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Zitiervorschau

Maurizio Pietro Faggioni

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LA VITA NELLE NOSTRE MANI Manuale di Bioetica teologica Presentazione di Ignacio Carrasco de Paula

M aurizio Pietro Faggioni

LA VITA NELLE NOSTRE MANI Manuale di bioetica teologica

Seconda edizione

E D IZ IO N I C A M IL L IA N E

Al gruppo della Rianimazione dell’Ospedale dell’Aquila al servizio della vita

© 2004 - EDIZIONI CATULLIANE Strada Santa Margherita, 1 3 6 -1 0 1 3 1 Tonno 2009 seconda edizione Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, compresa la riproduzione fotostatica, fotografica o fatta in ogni altro modo, senza l ’autorizzazione scritta. Edizioni Camilliane tei. 011 8194648 fax 011 8194648

e-mail: [email protected] www.camilliani.org/edcamilliane/ Composizione e stampa AG AM - Madonna dell’Olmo (CN) ISBN 88-8257-112-2

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PRESEN TA ZIO N E

della I edizione

Nella terza edizione della Encyclopedia o f Bioethics, A.R. Jonsen e A. Jameton rilevano che la tesi, tipica della tradizione teologica catto­ lica, secondo la quale le questioni morali possono essere esaminate da una prospettiva filosofica senza un esplicito riferimento alle verità rive­ late, tesi che loro definiscono «approccio non settario», ha consentito alla teologia cattolica di esercitare «un influsso significativo sullo svi­ luppo teoretico della bioetica secolare».1 L’affermazione ovviamente va riferita alla bioetica americana. Tut­ tavia mi sembra opportuno riproporla nel momento di redigere questa breve presentazione ad un’opera che si presenta come Manuale di bioe­ tica teologica. Infatti, Padre Faggioni, nel rigoroso rispetto della meto­ dologia, ha avuto il merito di proporre un testo di notevole precisione ed equilibrio su tematiche molto complesse e cruciali come sono, per l’appunto, le questioni riguardanti l’inizio e la fine della vita umana. Il linguaggio, chiaro e sereno, avvicina alla bioetica dalla prospettiva del­ la fede, non come una posizione di parte, ma come un impegno comune a credenti e non credenti teso a ricuperare il senso della dignità dell’uo­ mo e della preziosità della vita umana. Già nelle prime pagine dell’opera Padre Faggioni scrive: «Uniti nel­ la fatica quotidiana di cercare la verità e le vie più autentiche per incar­ narla, i cristiani condividono con ogni uomo e donna di buona volontà il sogno di un mondo più vivibile e più giusto, nel quale sia stabilito il primato dell’essere sull’avere e della persona sulle cose e nel quale do­ minio, indifferenza e rifiuto dell’altro si trasformino in servizio, acco­ glienza, responsabilità».12Possiamo senz’altro trovare in queste parole le linee programmatiche di questo testo di bioetica cattolica, anzi, più pro­ priamente di bioetica teologica, in cui l’esposizione delle tematiche tra le più dibattute e scottanti dell’attuale panorama scientifico rispecchia tutto l’impegno dell’Autore, che possiede una molteplicità di compe­ tenze e di carismi. Padre Maurizio Pietro Faggioni, Padre francescano, già Ministro Provinciale della Toscana, è anche Medico, Specialista in endocrinologia, Professore ordinario di Teologia morale sistematica e 1 Encyclopedia o f Bioethics, voi. 3, MacMillan Reference 2003, p. 1527. 2 p. 10.

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di Bioetica presso l’Accademia Alfonsiana di Roma, da tempo impe­ gnato sul fronte della bioetica come studioso e come consulente. Trattandosi di un’opera di bioetica teologica, i valori scelti come pun­ to di riferimento non possono che essere quelli dell’antropologia cristia­ na. «Il senso dell’esistenza umana - scrive l ’Autore - è il dialogo con Dio e da questa relazione costitutiva trae valore e senso l’esistenza stes­ sa».3 La chiave di lettura dell’opera può essere riassunta in questo, che è al tempo stesso frutto di ricerca e di preghiera e intento programmatico nell’indagine e nello studio. Questa modalità di interpretazione dell’esi­ stenza umana è quella che ci permette non solo di cogliere nel profon­ do l’essenza della dignità umana, in quanto unica creatura voluta per se stessa dal Creatore, ma anche l’uomo come essere aperto all’armonia con il creato e chiamato alla comunione con i suoi simili e con Dio. Oltre ai temi che sono regolarmente proposti nei manuali di bioeti­ ca, l’Autore tratta anche altri argomenti tipici dei trattati teologici qua­ li la pena di morte o la legittima difesa, che hanno contribuito non poco al pieno riconoscimento del valore incommensurabile della vita umana. Inoltre, attualità, esercizio della professione medica, innovazioni della ricerca scientifica, nuove sfide biotecnologiche si intrecciano nelle pro­ spettive di riflessione aperte dall’etica medica classica, arricchite dal contributo delle moderne scuole di bioetica anche di diversa tendenza, nel tentativo di un dialogo costruttivo, ma soprattutto sostenute dalla conoscenza della Sacra Scrittura e del Magistero, con un punto di rife­ rimento preciso: l’antropologia e la morale offerte dalla Rivelazione. Ogni tema viene proposto con un’adeguata spiegazione degli aspetti scientifici, una dotta rassegna delle principali tappe storiche che ne han­ no caratterizzato l’evoluzione, richiami sicuri e puntuali alla Dottrina Cattolica e una discussione ragionata di posizioni etiche diverse. La do­ vizia di riferimenti e la vasta conoscenza della materia ne rende, quindi, opportuno il consiglio della lettura a chi ha bisogno di consultare un ma­ nuale ricco di spunti e, soprattutto, di profondità nelle argomentazioni. Nel delineare la metodologia propria della bioetica, Padre Faggioni mette in luce il pericolo più rilevante, cioè la trasformazione di un dato scientifico in un precetto normativo, invocando la necessità di un’erme­ neutica che sappia porre su piani diversi ciò che è oggetto di esperienza e ciò che è frutto di riflessione e di speculazione, interpretando i fatti ed introducendoli nell’ambito etico. «Questo delicatissimo ruolo di media­ zione fra dato empirico ed elaborazione normativa è svolto in bioetica

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dalla antropologia e dalla cosmologia filosofica».4 Viene anche analiz­ zato il rapporto con alcune discipline di carattere normativo, quali la deontologia medica, l’etica medica, il biodiritto, che hanno in comune con la bioetica sia i temi che gli ambiti. Faggioni fa emergere che ciò che caratterizza l ’antropologia cristiana è la “creaturalità” dell’uomo, «pensabile solo in relazione con Dio. Tuttavia la relazione della creatu­ ra umana con Dio è assolutamente unica, perché è una relazione costi­ tutiva ed esclusiva, una relazione personale che fa cioè dell’uomo una persona, una realtà aperta ad autotrascendersi nel Tutto e ad aprirsi all’Alterità, in un moto dinamico che lo conduce verso una sempre mag­ giore attuazione e un compimento definitivo».5 Da sempre attento alle sfide lanciate dalle nuove biotecnologie e sensibile ai rischi per Tequilibrio ecologico globale, l’Autore manife­ sta l’urgenza di un ripensamento del rapporto tra l’uomo e il mondo naturale. Questo però non deve avvenire tramite la sostituzione dell’an­ tropocentrismo con l ’ecocentrismo o il biocentrismo, perché la cono­ scenza dei dati naturali e la loro interpretazione non può prescindere da un’adeguata riflessione sulla natura umana. «Il modello cosmoantropo­ logico di riferimento che ha accompagnato l ’uomo fino ad ora ha biso­ gno di una seria revisione per essere idoneo ad affrontare le sfide che ci attendono».6 La proposta che emerge è che «una giustificazione morale della ma­ nipolazione biotecnologica della vita sta proprio in questa signoria partecipata o ministeriale».7 Ciò significa che l ’uomo partecipa della signoria di Dio sul creato in quanto Sua immagine e che trova in Dio stesso la ragione di tutte le cose. Questo gli può permettere di evita­ re l ’emulazione del suo Creatore attraverso il ricorso alle manipolazio­ ni delle bio-tecnologie e di non perdere di vista la centralità assiologica della persona umana, che esercita una signoria non assoluta, ma mini­ steriale: «riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l’uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e all’amore incommensurabili di Dio».8

Ignacio Carrasco de Paula Direttore dell’Istituto di Bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma 4 p. 34. 5 p. 50. 6 p. 236. 7 Ibidem. 8 Enc. Evangelium Vìtae, n. 52, cit. a p. 246

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IN TRO D U ZION E

Un corso di bioetica teologica. La parola bioetica , composta da bios, la vita, e da etica, lo studio sistematico dell’agire umano nella luce dei valori, ci dà subito un’idea del tema e del carattere delle nostre riflessio­ ni: faremo una riflessione di tipo morale sulla vita e gli interventi sulla vita, ma in prospettiva teologica, vale a dire ponendoci nell’orizzonte di senso delineato dalla fede cristiana. La morale cattolica si è fin dall’antichità interessata dell’argomento della vita e della sua tutela, ma oggi le enormi conoscenze scientifiche, le incredibili e crescenti capacità di intervento tecnico e biomedico, la percezione delle possibilità e quindi delle responsabilità dell’uomo nei confronti del pianeta, insieme con il generale processo di secolarizza­ zione del sapere e la frammentazione ideale tipica della tarda moderni­ tà hanno mutato radicalmente i criteri di pensabilità e di esercizio della ratio ethica in ordine alla vita. In questo delicato contesto, il nostro vuol essere un corso di base, perché si propone di introdurre ai princi­ pali problemi affrontati oggi dalla bioetica, con semplicità e con rigo­ re, dando ampio spazio a tematiche di bioetica quotidiana e non solo alle questioni di bioetica di frontiera, quelle insomma che fanno noti­ zia sui mass media. Abbiamo focalizzato l’attenzione sulla vita umana e sull’eticità degli interventi, le scelte, i comportamenti che coinvolgono primariamente le dimensioni psico-somatiche dell’uomo, la sua sussi­ stenza e la sua integrità, solo accennando di sfuggita ai complessi te­ mi della bioetica animale e ambientale che avrebbero richiesto tanto più spazio e una fondazione peculiare. Intorno al tema della vita umana abbiamo voluto far convergere que­ stioni tradizionalmente e non sempre logicamente assegnate a discipline diverse (morale della vita fisica, etica medica, deontologia medica...), nella persuasione dell’intimo legame fra problemi apparentemente ete­ rogenei, ma ultimamente legati al riconoscimento del valore della vita umana e &\Vassunzione della nostra responsabilità verso di essa. In at­ tento ascolto della tradizione teologica e del magistero, nell’orizzonte della visione dell’uomo e del mondo contenuta nelle fonti della rivela­ zione, abbiamo perciò cercato di dare una lettura unitaria di fenomeni vecchi e nuovi, allo stesso tempo attenta al dialogo con le voci spesso discordi del dibattito contemporaneo e ben radicata nell’antropologia e nell 'ethos cristiani.

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In un mondo che sembra aver smarrito il senso della dignità dell’uo­ mo, la bioetica cattolica si fa eco di un annuncio profetico e impegnativo e fa sentire la sua voce a difesa della vita umana dall’alba al tramonto, in ogni circostanza, in ogni condizione. Uniti nella fatica quotidiana di cercare la verità e le vie più autentiche per incarnarla, i cristiani con­ dividono con ogni uomo e donna di buona volontà il sogno di un mon­ do più vivibile e più giusto, nel quale sia stabilito il primato dell’essere sull’avere e della persona sulle cose e nel quale dominio, indifferenza e rifiuto dell’altro si trasformino in servizio, accoglienza, responsabilità. La vita è stata posta dal Creatore nelle nostre mani, affidata alla nostra responsabilità, alla nostra saggezza e al nostro amore. Vedremo nel nostro corso come questo impegno sia affascinante e investa molteplici aspetti, ma dovremo constatare, allo stesso tempo, come non tutto sia sempre chiaro, non ogni problema sia immediata­ mente risolvibile, non ogni domanda possa ottenere risposte. La tratta­ zione si articola in sezioni composte di capitoli o unità di lavoro: dopo aver accennato ad alcune questioni epistemologiche preliminari e aver indicato alcuni elementi di antropologia cristiana più rilevanti per il no­ stro corso, affronteremo alcune tematiche morali correlate con la tutela della integrità psicofisica della persona, alcune problematiche connes­ se con le scienze biomediche moderne e i principali problemi emergen­ ti all’inizio e alla fine della vita. La scelta delle tematiche da includere e la diversa profondità con cui affrontarle è ovviamente discutibile: noi abbiamo deciso di dare un ventaglio il più possibile rappresentativo dei problemi in gioco e presentare questioni usualmente trattate nell’ambi­ to della morale della vita fisica (es. suicidio, legittima difesa, pena di morte) e questioni che solo di recente si sono imposte alla discussio­ ne (es. procreazione assistita, accanimento terapeutico, biotecnologie). Di volta in volta, le note invitano ad approfondire quelle parti cui si po­ trà fare solo allusione, attraverso riferimenti bibliografici selezionati fra quelli ritenuti più accessibili e istruttivi. Nella speranza che queste pagine, frutto del contatto vivo con i pro­ blemi, del dialogo con gli esperti e con la gente, dell’esperienza didat­ tica e pastorale, possano contribuire a costruire una cultura della vita, affidiamo la nostra fatica a tutte le persone di buona volontà e chiedia­ mo al Signore per la madre terra una rinnovata effusione dello Spirito che dà la vita.

Maurizio P. Faggioni, ofm Roma 2 ottobre 2003

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IN TRO D U ZIO N E ALLA II E D IZIO N E

L’accoglienza benevola che questo volume ha ricevuto, permette di presentarlo in seconda edizione con molte revisioni, correzioni e ag­ giornamenti bibliografici. Per iscritto e a voce ho ricevuto suggerimenti utili e, per quanto pos­ sibile, ho cercato di tenerne conto. I lettori più addentro nella materia hanno messo a fuoco il quesito di fondo se, cioè, abbia senso parlare di bioetica con aggettivi e, in particolare, se abbia un senso parlare di bioetica “laica” o “secolare” e di bioetica “cattolica”, se esistano con­ dizioni di pensabilità per una “bioetica teologica” e, infine, se questa nostra proposta di “bioetica” sia davvero “teologica” e in che misura. Tali questioni epistemologiche stanno indubbiamente sullo sfondo del nostro lavoro, come una sfida e una domanda ricorrente e la Parte ge­ nerale del presente manuale prova a giustificare teoricamente la nostra impostazione cercando i suoi tratti specifici e caratterizzanti nell’antro­ pologia cristiana così come è stata tematizzata dalla Tradizione teolo­ gica e nella intuizione etica del Popolo di Dio dipanatasi nel tempo in risposta alle sfide della storia. Se e in che misura questo progetto sia sta­ to realizzato, lo giudicheranno i lettori. Consapevoli che nel giro di pochi anni sono comparsi nel già affol­ lato panorama editoriale italiano e straniero ottimi manuali e trattati di bioetica - ai quali faremo frequente e doveroso riferimento - presentia­ mo questo volume in seconda edizione rivolgendolo a coloro che vo­ gliono avvicinarsi con linearità, essenzialità e chiarezza ai problemi e alle sfide della bioetica contemporanea.

Maurizio P Faggioni, ofm Roma, 17 settembre 2008

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B IB LIO G R A FIA G EN ERA LE

A ramini M., Manuale di bioetica per tutti, Paoline, Milano, 2008. C hiodi M., Etica della vita. Le sfide della pratica e le questioni teo­

riche, Glossa, Milano 2006. C iccone L., Bioetica. Storia, principi, questioni, Ares, Milano 2003. D ’A gostino F., P alazzani L., Bioetica. Nozioni fondamentali, La Scuola, Brescia 2007. G arrard P ost S. ed., Encyclopedia o f Bioethics, voli. 1-5, Macmil­ lan Reference, New York 20033. L eone S., N u o vo manuale di bioetica, Città Nuova, Roma 2007. L eone S., P rivitera S. edd., Nuovo dizionario di Bioetica, Città Nuova-ISB, Roma-Aci Reale 2004. P olaino -L orente A . dir., Manual de Bioética General, RIALP, Madrid 2000. Russo G. cur., Enciclopedia di bioetica e sessuologia, Elledici, Leu­ mann (To) 2004. Russo G., Bioetica. Manuale per teologi, LAS, Roma 2005. S chockenhoff E., Ethik des Lebens. Ein theologischer Grundriß, Matthias-Grünewald, Mainz 1993 (trad. it. Etica della vita. Un compen­ dio teologico, Queriniana, Brescia 1997). S greccia E., Manuale di Bioetica, voi. 1. Fondamenti ed etica bio­ medica, Vita e Pensiero, Milano 20074. S teinbock B. ed., The Oxford Handbook o f Bioethics, Oxford Uni­ versity Press, New York 2007. T ettamanzi D., Nuova Bioetica Cristiana, Edizioni Piemme, Casa­ le Monferrato (Al) 2000. Z uccaro C., La vita umana nella riflessione etica, Queriniana, Bre­ scia 2000.

P arte P rima

EIDETICA GENERALE

Si parla molto e in diversi ambiti, dalle pagine dei rotocalchi ai con­ vegni scientifici, dai dibattiti televisivi alle aule dei parlamenti, di bioe­ tica, ma non sempre coloro che discutono di bioetica dimostrano di avere le idee chiare sui confini, le caratteristiche, i metodi, i destinatari della disciplina. Apriamo perciò il nostro itinerario lungo i sinuosi percorsi della bioe­ tica, con tre capitoli introduttivi nei quali vengono esposti non i singoli problemi della bioetica, ma i principali problemi sulla bioetica. Sarà un primo sguardo alle tematiche della cosiddetta metabioetica : sono questioni di fondazione complesse, ma essenziali e imprescindi­ bili per entrare con una certa consapevolezza in questo, ancora fluido, settore del sapere e anche per comprendere l’originalità della propo­ sta della bioetica teologica nel contesto del frastagliato arcipelago di modelli alternativi nei quali si va strutturando la disciplina. A nostro avviso, infatti, lo specifico della bioetica teologica rispetto ad altre de­ clinazioni della disciplina deve essere ricercato, ancor prima che a fivello normativo, a livello fondativo, nella antropologia e nel sistema di valori cui essa fa riferimento.

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CAPITOLO I CHE COS’È LA BIOETICA?

In questo primo capitolo tracceremo dapprima per grandi arcate la storia della riflessione etica nell’ambito degli interventi sulla vita, dalle sue radici più remote sino al profondo rinnovamento che si è verificato negli ultimi decenni. Cercheremo quindi di delimitare con precisione il campo di studio della bioetica e il suo statuto epistemologico, anche in relazione con le discipline affini.

1.1. La preistoria della bioetica La parola bioetica è di conio abbastanza recente, essendo stata intro­ dotta nel 1970 da Van Rensselaer Potter (1911-2001).1 Essa denomina un nuovo ambito del sapere etico destinato a studiare sistematicamente gli interventi umani nel campo del bios, la vita.12 Se il nome della bioetica è recente, la disciplina che essa indica non sarebbe neppure immaginabile senza una lunga preistoria che affonda le sue radici nel tempo.3 Sin dalla più remota antichità, infatti, la società ha cercato di tutelare la vita e l’integrità fisica delle persone con diversi si­ 1La prima apparizione attestata nell’articolo: P otter V. R., Bioethics. The Science o f Sur­ vival, “Perspectives in Biology and Medicine” 14 (1970) 120-153 (trad. it. P otter V. R., Bioetica la scienza della sopravvivenza. Bellino F. cur.. Bari 2002Ì, Ne rivendicano la pa­ ternità anche S. Shriver e A. Hellegers all’inizio del Kennedy Institute, sempre nel 1970. Cfr. R eich W. T., The Word “Bioethics”: Its Birth and the Legacies o f those Who Shaped It, “Kennedy Institute of Ethics Journal” 4 (1994) 319-335 (trad. it. ID., Il termine «bioe­ tica». Nascita, provenienza, forza, “Itinerarium” 2 (1994) 3, 33-71). 2 La parola bioetica richiama la preesistente bioteoretica. Nata negli anni ’30, la bioteo­ retica o biologia teoretica è la disciplina che studia la natura intima della vita e il suo svi­ luppo sulla Terra, attraverso Pinterazione di conoscenze biologiche, fisiche e matematiche. Cfr. R eydon T. A. C., D ullemeijer R, H emerik L., Histoiy o f “Acta Biotheoretica” and the Nature o f Theoretical Biology, in R eydon T. A. C., H emerik L. eds., Current Themes in Theoretical Biology, Dordrecht 2005, 1-8. 3 Usiamo l’espressione “preistoria della bioetica” per sottolineare i legami profondi e ge­ netici fra la bioetica e la tradizione filosofico-teologica e, ponendoci sulla scia di Grodin, riportiamo idealmente le origini della bioetica a Ippocrate: G rodin M. A., Introduction. The Historical and Philosophical Roots o f Bioethics, in ID. ed., Meta Medical Ethics: The Philosophical Foundations o f Bioethics, Boston 1995, 1-23.

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Bioetica generale

stemi di leggi, consuetudini e norme comportamentali. Abbiamo sicure testimonianze in Mesopotamia e in Egitto di leggi volte a punire gli at­ tentati aggressivi alla vita e all’integrità fisica delle persone e a regolare lo svolgimento della primitiva pratica medica. Il contributo essenziale per la nascita di un’etica medica vera e propria venne, però, dal greco Ippocrate (460-370 a. C.) e dalla sua scuola. Ippocrate, considerato F iniziatore della scienza medica, tratteggiò i lineamenti del buon medico nel famoso Giuramento, che per secoli, sino a tempi recenti, tutti i medici professava­ no prima di iniziare la pratica professionale.4 Oltre al divieto di procurare aborto ed eutanasia, alla promessa di rispettare il segreto e di comportar­ si con decoro e onestà, un tratto caratteristico del medico ippocratico è il principio di “non fare male al paziente”, ma anzi di provvedere sempre al suo bene, secondo quello che viene detto il paternalismo medico o atteg­ giamento paterno e direttivo del medico verso il paziente.5 Il Cristianesimo introdusse in questo campo alcuni fermenti originali e fecondi: il valore sacro di ogni vita umana creata ad immagine di Dio, il dovere caritativo di provvedere ai malati e ai poveri, la possibilità di ri­ conoscere un senso anche all’esperienza della malattia e del patire, il su­ blime modello di Cristo medico delle anime e dei corpi che, come Buon Samaritano, si china sulle ferite dell’uomo e lo risana.6 In questo orizzon­ te spirituale si vengono lentamente a precisare strategie operative con­ crete, come inveramento del nuovo ethos cristiano nel tessuto vivo della storia e delle sue sfide. Tale modello etico normativo, fondandosi sugli apporti originali dei Padri e servendosi della prima elaborazione c a s is ti­ ca legata alla prassi penitenziale, trovò una sistemazione rigorosa e coe­ rente nelle grandi sintesi della Scolastica del XIH secolo. Spicca fra tutte l’opera di san Tommaso d’Aquino (1221-1274) ed in particolare la sua Summa Theologiae nella quale l’etica speciale, contenuta nella II-IIae, si presenta compatta e ben ordinata secondo lo schema aristotelico delle 4 Sull’etica medica nell’Antichità: C arrick R, Medical Ethics in the Ancient World, Washington 2001 (su Ippocrate soprattutto pp. 71-108). 5 Cfr. F aggioni M . R, Il Giuramento di Ippocrate. Storia e attualità, “Anime e Corpi” 33 (1996) 469-489. Sulla storia dell’etica medica, un’opera di vasto respiro: B aker R. B ., M cC ullough L. B. eds., The Cambridge World History o f Medical Ethics, New York 2008. Profili sintetici: A ngeletti L. R., Storia della medicina e bioetica, Milano 1992; J onsen A. R., A Short History o f Medical Ethics, New York 2000; V on E ngelhardt D., Storia dell’etica medica, in L eone S., P rivitera S. edd., Nuovo dizionario di Bioetica, Roma-Acireale 2004, 1147-1151. 6 Sintesi di storia dell’etica cristiana nell’ambito della vita, in: C urran CH. E., Cattoli­ cesimo, in S pinsanti S. cur., Bioetica e grandi religioni, Cinisello Balsamo (Mi) 1987, 98-123 (traduce un articolo della la edizione della Encyclopedia o f Bioethics)', P uca A., Il contributo della teologia alla bioetica, Torino 1998, 17-93.

C apitolo I - Che cos’è la bioetica?

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virtù. Gli argomenti attinenti la morale della vita fisica (omicidio, suici­ dio, legittima difesa, pena di morte, mutilazione) sono trattati nell’ambito della virtù della giustizia e corrispondono alle questioni 64 e 65 della Secunda Pars: la presentazione è esteticamente bella e molte posizioni to­ miste su elementi capitali e qualificanti conservano la loro validità, anche se l’insieme resta un po’ sfuocato perché l’accento sul tema della giusti­ zia mette in secondo piano il tema, più significativo in questo contesto, del valore della vita umana. In continuità ideale con l’Angelico, ma con una particolare sensibili­ tà per gli aspetti giuridico-morali della giustizia e con viva attenzione per le problematiche nuove emergenti al loro tempo, si pongono gli autori del Rinascimento tomista della seconda scolastica nei secoh XVI e XVII. Si moltiplicano in questo periodo estesi commentari a singoli aspetti del­ l’opera tomista, in forma di Disputationes, e opere monografiche sul tema della giustizia, spesso intitolate De iustitia et iure, all’interno delle quali trovano posto le questioni concernenti la corporeità. La creazione dei seminari per la formazione dei sacerdoti voluta dal Concilio di Trento con il decreto del 14 luglio 1563 e la dottrina tridentina sulla integrità dell’accusa dei peccati nel sacramento della pe­ nitenza,7 portò alla necessità di predisporre testi di morale adatti alle esigenze dell’insegnamento e orientati prevalentemente alla prassi con­ fessionale.8 Questi nuovi testi, detti Instìtutiones Theologiae Moralis, abbandonata l’impostazione delle virtù e tralasciati i trattati speculati­ vi sulla beatitudine e sul fine ultimo, presentavano la morale speciale seguendo i precetti del Decalogo e quindi con un orientamento tenden­ zialmente negativo e con un interesse particolare al riconoscimento del­ le trasgressioni. D ’altra parte la crisi nominalista del pensiero scolastico classico e il mutato concetto di natura prodotto dalla scienza nuova ren­ devano incomprensibile il tema della legge naturale così come era inte­ so dagli Scolastici e imponevano uno slittamento dal tema della natura a quello della legge e dalla recta ratio, rivelatrice del bene umano au­ tentico, alla coscienza, intesa come mediatrice e interprete fra legge e situazioni concrete. Le questioni di morale della vita fisica vengono ora trattate nel contesto del V comandamento, il precetto che proibisce l’omicidio e che, per estensione, condanna ogni attentato alla vita e al­ l ’integrità fisica della persona. Il Tridentino aveva inoltre incoraggiato lo studio dei casi di coscien­ 7 Nella Sessione XIV, can. 7 (DS 1707), il Concilio aveva affermato l’obbligo «di confes­ sare tutti e singoli i peccati mortali, anche quelli occulti e che violano i due ultimi coman­ damenti del Decalogo, come pure le circostanze che cambiano la specie». 8 Cfr. S essio XXIII, Decretum eie reformatione, cap. 18.

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Bioetica generale

za per aiutare i pastori ad affrontare e risolvere i problemi concreti che potevano incontrare nel ministero e questo portò alla compilazione di opere di casistica, che si prefiggevano di esaminare caso per caso le varie situazioni umane attraverso l’applicazione di regole e di prin­ cipi generali. Per individuare gli spazi di libertà che si aprivano alla coscienza nei confronti delle leggi e dei precetti, con particolare riferi­ mento all’uso di opinioni morali di maggiore o minore probabilità, si vennero a definire diversi sistemi morali in concorrenza fra loro. Punto d ’arrivo e sintesi equilibrata di due secoli di riflessione morale è l ’ope­ ra di sant’Alfonso M aria de’ Liguori (1696-1787). Egli, per motivi di concretezza pastorale, affronta alcune tematiche morali emergenti nel campo sanitario (come la profilassi della sifilide) ed usa le necessarie cognizioni mediche, aggiornate alla scienza del tempo, «soprattutto nella trattazione del matrimonio, del battesimo, della cura dei malati e dei morenti, e dell’aborto».9 Intanto, con i progressi della medicina e con l’organizzarsi dell’at­ tività medica, andava prendendo forma autonoma un genere partico­ lare avente come oggetto l’etica della pratica medica e l’insieme delle questioni mediche connesse con la morale e il diritto. Sin dal XV seco­ lo sant’Antonino (1389-1459), vescovo di Firenze, aveva dedicato una trattazione specifica alle funzioni e obblighi dei medici nell’ambito del­ la sua Summa Theologica,101ma le opere più notevoli in questo campo compaiono a partire dal XVII secolo. Meritano una menzione particola­ re i dieci libri di Quaestiones medico-legales, nelle quali il romano Pao­ lo Zacchia (1584-1659), nominato nel 1644 da Innocenzo X Archiatra e Protomedico generale dello Stato della Chiesa, condensò a partire dal 1621 la sua dottrina ed esperienza: l ’opera godette di grande autorità e Zacchia è ritenuto il padre della medicina legale.11 Dalla fine del XVIII secolo, si affiancava al pensiero cristiano una elaborazione laica dei doveri del medico che ricevette più tardi la deno­ minazione di Deontologia medica (dal greco deon, dovere).12La profes­ 9 C urran CH. E., Cattolicesimo, 104. 10 S. A ntonino da F irenze, Summa Theologica, Pars III, tit. 1, c. 1-2. Vedere: V ereecke

L., Medicina e Morale in s. Antonino da Firenze ( f i 459), in ID., Da Guglielmo d ’Ockham a sant’Alfonso de Liguori, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, 297-319. 11 Z acchia P., Quaestiones medico-legales, Lione 1673, 3 tomi. I primi due tomi conten­ gono la parte dottrinale attraverso 195 questioni raggruppate in titoli (es. De aetatibus, De partu legitimo et vitali, etc.), mentre il terzo tomo contiene 85 pareri formulati per i Tribu­ nali Romani. Per una storia della medicina legale: F eola T., Profilo storico della Medici­ na legale. Dalle origini alle soglie del XX secolo, Torino 2007. 12 Per la storia della deontologia medica: L ega C., Manuale di bioetica e deontologia me­ dica, Milano 1991, 65-74.

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sione medica, come ogni professione intellettuale, ha una deontologia con principi di comportamento (correttezza, colleganza, riservatezza, tutela dell’indipendenza e del decoro della professione, rispetto della persona dell’assistito) tali da tutelare il rispetto e la fiducia sociale ver­ so la classe medica stessa. N ell’800 si assisteva alla sistemazione della riflessione teologico morale post-tridentina nei Manuali di Teologia Morale e allo svilup­ po della Medicina Pastorale e deìV Etica Medica con lo scopo di studia­ re gli aspetti medici più utili nella vita pastorale e le questioni mediche più delicate dal punto di vista della morale cattolica. Spicca fra le al­ tre la Pastoral-Medizin del medico tedesco K. Capellmann (1841-1898) che ebbe dal 1877 ben 19 edizioni in tedesco e che fu tradotta in latino e nelle principali lingue moderne. Lo scopo, dichiarato nell 'Introduzione, era duplice, sia quello di fornire al pastore d ’anime la conoscenza ne­ cessaria per svolgere meglio il suo ministero sia quello di aiutare i m e­ dici ad agire secondo i dettami della morale cattolica. I vari argomenti sono ordinati, sull’esempio dei Manuali, secondo i comandamenti inte­ ressati (il quinto e il sesto), i precetti della Chiesa (digiuno ecc.), i sacra­ menti. Grande prestigio godettero anche A. Eschbach (1839-1923) con le sue Quaestiones physiologico-theologicae e G. Antonelli la cui dotta Medicina Pastoralis in quattro volumi uscì all’inizio del secolo (1901) ed ebbe cinque edizioni sino al 1932. Un grande impulso 3lVEtica medica venne infine in tempi recenti dal Magistero, soprattutto quello di Pio XII che, negli anni ’40-’50, si mostrò molto attento alle questioni morali sollevate dagli sviluppi del­ le scienze biomediche. L’apporto dell’etica medica cattolica, attraver­ so la mediazione svolta dalla teologia dell’area statunitense, è risultato determinante per lo sviluppo della riflessione contemporanea sulle que­ stioni inerenti la vita umana e la medicina.13

1.2 Nascita della bioetica Se è sempre esistito nell’ambito della filosofia, delle teologia e del diritto un interesse per i problemi connessi con la vita fisica e la pra­ tica della medicina, viene allora spontaneo chiedersi per quale motivo 13 Cfr. C urran C. E., The Catholic Moral Tradition in Bioethics, in W alter J. K., K lein E. P. eds., The Story o f Bioethics: From Seminal Works to Contemporaiy Explorations, Washington 2003, 113-130; W alters L., La religione e la rinascita dell’etica medica ne­ gli Stati Uniti: 1965-1975, in S help E. cur. Teologia e Bioetica. Fondamenti e problemi di frontiera, Bologna 1989, 37-57.

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nel nostro tempo si sia avvertito il bisogno di creare una nuova discipli­ na o almeno di ripensare dalle fondamenta questo ambito della filosofia morale. In effetti è un vero problema storiografico capire perché non fu sufficiente una evoluzione e un adattamento dell’etica medica alle nuo­ ve questioni, ma si sentì il bisogno di sviluppare una disciplina nuova, la bioetica, appunto. Secondo lo storico della medicina, Diego Gracia, «soltanto scoprendo le ragioni per cui l’etica medica non poteva dar vi­ ta alla bioetica è possibile capire adeguatamente la sua novità».14 Il contesto in cui sorge la bioetica nella seconda metà del XX secolo è caratterizzato da diversi fenomeni sociali e culturali che possiamo sinte­ tizzare in quattro nodi contestuali: il tumultuoso progresso delle scienze biomediche e il porsi di nuovi interrogativi etici sulla capacità dell’uomo di gestire questo inedito ed enorme potere; la crescente consapevolezza che esistono diritti umani inalienabili, come il diritto alla giustizia, che si fondano sulla dignità della persona umana prima ancora che essere ri­ conosciuti dalle leggi civili; il crollo del mito della neutralità etica della scienza; la necessità di ripensare il rapporto dell’uomo con il suo pianeta per una presenza più rispettosa dell’ambiente e dei suoi equilibri.15

a. Il progresso biomedico Dopo la seconda guerra mondiale il progresso biomedico dal punto di vista sia conoscitivo sia tecnologico non ha conosciuto soste, modifican­ do largamente la stessa immagine che l’uomo aveva di se stesso e della sue possibilità di intervento sul proprio corpo. Per avere un’idea degli stu­ pefacenti progressi della medicina ricordiamo alcune pietre miliari. 1953. Scoperta della struttura a doppia elica del DNA, premessa di una vivace stagione per la genetica : l’uomo ha raggiunto così le radici della sua identità biologica. 1954. Esordio delle tecniche di rianimazione: si modifica il decor­ 14 G racia D., Bioethics, from Stories to History, “Medicine, Health, Care and Philosophy” 8 (2005) 119-122 (p. 120, trad, nostra). 15 Sulla storia della bioetica e i suoi fondatori: JONSEN A. R. ed., The Birth o f Bioethics, Special Supplement, “Hastings Center Report” 23 (1993) S1-S17; Id ., The Birth o f Bioeth­ ics, New York 1998; M artensen R., The History o f Bioethics: An Essay Review, “Journal of History of Medicine and Allied Sciences” 56 (2001) 168-175; P ellegrino E., The Or­ igins and Evolution o f Bioethics: Some Personal Reflections, “Kennedy Institute of Ethics Journal” 1 (1999) 73-88; R othman D. J., Strangers at the Bedside: A History o f how Law and Bioethics Transformed Medical Decision Making, New York 1991; Russo G., Storia della bioetica. Le origini, significato, istituzioni, Roma 1995; Id . cur., Bilancio di 25 anni di bioetica. Un rapporto dai pionieri, Leumann (To) 1997; S oldini M., Una riflessione ermeneutica sulla storia della bioetica, “Bioetica e cultura” 18 (2000) 199-215; S p e s a n ­ ti S., Bioetica. Biografie per una disciplina, Milano 1995.

