comunità composta da cittadini liberi, i quali esercitano a turno il comando. Tutti sono dunque impegnati nell’attività politica: la partecipazione è diretta e il potere non viene esercitato attraverso dei rappresentanti democraticamente eletti, ma in forma diretta, ossia dagli stessi cittadini. Bisogna tuttavia precisare che, secondo Aristotele, per poter svolgere attivamente le loro funzioni politiche, i cittadini devono disporre di un minimo di proprietà privata e soprattutto di schiavi in grado di lavorare al loro posto. L’intera riflessione politica di Aristotele sembra rivolgersi a cittadini mediamente benestanti, che pertanto non si propongano rivendicazioni economiche, non siano invidiosi della ricchezza altrui e che aderiscano a un’ideologia sostanzialmente condivisa. Questi cittadini possidenti e capi-famiglia sono in grado, a turno, di governare i loro simili e di venirne governati. Del tutto esclusi dall’esercizio del potere sono invece gli schiavi e le donne, perché non dotati di un’autonoma razionalità politica, così come i lavoratori manuali (artigiani, operai, commercianti, contadini non proprietari). Essi sono necessari alla città per soddisfare i suoi bisogni materiali, ma non dovrebbero possedere i diritti politici di cittadinanza perché, secondo Aristotele, i lavori subalterni che essi svolgono non permettono loro di disporre di quel “tempo libero” necessario ad acquisire e a esercitare le virtù politiche (che si riconducono alla saggezza, phrònesis). Non sono cioè assimilabili, per carenza di qualità morale e di accettazione dei valori condivisi, al ceto dei veri “cittadini”, dotati di prestigio sociale e della cultura indispensabile per governare.

11.1 L’esercizio del potere: le forme costituzionali FILOSOFI A CONFRONTO

Il criterio guida: il numero di chi comanda

Monarchia, aristocrazia, politèia

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Al centro della riflessione politica di Aristotele si colloca, come già era accaduto in Platone, la questione dell’esercizio del potere, e in particolare il problema di chi debba comandare. Riprendendo e approfondendo criticamente posizioni platoniche, egli abbandona decisamente l’idea che i veri governanti siano i filosofi (ai quali può spettare il compito dell’analisi critica della politica, ma non il diretto esercizio del potere, perché essi sono dediti alla virtù teoretica e non a quella pratico-politica).

Egli sviluppa invece una teoria delle forme costituzionali destinata a diventare classica, individuando un criterio fondamentale che gli serve per distinguere le differenti forme di governo: questo criterio è rappresentato dal numero di chi comanda. Se a governare è uno solo, avremo una monarchia; se a governare sono pochi e i migliori saremo di fronte a un regime di aristocrazia; se, infine, governeranno in molti, ossia la mag-

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Le forme degenerate: tirannide, oligarchia e democrazia

gioranza dei cittadini, avremo una politèia, cioè una forma di costituzione mista nella quale sono presenti elementi aristocratici ed elementi democratici (che potremmo chiamare “governo ordinato della pòlis”). Queste tre forme di governo – monarchia, aristocrazia e politèia – si realizzano quando chi governa lo fa nel rispetto delle leggi e soprattutto nell’interesse della comunità (e non nel proprio). Viceversa, quando chi detiene il potere lo esercita a proprio vantaggio, si originano forme costituzionali degenerate: la tirannide (se governa uno solo nel proprio esclusivo interesse), l’oligarchia (se i pochi che hanno il potere lo gestiscono nel loro interesse) e la democrazia (se la maggioranza al potere comanda al solo scopo di avvantaggiare se stessa: si noti che il termine è utilizzato in un’accezione negativa). In tutti e tre i casi di forme degenerate, dunque, chi esercita il potere non ne fa buon uso, perché non opera per l’utilità comune. È chiaro dunque che lo schema delle costituzioni immaginato da Aristotele presenta sei forme disposte in coppie di due, dove la prima forma di ogni coppia è sana, la seconda degenerata: monarchia-tirannide, aristocrazia-oligarchia, politèia-democrazia.

LE COSTITUZIONI IN ARISTOTELE COMANDO

FORMA SANA

FORMA DEGENERATA

di uno

monarchia

tirannide

di pochi

aristocrazia

oligarchia

di molti

politèia

democrazia

La superiorità della politèia

Pur riconoscendo che, nel caso esistesse un singolo uomo straordinariamente dotato, sarebbe giusto affidargli il potere monarchico, Aristotele sembra decisamente orientato a considerare la politèia (ossia la costituzione mista che governa la pòlis senza gli eccessi della democrazia radicale) come la forma migliore di costituzione. Essa consente meglio delle altre forme costituzionali un costante ricambio tra governati e governanti e per questo è la più adatta alla natura associativa e collaborativa dell’uomo. Optando per questo tipo di costituzione, Aristotele dimostra l’intento generale che anima la sua riflessione politica: quello di prendere le distanze tanto dal radicalismo progettuale della filosofia politica di Platone, quanto dagli eccessi egualitaristi di certe forme estreme di democrazia. PER SINTETIZZARE • Secondo Aristotele, quali sono le forme associative umane? • Secondo Aristotele, qual è la vera ragione della tendenza tipica degli esseri umani alla vita associata?

12. La retorica e la poetica Le discipline poietiche

Nella classificazione delle conoscenze, dopo le discipline teoretiche (filosofia seconda, matematica e filosofia prima) e quelle pratiche (etica e politica) trovano posto le discipline poietiche, cioè produttive. Si tratta delle tecniche, ossia di quei saperi che hanno per fine non l’azione, ma la produzione di qualcosa (che deve essere esterno rispetto all’azione di

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produrlo). Due sono le opere dedicate alle discipline poietiche: la Retorica (in tre libri) e la Poetica (di cui è conservato solo il I libro).

La retorica: persuasione e argomentazione

Gli strumenti della retorica: etica e dialettica

Le applicazioni

Poesia e imitazione

12.1 L’arte della persuasione La retorica si propone di produrre discorsi persuasivi e, per questa ragione, risulta in qualche modo collegata alla politica (che di questi discorsi si serve). La persuasione alla quale la retorica tende si attua ovviamente attraverso la capacità di suscitare emozioni in chi ascolta; ma in essa si rintraccia anche la componente argomentativa, nel senso che la persuasione si attua anche grazie al ricorso ad argomentazioni (in questo senso essa presenta molti punti di contatto con la dialettica). L’effetto di persuadere viene prodotto secondo Aristotele sostanzialmente grazie a tre mezzi: le qualità morali dell’oratore, i sentimenti di coloro che ascoltano e appunto la forza argomentativa del discorso. Per i primi due aspetti, ossia per le qualità morali dell’oratore e i sentimenti dell’uditorio, la retorica dipende largamente dall’etica, che infatti studia i caratteri e le passioni (l’oratore deve conoscerli bene per poter essere convincente nei propri discorsi). Per quanto concerne, invece, il terzo aspetto, vale a dire la natura dell’argomentazione, la retorica si serve, esattamente come la dialettica, di procedure sillogistiche (ossia deduttive) e dell’induzione. Tuttavia, dal momento che il destinatario di un’orazione è meno preparato di quello al quale è rivolta un’argomentazione dialettica e che egli non interviene ma si limita ad ascoltare, le procedure retoriche devono risultare più semplici e in qualche modo abbreviate. Il campo di applicazione della retorica è piuttosto vasto e comprende i discorsi politici, quelli giudiziari e i biasimi o le lodi pubbliche. Come detto, il sapere retorico esercita un’importante funzione trasversale, sia in quanto dipende da altri saperi, sia perché da altri saperi viene utilizzato. 12.2 La poesia tragica Veniamo ora all’altra opera di argomento poietico. La Poetica è un’opera destinata a influenzare in modo duraturo per molti secoli la riflessione occidentale: vediamo in estrema sintesi quali sono i punti principali toccati in questo scritto.

L’Attore re, pittura murale da Ercolano, 30-40 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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FILOSOFI A CONFRONTO

La poetica è l’arte di produrre poesia e Aristotele riprende da Platone la convinzione che la poesia presenti una componente mimetica, sia cioè fondamentalmente imitazione (mìmesis).

La tragedia, forma perfetta

In realtà, la componente mimetica appartiene in modo essenziale all’essere umano; Aristotele osserva infatti che fin da fanciulli gli uomini sono portati a imitare (i bambini imitano gli atteggiamenti degli adulti) e che ricavano piacere da questo comportamento (che è, oltretutto, fonte per loro di conoscenza). Secondo Aristotele tra le forme di poesia mimetica la più perfetta e compiuta è la tragedia (senza dubbio la manifestazione sociale e artistica più significativa nell’Atene del V e IV secolo a.C.). FILOSOFI A CONFRONTO

Pur accettando da Platone la tesi relativa alla natura mimetica della poesia e della produzione artistica in generale, Aristotele non si sente di condividere la clamorosa condanna inflitta alla poesia dal suo maestro; al contrario, come vedremo, il giudizio aristotelico sulla poesia sembra sostanzialmente positivo.

Un racconto in forma drammatica

La poesia, come conoscenza, sta tra filosofia e storia

L’universo del possibile è l’ambito conoscitivo della poesia

Per comprendere la natura e la funzione della poesia è sufficiente prendere in considerazione la poesia tragica che, come detto, rappresenta la forma più compiuta di poesia. Che cos’è dunque una tragedia? Prima di tutto essa è un racconto (my’thos), ossia un intreccio di eventi; i personaggi che vi appaiono compiono azioni serie, e per questo si distinguono dai personaggi della commedia (alla quale era forse dedicato il II libro della Poetica, a noi non pervenuto), le cui azioni sono di poco conto e ridicole. La presentazione dei fatti e dei personaggi è ovviamente drammatica, ossia diretta (i personaggi prendono direttamente la parola), e non narrata come nell’epica. Ma in che cosa consiste l’elemento conoscitivo della poesia in generale e della tragedia in particolare? La risposta fornita da Aristotele a questo interrogativo è la seguente: la poesia si colloca, dal punto di vista del valore conoscitivo, a metà strada tra la filosofia e la ricerca storica (historìa). La filosofia e la ricerca scientifica in generale cercano di conoscere l’universale, la storia s’interessa ai fatti singoli, ossia a casi particolari (gli eventi che sono effettivamente accaduti), mentre la poesia ha per oggetto fatti singoli considerati nella loro portata universale. In altre parole essa conosce non ciò che è effettivamente accaduto, bensì ciò che potrebbe accadere: sequenze di eventi possibili, e le reazioni di fronte a essi, che in ogni tempo sono proprie della natura umana. Come può reagire un uomo di fronte a una disgrazia, o a un’offesa, o a un destino imprevisto e crudele? Questo è quanto la tragedia ci insegna, ed è quindi utile a comprendere i segreti della natura umana. In questo senso la poesia e la tragedia possiedono una portata più universale rispetto alla conoscenza storica. FILOSOFI A CONFRONTO

Ruolo positivo della poesia sulle emozioni

La funzione conoscitiva non è però la sola esercitata dalla poesia. Secondo Aristotele, infatti, la poesia esercita anche un importante ruolo nel campo delle emozioni. Si tratta però di un ruolo tutt’altro che negativo, come invece credeva Platone; per quest’ultimo, la poesia tragica andava bandita dalla città ideale anche in ragione del fatto che essa contribuiva a rafforzare le istanze irrazionali dell’anima (lo spettatore finiva con l’identificarsi con i personaggi tragici e pativa insieme a loro). Al contrario, secondo Aristotele, proprio a questo livello si situa un elemento positivo della poesia tragica. È vero, infatti, che essa suscita nello spettatore passioni molto forti, come la pietà e il terrore, ma proprio nell’atto di suscitarle, essa mette in atto una sorta di processo di purificazione.

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Catarsi e formazione morale del cittadino

L’unità dell’opera

Questa funzione catartica (kàtharsis significa “purificazione”) dipende dal fatto che lo spettatore, assistendo alle sventure dei vari personaggi, prova per loro pietà (perché le considera ingiuste) e terrore (temendo di subirle lui stesso), ma il tutto depurato, per così dire, dall’aspetto egoistico: egli vede cioè che cosa può capitare a un essere umano, da quali terribili passioni può essere dominato, senza esserne lui stesso coinvolto personalmente. Comprendere dall’esterno la violenza delle emozioni può aiutare a controllarle meglio in noi stessi, e dunque la tragedia è utile per la stessa formazione morale del cittadino. L’ultimo importante aspetto della Poetica di Aristotele che merita di essere segnalato, soprattutto per l’enorme influenza esercitata sulla tradizione drammatica posteriore (fino al Rinascimento), si riferisce al tema dell’unità dell’opera. Un testo drammatico, per risultare effettivamente unitario e organico, deve raccontare un’unica vicenda (principio dell’unità di azione), e deve farlo in modo che tutte le parti siano perfettamente inserite nel tutto. Unica deve essere l’azione, così come unico il luogo e il tempo e a questi criteri si atterranno tutte le rappresentazioni fino al Rinascimento (ultimo esempio della straordinaria influenza esercitata da questo autore).

PER SINTETIZZARE • In che modo Aristotele prende le distanze da Platone riguardo al ruolo della poesia nella società?

13. La scuola di Aristotele: il Peripato FILOSOFI A CONFRONTO

Un liceo enciclopedico

Teofrasto: l’allievo e la tradizione dossografica

L’impronta scientifica del liceo e la rinascita dell’aristotelismo

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Aristotele, verso il 335 a.C., fonda una propria scuola ad Atene, il Liceo o Peripato, che ha caratteristiche molto diverse dall’Accademia platonica. In quest’ultima, l’insegnamento centrale è dedicato alla dialettica e alle scienze matematiche, e gli interessi teorici non sono mai separati dalle prospettive politiche di riforma della società. Nella scuola aristotelica, invece, l’insegnamento riguarda tutte le parti dell’enciclopedia del sapere tracciata dal maestro, con particolare attenzione per le discipline fisiche e biologiche, oltre che, s’intende, per la filosofia prima e la logica.

Aristotele detiene una posizione indiscussa di caposcuola, ma affida le parti specialistiche dell’insegnamento ad allievi in esse preparati. La politica forma in questo quadro uno dei temi di studio teorico, ma è invece abbandonato ogni intento d’intervento diretto nelle vicende della città (tra l’altro sia il caposcuola sia i suoi principali allievi sono stranieri ad Atene, e non possono quindi godere di diritti politici). Alla guida della scuola viene nominato alla morte di Aristotele il più fedele e importante dei suoi allievi: Teofrasto di Asso (370-286 a.C. ca.). A lui si deve la composizione dei diciotto libri delle Opinioni dei fisici, una raccolta delle dottrine fisiche dei pensatori presocratici, dalla quale dipende una parte consistente della tradizione dossografica antica. Di Teofrasto sappiamo che ha spiccati interessi naturalistici: scrive infatti di botanica, biologia, meteorologia, fisica e anche di cosmologia e filosofia prima (compone per esempio un’opera intitolata Metafisica, certamente posteriore, nella quale affronta problemi fisici, cosmologici e metafisici). Celebre è anche un suo scritto di argomento morale, I caratteri, nel quale fornisce una descrizione dei principali tipi umani. Nei due secoli successivi il Peripato non abbandona l’impronta scientifica che gli ha dato Teofrasto, ma una piena rinascita dell’aristotelismo in tutti i suoi aspetti si ha solo nel I-II secolo d.C. (anche a seguito della grande edizione di Andronico di Rodi) con personaggi co-

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me Alessandro di Afrodisia, che inaugura – ma sarebbe forse più corretto dire che sviluppa in modo decisivo – la stagione dei grandi commentatori delle opere del corpus aristotelico.

14. Un bilancio Aristotele, il Filosofo

Ragioni della sua fortuna: vastità di interessi, capacità persuasiva, apparente obiettività

Morte e rinascita

Aristotele ha goduto nella tradizione occidentale di un’immensa autorità. Dante Alighieri lo chiamava «il maestro di color che sanno», e nel Medioevo ci si riferiva a lui semplicemente come al “Filosofo”, quasi non ce ne fossero stati altri degni di portare questo nome. Non è difficile comprendere le ragioni di questo successo di Aristotele nella posterità. In primo luogo, esse risiedono nella sua capacità di “controllare” tutti i campi del sapere, dalla fisica alla teologia, dall’etica alla poetica, e di offrire per ognuno di essi spiegazioni argomentate, ricche di analisi determinate e di prospettive d’insieme. In secondo luogo, lo stile filosofico di Aristotele è sempre improntato a una sobria ragionevolezza, che lo rende (almeno in apparenza) equilibrato, oggettivo, convincente. In terzo luogo, Aristotele mostra di riferirsi, in ogni campo, alla “natura” delle cose, cioè alla struttura invariante dei fenomeni e dei processi analizzati. In questo modo, egli dà l’impressione che i suoi risultati siano sottratti tanto ai mutamenti del tempo e della storia, quanto all’arbitrarietà dei punti di vista soggettivi. Il pensiero aristotelico è potuto quindi sembrare perennemente valido, perché non muta la natura del mondo che egli ha descritto. Noi oggi sappiamo, certamente, che anche la filosofia di Aristotele è il frutto di una determinata epoca storica, di specifici punti di vista che non possono essere considerati incontrovertibili. FILOSOFI A CONFRONTO

E, per uscire dal Medioevo, i filosofi del Rinascimento europeo hanno dovuto operare una vera e propria “rivoluzione” antiaristotelica. Tuttavia ancora oggi molti filosofi (soprattutto nel campo dell’etica e della politica) si considerano “neoaristotelici”, cioè continuano a condividere le idee fondamentali di Aristotele. E la sua logica è certamente una conquista altrettanto duratura quanto, per esempio, la geometria di Euclide.

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Tesi a confronto

Aristotele: la natura ha un fine? L’idea di finalismo (o teleologia, che deriva dal greco tèlos, “fine”) è senza dubbio al centro della filosofia della natura aristotelica. Finalismo significa concepire e spiegare tutti i processi della natura vivente (piante e animali) come diretti a uno scopo e non, al contrario, come dipendenti dal caso o dalla necessità. Il punto di vista finalistico rappresenta così un potente strumento di spiegazione dei processi naturali, e dunque delle ragioni e degli scopi che permettono di pensarli come un insieme di fenomeni dotati di senso e di ordine. Ma fin dove può spingersi la spiegazione finalistica? Essa implica anche un finalismo cosmico − ossia una spiegazione che coinvolge in un unico processo l’intera natura – e un finalismo teologico – in base a cui la natura verrebbe concepita, sulla scorta delle celebri pagine del dodicesimo libro della Metafisica dedicate al motore immobile, in vista della divinità −, o è semplicemente un tentativo di rintracciare un principio regolativo valido per la ricerca scientifica? Nel crocevia tracciato da questo dilemma le posizioni degli interpreti si dividono: alcuni, infatti, hanno visto nel finalismo aristotelico il principale avversario della scienza moderna; altri, invece, ribadendone il ruolo indispensabile nel progresso della conoscenza, hanno con forza negato che il finalismo dello stagirita approdi a una visione onnicomprensiva e metafisica della natura.

TESI 1 - ERNST MAYR da Un lungo ragionamento

La scienza moderna rifiuta la visione teleologica della natura Fin dai tempi dei primi filosofi, si è creduto che l’universo debba avere uno scopo: non aveva forse detto Aristotele che «la natura non fa niente invano»? Quell’affermazione veniva fatta propria dai pensatori di ispirazione cristiana, per i quali tutto risponderebbe a un disegno divino. Ogni cambiamento che avviene nel mondo – ripetevano – è dovuto a “cause finali” che spingono quel particolare oggetto o fenomeno verso una meta ultima. Da Aristotele in poi, lo sviluppo di un organismo, dall’uovo fecondato fino allo stadio adulto, è stato spesso citato come illustrazione di questo tendere a un fine. E “teleologi” o “finalisti” sono stati appunto chiamati coloro che aderivano a questa concezione. […] l’idea che vi sia «una finalità in tutto ciò che è e che accade in natura» (Aristotele) è stata condivisa dai più grandi filosofi. Questo concetto di teleologia cosmica, particolarmente quando si è combinato con il dogma cristiano, ha finito con il diventare la concezione dominante. È proprio questa teleologia che la scienza moderna rifiuta con decisione. Non esiste né è mai esistito alcun programma in base al quale si sarebbero verificate l’evoluzione cosmica o l’evoluzione biologica. A spiegare l’apparente progresso nell’evoluzione biologica, dai procarioti di due o tre miliardi di anni fa agli organismi superiori, basta infatti la considerazione delle pressioni selettive generate dalla competizione tra individui e tra specie e dalla colonizzazione di nuove zone adattative.