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so di molte malattie e si rende in qualche modo più labile il confine fra la vita e la morte. 1954. Primo trapianto di rene riuscito (il primo trapianto di cuo­ re umano sarà nel 1967): l ’uomo può rinnovare parti essenziali del suo stesso organismo e rigenerarsi. 1956. Sperimentazione allargata - sulle donne di Portorico - della pillola anticoncenzionale: l’uomo può separare a suo piacimento l’eser­ cizio della sessualità dalla fecondità, secondo quanto era vagheggiato dai teorici della rivoluzione sessuale. 1959. Primi tentativi riusciti e documentati di fecondazione animale in vitro (sarà nel 1978 la prima nascita umana per FIVET): l’uomo rie­ sce a intervenire sui processi generativi e a dominarli a volontà. Queste innovazioni crearono entusiasmo e insieme domande inquie­ tanti. L’uomo si trovava, per la prima volta nella sua storia, nella situa­ zione di poter controllare molti aspetti della sua esistenza, ma sarebbe stato in grado di amministrare queste potenzialità? La crescita smisu­ rata delle conoscenze scientifiche e dei mezzi tecnologici sarebbe stata accompagnata da una crescita adeguata nella consapevolezza dei valo­ ri in gioco? Gli stessi progressi tecnici, l’estrema specializzazione degli interventi, la medicina di massa, non rischiavano di rendere la medici­ na, fatta per il servizio dell’uomo, sempre meno umana? Di fronte a questi interrogativi, si facevano quindi sentire due istan­ ze urgenti e imprescindibili: umanizzare la medicina e, sempre in nome dell’uomo, indicare orientamenti e confini alla ricerca e agli interven­ ti biomedici.

b. I diritti umani Negli anni del dopoguerra, dopo il processo di Norimberga che sve­ lò gli orrori dei campi di concentramento nazista, in cui si erano com­ piuti delitti ignobili in nome delle leggi dello Stato e nei quali gli stessi medici avevano praticato le sperimentazioni più folli e atroci, si avvertì la necessità di ritrovare, prima di ogni legislazione e del diritto positivo, prima delle ragioni della legge e della scienza, un fondamento transcul­ turale e universale a tutela e promozione della dignità dell’uomo. Que­ sta radice comune di eticità si è espressa nella elaborazione dei diritti umani.16 II tema dei diritti umani costituisce uno dei motivi conduttori16 16 C asini C., Processo di Norimberga e crisi del giuspositivismo, in T arantino A., Rocco R. curr., Il processo di Norimberga a cinquant’anni dalla sua celebrazione, Milano 1998, 125-135. Sui diritti umani e la bioetica, vedere: D ’A gostino F., Tendenze culturali della bioetica e diritti dell’uomo, in B ompiani A. cur., Bioetica in medicina, Roma 1996, 48-54; S greccia E., C asini M., Diritti umani e boetica, “Medicina e Morale” 59 (1999) 17-47.

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di alcuni dei più rilevanti fenomeni socio-culturali che hanno caratteriz­ zato la seconda metà del secolo: i movimenti pacifisti, il fenomeno del­ la contestazione giovanile e il femminismo. La crescita della sensibilità generale per le problematiche della giu­ stizia portò a sottolineare l’esistenza di un diritto alla salute e quindi del diritto per tutti di poter usufruire di adeguate assistenza e cure. L’at­ tuazione di questa giustizia sanitaria si veniva però a scontrare sia con le iniquità strutturali della società, sia con la scarsezza di alcune risor­ se terapeutiche. Fece grande impressione nell’opinione pubblica un articolo intito­ lato They Decide Who Lives, Who Dies (Loro decidono chi vive e chi muore) apparso su Life del 9 novembre 1962. Dopo l’introduzione del­ lo shunt arterovenoso, nel 1961, era diventato possibile praticare la dia­ lisi cronica ma, data la scarsezza degli apparecchi disponibili, si poneva il problema della scelta dei pazienti che avrebbero potuto giovarsene. A Seattle fu quindi istituito un Comitato composto per lo più da non me­ dici, con l’incarico di indicare i criteri per selezionare i pazienti da av­ viare alla dialisi e quindi di decidere sulla vita o la morte di essi. La giornalista Shana Alexander studiò per sei mesi il lavoro di quello che poi chiamò God Committee (il Comitato-Dio) e ne fece un resoconto per il suo giornale: l ’articolo ebbe una risonanza straordinaria perché metteva drammaticamente in luce questioni inedite, almeno nella for­ ma e nella vastità con cui si stavano ponendo. Il trentesimo anniversa­ rio dell’articolo è stato celebrato con un convegno tenuto all’Università di Washington, Seattle, al quale hanno partecipato i pionieri della bioe­ tica, sul tema La nascita della bioetica. La necessità di tutelare V autonomia e la dignità delle persone an­ che nei confronti delle superiori esigenze della scienza divenne ogget­ to di discussione e di apprensioni nell’opinione pubblica americana e mondiale quando, alla fine degli anni ’60, cominciarono a trapelare no­ tizie allarmanti di sperimentazioni fatte su soggetti umani, ignari di es­ sere usati come cavie. Dal 1956 al 1970 circa 700 bambini ritardati di una scuola di New York furono infettati dal virus dell’epatite e i genitori spinti ad accon­ sentire con la minaccia di non tenere i bimbi nella scuola. Sempre a New York, nel 1964, furono inoculate cellule cancerose vive a 22 anziani: do­ po l’esplosione dello scandalo nell’opinione pubblica i medici confessa­ rono candidamente che pensavano di potere fare qualsiasi ricerca se essa risultava a beneficio della scienza. Dal 1932 al 1972 a Tuskegee in Alaba­ ma, 399 contadini affetti da sifilide non vennero curati né informati del­ la natura della loro malattia e alcuni esami dolorosi e rischiosi come la

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rachicentesi, finalizzati solo a raccogliere informazioni sull’andamento della malattia, erano definiti “trattamenti speciali gratuiti” per bad blood (sangue cattivo). Non solo l’esperimento fu condotto con l’inganno, ma esso fu portato avanti anche dopo che la disponibilità della penicillina ne­ gli anni ’40 aveva cambiato completamente la terapia e la prognosi della malattia, rendendolo scientificamente inutile.17 Una apposita commissio­ ne d’inchiesta nominata dal Ministero della Sanità giunse alla conclusio­ ne che la società non poteva più permettere che l’equilibrio fra i diritti individuali e il progresso scientifico venisse determinato unicamente dal­ la comunità scientifica e lo scalpore suscitato fu uno dei fattori determi­ nanti per l’elaborazione del Rapporto Belmont nel 1979, pietra miliare dell’etica della sperimentazione e, in generale, della bioetica. c. Crisi del mito della neutralità etica della scienza Negli ambienti scientifici è ancora molto diffusa una mentalità di tipo positivista che si manifesta con una diffidenza o insofferenza per la cultu­ ra filosofìco-umanistica: le scienze ritengono di non aver bisogno di una etica e, in generale, di una ermeneutica, essendo queste discipline uma­ nistiche ritenute portatrici di visioni ideologizzate che verrebbero a in­ sidiare la perfetta imparziahtà e oggettività dei fatti. Dal punto di vista epistemologico è vero che il sapere scientifico risponde a regole di verità che non sono quelle del sapere etico: una affermazione scientifica può es­ sere vera o falsa e non buona o cattiva. Nella pratica, le modalità di svol­ gimento delle ricerche, gli interessi che portano a privilegiare un ambito rispetto ad un altro, le finalità perseguite sono eticamente rilevanti. L’uso ideologico della scienza giunse ad un parossismo nella Ger­ mania nazista con l’elaborazione delle teorie razziali e la legittimazione di modalità di ricerca raccapriccianti su soggetti umani. Altre vicende, negli anni ’60, contribuivano a mettere in crisi, davanti agli occhi della gente, la pretesa neutrabtà della scienza ed evidenziavano sempre più la possibilità di un suo uso ideologico e strumentale: ricordiamo, per esem­ pio, lo scalpore suscitato dalla notizia del coinvolgimento, consapevole o inconsapevole, degb scienziati e delle Università nordamericane in stu­ di destinati all’industria bellica, dapprima per la produzione della bomba atomica e poi per le nuove armi da impiegarsi nel Viet-Nam; ricordiamo lo sconcerto per la scienza e la medicina di Stato in Urss, in particolare l’uso politico della psichiatria contro i dissidenti o il caso, davvero em­ 17 Cfr. J ones J. H., Bad Blood : The Tuskegee Syphilis Experiment, New York 1981 (revised ed. 1993); R everby S. M. ed., Tuskegee’s Truths: Rethinking the Tuskegee Syphilis Study, Chapel Hill (NC) 2000.

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blematico, della genetica ideologizzata di T. D. Lysenko (1898-1976).18 Sul versante filosofico, intanto, ad opera della scuola di Francoforte e, più tardi, della filosofia di K. O. Apel e J. Habermas, il mito dell’og­ gettività della scienza si veniva smantellando, mostrando le precom­ prensioni ideologiche operanti in ogni ricerca scientifica che è compiuta da uomini i quali hanno alle spalle desideri, attese, paure e interessi. Anche la distinzione fra la scienza pura e la scienza applicata, con la tacita implicazione che la prima, in quanto pura conoscenza, è sempre di per sé un bene, veniva a sgretolarsi per l ’evidenza del collegamen­ to, di fatto oggi inscindibile, fra questi due aspetti della scienza e per la semplice constatazione che se cercare la verità scientifica è un bene, non ogni via o finalità di ricerca sono corrette.

d. Crisi ambientale Dagli inizi degli anni ’60 divenne sempre più chiaro che il pianeta si stava avviando verso il tracollo ambientale sotto i colpi della presenza distruttrice dell’uomo e da più parti si cominciò a invocare un radicale mutamento culturale e una nuova coscienza ecologica. Secondo Van Rensselaer Potter (1911-2001) - l’oncologo americano che si ritiene abbia coniato la parola bioetica nel 1970 - lo scopo della bioetica è appunto quello di portare tutta l’umanità a prender parte atti­ va e consapevole ai processi della evoluzione biologica e culturale. Di fronte agli effetti nefasti dell’intervento umano sul pianeta, ormai pros­ simo alla morte ecologica come un organismo invaso dal cancro - per­ ché l ’uomo per la natura è come il cancro per un organismo vivente - si impone una disciplina che faccia da ponte tra fatti scientifici e valori eti­ ci: nella parola bioetica, bio sta a rappresentare appunto la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi, mentre etica sta a rappresentare la conoscenza dei sistemi dei valori umani. L’immagine della bioetica come ponte fu usata dallo stesso Van R. Potter nel suo saggio Bioethics: Bridge to thè Future, in cui egli denunciava come innaturale e pericolo­ sa la scissione fra ambito scientifico e umanistico del sapere e auspica­ va una mediazione fra le due culture.19 18 Lysenko era un agronomo ucraino che, in opposizione alla genetica mendeliana, soste­ neva la modificabilità dei caratteri dei viventi sotto l’influsso dell’ambiente e la possibilità di trasmissione di questi caratteri modificati alla progenie (neo-lamarkismo). Dal 1948 al 1964 queste tesi furono approvate ufficialmente in quanto ritenute in linea con il materiali­ smo storico-dialettico, anche se la loro applicazione in agricoltura dette risultati disastrosi. Vedere: R oll-H ansen N., The Lysenko Effect. The Politics o f Science, New York 2005. 19 P otter V.R., Bioethics. Bridge to the Future, Englewood Cliffs 1971 (trad. it. ID., Bioe­ tica: ponte verso il futuro, Gensabella Furnari M., Russo G. curr., Messina 2000).

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Tutta una serie complessa di fattori storici, culturali, sociali, qui sche­ maticamente evocati a modo di semplice allusione e suggestione, costi­ tuiscono F humus in cui prende forma e si sviluppa la bioetica attraverso il convergere di molti apporti storici e culturali. La nascita della bioe­ tica come disciplina coincide, non casualmente, con un ritorno di inte­ resse da parte dell’etica filosofica per l ’etica pratica interesse stimolato dall’urgenza di fornire un adeguato fondamento al dibattito pubblico e alle legislazioni e di guidare il dialogo e l ’intesa nel contesto delle so­ cietà pluraliste e democratiche. Secondo S. Toulmin, l’etica medica ha addirittura contribuito a salvare la vita della filosofia morale, che si sta­ va isterilendo in aridi dibattiti metaetici e l’ha riportata alla ribalta del­ la vita e al centro dell’interesse generale.20 Alla bioetica è assegnato il compito immane e affascinante di dare pienezza di senso alle nostre conoscenze nel campo delle scienze del­ la vita e della salute e orientare l ’espandersi delle conoscenze tecniche e scientifiche verso il bene autentico e integrale dell’uomo, rispettando gli equilibri naturali del pianeta nel contesto dei quali si dispiega la sua avventura. La bioetica è la risposta ad un bisogno, la risposta alla pres­ sante domanda di moralità nell’ambito delle scienze della vita e della salute e, più in generale, costituisce un ripensamento globale del ruolo e dell’azione dell’uomo su se stesso e sul suo mondo. Lo sviluppo della nuova disciplina è stato sorprendentemente rapido e l ’accoglienza, da parte degli addetti ai lavori e del pubblico, trionfa­ le. La fondazione di uno dei centri di studio più importanti, VHastings Center di New York, sotto la denominazione di Institute o f Society, Ethics and Life Sciences, risale al 1969, un anno prima dell’invenzio­ ne della parola bioetica. Già nel 1978 poteva comparire la prima tratta­ zione ampia e articolata della materia, la Encyclopedia o f Bioethics, in 4 volumi di 1800 pagine con 315 articoli di 280 autori che presentava­ no un’impressionante panoramica sull’insieme delle questioni etiche e sociali nell’ambito delle scienze della vita, della medicina, della salute. «Nella storia della cultura accademica è la prima volta che un’enciclo­ pedia appare prima che il campo di conoscenza di cui tratta sia ben de­ finito e ampiamente riconosciuto».21

20 T oulmin S., H ow Medicine Saved the Life o f Ethics, “Perspectives in Biology and Med­ icine” 25 (1982) 736-750. Si veda anche: B erti E. cur., Tradizione e attualità della filoso­ fìa pratica, Genova 1988. 21 Nel 1995 è uscita una revised edition dell’Encyclopedia, in 5 volumi, con aggiornamenti e aggiunte ed una terza edizione, curata da Stephen Garrard Post, è uscita nel 2003.

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1.3 Statuto epistemologico della bioetica D. Callahan, direttore dell 'Istituto di Hastings, sin dal 1973 si era ri­ ferito alla bioetica come a una disciplina.22 Per potersi qualificare co­ me disciplina autonoma la bioetica deve esser capace di darsi una solida strutturazione scientifica, precisando sia l’ambito di studio sia il punto di vista e, quindi, la metodologia con la quale coglie e studia i suoi oggetti. Si può parlare in senso proprio di una disciplina, in quanto forma speci­ fica di conoscenza umana, solo se questa disciplina mostra di avere uno statuto epistemologico che ne caratterizzi l’identità e che la distingua dal­ le altre discipline. Essendo la bioetica un’etica, essa si colloca nel con­ testo delle discipline etiche condividendone lo statuto epistemologico e presupponendone le questioni fondative e metaetiche, ma, pur configu­ randosi con la struttura logica tipica del discorso etico, la bioetica pre­ senta delle peculiarità che ne fanno parlare, appunto, come di una nuova disciplina. Cercheremo in questo paragrafo di evidenziare alcuni elementi es­ senziali del dibattito e di fissare alcuni punti fermi, tenendo tuttavia pre­ sente che la questione è ben lontana dall’essere risolta. In un intervento di notevole spessore teorico A. Pessina ha parlato di una «fluidità epi­ stemologica della bioetica» dovuta al fatto che la disciplina «non ha an­ cora raggiunto una matura consapevolezza rispetto alla definizione dei propri compiti e dei propri strumenti».23

a. Ambito di studio L’ambito di studio della bioetica è variamente circoscritto, potendosi identificare due impostazioni fondamentali che si sono confrontate sin dagli inizi della disciplina. Alcuni preferiscono restringere lo studio della bioetica agli interven­ ti sulla vita umana e danno alla bioetica una intonazione più medica, 22 C allahan D., Bioethics as a Discipline, in Hastings Center Studies, voi. 1, New York 1973, 66-73. Cfr. P rivitera S., Epistemologia bioetica, in L eone S., P rtvitera S. edd.,

Nuovo dizionario di Bioetica, 416-418. 23 P essina A., L ’ermeneutica filosofica come sfondo teorico della bioetica. Elementi per una valutazione critica, “Medicina e Morale” 46 (1996) 43-70 (p. 45-46). Vedere inoltre: B ellino F., I fondamenti della bioetica. Aspetti antropologici ontologici e morali, Roma 1993, 15-36; C astellana M., Sui fondamenti epistemologici della bioetica, in B ellino F.cur., Trattato di bioetica, Bari 1992, 137-156; T agliavini A., Bioetica: una prospettiva multidisciplinare, “Rivista di filosofia” 44 (1989) 298-310. Importante resta la riflessio­ ne di: L adriere J., Approche philosophique de la problématique bioéthique, “Revue des Questiones Scientifiques” 3 (1981) 353-383 (trad. it. L ’etica nell’universo della raziona­ lità, Milano 1999, 213-236).

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tanto che qualche volta si parla di bioetica medica o etica bio-medica come equivalente a bioetica. In questa prospettiva l’ambito di studio della bioetica comprende l ’insieme delle questioni etiche, giuridiche, filosofiche e teologiche che si sono poste o che dovrebbero essere po­ ste nella società per effetto dello sviluppo delle scienze biomediche e, cioè le questioni etiche della nascita, della vita e della morte umana co­ sì come si presentano, in particolare, in seguito agli sviluppi recenti e alle possibilità della ricerca e della terapia, biologiche e mediche. W.T. Reich ritiene che l ’enorme successo del nuovo termine coniato da Van Potter sia dovuto proprio alla specifica applicazione all’etica della me­ dicina e delle scienze biologiche che ne fece A. Hellegers, fondatore del Kennedy Institute alla Georgetown University di Washington che, all’atto di fondazione nel 1971, fu denominato appunto The Joseph and Rose Kennedy Institute fa r thè Study o f Human Reproduction and Bioethics (“per lo studio della riproduzione umana e della bioetica”). Una seconda impostazione, minoritaria, ma più rispondente all’in­ tenzione di Yan Potter, allarga l’ambito di studio della bioetica dalla sola vita umana al fenomeno vita in tutta la sua vastità, tenendo conto delle strette relazioni dei viventi fra loro e con l ’ambiente.24 Il suggeri­ mento di questi autori ha un indubbio valore ideale e non va trascurato, anche perché si riconnette con una delle matrici genetiche della bioeti­ ca, l’opera pionieristica di Aldo Leopold, ecologo americano che mise in evidenza l’importanza dei costumi umani per l ’equilibrio dell’ecosi­ stema e propugnava un nuovo stile di comportamento fondato su nuove obbligazioni e nuove norme.25 Questa impostazione, tipica della cosid­ detta bioetica globale, non si riduce a una semplice estensione del cam­ po di studio, ma cerca anche di superare il tradizionale orientamento antropocentrico che soggiace in modo più o meno esplicito a molte pro­ poste bioetiche.26 Per chi accetta questa prospettiva il campo di studio 24 Russo G., P otter V.R., L ’idea originaria di bioetica, “Itinerarium” 2 (1994) 2, 11-25; W hitehouse P.J., The Rebirth o f Bioethics: Extending thè Originai Formulations ofVan Rensselaer Potter, “The American Journal of Bioethics” 3 (2003) W26-W31. Potter riferi­ va questa sua preoccupazione in: P otter V.R., Humility with Responsability . A Bioethic fa r Oncologist: Presidential Adress, “Cancer Research” 35 (1975) 2297-2306. 25 L eopold A., A Sand County Almanac and Sketches Here and There, London-OxfordNew York 1968 (originale 1949); ID., Some Foundamentals o f Conservation in thè South­ west, “Environmental Ethics”, 1 (1979) 131-141, specialmente 139-140. Cfr. C allicott J.B. ed., Companion to A Sand County Almanac: Interpretive and Criticai Essays, Madi­ son (Wisconsin) 1987; B artolommei S., Etica e ambiente. Aldo Leopold e il valore mora­ le degli oggetti naturali, in M ori M., Questioni di bioetica, Roma 1988, 223-245. 26 L’espressione bioetica globale fu introdotta dallo stesso Van Rensselaer Potter, perché

il termine bioetica era stato assunto per indicare esclusivamente lo studio delle questioni

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della bioetica si fa ampio quanto il bioregno (in inglese Bio-Realm). Una soluzione di compromesso sarebbe quella di estendere l’interes­ se della bioetica a tutto il fenomeno vita, cogliendone l’unità, ma senza oscurare le distinzioni ontologiche e assiologiche tra i diversi ambiti. Si potrebbe parlare, allora, di bioetica umana interessata alle questioni che riguardano l’uomo e il mondo umano, di bioetica animale, interessata ai specifici temi animalistici (rispetto degli animali, sperimentazione bio­ medica, biotecnologie genetiche...), e di bioetica ambientale, interessata alle questioni di valore connesse con l’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale (sviluppo sostenibile, ecologia e giustizia, biodiversità...). In questo testo, quando si parlerà di bioetica senza altre specificazio­ ni, si intenderà la bioetica umana.

b. La bioetica come sapere pratico Per individuare con precisione lo statuto epistemologico della bioe­ tica, occorre a questo punto determinare se il sapere bioetico sia di tipo prevalentemente speculativo oppure pratico o se sono presenti in esso entrambi i momenti e i livelli articolati fra loro. La prima edizione della grande Encyclopedia o f Bioethics, definiva la bioetica come «lo studio sistematico della condotta umana nell’ambi­ to delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali».27 Secondo questa ormai classica definizione il sapere bioetico è quindi un sapere pratico, non nel senso che abbia una finalità semplicemente pratica (riducendo­ si a una tecnica di produzione decisionale), né perché si costituisca at­ traverso una modalità pragmatica (rinunciando a fondarsi dal punto di vista teorico), ma nel senso che studia una prassi umana, gli interventi nel campo delle scienze della vita e della salute, e individua i criteri eti­ ci in grado di orientarla. In questa prospettiva la bioetica non si configura come una nuova forma di etica, ma come un nuovo settore dell’etica e in questa linea può collocarsi la definizione di essa dà U. Scarpelli secondo il quale la «bioetica è l’etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni del­ la vita organica, del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte».28 In questa pro­ mediche, contro le sue intenzioni. Cfr. V an R. P otter, Global Bioethics (Building on the Leopold Legacy), East Lansing 1988; ID., Global Bioethics as a Secular Source o f Moral Authority fo r Long Term Human Survival, “Global Bioethics” 5 (1992) 5-11. 27 R eich W. T., Encyclopedia o f Bioethics, New York 1978, voi. 1, XIX. 28 Scarpelli U., La bioetica alla ricerca dei principi, in Id., Bioetica laica, Milano 1998,217-247. Il saggio era stato pubblicato originariamente in “Biblioteca della libertà” 22 (1987) 99,8-32.

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spettiva, la bioetica «ovviamente non è una disciplina - continua Scar­ pelli - che, sia pure nel quadro dell’etica, possa porsi come autonoma e indipendente».29 Anche mons. E. Sgreccia, da ben altri presupposti, considera la bioetica come una parte dell’etica, dell’etica personalista nel suo caso, e la definisce come la disciplina che «a partire dalla de­ scrizione del dato scientifico, biologico e medico, razionalmente esami na la liceità dell’intervento dell’uomo sull’uomo».30 Tenendo presenti i tre livelli del discorso etico, quello metaetico, quello teorico normativo e quello casuistico, sembra di poter defini­ re la bioetica come un'etica applicata, derivante cioè dalla applicazio­ ne di una data teoria etica, con i suoi presupposti fondativi e con il suo sistema normativo, a un ambito preciso dell’agire umano, quello sul­ la vita e la salute. Sotto questo punto di vista la bioetica consisterebbe nell’applicazione di un insieme di teorie generali, di principi e di regole di ordine etico ai problemi che si presentano nella pratica clinica, nel­ la distribuzione delle risorse sanitarie e nella ricerca biomedica. Ana­ logamente, ponendoci però nella prospettiva di coloro che estendono l’ambito della bioetica a tutto il fenomeno vita, si potrebbe definire la bioetica come «etica applicata al bio-regno».31 J. Childress e T. Beauchamp, preferiscono parlare - in senso equi­ valente - di etica pratica e spiegano che «il termine pratica si riferisce all’uso di una teoria etica e di metodi di analisi etica per esaminare pro­ blemi morali, prassi e politiche in diversi campi, incluse le professioni e la politica pubblica».32 Si propongono, allora, per la bioetica i problemi comuni ad ogni etica applicata o pratica, in relazione soprattutto all’articolazione fra momento applicativo e momento teorico-pratico.33 L’etica pratica, in­ fatti, se cerca di svincolali da una teoria etica generale con la sua com­ prensione della vita buona e dei valori che la sostanziano, allo scopo di guadagnare la concretezza dell’esistenza e delle sue domande, corre il rischio di annullarsi proprio in quanto etica; d’altra parte la teoria eti­ ca fondativa, se si autocostruisce in astratto senza tenere sempre davan-

29 Una analisi filosofica delle diverse definizioni di bioetica, in dipendenza delle diverse prospettive: P essina A., Bioetica. L ’uomo sperimentale, Milano 1999, 22-42. 30 S greccia E., Mauale di bioetica, voi. I. Fondamenti ed etica biomedica, Milano 2007, 31. 31 B ellino F., I fondamenti, 23. 32 C hildress J., B eauchamp T., Principles o f Biomedicai Ethics, New York 19944, 4. I due Autori continuano dicendo che, pur essendoci una distinzione reale fra etica normati­ va e etica pratica, questa distinzione non sarà netta nel corso della loro trattazione. 33 Cfr. S teigleder K., Problemi di etica applicata, “Concilium” 25 (1989) 492-503; M as­ sarenti A., D a R e A., L ’etica da applicare, Milano 1991.

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ti a sé le istanze della vita, rischia di non risultare applicabile ai suoi oggetti o, peggio, di imporre alla vita categorie intellettualistiche. La stessa applicazione di un insieme teorico e normativo non può avvenire meccanicamente, senza una riflessione previa che rilegga i presupposti metaetici e teorico-normativi nella prospettiva più consona all’oggetto studiato, né si può passare dal piano teorico a quello pratico senza l’in­ dividuazione di una criteriologia che guidi la transizione da un Avello all’altro del sapere etico. L’indagine filosofica che non si interessa dei problemi della bioetica, ma dei problemi sulla bioetica è stata definita metabioetica?4A nostro avviso la metabioetica altro non è che una me­ taetica in cui vengono accentuate le tematiche più rilevanti in relazione agli interessi della bioetica. Nella bioetica, si possono distinguere così tre livelli di riflessione fra loro articolati: la bioetica generale, che si occupa delle questioni pre­ liminari e fondative di tipo metabioetico (modelli antropologici, teorie etiche, produzione della norme...); la bioetica speciale, che studia i sin­ goli problemi (eutanasia, fecondazione artificiale, aborto...); la bioetica clinica o casuistica che discute casi particolari che possono darsi nel­ la vita quotidiana.

c. Il metodo bioetico Pur essendo essenzialmente un’etica, la bioetica si struttura secon­ do il paradigma della complessità, nel senso etimologico del latino cum-plexus che significa intrecciato insieme. Questa disciplina, infatti, dovendo affrontare i problemi sollevati dall’attività umana nel campo della vita, necessita delle competenze e degli apporti di filosofi, biologi, medici, giuristi, sociologi, genetisti, ecologi, zoologi, teologi, psicolo­ gi. La bioetica si offre come disciplina di frontiera, capace di operare la convergenza fra gli apporti di diverse scienze pervenendo, a partire dal­ l ’interpretazione dei dati empirici, ad una sintesi transdisciplinare. À. Pessina, richiamando una terminologia aristotelica, definisce la bioeti­ ca una disciplina architettonica, con il compito di orientare realtà di­ sparate verso un’unica meta, in una sintesi organica e unitaria, che è lo sviluppo umano integrale:34

34 La metabioetica non studia i problemi concreti della bioetica, ma i problemi sulla bioe­ tica, cioè le questioni preliminari e fondative della disciplina chiarendo i concetti che usa (valore, norme, bene, dovere...) e mettendone in evidenza i presupposti (modelli antro­ pologici e teorie etiche). Sulla metabioetica e le sue implicazioni, si veda: B ellino F. cur., Trattato di bioetica, 11-161; Russo G., Fondamenti di metabioetica cattolica, Roma 1993.

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Proprio P incerto confine metodologico che sembra accompagnare la bioe­ tica come area disciplinare, o meglio ancora, multidisciplinare, può favorire un conflitto di competenze che in altri ambiti conoscitivi non si registra con la medesima intensità... In ogni prospettiva multidisciplinare orientata all’azio­ ne non può mancare una disciplina “architettonica”, per dirla con Aristotele, in grado cioè di far confluire i diversi dati, autonomamente reperiti dalle sin­ gole ricerche, ad un unico scopo.35 Tale complessità culturale e scientifica conferisce alla bioetica una connotazione multidisciplinare, al punto che qualcuno arriva a conside­ rare la bioetica più che una disciplina, come un vasto territorio, come un terreno di confronto di saperi. La multidisciplinarietà, per evitare di generare indeterminatezza nello statuto epistemologico della bioetica e poter svolgere proficuamente il suo ruolo per la corretta comprensione e soluzione dei problemi, deve sapersi coniugare con la precisa distinzio­ ne di oggetto materiale e oggetto formale di ciascuna disciplina. Le scienze, quando hanno ambiti di studio (.oggetto materiale) coin­ cidenti in tutto o in parte, si distinguono tra di loro per il punto di vista e quindi il metodo (oggetto formale) da cui ciascuna studia il suo og­ getto. La tradizionale distinzione tra oggetto materiale e formale di una disciplina, lungi dal separare le ricerche dei vari settori d ’indagine, ser­ ve a creare i presupposti per un’articolazione complessa e organica dei rapporti fra le varie discipline, evitando confusioni e riduzionismi. An­ che la biologia, la medicina, la psicologia, il diritto ecc., si interessano almeno in parte degli stessi argomenti della bioetica, ma da un punto di vista diverso: il punto di vista della bioetica è quello dell’etica, per cui i molti saperi che la bioetica usa e presuppone convergono alla fine in un sapere di tipo etico. Una questione metodologica comune a tutte le forme di etica appli­ cata, ma vivissima in bioetica è il problema della acquisizione e com­ prensione degli oggetti da parte della ratio ethica. La bioetica infatti deve essere capace acquisire gli imprescindibili dati empirici e di rileg­ gerli alla luce dei significati e dei valori, passando dal piano scientifico-descrittivo al piano etico normativo. Il pericolo della ribaltamento del semplice dato biologico o tecnico in normatività, così come una as­ sunzione selettiva e pregiudiziale dei dati empirici in funzione di tesi precostituite è sempre incombente. Occorrerà una scienza ermeneutica, che si rivolga ai dati empirici e li interpreti rendendoli suscettibili di es­ 35 P essina A.,

Fondazione e applicazione dei principi etici. Aspetti del dibattito sulla bioe­ tica, “Rivista di filosofìa neo-scolastica” 88 (1991) 584.

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sere assunti nel discorso etico, e che, nello stesso tempo, salvaguardi la distinzione frai piani del sapere. Questo delicatissimo ruolo di media­ zione fra dato empirico ed elaborazione normativa è svolto in bioetica dalla antropologia e dalla cosmologia filosofica.

d. Destinatari e referenti della bioetica Un ulteriore elemento che concorre a caratterizzare l’assetto peculia­ re della bioetica proviene dai suoi potenziali destinatari. Per alcuni la bioetica si rivolge primariamente ai medici e agli uomi­ ni di scienza. Callahan, per esempio, definisce la bioetica come la di­ sciplina «incaricata di elaborare una metodologia capace di assistere medici e uomini di scienza nella scelta delle decisioni buone da un pun­ to di vista sociologico, psicologico e storico».36 Ovviamente la bioetica costituisce un elemento essenziale per una formazione adeguata del personale sanitario, ma - a nostro avviso - non è giustificata l’esclusione di gran parte della società da discussioni e de­ cisioni nel campo della vita e della salute che coinvolgono tutti, senza considerare che una bioetica per i soli addetti ai lavori finirebbe inevi­ tabilmente per sviluppare in modo unilaterale la bioetica di frontiera, quella connessa con le tecniche più sofisticate e con le ricerche più raf­ finate, piuttosto che la bioetica quotidiana, quella delle scelte di tutti i giorni sia pubbliche sia personali sulla tutela e promozione della salute e la salvaguardia dell’ambiente. Con più fondamento, perciò, altri Au­ tori individuano esplicitamente l’intera società come destinataria del­ la bioetica. Esemplari, a tal proposito, gli Statuti del Centre des études bioéthiques dell’Università di Louvain-la-Neuve che descrivono l’og­ getto della bioetica come «l’insieme delle questioni etiche, giuridiche, filosofiche e teologiche che si sono poste o che dovrebbero essere poste nella società per effetto dello sviluppo delle scienze biomediche». La consapevolezza che l'uomo ha oggi la capacità di incidere stabil­ mente sul suo organismo e sul mondo naturale o di porre le condizioni per produrre effetti a lunga scadenza, chiede alla bioetica di allargare l’ambito della responsabilità morale fino a comprendere anche le generazioni futu­ re: pensiamo per esempio a modifiche genetiche inserite nella linea ger­ minale che saranno trasmesse alla progenie o agli effetti a lunga scadenza derivanti dall’immissione in un sistema ambientale di specie animali o vegetali transgeniche o, più semplicemente, agli effetti sull’umanità futu­ ra di una cattiva gestione delle questioni demografiche. 36 C allahan

1973, 66-73.

D., Bioethics as a Discipline , in Hastings Center Studies, vol. 1, New York

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Qualcuno, infine, vorrebbe abbandonare il tradizionale antropocen­ trismo occidentale che riconosce valore morale solo agli esseri umani e che, quindi, prevede una responsabilità morale solo nei confronti del­ l’uomo e propone, in alternativa, il riconoscimento del valore intrinse­ co delle realtà naturali, animate e inanimate.

1.4 Rapporto con discipline affini V oggetto materiale della bioetica (sia che lo si voglia allargare a tut­ to il fenomeno vita, sia che lo si restringa alla sola vita umana) è, alme­ no in parte, sovrapponibile a quello delle scienze che studiano la vita umana e non umana (biologia, genetica, ecologia, medicina, zoologia, ecc.). La bioetica si distingue epistemologicamente da queste per il fat­ to che essa non studia il suo oggetto dal punto di vista descrittivo e se­ condo le regole del metodo scientifico, ma dal punto di vista etico. Più delicato appare il rapporto con alcune discipline di carattere nor­ mativo che condividono con la bioetica temi e ambiti, come la deonto­ logia medica, l’etica medica, il biodiritto. a. Bioetica ed etica medica Risulta difficile distinguere dal punto di vista epistemologico l’eti­ ca medica tradizionale dalla moderna bioetica ed infatti molti ritengono che il campo di studio e la prospettiva dello studio stesso della bioeti­ ca coincidano sostanzialmente con quelli dell ’etica medica sviluppata­ si nel contesto della teologia morale. L’etica medica studia gli interrogativi morali che sorgono nell’eser­ cizio della medicina. La bioetica supererebbe, in virtù della sua conno­ tazione metodologica multidisciplinare, alcuni limiti presenti nell’etica medica tradizionale, strettamente legata a presupposti di tipo teologico, condizionata da un approccio acritico al dato scientifico, poco interes­ sata agli aspetti medico-legali, giuridici, psicologici e sociali. A nostro avviso il carattere di novità della bioetica rispetto all’antica etica medi­ ca sta primariamente nel nuovo contesto in cui si trova ad operare la ra­ tio ethica, il contesto generato dai progressi bio-medici e delle scienze umane e dalla consapevolezza che l’ambito problematico della bioeti­ ca non investe soltanto la responsabilità dei medici, degli scienziati, dei biotecnologi, ma anche le decisioni e il destino di ogni uomo e quindi le responsabilità politiche e culturali della collettività. «La bioetica - scrive S. Spinsanti - non svaluta i problemi etici del­ le professioni sanitarie, ma li inserisce in un contesto più ampio» e con­

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tinua, giustificando il titolo che ha dato al suo volume Etica bio-medica'. «Personalmente abbiamo optato per la dizione etica bio-medica perché esplicita meglio l’ampiezza del campo di interesse: dalle tradizionali que­ stioni di etica medica a quelle recentissime, emerse dallo sviluppo del­ le scienze biologiche e delle tecnologie biomediche. Costituendosi come disciplina, la bioetica ci ha costretto a ripensare l’insieme dei rapporti dell’uomo con la vita da una nuova angolatura: quella della responsabi­ lità per le scelte buone o cattive. L’angolatura dell’etica, appunto».37

b. Bioetica e deontologia medica Storicamente esiste un rapporto genetico fra bioetica e deontologia medica, ma dobbiamo precisare in che cosa la deontologia medica si di­ stingua dalla bioetica.38 Il termine deontologia (dal greco dèon = necessario, doveroso) fu in­ trodotto da J. Bentham (1748-1832) per indicare «la parte delle nostre azioni alla quale il diritto positivo lascia Ubero spazio», cioè i comporta­ menti non codificati legalmente, ma adeguati ai costumi e alle tradizioni di un certo popolo e quindi accettati da un certo gruppo sociale (

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Nell’ambito .della)presentazione dei modelli etici.operanti in bioeti­ ca, sembra utile prendere in esame alcuni principi etici che, elaborati nel contesto della morale di ispirazione casuistica, sono tuttora usa­ ti dall’etica medica cattolica: il principio dell’atto a duplice effetto, il principio di totalità* il principio della lecita cooperazione. Questi principi tradizionali hanno lo scopo di portare il soggetto a produrre la nórma d ?azione concreta soprattutto nel caso che, per la conflittualità dei valori in gioco o per l ’incertezza sulla norma da osser­ vare, la scelta eticamente corretta non sia subito evidente: si tratta, in altre paiole, di modelli decisionali utili per interpretare con la dovuta chiarezza situazioni dubbie o conflittuali^ Dal punto di vista metaetico potrebbero essere interpretati cóme una sorta di correttivo teleologico dèlia norma deontologicamente formulata e rappresenterebbero quindi un tentativo di superare le rigidezze della deontologia forte senza per: deme la saldezza e l ’universalità normativa.53

a. Il principio dell’atto a duplice effetto Può capitare che da un singolo atto derivino sia effetti buoni, sia ef­ fetti cattivi, anche se spesso non voluti. Ci si domanda, allora, s e c a quali condiziom è corretto porre azioni alle quali consegua anche un qualche effetto cattivo.59 57 A siii .ey B., O ’R ourke K., Etica sanitaria, 239. ;; 58 Cfr. P rivitera S., Principi morali tradizionali, in C ompagnoni F., P iana G., P rivitera S., Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Cinisello Balsamo (Mi) 1990, 987-994. 59 Studi, con bibliografia: C onnery J., Catholic Ethics: Has thè Nomi for.Rule Making Changed?, “Theological Studies” 42 (1981) 232-250; G hoos J., l'a cte à doublé effet: étude de théologie positive, “Ephemerides'Theologicae Lovanienses” 27 (1951) 30-52; H ent drichs .H., Le moyen mauvais pour obtenir une fin bornie, Roma 1981; Keenan J., The Function ofthe Principle o f Doublé Effect, “Theological Studies” 54 (1993) 294-315; MiGLiETTA G.M., Teologia morale contemporanea. Il principio del duplice effetto, Roma 1997; M cC ormick R., Il principio del duplice effetto, “Concilium” 10 (1976), 129-149; Rossi L., Duplice effetto (principio del), in Rossi L., V alsecchi A, edd., Dizionario Etici-

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Dopo lunga gestazione e molte polemiche, la morale trovò la rispo­ sta attraverso il principio del duplice effetto che, nella formulazione definitiva^ risalente a J.-P.G ury (1801-1886), afferma che un atto dal quale séguono sia effetti buoni sia effetti cattivi può essere posto se si realizzano queste quattro condizioni: : i 1. L’atto è in sé buono (o indifferente). 2. L’intenzione dell’agente è soltanto verso l’effetto buono, méntre l’effetto cattivo sia soltanto tollerato o pefmesso. 3. L’effetto cattivò non è un mezzo per raggiungere l’effetto buono. 4. C ’è una proporzióne adeguata tra effetto buono ed effetto cattivo. Il principio fu accolto nell’insegnamento magisteriàle di Pio XII, ma lo stesso Pontefice ne avvertì i limiti e propose il principio di totalità co­ me più adatto a interpretare alcune situazioni nuove e più rispondente ai progressi della riflessione teologico morale. In campo bioetico il principio viene richiamato dagli Autori cattoli­ ci in diverse situazioni di grande delicatezza interpretativa. Nel caso per esempio di una donna gravida in cui si scopra un tumore ovarico mol­ to aggressivo, se la gravità del male non permette di rinviare la terapia, pena la morte della gestante, il medico può in buona coscienza praticare irradiazioni dell’ovaio malato purché lo faccia con la precisa ed esclusi­ va intenzione di curare la madre, mentre l’eventuale lesione anche fata­ le provocata al nascituro rappresenta un effetto non direttamente voluto dall’agente morale. Il senso di responsabilità del medico verso la vita* tanto quella madre quanto quella del figlio, lo obbligherà ovviamente a ricorrere a questa soluzione estrema solo dopo aver considerato tutte le possibili alternati­ ve (es. terapia diversa, attesa di maggiore maturità del feto e parto pre­ termine) e dopo aver preso ogni precauzione per evitare inutili rischi e danni al bambino.60 ;

b. Il princìpio di totalità l ì principio di 'totalità 'nacque come superamento del principio del duplice effetto, soprattutto per il suo minimalismo («come non peccare, malgrado un effetto cattivo dell’atto») e per la disgregazione che porta­ va neiratto, frantumato in atomi etici attraverso sottili distinzioni di ef­ clopedico dì Teologia Morale, Cinisello Balsamo (Mi)'19877, 293-308; V irdis A .,11 prin­ cipio morale dell’atto a duplice effetto e il suo uso in bioetica, “Medicina e Morale” 56

(2006) 951-979. ■. n i 60 Diverso è il caso in cui l’aborto sia direttamente voluto come terapia per una malattia della gestante (es. superare una letale preeclampsia gravidica): si tratta di aborto terapeu­ tico in senso stretto.

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fetti fra loro autonomi e un gioco di intenzioni, previsioni, permissioni artificiosamente isolate.61 Questo principio, già accolto nel magistero di Pio XI,62 conobbe un momento di grande fulgore nel magistero di Pio XII, che così lo enun­ ciò in un suo discorso: [Il paziente] in virtù del principio di totalità, del suo diritto di usare i servizi dell’organismo come un tutto, può disporre delle singole parti per distruggerle o mutilarle, quando e nella misura in cui è necessario per il bene dell’essere nel suo insieme, per assicurarne l’esistenza, o per evitare e, naturalmente per riparare gra­ vi e durevoli danni, che non potrebbero essere altrimenti evitati né riparati.63 Se l’amputazione di un arto cancrenoso è un intervento terapeutico facilmente giustificabile, come giustificare l ’ablazione di un organo sa­ no, ad esempio una ovariectomia come terapia in alcuni tipi di tumori ormonodipendenti ? Secondo il principio del duplice elf etto questi inter­ venti non sembrerebbero giustificati, essendo la mutilazione di un arto sano un attentato all’integrità corporea e quindi mezzo cattivo a un fine buono (la cura). In base invece al principio di totalità, viene giustifica­ ta anche l’amputazione di un organo sano qualora la conservazione o la funzione di questo provochino al tutto organico un danno grave impos­ sibile da evitare altrimenti. Del resto è chiaro che l’organo e la sua fun­ zione non hanno senso se non come organo e funzione di un organismo e la rovina dell’organismo nel suo complesso renderebbe inutile la fun­ zione che si vuol conservare: la parte infatti esiste per il tutto e, di con­ 61 Studi, con bibliografia: C iccone L., Salute e malattia. Questioni di morale della vita fi­ sica, voi. 2, Milano 1986, 192-209; G offi T., Etica della totalità, “Rivista di Teologia Mo­ rale” 5 (1973) 347-360; Madtran V.J., l e principe de tota lite, Paris 1963; M onotllo D.. Il principio di totalità, “Asprenas” 16 (1969) 106-126; N olan M., The Principle ofTotalìty in Moral Theology, in C urran C .E. cur., Absolutes in moral Theology, Washington 1968; S chüller B., L ’uomo veramente uomo. Dimensione teologica dell’etica nella di­ mensione etica dell’uomo, Palermo 1987, 15-22; 135-157; Z alba M., Totalità (principio di), in Rossi L., Valsecchi A. edd., Dizionario, 1141-1149. 62 Cfr. Pio XI, Lett. enc. Casti Connubii, 31-12-1930, AAS 22 (1930) 565: «La dottrina cristiana insegna, e la cosa è certissima anche al lume naturale della ragione, che gli stes­ si uomini privati non hanno altro dominio sulle membra del proprio corpo che quello che spetta al loro fine naturale, e che non possono distruggerle o mutilarle o per altro modo rendersi inetti alle funzioni naturali, se non nel caso in cui non si può provvedere per al­ tra via al bene di tutto il corpo».

63 Pio XII, Ai Partecipanti al Primo Congresso di Istopatologia del Sistema Nervoso, 149-1952, AAS 44 (1952) 782; cfr. Pio XII, Ai Partecipanti al XXVI Congresso Italiano di Urologia, 8-10-1953, AAS 45 (1953) 674. Vedere: K elly G., Pope Pius XII and thè Prin­ ciple ofTotality, “Theological Studies” 17 (1956) 373-396.

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seguenza, il bene della parte resta subordinato al bene del tutto. Perché la mutilazione sia moralmente giustificata non occorre quindi che l’organo sia malato, ma che costituisca un pericolo attuale per l’or­ ganismo, come insegna Pio XII: Il punto cruciale qui non è che l’organo amputato o reso incapace di fun­ zionare sia ammalato, ma che la sua conservazione o la sua funzionalità ap­ portino direttamente o indirettamente una seria minaccia per tutto il corpo. È certamente possibile che un organo sano, con la sua funzionalità normale, eserciti su di un organo ammalato una azione nociva, tale da aggravare il ma­ le con le sue ripercussioni su tutto il corpo. Può darsi anche che l’asportazione di un organo sano o l’arresto della sua normale funzionalità tolgano al male... il suo terreno di accrescimento... Se non si dispone di altro mezzo, l’interven­ to chirurgico sull’organo sano è permesso.64 La concezione dell’uomo come unità psicosomatica e la nozione or­ mai acquisita delle profonde, intime relazioni intercorrenti fra soma e psiche , porta logicamente ad allargare l’estensione tradizionale del principio di totalità dalla sola dimensione fisica alla dimensione psichi­ ca della persona: se infatti l’organo è parte di un organismo, e solo in esso trova il suo significato, l ’organismo a sua volta è parte di un’uni­ tà psicofisica, e solo in essa trova il suo significato. Questo induce al­ cuni autori cattolici a ritenere giustificati quegli interventi chirurgici che ledono l ’integrità fisica, quando dall’intervento consegua un mi­ glioramento oggettivo e proporzionato del benessere della persona (es. correzione del fenotipo in caso di un transessualismo resistente al trat­ tamento psichiatrico). Seguendo la logica del principio di totalità, è ragionevole amputare il piede di un uomo rimasto intrappolato in un passaggio a livello nell’im ­ minenza del transito di un treno che altrimenti lo ucciderà (mutilazione necessitata o in stato di necessità): la sopravvivenza dell’intero organi­ smo vai bene la perdita di un singolo arto. Nella stessa prospettiva sem­ brò ragionevole anche ai moralisti antichi sacrificare l ’integrità fisica, per esempio tagliando una mano incatenata, per riacquistare la libertà, soprattutto se in una prigionia ingiusta: l’integrità corporea viene sacri­ ficata per conseguire l ’eccellente bene spirituale della libertà.65 64 Pio XII, Ai Partecipanti al XXVI Congresso, 674. 65 Ciò è sostenuto da V ermeersch A., Theologia Moralis, tom. 2, Roma 1945, n. 223: «Licet amputare sibi brachium quo quis catenae vincitur, ad fugiendum incendium. Quod idem permittendum videtur si nexus sit extrinsecus, utputa ut quis ex dura servitute se liberet». Cfr. Jorio J., Theologia moralis, voi. 2, Neapoli I9605, n. 167, 111: «Probabilius licet

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Una applicazione estrema del principio fu data dallo stesso Pio XII che insegnò come la vita fisica,' in quanto valore non assoluto, può esse­ re subordinata alla vocazione soprannaturale dell’uomo: ^ Alla subordinazione degli organi particolari nei confronti dell’orga­ nismo e della sua finalità peculiare si aggiunge anche quella dell’orga­ nismo nei confronti della finalità, spirituale della persona stessa.66 Una corretta applicazione del principio di totalità presuppone una ponderazióne dei valori in gioco, identificati di volta in volta con il tutto e con la parte dell’insieme considerato. Mediante questo princi­ pio la inorale tradizionale riesce così a rispondere alla domanda circa la possibilità nioràje di ledere il pròprio" organisti!'o è «l’iniziale rispó­ ste dèontologicamehtè^^^ porta ad affermare l’illiceità mora­ le di qualsiasi intervento, si trasforma in attento esame dei singoli casi e dei diversi valori in essi concorrenti; il conflitto viene risolto in base al principio, il quale, in ultima analisi, corrisponde pienamente alla pro­ spettiva dell’argomentazione normativa di tipo teleologico».6? Di volta in volta occorre perciò determinare con chiarezza quali siaT no i valori la cui attuazione appaia conflittuale e quindi che cosa deb­ ba identificarsi cQUie la parte che può essere subordinata al tutto, come spiegò lo stesso Pio XII: , ; i , > : v ;

; Il presupposto fondamentale [per una corretta applicazione del principio] è di mettere in chiaro la quaestio facti, la questione di fatto: tra gli oggetti cui si applica il principio c’è la relazione del tutto alla parte? Un secondo presup­ posto: chiarire la natura, l’estensione e i limiti di tale relazione. Si pone essa sul pianò dell’essenza, o soltanto su quello dell’azione, oppure su èntrambi? Si applica alla parte sotto un aspetto determinato oppure sótto tutti gli aspètti? E nel campo ove si applica, assorbe essa interamente la parte o le lascia Una finalità limitata? La risposta'a questi quesiti non può niai èssere derivati rial principiò stèsso di totalità; il che equivarrebbe ad un circolo vizioso. Essa de­ ve dedursi da altri lutti e da altre cognizioni. Lo stesso principio di totalità non afferma che questo: dove si verifica una relazione-del tutto alla parte, e nella misura esatta in cui si verifica, la parte è subordinata al tutto, il quale può nel suo proprio interesse disporre della parte.68

mamim catena ligatam sibi abscindere ad vitandam mortem a belua, vel tyranno, aut incen­ dio, vel curru etc. impendentem, quia pars bono totius hominis, cedere debet». , -, 66 Pio XII, Al Collegio Intemazionale di Neuropsicofarmacologia, 9-9-1958, AAS 50 (1958) 693-694. ■ :,J: :, 67;P r iv it e r a S., Principi morali tradizioziali, 992., ,,, ,, , . Ai Partecipanti al PrimoiCongi'esso, 787-7$$. , .v : r.

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Non si possono quindi interpretare mediante il principio di totalità quelle situazioni nelle quali la parte rispetto al tutto è costituita dai sin­ goli individui rispetto a un tutto morale (es. Stato, famiglia, comunità umana), come nel caso della pena di morte giustificata da alcuni - co­ me vedremo - in nome del bene del corpo sociale, di cui il reo è ritenu­ to metaforicamente, ma non realmente, membro malato. ' :

c\ La cooperazione abmale - f i Nell’affrontare alcune situazioni concrete, può essere utile ricorrere a quello che è stato detto il princìpio della lecita cooperazione. Non di rado accade che, per porre in essere uh certo progettò, debbano concor­ rere più agenti morali, più o meno consapevoli del senso dèi progetto cui prendono parte e più o meno direttamente coinvòlti in esso. Un caso frequente nella pratica medica, dove si lavora in gruppo e dove è quasi sempre necessaria la collaborazione di più persone con mansioni diver­ se, è che un agente morale si trovi a prestare la sua opera all’interno di una catena di atti indirizzati ad un fine che egli non ritiene eticamente corretto e che* quindi, egli si chieda a che condizioni possa dare questa collaborazione senza venir menò alle sue convinzioni morali.69 i La morale tradizionale aveva analizzato acutamente diverse possibi­ lità, individuando a quali coùdizioni là collaborazione a un atto cattivo è giustificabile e moralmente accettabile. x > La cooperazione formale comporta la condivisione dell’intehziorie cattiva ed è sempre illecita: non occorre in questo caso una collabora­ zione fisica per diventare corrésponsabili dell’atto cattivo, ma basta il suggerimento, l’incoraggiamento, happroVazione e talvolta il silenzio stesso quando ci sarebbe il dovere di parlare è denunciare* il male.70 La cooperazione materiale consiste nella collaborazione ad un atto con effetti cattivi, ma senza l’adesione interna: essa può essere immedia­ ta o mediata. Nella collaborazione immediata si coopera all’esecuzione 69 Gfrl Curran Ch. E., Co-operation: Toward a Revision oftlie Concepì and Its Application, “Linacre Quarterly’’ 41 (1974) 152-167; F iSher À., Cooperation in Evil, “Catholic Mèdi­ ca! Quarterly” (1994) 15-22; K eenan J.F., Institùtióiìal Cooperation and thè Educai antl Réligious Directives, '“Linacre Quarterly” 64 (1997) 53-76; M elina L ., La cooperacion en acciones moralmente malas contra la vida humana, in L ucas L ijcas R. dir., Comentarìo interdisciplìnar et la- “Evangelium Vitàe ”, Madrid 1996* 468-490; T ettamanzi Di', Coópèrazione, in L eone S., P rivitera S. edd., Nuovo dizionario di Bioetica, 239-243. ' 70 Alcuni distinguono la cooperazione formale in cooperazione formale esplicita, quando è dirèttamente intesa; e cooperazione formale implicita, quando 1?intenzione rton è diretta.

La cooperazione formale'implìcita si avvicina molto alla cooperazione materiale immedia­ ta e, come quest’ultima, è da giudicarsi inaccettabile. Vedere: Z alba M ., Cooperatio materialis ad malum morale, “Periodica de rè morali” 71 (1982) 414-441. !

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dell’atto cattivo, del quale si diventa complici, indipendentemente dal­ l’intenzione: essa perciò non è lecita. Perciò le infermiere che assistono il medico in un aborto, ne sono moralmente responsabili anche se interior­ mente lo disapprovano. Nella collaborazione mediata (distinta in prossi­ ma e remota) si concorre a porre le condizioni perché si possa compiere l’atto cattivo. Vale il principio che quanto è più lontana la collaborazione, tanto più essa è giustificabile e, in particolare, la cooperazione materiale mediata è lecita se l’atto che serve a porre le condizioni per l’atto cattivo non è cattivo in sé e se c’è un motivo proporzionato.71 Così, per esempio, l’infermiera che esegue un ECG (elettrocardiagramma) ad una donna in vista dell’aborto (disapprovato dall’infermiera) non collabora ad esso, se non in modo così remoto da risultare ininfluente sull’atto abortivo.72 «Secondo le migliori interpretazioni, i principi della cooperazione ma­ teriale e formale non sono che una forma di presentazione dei principi del volontario in sé e del volontario in causa, valida nel caso di collaborazio­ ne ad un’azione cattiva d’altri».73 Un effetto cattivo è detto volontario in sé quando esso è voluto direttamente ed esplicitamente, come accade nel­ la cooperazione formale. Un effetto cattivo è detto invece volontario in causa quando è previsto, si potrebbe evitare e si dovrebbe quindi evitare: nella collaborazione materiale la collaborazione può essere involontaria e quindi non imputabile (come per lo più nella materiale remota) o volon­ taria in causa ed in questo secondo caso è imputabile.74 Osserviamo infine che nell’unica forma di cooperazione al male teoricamente ammissibile, quella materiale mediata, l’ammissibilità è condizionata dall’esistenza di una ragione proporzionata e questa ponderazione dei beni in gioco ci ri­ porta ancora una volta nell’ottica propria della teleologia. Data la complessità della vita contemporanea e la fitta rete di intera­ zioni che lega tra loro le persone nella nostra struttura sociale, il princi­

71 Queste due condizioni corrispondono alla prima e quarta condizione del principio del duplice effetto; le restanti due condizioni, che si riferiscono all’intenzione dell’agente, non sono esplicitate perché si tratta di una cooperazione solo materiale nella quale, per defini­ zione, l’intenzione dell’agente non è rivolta all’effetto cattivo. La collaborazione al male è dunque riportabile al principio del duplice effetto e sarà giustificata solo la collaborazione materiale mediata; in quella immediata invece si compie attivamente un atto cattivo e quin­ di non è soddisfatta la prima condizione, che l’atto sia buono o almeno indifferente. 72 Cfr. T ettamanzi D., Problemi morali circa la collaborazione all’aborto , “Medicina e Morale” 28 (1978) 396-427. 73 Rossi L., Carità, in Rossi L., V alsecchi A. curr., Dizionario di teologia morale, 99. 74 Nell’uso corrente volontario in causa è sinonimo di volontario indiretto e volontario in sé è sinonimo di volontario diretto. Non così nell’uso dei teologi scolastici: per san Tom­ maso volontario in causa significa la stessa cosa che per noi, mentre volontario indiretto è un effetto conseguente alTomissione di un atto (cfr. STh I-IIae, q. 77, art.7).

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III - Profili di bioetica. Quale etica per la bioetica ?

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pio di cooperazione è attualmente oggetto di rinnovato interesse e viene spesso incluso nel più ampio tema del compromesso etico?5 Si pensi al dibattito sulle strutture di peccato (politiche ed economiche) alle qua­ li ciascuno partecipa involontariamente per il solo fatto di agire al loro interno e che indirettamente rafforza e perpetua, si pensi alla crescen­ te sensibilità civile sull’obiezione di coscienza soprattutto in materia di atti medici o alla discussa obiezione fiscale di coloro che non vogliono sostenere con i loro contributi e tasse l’industria bellica della nazione.

3.10 La bioetica è una nuova etica? La bioetica, in quanto etica applicata agli interventi sulla vita del­ l’uomo e in generale agh interventi sul bioregno, ha bisogno di presup­ porre - come si è visto - una filosofia della natura e dell’uomo perché queste delincano l’orizzonte di senso in cui si svolge il discorso eti­ co. Ora, la maggior parte dei modelli cosmoantropologici impiegati in bioetica, siano laici siano religiosi, presentano un elemento comune considerato da alcuni Autori un limite comune - costituito dalle attitu­ dini di fondo della filosofia e quindi dell’etica tradizionale nei confronti del mondo naturale e dei rapporti fra uomo e natura. Queste radicate attitudini sono così sintetizzate da Hans Jonas (19031994) nel suo saggio Dalla fede antica all’uomo tecnologico: - l’etica tradizionale è antropocentrica, limitata alla relazione diret­ ta tra uomo e uomo e dell’uomo con se stesso. - l’azione sul mondo non-umano non costituisce una sfera significa­ tiva per l’etica. - l’entità uomo, considerata costante nella sua natura, non è ritenuta oggetto possibile della techne plasmatrice di nuove forme. - la moralità ha un campo d ’azione immediato, avendo a che fare con il qui e ora ed essendo connessa all’atto nella sua portata immedia­ ta. Le conseguenze e gli effetti più remoti (ritenuti moralmente impre­ vedibili) sono lasciati al caso, al destino o alla Provvidenza.7576 La situazione si sta ora velocemente trasformando nel senso di una crescente consapevolezza delle interrelazioni fra uomo e ambiente. L’invasione del pianeta da parte dell’uomo, armato di mezzi sem­ pre più potenti e distruttivi, ha seminato morte e desolazione, creando 75 Cfr. T ettamanzi, D., Verità e libertà. Temi e prospettive di morale cristiana, Casale Monferrato 1993, 509-536; W eber H., Il compromesso etico, in G offi T. cur., Problemi e prospettive di teologia morale, Brescia 1976, 199-219. 76 Cfr. Jonas H., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Bologna 1991, 52.

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deserti dove la vita fioriva rigogliosa. L’inquinamento 'deli-aria,: del­ l ’acqua; del suolo, la desertificazione crescente e l’innalzaniento della temperatura media per effetto serra, l’estinzione in massa di specie ani­ mali e vegetali così estesa e accelerata al punto da configurare un vero e proprio biocidio, la sparizione di interi ecosistemi, sono altrettanti se­ gnali che la natura è stanca dell’invadenza umana e non riesce più a tro­ vare in se stessa i mezzi per rigenerarsi. ' Da parte di molti ci si chiede allora se ìioh sia venuto il momen­ to di abbandonare i vecchi modelli antropocentrici per ripensare l’eti­ ca della vita secondo nuove prospettive non antropocentriche.11 Non crediamo che il biocentrismo o V ecocentrismo siano destinati a sosti­ tuire Vantropocentrismo classico, dal momento che il nostro modo di conoscere è di interpretare i dati naturali è sempre condizionato dal no­ stro essere uomini e quindi dal punto di vista umano (non si esce dalla propria ombra!). Riteniamo, però, che si debba cominciare a ripensare rantropocentrismo in un orizzonte più vasto, capace di tener conto di tutta la biosfera, un antropocentrismo non assoluto, che consideri l’uo­ mo inserito nella biosfera e nell’ambiente naturale a formare un’uni­ tà complessa e interagente. Si intuisce quanto fecondo potrebbe essere l ’apporto della cosmovisione cristiana nel generare tale nuovo modello cosmo-antropologico: dalla fede nella creazione, che significa relazio­ ne essenziale con il Creatore e dipendenza totale da Lui quanto all’es­ sere di tutto ciò che esiste, deriva l’idea di una fondamentale unitarietà del mondo, incluso l’uomo, e la certezza che l’esistente^ ogni esistente, sia intrinsecamente sensato e orientato a un fine. ; : Frutto delle nuove concezioni cosmologiche e biologiche è anche il progressivo superamento di una concezione statica ed immutabile del mondo a favore di una concezione dinamica èd evolutiva, che deve an­ cora essere adeguatamente integrata nella riflessione ètica. Questa nuova concezione della natura è di enorme portata etica soprattutto per quan­ to riguarda la relazione fra evoluzione naturale ed evoluzione culturale, la continuità o discontinuità fra natura e artifìcio (fino a che punto, per esempio, l’artificio è tollerabile nelle tecniche di procreazione assisti­ ta?), il senso degli interventi umani sufi*evoluzione naturale e le specie viventi (moralità degli interventi sul genoma, della creazione di animali transgenici, delle biotecnologie eugenetiche), la valutazione etica e non sólo tecnica degli effetti a distanza delle attività umane nell’ambiente.7 77 Per una presentazione dei modelli di etica'ambientale vedere: B artolommei S., Etica e natura, Roma-Bari 1995; Fisso M.Bi, S greccia E., Etica dell’ambiente, Milano 1997; Fox W., Fondamenti antropocentrici e noti antropòcentrici nelle decisioni sull’ambiente, in P oli C., T immerman P. curr., L ’etica nelle politiche ambientàli, Pàdova 19911115-137*' ’

C apitolo III —Profili di bioetica:. Quale etica per la bioetica?

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«La città degli uomini - scrive H. Jonas - un tempo una nicchia net mon­ do extraumano, si estende all’intera natura terrestre e ne usurpa il posto*. Tra naturale ed artificiale non esiste più differenza: il naturale viene as­ sorbito nella sfera, dell’artificiale e al tempo stesso la totalità degli arte­ fatti, le opere :dell’uomo che influiscono su di lui e mediante lui, genera una propria natura, cioè una necessità con cui la libertà umana deve confrontarsi in un senso completamente nuovo»,78 Le enormi possibilità date dalla scienza e dalla tecnica all’uomo ci interrogano sulle nostre re­ sponsabilità verso le generazioni future: Vhomofaber diventa artefice di se stesso, interviene sulla.natura sua e delle altre creature per corregger­ la,o migliorarla od orientarla verso i propri fini e le scelte di oggi saran­ no determinanti per configurare il mondo di domani.79 : La bioetica - disciplina neonata, sia pure con antica genealogia dovrà quindi essere capace di accettare le sfide di inedite concezione dell’uomo e della natura che vanno di pari passo con le nostre inedite capacità di intervento sull’uomo e sulla natura. In questo senso la bioe­ tica è in qualche modo una nuova etica, perché la ratio ethica si trova ad operare non solo intorno a nuovi problèmi, ma in HìfoVé1condizióni di pensabilità.

Conclusione Giunti al termine dell’accidentato itinerario lungo i diversi e spesso inconciliabili modelli etici presupposti dalla bioetica, non si può nega­ re un certo disorientamento e l’impressione di un pluralismo babeli­ co. La bioetica esprime perfettamente gli esiti estremi, ambivalenti e contraddittori, della modernità in questa sua fase più tarda, che ha vi­ sto l ’universo culturale occidentale passare dal trionfo del soggetto al­ lo sbriciolamento dell’individuo, dalla tolleranza democratica, capace di dialogo arricchente, all’estraneità morale, dal confronto appassiona­ to al relativismo scettico, dalla esaltazione della ragione, fonte di uni­ tà, di sicurezza, di certezza, all’indebolimento del pensiero sino alla sua frammentazione in diverse razionalità parallele.80 Raccogliere la sfida della complessità e della frammentarietà è uno dei compiti e servizi più urgenti della teologia morale nei confronti del H., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, 52. 79 Vedere: B accelliere D., La responsabilità e la sua rilevanza etica. Presentazione e at­ tualità della proposta di Hans Jonas, Roma 2007; M arini L., P alazzani L., Il principio di precauzione. Tra Filosofia, Biodiritto e Biopolitica, Roma 2008. 80 F aggioni M.P., Bioetica. Un ’etica per il nostro tempo, “Vivens Homo” 9 (1998) 37r60. 78 Jonas

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mondo contemporaneo, perché, nella crisi delle certezze e degli asso­ luti etici, forse soltanto la cultura cristiana riesce ancora a credere sin­ ceramente nella forza costruttiva e positiva del pensiero, a credere nei valori perenni della persona. Si tratta di superare l’insignificanza del re­ lativismo e pervenire a una sintesi umanamente significativa attraverso un dialogo a tutto campo e una articolata mediazione culturale, vincen­ do la tentazione delle sintesi premature e accettando la sfida della com­ plessità lungo percorsi e linguaggi che però attendono ancora di essere elaborati. In questo senso - credo - vadano comprese le luminose e impegna­ tive parole dell’allora Cardinal Joseph Ratzinger con cui concludiamo queste nostre riflessioni: È responsabilità dei cristiani custodire il patrimonio di valori e anche di ra­ zionalità che deriva dalla loro fede, e contribuire al ritrovamento di convinzio­ ni umane comuni. La Chiesa, com e comunità dei credenti, ha una certezza di valori che non è estendibile, nella loro totalità, all’umanità intera, ma i fonda­ menti comuni possono essere ritrovati.81

81 R atzinger J., M o d e rn ità atea , r e lig io s ità p o s t- m o d e m a ,

“Il Regno-Attualità” 39 (1994) 66.

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“NON U C C ID E R E”

Fondandosi sulla sua visione dell’uomo, della dignità della persona, del valore della sua corporeità, la bioetica cattolica deriva alcuni atteggia­ menti chiari nei confronti della vita umana, in quanto modalità concreta e spazio di esistenza della persona in relazione con Dio e con l’altro. La concezione cristiana della vita, centrando l’esistenza umana su Dio, non sminuisce la grandezza dell’uomo, ma la fonda in modo più stabile. Sen­ za Dio, invece, l’uomo perde consistenza e viene travolto dai suoi stessi idoli: individualismo, scientismo, efficientismo. Il riconoscimento del valore della vita della persona umana nella tota­ lità delle sue dimensioni fisiche, psichiche, spirituali, valore fondamentale in quanto presupposto l’attuazione di ogni altro valore, non solo ci impe­ disce di attentare alla vita propria o dell’altro, ma ci spinge ad assumerci le nostre responsabilità per la tutela della vita e del benessere psicofisico nostro e degli altri. Nella comprensione cristiana il comandamento “Non uccidere” si radica in questo valore umano basilare in una prospettiva di servizio responsabile alla vita, sia proteggendo la sussistenza fisica della persona e la sua integrità (aspetto negativo o protettivo del valore), sia pro­ muovendone la cura e la tutela (aspetto positivo o promovente il valore).1 In origine il comando decalogico “Non uccidere” aveva una portata piuttosto limitata. Delle parole usate dalla Bibbia per indicare la morte di una persona, le più frequenti (harag e mût nella forma causativa hemit, far morire) si riferiscono o all’uccisione di un nemico in guerra o alla morte per una esecuzione giudiziaria o alla morte segn o della divina giustizia).12 Il verbo rasah, usato nel decalogo in Es 20,13 e Dt 5,17, indica di prefe­ renza la morte illegale, la morte che non si giustifica all’interno del bene della comunità. L’opinione corrente fra i biblisti è che «il quinto coman­ damento... non proibisce ogni uccisione di vita umana, ma soltanto l’uc­ cisione di propria iniziativa e in base ad un diritto arbitrario».3 1 Vedere:

G., “N o n u c c id e r e ”. P e r u n a r in n o v a ta c o m p r e n s io n e d e l 5 ° c o m a n ­ “Rivista di Teologia Morale” 18 (1986) 33-48. 2 Cfr. S tamm J.J., L e D é c a lo g u e à la lu m iè re d e s re c h e r c h e s c o n te m p o r a in e s , Neuchâtel 1959,51-52. 3 P esch O.H., I d i e c i c o m a n d a m e n ti, Brescia 1978, 92. Cfr. S chüngel- straumann H., D e c a l o g o e c o m a n d a m e n ti d i D io , Brescia 1977, 49-59. d a m e n to ,

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La Tradizione morale cattolica si è trovata nella necessità di dover de­ limitare con precisione il campo del precetto “Non uccidere” e lo ha for­ mulato, conformemente all’ispirazione veterotestamentaria, come “non uccidere l’innocente”, escludendo così dalla proibizione il reo, l’ingiu­ sto aggressore e il nemico in guerra. La giustizia superiore promulgata dal Signore per il Regno, però è una giustizia più esigente di quella richiesta dal precetto antico, perché chiede all’uomo di sradicare dal suo cuore la radice perversa dell’odio verso il fratello, quella stessa che ha spinto Caino a cedere «alla logi­ ca del maligno, cioè di colui che è stato omicida fin dal principio» (Gv. 8, 44).4 In questo senso va la celebre antitesi matteana contenuta del discor­ so della montagna: Fu detto: «Chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio». Ma io vi di­ co: «chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudi­ zio» (Mt. 5, 21-22). A ben guardare, la vita umana viene ferita quando non percepiamo che la vita dell’altro, di ogni altro uomo, chiede a me rispetto e venera­ zione, quando non accogliamo il senso dell’esistere dell’altro come altro-da-me e quindi come esistenza che mi trascende e diventa per me cifra e rimando al totalmente Altro. «Dov’è tuo fratello?» Chiese il Signore a Caino, il fratricida. Cono­ sciamo la sua risposta arrogante: «Son forse il guardiano di mio fratel­ lo?» (cfr. Gen 4, 9). Ogni uomo è mio fratello, al di là dei vincoli di sangue, di casta, di interesse. «Chi è fratello dell’uomo incappato nei ladroni?» chiese lo scriba al Signore e in sé trovò la risposta: «Fratello è chi ha avuto misericordia di lui». Fratello dell’altro è chi scopre nell’altro un volto umano, il vol­ to di un figlio di Dio, il volto di un fratello e compie gesti che esprimo­ no cura e dedizione. «Va’ e anche tu fa’ lo stesso», rispose Gesù (cfr. Le 10, 29. 37).

4 G iovanni P aolo II, E v a n g e liu m V ita e , n. 8.

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CAPITOLO I L’OMICIDIO E LA MUTILAZIONE

In questo primo capitolo, dopo aver esaminato la fenomenologia delVaggressività, esaminiamo due fondamentali tipologie in cui si presen­ ta l ’attentato alla vita e all’integrità fisica: l’omicidio e la mutilazione. Essi costituiscono come gli archetipi di ogni dominio e violenza del­ l’uomo sull’uomo. Questi argomenti, presenti in tutte le trattazioni classiche di morale della vita fisica, sono per lo più assenti dai trattati di bioetica, ma a tor­ to, perché sono temi essenziali con i quali deve confrontarsi una rifles­ sione morale che non si limiti ai pur importanti problemi di frontiera posti dalle scienze biomediche, ma che si allarghi a una considerazio­ ne a tutto campo degli atteggiamenti e dei comportamenti nei confron­ ti della vita umana.