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TESI 2 - JONATHAN BARNES da Aristotele

Il finalismo di Aristotele è un principio regolativo per la ricerca scientifica Nel capitolo introduttivo delle Parti degli animali, Aristotele espone la sua cosiddetta concezione teleologica della natura. La spiegazione in termini di cause finali è una spiegazione in funzione del “bene”, perché se le anatre hanno zampe palmate al fine di nuotare, allora è bene – cioè, bene per le anatre – avere zampe palmate. L’importanza preminente delle cause finali deriva dal loro identificarsi con “la spiegazione della cosa”: poter nuotare è parte dell’essenza dell’anatra, e una spiegazione appropriata di ciò che significa essere un’anatra dovrà tener conto della sua capacità di nuotare. Le cause finali non sono giustapposte alla natura per considerazioni teoriche; sono osservate in natura: “possiamo osservare più di un tipo di causa”. Ci sono parecchi passaggi in cui Aristotele parla della natura come dell’artefice intelligente del mondo naturale. «Come un buon economo, la natura non scarta nulla di cui si possa fare buon uso» . Passaggi del genere non devono essere sottovalutati. Ma la teleologia di Aristotele non può ridursi all’idea della natura quale Artefice; perché nelle molte minuziose spiegazioni teleologiche che si possono trovare nei suoi scritti biologici raramente egli fa intervenire i piani della natura o gli scopi di un Grande Architetto. «La natura non fa nulla invano» è un principio regolativo per la ricerca scientifica. Aristotele sa che certi aspetti della natura non hanno una funzione. Ma riconosce che la comprensione delle funzioni è indispensabile per la conoscenza della natura. I suoi slogan sull’accortezza della natura non sono residui di superstizioni infantili, ma un memento sul compito fondamentale dello scienziato naturale.

IL COMMENTO Nel primo testo lo scienziato Ernst Mayr attacca senza appello quella lunga tradizione di matrice aristotelica che, basandosi sulla concezione di un primo motore come principio supremo di ordine del mondo e come causa finale universale, ha portato avanti, in un intreccio difficilmente districabile tra ricerca filosoficoscientifica e religione, il concetto di teleologia cosmica. Mayr intende in questo senso prendere le difese della scienza moderna, che non accetta l’idea di natura come interamente organizzata in funzione di scopi che dipendano da cause, da finalità o da decisioni che vadano oltre i confini della natura stessa. Di contro, nel secondo testo il filosofo Jonathan Barnes nega che si debba attribuire ad Aristotele una simile concezione del finalismo. Il ricorso alla spiegazione finalistica vale cioè per Aristotele solo all’interno del singolo organismo e della singola specie vivente: dire che “la natura è organizzata secondo un fine” significa soltanto affermare che ogni organismo vivente è spiegabile, nella sua struttura e nei processi che lo riguardano, dal punto di vista dell’insieme delle funzioni che deve svolgere data la sua particolare forma di vita.

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SOMMARIO 1

IL PRIMO PROFESSORE

Aristotele, allievo di Platone, elabora una nuova concezione della filosofia, che assume i contorni di un imponente edificio teorico caratterizzato dalla sistematicità dell’ordine dei saperi. Questi saperi sono coltivati nella scuola da lui fondata, il Liceo o Peripato, che ha trasmesso alla posterità alcune sue opere, probabilmente il frutto delle lezioni che Aristotele teneva per i suoi allievi. 2

LE RAGIONI DI ARISTOTELE

Rispetto a Platone, Aristotele riavvicina la filosofia all’esperienza comune e affida alle scienze il compito di spiegare il mondo, che ha in sé un ordine. Studiare l’ordine del mondo significa studiare le cause dei fenomeni per comprenderne la natura: questo è il compito della filosofia, che con Aristotele perde la pretesa platonica di governare direttamente la vita degli uomini. 3

L’EDIFICIO DEL SAPERE

Aristotele sostiene l’impossibilità di conseguire un sapere assoluto. Ciascun ambito della realtà deve essere indagato da una scienza appropriata, che conserva una certa autonomia dal resto dell’edificio teorico. Le scienze si dividono in discipline teoretiche (fisica, matematica e metafisica), pratiche (etica e politica) e poietiche (o produttive, ossia le tecniche e le arti). 4

LA LOGICA

La logica, strumento delle scienze, concerne anzitutto il linguaggio: Aristotele analizza le proposizioni, dividendole in dichiarative (sottomesse alla logica del vero/falso) e non (i comandi o le preghiere, per esempio); indaga i rapporti di opposizione tra le proposizioni in base ai criteri di quantità e qualità, giungendo a definire la nozione di contrario e contraddittorio. Parte fondamentale della logica è la teoria del sillogismo (concernente l’andamento deduttivo dei discorsi e della dimostrazione scientifica) e il ragionamento che conduce a stabilire i principi delle scienze. Questi ultimi non sono dimostrabili per deduzione, ma sono provati per via indiretta (come nel caso del principio di non-contraddizione o del terzo escluso) o conosciuti per induzione (mediante il ricorso all’esperienza e all’operazione dell’intelletto, che coglie l’aspetto universale dell’esperienza stessa). 5

LE CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA

Attraverso l’analisi del linguaggio e dei modi in cui il predicato si relaziona al soggetto in una proposizione data, Aristotele individua prima quattro predicabili (definizione, genere, proprietà e accidente), concezione che sviluppa poi nella più nota dottrina delle categorie. Le categorie sono dieci (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, giacere, avere, agire e patire); tra queste stabilisce la priorità della sostanza, che è alla base di ogni rapporto di predicazione. Sostanza è infatti per Aristotele principalmente una realtà singola, determinata, che funge nel linguaggio da soggetto o sostrato di ogni predicazione (sostanza prima). Esistono poi delle sostanze seconde (specie e generi), che hanno un grado di realtà inferiore, e che possono fungere da predicati della sostanza prima. 6

IL DIVENIRE DEL MONDO: PRINCIPI E CAUSE

Per Aristotele il mutamento (o divenire) è una caratteristica propria del mondo e come tale deve essere studiata scientificamente (in opposizione a Platone). I principi del mutamento, propri degli enti naturali, sono la privazione, la forma e il sostrato, ossia ciò che permane nel passaggio dalla privazione alla forma: il mutamento si spiega dunque come il passaggio dalla potenza all’atto di una materia che ha

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per natura una certa tendenza a divenire qualcosa di determinato e non qualcos’altro (i mattoni possono acquisire la forma di una casa, ma non quella di una nave). Infine, in ogni mutamento si possono rintracciare quattro cause: materiale, formale, motrice o efficiente e finale. Emerge qui il finalismo aristotelico: la natura, composta di enti naturali sottoposti all’incessante divenire, è orientata verso un fine; l’operare della natura, dunque, è simile a quello dell’arte umana, con la differenza che il suo fine o scopo non è immediatamente afferrabile. 7

LA STRUTTURA DELL’UNIVERSO: COSMOLOGIA E TEOLOGIA

Studiando la teoria del movimento, Aristotele passa dalla fisica alla cosmologia e identifica due tipi di movimento, rettilineo e circolare, che spettano rispettivamente al mondo terrestre (o sublunare) e a quello astrale (o celeste): il primo, composto da aria, acqua terra e fuoco, è soggetto a processi di generazione e corruzione, mentre quello astrale, composto da etere (il quinto elemento), è incorruttibile. L’universo è pieno (non esiste il vuoto), finito, stratificato ed eterno. Per spiegare il movimento dei cieli Aristotele elabora la teoria del primo motore immobile: un ente divino, immateriale, sempre in atto, che muove i cieli come oggetto d’amore senza essere mosso: la sua attività è il pensiero e viene definito «pensiero di pensiero». 8

I VIVENTI E L’ANIMA: BIOLOGIA E PSICOLOGIA

Nella biologia si esprime appieno il finalismo aristotelico, sia nella priorità attribuita alla funzione rispetto agli organi, sia nel postulare la sopravvivenza di ogni singola specie (considerata eterna) come fine. L’anima, forma di ogni essere vivente, è oggetto di un’indagine che ne mette in luce le differenti funzioni, dalle facoltà inferiori, comuni alle piante, fino all’analisi della percezione e dell’intelletto (nous), proprio dell’essere umano. 9

LA FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA

La filosofia prima (o metafisica o sapienza) è definita come un sapere universale, perché non studia un aspetto dell’essere (come le singole scienze), ma l’essere nella sua piena generalità (l’«essere in quanto essere»). Secondo Aristotele, però, la filosofia prima studia anche gli enti superiori, più nobili (dunque i motori dei cieli, e specialmente il primo motore immobile, il principio divino). Tornando sul concetto di sostanza (già elaborato nelle Categorie), egli afferma che essa è il senso primario dell’essere, e che tra tutti i candidati possibili essa coincide in modo perfetto con la nozione di forma: la forma è infatti la causa dell’essere, cioè dell’ente singolare e determinato (il sinolo). Classificando poi le sostanze, egli afferma che il grado maggiore di nobiltà è posseduto dai motori immobili (divini, eterni, incorruttibili); la filosofia prima diviene così una scienza teologica, concernente sostanze non fisiche ma “metafisiche“. 10

L’ETICA

L’etica è quella scienza pratica che studia le azioni umane volontarie e frutto di deliberazione; esse sono volte a raggiungere il bene supremo per l’uomo, la felicità. Le virtù etiche, proprie della funzione sensitiva (o appetitiva) dell’anima umana, si ottengono quando i nostri comportamenti sono costantemente equilibrati, tendono cioè al giusto mezzo tra gli eccessi; importanti, nell’acquisizione di queste virtù, sono l’abitudine e l’educazione. Le virtù dianoetiche, che coinvolgono invece la funzione intellettiva dell’anima umana, sono la saggezza (orientata dalla ragione pratica, cioè quella che guida l’azione) e la sapienza (orientata dalla ragione teoretica o contemplativa, che presiede all’attività conoscitiva, propria del filosofo). 11

LA POLITICA

L’uomo è un animale politico, vive cioè per natura in comunità, della quale la pòlis è la forma compiuta, fondata sul nucleo familiare, allargato agli schiavi, e gerarchicamente ordinato sotto il comando del maschio adulto, libero e possidente. Contro Platone, Aristotele difende quindi la necessità di salvaguarda-

5. Aristotele

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re l’unità familiare, che è luogo di relazioni affettive e primo soggetto dell’economia (si valorizza infatti la nozione di proprietà privata). Egli individua poi tre forme costituzionali possibili, cui corrispondono altrettante forme degenerate, che derivano dall’esercizio del potere non orientato al bene comune (monarchia-tirannide; aristocrazia-oligarchia; politèia-democrazia). Tra queste, Aristotele opta per la politèia che permette il ricambio al governo e potrebbe tutelare maggiormente l’interesse collettivo. 12

LA RETORICA E LA POETICA

Le dottrine poietiche, o produttive, sono quelle in cui l’azione è rivolta alla produzione di qualcosa di esterno rispetto al soggetto: la retorica, che compone discorsi persuasivi (ed è perciò legata alla politica) e la poesia, la cui forma più alta è la tragedia; secondo Aristotele (a differenza di Platone) quest’ultima ha una funzione moralmente positiva, perché permette allo spettatore di conoscere le reazioni umane nelle possibili situazioni drammatiche e produce la catarsi, ossia la purificazione dell’anima dalle emozioni negative. 13

LA SCUOLA DI ARISTOTELE: IL PERIPATO

Il Liceo o Peripato si caratterizza per la sua impostazione enciclopedica; ad Aristotele succede Teofrasto, che, per i suoi interessi prevalentemente scientifici, orienta in questa direzione l’impostazione delle ricerche successive. 14

UN BILANCIO

Aristotele ha esercitato un fascino indiscusso in gran parte della tradizione filosofica occidentale. Considerato nel Medioevo il “Filosofo“ per antonomasia, è stata necessaria una vera rivoluzione antiaristotelica per consentire la nascita della scienza moderna che ha messo in crisi una visione dell’universo fisico all’epoca universalmente accettata. A oggi, parte della filosofia aristotelica è stata recuperata ed è ancora oggetto di studio intenso (si pensi all’enorme contributo offerto in campo logico, per esempio, o etico e retorico).

LESSICO

A

Anima. Definita come l’atto di un corpo naturale che ha la vita in potenza, coincide con la forma dell’ente vivente, ed è perciò causa di tutte le manifestazioni vitali del corpo. Per questa ragione è da esso inseparabile (non è quindi immortale, come sosteneva Platone). I viventi si classificano in relazione al tipo di anima che possiedono, che si identifica sulla base delle funzioni svolte: le piante hanno solo funzione vegetativa, gli animali possiedono anche la funzione sensitiva; l’uomo oltre a queste possiede anche una funzione intellettiva.

C

Cause / Finalismo. Il divenire di ciascun ente è spiegabile in base a quattro cause: 1) materiale, che concerne la materia dell’ente; 2) formale, il modo in cui la materia è disposta nell’ente; 3) motrice o efficiente, ciò che imprime il movimento all’ente; 4) finale, il fine per cui avviene il mutamento dell’ente. Il finalismo (o teleologismo, da tèlos) di tale concezione è reso esplicito dallo stretto parallelismo che Aristotele pone tra l’operare dell’arte e quello della natura: ogni mutamento avviene in vista di un fine. Questo tratto è particolarmente evidente nelle dottrine biologiche (e conoscerà proprio in questo ambito una grande fortuna).

D

Dimostrazione. La dimostrazione si produce per mezzo di un sillogismo scientifico, le cui premesse devono essere vere, prime, universali e necessarie (o, comunque sia, riconducibili a questo tipo di premesse attraverso

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L’età antica

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passaggi logici). L’esito di questo procedimento, di natura deduttiva, è la scienza, che assume così la sua forma espositiva privilegiata.

E

Essere. L’essere è il predicato più universale di tutti: di ogni ente, infatti, si può almeno dire che è (poi gli si possono attribuire altri predicati, come si legge nelle Categorie). In questa sua forma più generale («l’essere in quanto essere»), esso è oggetto di studio della metafisica, scienza che oltrepassa i limiti dell’ente fisico e determinato. L’essere, però, come accennato, non è una nozione univoca: le cose “sono” in modo molto diverso tra loro; questa è un’assunzione di base della filosofia aristotelica, che tiene sempre conto della pluralità e varietà della realtà. Tra i modi in cui si dice l’essere, è primario quello della sostanza, cioè la forma.

G I

Giusto mezzo. La virtù etica è quella disposizione stabile (abito) dell’anima umana, per cui il soggetto è sempre capace di scegliere il giusto mezzo (mesòtes) tra i due estremi dell’eccesso e del difetto.

Induzione. L’induzione è un procedimento che, se correttamente svolto, conduce alla scoperta di verità, quindi alla conoscenza. Essa muove dalla singola sensazione; attraverso il ricordo, si genera poi l’esperienza nella quale l’intelletto coglie infine l’aspetto di universalità. In tal modo si ottengono i principi comuni a più scienze o propri delle singole scienze, cioè le premesse prime da cui scaturisce ogni dimostrazione scientifica.

M

Metafisica / Sapienza / Filosofia prima. La parola “metafisica” deriva dal nome dato da Andronico alla raccolta dei libri che venivano “dopo quelli di fisica” (ta metà ta physikà). Aristotele chiama “sapienza” (sophìa, che è anche una virtù dianoetica) o “filosofia prima” (la “filosofia seconda” è la fisica), il sapere più alto concernente l’essere. La metafisica si delinea da una parte come studio dell’essere nella sua dimensione universale (l’essere in quanto essere), dall’altra come studio degli enti più nobili, tra i quali, al più alto livello, il primo motore immobile. Mondo sublunare / Mondo astrale / Etere. L’universo aristotelico è diviso in due parti: al centro vi è il mondo terrestre (o sublunare), composto dai quattro elementi empedoclei (aria, acqua, terra e fuoco), che si muovono di moto rettilineo verso il loro luogo naturale; al di sopra si colloca il mondo astrale (o celeste) composto di etere, cui spetta il movimento più nobile (quello circolare uniforme), e che non è soggetto a processi di generazione e corruzione. Gli astri, o cieli, sono perciò incorruttibili, eterni e divini. Mutamento / Privazione / Forma / Materia. Il mutamento, studiato da Aristotele nella Fisica, è incentrato su tre principi, identici per analogia in ogni divenire: 1) la privazione è lo stadio iniziale, in cui la forma che l’ente acquisirà è ancora assente; 2) la forma è la configurazione che l’ente assume alla fine del processo; 3) il sostrato è ciò che permane, in un certo senso la materia del divenire, che offre al processo quella condizione di continuità che lo rende possibile.

N

Nous. Il nous è l’intelletto, attivo e passivo, con cui l’essere umano acquisisce la conoscenza dotata del carattere di universalità, al termine di un processo che parte dalla sensazione. Con questo termine Aristotele denomina anche l’attività stessa dell’intelletto, il pensiero, che l’intelletto divino (coincidente con il primo motore immobile, e forse anche con l’intelletto attivo) svolge incessantemente, pensando se stesso.

P

Potenza / Atto. Le nozioni di potenza e atto sono introdotte per spiegare il mutamento: nella materia (sostrato) è presente in potenza la forma che essa assumerà al termine del processo; ogni divenire è dunque la realizzazione (attualizzazione) di una potenzialità insita nella materia.

Predicazione / Categorie. Il rapporto di predicazione (kategorìa) concerne quello tra soggetto e predicato; un predicato può appartenere a un soggetto come sua definizione, genere, proprietà e accidente. Questi quattro casi, studiati nei Topici, rientrano necessariamente, secondo la più matura dottrina delle Categorie, in una delle dieci categorie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, giacere, avere, agire e patire.

5. Aristotele

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Primo motore immobile. Esso è pura forma, quindi immateriale, atto puro, eterno, divino, pensiero (nous) di pensiero; è la causa prima del movimento degli astri, che muove pur restando immobile attraendoli con la propria perfezione, come un oggetto d’amore.

S

Saggezza / Felicità. La virtù dianoetica della saggezza consiste nell’individuare i mezzi atti a raggiungere la felicità. Vi sono tre forme di felicità: quella propria della vita edonistica, quella propria della vita politica e quella propria della vita contemplativa, consistente nell’esercizio della funzione intellettiva. Quest’ultima è la più nobile, perché permette la compiuta realizzazione della natura umana, che si distingue rispetto alle altre specie animali per la sua razionalità. Sillogismo. Il sillogismo è un ragionamento deduttivo composto da tre proposizioni: due premesse, che contengono un termine comune (detto “medio”), e una conclusione, nella quale compaiono i due “estremi” delle premesse. La conclusione è la deduzione necessaria di quanto è implicito nelle premesse, perciò non ha carattere euristico (non serve a scoprire nuove verità, ma solo a esporre i risultati scientifici in forma dimostrativa).

Sostanza / Sostrato. Rispetto alla predicazione, la sostanza è sempre soggetto, non può cioè essere predicata di altro, e niente può essere predicato senza che vi sia una sostanza che funga da soggetto. La sostanza prima è sempre una realtà individuale, singolare, determinata; le sostanze seconde (specie e generi) possono invece essere predicate della sostanza prima. Nell’ambito metafisico e teologico, la sostanza viene fatta coincidere nel suo senso più pieno con la forma e, nella gerarchia delle sostanze, al vertice si colloca per la sua nobiltà il motore immobile, perché immateriale, eterno, divino.