1.1 Lo spirito di dominio L’integrità fisica può esser menomata in vari modi e con diverse con­ seguenze, ma - come si è visto nella parte generale - per l’unità on­ tologica della persona nella molteplicità delle sue dimensioni, ogni aggressione all’integrità fisica si traduce in un’aggressione al soggetto che sussiste in quella fisicità. L’intangibilità dell’integrità fìsica mia e dell’altro si fonda sull’intangibilità di ogni esistenza personale, essendo la corporeità la modalità di esistere propria dello spinto incarnato e at­ traverso di essa l’uomo, immagine palpitante di Dio, si presenta e si of­ fre all’accoglienza, alla relazione, al rispetto, alla carità. La dimensione etica dell’attentato all’integrità fisica, non va perciò ricercata primariamente nella quantità del male arrecato, ma nel fatto stesso che si voglia il male dell’altro o, più precisamente, nel fatto che si colga l’altro come oggetto da combattere, da mortificare, da distrugge­ re.1 Dal punto di vista della gravità materiale possiamo distinguere fra 1Sui comportamenti aggressivi dal punto di vista socio-psicologico ed etologico, vedere: AnV., V oglia d i a m m a zza re . A n a lisi d i un d e s id e r io , Milano 1994; F romm E., A n a to m ia d e lla d istr u ttiv ità u m an a, Milano 1975; K arli P., L ’u o m o a g g r e s s iv o , Milano 1990; L orenz K., I l c o s id d e tto m a le. P e r u n a s to r ia n a tu ra le d e l l ’a g g r e s s iv ità , Milano 1969; Rizzino A.M., dreoli

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P arte S econda - “Non uccidere”

una lesione che causa solo lievi sofferenze e una lesione che incide sta­ bilmente su funzioni anche importanti dell’organismo; dal punto di vi­ sta della intenzionalità si può invece avere un animo spinto da odio o da disprezzo verso il prossimo non solo quando l’agente intende infliggere danni gravi e permanenti, ma anche quando si intenda causare una soffe­ renza fisicamente meno grave, ma personalmente molto traumatizzante. Nell’interpretare il significato etico di un attentato all’integrità fisi­ ca non si dovrà perciò partire dalle conseguenze somatiche dell’aggres­ sione, ma dalla dinamica perversa che è messa in moto dallo spirito di dominio sull’altro: il vero nodo morale degli attentati diretti alla sussi­ stenza o all’integrità fisica altrui sta proprio nella volontà di sopraffa­ re l’altro perché la sopraffazione fisica o psichica ottenuta procurando dolore, umiliazione, ferite o anche la morte, è il segno e la realizzazio­ ne della sopraffazione globale della personalità altrui. Nell’ambito delle manifestazioni eterodistruttive dell’aggressività umana può essere utile distinguere una sopraffazione generata da sentimenti ostili verso il pros­ simo e che può dirsi sopraffazione da odio ; e una sopraffazione derivante dal considerare il prossimo come di un oggetto o strumento disponibile per i propri scopi, che può dirsi sopraffazione da disprezzo.* 2 Nel primo caso la sopraffazione è voluta in se stessa, per odio, ira, ge­ losia, invidia, rancore verso una persona determinata: l’animo che odia, anche se non giunge a volere la morte fisica dell’altro, partecipa in qual­ che misura della malizia dell’omicidio perché sopprime l’altro nel suo cuore, secondo la conturbante affermazione della prima lettera di Gio­ vanni che «chiunque odia il proprio fratello è omicida» (1 Gv 3,15). La sopraffazione da odio è talvolta riconducibile a xirì autoafferma­ zione ai danni dell’altro che viene umiliato perché percepito come un rivale: nello schiacciare il prossimo si ha l’appagamento di un narcisi­ smo spinto sino alla patologia. Talvolta la reazione violenta e sopraffatrice dell’altro, sino a lederne Tintegrità fisica, è dovuta alla violazione di beni e valori ritenuti importanti, come l’onore o la giustizia, e dal de­ siderio di reintegrare in qualche modo i beni offesi (vindicatio).3 Questo M eissner W.W., D an H. B uie, T he D y n a m ic s o f H u m a n A g g re ss io n , New York-Hove 2004; Z eppo I., L ’a g g re ss iv ità . A n a lis i e p r o b le m a tic a d e l fe n o m e n o , Roma 1979. Gli studi di Lorenz

hanno mostrato che l’aggressività è una energia naturale che può essere messa a servizio la bene della persona e del gru p p o o diventare una forza distruttiva e addirittura autodistruttiva. 2 Riprendiamo alcune riflessioni di don Chiavacci, con qualche variazione (invece che s o ­ p r a f f a z io n e d a d o m in io , qui s o p r a f f a z io n e d a d i s p r e z z o ). Cfr. C hiavacci E., M o r a le d e lla V ita F ìs ic a , Bologna 19792, 59-64. 3 La v in d ic a tio può giungere fino a richiedere la s o p p r e s s io n e del reo. Tale caso verrà esa­ minato nel capitolo dedicato alla pena di morte, nel quadro più generale della giustifica­ zione del diritto penale.

C apitolo I - L ’omicidio e la mutilazione

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sdegno sostenuto dalla violenza rappresenta una degenerazione inac­ cettabile e paradossale del senso morale e non può essere confuso con l’impegno e la passione per la tutela e promozione dei valori umani. Nella sopraffazione da disprezzo l’altro non è odiato in se stesso, ma si ha piuttosto la subordinazione dell’altro ai propri fini: l’altro è svuotato completamente del suo valore personale e diventa un semplice oggetto o uno strumento da usare senza riguardo per i propri scopi. Questo è il ca­ so di chi colpisce per toglier di mezzo un ostacolo (come il rapinatore che spara su chi gli resiste o gli ostacola la fuga), o di chi usa violenza per rag­ giungere uno scopo prefissato (come il militare che tortura il prigioniero per ottenere una rivelazione o come il terrorista che, per attirare l’atten­ zione sulla sua causa, fa saltare in aria un autobus carico di bambini). Lo spirito di dominio è operante tanto nella sopraffazione da odio quanto in quella da disprezzo, però, mentre la sopraffazione da odio è più spesso un episodio, un fatto occasionale e limitato a questa o quel­ la persona, invece la sopraffazione da disprezzo si configura di solito come un atteggiamento acquisito e deliberato che determina in modo più profondo e radicale il comportamento verso il prossimo. Il disprez­ zo verso la vita e la dignità dell’altro si struttura come un habitus men­ tale e gli atti lesivi o addirittura uccisivi sono messi atto senza quella passione che generalmente accompagna la sopraffazione da odio e ad­ dirittura sono programmati con assoluta freddezza. Al contrario un in­ tenso moto passionale è presente nella sopraffazione che promana da odio, ira, invidia, gelosia o che è motivata da un insano bisogno di au­ toaffermazione: la passione, pur non giustificando in nessun modo la violenza verso l ’altro, può causare tuttavia una diminuzione della re­ sponsabilità morale. U n’ultima osservazione riguarda il contesto socio-culturale nel qua­ le si inscrivono i singoli gesti di attentato alla vita e alla dignità umana. L’inquietante panorama di violenze, ingiustizie, sopraffazioni che mi­ nacciano la vita e la dignità delle persone a livello planetario si presenta infatti come una sfida globale per l’annuncio evangelico. «In realtà - af­ ferma Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae - se molti e gravi aspet­ ti dell’odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte ad una realtà più vasta, che si può considerare una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come una vera cultura di morte».4 4 G iovanni P aolo II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 12.

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1.2 L’omicidio L’omicidio nelle sue molteplice forme si presenta come la sintesi di ogni possibile aggressione e violenza, vero emblema della cultura di morte. La dottrina tradizionale, nel definire l’estensione della proibizione del quinto comandamento, distingueva fra uccisione di un uomo e omi­ cìdio. L’omicidio è - propriamente parlando - l’uccisione di un inno­ cente o di un reo (= non innocente) quando ciò non avvenga da parte della pubblica autorità o in situazioni di legittima difesa. N ell’esperienza etica comune la condanna dell’uccisione dell’inno­ cente rappresenta uno dei casi intorno ai quali sembra possibile una convergenza di fatto e un consenso fra i diversi agenti morali. Dal pun­ to di vista razionale l’uccisione di un innocente si presenta come intrin­ secamente immorale e non può darsi nessuna situazione in cui privare una persona di un bene di tanta rilevanza possa configurarsi come un autentico beneficio per l’ucciso. In prospettiva teologica - come sap­ piamo - l’intangibilità della vita innocente deriva dalla sua sacralità e il suo valore dipende dalla stessa bontà e santità di Dio ed è indipendente dalla sua qualità e dalle sue prestazioni attuali o potenziali, passate, pre­ senti e future, per cui l’attentato alla vita umana è ultimamente un atten­ tato alla stessa santità e signoria di Dio. Si distinguono varie specie di omicidio a seconda dei soggetti coin­ volti e delle diverse circostanze: rispetto alle persone si parla, per esem­ pio, di uxoricidio (uccisione della moglie), di parricidio (propriamente uccisione di un proprio pari o di un congiunto), di infanticidio (ucci­ sione di un infante), di omicidio sacrilego (uccisione di persona consa­ crata); rispetto alle circostanze si parla, per esempio, di avvelenamento (l’uccisione avviene con veleno), di assassinio (l’uccisione è effettuata dietro compenso), ecc. Una uccisione contemporanea di più persone è detta strage. È inte­ ressante sottolineare la nozione contenuta nel Codice Penale italiano che all’art. 422 definisce strage il delitto commesso da chi, al fine di uc­ cidere, compie atti idonei a mettere in pericolo la pubblica incolumità. In considerazione del grave attentato al bene della vita di molte perso­ ne e quindi del vulnus arrecato alla convivenza civile, si configura il de­ litto di strage non solo quando viene cagionata la morte di più persone, ma in ogni situazione che ponga in pericolo la stessa pubblica incolumi­ tà. Per esempio, viene punito per delitto di strage chi colloca una bom­ ba in luogo frequentato da più persone o chi spara all’impazzata lungo una strada affollata, sia nel caso che la bomba esploda seminando mor­

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te o che i proiettili raggiungano di fatto alcuni passanti, sia nel caso che nessuna persona venga effettivamente colpita a morte. Si dice genocidio l’estinzione programmata e calcolata di un’intera popolazione. In seguito alla politica razziale messa in atto dal Nazismo, questo orrendo crimine contro l ’umanità è stato più volte e ufficialmen­ te stigmatizzato.5 Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea dell’ONU ha adotta­ to una convenzione che punisce il genocidio, sia in pace sia in guerra, dandone fra l’altro una nozione precisa che comprende: a. l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. b. lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo. c. sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne compor­ tino la distruzione fisica totale o parziale. d. misure tese a impedire le nascite in seno al gruppo (sterilizzazio­ ne, aborto obbligatorio, impedimenti al matrimonio...). e. trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo all’altro. Durante la guerra nell’Ex-Jugoslavia il genocidio ha assunto la for­ ma di pulizia etnica aggiungendo ai mezzi barbari sopra ricordati il mezzo ignobile dello stupro con intenzione fecondante, per immettere il proprio sangue all’interno del gruppo etnico avversario.6 In altre parti del corso tratteremo diffusamente - data la rilevanza so­ ciale e morale dei fenomeni - l’aborto e l’eutanasia: per aborto si in­ tende “l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il con­ cepimento e la nascita»,7mentre per eutanasia si intende ogni azione od omissione compiuta per sopprimere la vita di un malato inguaribile o terminale, di un anziano, di un soggetto malformato o portatore di han­ dicap al fine di evitargli sofferenze fisiche e psichiche.8 La crescente diffusione e accettazione sociale di aborto ed eutanasia non è però che una manifestazione della carica aggressiva che pervade la nostra cultura, nella quale hanno trovato legittimazione il disprezzo per la vita umana, la manipolazione e la strumentalizzazione della per­ sona, la violenza come diritto del più forte su chi è, per diversi motivi, più debole. 5 Cfr. M assaro M ., Il crìmine di genocidio nel diritto internazionale. Evoluzione e recen­ ti sviluppi, “Aggiornamenti Sociali” 48 (1997) 377-392. 6 Sulla nozione di pulizia etnica, vedere: P etrovic D., Ethnic Cleansing. An Attempt at Methodology, “European Journal of International Law” 5 (1994) 342-359; V ardy S.B., T ooly T.H., Ethnic Cleansing in Twentieth-Century Europe, New York 2003. 7 G iovanni P aolo II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 58. 8 Cfr. G iovanni P aolo II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 65.

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1.3 La mutilazione Non sempre l’aggressività distruttiva si esprime con l’uccisione di una persona. La distruttività - conscia o inconscia - ha mille volti e può esprimersi attraverso il ferimento, la percossa, la tortura a sfondo sadico o come forma di pressione, la detenzione abusiva, come anche la guida spericolata, gli sport inutilmente rischiosi, per non parlare delle abitu­ dini lesive per la salute nostra e talvolta anche degli altri, quali il taba­ gismo e l’alcoolismo. Fra le possibili lesioni all’integrità psico-fisica della persona, la dot­ trina tradizionale ha messo in particolare in rilievo la mutilazione, in­ tendendo per mutilazione l’ablazione di un organo o di parti di esso o la provocazione di un deficit funzionale. In senso lato, la mutilazione con­ siste quindi nella privazione di una funzione esercitata da un organo e ciò può avvenire attraverso l’ablazione dell’organo (mutilazione in sen­ so stretto) o attraverso un qualsiasi intervento che renda impossibile al­ l ’organo di esercitare la sua funzione. La mutilazione è una lesione della integrità personale che si tradu­ ce o può tradursi in una menomazione della capacità della persona di esprimere pienamente e liberamente se stessa, sino a metterne in peri­ colo la sussistenza. La dinamica morale della mutilazione si deve rico­ noscere proprio nella volontà di arrecare un male al prossimo, spinti da odio, sopraffazione, pregiudizi. Analogamente, nel caso dell’automuti­ lazione - quale potrebbe essere una sterilizzazione chirurgica - il sog­ getto decide, per qualche motivo, di menomare la pienezza delle proprie potenzialità umane e si preclude la possibilità di progettare liberamen­ te il proprio futuro: l’automutilazione si configura perciò come un atto di violenza rivolto contro se stessi e un venir meno di quel ragionevole e sano amore di sé richiesto da una carità bene ordinata. D ’altra parte, proprio perché il comandamento “non uccidere” e il con­ seguente divieto di ledere l’integrità fisica propria o del prossimo sono una espressione del rispetto verso la persona e, ultimamente, del comandamen­ to dell’amore, possono darsi contesti e situazioni nei quali lo spirito stesso di carità richieda una lesione dell’integrità fisica, come nel caso del chirur­ go che amputa un piede gangrenoso o asporta un utero carcinomatoso, con l’intenzione di tutelare la salute del paziente minacciata dalla gangrena o dal cancro. L’unico motivo che permette o addirittura talora impone un in­ tervento lesivo dell’integrità fisica nostra o altrui sono, dunque, la carità e il conseguimento di un bene maggiore per noi o per l’altro. La dottrina può essere riassunta da questa affermazione di Pio XI in Casti Connubii\

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La dottrina cristiana insegna, e la cosa è certissima anche al lume natu­ rale della ragione, che gli stessi uomini privati non hanno altro dominio sul­ le membra del proprio corpo che quello che spetta al loro fine naturale, e che non possono distruggerle o mutilarle o per altro modo rendersi inetti alle fun­ zioni naturali, se non n el caso in cui non si p u ò p ro v v ed ere p e r altra via al b e ­ n e di tutto il c o rp o .9

Nel contesto della morale tradizionale si giustificò questa posizione parlando di una mutilazione indiretta, in base al principio del duplice effetto. Premesso infatti che l’atto fisicamente mutilatorio di un orga­ no malato non è da ritenersi intrinsecamente cattivo (prima condizio­ ne), la mutilazione di un organo può essere giustificata in base a questo principio se l’intenzione è diretta al bene dell’organismo (seconda con­ dizione); se la privazione di una funzione è effetto collaterale non diret­ tamente inteso (terza condizione); se esiste un motivo proporzionato, se cioè si configura come rimedio unico e necessario al bene o alla soprav­ vivenza dell’organismo (quarta condizione). Gli Autori più recenti - riprendendo l’argomentazione offerta da San Tommaso101- si appellano preferibilmente al principio di totalità.n L’in­ segnamento si fonda sulla legge naturale in base alla quale la mutilazione è una offesa al benessere e alla dignità della persona che la subisce, tran­ ne il caso che sia finalizzata al ben complessivo del soggetto stesso.12Non potendosi estendere il principio oltre l’organismo individuale, ne segue che la mutilazione oblativa - finalizzata cioè alla donazione di un organo da parte di un soggetto vivo - non può essere giustificata come una mu­ tilazione della parte (il singolo come membro del corpo sociale) in vista del bene del tutto (il corpo sociale stesso). Il principio di carità o di soli­ darietà ci permette - come vedremo - di superare l’impasse.13 Un aspetto singolare del problema è costituito dalle mutilazioni pra­ ticate per motivi culturali o religiosi, come la pratica della escissione o 9 Pio XI, Lett. enc. C a s ti C o n n u b ii, 31-12-1930, AAS 22 (1930) 565. 10 Cfr. T ommaso D’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 65, art. 1, in corp. 11 Cfr. Pio XII, A l C o n g r e s s o d e l l ’U n io n e C a t to l i c a I ta lia n a O s te tr ic h e , 29-10-1951, AAS 43 (1951) 835ss (sterilizzazione); I d ., A i P a r te c ip a n ti a l X X V I C o n g r e s s o I ta lia n o d i U r o ­ lo g ia , 8-10-1953, AAS 45 (1953) 673 ss (l’am putazione di organo sano); I d ., A i P a r te ­ c ip a n ti a l P r im o C o n g r e s s o d i I s to p a to lo g ia d e l S is te m a N e r v o s o , 14-9-1952, AAS 44 (1952) 779 ss.

12 Non è cornetto parlare di e c c e z io n e al principio della intrinseca illiceità della mutilazio­ ne: la legge naturale non patisce eccezioni. Semplicemente alcune mutilazioni materiali non possiedono la malizia delle mutilazioni eticamente proibite. 13 Cfr. P ont . C ons. P ast. P er G li O peratori S anitari, C a r ta d e g li O p e r a to r i S a n ita r i, Città del Vaticano 1994, n. 85.

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di altre mutilazioni genitali femminili nei paesi islamici: anch’esse so­ no, a ben guardare, riportabili a un atteggiamento di sopraffazione verso la persona, perché motivate da pregiudizi sulla pari dignità delle perso­ ne, in dipendenza del sesso o dello status sociale.14Non può essere nep­ pure giustificata - a nostro avviso - la mutilazione punitiva (prevista per esempio dalla legge islamica): essa è contraria al rispetto della per­ sona del reo e non risponde allo scopo medicinale e correttivo della pe­ na, aggiungendo senza motivo violenza a violenza, né si può invocare l ’eventuale scopo di deterrenza sociale perché sarebbe un’inammissibi­ le strumentalizzazione della persona del reo. Riassumendo, per giudicare una mutilazione dal punto di vista mo­ rale, sarà importante distinguere le sue finalità e le circostanze. Non sono moralmente accettabili, perché contro il bene e la dignità della persona, la mutilazione aggressiva (es. per vendetta, intimidazione, ri­ catto...), quella punitiva (es. taglio della mano ai ladri), quella culturale (es. escissione clitoridea nelle donne musulmane), quella antiprocreativa (es. isterectomia e vasectomia a scopo antiprocreativo). In un con­ testo di grande autorevolezza dottrinale, Gaudium et Spes formula una condanna molto decisa della mutilazione determinata da odio, sopraffa­ zione o vendetta, senza distinzione fra autorità pubblica e privata, né fra innocente e reo (“nessuno eccettuato”): Il Concilio inculca il rispetto verso l ’uomo... nessuno eccettuato... Inoltre tutto ciò che viola l ’integrità della persona umana, come le mutilazioni... tutte queste cose e altre ancora sono vergognose.15

Sono giustificate, invece, in base al principio di totalità e cioè in vista del bene della persona, la mutilazione necessitata (per sfuggire ad un ma­ le più grave e imminente) e quella terapeutica (di organo malato o talvol­ ta sano per salvare l’organismo intero). Si comprende infine nell’ottica della solidarietà la mutilazione oblativa (per la donazione di organi). Problemi morali particolari pongono due forme di mutilazione, la sterilizzazione (consistente nell’impedimento della funzione procreati­ 14 Cfr. D el M issier G L e m u tila z io n i g e n ita li f e m m in ili, “Medicina e Morale” 50 (2000) 1097-1143; F arahian E., N ader M ., I l p r o b l e m a d e l l ’e s c is s io n e in E g itto , “Civiltà Cat­ tolica” 146/4 (1995) 462-470. Non entriamo nella questione della circoncisione dei neona­ ti maschi, ma si veda: D i P ietro M . L., C icerone M., L a c ir c o n c is io n e m a s c h ile su n e o ­ n a ti, “Medicina e Morale” 50 (2000) 1067-1095. 15 C oncilio V aticano II, G a u d iu m e t S p e s , n. 27. Ferma restando la condanna della muti­ lazione punitiva, nel quinto paragrafo vedremo che la castrazione di un soggetto che abbia commesso delitti a sfondo sessuale potrebbe configurare una situazione diversa.

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va) e la castrazione (consistente nella ablazione delle gonadi) e che sa­ ranno perciò esaminate in distinti paragrafi.1617

1.4 Sterilizzazione Si definisce sterilizzazione qualsiasi intervento con cui si rende una persona incapace di procreare, di solito con conservazione dell’attività ormonale delle gonadi. La sterilizzazione può essere accidentale (es. in seguito a una orchi­ te bilaterale), chirurgica (es. vasectomia nell’uomo e chiusura delle tu­ be o anche isterectomia nella donna), fisica (es. irradiando le gonadi, specie le ovaie, con radiazioni ionizzanti), chimica (es. con la “pillola” anovulatoria). Si distinguono infine, in ragione della reversibilità, una sterilizzazione temporanea (es. con la “pillola” anovulatoria) e una ste­ rilizzazione irreversibile o diffìcilmente reversibile (es. vasectomia, in cui la ricanalizzazione non è impossibile). Ha grande rilevanza etica la distinzione fra sterilizzazione terapeuti­ ca o indiretta e sterilizzazione antiprocreativa o diretta}1 La sterilizzazione indiretta è la sterilizzazione che consegue un atto terapeutico posto per salvare la vita o la salute del soggetto, per esem­ pio in caso di un tumore dell’utero che richiede isterectomia: l’agente persegue direttamente il fine terapeutico e la sterilizzazione è effetto in­ diretto dell’atto medico. Questo tipo di sterilizzazione non pone parti­ colari problemi morali, salvo quello della proporzionalità che, in base al principio dell’atto a duplice effetto, deve esserci fra il male che si vuo­ le evitare e il male certo di non poter più procreare.18 La sterilizzazione diretta o antiprocreativa è invece fatta perché il sog­ getto non possa più procreare: questo intervento è contrario alla dignità e 16 Sono da considerarsi mutilazioni in senso stretto l’isterectomia e la ovariectomia, che hanno l’effetto di rendere impossibile la funzione procreativa attraverso l’asportazione de­ gli organi della riproduzione; e parimenti la vasectomia e la legatura o l’elettrocoagulazio­ ne delle tube che non comportano l’ablazione degli organi della riproduzione, ma li rendo­ no incapaci di esercitare la loro funzione. 17 Questa è la terminologia tradizionale che si concentra sull’effetto sterilizzante dell’atto e distingue se questa sterilizzazione materiale è intesa o no dall’agente morale. C’è chi pre­ ferisce mettere l’accento sulla finalità perseguita dall’agente morale e distingue, perciò, tra sterilizzazione direttamente terapeutica e direttamente contraccettiva. 18 P aolo VI, Lett. enc. Humanae Vitae, 25-7-68, n. 15: «La Chiesa... non ritiene affatto il­ lecito l’uso dei mezzi terapeutici veramente necessari per curare malattie dell’organismo, anche se risultasse un impedimento, pur previsto, alla procreazione, purché tale impedi­ mento non sia, per qualsiasi motivo, direttamente voluto».

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all’integrità della persona, che viene privata o si priva di una dimensione es­ senziale del suo essere, la fecondità fisica.19 Nella prospettiva antropologi­ ca cristiana la fecondità fisica, infatti, non è un semplice dato biologico, ma il simbolo, l’espressione incarnata e la rivelazione della fecondità di tutta la persona, nella sua unità di anima e di corpo. La avversione verso la steriliz­ zazione diretta da parte del Magistero e dei teologi cattolici non risponde quindi a una logica di tipo fisicista, ma dipende ultimamente da una conce­ zione articolata e non riduttiva della persona e dal valore che i dinamismi corporei assumono nell’unità psicosomatica.20 Questo giudizio negativo non muta sostanzialmente anche tenendo conto delle diverse motivazioni che possono portare alla sterilizzazione diretta: personali (es. economiche, psicologiche, edonistiche), mediche (es. eugenetiche); demografiche (nel­ l’ambito di campagne antinatalità imposte dall’autorità civile). Un caso discusso è quello in cui una nuova gravidanza comporterebbe quasi certamente un grave rischio fisico o psichico per la madre: in questo caso l’intervento sterilizzante avrebbe una finalità antiprocreativa diret­ ta, ma perseguirebbe insieme una finalità terapeutica di tipo preventivo. La Congregazione per la Dottrina della Fede è intervenuta di recente in risposta a specifici dubia: ricordiamo il responso all’Episcopato statuni­ tense, approvato in data 13-3-1975 e reso pubblico dallo stesso Episco­ pato il 10-6-1976, e il responso a un dubium sul cosiddetto utero isolato, pubblicato suìV Osservatore Romano 31-7-1994.21 In entrambi i casi, sen­ za riprovare esplicitamente gli Autori che sostengono opinioni diverse e senza entrare nella casistica molto particolare prevista da questi, si è ri­ tenuto opportuno ribadire il principio generale che condanna la steriliz­ zazione diretta e «perciò - afferma la Congregazione - nonostante ogni soggettiva buona intenzione di coloro i cui interventi sono ispirati alla cu­ ra o alla prevenzione di una malattia fisica o mentale, prevista o temuta, come risultato di una gravidanza, siffatta sterilizzazione rimane assolutamente proibita secondo la dottrina della Chiesa».22 19 P aolo VI, Lett. enc. H u m a n a e V itae, n. 14: «(Bisogna escludere) la sterilizzazione di­ retta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna». 20 Cfr. G iovanni P aolo II, Lett. e n c .V e r ita tis S p le n d o r , n. 47. 21 II primo documento, Q u a e c u m q u e s te r ilìz a tio , si trova in AAS 68 (1976) 738-740. Il se­ condo, pubblicato nell’Osservatore Romano del 31-7-1994, si può leggere anche in “Me­ dicina e Morale” 44 (1994) 1202-1203: si dichiara lecita l’isterectomia quando l’utero costituisca un pericolo per la vita o la salute della donna, mentre si dichiarano illecite l’isterectomia e la legatura delle tube (con isolamento dell’utero dal complesso tuba-ovaio) se la situazione uterina rende difficile e pericolosa per la donna una eventuale gravidanza. 22 Cfr. M irkes R., U te r in e I s o la tio n : A e u p h e m is m ? , “Ethics & Medics” 18 (1993) 1, 1-3; O ’D onnell T., U te r in e I s o la tio n : U n a c c e p ta b le in C a th o lic te a c h in g , “Linacre Quarter­ ly” 61 (1994)58-61.

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Problemi molto particolari presenta la sterilizzazione delle persone con handicap fisici e mentali, ispirata prevalentemente da mentalità eu­ genetica e da considerazioni di utilità sociale. Il Magistero della Chiesa si è sempre pronunciato in senso negativo contro queste pratiche, forte­ mente lesive dei diritti e della dignità delle persone handicappate. Le pratiche eugenetiche, triste appannaggio della prima metà del XX secolo, culminate nelle leggi naziste, furono condannate nel 1930 da Pio XI nell’enciclica Casti Connuhii. L ’enciclica afferma che lo Stato non ha il diritto di praticare la sterilizzazione, neppure come punizione o pre­ venzione di un delitto: [Si vuole che i portatori da tare ereditarie siano sterilizzati per legge], ma ciò non sarà lecito neppure com e pena cruenta inflitta dalla pubblica autori­ tà per un delitto già com messo o come prevenzione di loro futuri delitti, attrubuendo così ai magistrati civili - contro il giusto e l ’onesto - un potere che mai ebbero, né mai poterono legittimamente avere.23

Il testo presentava una certa ambiguità perché non si capiva se si vo­ leva negare il diritto dell’Autorità civile di praticare la sterilizzazione sui soli portatori di tare ereditarie o su chiunque, inclusi i delinquenti. Visto che la Morale tradizionale aveva sempre ammesso forme di mutilazione punitiva, nel fascicolo seguente degli Acta Apostolicae Sedis apparve un notandum che modificava il testo già pubblicato e chia­ riva, in questo modo, che non era intenzione del Magistero includere nella condanna gli interventi compiuti a scopo punitivo su un reo: [Si vuole che i portatori di tare ereditarie siano sterilizzati per legge] e ciò non come pena cruenta inflitta dalla pubblica autorità per un delitto com mes­ so, né com e prevenzione di futuri delitti dei m alfattori , ma contro il giusto e ì ’onesto, attribuendo ai magistrati civili un potere che mai ebbero, né mai po­ terono legittimamente avere.24

23 Pio XI, Lett. enc. C a s ti C o n n u b ii, AAS 13 (1930) 65: «Quin immo naturali illa facultate, ex lege, eos, vel invitos, medicorum opera privari volunt; neque id ad cruentam scele­ ris commissi poenam publica auctoritate repetendam, vel ad futura e o r u m crimina praecavenda, lic e b it , s c i l i c e t contra ius et fas ea magistratibus civilibus arrogata facultate, quam numquam hahuerunt nec legitime habere possunt» . 24 Cfr. AAS 14 (1931) 604, N o ta n d u m {in c a lc e ): “In superiori fasciculo n. 13, p. 65, nn. 12, sententia fortasse magis perspicua evadet, si loco e o r u m legatur re o r u m et loco lic e b it, s c i li c e t legatur s e d ” . B oschi A., P r o b le m i m o r a li d e l m a tr im o n io , Torino 1953, 481 scrive che l’enciclica «fu delicatamente corretta». Don Chiavacci afferma invece: «Il testo fu pe­ santemente violentato, con in più l’ipocrisia di fai- passare la violenza come miglioramen­ to della perspicuità del dettato” (M o r a le d e lla v ita f i s i c a , 75, nota 23).

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La condanna della sterilizzazione degli innocenti fu ribadita da Pio XII nel 1951: Anche l ’autorità pubblica non ha alcun diritto di permettere e molto meno di prescrivere e di farla eseguire a danno di innocenti.25

Al giorno d’oggi la sterilizzazione degli handicappati mentali viene pro­ posta da più parti sia per permettere loro di avere una vita sessuale attiva senza la responsabilità - per molti di loro insostenibile - della procreazio­ ne, sia - nel caso di donne handicappate - come difesa da possibili violenze sessuali. La questione è indubbiamente delicata, ma è chiaro che la prima proposta è sottesa da una visione solo genitale e banalizzata della sessualità che non promuove in modo autentico la dignità degù handicappati, mentre la cosiddetta sterilizzazione per difesa non difende veramente le handicap­ pate dalle violenze sessuali, ma evita solo che esse restino incinte. I proble­ mi degù handicappati mentali sono reali, ma la sterilizzazione non sembra una risposta sociale adeguata alla tutela dei diritti e della loro dignità.26

1.5 La castrazione U n’altra mutilazione particolare è la castrazione: in senso stretto la castrazione è l ’ablazione delle gonadi (testicoli e ovaie), ma in genera­ le si definisce castrazione un intervento chirurgico o farmacologico che impedisca l ’increzione o la funzione degli ormoni sessuali. In ragione della finalità può essere distinta in terapeutica (es. per fermare la dif­ fusione di un tumore ormonodipendente); aggressiva (come nel celebre caso dello sventurato Abelardo); punitiva (di solito per crimini sessua­ li); culturale (es evirazione dei cantori, degli eunuchi per gli harem)', re­ ligiosa (ricordare l’autocastrazione di Origene per ragioni ascetiche). Valgono per la castrazione le stesse osservazioni fatte per la mutila­ zione in generale e per la sterilizzazione in particolare: è giustificata, per motivi proporzionati, la castrazione direttamente terapeutica, fina­ lizzata cioè alla tutela del bene globale della persona, quando non vi siano altre vie per salvaguardarlo.27 25 Pio XII, A l C o n g r e s s o d e l l ’U n io n e C a tto lic a I ta lia n a O s te tr ic h e , AAS 43 (1951) 844. 26 Vedere: F aggioni M.P., S e s s u a lità e a f f e ttiv ità n e i d i s a b i li m e n ta li, “Antonianum” 82 (2007) 123-148. 27 La valutazione morale della castrazione nell’ambito delle operazioni di conversione del sesso fenotipico nei tr a n s e s s u a li rientra nella valutazione generale di questo tipo di inter­ venti e in particolare nella questione se possano essere ritenuti davvero terapeutici o no. Vedere: C ipressa S., I l f e n o m e n o t r a n s e s s u a le f r a m e d ic in a e m o r a le , Acireale (Ct) 2001,

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La castrazione aggressiva è espressione dello spirito di sopraffazio­ ne, in quanto attentato alla persona compiuto con animus violento, ma anche le castrazioni rituali e culturali devono essere interpretate come espressione di rapporti violenti all’interno della società. Per motivi sto­ rici ricordiamo la castrazione dei bambini per ottenere nell’età adulta voci con timbro di soprano e di contralto, sia per il canto sacro sia per il canto profano. La pratica fu condannata da Sisto V nella costituzio­ ne Dum frequenter (1587), ma gli ultimi castrati si esibivano, persino nella Cappella Sistina, ancora all’inizio del XX secolo. Non mancaro­ no Autori antichi che giudicavano con indulgenza quest’uso barbaro af­ fermando che «eunuchi utiles sunt bono communi, ad divinas laudes in ecclesiis suavius canendas» e che la castrazione dava modo a questi ra­ gazzi, di solito poveri, di condurre una vita agiata.28 Una forma di vio­ lenza socialmente accettata pervade usi tuttora praticati in alcuni paesi, come l ’evirazione degli Hijra in India. A ben guardare, pulsioni aggres­ sive o, meglio, autoaggressive muovono dal profondo anche la richiesta di castrazione volontaria per motivi pseudospirituali.29 Riguardo alla castrazione punitiva, ricordiamo che la castrazione di un reo può rispondere a tre motivazioni che - in vista di un giudizio mo­ rale - è bene tenere accuratamente distinte: scopo vendicativo, scopo eugenetico, scopo terapeutico-preventivo. Riguardo all’aspetto vendicativo della pena, non risponde certamente alla dignità della persona - perché il reo mantiene in ogni caso una inalie­ nabile dignità - una pena che leda tanto profondamente le capacità fisiche dell’uomo e che metta in serio pericolo il suo equilibrio psico-fisico. Come meglio vedremo studiando la pena di morte, la vindicatio che la società esi­ ge come riaffermazione dei valori lesi non può mai assumere i contorni dell’odio e del livore, per cui la castrazione penale in sé è inammissibile.30 215-230; F aggioni M.P., I l tr a n s e s s u a lis m o . Q u e s tio n i a n tr o p o lo g ic h e , e tic h e e c a n o n is ti­ “Antonianum” 75 (2000) 277-310 (soprattutto 287-297). 28 Una analisi delle opinioni degli Autori antichi in: S. A lfonso, T h e o lo g ia M o r a lis , 1. 3, tract. 4, cap. 1, dub. 1 (ed. Gaudé, voi. 1, n. 374). Personalmente Alfonso è contro la pra­ tica della castrazione e giudica la posizione negativa p r o b a b i l i o r rispetto a quella favore­ vole; se, infatti, si ritiene illecita la castrazione “pro bono animae”, per evitare le tentazio­ ni, non si giustifica a f o r t i o r i una tale pratica per conservare la voce. Cfr. V ermeersch A., T h e o lo g ia M o r a lis , Roma 1945, torn. 2, 224. 29 Un caso esemplare è stato descritto qualche anno fa: R oberts L.W., H ollifield M., M c carty T., P s y c h ia tr ic e v a lu a tio n o f a “m o n k ” r e q u e s tin g c a s tr a tio n : a p a t i e n t ’s f a b le , w ith m o r a ls , “American Journal of Psychiatry” 155 (1998) 415-420. Gli psichiatri ritennero il sog­ getto capace di decisioni libere, ma le conseguenze furono disastrose: K aminer H., “M o n k ” r e q u e s tin g c a s tr a tio n , “American Journal of Psychiatry” 156 (1999) 983-984. 30 La castrazione del violentatore pare una v e n d e tta che ripropone «l’immagine della be­ stia cieca e selvaggia, da punire con una specie di legge del taglione tanto inefficace quanche,

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La castrazione o anche la sola sterilizzazione compiute a scopo eu­ genetico , per evitare che un malato mentale con spinte sessuali violente e irrefrenabili possa generare una prole indesiderata e tarata, si fondano su l’idea, indimostrata, che certe forme di delinquenza e di disagio so­ ciale abbiano radici nella costituzione personale e siano, perciò, eredi­ tarie. Il motivo eugenetico, oltre ad essere scientificamente discutibile, non giustifica una lesione di tale gravità all’integrità psicofisica e alla dignità della persona. Nella stessa logica aberrante si colloca anche la tesi che, essendo lo stupro più frequente in certi gruppi etnici, è neces­ sario ridurre numericamente questi gruppi per arginare stabilmente il fenomeno.31 Il tema è tutt’altro che superato e sta risorgendo, sotto nuo­ va forma, nei tentativi di collegare in modo deterministico particolari configurazioni genetiche a specifici comportamenti e tendenze. Un discorso diverso va fatto per le finalità terapeutico-preventive, nel caso, cioè, in cui la castrazione si dimostrasse una vera terapia che permette di meglio gestire le spinte aggressive di un violentatore. Se si potesse dimostrare quest’effetto inibente, l ’intervento mutilante diven­ terebbe accettabile perché finalizzato al benessere personale e relazio­ nale del soggetto e, in secondo luogo, perché, attraverso l’intervento, si conseguirebbe un’adeguata e doverosa difesa della società da eventua­ li ulteriori danni. La questione delle cause dei comportamenti sessual­ mente aggressivi è scientificamente controversa e non si sono ancora raggiunte evidenze sufficienti: sono stati evidenziati disturbi relaziona­ li in età infantile, si è molto parlato di squilibri ormonali, soprattutto a carico della regolazione del testosterone, e ci sono indizi di anomalie a carico di circuiti ipotalamo-corticali coinvolti con il controllo degli sti­ moli sessuali.32 La terapia corrente prevede ordinariamente l’integrazio­ ne di interventi psicoterapeutici e farmacologici.33 Ovviamente, se l ’inibizione delle pulsioni aggressive si può ottene­ re senza la castrazione chirurgica, ma per via psicoterapeutica o per via farmacologica con la somministrazione di antìandrogeni e di farmaci to crudele»: S torai S., A n a lis i d e lla le tte r a tu r a s c ie n tific a s u llo s tu p r o , “Rivista di Ses­ suologia” (1993) 65-78 (p. 77). 31 La tesi viene esposta in: E llis L., T h e o r ie s o f R a p e . I n q u ir e s in to th e C a u s e s o f S e x u a l A g g r e s s io n , New York 1989, 95 «One policy implication might be that, in order to reduce rape, all relatively selected racial groups should be reduced in numbers». 32 C antor J.M. et al., C e r e b r a l w h ite m a tt e r d e f ic ie n c ie s in p a e d o p h i li c m en , “Journal o f Psychiatric Research” 42 (2008) 167-183; B radford J.M.W., T h e n e u r o b io lo g y , n e u r o p ­ h a r m a c o lo g y , a n d p h a n n a c o l o g ic a l tr e a tm e n t o f p a r s a p h i l ia s a n d c o m p u ls iv e s e x u a l b e ­ h a v io u r ,

“Canadian Journal of Psychiatry” 46 (2001) 26-33.

33 B riken P. K afka M.P., P h a r m a c o lo g ic a l tr e a tm e n ts f o r p a r a p h il i c p a t ie n t s a n d s e x u a l o ffe n d e r s ,

“Current Opinions in Psychiatry”, 20 (2007) 609-613.

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che agiscono sul sistema nervoso centrale, questi mezzi devono essere assolutamente preferiti. La cosiddetta castrazione chimica per i pedofili e i violentatori è sta­ ta introdotta, a scopo sperimentale e non senza polemiche, in alcuni paesi europei (Danimarca, Francia, Germania, Norvegia Svezia, Gran Bretagna) e nordamericani (Canada e in alcuni stati degli USA).34 Un aspetto importante del dibattito è se questi interventi a carattere biome­ dico possano essere imposti, così come si può infliggere una pena de­ tentiva: l’idea prevalente è che gli interventi farmacologici finalizzati a contenere le spinte aggressive e sessuali anomale possono essere ese­ guiti solo con il consenso del soggetto. A questo proposito, il Comi­ tato Nazionale per la Bioetica italiano si è pronunciato due volte, nel 1998 e nel 2003, in senso contrario all’introduzione della sterilizzazio­ ne forzata ottenuta con qualunque mezzo, anche chimico, affermando che vanno «ritenute illecite, sia sul piano giuridico che su quello etico, le sterilizzazioni forzate, indipendentemente dal soggetto che ne deli­ beri Veffettuazione (genitori o tutori, medici, giudici, Stato) o dalle mo­ tivazioni (in particolare quelle di carattere psicologico e sociale) che possono essere addotte per giustificarle».35 In conclusione, la castrazione di un reo per defitti sessuali potreb­ be essere giustificata solo se praticata a scopo direttamente terapeutico e, quindi, alle condizioni di liceità di ogni altra terapia: prima di tutto con il consenso della persona, poi qualora ne sia stata provata l ’effica­ cia nell’inibire le spinte aggressive e infine preferendo sempre i mez­ zi incruenti e quelli più rispettosi della libertà del soggetto. Al di fuori di queste precise condizioni, la castrazione e la sterilizzazione inflitte a scopo punitivo sono da ritenersi contrarie alla dignità della persona: una legge che le imponesse sarebbe iniqua e, perciò un cittadino cattolico, anche se investito di funzioni pubbliche (es. magistrato, medico, milita­ re) sarebbe tenuto a disobbedirla e ad opporre obiezione di coscienza. Nella caso della castrazione criminale ci troviamo di fronte a un ve­ ro progresso nella comprensione di un precetto della legge naturale: un tempo la mutilazione punitiva del reo era pacificamente ammessa, ma 34 Cfr. M ele V., S greccia E., Gli antiandrogeni nella terapia dei comportamenti sessua­ li violenti: riflessioni etiche, “Medicina e Morale” 39 (1989) 1107-1124. Una acuta analisi dal punto di vista giuridico in: S palding L.H., Florida’s 1997 Chemical castration law: A return to thè dark ages, “Florida State University Law Review” 25 (1998) 2, 117-139. 35 C omitato N azionale P er la B ioetica, Il problema bioetico della sterilizzazione non volontaria, 20-11-1998 http://www.govemo.it/bioetica/testi/201198.html). Cfr. I d , Mozio­ ne sul trattamento obbligatorio dei soggetti condannati per reati di pedofilia, 17-1-2003 http://www.palazzochigi.it/bioetica/mozioni/pedofilia.html).

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oggi la più viva sensibilità per i diritti personali ci porta a conclusioni diverse che si impongono come vincolanti per la coscienza di ogni cri­ stiano e di ogni persona ragionevole.

Conclusione Di fronte manifestazioni dello spirito di dominio e di violenza i cri­ stiani devono sentire con forza la responsabilità di stare dalla parte del­ la vita e di dare il proprio contributo a costruire la nuova cultura della vita, muovendosi secondo tre fondamentali direzioni. La prima è rappresentata da un coraggioso annuncio del valore dell ’uomo, contro ogni concezione individualistica, efficientista, autorita­ ria o aristocratica del singolo, della nazione, della razza, per riaccendere nell’intimo di ciascuno il senso della dignità di ogni esistenza umana, nella quale Dio ha impresso come sigillo la sua immagine, fondando allo stesso tempo la ragione ultima della fraternità universale fra gli uomini. La seconda direzione è V impegno contro lo spirito di sopraffazione, comunque esso si manifesti. Quest’impegno comporta una coraggiosa denuncia profetica delle motivazioni economiche, politiche, sociali che sono alla radice dello spirito sopraffattorio e che sostanziano una cultu­ ra di morte che ha fatto dell’oppressione dei deboli e dei poveri una leg­ ge e uno stile di vita. La terza direzione è quella della testimonianza fattiva del servizio della vita: il nostro mondo ha bisogno più di testimoni che di maestri ci ricordava Paolo VI - e i maestri sono ascoltati nella misura in cui si fanno testimoni. Il cristiano deve rivelare nelle opere la sua passione per la vita, fecondando l’annuncio con la forza trascinante della martyrìa, la coerenza sino alla fine.

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CAPITOLO II IL SUICIDIO

Esamineremo in questo capitolo le complesse problematiche socia­ li, psicologiche, culturali ed etiche del suicidio, consci che alla base a questo conturbante comportamento autodistruttivo stanno realtà con­ trastanti ed eterogenee, che soltanto la necessità espositiva ci induce a raccogliere sotto un unico titolo.1 Dopo uno sguardo all 'entità del fenomeno, cercheremo di delinea­ re la variegata genesi della condotta suicidiaria e quindi ne elaboreremo una interpretazione etica alla luce di alcuni principi generali. Un risalto particolare verrà dato all’esame di alcune condotte suicidiarie in cui pe­ culiari dinamiche motivazionali e particolari contesti suggeriscono una diversa lettura psicologica ed etica.

2.1 Dati sul fenomeno del suicidio L’analisi statistica resta ovviamente alla superficie di una realtà co­ sì tragicamente personale come quella del suicidio, in cui le generaliz­ zazioni contraddicono la genesi, assolutamente singolare, di una scelta drammatica intimamente legata al vissuto di ciascuno. Non è inutile, d’altra parte, rendersi conto delle proporzioni del fenomeno, dei suoi andamenti temporali, delle principali tipologie che si possono eviden­ ziare, anche per evitare che l’analisi etica si muova sul terreno incerto e insidioso delle ipersemplificazioni e dei preconcetti.12 1Nella vasta letteratura sul tema, segnaliamo: A mery J., L e v a r la m a n o su d i s é , Tori­ no 1990; B iagi L., L a p e n a d e l v iv e r e . I l p r o b l e m a m o r a le d e l s u ic id io , Bologna 1993; L andsberg P.L., S a g g io s u l l ’e s p e r ie n z a d e lla m o r te . I l p r o b l e m a m o r a le d e l s u ic id io , Mi­ lano 1980; L eone S., L a s c e lt a d i n o n v iv e r e , Cinisello Balsamo (Mi) 1999; P ellizzaro G., S u ic id io , in C ompagnoni E, P iana G., P rivitera G. curr., N u o v o D i z io n a r io d i T eo ­ lo g ia M o r a le , 1338-1347; P ohier J.M. M ieth D. curr., S u ic id io e d ir itto a lla m o r te , nu­ mero monografico di “Concilium” 21 (1985) n. 3; R eichlin M., I l s u ic id io e la m o r a le c r is tia n a , “Rassegna di Teologia” 39 (1998) 863-888; Russo G., I l s u ic ìd io , in ID. cur., B i o e tic a s o c ia le , Leumann (To) 1999, 8-53; T errè F. cui-., L e s u ic id e , Paris 1994; Z ucca ro C., L a v ita u m a n a n e lla r ifle s s io n e e tic a , Brescia 2000, 313-334. 2 Traiamo i dati dall’informatissimo sito della O r g a n iz z a z io n e m o n d ia le d e lla s a lu te in cui confluiscono anche i dati italiani annualmente elaborati dallTstat (Istituto Centrale dì Sta-

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L’incidenza dei suicidi e dei tentativi di suicidio è molto varia nelle diverse regioni del mondo e nelle stesse regioni può variare in diverse situazioni (per esempio, è più frequente in tempo di pace che in tem­ po di guerra, più nelle città che nelle campagne, più nei paesi ricchi che in quelli poveri). Tenendo conto di un arco di tempo sufficientemente lungo, il triste primato dei suicidi sembrerebbe costantemente detenu­ to dall’Ungheria, con tassi che oscillano intorno ai 40 casi ogni 100.000 abitanti, seguita da Austria, Finlandia, Cecoslovacchia, Svezia, Svizze­ ra e Danimarca, in Europa, e dal Giappone fuori Europa. L’Italia, come in genere i paesi mediterranei, si è mantenuta sempre a livelli inferiori rispetto alle nazioni dell’Europa centrale e settentriona­ le, oscillando - con fluttuazioni - intorno al tasso medio di 6-7 suicidi per 100.000 abitanti. Dal dopoguerra sino all’inizio degù anni ’80 si è assistito a un ridimensionamento del fenomeno (6.3 nel 1950; 6.1 nel 1960; 5.8 nel 1970); negli anni ’80 e ’90 si è notato un incremento (7.3 nel 1980; 8.3 nel 1985; 7.6 nel 1990; 8.0 nel 1995); ma il trend tende di nuovo a calare nella prima decade del 2000 (intorno a 7.1). Per dare una idea dei valori assolu­ ti: ci sono stati 2851 suicidi nel 1983, 4119 nel 1993 e 3361 nel 2003. Un dato interessante, rilevato in Italia come all’estero, è la netta pre­ valenza del suicidio frai maschi, mentre i tentativi di suicidio mostrano una prevalenza tra le femmine, anche se il tentativo di suicidio, tradizio­ nalmente attribuito alla presunta teatralità della donna, si sta ormai fa­ cendo strada anche tra i maschi. Oltre al sesso, lo studio del fenomeno nelle diverse zone d ’Italia mostra la rilevanza della componente cultu­ rale e socio-economica: nelle statistiche i disoccupati sono sovrarappresentati, mentre i liberi professionisti sono sottorappresentati, ma il dato non deve essere interpretato stabilendo un legame fra povertà e suicidio perché sono piuttosto la solitudine, la percezione di inutilità, la carente integrazione sociale e affettiva che costituiscono il motivo conduttore di molti suicidi. Questo spiega, fra l ’altro, la maggior incidenza di condot­ te suicidiarie in vedovi, divorziati e singoli e, al contrario, il fattore pro­ tettivo costituito dalla presenza di bambini di cui occuparsi. Riguardo infine all’età, si osserva una chiara prevalenza delle per­ sone mature e degli anziani rispetto ai giovani, anche se lo scarto tende a ridursi per l’allarmante incremento dei suicidi di giovanissimi e ado­ lescenti. Secondo i dati ISTAT, il suicidio è la quarta causa di morte di giovani fra i 15 e i 19 anni.*3 tistica): www.who.int/topics/suicide/en/. Per l’analisi dei dati più antichi fino al 1990, si veda lo studio, ancora attuale per l’acutezza interpretativa, della R. Scramaglia in: D ur­ kheim E., Il suicidio. Studio di sociologia , Milano 19968, 113-158. 3 Cfr. http://www.istat.it/dati/catalogo/rapporto2004/.

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2.2 Genesi della volontà suicida Nella concretezza della vita il suicidio è certo un fatto abnorme: un uomo è spinto ad alzare la mano contro se stesso e contro il suo innato istinto di conservazione. Un essere umano che sceglie di morire, sceglie qualcosa che non è mai in sé gratificante, non è arricchente, né psicolo­ gicamente né fisicamente, sceglie qualcosa, insomma, che mai sceglie­ rebbe un uomo in condizioni normali. Questo vuol dire che su di lui e in lui sono all’opera timori, sofferenze, torture fisiche o psichiche, a cui egli cerca di sfuggire o che, comunque, percepisce come insostenibili. La riflessione morale cristiana non può certo limitarsi a pronunciare giudizi solo in base a principi generali, ma deve esaminare con attenzio­ ne le cause che portano a infrangere il principio e ciò per poter adempie­ re a tre compiti specifici dell’annuncio morale: cercare di capire l’animo con cui uno si riduce al suicidio, per evitare giudizi morali astratti su situazioni concrete; imporre a tutti, come singoli e comunità, il dove­ re gravissimo di rimuovere - nei limiti del possibile - tutte le cause che possono concorrere a indurre in una persona una condotta suicidiaria, imparando a farsi vicini a coloro che sono nell’angoscia e nella dispe­ razione; ricordare ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà che la fede in Dio può aiutare a superare sofferenze e difficoltà e offre sempre nuovi compiti e nuove speranze a chiunque, comunque oppresso. A scopo puramente didattico abbiamo pertanto enucleato alcune si­ tuazioni personali e sociali che costituiscono il contesto in cui più spes­ so germoglia e si sviluppa la volontà suicida: la diversa reazione degli individui a situazioni largamente sovrapponibili ci porta a sottolineare che, con ogni probabilità, la causa immediatamente scatenante porta a maturare la volontà suicida solo se trova un terreno adatto e particolari fattori predisponenti, la cui rispettiva importanza nelle singole fattispe­ cie è ancora oggetto di discussione (determinismi genetici o biopsichici, esperienze educative, pressione sociale e culturale...).4

a. Suicidio e depressione Nelle sindromi depressive più gravi o trattate in modo inadeguato incombe sempre la minaccia del suicidio e fra tutte le malattie mentali sono proprio le depressioni e soprattutto quelle da cause endogene, an­ cor più che quelle reattive, a comportare la più alta percentuale di sui­ cidi attuati o tentati. 4 Cfr. S toff D.M., M ann J. eds, The Neurobiology ofSuicide. From the Beuch to the Clinic, New York 1998 (Annals of the New York Academy of Science, vol. 86).

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Un elemento tipico nella sintomatologia della depressione o melancolia è la tristezza profonda che giunge fino al disgusto della vita (il taedium vitae degli Antichi) e che può essere definita tristezza vitale per indica­ re che essa è vissuta interiormente, intrecciata in modo inestricabile con il soma, come se da esso si dipartisse: il tempo ristagna, l’ideazione ral­ lenta, Fattività si arresta mentre sentimenti di incapacità, di impotenza, di inedeguatezza di fronte ad ogni compito contribuiscono a gettare il mala­ to in una disperazione indicibile. Chiuso in se stesso, in questa situazione desolante e senza poter vedere alcun spiraglio di salvezza, il depresso de­ sidera morire non per il gusto di morire o come scelta positiva, ma perché la morte gli appare preferibile a quella vita insopportabile. Nel formulare un giudizio morale sul suicidio compiuto in queste condizioni occorre ovviamente tener conto dello stato mentale patolo­ gico del soggetto.

b. Il suicidio del sofferente Una situazione particolare è costituita dal suicidio o dalla richiesta di essere aiutato a morire (suicidio assistito) da parte di persone seria­ mente ammalate o minate in modo grave nel loro benessere fisico e psi­ chico. La richiesta della morte da parte del malato, dell’anziano, dell’handicappato è spesso un appello per essere liberato dalla solitudine, dal non-senso, dalla paralisi relazionale, quasi un equivalente del tentato suicidio. Altre volte il desiderio di morire non rappresenta il frutto di una decisione libera, ma è sintomo di uno stato depressivo, non infre­ quente nel caso di un malato inguaribile o di un malato in fase terminale o di un anziano, spesso abbandonato e minato nel suo equilibrio psichi­ co. Altre volte però il dolore è effettivamente ribelle ad ogni interven­ to terapeutico o palliativo e si presenta così insostenibile, totalizzante e generalizzato che la morte pare ormai al malato l’unica via di scampo, l’unico analgesico davvero efficace. Il suicidio assistito era rifiutato esplicitamente dall’ethos ippocrati­ co e dalla deontologia medica classica. Attualmente si va facendo strada l ’idea che l’autonomia di una persona possa giungere a scegliere se con­ tinuare a vivere o darsi la morte e che il medico abbia il dovere di rispet­ tare e aiutare nell’attuare questa decisione. La tesi della legittimità del suicidio, inizialmente sostenuta da una minoranza, sta entrando nella mentalità comune e viene recepita in modo favorevole dalla gente come una risposta drastica, ma efficace al dramma del dolore e della morte. Sotto la spinta dell’opinione pubblica ci sono in vari paesi progetti di legge tendenti a legalizzare o almeno depenalizzare questa pratica.

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c. Il suicidio come fuga e reazione Il crescente aumento di suicidi nei giovani, l ’alto indice di suicidio fra la popolazione anziana, il carattere scatenante di drammi familiari e personali (morte del coniuge, divorzio, disoccupazione, tracollo finan­ ziario) può essere interpretata come una difficoltà ad integrarsi nel pro­ prio status sociale o a rispondere alle attese altrui o nostre su noi stessi o a gestire situazioni di repentina e drastica mutazione. Il suicidio si pre­ senta come una fuga da una situazione che il soggetto percepisce come insostenibile. La frustrazione, la nevrosi, l’isolamento, la fuga realizzata con le droghe, la violenza come irrazionale autoaffermazione in una socie­ tà che tende a stritolare i singoli concorrono a delineare lo scenario di­ sperante in cui matura una volontà suicida in molti giovani: anch’essi non cercano la morte in quanto tale, ma la soluzione ai problemi urgen­ ti della loro vita.5 Spesso il giovane ritorce contro se stesso la carica aggressiva originariamente volta contro i presunti colpevoli della pro­ pria sofferenza (i genitori, il fidanzato, la fidanzata, gli amici). «L’au­ toaggressione - spiega H. Henseler - inizia allorché viene minacciato il rapporto con un oggetto che è fonte di delusione, ma è vissuto come irrinunciabile. Si tratta perciò non semplicemente di un conflitto legato all’aggressione, bensì alla salvezza di un rapporto oggettuale. La rabbia deve essere diretta contro la propria persona in modo da non distrugge­ re tale rapporto».6 Nel caso di soggetti anziani il suicidio può essere interpretato non tanto come la volontà di farla finita, quanto piuttosto come una specie di esasperazione dello stato di paralisi relazionale in cui gli anziani so­ no spesso costretti non appena si ritirano dal lavoro e dalla vita produt­ tiva, una vera morte sociale che funge da prolungato preludio alla morte fisica. d. Il suicidio del sapiente In contrapposizione ai suicidi che sono una evidente espressione di fuga e di rinuncia di fronte a situazioni insostenibili, fin dall’antichità gli Stoici - distaccandosi dalla opinione tradizionalmente più diffusa tra 5 A lvin P., Adolescents suicidants, “Laennec” 42 (1994) 2-6; Di P ietro M.L., L ucatti-

A., Condotte suicidiarie e adolescenza nel dibattito attuale, “Medicina e Morale” 44 (1994) 667-690; P feffer, El suicidio de los menores de edad, “Dolentium Hominum” 9 (1994) 247-251; P ommereau X., L ’adolescent suicidare, Paris, 1996 (trad. it., La tenta­ zione estrema. Gli adolescenti e il suicidio Milano, 1999); Raschi G., Le condotte suici­ dane negli adolescenti, Acirela (Ct) 2003. 6 H enseler H., Psicologia del suicidio, “Concilium” 21 (1985) 3, 49.

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i filosofi —avevano teorizzato ed esaltato il suicidio del sapiente, di co­ lui cioè che si dimostra capace di rinunciare senza tentennamenti a una vita segnata dall’infamia, dall’umiliazione, dalla servitù politica. Il filo­ sofo Seneca - che morì suicida nel 65 d.C. in seguito alla scoperta del­ la congiura antineroniana - biasima quella che chiama la libidine della morte, segno di fragilità e pusillanimità, mentre esalta con parole con­ vinte la virtù del saggio che sa trovare nella morte la via della libertà: La vita, se manca la virtù del morire, è una servitù. Pensare alla morte, vuol due pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire; è sopra ogni potere, ma è certamente fuori di ogni potere. Carceri, custodi, cate­ nacci a che valgono? C’è sempre una porta aperta. Una sola è la catena che ci tiene legati: l’amore per la vita. Questo bisognerà non già annullare, ma ridur­ re, in modo che quando venga la necessità esso non c’impedisca dal fare subi­ to quello che dovremo pur sempre fare.7 Anche nella Scrittura vengono narrati casi analoghi: Saul e il suo scudiero si trafiggono con la propria spada per non cadere in mano ai nemici (1 Sam 31, 3-5); Achitòfel si impicca dopo il fallimento del suo complotto (2 Sam 17, 23); il sacerdote Razis preferisce «morire nobil­ mente piuttosto che diventare schiavo degli empi e subire insulti inde­ gni della sua nobiltà» (2 Mac 14, 37-46). L’ideale stoico del suicidio del sapiente si insinuò surrettiziamente in alcuni ambienti cristiani del IV secolo, suscitando la decisa reazione di Agostino.8

e. Il suicidio di protesta Nel nostro ambiente socio-culturale è possibile evidenziare una for­ ma di suicidio non collegato direttamente a sindromi depressive o a si­ tuazioni di eccezionale gravità per il soggetto: si tratta di una forma particolare di suicidio lucido o apparentemente tale, che può essere de­ nominato suicidio filosofico (in considerazione del contesto in cui sor­ ge) o suicidio di protesta (in considerazione della motivazione di fondo che lo anima). Se un soggetto, esclusa l’opzione di fede, vive completamente im­ merso nella mentalità secolarista e non riesce a concepire la sua vi­ ta come dialogo con l’Assoluto, cosicché gli sfugge completamente la relazione del proprio esistere con l ’Assoluto, allora il senso e il valore 7 S eneca, E p is to la 26, 10 (trad. C. Marchesi).

8 Si veda a questo proposito: NARDI C., I l m a r tìr io v o lo n ta r io n e lle o m e lie d ì G io v a n n i C r i­ “Ho theològos” 1 (1983) 207-278 (soprattutto 233-278).

s o s to m o su lle m a r tir i a n tio c h e n e ,

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dell’esistenza sono radicalmente messi in questione. Uno può vivere in­ fatti anche a lungo senza porsi il problema del significato della propria esistenza, ma nel momento in cui si pone il problema, o trova il signi­ ficato nell’Assoluto inteso come vocazione e appello, o deve mendica­ re il suo proprio significato dal mondo che lo circonda, rassegnarsi a lasciarsi vivere dall’esterno, convincersi che nulla di più egli è che un frammento insignificante della storia del cosmo.9 Per gli spiriti più sensibili la percezione della pressione sociale e cul­ turale come inevitabile sopraffazione dell’originale espressione dell’Io, la consapevolezza che i mezzi di manipolazione dell’uomo estendono con ritmi incalzanti il loro influsso omologante, la constatazione della inarrestabile crescita del potere occulto dell’uomo sull’uomo, accentua­ no ulteriormente l ’insignificanza dell’esistenza.101Nel deserto alienan­ te del non-senso e nella prigione dei condizionamenti sociali, quando sembra impossibile vivere se non lasciandosi vivere, il suicidio potreb­ be balenare nella mente proprio come il rifiuto di lasciarsi vivere, come un grido di protesta e una denuncia della vacuità del tutto, come fuga da una esistenza ineluttabilmente non-assoluta e non-significante e infi­ ne come tragica affermazione della propria personalità attraverso l ’uni­ ca scelta che appaia davvero autonoma.u

2.3 Gravità morale del suicidio Il suicidio diretto è sempre oggettivamente un male morale grave: questa affermazione comune e costante di tutta la Tradizione morale cattolica è tuttora valida e anche se, nei casi concreti, il discorso va mol­ to sfumato, è indispensabile - proprio per valutare correttamente le si­ tuazioni concrete - porre un punto di riferimento oggettivo.12 9 Evitando forzature indebite, si può accostare a questo atteggiamento mentale, il ta e d iu m v ita e di cui parlano gli antichi filosofi e che viene così efficacemente descritto in S eneca, E p is to la 24, 6: «Quousque eadem? Nempe expergiscor dormiam, esurìam farciar, algebo aestuabo. Nullius rei finis est, sed in orbem nexa sunt omnia, fugiunt et secuntur. Diem nox praemit, dies noctem, aestas in autumnum desinit, autumno hiemps instat, quae vere compescitur; omnia sic transuent ut revertantur. Nihil novi facio, nihil novi video: f i t a liq u a n d o e t h u iu s r e i n a u s ia . Multi sunt qui non acerbum iudicent vivere, sed s u p e r v a c u u m » . 10 Cfr. C hiavacci E., voce M a n ip o la z io n e d e l l ’u o m o , in D i z i o n a r i o t e o lo g ic o , B auer J. B ., M olari C. curr., Assisi 1974, 354-362. 11 Per il caso davvero esemplare di Y. Mishima, vedere: C astelli F., Y o k io M is h im a . I l s u i­ c id i o c o m e p r o t e s t a e c o m e s p e tta c o lo , “Civiltà Cattolica” 126/1 (1975) 229-244. 12 Ottima trattazione con particolare riferimento agli aspetti biblici e patristici in: B làzquez N., B i o é t i c a F u n d a m e n ta l, Madrid 1996, 530-537.

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a. Motivi tradizionali contro il suicidio La Tradizione ha elaborato la sua dottrina sul suicidio attingendo sia dall’esperienza umana (filosofica e giuridica) sia dalla Rivelazione. Se­ guendo lo schema fornito da san Tommaso nella Summa Theologiae, possiamo sintetizzare gli argomenti tradizionali contro il suicidio orga­ nizzandoli in tre ordini di ragioni.1314 In primo luogo il suicidio è ritenuto irrazionale perché contraddice la na­ turale inclinazione all’autoconservazione.u «Questa inclinazione - scrive il Pinckaers - è fondamentale perché riguarda l’essere stesso dell’uomo, alla base dei suoi sentimenti e dei suoi atti. L’universalità dell’inclinazione ne manifesta il carattere originario: dipende dalla sostanza stessa dell’uo­ mo e assicura la sua conservazione in vita... Questa inclinazione è certa­ mente così profonda che spesso sfugge alla nostra coscienza, ma agisce in noi come la fonte stessa di ogni volontà cosciente e Ubera. Essa produce il desiderio spontaneo di esistere e di vivere. Questo desiderio è irrefrenabi­ le, e tuttavia non ci costringe; non limita la nostra Hbertà, ma la fa esistere e la ispira. L’inclinazione aUa conservazione dell’essere è all’origine della vita e dell’azione. Ci porta verso quel bene primitivo che è la vita, secondo la nostra natura, come esseri viventi, ragionevoh e Uberi».15 In secondo luogo il suicidio, come l’omicidio, contraddice la signo­ ria di Dio sulla vita umana e la persuasione che ogni vita ha un senso e una funzione solo in quanto è risposta fedele a una chiamata di Dio.16 Il comando decalogico “non uccidere” - come sottoUnea Agostino - esprime il divieto di sopprimere ogni vita umana, senza distinguere fra la vi­ ta propria o quella altrui.17 Se si comprende che il senso dell’esistenza umana è il dialogo con Dio e che da questa relazione costitutiva trae va13 S. T ommaso D ’A quino, Summa Theologiae, II-IIae, q. 64, art. 5, resp. Segnaliamo per contrasto l’affermazione di Lugo che è difficile trovare argomentazioni ra­ zionali per una verità che appare autoevidente. Cfr. Lugo G., De iustitia et iure, disp. 10, n. 45: «Tota difficultas consistit in assignanda ratione huius veritatis: nam licet turpitudo haec statini appareat, non tamen facile est eìus fundamentum invenire; unde (quod in aliis multis quaestionibus contigit) magis certa est conclusio (quia nempe aliunde certa est, puta ex fide), quam rationes, quae variae de diversis afferuntur ad huius probationem». 14 Sul tema delle inclinazioni naturali, vedere: P inckaers S., Le fonti della morale cristia­ na, Metodo, contenuto, storia, Milano 1992, 468 ss (per l’inclinazione alla conservazio­ ne dell’essere, 493-497). 15 Ibidem, 493-495 (passim ). 16 Cfr. Dt 32, 39: «Sono io che do la morte e faccio vivere»; Dt 30, 19-20: «Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità». 17 Cfr. S. A gostino, De Civitate Dei, lib. 1, cap. 20 (PL 41, 35): «Restat ut de homine intelligamus quod dictum est “Non occides”. Nec alterum ergo nec te. Neque enim aliud quam hominem occidit, qui seipsum occidit».

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lore e senso l’esistenza stessa, allora sarà chiaro che interrompere unila­ teralmente e arbitrariamente questo dialogo è un implicito rifiuto di Dio e della sua sovranità. L’uomo, in quanto immagine di Dio, ha una signo­ ria autentica sulla sua vita, ma questa signoria ministeriale è subordinata al principale dominium di Dio. All’uomo devono pertanto essere rico­ nosciuti veri spazi di libertà e il diritto di organizzarsi autonomamente 1’esistenza, ma il fatto di vivere-una-vita non è oggetto di scelta per l’uo­ mo: come nessuno ha deciso di entrare nella vita, ma vi è stato chiama­ to, così nessuno può uscirne senza aver ricevuto la chiamata. Tommaso aggiunge un ulteriore motivo di rifiuto del suicidio, de­ rivante dalla filosofia di Aristotele e in sintonia con la sua concezione dell’etica come impresa comunitaria e realtà eminentemente sociale: Ogni uomo è parte della comunità e perciò quello che è, è della comunità. Ne segue che nel momento in cui uccide se stesso, fa un’ingiustizia alla comu­ nità, come si legge nel V libro delVEtica di Aristotele.18 Queste parole contengono una intuizione profondamente vera perché riporta l’assoluta indisponibilità da parte dell’individuo della propria vi­ ta «al carattere non solipsistico dell’esistenza, al fatto (indiscutibile) che il nostro io dipende sempre e comunque da un altro-da-noi e che sempre e comunque ha responsabilità verso altri alle quali non può unilateral­ mente sottrarsi».19 Nella visione di Tommaso, ogni uomo è considerato parte di un unico disegno divino universale e, in questo senso, ogni uo­ mo è parte di un tutto, rappresentato dalla communitas in cui egli è con­ cretamente inserito. Nessuno è padrone di disporre della propria vita non solo perché essa viene da Dio, ma anche perché essa ha sempre e per sé un significato e un valore per gli altri uomini: il suicidio (diretto) è sem­ pre anche una ingiustizia, un danno arrecato alla società.20 Per il credente, in modo particolare, ci sono sempre almeno due mo­ tivi validi per conservare la vita, qualunque sia la condizione concre­ ta in cui uno si trovi chiamato a vivere, la testimonianza e la preghiera.

18 S. T ommaso D’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , H-Hae, q. 64, art. 5, resp.: «Quilibet homo est pars communitatis: et ita id quod est, est communitatis. Unde in hoc quod seipsum interficit, iniuriam communitati facit, ut patet per Philosophum, in V Ethicorum (cap. XI, 3; 1138all)». 19 D ’A gostino F., M o r te , in C ompagnoni F. ed., E tic a d e ll a v ita , 63. 20 Si noti come l’appartenenza dell’uomo alla comunità talora possa richiedere anche il sa­ crificio dell’integrità fisica, come nel caso della donazione di organi giustificata - come si è visto - dal p r i n c i p io d i s o l i d a r i e t à , dall’altra fonda la indisponibilità della propria vita in base al p r i n c i p i o d i r e s p o n s a b ilità comunitaria.

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Continuando a vivere, anche nelle condizioni più penose e avvilenti, il cristiano rende testimonianza al Padre, afferma la sua fede sperando contro ogni speranza, testimonia apertamente che proprio Gesù, l’uomo dei dolori, è il Cristo, il Crocifisso Risorto. Il cristiano che apparente­ mente non ha più nulla da dare al prossimo con la sua attività, può dare molto con la preghiera e la testimonianza di fede e in esse egli riverse­ rà tutto il suo amore per il prossimo. L’accettazione delle sofferenze e delle angustie della vita è frutto di una fede autentica e - come Paolo ci insegna - nonostante tutti i dolori fisici e morali, le umiliazioni, le sof­ ferenze nulla può separarci dalla carità di Cristo. Per tutti questi motivi il suicidio diretto (cioè voluto in se stesso co­ me fine o come mezzo), in qualsiasi circostanza e per qualsiasi motivo sia posto, deve essere ritenuto un atto sempre illecito. Di conseguen­ za non è neppure giusto aiutare una persona a darsi la morte (,suicidio assistito) perché - come si legge in Evangelium Vitae - «condividere l ’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il co­ siddetto suicidio assistito significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giusti­ ficata, neppure quando fosse richiesta».21 A conclusione di questa esposizione sui motivi tradizionali contro il suicidio, dobbiamo però sottolineare - con F. D ’Agostino - come «nella prospettiva soggettivistica della modernità il fondamento stesso di questo discorso viene invece meno e l’atto suicidiario, da cifra della disperazio­ ne, acquista una nuova valenza, ontologicamente positiva, sia pure di ca­ rattere estremo: quella di negazione di Dio (Dostoevskij) o di negazione del “prossimo” (Nietzsche) o comunque di riaffermazione di una peculia­ re forma di razionalità, la razionalità calcolante, prediletta dagli utilitari­ sti, che pretende di avere per oggetto una ponderata gestione di sé».22

b. Il suicidio del sapiente e di protesta L’appello alla legge naturale e soprattutto alla naturale inclinazio­ ne all’autoconservazione costituisce una delle più importanti obiezioni che si può muovere anche al suicidio filosofico: esso infatti contraddice palesemente quella legge che ogni uomo ha scritta nel suo cuore, il cui primo e autoevidente precetto è: “Fa’ il bene, evita il male”. Vivere è il bene umano fondamentale e la condizione per poter realizzare ogni al­ tro bene: questa verità etica fa parte in qualche modo della esperienza morale originaria e, in base ad essa, è immediato riconoscere che il ri21 G iovanni P aolo II, Lett. enc. Evangelium Vitae, n. 66. 22 D ’A gostino F., Morte, 63-64.