QUESTIONARIO 1

IL PRIMO PROFESSORE Qual è la caratteristica fondamentale dell’edificio teorico aristotelico? (max 4 righe)

2

LE RAGIONI DI ARISTOTELE Qual è la posizione di Aristotele rispetto alla teoria platonica delle idee? (max 10 righe)

3

L’EDIFICIO DEL SAPERE Qual è la classificazione delle scienze aristoteliche, secondo la presentazione di Andronico, e quali sono gli ambiti che ognuna di esse concerne? (max 10 righe)

4

LA TEORIA DEL SILLOGISMO Aristotele analizza il rapporto tra le proposizioni (asserzioni) servendosi della teoria del sillogismo. Indica da quali parti è costituito e definisci il particolare tipo di sillogismo rappresentato dalla dimostrazione. (max 10 righe)

5

LE CATEGORIE E IL PRIMATO DELLA SOSTANZA Quale delle dieci categorie ha una posizione prioritaria rispetto alle altre e perché? (max 10 righe)

6

IL DIVENIRE DEL MONDO In che modo Aristotele spiega il mutamento? Quali sono i concetti che egli introduce? (max 10 righe)

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L’età antica

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LA STRUTTURA DELL’UNIVERSO Quali sono le principali differenze tra mondo sublunare e mondo astrale? Che cos’è il primo motore immobile? (max 15 righe)

8

IL FINALISMO ARISTOTELICO In che cosa consiste il finalismo aristotelico? A quale analogia fa ricorso Aristotele per spiegare l’orientamento finalistico della natura?(max 10 righe)

9

LA FILOSOFIA PRIMA O METAFISICA Di che cosa si occupa la metafisica (o filosofia prima)? (max 10 righe)

10

ARISTOTELE E IL GIUSTO MEZZO In che senso si può dire che il giusto mezzo dell’etica aristotelica è di natura situazionale e non aritmetica? (max 6 righe)

11

FAMIGLIA Illustra la concezione della famiglia nella teoria politica di Aristotele, sottolineando le differenze con la posizione di Platone. (max 10 righe)

12

LA CONCEZIONE DELLA POESIA Quali sono le funzioni che Aristotele attribuisce alla poesia e perché essa ha un effetto moralmente positivo sull’individuo? (max 6 righe)

13

LA SCUOLA DI ARISTOTELE: IL PERIPATO Che impostazione ha il Liceo e chi ne prende la guida dopo Aristotele? (max 5 righe)

14

IL FASCINO DI ARISTOTELE Quali sono gli ambiti in cui la filosofia aristotelica ha avuto maggior fortuna nel corso della storia del pensiero? (max 3 righe)

5. Aristotele

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Il classico Metafisica



IL CLASSICO



Il genere La Metafisica è stata sempre considerata come la principale opera filosofica di Aristotele. Una delle questioni principali poste nella prima parte dello scritto riguarda proprio la possibilità e la natura di una forma di riflessione filosofica che vada oltre le singole scienze della natura. Quali ne possono essere gli oggetti? Aristotele ritiene che dello spazio della “filosofia prima” faccia parte l’indagine sulle cause prime delle cose e dei processi che avvengono nel mondo, e che sono comuni a tutti i singoli ambiti del sapere. Ritiene inoltre che esistano proprietà comuni a tutti gli enti, che appartengono loro non per il fatto di essere per esempio animali, piante od oggetti geometrici, ma per il puro fatto di esistere: le proprietà degli enti, in quanto condividono l’essere, indipendentemente dalla loro appartenenza a questo o quel settore della realtà, costituiscono dunque l’oggetto di un sapere, come la filosofia prima, che si colloca al di là delle scienze particolari che riguardano appunto questi diversi settori. In questo campo, si pone inoltre la questione cruciale della sostanza: che cosa esiste realmente e in modo primario? La sostanza, che si può identificare nei singoli oggetti reali (questo singolo uomo o cavallo o vegetale), e anche nelle loro forme essenziali e specifiche (uomo, cavallo, quercia), è individuata da Aristotele come il nucleo primario della realtà, al quale si riferiscono le proprietà secondarie come la quantità e la qualità. Ma le sostanze non sono tutte uguali. Se le sostanze sono prime nell’ordine dell’essere, vi sono poi sostanze prime rispetto alle altre, e sono quelle sostanze divine da cui dipendono i movimenti ordinati del mondo, in primo luogo il “primo motore immobile” che Aristotele identifica con Dio. Il titolo Il titolo Metafisica non è stato scelto da Aristotele, ma attribuito in una fase successiva. Il termine può significare “cose che stanno al di sopra di quelle naturali”, oppure più semplicemente “scritti che vengono dopo quelli di fisica”. Aristotele denominava la disciplina filosofica che prende il nome proprio da quest’opera con l’espressione “filosofia prima”. Storia Il testo che noi ora leggiamo è il risultato di una raccolta operata nel I secolo a.C. dallo studioso aristotelico Andronico di Rodi, che ha disposto in una sequenza unitaria una pluralità di scritti di Aristotele che avevano, nonostante la varietà dei temi trattati, un’ispirazione e un ambito unitari. È proprio a seguito di questa organizzazione e disposizione di materiali che l’opera ha preso il titolo che tutti conosciamo. Anche gli altri testi di Aristotele sono sostanzialmente il risultato dell’ordinamento di Andronico, effettuato però seguendo le indicazioni epistemologiche più volte riproposte dall’autore nel suo corpus. Perché è considerato un classico? I molti temi che ricorrono nella Metafisica non costituiscono, nella ricerca aristotelica, un sistema chiuso e definitivo. La loro unità consiste piuttosto nello spazio e nello stile di una ricerca, che resta sempre aperta e problematica pur sollevando con forza esigenze teoriche imprescindibili (per esempio l’esistenza di un sapere filosofico al di là delle singole scienze). L’opera, infatti, ha goduto di una fortuna immensa nella storia della filosofia, poiché indaga le nozioni relative alla struttura profonda della realtà: essere, sostanza, la distinzione tra sostanze prime e sostanze seconde, e poi materia, forma, atto, potenza, solo per citare le più note. Qui si trova inoltre la divisione classica della filosofia in teoretica e pratica, e l’articolazione della filosofia teoretica in filosofia prima, matematica e fisica.

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LA STRUTTURA DELL’OPERA

Libro terzo

15 aporie sulle caratteristiche e sui contenuti della filosofia prima

Libro quarto

Dall’essere in quanto essere alla sostanza. Il principio di non contraddizione

Libro quinto

Il vocabolario filosofico

Libro sesto

Tripartizione delle scienze; le tre scienze teoretiche; i molteplici significati dell’essere

Libro settimo e ottavo

I caratteri della sostanza e i suoi principali candidati (forma, materia e sinolo); che cosa è forma e che cosa è materia

Libro nono

I concetti di potenza e atto

Libro decimo

L’uno e le sue specie

Libro undicesimo (spurio)

I caratteri della sapienza e concetti fondamentali della fisica

Libro dodicesimo

Sostanze sensibili e sovrasensibili; il motore immobile, dio atto puro, pensiero di pensiero

Libro tredicesimo e quattordicesimo

Critica alle dottrine platonicoaccademiche delle idee e dei numeri

T1 Origini della sapienza

T2 La filosofia prima come scienza dell’essere in quanto essere

5. Aristotele

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IL CLASSICO



Libro primo e secondo

Origini della filosofia. La verità e le cause. Critica delle opinioni dei predecessori alla luce della dottrina delle quattro cause

I TESTI



T3 L’essere primo è la sostanza

T4 Il dio di Aristotele: il motore immobile

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T1

Origini della sapienza

US

Nel I libro della Metafisica Aristotele traccia la genesi e definisce la natura della “sapienza” (sophìa), che verrà in seguito chiamata “filosofia prima”. L’impulso alla conoscenza, che è proprio della natura umana, porta inizialmente ad accumulare esperienze, sulla base delle quali si formano i saperi specialistici chiamati “arti” o tecniche (technài), capaci di costruire leggi generali e di spiegare le cause dei fenomeni. Una volta costituiti i saperi utili alle necessità della vita, l’umanità sviluppa una forma di sapere più generale, priva di utilità pratica ma capace di andare a fondo nella comprensione della struttura della realtà, di definire le cause prime dei processi naturali, di rispondere alle domande sul senso e sulla fine del mondo e della vita. Questo sapere “inutile”, ma in grado di soddisfare le esigenze di conoscenza proprie dell’uomo, è appunto la sapienza o “filosofia prima”.

da Aristotele, La metafisica, I, Torino, Utet, 1974, pp. 13-14.

Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia, perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Infatti gli uomini, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia . Da principio esercitarono la meraviglia sulle difficoltà che avevano a portata di mano; poi, progredendo così poco alla volta, arrivarono a porsi questioni intorno a cose più grandi, per esempio su ciò che accade alla luna, al sole e agli astri e sulla nascita del tutto. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere; perciò anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia. Sicché, se gli uomini filosofarono per fuggire l’ignoranza, è evidente che cercarono il sapere per il conoscere, e non per trarne un utile. Ne è prova ciò che è accaduto: infatti quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza1. È chiaro dunque che noi non cerchiamo questo sapere per nessun altro uso, ma come dell’uomo diciamo che è libero quando esiste per se stesso e non per un altro uomo, così cerchiamo questa scienza come quella che è l’unica tra le scienze a essere libera, perché è l’unica che ha come fine a se stessa. […] Tutte le altre scienze sono più necessarie di questa, ma nessuna è migliore di essa2. Il possesso di questa scienza deve in qualche modo portarci a uno stato contrario a quello nel quale si dà inizio alle ricerche3. Come abbiamo detto, tutti gli uomini incominciano con il meravigliarsi che le cose sono come sono, per esempio a proposito delle marionette che si muovono da sé, o dei solstizi o della incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato (del fatto che non esiste un’uni-



IL CLASSICO



FOC

Obiettivo polemico

5

Lessico anche per Platone all’origine dell’indagine filosofica

Lessico

10

relative cioè alle cause supreme

15

Lessico il culmine del progresso delle conoscenze è il sapere filosofico rigorosamente strutturato

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1. Aristotele crede nella pluralità delle dimensioni dell’uomo. Se è vero che l’intelletto ne è la parte più nobile, e la conoscenza speculativa è la realizzazione ultima dell’uomo, è vero anche che ciò avviene quando i bisogni legati alle sue dimensioni inferiori (vegetativa e sensitiva) sono soddisfatti.

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2. Non vi è univoca corrispondenza tra utilità pratica e nobiltà: le scienze che contribuiscono a migliorare la vita umana sono ricercate per fini particolari e specifici, mentre la filosofia prima (sapienza) ha come fine ultimo l’esercizio dell’intelletto, che dà felicità e compiutezza alla vita dell’uomo in quanto

uomo (e non in quanto vivente, o animale). 3. La meraviglia è il sentimento da cui scaturisce la ricerca filosofica, che deve approdare però a uno stato contrario, cioè la cessazione dello stupore: ciò accade quando si conoscono le cause della realtà (perché le cose stanno così e non in un altro modo).

L’età antica

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tà così piccola con la quale si possa misurare la diagonale e il lato, si meravigliano soltanto quelli che non ne hanno mai considerata la causa). Ma bisogna arrivare al contrario della meraviglia iniziale, e, come dice il proverbio, a ciò che è migliore. Del resto così avviene nei casi citati, quando si è imparato: infatti la cosa che più meraviglierebbe un uomo che conoscesse la geometria sarebbe proprio la commensurabilità del lato e della diagonale4. Si è dunque detto quale è la natura della scienza che viene cercata, quale è il fine al quale deve mirare la nostra ricerca e tutta la nostra trattazione. è un’irregolarità (come la commensurabilità del lato e della diagonale del triangolo), al contrario dell’uomo comune, che si me-

raviglia di ogni aspetto del sapere, non essendo a conoscenza delle ragioni per cui le cose stanno così e non altrimenti.



IL CLASSICO



4. L’uomo di scienza si stupisce quando, conosciuta a fondo una disciplina (come la geometria), scopre che al suo interno vi

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura In questo brano Aristotele racconta le origini della filosofia, che nasce dalla meraviglia che gli uomini manifestano quando osservano la realtà che li circonda. Chiunque provi questo stupore e tenti di rispondere a questo bisogno naturale dell’uomo, che è quello di conoscere, è in qualche misura un filosofo (anche chi si interessa ai miti, dunque, lo è). La filosofia, intesa come esercizio del pensiero su questioni di non immediata utilità, è la forma di sapere più nobile, perché fine a se stessa e perciò libera da scopi di utilità pratica che la orientino in un senso o in un altro. Essa non si sostituisce alle scienze relative ai singoli aspetti della realtà, come le matematiche, la fisica, l’astronomia o la biologia, ma fornisce a queste i presupposti teorici generali e fondamentali, e per questo è la migliore. Nella parte finale del brano Aristotele spiega che la meravi-

5. Aristotele

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glia iniziale del filosofo può essere superata tramite la conoscenza delle cause dei fenomeni, per cui egli giunge a uno stato contrario: l’uomo di scienza, che conosce a fondo la sua disciplina, si stupisce quando coglie in essa un aspetto anomalo (come sarebbe la commensurabilità della diagonale e del lato di un triangolo per un geometra), mentre gli appaiono naturali tutte quelle particolarità che all’inizio del suo percorso avevano destato in lui stupore. Obiettivo polemico È chiaro che qui Aristotele pensa che la figura dello specialista di una data disciplina (che conosce le cause delle cose) debba progressivamente sostituirsi a quella del filosofo così come era concepito agli albori, cioè come il detentore di una conoscenza misteriosa e sapienziale, incomunicabile, quasi divina.

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FOC

T2

La filosofia prima come scienza dell’essere in quanto essere

US Obiettivo polemico, Lessico

Nel capitolo 1 del libro IV della Metafisica Aristotele definisce un primo ambito di indagine proprio della filosofia prima, distinguendolo da quello delle altre scienze particolari. Si tratta dell’“essere in quanto essere”: le sue proprietà consistono nella divisione in categorie (un ente può appartenere alla categoria della sostanza, della quantità, della qualità e così via), nella distinzione fra essere in atto e essere in potenza, e in alcuni principi logici generalissimi come il principio di non contraddizione. Si tratta dunque di un livello teorico universale e astratto che appartiene esclusivamente alla filosofia prima.

da Aristotele, La metafisica, IV, Torino, Utet, 1974 p. 23.

C’è una scienza che studia l’essere in quanto essere1 e ciò che inerisce all’essere di per sé. Essa non è identica a nessuna delle scienze che si dicono particolari, perché nessuna delle altre scienze indaga universalmente intorno all’essere in quanto essere, ma ciascuna si taglia una parte dell’essere e ne studia gli accidenti, come fanno le scienze matematiche. Poiché cerchiamo i principi e le cause più lontane, è chiaro che esse debbono necessariamente essere cause e principi di una natura che di per sé ha quelle cause e quei principi. Se anche quelli che cercavano gli elementi degli esseri cercavano questi principi2, anche quegli elementi dovevano essere elementi dell’essere, non dell’essere accidentale, bensì dell’essere in quanto è. Perciò anche noi dobbiamo afferrare le cause prime dell’essere in quanto essere.

5

Lessico



IL CLASSICO

qui nel senso di attributi propri

Lessico

10

quelle più universali

1. È lo studio delle proprietà generali e comuni all’essere, indipendentemente dalla sua divisione in generi e singoli enti.

2. Aristotele si riferisce qui ai naturalisti presocratici, che ricercavano i principi delle cose; stabilisce dunque un elemento di conti-

nuità tra gli inizi della filosofia e la sua ricerca nell’ambito della filosofia prima.

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura La metafisica, o filosofia prima, è la scienza che studia l’“essere in quanto essere”. Ogni ente, prima di determinarsi come appartenente a un ambito particolare della realtà (per esempio animale, vegetale o minerale, geometrico o anche politico e così via) condivide con tutti gli altri enti la proprietà di esistere. La filosofia prima studia le proprietà comuni che derivano agli enti dalla partecipazione all’essere, mentre le altre scienze si occupano delle classi di enti già appartenenti a un ambito determinato (la biologia si occuperà degli esseri viventi, l’astronomia dei corpi celesti, e così via). In questo senso “ciascuna taglia una parte dell’essere” e ne studia gli attributi propri (in geometria un attributo proprio del triangolo è avere due angoli retti). La metafisica, invece, ricerca le cause più lontane (rispetto a noi, perché difficilmente accessibili alla nostra conoscenza, che parte sempre dalla conoscenza sensibile), cioè i principi primi dell’essere stesso, inteso nella sua massima universalità, precedente a ogni determinazione.

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Obiettivo polemico In questo brano Aristotele pone le basi della metafisica, stabilendo in parte una continuità, in parte un’opposizione rispetto ai suoi predecessori. In particolare, egli riconduce l’attività filosofica dei primi naturalisti greci che indagavano i principi, le cause della realtà, alla propria ricerca, che vuole cogliere l’essere nella sua dimensione più universale e precedente a ogni determinazione. Lessico La ricerca delle cause prime indica che vi è un ordine nella realtà: nella generica ricerca dei principi, delle ragioni per cui la realtà è così com’è, si possono identificare sia cause più vicine e immediate, che giustificano gli aspetti più specifici (perché un fenomeno si verifica in un modo anziché in un altro), sia cause più lontane e remote rispetto a noi, che invece si dicono prime, poiché determinano la natura dell’essere nel suo senso più generale (sono le leggi fondamentali dell’essere, come per esempio la distinzione tra la sostanza e gli accidenti).

L’età antica

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da Aristotele, La metafisica, VII, Torino, Utet, 1974, 517B-E, p. 33.

L’essere si dice in molti modi, come abbiamo distinto prima, dove abbiamo stabilito in quanti modi si dicono le cose1. L’essere infatti significa, in un senso, l’essenza e una cosa particolare determinata, in un altro la qualità o la quantità, o ciascuna delle altre cose che si predicano a questo modo. L’essere si dice in tutti questi modi, ma è evidente che di tutti questi quello che costituisce l’essere primo è l’essenza, che indica la sostanza (infatti quando diciamo qual è la qualità di una cosa, diciamo che è buona o che è cattiva, ma non che è lunga tre cubiti o che è uomo; e quando diciamo la sua essenza, diciamo non che è bianca né che è calda né che è lunga tre cubiti, ma che è uomo o che è dio). Delle cose si dice che sono perché o sono quantità, o sono qualità, o sono affezioni, o sono qualche altra cosa di questo genere rispetto a ciò che è essere nel senso primario. Perciò si potrebbe anche dubitare se il camminare, l’esser sano, lo star seduto, ciascuna di queste cose, sia o non sia , e considerazioni simili si possono fare per ogni altra cosa analoga a quelle menzionate: infatti nessuna di queste cose non è né qualcosa che per natura sussista di per sé, o possa star separata dalla sostanza, ma, semmai, se qualcosa esiste si tratta di cose come «quello che cammina», «chi sta seduto», «chi è sano»2. È chiaro che queste cose più che le altre esistono, perché c’è in esse un soggetto definito, e questo soggetto è la sostanza3 e l’individuo, un soggetto che vien messo in evidenza quando queste espressioni compaiono come predicati: e infatti ciò che è buono e ciò che sta seduto non si possono dire senza un soggetto. È chiaro pertanto che in virtù di questa (la sostanza) ciascuna delle altre cose è, sicché l’essere in senso primario, ciò che non è un essere qualche cosa, ma è un essere in senso assoluto, è la sostanza.

Lessico

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il riferimento è alla sostanza

Lessico sono gli accidenti, che ineriscono la/alla sostanza

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Lessico cioè accidenti

Lessico

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la sostanza

Lessico che sono accidenti

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Lessico gli accidenti possono esserci o no, cioè sono contingenti

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Lessico la sostanza prima

1. Il rinvio è al libro V, dove Aristotele sostiene che la realtà è molteplice e varia. Questo è un dato ineliminabile e costitutivo della posizione aristotelica. 2. I pronomi “quello”, “chi” indicano il sog-

5. Aristotele

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getto di cui si predica qualcosa: in termini ontologici, il soggetto è la sostanza cui ineriscono gli accidenti. Questi ultimi non possono sussistere senza una sostanza, cioè un sostrato su cui appoggiarsi: come si legge

IL CLASSICO

L’essere in senso primario consiste nella “sostanza” (ousia), in ciò che realmente è. Il complesso lavoro teorico che Aristotele conduce nel libro VII della Metafisica consiste nell’individuare la dimensione ontologica in cui consiste la sostanza. Proprietà di ciò che è sostanza è quella di essere sempre soggetto di predicati (che ne indicano qualità, quantità, luogo e così via), e mai predicato a sua volta. Sostanza sarà allora in primo luogo il composto di forma e materia (questo singolo uomo, o tavolo, o albero), ossia la singola cosa esistente.

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Obiettivo polemico, Lessico



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L’essere primo è la sostanza

poco più avanti, non posso dire “sta seduto”, ma “Socrate sta seduto”. 3. Sostanza è l’essere in senso primario, perché tutti gli altri modi dell’essere (gli accidenti) dipendono da esso.

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IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in tre parti. Nella prima parte (righe 1-5) Aristotele riprende un argomento già esposto in precedenza: “l’essere si dice in molti modi”. 1. Qui in particolare espone due sensi principali: quali sono? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

IL CLASSICO

Nella seconda parte (righe 6-13) Aristotele specifica che il senso primario dell’essere è l’essenza (o sostanza), che corrisponde, nell’analisi della proposizione (cioè dal punto di vista logico), al soggetto della proposizione stessa (sostanza è uomo, per esempio, o Dio). La sostanza individuale, infatti, è ciò che esiste di per sé, e non ha bisogno di nient’altro per esistere. Si può però anche dire che le qualità, le quantità e così via, sono, per esempio quando dico: “è buono”, o “è lungo tre cubiti”. In questo caso indico delle proprietà che non possono esistere di per sé. 2. A che cosa devono riferirsi sempre le qualità, le quantità e gli altri accidenti? Che funzione hanno nella proposizione?





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A questo punto (righe 14-19) Aristotele esplicita un dubbio: siamo sicuri che l’accidente sia qualcosa (“sia o non sia”)? In effetti, il camminare, lo star seduto e così via non sono “cose” che esistono, ma indicano semmai delle proprietà, degli aspetti (o delle condizioni) di certe sostanze, come per esempio se dico: “Socrate è seduto”.

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3. Rileggendo il passo, prova a verificare quale termine introduce Aristotele perché il verbo “è seduto” si trasformi in una proposizione. Che termine è e che funzione ha nella proposizione? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nell’ultima parte del brano (righe 20-27) Aristotele ribadisce che il senso primario dell’essere è la sostanza, e per la precisione la sostanza individuale come Socrate, o “un uomo” (nel senso di “un uomo particolare”); sono infatti sostanze anche “uomo” e “animale” in generale, cioè quei nomi che corrispondono a specie o generi, e che nelle Categorie erano dette sostanze seconde. Da questa analisi, Aristotele ricava l’idea che gli individui sono ciò che esiste nel senso più pieno e vero, mentre le sostanze seconde (generi e specie) dipendono dall’esistenza degli individui stessi (se non esistono né Socrate, né Callia e così via non esisteranno più uomini!). 4. A chi spetta, secondo Aristotele, il senso primario dell’essere? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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L’età antica

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Obiettivo polemico In questo famosissimo brano Aristotele distingue tra i molteplici sensi dell’essere, conferendo priorità alla sostanza, e in special modo alla sostanza individuale. In questo modo egli ribadisce, per esempio, che alle qualità in quanto tali non spetta la piena esistenza, al modo delle sostanze: non esiste il caldo il sé, ma solo “una cosa calda”; non esiste la lunghezza in sé, ma solo “una cosa lunga tre cubiti”. Secondo te, chi è l’obiettivo polemico di Aristotele? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Lessico

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IL CLASSICO

In questo brano ricorrono termini come “sostanza”, “qualità”, quantità”, che ritroviamo in una delle fondamentali opere logiche di Aristotele, le Categorie. In quest’opera egli distingue dieci modi in cui si predica l’essere delle cose: “star seduto”, per esempio, corrisponde alla categoria “giacere”, ossia, possiamo dire, “essere in una data situazione”. Che differenza c’è tra la categoria primaria della sostanza e tutte le altre categorie (qualità, quantità, tempo, luogo, relazione, giacere e così via)? Come vengono definite queste ultime?