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fiuto della vita è allo stesso tempo rifiuto del bene umano. Risulta, inoltre, difficile accettare la tesi stoica che il suicidio messo in atto per sfuggire un’imminente catastrofe non sia segno di pusillani­ mità o di rinuncia, ma costituisca al contrario una manifestazione ec­ celsa di eroismo e di forza. Non possiamo negare il fascino che ancor oggi sprigionano le pagine degli antichi scrittori in cui si riferiscono al­ cuni esempi di suicidi lucidi, né vogliamo giudicare la nobiltà e la retti­ tudine soggettiva di questi suicidi, bisogna però riconoscere che, tanto nel caso degli Stoici come del sacerdote Razis o del re Saul, si tratta pur sempre di suicidi voluti direttamente come mezzo per sfuggire all’infa­ mia, allorché la morte appare preferibile a una vita senza onore: è dif­ fìcile non vedere in questi gesti estremi una forma di fuga da una realtà percepita insostenibile, anche se Vexitus dal mondo si presenta amman­ tato di tragica grandezza.23 Per questo motivo, benché l’Agiografo par­ li di Razis in temini laudativi, san Tommaso giudica Razis piuttosto un debole che un forte24 e sant’Agostino commenta l ’episodio biblico scri­ vendo che «la Scrittura ci dice che volle morire nobilmente, ma non ci dice che volle morire saggiamente».25 Ogni suicida lucido, credente o non credente, sarebbe perciò inescusabile. La questione appare però meno certa se riflettiamo sulla realtà del nostro contesto sociale e culturale: molte volte una persona potrebbe percepire il suo vivere come un semplice, ineluttabile, insignificante la­ sciarsi vivere e quindi sentire che quella vita che sta vivendo è il contra­ rio della propria realizzazione, è perciò radicalmente un male morale. In questa cupa prospettiva, il suicidio esistenziale potrebbe essere colto soggettivamente dalla persona come un vero eroismo, come il solo atto davvero buono da compiersi. Questo suicidio non sarebbe quindi conse­ guenza di paura, di umiliazione, di miseria insopportabile, di sofferen­ za, ma il frutto di una scelta lucida, erroneamente giudicata dal soggetto come rispondente al primo precetto della legge naturale. Il suicidio filosofico vorrebbe essere l’atto di accusa contro una 23 Si veda, per esempio, il suicidio di Catone Uticense, nell’assedio di Utica nel 46 a. C., alla fine della guerra civile che vide il trionfo di Cesare su Pompeo: S eneca , D e p r o v i d e n tia , 2, 11-12; P lutarco, V ita d i C a to n e M in o r e , 67-73. Neppure il cristiano Dante si sottrasse alla forza della tradizione e fece di Catone il simbolo dell’uomo alla ricerca del­ la libertà autentica. Virgilio si rivolge a Catone sulla spiaggia del Purgatorio con i celebri versi: «Libertà va cercando, che è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta./ Tu il sai, ché non ti fu per lei amara/ in Utica morte, ove lasciasti/ la vesta che al gran dì sarà sì chiara» ( P u r g a to r io , I, 71-75). 24 S. T ommaso D’Aquino, S u m m a T h e o lo g ìa e , II-Hae, q. 64, a. 5, ad 5: «Non tamen est vera fortitudo, sed magis quaedam mollities animi non valentis mala poenalia sustinere». 25 S. A gostino, E p is to la 204.

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cultura di morte che, dopo aver rifiutato Dio in nome dell’autonomia dell’uomo, è giunta alla soglia della più completa disumanizzazione dell’uomo stesso. Di fronte a tale situazione l ’annuncio cristiano è una proposta sconvolgente e liberante perché ormai - come afferma Hei­ degger con animo scettico e disperato - «solo un dio ci può salvare». Ma sia ben chiaro che nessun dio filosofico può dare speranza all’uomo di oggi, il quale è ben consapevole che ogni filosofia è legata in qual­ che modo al sistema stesso che lo opprime, che da esso è scaturita e che di esso è in qualche modo sostegno. Nessun ragionamento può convin­ cere: solo la speranza che nessuno sforzo è vano, che nessun gesto di amore e di liberazione va perduto, può essere vero annuncio di salvez­ za. Solo il Dio di Gesù Cristo può dare senso all’assurdo dell’esistenza, al dolore, alla morte, alla non-significanza, perché è proprio nella sua kenosis totale, nel suo essersi volontariamente svuotato e umiliato, nell’apparente fallimento della sua lotta con il mondo dell’oppressione e dell’inautenticità, che Gesù ci ha redenti e liberati.26 Fuori della logica di un Dio che chiama all’amore e alla vita piena, al­ tra moralità non si dà che nella logica della narcisistica realizzazione di sé e il suicidio può esser davvero concepito come l’unico modo di realizza­ re se stesso, come suprema moralità, come riappropriazione da parte del­ l’uomo di tutta 1’esistenza, inclusa la morte. L’uomo veramente uomo sa morire, secondo Nietzsche, «al momento giusto» (zur rechten Zeit) facen­ do del morire una festa in cui si celebra il raggiungimento della pienezza e della maturità.27 Una testimonianza significativa di questo atteggiamen­ to si può trovare nell’aforisma 80 di Umano, troppo umano: Perché dovrebbe essere più lodevole per un uomo invecchiato, che sente il declino delle proprie forze, attendere la propria lenta consumazione e il disfa­ cimento, che non porre termine in piena coscienza alla propria vita? In questo caso il suicidio è un'azione del tutto naturale e a portata di mano che, come vittoria della ragione, dovrebbe giustamente suscitare rispetto.28

Una concezione distorta della libertà umana che approva ed esalta lo svincolamento della libertà dagli assoluti morali e dalla relazione col 26 Una trattazione magistrale del suicidio filosofico in: C hiavacci E., Morale della vita fi­ sica, 88-91.

27 Vedere sul tema un suggestivo intervento: R egina U., Nietzsche: morire al momento giusto, in B iolo S. cur., Nascita e morte dell’uomo. Problemi filosofici e scientifici della bioetica, Genova 1993, 239-254. 28 N ietzsche F., Umano troppo umano, n. 80, in C olli G., M ontinari M. curr., Opere di Friedrich Nietzsche, Milano 1964 ss., voi. 4/2, 67.

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mondo dei valori oggettivi porta a ritenere che l’autonomia di una per­ sona possa giungere a scegliere se, quando e come continuare a vivere o darsi la morte, benché, dal punto di vista puramente razionale, questa giustificazione del suicidio sia - a ben guardare - assurda: è paradossa­ le infatti che un soggetto morale realizzi compiutamente se stesso an­ nientandosi come soggetto nell’atto suicida, è assurdo che la massima espressione della moralità coincida con l’annientamento dello stesso agente morale, che una libertà per affermarsi si autodistrugga. Imma­ nuel Kant, dopo aver enunciato l’imperativo categorico, ne porta come esempio, proprio la assurdità del suicidio perché «una natura in cui fos­ se legge che quello stesso sentimento che è destinato a promuovere la vita, distrugga la vita stessa, è una natura in sé contraddittoria e, quindi, non può sussistere come natura».29 «Chi si dà la morte dichiara, paradossalmente, che l’unico modo per salvare la propria vita è quella di distruggerla»30 per cui, ponendosi nel­ la prospettiva del rapporto ambivalente del soggetto con il suo corpo oggetto/corpo vissuto, C. Zuccaro giustamente osserva che il tentativo di superare attraverso il suicidio una condizione somatica ritenuta in­ sostenibile è illusorio perché «il limite rappresentato da questo corpo mortale... non può essere veramente tolto ed eliminato dal suicidio. In­ fatti il suicida non riesce ad affermare se stesso in quanto spirito libero, ma precisamente solo il suo essere ormai cadavere».31

c. Valutazione soggettiva dei suicidi Il suicidio filosofico non rappresenta certo una quota rilevante nelL, Fondazione della metafisica dei costumi (M atthieu V. cur.), Milano 1994, 127. Per “natura” qui si intende «Pesistenza di cose in quanto determinata da leggi gene­ rali». Sull’etica del suicidio in Kant: K ant I., Sull'etica del suicidio. Dalle “Riflessioni” e “Lezioni ” di Immanuel Kant con i “Preparativi di un infelice alla morte volontaria” di un anonimo del Settecento (A portone A . cur.), Firenze 2003; M ordacci R ., Una intro­ duzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica , Milano 2003, 368-370; R eichlin M., L ’etica e la buona morte, Torino 2002 (soprattutto, pp. 181-227). Si vedano le critiche mossegli a proposito del suicidio del sofferente, nella prospettiva di Hans Kelsen, in W al­ ter R ., La teoria di Kelsen. Contributi alla dottrina pura del diritto, Torino 2005, 87: «La “contraddizione” sussiste solo fra la massima e una legge morale presupposta da Kant che vieta il suicidio in tutte le circostanze e in base alla quale la massima in questione non deve essere voluta... Si può benissimo volere che il suicidio in generale sia certo inammissibi­ le, ma che debba essere consentito in determinati casi eccezionali, dai quali il generale di­ vieto di suicidio sarebbe delimitato». 30 R eichlin M., Il suicidio e la morale cristiana, “Rassegna di Teologia” 39 (1998) 877. Cfr. Y olif J.F., Suicide et liberté, “Lumière et Vie” 32 (1957) 83-100. 31 Z uccaro C., La vita umana è indisponibile? Il giudizio etico relativo a suicidio ed eu­ tanasia, in “Rassegna di Teologia” 38 (1997) 52. 29 K ant

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l ’ambito del fenomeno suicidiario. Nella gran maggioranza dei casi le persone che cercano il suicidio sono quelle confrontate con difficoltà esterne ed interne superiori alle loro capacità di gestirle; sono in una si­ tuazione in cui il desiderio di continuare a vivere si scontra con l’im­ possibilità di continuare a vivere nelle condizioni date. Se infatti, da una parte, «il materiale della ricerca empirica mostra chiaramente come la rappresentazione dell’uomo che rifiuta, in libertà e in lucido bilancio, una vita che è divenuta per lui intollerabile o priva di senso, non è vera nella maggior parte dei casi»,32 d ’altra parte la teorizzazione del suici­ dio lucido è senza dubbio un sintomo allarmante del baratro verso cui si stanno muovendo le società occidentali in questa fase declinante della modernità ed è intuitivo che il contesto secolarista e ateo che genera il suicidio filosofico in senso stretto, costituisce anche lo sfondo ideologi­ co che - minando le certezze tradizionali e in particolare la fede - ha fa­ vorito la crescente diffusione dell’idea che esista un diritto alla morte. La Chiesa è ben consapevole che il suicidio si situa spesso in conte­ sti psicologici alterati che tolgono del tutto o in parte la responsabilità morale del suicida stesso e che l’atto suicida diventa trasgressione col­ pevole solo nella misura in cui si configura come volontaria rivolta e ar­ bitraria negazione del senso che è a fondamento della libertà umana. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda che, oltre ai gravi disturbi psichici, anche «l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferen­ za o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida».33 Questa consapevolezza - senza mutare il giudizio negativo sul sui­ cidio - ha portato ad allentare il rigore delle disposizioni canoniche sui morti in queste tragiche circostanze. I suicidi, considerati pubbli­ ci peccatori e dannati per aver chiuso la loro vita con un gesto di offe­ sa gravissima alla signoria di Dio, furono infatti esclusi dalla sepoltura ecclesiastica già dal Concilio Bracarense II (563) e questa sanzione in­ famante fu sempre confermata nel tempo, sino al Codex luris Canonici del 1917 (CIC 1917, can. 1240 §1, 3°).34 Il Codice del 1983 non elenca più i suicidi tra gli esclusi dalla sepoltura ecclesiastica e dalla messa esequiale (cfr. CIC 1983, cann. 1184-1185) e lo stesso Catechismo afierma che «non si deve disperare della salvezza eter­ na delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita».35 32 P ellizzaro G., Suicidio, 1341. 33 Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 2282. 34 Cfr. B làzquez N., Bioética Fundamental, 537-540. 35 Ibidem, n. 2283.

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2.4 La morte in nome di ideali e valori superiori Si pone in una logica diversa rispetto alle fattispecie finora esami­ nate la morte connessa con la tutela e l’attuazione di ideali e valori superiori. Sono quei suicidi che, nell’analisi sociologica classica di Du­ rkheim, sono classificati come altruistici perché il soggetto si identifi­ ca con la cultura o con Videale del gruppo di appartenenza.36 La morale tradizionale ha interpretato molti casi riportabili a questa tipologia co­ me suicidi indiretti: la morte non è oggetto diretto della volontà del­ l’agente e non è intesa né come scopo, né come mezzo per ottenere un fine buono, ma è una conseguenza di una azione direttamente finalizza­ ta ad affermare valori superiori.

a. Il martirio I martiri cristiani di ogni tempo hanno preferito la morte alla apo­ stasia ed hanno confessato con franchezza la fede, pur prevedendo che questa professione di fede sarebbe costata loro la vita.37 Bisogna però dire parlare di suicidio sarebbe per lo meno improprio perché i marti­ ri, pur compiendo con piena consapevolezza atti che fi conducono cer­ tamente a morire, non cercano direttamente la morte, né tanto meno se la danno da soli. I martiri si sacrificano per testimoniare il loro amore a Dio sino al­ l’effusione del sangue, memori della parola evangelica che: «Chi perde la propria vita per causa mia e del Vangelo, la trova» (Mt 10, 39). Essi hanno ritenuto che la vita eterna, che è il bene integrale e definitivo del36 D urkheim E., I l s u ic id io . S tu d io d i s o c io lo g ia , Milano 19968, 255: «Nel suicidio altrui­

stico facoltativo vediamo che l’individuo aspira a spogliarsi del suo essere individuale per annientarsi in quell’altra cosa che considera la sua vera essenza. Poco importa il nome che le dà, ma è in quella e in quella soltanto che crede di esistere ed è per esistere che vuole così fortemente confondersi ad essa». Nella interpretazione di Durkheim, la tipologia del suicidio è legata al grado di integrazione sociale di un determinato gruppo: il s u ic id io e g o i ­ s t i c o è segno dell’indebolimento dei legami sociali; il s u ic id io a l tr u is tic o deriva da un ec­ cesso di integrazione; il s u ic id io a n o m ic o corrisponde a momenti di profondo mutamento, nei quali l’esistenza collettiva si sgretola in uno stato di illimitazione dei bisogni. 37 Sul martirio, vedere le classiche pagine tomasiane: S. T ommaso D’A quino, S u rn m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 126, art. 1-5. La teologia contemporanea è tornata sul tema con pro­ spettive rinnovate: C rociata M., M a r ti r i o e d e s p e r ie n z a c r is tia n a n e lla r ifle s s io n e c a t t o ­ l ic a c o n te m p o r a n e a , “Ho theològos” 14 (1996) 315-367; G herardini B., I l m a r tir io n e l ­ la m o d e r n a p r o s p e t t iv a te o lo g ic a , “Divinitas” 26 (1982) 19-35; J anssens J., M a r ti r i o e d e s p e r ie n z a s p ir itu a le n e lla C h ie s a A n tic a , “Rassegna di Teologia” 29 (1988) 361-381; R ahner K., D im e n s io n i d e l m a r tir io . P e r u n a d ila ta z io n e d e l c o n c e tto c la s s ic o , “Concilium” 18 (1983) 3, 25-29; Susini M., I l m a r tir io c r is tia n o e s p e r ie n z a d i in c o n tr o c o n C r i ­ sto . T e s tim o n ia n z e d e i p r i m i tre s e c o li, Bologna 2002.

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l’uomo, sia preferibile alla tutela di un bene parziale qual è la vita fisica e che, d ’altra parte, il primato di Dio, valore supremo, si impone sul­ la vita corporea, dono di Dio.38 A ben guardare, essendo la vita umana destinata a farsi servizio e lode di Dio, si può dire che nel martirio non solo la vita umana non viene disprezzata, ma anzi raggiunge con traspa­ renza e pienezza lo scopo per il quale ci era stata data.39

b. La morte per amore Una stretta analogia con il martirio presenta Yolocausto di sé com­ piuto per il bene del prossimo, come quello che fanno coloro che si pon­ gono al servizio di malati contagiosi noncuranti del contagio (come san Francesco o madre Teresa di Calcutta) o che offrono la vita in cambio di quella di un fratello (come san Massimiliano Kolbe). Motivi superiori di carità verso il prossimo giustificano anche il ge­ sto eroico di chi si espone a un rischio gravissimo e persino a morte cer­ ta per salvare la vita di altri. Classico è il richiamo all’esempio di Pietro Micca che muore nell’esplosione da lui stesso provocata per impedire ai Francesi di penetrare in città durante l’assedio di Torino del 1706; né si può dimenticare l ’esempio biblico di Sansone che fa crollare la casa sui Filistei per liberare il suo popolo, conscio che il crollo travolgerà an­ che lui (cfr. Gdc 16, 23-31). «Consegnare se stesso alla morte a motivo di un amico - insegna san Tommaso - è un atto perfettissimo di virtù e la persona virtuosa preferisce questo atto alla sua stessa vita fisica»40. Si tratta - secondo la Tradizione morale - di suicidi indiretti, aventi come scopo non la morte, ma la promozione di un bene maggiore per i fratelli: questi casi sono giustificati dagli Autori cattolici in base al prin­ 38 Volendo giustificare il martirio in base agli schemi etici razionali, si può richiamare il nel senso che la perdita di una dimensione della vita (quella corporea) è finalizzata alla salvaguardia della vita intera dell’uomo (quella eterna). Meno convincen­ te l’interpretazione che, nel c o n flitto fra il valore della vita fisica e il valore della testimo­ nianza a Dio, debba prevalere sempre il secondo perché più elevato. Pensare a un d u p lic e e ffe tto , che cioè i martiri vogliono solo testimoniare Dio e che la morte è effetto collate­ rale non voluto benché previsto, è plausibile, ma oscura la volontarietà eroica del supre­ mo atto oblativo. 39 Cfr. G iovanni P aolo II, Lett. enc. V e rita tis S p le n d o r , n. 92: «Il martirio è quindi anche esaltazione della perfetta u m a n ità e della vera v ita della persona». 40 S. T ommaso D ’A quino, S c r ip tu m s u p e r S e n te n tiìs , III, d. 29, a. 5, ad 3: «Tradere semetipsum propter amicum est perfectissimus actus virtutis; unde hunc actum magis appetit virtuosus, quam vitam propriam corporalem». Cfr. S. A lfonso , T h e o lo g ia M o r a lis , lib. 3, tract. 4, cap. 1, dub. 1 (ed. Gaudé, voi. 1, n. 366 ss.). Per questo motivo un alpinista vola­ to dalla parete può tagliare la corda che lo lega ai compagni e morire precipitando per sal­ vare i compagni e un naufrago può cedere ad un altro naufrago la tavola che lo tiene a gal­ la, anche con la certezza di perire. p r i n c i p io d i to ta lità ,

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cipio dell’atto a duplice effetto perché la morte è prevista, ma non volu­ ta direttamente e non si configura neppure come mezzo per conseguire il fine desiderato. Spiegava Francisco de Viteria (1492-1546): È lecito anche sostituirsi ad un altro, condannato alla schiavitù o alla mor­ te: la liberazione del prossimo, che è un bene virtuoso, procede immediata­ mente dalla mia consegna... ma non dalla mia morte che dipende anche dalla volontà del tiranno.41 La giustificazione di tali atti autouccisivi compiuta attraverso la fi­ gura del suicidio indiretto non si trova però né in Agostino, né in Tom­ maso, né in Scoto, i quali si appellano invece a una particolare chiamata divina.42 Il pensiero di sant’Agostino è ben sintetizzato in questo passo del De Civitate Dei : Chi dunque sente dire che non è lecito uccidersi, lo faccia pure se lo ha co­ mandato Colui i cui comandi non si possono trascurare, ma soltanto veda se il comando divino non si presenti in qualche modo oscuro. Noi attraverso l’ascol­ to conveniamo con la coscienza, ma non pretendiamo di poter giudicare le cose occulte. Nessuno sa che cosa accada nell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è dentro di lui (1 Cor 2,11). Questo diciamo, questo affermiamo, questo appro­ viamo in ogni modo, che nessuno deve darsi volontariamente la morte.43 Questa ipotesi di una ispirazione da parte di Dio non ci pare «quasi

41 V itoria F. de, D e h o m ic id io , n. 32: «Licet etiam se substituere proximo damnato ad ser-

vitutem vel ad mortem: liberatio enim proximi scilicet bonum virtutis procedit immediate ex mea traditione ... non vero ex mea morte, quae pendet etiam a voluntate tyranni». Cfr. V ermeersch A., T h e o lo g ìa m o r a lis , Roma 1945, tom. 1, n. 299. 42 S. T ommaso, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 64, a. 5, ad 4: «Dicendum quod, sicut Au­ gustinus dicit in I D e C i v ita te D e i [cap. 21, in PL 41, 35], “nec Samson aliter excusatur quod seipsum cum hostibus ruma domus oppressit, nisi quia latenter Spiritus hoc iusserat, qui per ilium miracula faciebaf’. Et eandem rationem assignat de quibusdam sanctis feminis quae tempore persecutionis seipsas occiderunt, quarum memoria in Ecclesia cele­ brato». Cfr. G. D uns S coto, O p u s O x o n ie n s e , IV, d. 15, q. 3, n. 6 (ed. Wadding, voi. 18, 367): «Nullus debet esse homicida sui sine speciali praecepto Dei». Per Tommaso il prin­ cipio del doppio effetto non ha ancora il rigore che avrà per i moralisti recenti, ma è strano che egli lo applichi poche righe dopo al caso dell’uccisione per difesa e non ritenga conve­ niente applicarlo a Sansone che è un caso tipico di suicidio indiretto. 43 S. A gostino , D e C iv i t a te D e i , lib. 1, cap. 26 (PL 41, 39): «Qui ergo audit non licere se occidere, faciat, si jussit Cuius non licet jussa contemnere; tantummodo videat utram di­ vina jussio nullo nutet incerto. Nos per aurem conscientiam convenimus, occultorum nobis judicium non usuipamus. N e m o s c i t q u id a g a tu r in h o m in e n is i s p ir itu s h o m in ìs, q u i in ip s o e s t (1 Cor 2, 11). Hoc dicimus, hoc asserimus, hoc modis omnibus adprobamus, neminem spontaneam mortem sibi inferre debere».

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blasfema» - come scriveva L. Rossi44- ma risponde alla dinamica intima del cosiddetto suicidio per amore: si tratta di un sacrificio di sé che risulta difficilmente giustificabile alla luce della sola ragione e che diventa com­ prensibile soltanto se lo si vede come risposta eroica e totalitaria a un ap­ pello di Dio ad amare sino alla fine che risuona nel cuore dell’uomo. Più vicina alla mens della Tradizione antica sarebbe, perciò, la giu­ stificazione di questi atti non tanto richiamandosi al principio del du­ plice effetto, ma al principio di solidarietà o di carità, che si applica tipicamente ai prelievi di organi da vivente, ove occorre giustificare la liceità di una mutilazione fatta in favore di un’altra persona. In questo senso già sant’Alfonso, riprendendo una sentenza del Lugo, insegna­ va che «a motivo di un importante bene comune o per un obbligo par­ ticolare conseguente a un patto o a un ufficio, come può avere per es. un soldato, un governante, un vescovo, un pastore, lecitamente ci si può esporre alla morte e perire».45 Nelle situazioni concrete può essere difficile discernere se ci si muo­ ve nella logica del suicidio per amore oppure no. Si pensi al caso del prigioniero politico che si uccide per il timore di rivelare informazio­ ni della propria organizzazione. L’impiego di torture psicologiche e di potenti mezzi farmacologici, riducendo la lucidità di coscienza e le ca­ pacità decisionali dei soggetti, riescono oggi a piegare le volontà più ostinate e fanno presumere con ragionevole certezza che un prigioniero sarà costretto, suo malgrado, a tradire i compagni. In questo contesto, in cui si prevede con certezza che si sarà obbligati a tradire, uccidersi non per timore delle sofferenze, ma per salvaguardare la vita di altri può essere interpretato come un gesto ispirato a carità eroica verso il pros­ simo. A differenza dei casi precedenti, dove era sempre possibile ap­ plicare la figura del suicidio indiretto e giustificare la morte in base al principio del duplice effetto, qui non si può applicare il principio perché l ’effetto buono (salvare i compagni) è ottenuto proprio attraverso l’ef­ fetto cattivo (la propria morte). In quest’ultimo caso, per giustificare il suicidio si può certamente pensare ad una applicazione del principio di carità, ma si tratta di una applicazione talmente estenuata che solo una esplicita mozione dello Spirito potrebbe dare al soggetto la certezza che questo sacrificio rappresenti la volontà di Dio per lui. 44 Rossi L., Suicidio, in Rossi L., V alsecchi A. dirr., Dizionario Enciclopedico dì Teolo­ gia Morale, Cinisello Balsamo (Mi) 19877, 1605: «Quest’ipotesi, che a noi sembra quasi blasfema, è tutt’altro che superflua secondo la tradizione cristiana». 45 S. Alfonso, Theologia Moralis, n. 366: «Ob magnum bonum commune, vel ob specialem obligationem, ex pacto vel officio, quam habet v. gr. miles, gubemator, episcopus, pastor, licite possunt et tenentur mortem perferre».

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c. Il sacrificio religioso Sant’Agostino e la Tradizione susseguente hanno mostrato un certo imbarazzo nel formulare un giudizio morale oggettivo su quelle vergini che, durante le persecuzioni anticristiane, si uccisero piuttosto che mac­ chiare la loro castità subendo violenza carnale. Si ricorda a questo pro­ posito l ’episodio di Pelagia che si precipitò dall’alto di un tetto e salvò la sua verginità con la morte volontaria,46 quello di Apollonia che si but­ tò nel fuoco,47 quello di Domnìna e delle sue figlie, Bemìce e Pròsdoce, che si annegarono in un fiume. Eusebio così ci riferisce la drammatica esortazione di Domnìna alle figlie: Ella diceva (alle figlie) che dare l’anima in schiavitù ai demoni era peggio di ogni morte e di ogni danno e che il solo modo per sfuggire ai pericoli in­ combenti era la fuga nel Signore.48 Queste donne suicide per motivi religiosi furono e sono venerate quali sante e martiri volontarie dalla Chiesa e il loro coraggio e la loro virtù sono state esaltate da Padri insigni, come san Giovanni Crisosto­ mo e sant’Ambrogio.49 San Girolamo, in sintonia con il pensiero co­ mune al suo tempo, afferma che, non dipendendo da noi l’impadronirci della morte, «neppure nelle persecuzioni è lecito suicidarsi, tranne il ca­ so in cui sia in pericolo la castità».50 Dal punto di vista dell’analisi morale dell’atto non paiono esserci dubbi che si tratta di suicidi diretti, voluti direttamente come mezzo per conservare la castità e quindi per non venir meno ad una promessa fat­ ta a Dio. Agostino, intuendo Tinfiltrarsi dell’ideale stoico del suicidio eroico in queste manifestazioni estreme e discutibili di fedeltà a Dio, critica appunto la motivazione che ha spinto queste sante donne al sui­ cidio: non si può dire infatti che esse scelsero la morte piuttosto che il peccato, dal momento che nessuno pecca senza un atto deliberato di vo­ 46 S. A mbrogio, D e v ir g in ib u s , lib. 3, cap. 7, 33 (PL 16, 241-242); I d ., E p is to la X X V I I a d S im p lic ia n u m , 38 (PL. 15, 1093). Cfr. E usebio , H ìs to r ia e c c le s i a s t i c a , lib. 8, cap. 12, 2 (PG 20, 770). 47 E usebio , H is to r ia e c c le s i a s t i c a ., lib. 6, cap. 41 (PG 20, 607). 48 Ibid., lib. 8, cap. 12 (PG 20, 772). Cfr. N ardi C., A p r o p o s it o d e g li a t ti d e l m a r tir io d ì B e r n ic e , P r o s d o c e e D o m n in a , “Civiltà classica e cristiana” 2 (1980) 243-257. 49 S. G iovanni C risostomo, H o m ilia in P e la g ia m (PG 50, 579-584); H o m ilìa 1 in B e r n ic e n (PG 50, 629-640); H o m ilia 2 in B e r n ic e n (PG 50, 641-644). Cfr. N ardi C., I l m a r ti­ r io v o lo n ta r io , 207-278. 50 S. G irolamo, C o m m e n ta r io r u m in Io n a m P r o p h e ta m lib e r , lib. 1, vers. 16 (PL 25, 1129): «Unde et in persecutionibus non licet propria perire manu absque eo ubi castitas perielitatur». Cfr. N ardi C., I l m a r tir io v o lo n ta r io , 261.

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lontà e quindi non c ’è perdita della virtù dove non c ’è adesione interio­ re al male. Perciò, senza mettere in discussione la grandezza del gesto, egli conclude che non si tratta di esempi da seguire, in quanto non ri­ spondono a un comportamento ragionevole: Non ci chiediamo se sia stato fatto, ma se si sarebbe dovuto fare. La ragio­ ne retta va infatti anteposta anche agli esempi [dei santi].51

Rispettoso dell’infallibile sensusfidei ecclesiale, Agostino non vuo­ le tuttavia gettare l ’ombra del dubbio su modelli di santità che la Chiesa venera e perciò ipotizza che l ’atto suicida, razionalmente ingiustificabi­ le e da non assumersi a norma generale dell’agire, sia stato fatto - come nel caso di Sansone - obbedendo a una chiamata singolare ed esplici­ ta di Dio: Non oso giudicare questi fatti temerariamente... E se infatti avessero fat­ to questo non ingannate dalla loro umanità, ma comandate dalla divinità, non sbagliando, ma obbedendo? Non diversamente da come è giusto che noi cre­ diamo di Sansone... Ma chiunque decida di immolare un figlio a Dio perché lo ha fatto lodevolmente Abramo, non per questo lo farebbe senza colpa.52

In tempi più vicini, il 15 dicembre 1941, cinque religiose di varie nazionalità, strappate dal loro convento a Sarajevo dai nazionalisti ser­ bi, detti Cetnici, furono trascinate per cinque giorni e cinque notti sulle montagne innevate della Bosnia. Quando compresero che i loro aguzzi­ ni stavano per violentarle, preferirono precipitarsi da una finestra della caserma dove erano recluse. I Cetnici, ubriachi e inferociti, scesero di corsa davanti alla caserma e finirono di ucciderle a coltellate, gettando­ ne poi i corpi nel fiume Drina.53 51 S. A gostino, D e C iv ita te D e i , lib. 1, cap. 22 (PL 41, 36): «Non modo quaerimus utrum sit factum, sed u tru m fuerit faciendum. Sana quippe ratio etiam exemplis anteponenda est». Il Lessius non giustifica l’atto suicida, ma lo attribuisce a ig n o r a n z a i n c o lp e v o le «in­ fatti - scrive - uccidersi... per custodire la castità non è tanto evidente che sia un male da non potersi ignorare senza colpa»: L essius L., D e iu s titia e t iu re, lib. 2, cap. 9, n. 23. Cfr. L ugo D., D e iu s titia e t iu re , disp. 10, n. 54. 52 I b id e m , cap. 26 (PL 41, 39): «De his nihil temere audeo judicare... Quid si enim hoc fecerunt, non humanitus deceptae, sed divinitus jussae, nec errantes, sed oboedientes? Sicut de Samsone aliud nobis fas non est credere... Sed non ideo sine scelere facit, quisquis Deo filium immolare decreverit, quia hoc Abraham etiam laudabiliter fecit». Non diversamente si esprime il Baronio dopo aver riferito, nell’anno 870, le orrende m u tila z io n i che si inflis­ sero santa Ebba e le sua monache per difendersi dai barbari aggressori i quali, vedendole prive del naso e del labbro superiore fino ai denti, disgustati dettero alle fiamme il mona­ stero: B aronio C .,A n n a l e s e c c le s i a s t i c i , ad an. 870, nn. 39-41. 53 B akovic A., L e m a r tir i d e ll a D r in a . C o n b r e v e in q u a d r a m e n to s to r ic o , Roma 1996.

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d. Suicidio politico o di testimonianza In una situazione di oppressione politica e militare, quando sembra preclusa ogni possibilità di azione liberatrice, sia violenta sia pacifica, il suicidio è vissuto talvolta come testimonianza di fronte al mondo e perciò come annuncio e provocazione. Tale fu il suicidio di Jan Palach per protestare contro la occupazione della Cecoslovacchia da parte del­ l’esercito sovietico o quello dei bonzi durante la guerra del Viet-Nam. Non è un suicidio negativo, compiuto per sfuggire a qualche cosa, per esempio a un regime tirannico o all’esilio o al disonore; è invece un suicidio positivo, riportabile almeno nell’intenzione del soggetto a un atto di carità verso il prossimo. Nelle ipotesi proposte è stato il suici­ dio di chi ha ritenuto inefficaci o impraticabili altre vie di opposizione al male e, dandosi la morte in pubblico e in modo clamoroso, ha voluto fare del proprio sacrificio un grido di denuncia e un estremo strumento di liberazione per gli altri. Nella stessa logica andrebbe giudicato anche lo sciopero della fame intrapreso con l’intenzione di arrivare, se neces­ sario, fino alla morte per inedia.54 Si tratta di forme suicidiarie usual­ mente condannate dalla morale cattolica, ma non si può escludere che in talune circostanze esse possano balenare nella coscienza dei prota­ gonisti come espressione disperata e doverosa di una lotta di liberazio­ ne ed essere, almeno soggettivamente, non imputabili. D ’altra parte, solo la fede nel Dio fatto carne che condivide la nostra povertà e che attraverso la croce redime la storia e dà senso al travaglio delle vicende umane conducendolo verso il suo traguardo di speranza, può farci comprendere che nelle mani di Dio la sofferenza, la preghiera, la lotta disarmata e silenziosa, possono diventare strumenti di liberazio­ ne più potenti di un suicidio clamoroso sotto gli occhi del mondo.

Conclusione Non esiste situazione ipotizzabile in cui sia ragionevole e quindi le­ gittimo il suicidio diretto, cioè voluto espressamente dal suicida come fine o come mezzo per conseguire un fine, sia pure un fine nobile. Nes­ suno tuttavia può presumere di condannare ogni singolo suicida, sia perché il suicida può agire in buona fede, concependo erroneamente il suo gesto come un atto ragionevole e giusto, sia perché in situazioni di 54 II tema dello sciopero della fame è ben lungi dall’esser stato risolto in campo morale e la sua stessa interpretazione come suicidio (diretto o indiretto che sia) non sembra a tut­ ti così scontata. Vedere: V idal M., Manuale di etica teologica, voi. 2/1, Assisi 1995,488501 (con ampia bibliografia).

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estrema angustia morale solo Dio può conoscere e comprendere il tra­ vaglio del cuore umano. Diverso è il caso della morte volontaria (tradizionalmente suicidio indiretto) che non è voluta né come fine in sé né come mezzo (cattivo) per raggiungere il fine (buono), ma che si configura come un atto ispi­ rato a carità eroica, tale da far pensare a una esplicita chiamata di Dio che risuona nella coscienza. In questi casi la decisione di esporsi alla morte e la morte stessa non sono il tragico effetto di disperazione e di sconfitta, situazioni che me­ ritano, comunque, comprensione e rispetto, ma sono espressione e sim­ bolo di una vita che si compie nel donarsi. La vita ricevuta in dono da Dio si estingue nel donarsi, non negando, ma realizzando il senso ulti­ mo e pieno dell’esistenza umana.

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CAPITOLO III LA LEGITTIMA DIFESA

Nei capitoli precedenti abbiamo insistito sulla responsabilità verso la vita, nostra e altrui, come espressione e conseguenza dell’intangibili­ tà della persona, creata ad immagine di Dio. Tale rispetto sacro verso la vita umana si traduce logicamente in una attitudine di rifiuto della vio­ lenza che è sopraffazione della vita e dell’integrità propria e altrui. Una lunga tradizione teologico-morale sostiene, tuttavia, la legittimi­ tà di difendersi da un’aggressione usando violenza, sino a giustificare, in casi estremi, l’uccisione dell’aggressore. Non possiamo negare che suona davvero stridente il contrasto fra l’annuncio del valore sacro e dell’intan­ gibilità della vita umana e l’affermazione del diritto di difesa violenta.1 Come abbiamo visto in precedenza, la definizione classica di omici­ dio, distinta dalla semplice occisio hominis, tiene conto della necessità di giustificare l ’uccisione dell’aggressore per difesa personale, l’ucci­ sione di un reo da parte della pubblica autorità e l’uccisione del nemico durante una guerra giusta. Nel cuore della categoria stessa di legittima difesa sta infatti la problematica distinzione fra la vita dell 'iniquo e la vita delVinnocente, godendo solo quest’ultima - secondo molti - del di­ ritto assoluto di intangibilità.