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Il dio di Aristotele: il motore immobile



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Nel capitolo 7 del libro XII della Metafisica Aristotele configura i lineamenti di quella che può essere considerata la sua concezione teologica. L’intero cosmo è in movimento, ma, come era stato indicato nella Fisica, ogni movimento richiede un “motore” o movente, che ne è la causa. Per evitare che la catena dei movimenti sia infinita, è necessario che al suo inizio vi sia un “motore” non mosso a sua volta da nient’altro, che cioè sia immobile. Poiché la materia è sempre in movimento, è allora necessario che questo primo motore sia privo di materia, quindi immobile ed eterno. In esso Aristotele ravvisa la sua divinità. Nel brano che segue, Aristotele descrive questo principio: essendo perfetto, esso è dotato di vita, ma la vita di una sostanza immateriale non può che consistere nel puro pensiero. Dio muove in primo luogo gli astri, e tramite essi il mondo, costituendone l’oggetto di attrazione in virtù della sua perfezione.

da Aristotele, La metafisica, XII, Torino, Utet, 1974, pp. 73-74.

Da un principio di questo genere dunque dipende l’universo e la natura. È un modo d’essere quale il migliore che a noi è dato di godere per brevi momenti, e gli appartiene sempre (il che sarebbe impossibile per noi), poiché la sua attività è anche piacere1; e del resto per la stessa ragione sono piaceri fortissimi la veglia, la sensazione, il pensiero, mentre le speranze e i ricordi sono piaceri per via di que-

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Obiettivo polemico, Stile

Lessico

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il motore immobile

1. L’attività propria del motore immobile è il pensiero. Noi esseri umani avvertiamo il piacere che deriva dalla pura con-

5. Aristotele

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templazione solo per brevi momenti nella vita, immersi come siamo nelle mille attività e sommersi dagli stimoli esterni. Ari-

stotele fa coincidere questo stato perfetto con la felicità.

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Lessico intellezione somma, attività conoscitiva fine a se stessa

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Lessico un principio perfetto non può essere inerte: la sua vita è conforme alla sua natura di ente intellettuale e si realizza perciò nella contemplazione

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IL CLASSICO



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ste attività. [...] L’intelletto pensa se stesso perché partecipa di ciò che è pensato, e infatti diventa pensato toccando e pensando ciò che è pensato, sicché sono la medesima cosa l’intelletto e ciò che è pensato2. Infatti ciò che può accogliere ciò che è pensato e la sostanza è intelletto, ma è in atto quando li possiede, sicché ciò che sembra possedere di divino l’intelletto è più questo possederli in atto che quella capacità di possederli, e la contemplazione è la cosa più piacevole e migliore3. La divinità è una cosa meravigliosa se è sempre in questo stato di benessere, nel quale noi ci troviamo talvolta, e se il suo stato è ancora migliore, è ancora più meravigliosa. Ma essa è in questo stato migliore. E la divinità ha anche vita, perché l’atto dell’intelletto è vita, e la divinità è l’atto dell’intelletto. L’attività che di per sé appartiene a quel principio è la vita migliore e eterna. Diciamo che la divinità è essere vivente eterno e ottimo, sicché alla divinità appartengono vita e tempo continuo e infinito: questo è la divinità. [...] Che dunque ci sia una sostanza eterna, immobile e separata dalle sostanze sensibili è evidente da ciò che abbiamo detto. Si è mostrato anche che questa sostanza non può avere nessuna grandezza, ma è senza parti e indivisibile. Infatti essa muove per un tempo infinito, ma nulla che sia limitato può avere una potenza infinita. Poiché ogni grandezza o è infinita o è finita, quel principio non può avere, per la ragione che abbiamo detto, una grandezza finita; ma non può neppure avere una grandezza infinita, perché in generale non esiste nessuna grandezza infinita4. E abbiamo mostrato anche che è impassibile e immutabile, perché tutti gli altri movimenti sono successivi al movimento locale. È chiaro, dunque, perché queste cose stanno a questo modo.

2. Il dio aristotelico pensa se stesso, perché, afferma Aristotele, se pensasse qualcosa di diverso da sé, allora l’oggetto del pensiero sarebbe qualcosa che gli è inferiore per natura; ma ciò è impossibile. Dunque, nell’atto di contemplazione del dio, soggetto e oggetto si identificano.

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3. Il motore immobile, che ha natura divina, è intelletto che esercita sempre l’attività contemplativa (poiché se la esercitasse solo a tratti, allora non sarebbe divino, essendo preferibile a questo alternarsi lo stato di perfetta attualità): è dunque intelletto perennemente in atto, la migliore e la più felice delle condizioni.

4. Il motore immobile, in quanto causa di un movimento che dura all’infinito, non può avere grandezza finita; d’altro canto, Aristotele non ammette l’esistenza di grandezze infinite in atto; dunque, il motore immobile deve essere privo di grandezza.

L’età antica

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ANALISI DEL TESTO

5. Aristotele

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Stile Lo stile aristotelico è secco e asciutto, come una trattazione specialistica: egli si rivolge probabilmente a quanti già conoscono e condividono le sue basi teoriche, cioè a un pubblico di esperti in grado di seguire lo svolgersi dell’argomentazione. L’opera di Aristotele che ci è pervenuta è infatti, in generale, una trattazione filosofica destinata alla discussione e alla ricerca all’interno delle istituzioni (il Liceo), e non rivolta alla divulgazione esterna.

IL CLASSICO

Obiettivo polemico Il dio aristotelico non è responsabile della generazione del mondo, come lo è, anche se in senso metaforico, nel mito del Timeo, il demiurgo platonico. Il demiurgo, infatti, esprime molto probabilmente l’azione causale delle idee, che “producono” il mondo (anche se Platone non ci spiega mai esattamente in che modo), essendone modelli originari e primordiali. In Aristotele, invece, il motore immobile è il principio perfetto che muove le sfere di un movimento che non è meccanico (non essendo composto da materia, non può agire direttamente sulle sfere celesti), ma provoca in esse una tensione verso di lui, modello inalterabile e perfetto, di modo che le sfere esprimono nel movimento locale questo “desiderio” di raggiungerlo, imitandone la perfezione. Il cosmo aristotelico però è eterno e non ha avuto un inizio, neppure in senso metaforico: è da sempre così come lo vediamo, in movimento perenne, e così resterà per l’eternità.



soggetto a tutti gli altri tipi di movimento (generazione, corruzione, alterazione, accrescimento e diminuzione), che, insieme al moto locale, contraddistinguono invece il mondo sublunare e sono responsabili dei fenomeni che tutti conosciamo.



Guida alla lettura In questo celebre e oscuro passo Aristotele esprime la natura del principio divino, il motore immobile. Nella prima parte del brano egli afferma che tale principio si trova sempre in una condizione che a noi esseri umani accade di sperimentare solo per brevi momenti: è la contemplazione, cioè il pensiero puro, fine a se stesso, che produce felicità. Ma qual è l’oggetto del suo pensare? Aristotele vuole dimostrare, al termine di un ragionamento conciso e tecnico, che il motore immobile non può che pensare se stesso (è detto infatti “pensiero di pensiero”); se pensasse altro da sé, lui che è l’ottimo, penserebbe a qualcosa che gli è inferiore, e cioè a qualcosa di inadeguato alla sua condizione; oltre a ciò verrebbe messa in discussione la sua perfezione, perché avrebbe bisogno di altro per esercitare la conoscenza, quindi non sarebbe in sé autosufficiente, ma manchevole, come lo siamo noi esseri umani. Così, il dio aristotelico è anche dotato di vita: essendo intelletto, la sua vita coincide con la sua attività intellettiva, cioè con la piena ed eterna realizzazione della sua natura. Nell’ultima parte del brano si dice che è eterno, immobile e separato dalle sostanze sensibili: è separato perché immateriale, a differenza dei corpi sensibili (composti dai quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco) e dei corpi celesti (composti di etere, il quinto elemento della regione sovralunare del cosmo aristotelico); essendo immateriale è indivisibile, senza parti e senza grandezza (la materia è infatti il principio dell’estensione, dunque della divisibilità corporea); è inoltre eternamente immutabile, perché non dotato di movimento locale (è il principio da cui il moto delle sfere prende l’avvio, ma muove senza essere mosso); essendo infatti il moto locale il più nobile e l’unico che spetta ai corpi celesti, se il motore immobile è privo di tale movimento, non sarà neppure

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Origini e natura della pòlis

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Nel capitolo 2 della Politica, Aristotele analizza la genesi e lo scopo della formazione della comunità politica (pòlis, che significa città-stato). La pòlis è il livello compiuto del processo di aggregazione fra gli uomini che parte dalla famiglia; un insieme di famiglie forma il villaggio, e l’unione di più villaggi la comunità politica. Si tratta di un processo più naturale che storico, come quello che da un seme di quercia porta alla quercia. È nella comunità politica, infatti, che l’uomo realizza compiutamente la sua essenza: l’uomo è per natura un “animale politico”, cioè un animale destinato a vivere in società. La pòlis è una comunità autosufficiente, capace di soddisfare tutti i bisogni umani: non solo quelli materiali, ma anche quelli morali. Nella relazione con i suoi simili all’interno della comunità politica l’uomo realizza i valori della giustizia; fuori di essa, egli è il più pericoloso degli animali. Solo un dio o una belva, dunque, possono secondo Aristotele vivere al di fuori della pòlis.

da Aristotele, Politica, I.2, trad. C.A. Viano, Bur, 2002, pp. 73-79 (con tagli interni).

Guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio, anche in questo campo, come negli altri, si otterranno risultati migliori. Prima di tutto è necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente, per esempio la femmina e il maschio in quanto strumenti di generazione (e tali non sono perché se lo propongono, ma perché è naturale per l’uomo come per gli altri animali e piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a sé), chi è naturalmente disposto al comando e chi è naturalmente disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono sopravvivere [...]. Per natura dunque son distinti la femmina e il servo, perché la natura non fa nulla con la povertà con la quale gli artigiani fabbricano il coltello di Delfi1, ma destina ogni cosa a una sola funzione: e ogni strumento che non servisse a più usi, ma a uno solo, condurrebbe a termine la sua funzione nel migliore dei modi. […] La comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni è per natura la famiglia, i cui membri Caronda chiama compagni di pane, Epimenide di Creta commensali2. La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio. […] La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine; cioè diciamo che la natura di ciascuna cosa è quello che essa è quando si è conclusa la sua generazione, come avviene per l’uomo, il cavallo, la casa. Ora, lo scopo e il fine so-

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Lessico, Obiettivo polemico

Lessico l’appello alla natura è continuo: per Aristotele il bene per ogni essere coincide con la realizzazione di ciò che per natura gli è proprio

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L’A N T O L O G I A



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Lessico ogni cosa tende naturalmente a realizzare la propria natura: questo è il suo fine

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1. A Delfi si produceva un tipo di coltello destinato a usi diversi.

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2. Caronda ed Epimede di Creta sono autorevoli personaggi del passato. La famiglia qui

comprende non solo i consanguinei, ma anche tutti coloro che vivono nella casa (servi inclusi).

L’età antica

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La capacità di parlare

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Lessico Per Aristotele il tutto precede le parti, poiché esse tendono naturalmente a trovare in esso la propria realizzazione

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3. Omero, Iliade, IX, 63. 4. Aristotele allude qui a un gioco simile alla dama.

E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quanto non ha legami ed è come una pedina isolata4. Perciò è chiaro che l’uomo è animale più socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella […]. Nell’ordine naturale la città precede la famiglia e ciascuno di noi. […] È dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altri parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio. Per natura dunque c’è in tutti lo stimolo a costituire una siffatta comunità: chi per primo l’ha fondata è stato la causa dei maggiori beni. Infatti l’uomo che, se ha realizzato i suoi fini naturali, è il migliore degli animali, quando non ha né leggi né giustizia è il peggiore. La più dannosa è l’ingiustizia armata e l’uomo nasce con le armi necessarie per la saggezza e la virtù, sebbene possa usarle anche per scopi del tutto contrari alla saggezza e alla virtù. Perciò senza virtù l’uomo è il più empio e il più feroce degli esseri, dedito solo ai piaceri d’amore e del ventre. Ma la giustizia è virtù politica perché il giudizio è l’ordine della comunità politica; e il giudizio è la determinazione di ciò che è giusto.



Lessico

senza parenti, senza leggi, senza focolare3.

L’A N T O L O G I A

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no ciò che vi è di meglio; e l’autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio. Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo: è il caso di chi Omero chiama con scherno

IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in quattro parti. Nella prima (righe 1-14) Aristotele spiega il suo modo di procedere: per studiare le organizzazioni politiche e sociali è necessario iniziare dai loro fondamenti costitutivi, cioè, in primo luogo, l’unione naturale tra uomo e donna, i soggetti responsabili della generazione. La coppia, infatti, ha per Aristotele come fine naturale quello della riproduzione, e per realizzarlo è opportuno che rimanga unita, in modo che ciascuno dei due membri abbia modo di esercitare liberamente la propria specifica funzione. 1. Che tipo di divisione dei ruoli sussiste all’interno della coppia? Da che cosa dipende? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

5. Aristotele

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Nella seconda parte (righe 15-28) Aristotele delinea in successione i nuclei sociali che vanno a costituire, in ultima istanza, la città: prima la famiglia (cui appartengono anche i servi); poi il villaggio, infine la città. Tutti questi tipi di comunità sono istituzioni naturali, che si costituiscono in vista dell’ultima, la città, la quale raggiunge la completa autosufficienza e consente ai suoi abitanti la piena realizzazione, grazie alla divisione del lavoro. 2. Perché il fine ultimo di tutte le istituzioni naturali è la città? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella terza parte (righe 29-41) Aristotele sostiene che l’essere umano è per sua natura un animale sociale: coloro che si pongono fuori da qualunque forma di vita comunitaria, rimanendo isolati, sono secondo Aristotele da guardarsi con sospetto, perché più inclini al conflitto, e non sottoposti alle regole del vivere civile. La conferma della natura sociale dell’uomo è data anche dal confronto con altre specie animali, naturalmente orientate verso la vita in comune, rispetto alle quali l’uomo ha un’attitudine ancora più spiccata per la socialità. 3. Quali sono le caratteristiche della specie umana che dimostrano questa spiccata attitudine? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

L’A N T O L O G I A

4. Perché secondo Aristotele non si dà giustizia al di fuori della comunità? ...........................................................................................................................................................................................................................................................





Nella quarta parte (righe 42-58) Aristotele insiste sulla necessità per gli uomini di costituirsi in organizzazioni sociali, sottolineando che si tratta di una necessità naturale, che favorisce il conseguimento del loro fine ultimo. Se l’esercizio della virtù e della conoscenza costituiscono infatti il fine naturale dell’esistenza umana, queste possono essere praticate solo all’interno di una comunità ordinata, retta da regole e governata con giustizia.

Il termine chiave di questo brano è “natura” (insieme ai suoi derivati). Aristotele pone l’accento sul fatto che le forme di vita associata nascono da una naturale propensione dell’essere umano per la vita sociale. Quali sono i vantaggi che l’essere umano consegue da questa condizione?

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Lessico

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Obiettivo polemico Aristotele critica qui tutte quelle concezioni contrattualistiche variamente rappresentate nella sofistica. Che cosa negavano tali concezioni? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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da Aristotele, Etica nicomachea, I.6, trad. C. Natali, Laterza, 1999, pp. 19-23.

Appare chiaro che dire: ’il sommo bene è la felicità’ è una cosa su cui tutti sono d’accordo: ciò di cui si sente il bisogno è che si dica in modo ancora più chiaro che cos’è. Ora, ciò potrà avvenire, forse, se si coglierà qual è l’agire tipico dell’uomo. Infatti, come per un flautista, per uno scultore, per ogni artigiano, e in generale per coloro che hanno un proprio operare o agire, il bene e il successo sembrano consistere nell’opera stessa, così si può credere che ciò valga anche per l’uomo, se è vero che anche l’uomo ha un qualche operare suo proprio1. Ma è dunque possibile che vi siano opere e attività proprie di un falegname e di un calzolaio, e dell’uomo non ve ne sia nessuna, ed egli sia inattivo per natura? O: proprio come appare evidente che dell’occhio, della mano, del piede e, più in generale, di ciascuna delle parti del corpo vi è evidentemente un operare tipico, così anche per l’uomo si può porre una qualche opera propria, al di là di tutte quelle particolari? E quale mai potrà essere, allora? È evidente che il semplice vivere è comune anche alle piante, e che quello che si cerca è qualcosa di specifico. Bisognerà dunque escludere anche la vita consistente nel nutrirsi e nel crescere; dopo di questa viene un certo tipo di vita fatta di sensazioni, ma è evidente che anch’essa è comune sia al cavallo che al bue e a tutti gli animali. Allora rimane solo un certo tipo di vita attiva, propria della parte razionale. Di quest’ultima, una parte è razionale perché obbedisce alla ragione, un’altra è razionale perché la possiede e riflette. Ma siccome anche quest’altra si dice in due modi, bisognerà porre che sia quella in atto, dato che essa sembra essere detta ’razionale’ in senso più appropriato. Se l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non senza ragione, e se diciamo che, quanto al genere, sono identiche l’opera propria di una certa cosa e l’opera della versione eccellente di quella stessa cosa […]2; se è così, poniamo che l’operare proprio dell’uomo sia un certo tipo di vita, la quale consiste in un’attività dell’anima e in un agire razionale, che ciò vale anche per un uomo eccellente, ma

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Lessico ciò che è migliore, il massimo dei beni conseguibili

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Lessico è la ragione pratica

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Lessico è la ragione teoretica, cui la pratica è sottomessa

Lessico la perfezione si acquisisce non con singoli atti, ma con l’acquisizione di uno stile di vita

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1. Per Aristotele non esiste un bene in sé: il bene è relativo al tipo di ente, e consiste nel-

5. Aristotele

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la realizzazione della sua specifica natura. 2. Aristotele sostiene qui che ogni tipo di

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Tutti convengono che il bene più importante nella vita sia la felicità. Essa consiste, secondo Aristotele, nello svolgere al meglio l’attività propria dell’essere umano. E questa non può che essere una vita condotta secondo la parte razionale dell’anima, e “secondo virtù”, cioè nel modo migliore possibile. La razionalità umana ha due aspetti: c’è la razionalità pratica, che ci consente di condurre una buona vita nell’ambiente sociale e nelle relazioni con gli altri, e c’è la razionalità teorica, che si realizza nell’attività puramente conoscitiva o “filosofica”. Ci sarà dunque una felicità della vita pratica e politica, e una felicità della vita conoscitiva, che, come chiarirà Aristotele nel libro X dell’Etica nicomachea, è quella più elevata.

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Obiettivo polemico, Argomentazione



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Che cos’è la felicità?

ente raggiunge l’eccellenza quando compie la propria operazione specifica.

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3. Il bene per l’uomo non consiste soltanto nelle attività connesse alla ragione, ma soprattutto nel loro esercizio eccellente, nella virtù.

in modo buono e nobile, e che ogni singola cosa raggiunge il bene in modo completo secondo la virtù sua propria; se è vero tutto ciò, il bene umano risulta essere attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta3. E inoltre, in una vita completa: infatti, come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno, o un breve spazio di tempo, non fanno felice e beato nessuno.

ANALISI DEL TESTO Guida alla lettura Il brano si propone di chiarire in che cosa consista la felicità, che è per l’uomo il più importante dei beni. L’argomentazione assume un presupposto che è tipico della ricerca naturalistica aristotelica: per comprendere qual è il bene sommo di un ente bisogna prima capire quale sia la sua attività tipica, cioè quella che, tra le altre, lo caratterizza in quanto è quell’ente. In analogia con altre realtà (che siano soggetti, come il falegname, il calzolaio, o parti di un tutto, come l’occhio, la mano e così via), il sommo bene consisterà infatti in quello specifico operare in vista del quale l’ente stesso esiste (il falegname esiste in vista del manufatto, l’occhio per la vista). Ora, tra le varie attività svolte dall’uomo quella che gli è propria è indubbiamente l’esercizio della ragione (che nessun altro vivente in natura possiede). Dato che la ragione consta di due componenti (una pratica, relativa all’azione, e una teoretica, relativa alla contemplazione), il sommo bene, cioè la felicità, si otterrà quando ci si dedica all’attività speculativa e, insieme, si agisce secondo virtù (cioè obbedendo alla ragione e non alle parti istintuali). Felice è dunque l’uomo che conosce e che è virtuoso, ma non in modo saltuario o temporaneo:

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la felicità è uno stile di vita cui si giunge quando queste attività diventano una seconda “natura” dell’uomo, e si struttura nel nostro agire una stabile conformità ai dettami della ragione. Obiettivo polemico Aristotele rifiuta l’idea che il Bene sia un criterio astratto, sul modello dell’idea platonica, cui tutte le cose buone tendono. Egli muove invece dall’idea che per ogni tipo di ente che costituisce il cosmo si dia un bene specifico, che consiste nell’assolvere la propria funzione, in vista dell’armonia del tutto. Argomentazione Lo stile argomentativo del passo è rappresentativo del metodo aristotelico: si assume una premessa di carattere più generale (qui: il bene per ogni ente consiste nell’esercizio della propria operazione specifica, se ne ha una), valida cioè per casi di diversa natura, e si applica a un caso particolare, in questo caso l’uomo. Da ciò, per deduzione, si ricava una conclusione (il bene per l’uomo è l’esercizio della razionalità), che risulta perciò in linea con le conclusioni delle diverse scienze, oltre che con l’impianto teorico in generale.

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da Aristotele, Parti degli animali, I.5, trad. M. Vegetti. UTET, 1996, pp. 581-582.

Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e incorruttibili, esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano della generazione e della distruzione. Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver minori conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su quanto aneliamo di sapere. Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente: molte conoscenze relative a ciascun genere può infatti ottenere chi voglia adoperarvisi adeguatamente. Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza. Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano. Le altre realtà, però, grazie alla possibilità di conoscerle in modo più profondo e più esteso, danno luogo a una scienza più vasta; inoltre, giacché sono più vicine a noi e più familiari alla nostra natura, ristabiliscono in qualche modo l’equilibrio con la filosofia vertente sulle cose divine. Poiché di queste ultime abbiamo già trattato, dichiarando quanto a noi appariva, resta da parlare della natura vivente per quanto possibile nulla trascurando, umile o elevato che sia. E perfino circa quegli esseri che non presentano attrattive sensibili, tuttavia, al livello dell’osservazione scientifica, la natura che li ha foggiati offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo. Sarebbe del resto illogico e assurdo, dal momento che ci rallegriamo osservando le loro immagini poiché al tempo stesso vi riconosciamo l’arte che le ha foggiate, la pittura o la scultura, se non amassimo ancor di più l’osservazione degli esseri stessi così come sono costituiti per natura, almeno quando siamo in grado di coglierne le cause. Non si deve dunque nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso1. E come Eraclito, a quanto si racconta, parlò a quegli stranieri che desi-

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Lessico sono gli astri, eterni

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Lessico gli enti del mondo sublunare, terrestre

Lessico non solo il motore immobile è principio divino, ma tutte le sfere celesti lo sono, composte di etere e in movimento circolare uniforme

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Lessico filosofo è colui che conosce le vere cause dei fenomeni

1. In questo acceso interesse per il mondo naturale, in tutte le sue espressioni, si rintraccia appieno lo spirito del grande naturalista Aristotele (con i suoi scritti egli ha dato un impulso fondamentale alla zoologia e all’anatomia comparata).

5. Aristotele

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Gli astri sono per Aristotele realtà eterne, vicine alla divinità, e presentano perciò una perfezione meravigliosa. Ma non meno meraviglioso è il mondo della restante natura vivente a chi sappia riconoscerne l’armonia, l’ordine, il perfetto funzionamento dei corpi in relazione alle loro finalità vitali. Lo studio scientifico della natura, per chi sia in grado di comprendere le cause e gli scopi che orientano i suoi processi, non è dunque meno nobile e degno di quello dei cieli. Aristotele dedica infatti circa un terzo di tutte le sue opere a questo ambito di ricerca.

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Obiettivo polemico, Retorica



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Elogio della biologia

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deravano rendergli visita, ma che una volta entrati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa di cucina (li invitò ad entrare senza esitare: «anche qui, disse, vi sono dèi») - così occorre affrontare senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacché in tutti v’è qualcosa di naturale e di bello. Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della natura, e massimamente: e il fine in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello. Se poi qualcuno ritenesse indegna l’osservazione degli altri animali, nello stesso modo dovrebbe giudicare anche quella di se stesso; non è infatti senza grande disgusto che si vede di che cosa sia costituito il genere umano: sangue, carni, ossa, vene, e simili parti.

IMPARA A IMPARARE: COSTRUISCI TU L’ANALISI DEL TESTO



L’A N T O L O G I A



Guida alla lettura Integra e approfondisci la lettura guidata, svolgendo le attività proposte. Il brano può essere suddiviso in tre parti. Nella prima (righe 1-11) Aristotele pone una distinzione tra gli enti eterni, più nobili, e quelli composti da elementi e perciò soggetti a generazione e corruzione. Sulla base di questa distinzione si determinano i due ambiti della scienza naturale, cioè l’astronomia e, potremmo dire in termini generali, la biologia. Il primo ambito, eccellente per dignità, è più difficile da indagare del secondo, che è per noi più familiare. 1. Sulla base di quale criterio Aristotele distingue le due scienze? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Aristotele afferma poi (righe 12-22) che queste astronomia e biologia producono nell’uomo che le coltiva un piacere sostanzialmente equivalente. 2. Sapresti spiegare il perché? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Nella terza parte (righe 23-49) Aristotele esorta il lettore a superare l’iniziale e infantile disgusto per gli esseri più umili del mondo naturale. Dall’indagine su questi enti può ricavare una grande (e inaspettata) gioia il filosofo che ne conosca le cause. 3. Qual è l’aspetto della ricerca naturalistica degno di stupore, che perciò, secondo Aristotele, occupa la “regione del bello”? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

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Obiettivo polemico Pur polemizzando contro il privilegio che la scuola platonica conferiva agli studi astronomici e riconoscendo dunque piena dignità al mondo sublunare, Aristotele ritiene che il mondo sovralunare abbia una natura eccellente. Che caratteristiche hanno infatti gli astri secondo Aristotele? ........................................................................................................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................................................................................................

Retorica Nell’ultimo passo Aristotele invita coloro che dubitano della bellezza della ricerca naturalistica a riflettere sulla costituzione del corpo umano. Questo è costituito da membra, carne, sangue, tutte componenti che, a ben guardare, non sono dissimili per dignità dalle altre componenti del mondo. A che scopo egli rievoca la struttura del corpo umano?



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Piero di Cosimo, Incendio nella foresta, particolare, 1500 ca. Oxford, Ashmolean Museum.

5. Aristotele

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CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Il principio democratico

Aristotele e le forme di governo Nell’ambito della sua riflessione sull’esercizio del potere e sul problema di chi debba comandare, Aristotele elabora una teoria delle forme costituzionali che è divenuta classica. Aristotele indica un criterio in base al quale le varie forme di governo si distinguono a seconda del numero dei governanti. Su questa base egli individua tre forme di governo: la monarchia, se governa uno solo; l’aristocrazia, se governano pochi; la politèia, cioè una forma costituzionale mista caratterizzata da elementi aristocratici e, se a governare è la maggioranza dei cittadini, da elementi democratici. Quando chi governa esercita il potere a proprio vantaggio, allora le forme di governo degenerano: la monarchia diviene tirannide, l’aristocrazia diviene oligarchia mentre la politèia diviene democrazia. Principio democratico e costituzionalismo moderno Il principio democratico è l’elemento fondamentale in base al quale sono organizzati i sistemi repubblicani. In questi sistemi il governo fa capo alla volontà dei

Leggi Aristotele «Abbiamo l’abitudine di chiamare regno quel governo monarchico che si propone il bene pubblico, e aristocratico il governo di pochi […] quando si propone il bene comune; quando la massa regge il governo in vista del bene pubblico, a questa forma di governo si dà il nome di politèia, con cui si designano in comune tutte le costituzioni». «Le degenerazioni delle precedenti forme di governo sono la tirannide rispetto al regno, l’oligarchia rispetto all’aristocrazia e la democrazia rispetto alla politèia. Infatti la tirannide è il governo monarchico esercitato in favore del monarca, l’oligarchia mira all’interesse dei ricchi, la democrazia a quello dei poveri; ma nessuna di queste mira all’utilità comune».

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[…] è necessario che il potere sovrano sia esercitato da uno solo, da pochi, o dai più. Quando [questi] esercitano il potere in vista dell’interesse comune, allora si hanno […] le costituzioni rette; mentre […] esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni. (Aristotele) cittadini, che esercitano la loro sovranità prendendo decisioni in modo diretto (democrazia diretta) o delegando tale sovranità ai rappresentanti che i cittadini scelgono attraverso il voto (democrazia indiretta). Nella democrazia diretta lo strumento principale di espressione della volontà popolare è costituito dal referendum, tramite il quale il popolo è chiamato a esprimersi votando su una determinata questione. Nella democrazia indiretta, invece, i cittadini votano alle elezioni per eleggere i candidati selezionati dai partiti politici: chi ottiene maggiori consensi acquisisce maggior potere. Il principio democratico nella Costituzione La Costituzione italiana si apre con un’affermazione del principio democratico per cui il potere politico nello Stato repubblicano trova la propria legittimazione anzitutto nel consenso del popolo, che è titolare della sovranità e la esercita eleggendo i propri rappresentanti al Parlamento. Per “popolo” non si intende una totalità, ossia un soggetto unitario con una sola volontà, esigenze uniformi e concezioni di vita che coincidono; questa idea della sovranità popolare, infatti, condurrebbe a una interpretazione totalitaria della democrazia.

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Per il principio democratico, sul quale si fondano gli Stati repubblicani, le varie categorie sociali di cittadini sono chiamate attraverso il voto a scegliersi i propri rappresentanti politici che daranno vita al governo.

La Costituzione italiana indica quindi il modo e i limiti entro i quali il popolo può esercitare il potere nell’ambito di questa democrazia: è la Costituzione stessa a prescrivere le regole del gioco politico. Nel regime democratico della Repubblica italiana, quindi, la forma di governo delineata dalla Costituzione italiana è caratterizzata da separazione dei poteri, democrazia rappresentativa, sistema parlamentare e presenza dei partiti politici. La separazione dei poteri consiste nella suddivisione del potere dello Stato in tre funzioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria) e nell’attribuzione di ciascuna di esse a organi diversi e indipendenti tra loro. Questo contribuisce a costruire un equilibrio di pesi e contrappesi grazie al quale tutte le parti sono fondamentali ma nessuna, da sola, è indispensabile. La democrazia rappresentativa si basa su una corrispondenza di intenti fra rappresentanti e rappresentati: la legge viene deliberata in Parlamento, ma fra questo e il popolo sovrano esistono dei collegamenti, cioè le elezioni e i partiti politici. Per “sistema parlamentare” si intende quel nesso, fra Parlamento e Governo, in base al quale al primo spetta la supremazia politica sul secondo: il Parlamento è l’organo più ampio, che rappresenta tutto il popolo e ha una funzione deliberativa; il Governo è l’organo più limitato, che ha la funzione di agire concretamente. Il nesso tra Parlamento e Governo è costi-

Leggi la Costituzione Art. 1 L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Art. 49 Tutti i cittadini hanno diritto di asso-

ciarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale […]. Art.50 Tutti i cittadini possono rivolgere petizio-

ni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.

tuito da un rapporto di fiducia: il Governo deve avere l’appoggio politico della maggioranza parlamentare, espresso appunto con il “voto di fiducia”; se il Parlamento gli toglie la fiducia (con il “voto di sfiducia”), il Governo deve dimettersi. La presenza dei partiti politici è molto importante: i deputati e i senatori eletti in Parlamento, infatti, essendo stati scelti come candidati dei partiti, non possono agire secondo il proprio giudizio personale, ma devono tendenzialmente seguire le indicazioni del proprio partito.

RIELABORA E RIFLETTI 1. Illustra le tre forme di governo individuate da Aristotele e le loro possibili degenerazioni (max 4 righe). 2. Spiega in che cosa consiste il principio democratico espresso dalla Costituzione italiana (max 5 righe). 3. In un testo di almeno 10 righe descrivi la forma di governo delineata dalla Costituzione italiana.

5. Aristotele

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6. Che cos’è il bene?

431-404 a.C. Guerra del Peloponneso tra Sparta e i suoi alleati e Atene e la Lega di Delo.

492-479 a.C. Guerre greco-persiane. Si afferma l’egemonia di Atene.

EVENTI FILOSOFI

LE RISPOSTE

427 a.C. Platone nasce ad Atene.

I FILOSOFI E LE LORO TESI

UNICITÀ DEL BENE: esiste un solo bene supremo

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Platone il bene supremo e unico è costituito dall’idea del Bene ed è collocato al di fuori della dimensione dell’esistente: è ciò che non è ancora e deve essere realizzato T1 Il bene ha una funzione analoga a quella del sole

RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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La vita è l’anelito al bene. L’anelito al bene è la vita. (Lev Tolstoj, I cosacchi)

404-403 a.C. Fine della guerra del Peloponneso e fine dell’egemonia ateniese. Ad Atene viene instaurato il regime dei Trenta Tiranni.

371-362 a.C. Grazie a Epaminonda si afferma l’egemonia di Tebe.

338-336 a.C. Filippo, re di Macedonia, ottiene l’egemonia sulla Grecia centrale.

384 a.C. Aristotele nasce a Stagira.

334-324 a.C. Alessandro, figlio di Filippo, conquista l’Impero persiano.

347 a.C. Platone muore .ad Atene.

ci sono almeno tanti beni quante sono le categorie e il bene è collocato nella dimensione dell’esistente: è ciò che è già T2 Il bene si dice in molti modi T3 Il bene non è uno

6. Che cos’è il bene?

I FILOSOFI E LE LORO TESI

Aristotele

322 a.C. Aristotele muore a Calcide.

LE RISPOSTE

MOLTEPLICITÀ DEI BENI: non esiste un unico bene, valido per tutte le cose

323 a.C. Morte di Alessandro Magno.

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✔ Filosofia e letteratura: T4 Virgilio, L’annuncio del bene futuro per gli uomini T5 Petrarca, L’amore per Laura guida al sommo bene 09_cap6.indd 267

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1. Platone è amico ma ancora più amica è la verità Due vie filosofiche esemplari

Divergenze nella continuità

L’eredità platonica: stessi mattoni, nuovo edificio

Prescrizione platonica e descrizione aristotelica

Cambiare il mondo o conoscerlo?

Conoscere l’ordine del reale

Il rifiuto della dottrina delle idee

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Platone e Aristotele non sono solamente i maggiori filosofi dell’antichità, ma rappresentano due modi diversi di concepire la pratica filosofica. Essi hanno fondato due scuole filosofiche destinate a durare quasi tre secoli, ma anche dopo la loro chiusura, nel I secolo a.C., e per molti secoli, molti pensatori hanno trovato quasi naturale definirsi “platonici” o “aristotelici”. Ci sono state fasi in cui le divergenze tra il platonismo e l’aristotelismo hanno preso il sopravvento sulle convergenze; non sono mancati però periodi nei quali platonici e aristotelici hanno fatto prevalere le ragioni della continuità tra i due grandi filosofi. Per affrontare la questione dei punti di contatto e di lontananza tra Platone e Aristotele esamineremo l’atteggiamento filosofico di quest’ultimo, che per vent’anni è stato allievo e collaboratore di Platone nell’Accademia, e ci concentreremo su uno dei temi dai quali le profonde differenze tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele emergono: il tema del bene. Introducendo Aristotele nel capitolo a lui dedicato, abbiamo osservato che egli non è mai del tutto platonico, se con questo termine pensiamo a un’adesione incondizionata al pensiero del maestro; ma in un certo senso Aristotele platonico lo è sempre, se ci riferiamo al modo di porre i problemi e alle categorie filosofiche utilizzate. Con un’immagine che può forse aiutarci a comprendere il senso del rapporto di Aristotele con Platone, si può dire che Aristotele eredita da Platone i mattoni con cui quest’ultimo aveva costruito il suo edificio filosofico, ma li dispone in modo da costruire un altro edificio. Tra le numerose differenze che ci sono tra i due filosofi una, in particolare, vale la pena di essere sottolineata. Questa, infatti, esprime in modo chiaro la diversità dei loro atteggiamenti filosofici: Platone privilegia un atteggiamento di carattere prescrittivo o normativo, mentre Aristotele si muove all’interno di un’ottica descrittiva. Ciò significa che per Platone il compito fondamentale della filosofia è stabilire norme e valori in riferimento ai quali modificare l’esistente; Aristotele ritiene invece che la filosofia debba conoscere (e descrivere) l’esistente, senza pretendere di trasformarlo. In altre parole: Platone vuole cambiare il mondo, Aristotele vuole soltanto conoscerlo e descriverlo. Aristotele ritiene che Platone attribuisca alla filosofia un eccesso di pretese: secondo Aristotele, la filosofia deve solo conoscere il modo in cui stanno le cose; Platone, invece, pretende che essa le trasformi. Tale pretesa appare tanto più insensata a chi sostenga, come fa Aristotele, che le cose (sia quelle naturali sia quelle umane) sono già ordinate e razionali e non occorre modificarle. Il distacco di Aristotele da Platone è espresso dal rifiuto dell’atteggiamento prescrittivo di quest’ultimo: a esso Aristotele sostituisce un atteggiamento descrittivo. Tale allontanamento si manifesta specificatamente nel rifiuto della dottrina platonica delle idee: in essa Aristotele vede il sintomo dell’eccesso normativo in cui, a suo avviso, cade la filosofia del maestro. In particolare, trattando del bene, Aristotele sa di non poter affrontare la questione senza menzionare Platone; quest’ultimo aveva individuato nell’idea del bene l’unico e autentico bene che gli uomini perseguono (o devono perseguire). Scrive dunque Aristotele: «È senz’altro meglio esaminare il bene universale e porre la questione su che cosa si vuol dire con esso; anche se una tale ricerca è ardua a causa del fatto che gli amici filosofi hanno introdotto le idee. Ma tutti senza dubbio converranno che è meglio ed è un preciso dovere, quando si tratta della salvezza della verità, eliminare gli aspetti personali, soprattutto se si è filosofi. Benché infatti ambedue le cose [cioè l’amicizia e la verità] siano care, è giusto preferire la verità». Ciò che Aristotele afferma esponendo la propria posizione viene solitamente riassunto con la formula latina Amicus Plato sed magis amica veritas («Platone è amico ma ancora più amica è la verità»). Cioè: l’amicizia con Platone è importante, così come è importante il debito che occorre riconoscere nei suoi confronti; ma ancora più importante è il compito di conoscere la verità e, per assolvere a tale compito, occorre anteporlo all’amicizia e alla riconoscenza nei confronti di Platone. Ogni indagine di Aristotele si muove all’interno del quadro stabilito da questa regola: per Aristotele l’esame di ogni problema non può prescindere da Platone, ma deve anche sapere andare oltre, alla ricerca della verità.

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PER SINTETIZZARE • Quale differenza c’è tra il compito che Platone attribuisce alla filosofia e quello assegnato a essa da Aristotele?

2. Che cosa esiste veramente? Idee contro individui

Priorità del soggetto e del mondo reale

Platone: le idee, unica vera realtà

Le cose sensibili sono copie dei modelli

Aristotele: l’essere in senso pieno è l’individuo

L’individuo è la sostanza primaria

Già nei primi anni della sua permanenza presso l’Accademia platonica Aristotele manifesta le sue riserve nei confronti della teoria delle idee. Alla questione egli dedica l’opera Sulle idee e sezioni di alcuni libri della Metafisica (soprattutto i libri I e XIII). Aristotele muove a Platone due accuse: 1. Platone ha invertito il corretto rapporto tra soggetto e predicato e tra individuo e genere (o universale), assegnando la supremazia al predicato nei confronti del soggetto e all’universale nei confronti dell’individuo; 2. Platone ha separato le idee dal mondo reale, rendendole inutili e negando al mondo quell’ordine e quella razionalità che esso possiede. Per Platone ciò che ha piena realtà non sono le singole manifestazioni della giustizia o della bellezza, l’azione giusta compiuta da qualcuno o la bellezza di una particolare persona: ciò che ha realtà piena sono, invece, l’idea della giustizia e l’idea della bellezza. È grazie a tali idee che le singole azioni giuste e le singole cose belle sono ciò che sono e possiamo attribuire a un’azione o a una persona i predicati “giusto” e “bello”: infatti conosciamo l’idea della giustizia e della bellezza e riconosciamo in certe azioni o in certe cose la manifestazione di queste idee. Secondo Platone le cose sensibili hanno una forma di esistenza inferiore rispetto alle corrispettive idee. Per esempio, l’albero che vedo dalla finestra della mia classe è una copia del vero albero, ossia dell’idea di albero. Le entità sensibili sono ciò che sono in virtù della partecipazione all’idea corrispondente, ed essa ha il primato ontologico. L’idea è in senso perfetto, mentre il particolare sensibile è una manifestazione imperfetta rispetto al modello. Aristotele sostiene, al contrario, che l’essere in senso pieno è quello posseduto dall’individuo (per esempio, il cane che sta abbaiando); i predicati che a questo individuo possono essere attribuiti (per esempio, “fedele” nel caso del cane) esistono solo in quanto esistono gli individui ai quali tali predicati appartengono. In altre parole, secondo Aristotele non esiste l’idea di fedeltà separata dal cane Fido. E, in modo analogo, non esiste l’idea di uomo, indipendente dai singoli individui. L’individuo esiste in modo primario e indipendente; i predicati (come “bello” o “brutto”), le specie (come “uomo”) e i generi (come “animale”) dipendono invece dall’esistenza degli individui concreti. Secondo la teoria di Aristotele questi individui meritano il titolo di sostanza, cioè il titolo di essere; in Platone, invece, tale titolo spettava alle idee.