3.1 La difesa violenta tra umana prudenza e legge evangelica La dottrina tradizionale sulla legittima difesa, senza sconfessare aper­ tamente il messaggio evangelico, si colloca all’interno di un contesto di sapienza umana che è universalmente favorevole all’idea che possa darsi un uso legittimo della violenza per difendere se stessi o un bene prezioso minacciato. Si tratta di una esperienza morale comune, riconosciuta vali­ da da filosofi e giuristi di ogni scuola ed epoca, così come si può evincere dai costumi e dalle leggi di popoli anche molto diversi e lontani fra loro. 1 Per un approccio globale al tema, vedere: C hiavacci E., Morale della vita fisica, 159174; C iccone L., Legittima difesa, in russo G. cur., Bioetica Sociale, Leumann (To) 1999, 54-68; D ’A gostino F., Omicidio e legittima difesa, in C ompagnoni R, P iana G., P rivitera S. curr., Nuovo Dizionario di Teologia Morale, 823-830; P erico G., Il principio del­ la legittima difesa, “Aggiornamenti Sociali” 43 (1992) 333-343.

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Il Codice di Hammurabi prevedeva la legittima difesa preventiva ar­ mata anche contro il ladro, sino ad ammettere il diritto di ucciderlo, con una differenziazione il far noctumus e il far diumus, corrispondente alla norma di Es 2 2 ,1-2.2 Nella legislazione ateniese esisteva il diritto di amynesthai (= difendersi) inteso come un diritto di reagire contro la violenza entro limiti amplissimi, che sorpassano anche il nostro eccesso di difesa compresa l’uccisione del ladro colto sul fatto.3 Il diritto romano conosce­ va l’istituto della legittima difesa, ma l’alto senso di giustizia dei Romani portò a una precisa delimitazione del suo l’esercizio: secondo il diritto ro­ mano era permesso difendersi con l’uccisione dell’aggressore quando era in gioco la vita, l’integrità personale o il pudore, ma non era permesso se si trattava di beni strettamente materiali, a meno che per ragione del luogo e del tempo dell’aggressione non fosse in pericolo l’incolumità personale. La riflessione fìlosofico-giuridica tendeva a riportare questo dirit­ to alla stessa legge naturale, come spiega Cicerone, in un testo famoso della Pro Milone: Questa è una legge non scritta, ma innata, che non si apprende... ma che abbiamo preso, assunto, espresso dalla natura stessa, per la quale noi non sia­ mo istruiti, ma per la quale siamo stati fatti, che non ci è stata insegnata, ma che abbiano dentro: che cioè se la nostra vita si trovasse in qualche pericolo, in situazione di violenza, sotto i colpi di briganti o nemici, sarebbe lecito ogni mezzo {ratio) per conseguire la salvezza.4 «La ragione naturale - concludeva lapidariamente il giurista Gaio permette di difendere se stessi».5 L’uso della violenza, sia difensiva sia aggressiva, faceva parte anche del costume più antico di Israele, al pari dei costumi degli altri popo­ li, ma si può notare nella storia del popolo ebraico un progressivo af­ finamento del senso morale, che conduce a limitare notevolmente le circostanze che legittimano il ricorso alla violenza, così che l’esigen­ te messaggio neotestamentario intorno alla violenza e alla pace si po­ ne come ideale punto d ’arrivo di un processo sinuoso, ma chiaro. Non 2 II ladro deve essere ucciso davanti alla breccia da lui aperta nel muro. Vedere: C o d ic e d i H a m ­ 21, in P ritchard J.B. cur., A n c ie n t N e a r E a s te r n Text, Princeton 19552, 167. 3 C amassa G., A te n e . L a c o s tr u z io n e d e ll a d e m o c r a z ia , Milano 2007, 24-25. 4 C icerone, P r o M ilo n e , cap. 3: «Est haec non scripta, sed nata lex, quam non didicimus... verum ex natura ipsa arripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non doch sed facti, non instituti sed imbuti sumus: ut si vita nostra in aliquas insidias, si in vim, si in tela latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis». 5 G aio in D i g e s t a , lib. 9, tit. 2,1. 45: «Naturalis ratio permittit se defendere». m u r a b i , n.

C apitolo III - La legittima difesa

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ci sono testi neotestamentari che trattino direttamente il tema della le­ gittima difesa anche se, pur non contenendo norme precise, il Nuovo Testamento offre indicazioni e orientamenti utili per una comprensio­ ne cristiana della problematica e, soprattutto, offre una chiave di lettura generale per la questione dell’uso della violenza. In primo luogo la vita stessa di Gesù è rivelazione, cioè traduzione in gesti e comportamenti umani, dei costumi di Dio e imperativo etico vi­ vente per ogni cristiano. Gesù visse circondato dall’ostilità e dalla vio­ lenza, fin dalla nascita quando, perseguitato da Erode dovette fuggire in Egitto (Mt 2,13), durante la vita pubblica fu aggredito ingiustamente e di continuo nel suo onore e, addirittura, per tre volte si cercò di uccider­ lo, ma egli reagì sottraendosi alla minaccia di morte con la fuga (Le 4, 29-30; Gv 8, 59; Gv 10, 31-39). Nel Getsemani, infine, aggredito e cat­ turato rifiutò deliberatamente ogni tentativo di difesa - che certo sareb­ be stata legittima - (Mt 26, 51-54; Le 22, 49-51; Gv 18, 10-11) e, anzi, riattaccò al servo l’orecchio tagliato da Pietro con la spada. Questo rifiuto di difendere se stesso e i suoi diritti non è casuale: nel rifiuto di difendersi Gesù mostra l’adesione alla volontà del Padre (Mt 26, 54; Gv 18,11) e alla sua missione di dare la vita, giusto per gli in­ giusti; nel rifiuto di difendersi, Gesù testimonia la logica del Regno, una logica opposta a quella dei regni di questo mondo (Gv 18, 36). In realtà il rifiuto di difendersi dall’aggressione ingiusta, morendo come agnel­ lo innocente, è il punto d ’arrivo e quasi la sintesi di tutto l’annuncio di Gesù: egli non si difende con le armi, ma rende testimonianza alla veri­ tà. Si delinea così la logica paradossale che governa la lotta fra la veri­ tà e la violenza, quella logica salvifica della croce che Pietro non aveva capito quando dissuadeva Gesù dall’andare incontro alla morte provo­ cando la reazione sdegnata del Signore: «Vattene lontano da me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pen­ si secondo Dio, ma secondo gli uomini». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16, 23-24).

Queste parole gettano una luce nuova sul problema della violenza: l’amore sino alla fine, che è il cuore dell’opera e della missione di Ge­ sù, trova nella violenza il suo perfetto contrario. Fra Vangelo e violenza c ’è radicale incompatibilità e la rinuncia a difendersi da parte di Gesù è annunzio di questa alternativa. In tale prospettiva vanno letti tutti gli insegnamenti evangelici sul­ l’atteggiamento verso i nemici che raccomandano il perdono per le of­

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fese ricevute, anche se - di per sé - non proibiscono espressamente la legittima difesa (cfr. Mt 5, 38-48, Le 6, 27-36; Rm 12, 17-21). Nel Di­ scorso della montagna in Mt 5, 38-48, la nuova legge dell’amore viene contrapposta alla legge del taglione, «occhio per occhio, dente per den­ te». Questa non era affatto una legge crudele, ma rappresentò anzi un vero progresso nell’etica veterotestamentaria, stabilendo precisi limiti al diritto di vendicarsi: in base ad essa il diritto di vendetta privata - per lungo tempo l ’unica o la principale forma di giustizia penale - veniva giuridicamente limitato e regolamentato, in modo che non servisse co­ me sfogo dell’odio personale, ma fosse ordinato a quella finalità di tute­ la del convivere civile che è lo scopo principale del diritto stesso. La Legge Nuova non si oppone esplicitamente alla legittima difesa, ma esclude la vendetta in quanto espressione di uno stato di animo di rappresaglia e di ritorsione verso il nemico. È chiaro d’altra parte che il movimento delV ethos evangelico va molto al di là della proibizione della vendetta e propone un atteggiamento umanamente inspiegabile verso il nemico: il perdono. Vincere il male col bene è qualcosa di più che non vendicarsi: è fiducia nella forza dell’amore, è rifiuto della forza della violenza, è restituire al nemico la sua dignità di figlio di Dio rico­ noscendolo fratello. “Porgere l ’altra guancia” è un gesto simbolico che implica il rifiuto di ogni forma di violenza. Questo spirito nuovo anima i comportamenti e gli insegnamenti del­ la comunità apostolica. Esemplare è il testo di 1 Cor 6, 1-8 in cui Paolo rimprovera i fedeli di rivolgersi nelle loro liti ai tribunali pagani: Un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello e per di più davanti a in­ fedeli! E dire che è già per voi una sconfìtta avere liti vicendevoli! Perché non subire piuttosto l’ingiustizia? Perché non lasciarvi privare piuttosto di ciò che vi appartiene? Siete voi invece che commettete ingiustizia e rubate, e ciò ai fratelli! La prima sconfitta della vita cristiana è aver liti, ma ad essa se ne ag­ giunge una seconda, l’incapacità di portare il peso dell’ingiustizia sino al punto di lasciarsi privare del proprio. Così anche in 1Pt 18-25 subire afflizioni, soffrendo ingiustamente un danno senza reagire, non è dovere dei domestici nei confronti del pa­ drone, ma dovere più generale dei cristiani di fronte ai maltrattamenti, perché «ciò sarà gradito a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poi­ ché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguia­ te le orme» (1 Pt 2, 21).

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3.2 La dottrina tradizionale sulla legittima difesa I Padri della Chiesa più antichi, per restare fedeli allo spirito evan­ gelico e all’esempio del Signore, avevano sollevato obbiezioni contro ogni form a di difesa violenta, soprattutto se spinta sino alla soppressio­ ne dell’aggressore. Sant’Agostino, che pure ammette l ’uccisione di un nem ico in guerra da parte di un soldato e quella di un eretico o di un reo da parte dell’autorità civile, nega tuttavia al singolo il diritto a uccidere per difendere qualche bene personale, incluso il bene della vita. Nel De libero arbitrio egli scrive: Com e posso pensare che siano liberi dal desiderio disordinato ( libido ) co­ storo che difendono con le armi quei beni, com e la vita, la libertà, la pudici­ zia, che possono perdere anche senza volerlo o, se non lo possono, a che serve spingersi per questi stessi beni fino all’uccisione di un uomo?6

D al Y secolo la teologia cattolica ha progressivamente accolto la teo­ ria dell’uso difensivo della violenza. Questo slittamento dottrinale, pa­ rallelo a quello che si ebbe intorno alla pena di morte e alla dottrina della guerra giusta, avvenne per il tentativo di innestare la nuova reli­ gione sul tronco vetusto della tradizione culturale e giuridica greco-ro­ m ana e per la necessità pratica di elaborare una morale cristiana che passasse dall’enunciazione astratta di alcuni grandi principi ideali, alle concrete incarnazioni storiche dei valori ideali. Il Codex Juris Civilis di Giustiniano (530), in cui il diritto romano veniva assunto a norma per la res publica cristiana, recepì e codificò il principio della legittima di­ fesa come era stato formulato nella tradizione giuridica latina, identifi­ candolo senz’altro come un diritto naturale: È lecito respingere la violenza con la violenza e tale diritto proviene bai­ la natura.7

La Scolastica e lo Jus Canonicum dettero forma e autorità defini­ tiva alla dottrina tradizionale, stabilendone con precisione i limiti di 6 S. A gostino , De libero arbitrio, lib. 1, cap. 5, 11 (PL 32, 1227): «Quomodo possum ar­ bitrari calere istos libidine, qui pro iis rebus (se. vita, libertate, pudicitia) digladiantur quas possunt amittere inviti; aut si non possunt, quid opus est pro his usque ad hominis necem progredì?». 7 Digesta, lib. 43, tit. 16,1. 1 § 27: «Vim vi repellere licere Cassius scribit idque ius natura comparatur, apparet autem, inquit, ex eo arma arm is repellere licere» (cfr. D., 43, 16, 36, 9; 48, 8, 1 §4; 48, 8, 9).

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esercizio.8 Merita tuttavia osservare che nel diritto medioevale si trattò piuttosto di una non punibilità della difesa violenta in certe circostan­ ze, mentre la piena giustificazione giuridica e la sua assunzione a dirit­ to è intervenuta solo più tardi, col giusnaturalismo. Il concetto di non punibilità potrebbe far pensare che la forma che è venuta storicamen­ te ad assumere il principio della legittima difesa dipenda più da motiva­ zioni strettamente giuridiche, che da motivazioni genuinamente etiche: la legge umana, sia civile sia ecclesiastica, non è tenuta infatti a punire tutte le colpe morali e possono darsi situazioni di estrema gravità nelle quali la legge umana, senza giustificare moralmente un atto di violenza sia pure difensiva, decide di non perseguirlo.9 In effetti il Codice di di­ ritto canonico non afferma esplicitamente che esiste un diritto ad usare la violenza, ma che l’uso della violenza a certe condizioni non configu­ ra un delitto in senso giuridico: Non è passibile di alcuna pena chi, quando violò la legge o il precetto... agì per legittima difesa contro un ingiusto aggressore suo o di terzi, con la debi­ ta moderazione.10

In sostanza, il principio della legittima difesa, così come è stato te­ matizzato dalla tradizione teologica, afferma che è lecito respingere la violenza (fisica) con un’azione da cui possa seguire il ferimento o anche la morte dell’aggressore, a patto che si verifichino tre condizioni: 1. che si tratti di aggressione ingiusta in atto; 2. che si faccia solo il minimo indispensabile per respingere l’aggressione; 3. che il danno arrecato all’aggressore sia proporzionato al danno 8 Per lo sviluppo della dottrina è fondamentale un testo di Innocenzo III nei D e c r e t a l ìa G r e g o r ìì IX , 1. V, tit. 12 d e H o m ic id io , c. 18: «Quamvis vim vi repellere omnes leges et omnia iuta permittant, quia tamen id debet fieri cum moderamine inculpatae tutelae, non ad sumendam vindictam, sed ad iniuriam propulsandam» (si noti come l’avversativa t a ­ m e n serva a limitare gli ambiti di legittimità del ricorso alla violenza). Per il Magistero susseguente, basti ricordare: C a te c h is m u s R o m a n u s a d p a r o c h o s , p. Ili, cap. 6, n. 8; Pio Xll, M e s s a g g io N a ta liz io , 1958, AAS 41 (1949) 12; C a te c h is m u s C a th o lic a e E c c le s ia e , n. 2264. Si veda, inoltre: G arcia D e V icente J.C., H o m ic id io p o r n e c e s id a d . L a le g ù ìm a d e f e n s a en la t e o lo g ia ta r d o m e d ie v a ì, Roma 1999. 9 Cfr. C ongr . D ottr. F ede, D e a b o r tii p r o c u r a to , 18-11-74, n. 21: «La legge umana non è obbligata a punire tutto... la legge umana può rinunciare a punire». Il concetto di n o n p u n i ­ b ilità è giuridico, e non implica necessariamente un giudizio morale positivo sull’atto che la legge decide di non perseguire. 10 C o d e x lu r i s C a n o n ic i, can. 1323: «Nulli poenae est obnoxium qui, cum legem vel praeceptum violavit... legitimae tutelae causa contra iniustum sui vel alterius aggressorem egit, debitum servans moderamen». Cfr. C o d e x del 1917, can. 2205: «Causa legitimae tutelae contra iniustum aggressorem, si debitum tenetur moderamen, delictum omnino aufert».

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proprio che si mira ad evitare ovvero che il male arrecato sia proporzio­ nato al bene difeso. Queste condizioni richiedono un breve commento. a. Aggressione in atto. L’aggressione è un’azione oggettivamente mirante al danno di qualcuno: sia all’integrità fisica della persona, sia a ciò che può dirsi appartenenza della persona, come i beni materiali le­ gittimamente in suo possesso, sia un danno alla sfera della personalità, come nel caso della violazione di un sentimento quale il pudore. L’ag­ gressione deve essere in atto : se fosse già avvenuta non si tratterebbe più di difesa, ma di vendetta; se invece dovesse ancora avvenire, non re­ spingerebbe un’aggressione, ma un’intenzione, che potrebbe anche non tradursi in atto. Ovviamente è difficile stabilire confini rigorosi e deter­ minare quando, di fatto, una aggressione inizia o finisce, potendo essa articolarsi in atti aggressivi distinti e coordinati. b. Ingiusta. L’aggressione deve essere ingiusta e, in generale, ogni aggressione alla persona o ai suoi beni si presenta ingiusta.11 Un punto discusso è quello della oggettività delVingiustizia: un bam­ bino che punta una pistola carica contro qualcuno, senza rendersi conto di ciò che sta facendo, è considerato aggressore oggettivamente ingiu­ sto, mentre soggettivamente non lo è, non essendo soggetto moralmente responsabile dei suoi atti. Che sia sufficiente a legittimare la difesa vio­ lenta un’aggressione solo oggettivamente - e non anche soggettivamente - ingiusta, è tesi sostenuta dagli Autori ed è stata ripresa anche da Evangelium Vitae in una inserzione casuistica.112Viene inoltre di solito consi­ derata ingiusta aggressione anche un’azione posta da un agente compos sui che non sia in se stessa, nella sua struttura fattuale ingiusta, ma che lo sia accidentalmente nei confronti di un altro.13 «Insomma - come no­ 11 Una aggressione può essere giusta se proviene dalla pubblica autorità: arresto, compari­ zione obbligatoria e compulsoria, pignoramento, esproprio, nei limiti precisi di leggi non palesemente ingiuste. 12 G iovanni P aolo II, Lett. enc. E v a n g e liu m V ita e, n. 55: «Accade purtroppo che la ne­ cessità di porre l’aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua soppres­ sione. In tale ipotesi, l’esito mortale va attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la sua azione, a n c h e n e l c a s o in c u i e g li n o n f o s s e m o r a lm e n te r e s p o n s a b ile p e r m a n ­ c a n z a d e l l ’u s o d e ll a r a g io n e » (corsivo nostro). 13 Gli Autori ritengono lecito uccidere persino un bambino o uno zoppo che senza volere creino un ostacolo a chi sta fuggendo da un malfattore. Cfr. I orio J., T h e o lo g ia M o r a lis , voi. Il, Napoli 1960,109: «Ex jure defensionis, licet puerum vel claudum occidere, qui tibi a malefactore fugienti viam intercludant». L’ingiustizia oggettiva è dunque piuttosto una ingiustizia relativa, dal punto di vista del soggetto: infatti l’azione dello zoppo o del bam­ bino di stare in un certo luogo è per sé giusta o almeno indifferente e diviene ingiusta solo p e r p a r t i c o l a r i s itu a z io n i a c c id e n ta li d ì c o lu i c h e n e r ic e v e d a n n o . In questo senso allo­ ra anche il f e t o e c t o p i c o che mette in pericolo la salute della madre potrebbe essere equi­

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ta F. D ’Agostino - colpa e innocenza sono categorie che in questo conte­ sto vengono a perdere tutta la loro pregnanza etica e possono continuare ad essere predicate solo attraverso un riferimento formalistico alla stret­ ta legalità dei comportamenti concreti».14 c. Minimo di violenza. Con questa condizione si intende affermare che lecito ricorrere alla violenza solo se, per respingere l’aggressione, non si presenta alla convinzione soggettiva dell’aggredito altra via che la violenza fisica e non è possibile, per esempio, fuggire, o chiedere aiuto, o sparare in aria o ricorrere ad altri mezzi non violenti. Ricorrere a mezzi violenti quan­ do si può evitare un danno ricorrendo a mezzi non violenti è illecito. Abbiamo parlato di convinzione soggettiva: infatti l ’aggredito può sbagliarsi circa l ’effettiva forza o capacità o volontà di nuocere dell’ag­ gressore, e può anche essere facilmente indotto in inganno circa l ’ef­ fettiva gravità del pericolo dall’emozione o dalla paura. In genere in questi casi le decisioni devono essere rapide e sono quasi irriflesse, e di ciò si deve tener conto. Ma l’educazione morale e civica deve portare a un profondo e quasi istintivo rispetto per l’integrità fisica altrui, così da rendere sempre pensosi e cauti, anche in momenti drammatici, quando si tratti di deliberare sulla violazione di tale integrità. d. Proporzione. Si richiede che ci sia una proporzione ragionevole fra bene difeso e male arrecato. Dal punto di vista quantitativo, se un’aggressione mira a procurare soltanto un male transitorio, come può essere il male arrecato da un pu­ gno a mani nude, non è ragionevole bloccarla con un arma in grado di produrre gravi lesioni, anche se non vi è altro mezzo disponibile. Più delicata si presenta la questione della proporzione qualitativa. Gli Autori classici ammettevano concordi che si può ferire gravemente o uc­ cidere una persona per salvare «una parte importante dei propri beni».15

parato ad un ingiusto aggressore, come fece A. Sabetti alla fine dell’800: C urran C .E., T h e M a n u a l a n d C a s u i s t iy o f A lo y s iu s S a b e tti, in K eenan F.J., S hannon T.A. eds., T h e C o n te x t o f C a s u is tr y , Washington 1995, 161-187 (soprattutto 179-183). Vedere: F aggioni M.P., P r o b le m i m o r a li n e l tr a tta m e n to d e ll a p r e e c l a m p s i a e d e ll a c o r io a m n io n ite “Medi­ cina e Morale” 58 (2008), 483-526 (sull’aggressione, 501-510). 14 D ’agostino E, O m ic id io e le g ittim a d if e s a , 827. Cfr. L evine S., T h e M o r a l P e r m is s ib il­ ity o f K illin g a “M a t e r i a l A g g r e s s o r ” in S e lf - D e f e n s e , “Philosophical Studies” 45 (1984) 69-78; M cM ahan J., S e lf-D e fe n s e a n d th e P r o b le m o f th e I n n o c e n t A tta c k e r , “Ethics” 104 (1994) 252-290. 15 Secondo il D iz i o n a r i o d i T e o lo g ia M o r a le , curato da mons. Palazzini per le edizioni S t a ­ d iu m , l’uccisione può essere lecita per non lasciarsi ridurre in miseria assoluta o anche re­ lativa, che sarebbe una notevole e dolorosa diminuzione dello stato sociale (voi. 1, Roma 19684, 515). A nostro avviso l’opinione per quanto riguarda la miseria relativa suona se non e r r o n e a , almeno s c a n d a lo s a .

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Tale opinione suona stonata in una morale davvero cristiana, che si muo­ ve cioè nell’orizzonte di una gerarchia assiologica in cui il valore della vi­ ta umana, creata a immagine di Dio, non è in nessun modo paragonabile al valore strumentale dei beni terreni. Non essendo possibile confronta­ re, quasi fossero realtà omogenee e commisurabili, il valore di una vita e il valore economico di beni materiali minacciati, la nostra opinione è che non è mai giusto difendere i propri beni materiali a prezzo dell’integrità fisica o della vita dell’aggressore, salvo quando quei beni fossero condi­ zione immediata e imprescindibile per la sopravvivenza. Analogamente non è giustificata la difesa del proprio onore con il feri­ mento o l’uccisione di chi lo ha macchiato. Prima di tutto si tratta di soli­ to di una ritorsione per il danno subito e non di una difesa in senso stretto; in secondo luogo non sembra ragionevole tutelare la propria onorabilità con atti di violenza vendicativa, anche perché il valore di una vita supe­ ra certamente quello della propria buona fama. Un ferimento o addirit­ tura un’uccisione per difesa sproporzionata non sono forse equiparabili ad un omicidio e il diritto penale potrà anche tener conto dell’esisten­ za di un costume tradizionale favorevole al delitto d ’onore (es. per ven­ dicarsi di un adulterio), ma su questo punto l’annuncio morale cristiano non può conoscere tentennamenti. Già nel ’600 Alessandro VII (1665) e di Innocenzo IX (1679) avevano condannato alcune proposizioni lassiste che tendevano a legittimare l ’uso della violenza per tutelare beni di valore non paragonabile a quello della vita, dichiarandole “ut minimum scandalosae et in praxi pemiciosae”.16 In sintonia con queste prese di posizione, la sensibilità morale odierna, ancora più attenta al valore della vita umana e al suo primato rispetto al possedere, al dominare, all’apparire, è portata senza dubbio a respingere in modo netto ogni sproporzione qualitativa e quindi ogni confusione assiologica fra i beni difesi e il bene della vita. Questo complesso di condizioni configura nella tradizione il moderamen inculpatae tutelae, la moderazione o misura che legittima il ricorso alla difesa violenta. Tale moderamen ha però un significato mo­ rale più profondo che quello di essere un semplice elenco di condizioni oggettive: il complesso di condizioni oggettive altro non è che l’espres­ sione morale o giuridica, la traduzione in termini esteriori, di una si­ tuazione interiore di non odio e di rinuncia alla vendetta, ma anzi di ricerca di carità, in quanto l’agente deve sforzarsi di recare il minor male possibile a chi lo sta aggredendo.

16 Decr. 24-9-1665, nn. 17-19 (DS 2037-9); Decr. 2-3-1679, nn. 30-33 (DS 2130-3). Anche su questo aspetto del lassismo vedere la corrosiva critica di Pascal: P ascal B., Les Provin-

cìales, lettere Xlll e XIV.

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3.3 La giustificazione della legittima difesa Dopo aver illustrato la nozione di legittima difesa come è compre­ sa nella dottrina cattolica, resta da vedere come essa venga argomentata o, meglio, giustificata di fronte alle responsabilità del cristiano nei con­ fronti della vita. È vero, infatti che nel Nuovo Testamento non si rintrac­ cia un divieto esplicito della legittima difesa, ma la logica dell’amore e del perdono sembrano condurre all’abbandono della difesa ed in parti­ colare della difesa violenta; è stata perciò costante preoccupazione dei teologi l’elaborazione di argomenti razionali capaci di giustificare l’uso della violenza contro il prossimo, sia pure a scopo difensivo. Anche al di fuori dell’ambito strettamente teologico, filosofi e giuristi si sono sforzati di giustificare questo ricorso alla violenza che, seppur legitti­ mato dalla consuetudine e da tutte le legislazioni, rappresenta un pun­ to di debolezza nell’argine che il pensiero razionale e il diritto elevano contro le forze cieche e brutali che minacciano il convivere umano. Una prima linea di pensiero fa leva sulla nozione di aggressore in­ giusto e ricorre a due principali argomenti, fra loro non incompatibili. Il primo afferma che il diritto alla vita e all’integrità fisica dell’aggredi­ to prevalgono sull’analogo diritto dell’aggressore: con l’ingiustizia del­ l’aggressione, infatti, l ’aggressore si pone fuori della salvaguardia del diritto, sia positivo sia naturale, e perciò il diritto alla tutela della vi­ ta dell’aggredito può essere conseguito usando ogni mezzo disponibi­ le nei confronti dell’aggressore ingiusto. Il secondo argomento dice che l’esercizio del diritto/dovere di difesa è di norma riservata alla pubblica autorità, ma quando il ricorso ad essa è impossibile ed altri mezzi non sono disponibili, allora il singolo riprende per modum actus la libertà di difesa trasferita allo stato in forza del patto sociale: egli agisce così co­ me tutore del bene comune perché in tali casi non è solo in gioco il be­ ne dell’aggredito, ma anche il bene della società, che richiede sempre la tutela della giustizia. Intorno a questi due argomenti si orientano molteplici tentativi di giustificazione, a cominciare da Hegel che vede nell’uccisione per legit­ tima difesa la negazione della negazione di un diritto, fino all’Alimena che vi vede l’ostacolo alla consumazione dell’ingiustizia. Si tratta di ar­ gomenti in sé plausibili, rispondenti all’esperienza morale comune che rifiuterà sempre di mettere sullo stesso piano i diritti del giusto e quel­ li dell’ingiusto, ma che non sono privi di aspetti problematici. La prin­ cipale difficoltà è che i due argomenti addotti fanno sempre riferimento alla perdita, da parte dell’ingiusto aggressore, del diritto alla tutela e ciò dovrebbe presupporre che l’ingiustizia sia colpevole, soggettivamente

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colpevole e imputabile, perché nessuno può porsi fuori dell’ordine giu­ ridico senza un atto di libera scelta. Di fronte all’aggressore solo mate­ rialmente ingiusto, ma di per sé innocente, cade ogni interesse sociale alla repressione dell’ingiustizia ed ogni giustificazione etica al diritto di usare la violenza contro di lui. In base a questi argomenti, il diritto di legittima difesa si può esercitare solo contro un aggressore non solo og­ gettivamente, ma anche soggettivamente ingiusto, per cui dovrebbe es­ sere considerata illecita l’uccisione del fanciullo o dell’amente che mi puntano contro una pistola carica, o del fanciullo o dello zoppo che mi intralciano la fuga da un malfattore. E poi, più in generale, chi può es­ sere giudice dell’animo altrui, anche nel momento in cui l ’altro mi ag­ gredisce? La necessità logica che l’ingiustizia sia soggettiva, cioè che l’animo dell’aggressore sia malvagio, richiede per la legittima difesa un giudizio che nessuna creatura umana è in grado di dare. Una linea di pensiero diversa - richiamandosi, forse con qualche sem­ plificazione, a san Tommaso - evita di ammettere una qualche disponi­ bilità della vita dell’ingiusto aggressore e si sforza di applicare a questo caso il principio dell’atto a duplice effetto sottolineando che la difesa vio­ lenta non è direttamente intesa dall’aggredito. «Nulla vieta - scrive l’An­ gelico - che ci siano due effetti di un unico atto, dei quali uno soltanto è nell’intenzione (dell’agente), mentre l’altro non è nell’intenzione... Dal­ l’atto di uno che si difende può seguire un duplice effetto: uno è la conser­ vazione della propria vita, l’altro l’uccisione dell’aggressore».17 L’argomento tomasiano ha dato motivo di infinite precisazioni ed ha avuto diverse interpretazioni, ma Autori antichi, come il Cardinal de Lugo,18 e molto più Autori moderni non hanno condiviso questa imposta­ zione. Essi rifiutano l’applicazione del principio del duplice effetto alla legittima difesa dal momento che - a loro avviso - il ferimento o l’uc­ cisione dell’aggressore sono il mezzo concreto, cercato e inteso diret­ tamente, sia pure solo come mezzo mediante il quale ottenere il fine buono della propria o altrui difesa. La conservazione della propria vita viene ottenuta mediante il ferimento e non come effetto collaterale del colpo vibrato. Al massimo il ragionamento potrebbe valere per una uc­ cisione che conseguisse - non prevista - ad un ferimento necessario per

17 S. T ommaso D ’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 64, a. 7, resp: «Nihil prohibet unius actus esse duos effectus, quorum alter sit in intentione, alius vero sit praeter intentionem... Ex actu igitur alicuius seipsum defendentis duplex effectus sequi potest: unus quidem conservatio propriae vitae; alius autem occisio invadentis». Un’esposizione dell’argomento in: V ermeersch A., T h e o lo g ia M o r a lis , Roma 1945, tom. 2, n. 440. 18 L ugo G., D e j u s t i t i a e t iu re , d. 10, nn. 148 ss.

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impedire l’atto aggressivo, come spiega Cathrein.19 Come si evince da una lettura attenta delVarticulus e dall’insieme della quaestio, Tommaso cerca una sintesi fra l’indubitabile esperienza morale umana, che percepisce la difesa dall’aggressione come una pri­ mordiale forma di giustizia, e V ethos cristiano che insegna il valore della sopportazione delle offese e delle ingiustizie e orienta il cuore dell’uomo all’amore dei nemici. Tommaso analizza acutamente Vanimus di colui che si difende: Yintentio che genera l’atto di difesa viene semplicemente ed esclusivamente dall’istinto di conservazione e non da odio verso l’ag­ gressore: sarebbe infatti «illecito che un uomo volesse (intendat) l’ucci­ sione di un altro uomo per difendersi».20 La condizione che si tratti di una aggressione in atto e non prevista sarebbe da riportarsi proprio a questa necessaria distinzione dell’intenzione e degli effetti: l’istinto di conser­ vazione, per cui “ciascuno provvede alla propria esistenza”, scatta prima dell’odio o del livore, prima cioè che ci sia il tempo psicologico per con­ cepire odio verso l’autore dell’aggressione. Se invece uno si difendesse da ingiusta aggressione, ma alimentasse nel cuore odio verso l’aggresso­ re, questa difesa diventerebbe illecita, perché si colorerebbe di sentimenti di odio e un cristiano non può mai alimentare odio nel suo cuore.21

3.4 Un’etica in cammino Nella prospettiva evangelica, la rinuncia alla difesa violenta rappre­ senta senza dubbio una scelta preferibile. «Non sembra bene - insegna Ambrogio - che un uomo cristiano, giusto e saggio debba cercare di conservarsi la vita attraverso la morte di un altro»22. D ’altra parte è al­ trettanto certo che Vattuale esperienza morale dell’umanità e la dottrina trasmessa dalla Tradizione e del Magistero sono concordi nell’ammet­ tere, a certe condizioni, l’uso della violenza a scopo difensivo. Tomma­ so, conscio di questa tensione etica, nel definire i termini cristianamente 19 Secondo la sua spiegazione - un po’ sforzata, a dire il vero - l’uccisione non è mai ne­ cessaria per difendersi, ma solo il ferimento che impedisce il gesto aggressivo; da questo ferimento, secondo il principio del duplice effetto, può seguire la morte come effetto non direttamente inteso: «Possum ergo... intendere laesionem quae est mortifera, sed non qua­ terna est mortifera». C athrein V., P h ilo s o p h ia m o r a lis a d u su m s c h o la r u m , 19552, 262. 20 S an T ommaso D’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 64, a 7, resp.: «Illicitum est quod homo intendat occidere hominem ut seipsum defendat» 21 Ibidem, a d q u in tu m : «Ibi [scil. Rom 12, 19] prohibetur defensio quae est cum livore vindictae». 22 S. Ambrogio, D e o ffic iìs, lib. 3, cap. 4, 27 (PL 16, 153): «Non videtur quod vir christianus et iustus et sapiens quaerere sibi vitam a lie n a m o r te debeat».

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accettabili della legittima difesa, usa espressioni molto caute: Non è necessario per la salvezza che una persona rinunci a un atto di difesa proporzionata (m oderatele tutelae ) per evitare l ’uccisione di un altro.23

La legittima difesa e le sue regole tradizionali rappresenterebbero quindi una sorta di minimo etico (“non est necessarium ad salutem”), anche se un 'etica dei massimi, come l ’etica cristiana, non può non pro­ porre come ideale normativo la rinuncia alla autodifesa. Guido Gatti parla, a questo proposito, di un realistico compromesso etico che deriva dallo scarto fra la profezia cristiana e le sue attuazioni storiche. «Questo compromesso - egli scrive - può ancora essere chia­ mato etico non perché esaurisca le esigenze della morale evangelica, ma nel senso che, fissando le condizioni minimali per l ’esercizio della difesa violenta, stabilisce la soglia al di sotto della quale si trova il di­ sordine morale assolutamente incompatibile con le esigenze del Regno. Esso prende atto della situazione di violenza e quindi di oggettiva lon­ tananza dal modello evangelico di convivenza in cui si trova il mondo in questa fase interlocutoria della storia della salvezza, ma solo per de­ nunciarla e sollecitarne un superamento, di cui peraltro preventiva gra­ dualità e lentezze».24 Per concludere - seguendo E. Chiavacci25- vorremmo sintetizzare la dottrina tradizionale della legittima difesa con alcune precisazioni: a. L’annuncio morale cristiano deve esser presentato nella sua inte­ rezza ed esigenza come appello a preferire lasciarsi uccidere prima che uccidere; b. Non si può imporre in assoluto, come dovere stretto di coscienza, tale condotta; c. Sarebbe preferibile restringere l’ingiustizia dell’aggressore all’mgiustizia soggettiva, e proclamare illecita l’uccisione dell’amente, dello zoppo, del fanciullo, del feto che mette in pericolo la vita della madre; d. Si deve intendere il concetto di proporzionalità in modo rigoroso, escludendo la liceità della soppressione della vita umana per difendere la fama o l ’onore personali o afortiori beni materiali, salvo che i beni materiali siano immediatamente necessari alla sopravvivenza. Non possiamo neanche dimenticare che si danno situazioni nelle quali il diritto di difendersi viene certamente meno, quando l’aggredito 23 S. Tommaso D ’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-ITe, q. 64, a. 7, resp: «Non est neces­ sarium ad salutem ut homo actum moderatae tutelae praetermittat ad evitandum occisionem alterius». 24 G atti G., M o r a le s o c i a le e d e lla v ita f is i c a , Leumann (To) 1990, 194. 25 C hiavacci E., M o r a le d e ll a v ita f i s i c a , 171.