PER SINTETIZZARE • Quale differenza c’è tra la concezione platonica e quella aristotelica del rapporto tra le idee e gli individui?

3. Che cosa sono le idee? Trascendenza contro immanenza Un errore di Platone: la separazione

Per comprendere le differenze tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele riguardo alla concezione del bene è utile esaminare le loro posizioni sulla nozione di realtà. A Platone, infatti, Aristotele muove una critica che riguarda il suo modo di concepire la

6. Che cos’è il bene?

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Aristotele: le idee sono forme immanenti alla realtà

Contro l’orizzonte normativo

realtà: Platone ha collocato l’ordine al di fuori del mondo sensibile (nelle idee) e ha concepito quest’ultimo come disordinato e imperfetto. Secondo Aristotele l’errore di Platone consiste nella “separazione”: consiste cioè nell’operazione filosofica che estrapola dal mondo esistente i caratteri che esso possiede e li colloca in un mondo superiore, il mondo delle idee. Per Aristotele non è necessario immaginare un secondo mondo, perché l’ordine si trova già in questo. Aristotele sostiene che le idee sono immerse nella realtà sensibile e costituiscono il principio di intelligibilità di questa realtà. Le idee non sono entità separate: esse sono forme immanenti, immerse nella materia, e possono così rappresentare l’essenza autentica delle cose sensibili. Il più grave difetto delle idee di Platone consiste, secondo Aristotele, nella loro inutilità: poiché sono separate, le idee sono inutilizzabili. Come si è già detto, una delle differenze più evidenti tra il platonismo e l’aristotelismo consiste nell’atteggiamento prescrittivo del primo e in quello descrittivo del secondo. Tale differenza emerge anche nella concezione della realtà sostenuta dai due filosofi: • Platone costruisce un orizzonte normativo, rappresentato dalle idee (che sono perfette e razionali); • Aristotele riconosce nel mondo delle cose sensibili un ordine e una razionalità, che il filosofo deve descrivere.

PER SINTETIZZARE • Perché, secondo Aristotele, le idee platoniche sono inutili ai fini della rappresentazione dell’essenza delle cose sensibili?

4. Prescrivere o descrivere? Il bene La critica a Platone in ambito etico e politico

Il Bene platonico compendio di tutte le prospettive filosofiche T1

Aristotele: non esiste un unico bene T2

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La critica di Aristotele a Platone è particolarmente incisiva nell’ambito della filosofia pratica, che include l’etica e la politica. Aristotele polemizza con la pretesa platonica di modificare la realtà esistente stabilendo principi ai quali gli uomini e le città dovrebbero conformarsi. Infatti Aristotele respinge l’idea che il valore e la razionalità siano collocati al di fuori del mondo, in un altro mondo (quello delle idee e della ragione). Tanto nel dominio dei valori morali quanto in quello delle costituzioni politiche Aristotele rimprovera a Platone di non avere riconosciuto la razionalità intrinseca della realtà; Aristotele ritiene invece che tale razionalità debba essere rintracciata e valorizzata. Inoltre, agli occhi di Aristotele, a Platone fa difetto lo sforzo di comprendere la complessità della realtà. Un esempio significativo è la concezione del bene. Per Platone il bene supremo e unico è costituito dall’idea del Bene. Essa riassume in sé tutte le prospettive filosofiche: 1 la prospettiva etica, in quanto è il valore supremo e il fine di ogni azione; 2. la prospettiva ontologica, in quanto è il principio generatore delle idee, ossia dell’essere; 3. la prospettiva epistemologica, in quanto attiva le potenzialità conoscitive dell’anima e consente a essa di conoscere le idee; 4 la prospettiva politica, perché il riferimento all’idea del Bene consente di orientare le scelte dei filosofi che sono chiamati a governare la città per il bene di tutti gli altri cittadini. La prima mossa di Aristotele nella sua analisi della nozione di bene consiste nel sottoporla al vaglio del sistema delle categorie. Ciò gli consente di osservare che non esiste un unico bene assoluto e valido per tutte le cose. Secondo Aristotele, il bene è esteso come l’essere; dunque, proprio come l’essere, il bene si dice in molti modi. Ciò significa che esistono molti beni, almeno tanti quante sono le categorie. Dal punto di vista della prima categoria, la sostanza, il bene si identifica con Dio e con l’Intelletto supremo (ossia con il primo mo-

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La molteplicità del bene nell’esistente T3

tore immobile). Se invece il bene viene analizzato dal punto di vista della qualità, esso sarà per esempio la virtù. E, ancora, nell’ambito della quantità il bene sarà, per esempio, la giusta misura. Nella scelta di analizzare la nozione di bene sulla base del sistema delle categorie si misura ancora una volta la distanza di Aristotele da Platone. Tale distanza può essere illustrata nel modo seguente: • secondo Platone il bene è collocato in una dimensione diversa rispetto all’essere e al sistema di valori degli uomini: il Bene è ciò che non è ancora, ciò che deve essere realizzato; • Aristotele ricolloca il bene nell’ambito dell’esistente, ossia di ciò che è già; in tal modo, però, Aristotele ne smarrisce la portata normativa. PER SINTETIZZARE • Come viene concepito il bene da Aristotele, in polemica con la concezione platonica?

5. Prescrivere o descrivere? La città

Ruolo politico-sociale di proprietà e famiglia

Argomenti aristotelici contro il comunitarismo platonico

Abbandono della portata critica del pensiero filosofico

Il richiamo di Aristotele alla realtà esistente contro la filosofia platonica raggiunge il culmine nella riflessione politica. Alle pretese platoniche di abolire la proprietà privata e la famiglia Aristotele contrappone la convinzione che il nucleo familiare (inteso in senso sia affettivo sia patrimoniale) abbia un’importante funzione sociale. Secondo Aristotele, esso è utile dal punto di vista socioeconomico ed è giusto che gli uomini sentano come propri la moglie e i figli e abbiano proprietà personali. Se gli uomini non possedessero nulla di privato, osserva Aristotele, non potrebbero esercitare per esempio la virtù della liberalità: non potrebbero cioè essere generosi. Inoltre, gli uomini non dimostrano alcuna cura per le cose comuni, mentre si impegnano a migliorare le cose che sono di loro proprietà. Aristotele respinge così il comunitarismo platonico, ossia la pretesa che gli uomini pensino e agiscano unitariamente e che tutto sia in comune. Come si è accennato, le tesi sostenute da Aristotele contro Platone comportano il pericolo di abbandonare la portata critica del pensiero filosofico. Nella convinzione che ciò che esiste sia di per sé razionale, che i valori di una società abbiano una componente razionale e positiva, si cela il rischio di smarrire la dimensione critica della riflessione filosofica; si rischia cioè di smarrire il senso profondo del platonismo. Esso consiste, infatti, proprio nella ricerca di qualcosa d’altro rispetto all’esistente. PER SINTETIZZARE • Perché Aristotele respinge l’idea, sostenuta da Platone, che la proprietà privata e la famiglia debbano essere abolite?

6. Che cos’è il bene?

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Platone, Il bene ha una funzione analoga a quella del sole Il brano seguente, che contiene una parte del dialogo di Socrate con Adimanto e Glaucone, è tratto dal VI libro della Repubblica. Platone vi affronta il tema dei filosofi re: attualmente regna la demagogia e le anime pure sono costrette all’isolamento; quando i veri filosofi saranno riconosciuti e lo Stato li alleverà, si avranno i filosofi re. Viene poi esaminata l’idea del Bene: solo il filosofo, che dal mondo sensibile si eleva a quello delle idee, avrà nello Stato la funzione svolta nel mondo delle idee dal bene. L’idea del bene è il bene supremo e unico.

da Platone, La Repubblica, 507B-509E, a cura di M. Vegetti, Rizzoli, Milano 2006, pp.823-829.



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1. Inizia a pensare.

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«Anche se gli occhi dispongono della vista e chi la possiede intende servirsene, anche se d’altro lato il colore è presente nel visibile, se non vi si aggiunge un terzo genere naturalmente predisposto a questo scopo, sai bene che la vista non vedrà nulla, e che i colori resteranno invisibili.» «Ma di che genere» disse «stai parlando?» «Di quello» io dissi «che tu chiami luce.» «Dici il vero» ripose. «Per un aspetto non piccolo, il senso della vista e la facoltà d’esser visto sono dunque legati da un nesso ben più nobile di tutte le altre connessioni, sempreché la luce non sia cosa ignobile.» «Sicuramente» disse «tutt’altro che ignobile.» «A quale dunque degli dèi del cielo puoi assegnare il potere di far questo, perché la sua luce fa sì che la nostra vista veda nel migliore modo possibile e che le cose invisibili siano vedute?» «Lo stesso cui la assegni tu» disse «e tutti gli altri: è chiaro infatti che la tua domanda si riferisce al sole.» [...] «Sai che gli occhi» dissi io «quando vengano rivolti verso gli oggetti i cui colori non sono più illuminati dalla luce del giorno, bensì da quella notturna, si indeboliscono e sembrano quasi ciechi, come se non possedessero più la chiarezza della vista?» «Certo» disse. «Quando invece, penso, si rivolgono verso oggetti che il sole illumina vedono distintamente e appare che quegli stessi occhi possiedono tale chiarezza.» «Sì.» «Allo stesso modo concepisci così anche il comportamento dell’anima: quando si fissa saldamente su ciò che è illuminato dalla verità e dall’essere, allora lo pensa e lo conosce e si manifesta nella pienezza del pensiero; quando invece si volge a ciò che comporta oscurità – l’ambito di ciò che nasce e perisce –, allora opina1 e s’indebolisce, mutando su e giù le sue opinioni, e sembra ormai non aver più pensiero.» «Così sembra infatti.» «Ciò che garantisce la verità agli oggetti conosciuti e dà a chi conosce la facoltà di farlo, afferma l’idea del buono: in quanto è causa di scienza e verità, pensala come conosciuta; ma per quanto belle siano en-

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2. Il riferimento è qui sempre alla scienza e alla verità.

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trambe, conoscenza e verità, sarai nel giusto se riterrai che questa idea è diversa e ancor più bella di esse2. Ma come nella sfera visibile la luce del sole e la vista correttamente si possono ritenere simili al sole, ma non è corretto ritenere che esse siano il sole, così in quest’altra sfera è corretto ritenere che scienza e verità siano entrambe simili al buono, ma scorretto sarebbe pensare che l’una o l’altra di esse sia il buono: degna di onori ancor più alti è la condizione del buono.»

Aristotele, Il bene si dice in molti modi

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1. Bene in sé, indipendente da ogni altra cosa. 2. È secondo Platone. 3. L’argomento è, appunto, il bene. 4. Le opinioni degli studiosi sono divise riguardo all’opera cui Aristotele fa qui riferimento: si può pensare allo scritto Categorie, alla Metafisica (libro V) oppure a uno degli scritti di Aristotele che non ci sono pervenuti. 5. La sostanza è, secondo Aristotele, la prima delle categorie. 6. La qualità è una delle dieci categorie ed è, come tutte (a eccezione della sostanza), predicato della prima categoria (ossia della sostanza). 7. Il tempo è un’altra delle dieci categorie ed è predicato della sostanza. 8. Aristotele fa tale affermazione contrapponendosi a Platone.

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6. Che cos’è il bene?

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Cosicché il bene-in-sé1 sarebbe2 l’idea del bene; essa è [...] separata dalle cose che ne partecipano [...]. Ora prendere in esame quest’opinione è compito di un altro corso di studi [...]; ma se bisogna pronunciarsi brevemente sull’argomento3 diciamo allora [...] che affermare l’esistenza di un’idea non solo del bene, ma anche di qualsiasi altra cosa, è dir cosa puramente astratta e vacua. Si è del resto studiato il problema in molti modi […]. Poi, se anche ci sono realmente le idee e l’idea di bene, questa non è forse affatto utile per la vita buona né per le azioni. Il bene, infatti, si dice in molti sensi, tanti quanti sono quelli dell’essere. Come si è distinto in altra sede4, l’essere significa o la sostanza5, o la qualità6, o il tempo7 e inoltre il muovere o l’esser mosso e il bene si trova in ciascuno di questi casi: nella sostanza è l’intelletto e il dio, nella qualità il giusto, nella quantità la misura, nel tempo l’opportunità e nel movimento chi insegna e chi riceve l’insegnamento. E come appunto nemmeno l’essere è qualcosa di uno nelle cose enumerate, così neanche il bene; né c’è una scienza unica né dell’essere, né del bene8. Ma neppure i beni espressi nella stessa categoria spetta di considerarli a una sola scienza, per esempio una che studi l’opportunità o la misura; bensì una scienza diversa studia un’opportunità diversa, una scienza diversa una diversa misura: per esempio, quanto all’alimentazione, sono la medicina e la ginnastica che studiano l’opportunità e la misura, quanto alle azioni di guerra la strategia; e così c’è una scienza diversa per una diversa azione, sicché ben difficilmente proprio lo studio del bene-in-sé apparterrà a una sola scienza. […] Contro l’esistenza di un bene-in-sé, dunque, ci sono difficoltà di questo genere e, inoltre, il fatto che non sarebbe utile alla politica, ma questa ha un suo bene particolare, proprio come anche le altre scien-



da Aristotele, Etica eudemia, 1,8, 1217b14-1218b5, trad. di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 19, 21, 23.



Il brano che segue è tratto dal libro I dell’Etica eudemia di Aristotele. L’opera (composta da otto libri) è stata scritta forse nel periodo compreso tra il 367 e il 347 a.C., durante la permanenza di Aristotele nell’Accademia di Platone. È uno dei quattro scritti di argomento morale giunti dall’antichità sotto il nome di Aristotele e, insieme con l’Etica nicomachea, è sicuramente autentica. Così come nell’Etica nicomachea, il tema centrale dell’Etica eudemia è la felicità.

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9. Ha come bene. 10. Il bene universale, comune a qualsiasi cosa sia detta “bene”.

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ze, per esempio la ginnastica ha9 la buona condizione fisica. […] il bene comune10 né è bene-in-sé (potrebbe essere presente, infatti, anche in un bene di poco conto), né è oggetto d’azione. La medicina non si adopera perché si realizzi il bene che può essere presente in qualsiasi cosa, ma perché ci sia la salute; e allo stesso modo anche ciascuna delle altre arti. Piuttosto, il bene si dice in molti modi [...].

Aristotele, Il bene non è uno



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Il brano seguente è tratto dal quarto capitolo del libro I dell’Etica nicomachea di Aristotele, che è suddivisa in dieci libri e fu composta forse tra il 335 e il 323 a.C. Nel quarto capitolo (come nei capitoli secondo, terzo e quinto) Aristotele espone varie soluzioni date al problema di cosa sia il sommo bene. La soluzione di Aristotele verrà presentata nei capitoli sesto e settimo, ma già nelle righe seguenti emerge il rifiuto della tesi platonica secondo cui il bene supremo e unico è costituito dall’idea del Bene.

da Aristotele, Etica nicomachea, traduzione, introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2007, 1096a11-1096b25, pp. 11, 13, 15. 5

1. Il termine “idea” deriva dal greco èidos o idèa, che significa “forma”, “figura”, “idea”. Secondo la teoria di Platone le idee sono le realtà soprasensibili sulle quali è fondato il mondo sensibile, copia di quello ideale. 2. Con questa espressione Aristotele indica la categoria della sostanza. 3. Con questa espressione Aristotele indica la categoria della relazione. Spesso egli cita solamente alcune delle categorie più importanti per fare riferimento a tutta la serie. 4. Come invece pensava Platone. 5. In questo capoverso viene esposta la seconda obiezione a Platone: Aristotele presuppone la dottrina secondo cui non vi è nulla di più universale delle singole categorie e ne deduce che non c’è un concetto unico di bene.

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[...] è meglio [...] esaminare il bene universale [...]. Quelli che hanno introdotto questa dottrina non hanno posto idee1 nei casi in cui predicavano il prima e il poi, e per questo non hanno posto idee neanche nel caso dei numeri; ora, il bene si dice sia nell’ambito del ‘che cos’è2’, sia nell’ambito della qualità, e anche nel relativo3, e ciò che è per sé [...] viene prima di ciò che è relativo: quest’ultimo sembra come un germoglio [...] dell’essere; e quindi non vi potrà essere una qualche idea comune a tutti questi significati. Inoltre, siccome il bene si dice negli stessi modi in cui si dice l’essere, infatti si dice nella categoria della sostanza, come [...] l’intelletto, e nella qualità, come le virtù, e nella quantità, come la giusta misura, e nella relazione, come l’utile, [...] e via dicendo, allora [...] il bene non potrà essere qualcosa di comune [...] e uno4. Altrimenti [...] lo si direbbe [...] in una [categoria] soltanto5. Inoltre, siccome delle cose che sono secondo una sola idea vi è una sola scienza, ci sarebbe una sola scienza di tutti i beni; [...] invece, anche dei beni che rientrano in una sola categoria vi sono molte scienze: per esempio del momento opportuno si occupa, in caso di guerra, l’arte militare, e in caso di malattia la medicina [...]. [...]i nostri amici6 potrebbero dire che i loro argomenti non sono stati elaborati riguardo a tutta la gamma dei beni, ma che sono i beni perseguiti [...] per sé a essere secondo una sola Forma, mentre quelli che li producono [...] si dicono a causa dei primi [...]. È chiaro dunque che i beni si possono dire in due modi, alcuni per sé, altri a causa di quelli. Separandoli dunque dai beni utili, esaminiamo i beni per sé per vedere se si dicono secondo una sola idea. Ma quali beni uno potrà porre come beni per sé? Forse quelli che sono perseguiti anche da soli,

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6. I platonici. 7. Ossia l’essere saggi e alcuni piaceri. 8. Carbonato basico di piombo, che fin dall’antichità era usato come colore bianco.

come per esempio l’essere saggi [...] e alcuni piaceri [...]? Infatti queste cose [...] uno l[e] potrebbe porre come beni per sé. [...] Se invece anche i beni detti sopra7 fossero tra i beni per sé, la definizione di bene dovrebbe risultare esemplificata da tutti, come quella del bianco è esemplificata sia dalla neve che dalla biacca8; invece le definizioni di [...] saggezza e piacere [...] differiscono tra loro proprio in quanto beni. Quindi il bene non è qualcosa [...] che si dice secondo una sola idea.

Filosofia e letteratura

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1. È Astrea, dea della giustizia, figlia di Giove e di Temi. 2. Antichissimo dio italico, identificato poi con il greco Crono. 3. Lucina (che talora viene identificata con Giunone) è qui Diana, invocata come dea dei parti e della fecondità. 4. Secondo alcuni commentatori antichi è uno dei figli di Asinio Pollione; per altri è Augusto, ma questa seconda ipotesi è risultata errata. 5. Il dio Apollo presiede l’ultima età e, quindi, annuncia l’imminente età dell’oro. 6. Malvagità. 7. Virgilio fa qui riferimento alla funzione mediatrice di Asinio Pollione tra Marco Antonio e Ottaviano, che rende possibile la pace di Brindisi. 8. Il miele viene qui definito rugiadoso perché si riteneva che fosse la rugiada, succhiata poi dalle api sui fiori e trasformata, appunto, in miele.

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[...] È giunta l’ultima età dell’oracolo cumano: ricomincia da capo il grande ciclo dei secoli. Anche la Vergine1 torna, tornano i regni di Saturno2, già una nuova progenie dall’alto cielo discende. Tu, casta Lucina3, proteggi il nascituro4 con cui per la prima volta finirà la stirpe del ferro e ovunque sorgerà quella dell’oro: il tuo Apollo già regna5. Sotto il tuo consolato avrà inizio la gloria di quest’era, Pollione, e cominceranno a passare i grandi mesi; sotto la tua guida, se resterà traccia della nostra nequizia6, sarà cancellata, liberando la terra dalla perpetua paura. Egli [...] reggerà con le virtù del padre il mondo in pace7. Per te, fanciullo, la terra non coltivata effonderà i primi piccoli doni [...]. Da sé le capre riporteranno a casa le poppe gonfie di latte, né gli armenti avranno paura dei grandi leoni; da sé la culla spargerà per te fiori graziosi. [...] Ma appena potrai leggere le gesta degli eroi e le imprese del padre, e conoscere quale sia la virtù, a poco a poco la campagna imbiondirà di morbide spighe, [...] e le dure querce stilleranno rugiadoso miele8. Ma dell’antico male resteranno nascoste poche tracce, che faranno solcare il mare coi navigli, cingere

6. Che cos’è il bene?

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da Virgilio, Bucoliche, Ecloga IV, introduzione, traduzione e note di M. Cescon, Mursia, Milano 1986, pp. 69, 71, 73, 75.

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Il brano seguente è tratto dalla quarta delle dieci ecloghe raccolte nelle Bucoliche del poeta latino Marone Publio Virgilio (70-19 a.C.). Si tratta di brevi carmi pastorali, composti tra il 42 e il 39 a.C. in seguito alle richieste dell’amico Gaio Asinio Pollione (76 a.C.-4 d.C.). Qui il poeta annuncia, dopo lo sconvolgimento causato dalle guerre civili, il ritorno della mitica età dell’oro, che riporterà il mondo alla felice condizione originaria. Segno di questo rinnovamento sarà la nascita di un bambino (cioè Gaio Asinio Pollione). Nella condizione felice qui preannunciata il bene dominerà nell’esistenza umana.



Virgilio, L’annuncio del bene futuro per gli uomini

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9. Le Parche sono le tre divinità del fato; vengono rappresentate nell’atto di filare il destino di ogni uomo, che è immutabile. 10. Cantore e musico originario della Tracia; con il suo canto ammansisce le bestie feroci e muove gli alberi e i macigni. 11. Cantore e musico greco cui vengono attribuite l’invenzione della melodia e l’introduzione dell’alfabeto in Grecia. 12. Musa che presiede alla poesia elegiaca e a quella epica. 13. Dio greco dei boschi, dei pascoli e dei pastori. 14. La ripetizione dell’espressione «giudice Arcadia» serve a sottolineare l’importanza dell’eventuale vittoria conseguita dal poeta su Pan. 15. I romani calcolavano la durata della gravidanza in dieci mesi. 16. Il banchetto con gli dèi e il matrimonio con una dea costituivano la massima aspirazione di un uomo.

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Petrarca, L’amore per Laura guida al sommo bene



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di mura le città e incidere di solchi la terra. [...] Poi, quando l’età adulta ti avrà fatto uomo, anche il navigante si ritrarrà dal mare, né la nave di pino scambierà più merci. Tutta la terra produrrà ogni cosa. Il suolo non patirà rastrelli, né la vigna la falce; anche il robusto aratore scioglierà dal giogo i buoi [...]. «Fate scorrere quei secoli» dissero le Parche9 ai loro fusi, concordi nella ferma volontà dei fati. Insegui, ora ch’è tempo, i grandi onori, cara progenie degli dei, nobile rampollo di Giove! [...] guarda come ogni cosa s’allieti per il secolo che viene! A me rimanga allora l’ultima parte di una lunga vita, e lo spirito bastante per cantare le tue imprese: nel canto non mi vincerà Orfeo di Tracia10, né Lino11, benché la madre sia d’aiuto all’uno e il padre all’altro, a Orfeo Calliope12, a Lino il bell’Apollo. Anche Pan13, se gareggiasse con me, giudice Arcadia, anche Pan, giudice Arcadia14, si direbbe vinto. Comincia, piccolino, a riconoscere la madre dal sorriso (a lei causarono lunghi affanni dieci mesi15), comincia, piccolino: colui cui non sorrisero il padre e la madre, né un dio lo degnò della sua mensa, né una dea del suo letto16.

I componimenti seguenti sono tratti dai Rerum Vulgarium Fragmenta (“Frammenti di cose volgari”) di Francesco Petrarca (1304-1374). L’opera, poi intitolata Canzoniere, è una raccolta di liriche d’amore rivolte a Laura e suddivise in due parti (rime in vita e rime in morte della donna). I primi due componimenti riportati, tratti dalla prima parte, esprimono il sentimento d’amore del poeta per Laura; gli altri appartengono invece alla seconda parte e danno voce al dolore di Petrarca per la morte dell’amata. Ne emerge con forza l’idea dell’amore, e della donna che ne è l’oggetto, come valore fondamentale: in esso Petrarca trova una guida verso il bene supremo.

da Petrarca, Canzoniere, introduzione di R. Antonelli, testo critico e saggio di G. Contini, note di D. Ponchiroli, Einaudi, Torino 2008, pp. 14-15, 421-423. 1. Che io veda. 2. A causa. 3. Lo splendore affievolito. 4. Capelli. 5. Lasciare.

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XII Se la mia vita da l’aspro tormento si può tanto schermire, et dagli affanni, ch’i’ veggia1 per vertù2 degli ultimi anni, donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento3, e i cape’4 d’oro fin farsi d’argento, et lassari5 le ghirlande e i verdi6 panni, e ‘l viso scolorir che ne’ miei danni

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a·llamentar mi fa pauroso et lento7: pur8 mi darà tanta baldanza Amore9 ch’i’ vi discovrirò de’ miei martiri qua’ sono stati gli anni, e i giorni et l’ore10 [...].

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I’ benedico il loco e ’l tempo et l’ora che sì alto miraron gli occhi miei, et dico: Anima, assai ringratiar dêi13 che fosti a tanto honor degnata allora14. Da lei ti vèn15 l’amoroso pensero, che mentre ’l segui al sommo ben t’invia16, pocho prezando quel ch’ogni huom desia17;

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CCCXXXVIII Lasciato ài22, Morte, senza sole il mondo oscuro et freddo, Amor cieco et inerme, Leggiadria ignuda, le bellezze inferme, me sconsolato et a me grave pondo23 [...].

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Pianger l’aer et la terra e ’l mar devrebbe l’uman legnaggio24, che senz’ella25 è quasi senza fior’ prato, o senza gemma anello. [...] 45

CCCXL Dolce mio caro et precïoso26 pegno che Natura mi tolse27, e ’l Ciel mi guarda28, deh come è tua pietà ver’29 me sì tarda, o usato di mia vita sostegno30?

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Già suo’ tu far il mio sonno31 almen degno de la tua vista, et or sostien’32 ch’i’ arda senz’alcun refrigerio: et chi ‘l retarda? Pur lassù33 non alberga ira34 né sdegno: 55

onde35 qua giuso36 un ben pietoso core talor si pasce delli altrui tormenti, sì ch’elli è vinto nel suo regno Amore37. [...]

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da lei vien l’animosa leggiadria18 ch’al ciel ti scorge19 per destro sentero20, sì ch’i’ vo già de la speranza altero21.



6. Giovanili, vivaci di colore. 7. Il poeta indica qui la propria difficoltà di esprimersi in tono lamentoso. 8. Alla fine. 9. In questo verso Amore è il soggetto. 10. Quali sono stati gli anni, i giorni e le ore delle mie sofferenze. 11. Talora. 12. Mi fa innamorare. 13. Devi. 14. Per il fatto che allora fosti resa degna di un onore così grande. 15. Viene. 16. Finché lo segui (ti concentri su di esso) ti guida verso il sommo bene. 17. Attribuendo poco valore a ciò che tutti gli uomini desiderano, cioè ai beni mondani. 18. Bellezza morale. 19. Conduce. 20. Attraverso una via propizia, favorevole. 21. Così che io confido nella possibilità di raggiungere il cielo (attraverso l’amore per Laura). 22. Hai lasciato. 23. Peso. 24. Gli uomini dovrebbero compiangere il mondo (l’aria, la terra e il mare). 25. Laura. 26. Prezioso. Petrarca si riferisce a Laura. 27. Riferimento alla morte di Laura. 28. Custodisce. 29. Verso. 30. Consueto sostegno della mia vita. 31. Tu solevi rendere il mio sonno. 32. Accetti. 33. In cielo. 34. Cruccio. 35. Per i quali (ira e sdegno). 36. In terra, nel mondo terreno. 37. Il significato di questi versi è il seguente: la bellezza è il regno di Amore, ma quando in una donna bella l’amore è vinto dall’odio e dalla crudeltà, Amore è vinto nel suo regno.

XIII Quando fra l’altre donne ad ora ad ora11 Amor vien nel bel viso di costei, quanto ciascuna è men bella di lei tanto cresce ‘l desio che m’innamora12.

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CHE COSA HAI IMPARATO IDENTIFICA LE TESI

I

1 In quale senso si può dire che Aristotele è stato l’erede del pensiero del suo maestro, Platone? 2 Come viene giudicato da Aristotele l’atteggiamento prescrittivo di Platone? 3 Qual è, secondo Aristotele, l’errore insito nella concezione platonica della realtà? 4 Quale differenza c’è tra la filosofia aristotelica e quella platonica sulla questione del rapporto tra il bene e la dimensione della realtà? 5 Quale aspetto del pensiero platonico corre il rischio di essere smarrito nel pensiero di Aristotele? Perché tale rischio è presente? RICONOSCI LE ARGOMENTAZIONI E L’OBIETTIVO POLEMICO

II

1 Come vengono caratterizzate le idee da Platone in T1? A quali entità esse vengono contrapposte? Quale differenza c’è tra le idee e queste altre entità? 2 Nei testi di Platone, T1, e di Aristotele, T2, vengono menzionate le idee e, in particolare, l’idea del bene e ne vengono presentate due concezioni diverse. Esponi tali concezioni, spiega quale differenza c’è tra esse e illustra l’obiezione rivolta da Aristotele alla tesi platonica secondo cui esiste l’idea del bene. 3 In T2 Aristotele sostiene la tesi secondo la quale il bene si dice in molti modi. Spiega come tale tesi viene argomentata. 4 In T3 Aristotele espone la propria tesi sul bene universale, ossia sull’esistenza di un bene comune e unico. Esponi il contenuto di tale tesi, spiega come viene argomentata e indica la tesi cui essa viene contrapposta. 5 In T4 Virgilio descrive le condizioni di vita umane delle quali la nascita di un bambino (Gaio Asinio Pollione) è il preannuncio. Quale concezione del bene emerge dai versi di Virgilio? In particolare, ne emerge l’idea che esistano molti beni diversi (e talora contrastanti) tra loro o l’idea che il bene abbia un carattere universale e sia identico per tutti gli uomini? Riflettendo sulle concezioni platonica e aristotelica del bene, a quale di esse è assimilabile la concezione espressa da Virgilio? III

ANALIZZA IL LESSICO, LA RETORICA E LO STILE

1 In T1 Platone illustra la propria concezione del bene, secondo cui il bene è ciò che conferisce la verità alle cose conosciute e la capacità di conoscerle agli uomini, facendo uso di una comparazione. Ritrovala nel testo e spiegane il significato all’interno della teoria platonica. 2 Per confutare la tesi secondo cui c’è una sola scienza del bene Aristotele ricorre, in T2, ad alcuni esempi concernenti varie discipline. Ritrovali nel testo e commentane l’uso, spiegando perché ritieni che siano efficaci o che non lo siano. 3 Ricostruisci la definizione di “bene” data da Aristotele rileggendo con attenzione il testo T3. 4 Nel brano di Petrarca (T5) viene usata una metafora per descrivere la condizione in cui il mondo (l’aria, la terra, il mare) si trova a causa della morte di Laura, ossia di colei nella quale il poeta ha trovato un sostegno e una guida verso il bene supremo. Ritrova nel testo la metafora usata da Petrarca e commentane l’efficacia.

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CHE COSA NE PENSI TU A

SUGGERISCI UNA CONNESSIONE

Qui sotto è riprodotto un celebre quadro del Rinascimeno italiano, La città ideale, il cui autore resta ignoto (nonostante numerosi tentativi di attribuirlo anche a grandi personalità quali Piero Della Francesca o Leon Battista Alberti). Quale concezione del bene politico illustra? Cerca di motivare la tua risposta.

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B

IMPIEGA ALTRE FONTI

In base alle conoscenze che hai acquisito nel corso dei tuoi studi e agli interessi che hai riusciresti a indicare un’altra concezione della natura del bene e della funzione che esso ha nella vita dell’uomo? Rispondi dedicando un max di 5 righe a questa concezione, indicando nella tua esposizione: • dove hai incontrato questa concezione (chi l’ha formulata, in quali testi l’hai letta e così via); ..................................................................................................................................................................................................................................................... .....................................................................................................................................................................................................................................................

• qual è il contenuto di questa concezione alternativa e quali argomenti vengono presentati per mostrarne la validità. ..................................................................................................................................................................................................................................................... .....................................................................................................................................................................................................................................................

C

ESPRIMI LA TUA OPINIONE

Alla fine di questo capitolo, dopo aver letto i brani tratti da testi filosofici e letterari, e dopo avere riflettuto sulle tue esperienze e sulle conoscenze che hai ricavato da altre fonti, ti sei formata/o un’opinione su ciò in cui consiste il bene e sulla sua natura e, in particolare, sull’esistenza o meno di un bene universale? Prova a esporla in un breve saggio, presentando argomenti a sostegno della tua tesi e tentando di confutare la tesi opposta a essa. Scegli la forma espositiva che ti sembra più adatta per illustrare in modo chiaro ciò che sostieni, facendo eventualmente ricorso a esempi tratti dalla vita quotidiana.

6. Che cos’è il bene?

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7. Epicureismo, stoicismo,

scetticismo 323 a.C. Morte di Alessandro Magno.

264-241 a.C. Prima guerra punica.

218 a.C. Inizio della seconda guerra punica.

183 a.C. Morte di Scipione l’Africano.

149 a.C. Morte di Catone il Vecchio.

300 a.C. Zenone di Cizio fonda ad Atene la scuola stoica (il “portico dipinto”, stoà poikìle).

280-276 a.C. Crisippo nasce a Soli.

146 a.C. Terza guerra punica e distruzione di Cartagine.

102-100 ca. a.C. Nasce Giulio Cesare.

EVENTI EVENTI FILOSOFICI

341 a.C. Epicuro nasce a Samo.

334-333 a.C. Zenone nasce a Cizio.

315 ca. a.C. Arcesilao nasce a Pitane.

306 a.C. Epicuro fonda ad Atene la sua scuola, il Giardino.

265 a.C. Arcesilao diviene scolarca dell’Accademia.

214 a.C. Carneade nasce a Cirene.

Epicuro ed epicurei

• La pratica della filosofia ha come scopo la conoscenza fine a se stessa o aiuta l’uomo a raggiungere la felicità? Le sensazioni sono sempre affidabili o possono indurre in errore? • I corpi sono divisibili? Quali sono le loro componenti ultime? Esiste il vuoto? LE DOMANDE

• In che modo si producono le diverse configurazioni del reale? • È il caso o la necessità a dominare il cosmo? • Esiste una sola spiegazione possibile della realtà fenomenica oppure se ne possono formulare molteplici? • Che rapporto c’è tra piacere e felicità? • Quali sono gli impedimenti che ostacolano l’uomo nella ricerca della felicità? Esiste una ricetta della felicità?

I TESTI

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RISORSE MULTIMEDIALI L’età antica

➥ Lezione LIM ➥ Test

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T1 Epicuro, Gli atomi e il vuoto T2 Epicuro, Esercizio della filosofia e felicità

➥ Tutorial: Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani ➥ Biblioteca: H. Jonas, Le trasformazioni dell'ellenismo

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Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. (Epicuro, Epistola a Meneceo)

48 a.C. Cesare varca il Rubicone e marcia su Roma contro Pompeo.

44 a.C. Cesare viene assassinato in una congiura.

43 a.C. Morte di Cicerone.

31-30 a.C. Conquista romana dell’Egitto.

4 a.C. Seneca nasce a Cordova.

27 a.C. Roma diventa un impero: Ottaviano assume il titolo di “Augusto”.

50 d.C. Epitteto nasce a Ierapoli.

54-68 d.C. Regno di Nerone.

62 d.C. Seneca si ritira dalla vita pubblica.

161 d.C. Marco Aurelio diventa imperatore.

180 d.C. Morte di Marco Aurelio; nasce Sesto Empirico.

Stoici

Scettici

• L’intelletto può conoscere la realtà indipendentemente dalla sensazione?

• Qual è l’origine del turbamento e degli affanni che condizionano la nostra vita?

• Che rapporto c’è tra il segno e il significato di una cosa? • Che cosa è una proposizione?

• Dobbiamo farci coinvolgere dalle nostre passioni o è meglio condurre una vita all’insegna dell’imperturbabilità?

• Si possono individuare ragionamenti la cui evidenza è indimostrabile?

• È valido il principio di non contraddizione formulato da Aristotele?

• Esistono solo corpi o anche entità incorporee?

• Ammettendo che non si dia la possibilità di rendere adeguatamente conto della realtà, qual è l’atteggiamento da tenere? A quali criteri bisogna attenersi, in questo caso, per elaborare le decisioni?

• Che cos’è il cosmo? • Che cosa sono le passioni? Che ruolo svolgono nella vita umana? • Chi è il saggio? • Che cosa è la ragione umana? Qual è la sua funzione? • Che rapporto c’è tra la vita contemplativa e la vita pratica?

• Con quali argomenti è possibile contrastare la filosofia dogmatica e la sua pretesa di formulare giudizi veritieri sulla realtà?

7. Epicureismo, stoicismo, scetticismo

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✔ Cittadinanza e costituzione: Il potere legislativo ✔ Fare filosofia: Felicità

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1. L’ellenismo L’età ellenistica: 323 a.C.-30 a.C.

I grandi regni

Alessandria e Atene

Morte di Aristotele e inizio dell’età ellenistica

La crisi del cittadino e il suo riflesso nelle scuole filosofiche ellenistiche

La ricerca della felicità e il ruolo consolatorio della filosofia

Un tratto comune: l’interesse morale

Il confronto con Platone e Aristotele

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Si è soliti indicare con il termine “ellenismo” il periodo compreso fra la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) e la definitiva conquista romana del regno d’Egitto (31-30 a.C.). Si tratta di una fase storica che vede il formarsi di un modello nuovo di civiltà, capace di sintetizzare con originalità elementi derivanti dal mondo greco e da quello orientale. Sul piano delle strutture politiche, avvennero profondi mutamenti dopo le ampie conquiste di Alessandro Magno. In primo luogo, infatti, sullo sfondo di un generale declino delle città greche, sempre più lacerate da divisioni e conflitti interni, si assiste alla creazione all’interno del bacino del Mediterraneo di una serie di grandi e potenti regni: i maggiori sono quelli di Macedonia, di Pergamo, di Siria, d’Epiro e quello d’Egitto. Alessandria, capitale d’Egitto, grazie a strutture come il suo Museo e la sua imponente Biblioteca diventa a poco a poco il primo centro culturale del mondo antico. Dal punto di vista dell’insegnamento e della diffusione della filosofia, invece, la centralità di Atene resta salda almeno fino al I secolo a.C., anche dopo l’affermazione graduale ma sempre più capillare della potenza romana. Questo mutato quadro geo-politico non resta senza conseguenze e investe tutti gli aspetti della vita e della cultura di questo periodo. Si affermano per esempio nuove forme artistiche, si diversifica e si rinnova il panorama letterario (che si appoggia anche, elemento da non trascurare, alla diffusione di una lingua unificata, comune: la cosiddetta koinè diàlektos) e sorgono culti e credenze che affiancano o sostituiscono la tradizionale religione cittadina. In modo ancor più decisivo, seguendo la tendenza inaugurata da Aristotele nella sua scuola, si assiste a una progressiva specializzazione delle singole scienze, che acquisiscono metodologie e ottengono risultati capaci di rendere sempre più solida la loro autonomia.

1.1 Le scuole filosofiche Non fa eccezione, sullo sfondo dei cambiamenti complessivi appena descritti, lo sviluppo del pensiero filosofico: anch’esso è segnato dalla comparsa di scuole e tendenze che si differenziano dalla riflessione platonica e aristotelica; la stessa morte di Aristotele nel 322 a.C., del resto, viene quasi a coincidere, significativamente, con l’inizio convenzionale dell’età ellenistica. Secondo un’interpretazione a lungo sostenuta, e non priva di fondamento, le cosiddette filosofie ellenistiche sono una risposta allo stesso tempo profonda e radicale alla crisi in cui sarebbe caduto l’individuo (o meglio il cittadino) greco a causa della perdita di autonomia e di potere decisionale della pòlis dovuta al sorgere di organismi statali monarchici autoritari e accentratori. Una simile situazione avrebbe indotto la riflessione filosofica a rivolgersi non più verso l’esterno, verso la costruzione di valori e strutture politiche comuni e condivise, quanto piuttosto verso l’interno della persona. L’obiettivo diventa quindi quello di assicurare la felicità all’uomo, garantendogli almeno tranquillità, imperturbabilità e salvezza di fronte a vicende e situazioni che sfuggivano al suo controllo, e sembravano in balia della sorte. Alla filosofia tocca allora un compito di intima conciliazione o ancora più precisamente di consolazione, di offerta terapeutica di utili “ricette per vivere bene”. La meta ultima è la realizzazione di una virtù o perfezione individuale spesso incarnata nella figura più o meno ideale del saggio (o sophòs), capace di dominare le angosce generate dal mondo esterno. Come ogni generalizzazione, questa presentazione ha insieme pregi e difetti. Il pregio maggiore consiste nell’aver rilevato il tratto comune delle scuole filosofiche ellenistiche, in particolare l’accentuato interesse per l’aspetto morale, che si colloca sullo sfondo della proposta di un’arte della vita (capace di assicurare un controllo soddisfacente su ogni aspetto dell’esistenza personale). Tra i difetti maggiori di questa presentazione, tuttavia, vi è forse la sottolineatura eccessiva degli aspetti negativi della realtà politica inaugurata dai regni ellenistici; oltre a ciò, rischia di rimanere nell’ombra lo sforzo di costruzione di sistemi filosofici complessivi attestati nello stoicismo, nell’epicureismo e nelle prime forme di scetticismo, che ebbero interessi ben

L’età antica

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L’ellenismo: un quadro articolato, originale e fecondo

più ampi di quello esclusivamente morale. I pensatori di queste scuole si cimentarono infatti in una riflessione non solo etica, ma logica, epistemologica, fisica e teologica, probabilmente stimolati anche da un confronto serrato con le posizioni platoniche e aristoteliche, nonché da una ripresa originale di dottrine di alcuni dei cosiddetti presocratici. Una ricostruzione attenta delle principali tesi sostenute dalle filosofie ellenistiche deve infatti tener conto di questi diversi fattori e, in più, del fatto che esse sorsero all’interno di vere e proprie scuole o “sette”, ben consolidate nell’organizzazione e nelle convinzioni dottrinali e spesso contrassegnate da relazioni conflittuali tra di loro. Il rischio che la storiografia in passato ha corso è quello di rappresentare questa fase filosofica come un’età di povertà teorica o peggio ancora di decadenza (sulla scia, spesso, di pregiudizi anti-empiristici e anti-materialistici duri a morire). Se ne devono invece ribadire l’originalità e il valore, che giustificano pienamente la rinascita di interesse mostrato negli ultimi decenni rispetto a epicureismo, stoicismo e scetticismo ellenistici. Si tratta, infatti, di movimenti di pensiero capaci di produrre visioni del mondo e dottrine di validità universale, che lasceranno una traccia profonda non solo nel successivo sviluppo della filosofia pagana, ma anche nella complessa formazione del pensiero cristiano.