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sia aggredito precisamente per il suo esser cristiano. Il dovere di rende­ re testimonianza a Dio può comportare la rinuncia alla difesa, secon­ do la logica del martirio, quando la chiamata a testimoniare prevale su ogni diritto, anche su quello alla vita fisica: la testimonianzadella non resistenza al male diventa così testimonianza della vittoria della verità c della carità sulla menzogna e sulla violenza. Diverso è invece il discorso quando si parla della difesa altrui: l.i fe­ deltà al messaggio evangelico e la sequela di Cristo mi propongono co­ me ideale piuttosto il subire violenza che farla e il lasciarmi uccidere piuttosto che uccidere, ma io non posso imporre una scelta così totalita­ ria a un altro che è affidato alla mia protezione, sia stabilmente sia occa­ sionalmente. In questi casi la legittima difesa si configura infatti come «un dovere grave... per chi sia responsabile della vita di altri».2'’ La mo­ rale recente ha spesso cercato di rileggere alla luce di questo principio - non senza discussioni - il diritto dei responsabili di una collettività statale di provvedere con mezzi opportuni e, come extrema ratio, an­ che violenti alla tutela della vita e del benessere dei cittadini, come pure l’antica dottrina della guerra giusta, sostenendo la sostanziale compati­ bilità della guerra difensiva con l’aspirazione alla pace.2627 Parimenti di­ scussa - come vedremo nel prossimo capitolo - è l’applicazione del principio di legittima difesa e in particolare della difesa doverosa al ca­ so della pena di morte.

26 C a te c h ìs m u s C a th o lic a e E c c le s ia e , n. 2265. Cfr. G iovanni P aolo II, Lett. enc. Evan-, g e liu m V ita e , n. 55. 27 Cfr. G a u d iu m e t S p e s : “Ius legitimae defensionis guberniis denegali non poterit” (GS n.. 79). Sulla dottrina della g u e r r a g iu s ta in rapporto al principio di legittima difesa, vedere: C hiavacci E., T e o lo g ia m o r a le , voi. 3/2, Assisi 1990, 69-85.

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CAPITOLO IV LA PENA DI MORTE

Per secoli si è am m esso che l ’autorità civile potesse punire il reo con la m orte e anche se dall’Illum inism o in poi le spinte abolizioniste si so­ no fatte sem pre più strada nel sentire comune, portando in molti paesi del m ondo all’abbandono di questa barbara pena, resta largamente dif­ fusa - persino tra cristiani - la convinzione che, almeno in linea di prin­ cipio, sia legittim o e m oralm ente giustificato, per chi è responsabile del bene com une ricorrervi in circostanze di particolare gravità. L a pena di m orte rappresenta una sfida al diritto alla vita proprio di ogni essere um ano e getta u n ’om bra di sinistra ambiguità sul livello eti­ co delle società e delle culture che la praticano e la giustificano. Benché questo tem a non sia usualm ente compreso nelle trattazioni di bioetica, credo che non si possa condurre un discorso serio e coerente sulla di­ gnità e il valore della vita um ana senza confrontarsi con questa spinosa questione: qui non si tratta tanto di vedere se possono darsi o non ecce­ zioni alla regola del non uccidere, m a di mettere in discussione tutta una visione d e ll’uom o, della sua dignità del valore della sua vita. In questo capitolo, perciò, dopo aver esaminato gli elementi dottri­ nali tradizionali sulla pena di m orte dal punto di vista sia teologico sia giuridico, vedrem o i term ini del dibattito attuale e le nuove prospettive che si stanno aprendo nel sentire ecclesiale.1

1 Fra le numerose monografie e saggi sul tema, segnaliamo: A ubert J. M., Chrétiens et peine de mort, Paris 1978; B làzquez N., Pena de muerte, Madrid 1994; B ondolfi A. cur.. Pena e pena di m orte, Bologna 1985 (raccolta di testi). Vedere, inoltre: B ondolfi A., voce Pena dì morte, in C ompagnoni F., P iana G., P rivitera S. curr., Nuovo Diziona­ rio di Teologia M orale, 914-922; C ompagnoni F., La pena di morte nella tradizione della chiesa cattolica romana, “Concilium” 10 (1978) 65-84; C oncetti G., La pena di morte, Casale Monferrato (Al) 1993; D anese A., Non uccidere Caino. Scenari e problemi del­ la pena di morte, Milano 2002; D i I anni M., La pena di morte, in Russo G. cur., Bioeti­ ca Socicde, 86-121; R otter H., voce Todestraffe, in Katholisches Soziallexikon, Innsbruck 1980, 3056-3060.

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4.1 La pena di morte nella Scrittura L’esistenza di sanzioni sociali che prevedono la morte è documenta­ ta in moltissime popolazioni e civiltà, anche se un esame più approfon­ dito rivela una grande diversità nei modi di esercitarla, di giustificarla, di inserirla organicamente in un più articolato sistema giuridico e reli­ gioso.2 Una prima forma, pre-giuridica, è rappresentata dalla vendetta (vindicatio), esercitata normalmente dai membri di un clan nei confron­ ti dei membri un altro clan, resisi colpevoli di una trasgressione grave delle norme riconosciute.3La vindicatio ha lo scopo di ristabilire l’ordi­ ne cosmico e sociale infranto dalla trasgressione ed è spesso concepita come un dovere sacro, come un prezzo sacrificale che placa lo sdegno degli dei o che dà soddisfazione al sangue versato da una vittima del­ la violenza altrui. Il successivo processo di giuridizzazione, che si può osservare in po­ polazioni e culture assai lontane fra loro, porta a un attenuarsi del carat­ tere sacrale e automatico della vendetta del sangue e alla introduzione di istanze giudicanti sempre più indipendenti e super partes, rinviando il giudizio e l ’esecuzione della pena dal clan ad organismi proto-statali e infine statali. Nel corso di questo processo di giuridizzazione si nota inoltre il passaggio da una concezione corporativa della colpa, per cui risultavano colpevoli e quindi passibili della pena capitale tutti i mem­ bri di un clan, tanto i direttamente colpevoli quanto quelli soggettiva­ mente innocenti, ad una concezione più raffinata della responsabilità etica e giuridica individuale, sia per quanto riguarda l’azione crimino­ sa, sia per quanto riguarda il giudizio pronunciato su di essa. Questo iter fu percorso anche dal popolo ebraico nel passaggio dal­ la vita nomadica a quella sedentaria e infine cittadina e con rafferm arsi della struttura monarchica rispetto alla precedente struttura tribale, non senza un positivo influsso della fede del popolo di Israele ed in parti­ colare della morale dell’Alleanza.4 Nel periodo arcaico, nell’ambito di 2 Per il mondo classico, si veda uno studio molto ben informato:

C antarella

E., I

s u p p li ­

z i c a p it a l i in G r e c ia e a R o m a . O r ig in i e f u n z io n i d e lle p e n e d i m o r te n e l l ’a n tic h ità c l a s ­

Milano 19962. 3 Più rara è la sanzione capitale all’interno del gruppo familiare, qual era il p o t e r e d i v ita e d i m o r te del p a t e r f a m i l i a s sui figli minorenni, testimoniato nella fase arcaica del dirit­ to romano. Cfr. P apinianus, C o lla tio 4, 8: “Cum patri lex regia dederit in filium vitae necisque potestatem...”. 4 Una documentata trattazione sul diritto penale nella Bibbia in: B ovati R, R is ta b ilir e la g iu s tiz ia . P r o c e d u r e , v o c a b o la r io , o r ie n ta m e n ti, Roma 19972. Sulla funzione pacificatri­ ce svolta dalla teologia dell’alleanza, vedere: R émy R, P e in e d e m o r t e t v e n g e a n c e d a n s la B ib le , “Science ecclésiastiques” 19 (1967) 323-350. s ic a ,

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una società nomade, i membri di ciascun clan dovevano proteggersi e difendersi reciprocamente dai delitti compiuti contro di loro da mem­ bri di altri clan. Il diritto consuetudinario più antico, nel caso di delitti più gravi, come l ’omicidio, onde evitare eccessi vendicativi che avreb­ bero minato la coesione fra le tribù, prevedeva che un membro del clan danneggiato, il g o ’el haddam o vendicatore del sangue, esercitasse la vendetta e ristabilisse l’ordine leso e la signoria di Dio sul sangue ucci­ dendo l’assassino (Num 35, 21; cfr. Gn 9, 6). Dopo la sedentarizzazione si assistette ad una progressiva limitazio­ ne e giuridizzazione della vendetta privata attraverso una precisa rego­ lazione del diritto del g o ’el haddam (Dt 19,4-6), attraverso l’istituzione delle città-rifugio, dove l’omicida involontario poteva cercare scampo ed avere un processo (Num 35, 24. 30; Dt 19, 1-3. 7-12), attraverso la chiarificazione della categoria di responsabilità-retribuzione persona­ le (Ger 31, 30; Ez 18, 26) che portava all’abbandono definitivo del­ la nozione di responsabilità-retribuzione collettiva (Gn 19, 20ss; Dt 5, 9-10; Num 16, 20-22; Gdc 3, 7-8), attraverso attraverso l’introduzione della lex talionis (Es 21, 23-25; Lv 24, 17-20; Dt. 19, 21). La legge del taglione - spiega la Pontificia Commissione Biblica - «viene non rara­ mente compresa come l’espressione di una vendetta e rivincita violen­ ta mentre, in verità, all’origine costituiva la limitazione di violenza e controviolenza; essa manifestava la tendenza a superare l ’istintiva e in­ controllata ricerca di vendetta e di rivincita».5 La legislazione vetero­ testamentaria si presenta così, nella sua essenza, come un tentativo di superare la vendetta impersonale e incontrollata e come un argine alle forze aggressive eterodistruttive, icasticamente raffigurate nella selvag­ gia figura di Lamech, vero psicotico della violenza: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette.67

Contro la sproporzione fra delitto e pena evocata nel canto belluino di Lamech, la legge del taglione prevede, invece, una corrispondenza precisa fra delitto e pena, una simmetria fra danno subito e danno resti­ tuito, come ricorda l ’etimologia latina della parola talio,1 o regola di pa5 P ont . C ommissione B iblica , B i b b ia e M o r a le . R a d i c i b ib lic h e d e l l ’a g ir e c r i s t ia n o , Cit­

tà del Vaticano 2008, n. 122, 169. 6 Gn 4, 23-24. Cfr. V on R ad G., G e n e s i, Brescia 1978, 140-141. 7 Nella L e g g e d e lle X I I T a vo le, risalente al IV secolo a. C., il taglione era previsto in caso di

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rità per cui “tale la colpa, tale la pena”: Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido.8 La logica retributiva insita nella lex talionis non comportava una ugua­ glianza fra il danno provocato e la pena comminata, ma manteneva una relazione di proporzione, come dimostra la possibilità di pagare un’am­ menda per aver provocato accidentalmente un aborto o la perdita del dirit­ to di proprietà su uno schiavo come pena per il padrone che gli ha causato la cecità (Es 21, 25-27). In questa prospettiva retributiva si comprendeva anche la pena capitale nelle sue diverse forme (lapidazione, impiccagio­ ne, rogo ecc.), prevista dalla Legge in risposta a delitti di eccezionale gra­ vità, che potevano rendere impuri il popolo e la terra agli occhi di Dio: i delitti contro la vita, come l’omicidio premeditato e il rapimento per ri­ durre in schiavitù (Es 21, 16; Dt 24, 7); i delitti contro la religione come l’idolatria (Lev 20,1-4; Dt 17,2-5) e la magia (Lev 20, 6-7); i delitti con­ tro le regole sessuali, come l’incesto, la sodomia, la bestialità (Lev 18, 616. 22-29); i delitti contro la struttura familiare come l’adulterio (Dt 22, 22-24) e la ribellione ai genitori (Dt 21, 18-21).9 «È ovvio - scrive P. Dovati - che i beni supremi sono protetti da un’elevata sanzione, anzi da una sanzione estrema. Sappiamo che per la tradizione biblica la vita umana è considerata fra i primi valori; ne viene di conseguenza che essa è tutelata dalla minaccia estrema, che è quella di rispondere alla violenza mortale con una pena corrispondente (e tal­ volta maggiorata dalle pene infamanti accessorie). Ecco allora appari­ re il limite e l’assurdo dell’intero sistema: per significare l’importanza assoluta della vita, per affermare la sua insostituibilità si deve ricorrere alla soppressione della vita».10 mancata riconciliazione fra danneggiato e dannificatore: «Si membrana rapsit, ni cum eo pa­ ck, talio esto». Cfr. F estus, vox T a lio n is ; G ellius A., N o c te s A ttie n e , lib. 20, cap. 1,14. 8 Es 21, 23-25. Su questa tema vedere: I sser S., Two T ra d itio n s . T h e L a w o f E x o d u s 2 1 : 2 2 - 2 3 R e v is ite d , “The Catholic Biblical Quarterly” 52 (1990) 30-45; W estbrook R., S tu d ­ ie s in B i b li c a l a n d C u n e ifo r m L a w , Paris 1988, 39-88; W est S., T h e L e x T a lio n is in th e To­ ra h , “Jewish Bible Quarterly” 21 (1993) 183-188. 9 Fermo restando il diritto tradizionale, in fase post-esilica si manifestò una crescente reti­ cenza ad applicare la pena capitale che, in ogni caso, non potè più essere applicata da quan­ do, nel 30 d. C., i conquistatori Romani tolsero al sinedrio il diritto di esercitare lo j u s g la d ii, come viene ricordato in Gv 18, 31. 10 B ovati R, P e n a e p e r d o n o n e lle p r o c e d u r e g iu r id ic h e d e l l ’A n tic o T e s ta m e n to , in A cer­ bi A., E usebi L. edd., C o lp a e p e n a ? L a te o l o g i a d ì f r o n te a lla q u e s tio n e c r im in a le , Mi­ lano 1998, 46-47.

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Nel Nuovo Testamento non abbiamo alcuna ammissione diretta del­ la pena di morte, tranne forse il difficile testo di Rom 13, 4, secondo cui F autorità civile «non invano porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male», ma nel quale - a ben vede­ re - non si ha un diretto riferimento alla pena di morte, ma solo al potere coattivo in generale.11 Viene comunemente sostenuto che nel Nuovo Te­ stamento non ci sia neppure alcun rifiuto specifico della pena di morte, il che non sembra tuttavia corrispondere alle evidenze testuali e ancor più allo spirito della lex nova. Nel discorso della montagna, infatti, Gesù di­ chiara superata dalla giustizia superiore del Regno l’antica legge del ta­ glione: Avete inteso che fu detto: «Occhio per occhio e dente per dente»; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra.112 Il Signore oppone senza compromessi alla vecchia logica retributiva una logica nuova, quella del perdono e della promozione della persona e, insegnandoci a leggere la storia nella prospettiva escatologica del Re­ gno e della rivelazione finale della giustizia divina, scardina dalle radici le pretese umane di stabilire nel tempo una giustizia perfetta e la legit­ timità della pena di morte come espressione e conseguenza di un giudi­ zio definitivo su un’esistenza.13 Coerentemente con l ’insegnamento del discorso della montagna, che costituisce come la magna charta del Regno, il Signore si rifiuta infine di avallare la condanna della donna adultera, per cui la legge stabiliva la morte per lapidazione, e inaugura un modo nuovo di rapportarsi con gli erranti, attraverso il perdono, la fiducia, il rispetto (cfr. Gv 8, 1-11).

11 Per una analisi del testo di Rom 13,1-7: S acchi A., Colpa e pena in Rm 13,1-7 nel con­ testo del messaggio evangelico, in A cerbi A., E usebi L., Colpa e pena?, 57-95. 12 Mt 5, 38-39 (cfr. Le 6, 29). Cfr. B lank J., “Weißt du, was Versöhnung heißs?", in B lank J., W eebick J. edd., Sühne und Versöhnung, Düsseldorf 1986, 21-91; R ahner K., Colpa - responsabilità-punizione nel pensiero della teologia cattolica, in Id., Nuovi sag­ gi, 1, Roma 1968,329-361. 13 Sull’estraneità della logica retributiva dalla fede cristiana è fondamentale il contributo di: W iesnet E., Die verratene Versöhnung, Düsseldorf 1980 (trad. it. Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, Milano 1987).

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4.2 La pena di morte nella Tradizione Fedeli a una lettura radicale del messaggio evangelico, i Padri preniceni sono per lo più avversi alla pena di morte, così come alla guerra, al servi­ zio militare e a tutte quelle manifestazioni di violenza, inclusi gli spettaco­ li circensi, che costituivano un tratto tipico del mondo romano. Valga per tutti questa affermazione tratta dalle Divine Istituzioni di Lattanzio: Non è permesso al giusto condannare nessuno alla pena capitale, perché un omicidio privato commesso con la perfidia di un pugnale è uguale a un omici­ dio pubblico perpetrato con Vaccusa giudiziale. Uccidere un uomo è sempre qualcosa di illecito. Il precetto divino di non ammazzare è assoluto e non am­ mette eccezione alcuna.14 Con l’avvento dell’Impero cristiano muta l’atteggiamento dei teo­ logi e dei pastori verso il potere politico e verso la legittimità dell’uso della violenza da parte di questo. Sant’Agostino, pur continuando ad essere contrario all’idea che sia lecito uccidere un uomo per salvare la propria vita, ritiene invece accettabile l’uccisione da parte del soldato o da parte dei governanti per tutelare il bene comune, soprattutto quando si trattasse di aiutare la Chiesa nella lotta contro gli eretici.15 Nella Epi­ stola ad Publicolam il Santo Dottore scrive: Non mi piace il parere sul fatto di uccidere degli uomini perché uno non sia ucciso da loro, se non talora un soldato o chi vi sia obbligato per dovere pubblico.16 Nel Medio Evo, non senza titubanze, si affermò la persuasione del­ la legittimità della pena di morte applicata dal potere civile e l’opinione contraria, che si richiamava al radicalismo delle origini, era considerata eterodossa. Nella Formula per la conversione del 1210, i Valdesi dovet­ tero accettare anche la legittimità della pena di morte: Intorno al potere secolare dichiariamo che può esercitare senza peccato mortale il giudizio del sangue, purché proceda a questa vendetta non con odio, ma con ragionevolezza, non incautamente, ma con ponderazione.17 14 L attanzio, D i v i n a r m i I n s titu tio n u m L ib r i, lib. 6, 20 (PL 6, 707-708).

15 Si veda: B làzquez N., L a p e n a d e m u e r te se g u ii S a n A g u s tm , Madrid 1977. 16 S. A gostino, E p is to la A l , 5 (PL 33, 186): «De occidendis hominibus ne ab eis quisque occidatur, non mihi placet consilium, nisi forte sit miles aut publica functione teneatur». 17 Cfr. DS 795: «De potestate saeculari asserimus, quod sine peccato mortali potest j u d i -

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San Tommaso giustifica l’uccisione di un reo ponendo una analogia fra l ’amputazione di un arto malato per curare il corpo fisico e la sop­ pressione del reo, membro malato della società, per tutelare il benesse­ re del corpo sociale: Ogni parte è ordinata al tutto com e l ’imperfetto è subordinato al perfetto e perciò ogni parte è naturalmente in funzione (p rop ter ) del tutto. Per cui ve­ diamo che, se per la salute di tutto il corpo umano è utile l ’amputazione di un membro, perché gangrenoso e dannoso per le altre membra, questo viene am­ putato lodevolmente e salutarmente. Ma ogni singola persona si rapporta alPinsieme della società come una parte al tutto e quindi, se un uomo è pericoloso per la società e dannoso per es­ sa a causa di una colpa, questi verrà ucciso lodevolmente e salutarmente, per salvaguardare il bene com une.18

A ll’obiezione che uccidere un uomo resta di per sé male, Tommaso risponde con Aristotele che un uomo, allontanandosi con le sue azioni malvagie dall’ordine della ragione, abdica alla sua razionalità e decade dalla stessa dignità umana: Peccando l ’uomo si allontana dall’ordine razionale e quindi decade dalla dignità umana, in virtù della quale l ’uomo è naturalmente libero ed esiste per se stesso, e si abbassa in un certo modo allo stato di schiavitù delle bestie, co­ sì che si può disporre di lui secondo l ’utilità altrui... E perciò, mentre uccidere un uomo che resta nella sua dignità è in sé male, uccidere un uomo colpevole può invece essere bene, così com e uccidere una bestia: un uomo cattivo è in­ fatti peggiore e più dannoso di una bestia.19

exercere. dummodo ad inferendam vindictam non odio, sed judicio, non incaute, sed consulte procedat». Cfr. A lanus Ab I nsulis, C o n tr a h a e r e tic o s , lib. 2, capp. 20-23 (PL 210, 594-599). Sul pacifismo medievale, incluso il rifiuto della pena capitale: G onzàlez Q uintana C, D os s i g l o s d e lu c h a p o r la v ìd a : X1II-XTV. U n a c o n tr ib u c ió n a la h is to r ia d e la b i o é tic a , Salamanca 1995, 62-121. 18 S. Tommaso D ’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 64, art. 2 resp: «Omnis autem pars ordinatur ad totum ut imperfectum ad perfectum. Et ideo omnis pars naturaliter est propter totum. Et propter hoc videmus quod si saluti totius corporis humani expediat praecisio alicuius membri, puta cum est putridum et corruptivum aliorum, laudabiliter et salubriter abscinditur. Quaelibet autem persona singularis comparatur ad totam communitatem sicut pars ad totum. Et ideo si aliquis homo sit periculosus communitati et corruptivus ipsius propter aliquod peccatum, laudabiliter et salubriter occiditur, ut bonum commune conservetur». Cfr. I d ., S u m m a c o n tr a G e n tile s , lib. 3, cap. 146. 19 S. Tommaso D ’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 64, art. 2, ad 3: «Homo peccan­ do ab ordine rationis recedit; et ideo decidit a dignitate humana, prout scilicet homo est naturaliter liber et propter seipsum existens, et incidit quodammodo in servitutem bestiac iu m s a n g u in is

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Non possiamo nascondere la nostra perplessità di fronte alle giustifica­ zioni portate dall’Angelico e soprattutto appare del tutto inaccettabile l’idea che realmente, e non solo metaforicamente, una creatura umana possa per­ dere la sua dignità e decadere dalla natura razionale a quella bestiale.20 L’autorità di Tommaso ci conferma in ogni caso che la tradizione teologi­ ca classica era persuasa che il potere della spada esercitato dalla potestà ci­ vile includesse la pena di morte. La teoria delle due spade, definitivamente elaborata da Innocenzo IH nel De contemptu mundi, specificava inoltre che il potere della spada temporale, inclusa l’applicazione della pena capitale, non viene esercitato dalla Chiesa, bensì per la Chiesa dalla autorità civile.21 Quindi, benché la pena capitale non venisse applicata direttamente dalla Chiesa - in ossequio al classico principio che «la Chiesa non ha sete di san­ gue»22 - essa non può esserne dissociata del tutto. La legittimità della pena di morte era ritenuta così evidente e con­ forme al diritto naturale che il famoso saggio dell’illuminista milanese C. Beccaria Dei delitti e delle pene , edito a Livorno nel 1764, nel qua­ le fra l’altro si contestava con motivi di ragione la legittimità della pena capitale, fu posto all’indice due anni dopo la sua apparizione. In campo cattolico, un’eco delle idee illuministe sulla pena di morte si ebbe in P. Malanima, con il suo Commento filologico critico sopra i delitti e le p e­ ne secondo il gius divino, pubblicato a Livorno nel 1786, ma la sua po­ sizione - tranne rarissime eccezioni - restò isolata.23 rum, ut scilicet de ipso ordinetur secundum quod est utile aliis... Et ideo quamvis homi­ nem in sua dignitate manentem occidere sit secundum se malum, tamen hominem peccatorem occidere potest esse bonum, sicut occidere bestiami peior enim est malus homo bestia et plus nocet». Cfr. A ristotele, P o litic a , lib. 1, 12 (1253a32); E tic a N ic o m a c h e a lib. 6, 7 (1150a7). 20 Una critica agli argomenti tomisti in: B l Azquez N., P e n a d e m u e r te , 57-76; B radley G.V., N o I n te n tio n a l K illin g W h a ts o e v e r : T h e C a s e o f C a p ita l P u n is h m e n t, in G eorge R.P. ed., N a tu r a l L a w a n d M o r a l I n q u ir y : E th ic s , M e t a p h y s ic s a n d P o litic s in th e W ork o f G e r ­ m a in G r is e z , Washington 1998, 155-173; G risez G., T o w a r d a C o n s is te n t N a tu r a l L a w E th ic o f K illin g , “American Journal of Jurisprudence” 15 (1970) 64-96. Una difesa dell’ar­ gomentazione tomista, con particolare riguardo alla dignità della persona in: D ewan L., T h o m a s A q u in a s , G e r a r d B ra d le y , a n d th e D e a th P e n a lty : S o m e O b s e r v a tio n s , “Gregorianum” 82 (2001) 149-165. 21 Bonifacio Vili nella bolla U n a m S a n c ta m (1300) afferma che tale potere è da esercitarsi «manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam sacerdotum» (cfr. DS 873). 22 II principio “Ecclesia non sitit sanguinem” fu formulato in modo esplicito nella L e tte r a a i B u lg a r i di Niccolò I nell’ 866. Nella lettera si afferma, che la Chiesa invoca per tutti la vita e vuole liberare tutti dalla morte, innocenti e rei: N iccolò I, E p is to la 97, cap. 25 (PL 119, 989. 991). Suona a questo punto sconcertante ricordare che nello Stato della Città del Vaticano la pena di morte è rimasta in vigore fino al 1969. 23 Tra le poche eccezioni l’abate Le Noir nella voce sulla pena capitale curata per l’edizio­ ne del 1867 del D i c tio n n a ir e d e T h é o lo g ie del Bergier, F. X. Linsenmann nella sua M o r a l-

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In questo ambito dottrinale, si comprende la continua sottolineatu­ ra della categoria dell ’innocenza quando si tratta di spiegare il senso e l’estensione del quinto comandamento: nessuno, neppure la legitti­ ma autorità civile, può uccidere un innocente, mentre è lecito uccidere il reo da parte della pubblica autorità, quando ciò sia richiesto dal bene comune. La Casti Connubii, per esempio, nel condannare le leggi abor­ tiste, nega all’autorità pubblica il potere di dare la morte agli innocenti, mentre afferma esplicitamente che può farlo con i rei: Questa facoltà non potrà darsi mai neppure per l’autorità pubblica. Senza alcun fondamento questa infatti rivendica il diritto di dare la morte agli inno­ centi, mentre lo ha solo nei confronti dei rei.24 Stabilita la liceità in linea di principio della pena di morte, la que­ stione se, in un certo ordinamento giuridico e in un certo ambiente so­ cio-culturale, essa vada abolita o introdotta o mantenuta diventa un problema pratico la cui soluzione dipende da una valutazione di fatto, se cioè in quelle circostanze essa sia o no giovevole al bene comune. Il padre Taparelli-D ’Azeglio nel suo Saggio sul Dritto Naturale sintetizza lapidariamente la posizione tradizionale: (L’uomo) utile o inutile, ei deve vivere, se la sua morte non è necessaria al­ l’ordine; deve morire, se la giustizia ne chiede inesorabilmente la morte.25

4.3 La giustificazione razionale della pena Oggi l’utilità della pena di morte è messa seriamente in dubbio da criminologi e penalisti, mentre risulta sempre più difficile fornirne del 1878 e soprattutto F. v. Holtzendorff con l’opera D a s V e rb re c h e n d e r M o r d e s uscita nel 1875. Si noti che neppure i Riformati per molto tempo mi­ sero in dubbio il diritto degli Stati di infliggere la pena capitale. Cfr. D ombois H., voce To­ d e s s tr a f e , in E v a n g e lis c h e s S o z ia lle x ik o n , Stuttgart 1980, 1322-1323. 24 Pio XI, Lett. enc. C a s ti C o n n u b ii, AAS 22 (1930) 563 (cfr. DS 3720): «Nulla esse umquam poterit ne publicae quidem auctoritatis facultas. Ineptissime autem haec contra innocentes repetitur in jure gladii, quod in solos reos valet». 25 T aparelli-D ’A zeglio L., S a g g io te o r e tic o d i d r itto n a tu r a le a p p o g g i a to s u l f a t to , voi. 1, Palermo 1857, n. 834. L’Autore illustra che cosa si debba intendere per “inesorabile esigenza della giustizia”, quando applica il principio al caso della famigerata I n q u is iz io ­ n e s p a g n o la e scrive che «una religione è necessaria allo Stato; violarla è un crollarlo [per cui] se vi furono ingiustizie in questo, come in ogni altro tribunale umano, esse furono vi­ zio delle persone non dell’istituzione» (ibidem, nota XCIII. In fine). t h e o lo g ie

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un’adeguata e convincente giustificazione razionale dal punto di vista della filosofia del diritto e dell’etica . Per comprendere i termini del di­ battito così come è stato ereditato dalla tradizione teologica e filosofica, sarà bene richiamare alcuni concetti fondamentali riguardo alla giustifi­ cazione della pena in generale.26 Un primo gruppo di teorie, le classiche teorie della retribuzione, sot­ tolineano la funzione vendicativa della pena. La vindicatio non è ne­ cessariamente espressione di odio o di rancore (la vendetta in senso comune), ma può essere espressione del senso morale e sociale violato nell’animo di tutti i consociati. Un omicido, una rapina sono un’offesa per tutti i singoli membri della società: il sentimento spontaneo di ribel­ lione che sorge nel loro animo è, di per sé, buono. S. Tommaso consi­ dera perciò la vindicatio una manifestazione dello zelo , nel quadro più generale della virtù della giustizia: Lo zelo, dal momento che presuppone il fervore dell’amore, contiene la radice prima della vindicatio, in quanto uno vendica le ingiustizie contro Dio o contro il prossimo, reputandole, a motivo dell’amore, come se fossero fatte contro di lui stesso.27

Accade spesso che, di fronte a gravi lesioni di beni ritenuti impor­ tanti per la convivenza civile, scattino nella gente meccanismi cogniti­ vi e comportamentali finalizzati alla autoconservazione e alla autotutela del gruppo, per cui l’opinione pubblica chiede giustizia, cioè il ristabi­ limento e la riaffermazione dell’ordine morale e sociale violato. Mentre il linciaggio rappresenta la degenerazione di questa esigenza, la severità penale esercitata in nome del popolo e in base a leggi precise può esse­ re vista come l’attuazione giuridica della vindicatio, spogliata, in quanto

26 Vedere, della sterminata bibliografia: B obbio N., voce S a n z io n e , in N o v is s im o D i g e ­ s to I ta lia n o , vol. XVI, Torino 1969, 530-540; C attaneo M. A., F o n d a m e n ti filo s o f ic i d e l ­ la s a n z io n e p e n a l e , in A a .vv ., P r o b le m i d e lla s a n z io n e , Roma 1978, vol. I, 41-100; C ot­ ta S., L a s a n z io n e n e l l ’e s p e r ie n z a g iu r id ic a , Torino 1989; D ’A gostino E, voce G iu s tiz ia p e n a l e , in C ompagnoni E, P iana G,, P rivitera S. curr . N uovo D i z io n a r io d i T e o lo g ia M o r a le , 517-525; W alker N., P u n is h m e n t, D a n g e r a n d S tig m a , Oxford 1980. Dal punto di vista teologico: B ondolfi A., P e r u n a fo n d a z io n e e tic o -te o lo g ic a d e lla p e n a : lim iti e p o s s ib ilità , “Rassegna di Teologia” 37 (1996) 217-235; C affarra C., R ifle ss io n e te o lo g ic a s u l d ir itto p e n a l e d e llo sta to , “Jus” 26 (1979) 367-371; E usebi L., C r is tia n e s im o e r e trib u zio n e p e n a le , “Rivista italiana di diritto e di procedura penale” 30 (1987) 275-309. 27 S. T ommaso D ’A quino, S u m m a T h e o lo g ia e , II-IIae, q. 108, art. 2, ad 2: «Zelus autem, secundum quod importât fervorem amoris, importât primam radicem vindicationis, prout aliquis vindicat iniurias Dei vel proximorum, quas ex cantate reputat quasi suas» (tutta la q u a e s tio 108 tratta della v in d ic a tio ) .

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possibile, da animosità, da odio personale e da elementi di irrazionalità. Nella prospettiva della retribuzione, come il bene deve essere ricom­ pensato con il bene, così il male deve essere ripagato con il male.28 La pena è un valore positivo che trova in se stessa la sua giustificazione: es­ sa è il «malum passionis quod infligitur ob malum actionis», cioè il ma­ le che si impone di subire in conseguenza di un male che si è compiuto, e viene applicata a motivo del male fatto («quia peccatum est»). Un secondo gruppo di teorie è quello della pena come espiazione o emenda (la Suhnetheorìe degli Autori tedeschi). In queste teorie, di antica tradizione filosofica, la pena ha la funzione di emendare il reo e di puri­ ficarlo, agendo come un antidoto contro il disordine morale attraverso la forza purificatrice del dolore: in questa prospettiva Platone sosterrà che la pena è la medicina dell’anima, mentre per i giuristi romani “poena constituitur ad emendationem hominum”. Nell’Antico Testamento l’idea della espiazione si affianca a quella di retribuzione come possibilità di perveni­ re ad una riconciliazione e quindi ad un ristabilimento dell’ordine violato attraverso il meccanismo del capro espiatorio. La categoria di espiazione assunse nel Nuovo Testamento una coloritura soteriologica, indipendente dalle problematiche del diritto, che saranno invece alla base della teoria soteriologica elaborata da sant’Anseimo d ’Aosta, tutta incentrata su una lettura giuridica della colpa e della redenzione. In queste teorie la persona del reo viene collocata in posizione più at­ tiva e l’attenzione si sposta dal fatto delittuoso e dai suoi effetti alla libe­ razione del reo dalla sua colpevolezza attraverso la sofferenza: anche in questo caso, come nelle precedenti teorie retributive, resta oscuro in che modo la sofferenza espiativa del reo possa tornare vantaggiosa anche per le vittime e il danno inferto possa essere riparato con il solo patire. Mentre le due impostazioni finora rammentate giustificano la pena in base alla giustizia e alla necessità di restaurare una violazione deifi ordine etico-giuridico, dopo l'illuminismo sono stati sviluppati argo­ menti a giustificazione della pena e della pena di morte in particolare di tipo schiettamente utilitaristico.29 Nella teoria della prevenzione generale (“assecuratio generalis”) la pena ha un valore deterrente o intimidatorio per distogliere i delinquen­ ti dagli atti criminosi: consistendo in un male proporzionato al piacere conseguibile con il reato, la pena agisce psicologicamente come con­ 28 Si distinguono una retribuzione morale ed una retribuzione giuridica. 29 Nella visione laica e secolarizzata della Stato, propria degli Illuministi, non può darsi continuità reale fra la giustizia dello Stato e la giustizia divina: sia l’idea di una retribuzio­ ne assoluta del male e del bene, sia quella di una purificazione morale del reo sono estra­ nee a questa mentalità.

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trospìnta rispetto al desiderio di procurarsi quel certo piacere in modo illegale. Nella teorìa della prevenzione speciale (“assecuratio specialis”) la pena ha la funzione di eliminare o ridurre il pericolo che il sog­ getto, cui viene applicata la pena, ricada in futuro nel reato. Si punisce “ne peccetur”, affinché non si pecchi più. A differenza della teoria del­ l’espiazione, qui la pena non mira a restituire al reo una purezza di tipo etico-spirituale, ma a salvaguardare la convivenza comune reintrodu­ cendo, attraverso la rieducazione, il reo nella struttura sociale da cui si è estraniato. Riassumendo la dottrina tradizionale, possiamo dire perciò che una pe­ na, inclusa la pena di morte, può avere diverse giustificazioni e funzioni: 1. funzione vendicativa di ripristino dell’ordine violato (vindicatio). 2. funzione medicinale-pedagogica nei confronti del reo ( emendatio o expiatio). 3. funzione intimidatoria o deterrente per i potenziali rei (assecura­ tio generalis). 4. funzione difensiva della società da altri delitti da parte del reo (