CARATTERI PRINCIPALI DELL’ELLENISMO CRISI DELLA PÒLIS: si impongono nuove monarchie autoritarie e accentratrici

crisi del cittadino e dei suoi valori

NECESSITÀ DI RIPENSARE I VALORI = INIZIO DI UNA NUOVA FASE FILOSOFICA = ELLENISMO

questa nuova fase assume come centrale la questione morale = ricerca della felicità (ma permane l’interesse per la fisica, la logica, l’epistemologia, la teologia)

EPICUREISMO

STOICISMO

SCETTICISMO

PER SINTETIZZARE • A quale particolare avvenimento è legato lo sviluppo del pensiero filosofico? • Qual è il compito della filosofia?

7. Epicureismo, stoicismo, scetticismo

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L’IMPERO DI ALESSANDRO MAGNO

ROMA ALLA FINE DELL’ETÀ REPUBBLICANA

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L’età antica

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2. L’epicureismo Le risposte per un mondo nuovo

La dottrina proposta da Epicuro appare senza dubbio come uno sforzo globale di trovare risposte adeguate a quelle domande, che noi oggi definiremmo esistenziali, suscitate dalla mutata situazione generale del mondo greco in età ellenistica. Epicuro intende offrire nuovi punti di riferimento per poter governare la propria vita in modo da renderla compatibile con la più ampia struttura politica e sociale in cui ora ci si trova a operare. Così facendo, egli elabora una filosofia in grado di competere con quelle di Platone e di Aristotele, con i quali anzi egli dialoga in modo critico e libero, costruendo così un modello alternativo di spiegazione del mondo naturale e umano.

La formazione di Epicuro: Democrito, Platone e Aristotele

Nonostante Epicuro (nato nel 341 a.C. nell’isola di Samo) rivendichi con orgoglio di essere completamente autodidatta, da molte testimonianze possiamo ricavare che egli ebbe certamente una qualche forma di discepolato presso questo o quel filosofo (di scuola democritea o platonica).

2.1 Le ragioni di Epicuro

FILOSOFI A CONFRONTO

Le sue dottrine vanno dunque collocate lungo una linea allo stesso tempo di continuità e di consapevole frattura nei confronti soprattutto di Democrito, ma anche, come già ricordato, di Platone o di Aristotele: solo così è possibile comprendere a pieno l’originalità della sua posizione.

Il Giardino ad Atene: una scuola aperta a tutti

La filosofia conduce verso la felicità

T1

Stereotipi e condanne

Edonista e ateo

Dopo una serie di sedi periferiche (isola di Lesbo e Lampsaco), a partire dal 306 a.C. Atene diventa il luogo per eccellenza della diffusione del pensiero epicureo. Qui, all’interno del cosiddetto “Giardino”, Epicuro fonda la sua scuola, accogliendo chiunque chiedesse di farne parte – perfino prostitute e schiavi –, senza distinzioni di età, sesso, ceto o preventiva formazione culturale. Si crea in tal modo una comunità retta da una profonda venerazione per il maestro e da una fedeltà completa alle sue teorie, come ci è attestato da molteplici testimonianze, anche tarde (II secolo d.C.). L’atteggiamento di apertura verso tutti che contraddistingue Epicuro non solo rappresenta un chiaro segnale di discontinuità rispetto al passato, ma incarna in modo evidentissimo una convinzione di fondo che sembra sorreggere l’intero impianto del suo messaggio. Egli è infatti assolutamente sicuro che esista uno strumento in grado di sostenere l’individuo nel suo quotidiano confronto con la vita, che si rivela spesso molto difficile, e di condurlo alla meta indiscussa della felicità. Questo strumento è la filosofia, che è efficace in ogni età della vita, come attesta la pagina di apertura di un suo scritto: «Né il giovane indugi a filosofare né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani né troppo vecchi per la salute dell’anima. […] Meditare bisogna su ciò che procura la felicità, poiché invero se essa c’è abbiamo tutto, se essa non c’è facciamo tutto per possederla» (Epistola a Meneceo, par. 122). 2.1.1 Le accuse e le fonti Nonostante l’insistenza delle fonti nel dipingere un Epicuro ostile nei confronti dei suoi avversari ma estremamente mite e ben disposto verso i suoi allievi, si deve registrare, tranne rare eccezioni, una costante avversione nei confronti della filosofia epicurea. In particolare deve essere ricordato il giudizio fortemente critico già attestato da Cicerone e diventato via via martellante da parte degli autori cristiani, che ha finito con il sommergere l’epicureismo sotto stereotipi tanto negativi quanto inaccettabili. Epicuro è stato infatti raffigurato come un edonista piatto e volgare, dedito solo al «piacere del ventre», laddove testi di diversa provenienza concordano invece nel ribadire la sua frugalità di vita, la sua generosità, la sua costante forza d’animo esibita e trasmessa a discepoli e amici. Ancora, e forse anzi soprattutto, è spesso emersa la volontà di trasformare Epicuro in un ateo radicale, un negatore eretico della funzione provvidenziale della divi-

7. Epicureismo, stoicismo, scetticismo

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L’acquisizione dei testi e la rivalutazione

Le fonti indirette

Logica, fisica, etica

La logica come parte del “canone”, strumento per conoscere la realtà

Il sensismo alla base del processo conoscitivo

Le anticipazioni o prolessi: i concetti

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nità, nel principe di tutti coloro «che l’anima col corpo morta fanno», come dirà in modo perentorio Dante (Inferno, 10,15). Si tratta di condanne storiografiche diffuse e persistenti, da cui è possibile liberarsi solo attraverso un riesame diretto, attento e privo di pregiudizi dei testi epicurei, che abbiamo via via acquisito in modo più completo. Grazie ai fortunati ritrovamenti dei papiri di Ercolano, per esempio, abbiamo progressivamente acquisito la possibilità di leggere in originale frammenti dell’opera maggiore di Epicuro, intitolata Sulla natura, che nei suoi trentasette libri restituisce dottrine estremamente dettagliate su questo o quell’aspetto della concezione fisica epicurea. Per Epicuro e l’epicureismo, come per i primi filosofi, molto ci è restituito anche per tradizione indiretta, cioè sotto forma di citazione in opere di altri filosofi o eruditi. Fondamentale è in questo senso l’apporto di Diogene Laerzio, scrittore greco del III secolo d.C., il quale proprio a Epicuro ha dedicato tutto il X libro delle sue Vite dei filosofi, restituendoci per intero tre epistole dottrinarie (a Erodoto sulla fisica, a Pitocle sui fenomeni celesti e a Meneceo sull’etica) e una ricca raccolta di massime capitali. Dai testi conservati emerge una caratteristica di fondo della produzione di Epicuro: la sua volontà di affidare il messaggio filosofico anche a una forma letteraria particolarmente adatta a facilitarne la memorizzazione, a scritti cioè che sono quasi una sorta di breviari da portare sempre con sé e da utilizzare in ogni occasione.

2.2 Il sistema filosofico Per comprendere adeguatamente il pensiero di Epicuro va detto in primo luogo che egli accetta la tripartizione della filosofia in logica, fisica ed etica, iniziata già all’interno dell’Accademia platonica e poi divenuta tipica nel periodo ellenistico. Egli si occupa dunque in modo specifico di questioni legate tanto alla fisica quanto all’etica, senza trascurare tuttavia di elaborare, in funzione quasi introduttiva, una sua logica. La logica va intesa come la dottrina fondamentale del “canone” (o criterio), termine con cui si designa l’insieme degli strumenti con cui si giunge a conoscere la realtà e ad agire al suo interno. Stando alla testimonianza di Diogene Laerzio, infatti, Epicuro sostiene che i criteri della verità sono tre: 1. le sensazioni; 2. le anticipazioni; 3. le affezioni. La soluzione epicurea difende dunque una forma radicale di sensismo, ossia una concezione che individua nei sensi la fonte privilegiata e assolutamente necessaria per l’acquisizione della conoscenza. Solo le sensazioni, infatti, attraverso il meccanismo percettivo, “fotografano” immediatamente le cose; per di più esse lo fanno senza cadere nell’errore, la cui origine va ricercata invece nella nostra opinione, che pretende di oltrepassare il piano dei sensi, aggiungendo alle rappresentazioni sensoriali il nostro giudizio. Soffermiamoci sul modo con cui sorge l’opinione. Bisogna precisare che di solito le sensazioni sono massimamente evidenti: in tal caso esse riproducono perfettamente la realtà degli oggetti da cui provengono; quando invece non sono evidenti (cioè non si impongono immediatamente), è opportuno controllarle, per esempio disponendo i nostri organi di senso nelle condizioni ideali o migliori perché possano percepire gli oggetti esterni. In questo processo di controllo e aggiustamento percettivo si collocano le nostre opinioni, che possono essere vere (se confermate da ulteriori esperienze sensibili) o false (se smentite da queste ultime). Anche nel caso del secondo criterio, le anticipazioni o prolessi (in greco prolèpseis), la centralità delle sensazioni è evidente. Anche le anticipazioni o prolessi, infatti, hanno una solida radice sensistica: esse altro non sono che sensazioni, ripetute di continuo, condensate e poi conservate nella memoria fino a costituire i “concetti”. Le anticipazioni hanno dunque la funzione fondamentale di facilitare o comunque rendere più rapidi i nostri processi cognitivi.

L’età antica

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Prolessi, esperienza, linguaggio

L’uso della ragione nella riorganizzazione delle sensazioni

Oltre il visibile

L’importanza delle anticipazioni è inoltre determinante per l’uso del linguaggio e per la comunicazione: quando guardiamo qualcuno dinnanzi a noi siamo in grado, in virtù della memoria che conserva le esperienze precedenti, di pensare ai caratteri dell’umano e di “anticipare” l’esperienza in corso e dire, guardandolo: «uomo». In questo modo si possono riconoscere, nominare e classificare gli oggetti, in un processo che sarebbe impossibile in assenza della sensazione, o se recasse in sé tracce dell’errore. Le prolessi, invece, sono chiare ed evidenti. Epicuro non esclude tuttavia la possibilità di riconoscere un ruolo conoscitivamente produttivo oltre che ai sensi anche alla dimensione della razionalità. Egli disegna un quadro che lascia spazio a più raffinate operazioni legate all’uso della ragione: a essa sembra infatti attribuito il compito di raccogliere, di mettere a confronto e di ridistribuire in modo ordinato l’insieme delle sensazioni, grazie all’uso delle inferenze e dell’analogia. Lo scopo è quello di elaborare modelli di spiegazione della realtà che sappiano spingersi oltre il piano della semplice evidenza per dar conto anche di ciò che non cade immediatamente sotto i sensi, di ciò che è costitutivamente impercettibile. Si tratta di un tipo di argomentazione razionale che Epicuro ritiene di primaria importanza, al punto da sfruttarla per spiegare i fondamenti stessi della sua fisica.

IL SENSISMO DI EPICURO SENSAZIONI

1. dal controllo, interpretazione e aggiustamento delle sensazioni emergono le opinioni

2. attraverso la ripetizione e il ricordo delle sensazioni si formano le anticipazioni (o prolessi)

3. la raccolta, il confronto e la classificazione delle sensazioni dà luogo alle inferenze (che vanno oltre il visibile)

2.3 I principi della fisica Atomismo e materialismo

Il nucleo basilare della fisica epicurea si richiama con forza, ma allo stesso tempo con indubbia originalità, alla tradizione dell’atomismo, legata ai nomi di Leucippo e in particolare di Democrito. Il resoconto più ordinato e di facile memorizzazione è offerto dalla Epistola a Erodoto: questa è una sorta di breviario della dottrina della natura (o physiologìa), in cui Epicuro afferma infatti in modo radicale la sua visione materialistica, in una costante opposizione alle filosofie di Platone e di Aristotele.

7. Epicureismo, stoicismo, scetticismo

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FILOSOFI A CONFRONTO

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Il divenire dei corpi

T2

Gli atomi

2.3.1 Lo spazio atomico Il ragionamento che guida la riflessione epicurea ha sempre come

punto di partenza le percezioni sensibili. Queste ultime ci mostrano, in primo luogo tutto intorno a noi, l’esistenza dei corpi, che sono più esattamente degli aggregati o composti, soggetti a formarsi e dissolversi di continuo. Sempre la sensazione, inoltre, ci attesta che nulla nasce dal nulla e nulla si distrugge nel nulla: in ogni processo naturale vediamo che lo sviluppo avviene a partire da semi o comunque da elementi di base. Il modello prescelto per spiegare il divenire è dunque quello delle realtà botaniche o più in generale biologiche. In virtù di queste osservazioni empiriche Epicuro postula l’esistenza di particelle di materia (invisibili e non percepibili con i nostri sensi), che sono i costituenti ultimi di ogni corpo o aggregato così come noi lo osserviamo. Tali particelle hanno a loro volta la caratteristica di non essere ulteriormente scomponibili: sono quindi letteralmente degli “atomi” o indivisibili (in greco àtomos significa appunto “indivisibile”), da cui tutto deriva e in cui tutto si dissolve . FILOSOFI A CONFRONTO

L’esistenza del vuoto

Le caratteristiche del vuoto

Oltre agli atomi, elementi ultimi di ogni cosa, Epicuro pone anche un altro principio, che in modo complementare risulta indispensabile per la spiegazione fisica: il vuoto. Anche in questo caso è l’evidenza sensibile che consente di inferirne la necessaria esistenza. La nota più evidente nella natura che ci circonda è infatti la presenza del movimento: se dunque i corpi si muovono, allora bisogna ammettere che ciò accade perché c’è un vuoto in cui essi possono muoversi. Emerge qui la critica di Epicuro a una celebre assunzione della fisica aristotelica, che concepisce invece l’universo come un tutto pieno.

In base al ragionamento epicureo, l’esistenza del vuoto è dimostrata mediante un procedimento ipotetico-deduttivo, che assume premesse vere: «Se c’è movimento, c’è vuoto; ma certamente c’è movimento; dunque c’è vuoto». Il vuoto è dunque condizione imprescindibile per la spiegazione della realtà. Si tratta di una sorta di spazio geometrico o estensione tridimensionale, che sussisterebbe poi in tre modi: 1. occupato da un corpo, e perciò come “luogo”; 2. non occupato, dunque come “vuoto” in senso stretto; 3. percorso dai corpi, ossia come “spazio”. FILOSOFI A CONFRONTO

Le qualità primarie degli atomi

Invisibilità e quantità degli atomi

La divisibilità solo teorica degli atomi: i “minimi”

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Lo sforzo teorico di Epicuro si rivolge in ogni caso soprattutto all’esame della struttura, delle proprietà o qualità primarie degli atomi. Proprio in questo ambito la dottrina epicurea sembra presentarsi come una novità rispetto alle originarie tesi atomistiche, soprattutto democritee, anche in virtù di un confronto critico con le teorie fisiche di Aristotele. Epicuro ritiene infatti che le qualità primarie degli atomi siano la forma, il peso e la grandezza.

Bisogna dunque notare subito la novità rappresentata dell’introduzione del peso, e ancor più dalla negazione dell’esistenza di atomi che superino la soglia della visibilità. Contemporaneamente, pur ammettendo per ogni atomo un numero infinito di esemplari, egli considera che essi abbiano un numero di figure o tipi non infinito, ma finito (anche se inconcepibile per la nostra mente). Ancora più netta è la discontinuità nel caso dell’innovativa dottrina dei “minimi”: i minimi sono corpi indivisibili di grandezza minima, appunto, interni all’atomo. Questi corpi minimi non devono essere considerati come “parti” dell’atomo, che dunque, pur avendo al suo interno tali grandezze, continua a risultare non divisibile. I minimi sono insomma unità di misura della grandezza (e dunque della forma e del peso) degli atomi: a seconda del loro numero e della loro disposizione, l’atomo avrà una determinata grandezza. Poiché il numero e, quindi, le “combinazioni” dei minimi sono limitati, ciò giustifica il fatto che gli atomi hanno grandezze diverse, ma non infinite né infinitamente grandi, tali cioè da diventare addirittura percepibili a livello sensibile.

L’età antica

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L’eternità del vuoto, degli atomi e del loro moto

1. Moti perpendicolari

2. Il rimbalzo

3. La declinazione (clinamen)

Il clinamen è un piccolo scarto casuale

Contro il determinismo fisico ed etico

2.3.2 Il moto degli atomi Per misurare fino in fondo l’originalità delle soluzioni fisiche epi-

curee (e apprezzarne nello stesso tempo l’attualità), bisogna infine esaminare la spiegazione del moto atomico. In primo luogo va ribadito che Epicuro assume come premessa indiscutibile il carattere eterno del vuoto, degli atomi e del loro movimento; non c’è neppure ragione, secondo Epicuro, di chiedersi quando abbia avuto inizio questo moto o il suo perché: una volta che si pensi alla collocazione degli atomi del vuoto, non c’è dubbio che il movimento appartenga loro come qualcosa di proprio. Proviamo ora a indagare i tipi di moto. Nell’Epistola a Erodoto si descrive dapprima il moto ininterrotto di caduta perpendicolare degli atomi verso il basso; è importante tuttavia precisare che in uno spazio infinito si può parlare di “basso”, di “alto” o di “centro” solo in senso relativo (cioè in riferimento all’osservatore e al punto che egli occupa nell’universo infinito) e non certo assoluto. A questo primo tipo di movimento atomico si affianca poi quello per rimbalzo, fondamentale per rendere conto delle possibilità di intreccio fra i vari atomi e dunque della formazione degli aggregati che sono sotto i nostri occhi. In un secondo momento Epicuro introdusse un terzo tipo di movimento degli atomi. Di questa dottrina siamo informati soprattutto grazie a una fonte interna, il poema filosofico La natura di Lucrezio: presentandoli in modo ordinato, egli affianca al moto rettilineo e a quello già ricordato per rimbalzo la cosiddetta “declinazione” (clinamen). Il clinamen è una deviazione, un piccolo scarto casuale e spontaneo dell’atomo in caduta, che avviene senza possibilità alcuna di determinarne tempo e localizzazione spaziale; questo scarto produce l’incontro e l’aggregazione degli atomi che danno luogo ai corpi. La dissoluzione di queste aggregazioni (cioè la “morte” dei corpi) è dovuta al continuo “bombardamento” che essi subiscono da parte del moto degli atomi. D’altro canto il ricorso al clinamen serve a negare ogni forma di determinismo fisico, portando la libertà fin nel cuore della materia: nel divenire non c’è nulla di meccanicamente determinato, ma c’è sempre una minima deviazione, frutto del caso, che produce eventi imprevisti. Queste considerazioni, valide nella fisica, possono oltrepassarne i confini e assumere senso e valore etico: se non c’è necessità nel moto degli atomi, non ci sarà necessità neppure nel comportamento della mente, che sarà dunque libero. L’autonomia delle nostre scelte viene così giustificata non facendo ricorso a elementi esterni ed estranei alla struttura fisica del mondo, ma individuandone la radice nella stessa composizione materiale degli aggregati atomici: si tratta di una soluzione “indeterministica” ritenuta ancor oggi estremamente valida e produttiva.

IL MOTO DEGLI ATOMI I TRE MOVIMENTI DEGLI ATOMI NELLO SPAZIO

MOTI PERPENDICOLARI

RIMBALZO

CLINAMEN (DECLINAZIONE)

gli atomi cadono in linea retta verso il basso (inteso in senso relativo)

rimbalzando, gli atomi si aggregano tra di loro

cadendo, gli atomi subiscono delle deviazioni casuali: queste permettono la loro aggregazione

PER SINTETIZZARE • Qual è la base della fisica epicurea? Quali sono i suoi tratti di originalità?

7. Epicureismo, stoicismo, scetticismo

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Le spiegazioni multiple e la negazione dell’intervento degli dèi

Il pluralismo epistemologico

Dalla fisica all’etica: la serenità dell’accettazione del verosimile

L’anima e gli atomi

L’unione di anima e corpo

L’anima e gli èidola: il fenomeno della percezione

Le qualità secondarie

Il fine della conoscenza è la felicità

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2.3.3 Fenomeni celesti e tranquillità d’animo All’interno della fisica epicurea si riscontra

anche un’altra dottrina altrettanto attuale e feconda. Si tratta di quel particolare modo di intendere i fenomeni celesti che si fonda sul cosiddetto criterio delle “spiegazioni multiple”, rintracciato nella Epistola a Pitocle. Di fronte a specifici eventi meteorologici (moti degli astri, eclissi, terremoti, tuoni, fulmini, grandine, neve, e così via), Epicuro non vuole adottare un’unica soluzione, che potrebbe rischiare di cadere