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I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore via Sardegna ,  Roma, telefono     , fax     

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Dizionario gramsciano - A cura di Guido Liguori e Pasquale Voza

Carocci editore

Il presente volume è stato realizzato grazie al contributo della Regione Puglia - Assessorato al Mediterraneo.

a edizione, novembre  © copyright  by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel novembre  dalla Litografia Varo (Pisa) ISBN

----

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.  della legge  aprile , n. ) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Prefazione

Questo Dizionario gramsciano - si pone l’obiettivo di ricostruire e presentare al lettore – in termini il più possibile accessibili – il significato dei lemmi, delle espressioni, dei concetti gramsciani, limitatamente al periodo della riflessione carceraria consegnata ai Quaderni del carcere e alle Lettere dal carcere , cercando inoltre di delucidare il ruolo e il significato che in tale riflessione hanno i principali “interlocutori” a vario titolo presenti, dagli autori che Gramsci legge e chiosa ai maggiori personaggi storici sui quali scrive, ad alcune delle persone care più ricorrenti soprattutto nella sua corrispondenza epistolare. La delimitazione temporale del nostro lavoro è stata determinata, da un lato, dal fatto che il pensiero carcerario è più coeso e organico; dall’altro, dal fatto che essa permette di usare quegli strumenti filologici (in primo luogo l’edizione critica dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana) che ancora non sono disponibili per gli scritti precarcerari. Tuttavia, in molti casi, laddove gli autori delle voci lo hanno ritenuto utile, sono stati fatti richiami anche a quanto Gramsci aveva scritto negli anni precedenti il carcere. Il Dizionario nasce dalla convinzione che lo stato dei testi carcerari e la loro storia, il metodo “analogico” seguito da Gramsci, lo spirito di ricerca e di dialogicità che li caratterizza, la peculiare “multiversità” del linguaggio dell’autore e persino l’ingente ed eterogenea mole interpretativa prodotta fino a oggi rendano tutt’altro che agevole al lettore comune, e in buona parte anche allo studioso, la comprensione del significato o della possibile gamma di significati delle “parole di Gramsci”. A partire da questa consapevolezza, la International Gramsci Society Italia da diversi anni si è impegnata in un’opera di rilettura filologica dei testi gramsciani, mirante a ricostruirne il lessico seguendo l’evoluzione del pensiero dell’autore. Il Dizionario, dunque, è in una linea di continuità sia con il Seminario sul lessico

. Si ricorda che l’arresto di Gramsci ebbe luogo l’ novembre  e la sua morte il  aprile . In Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo  – l’edizione in lingua italiana a oggi più completa – le prime lettere successive all’arresto risalgono allo stesso novembre , le ultime sono datate gennaio . Per quel che riguarda i Quaderni del carcere (edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino  e ), la data di inizio, apposta da Gramsci stesso, è quella dell’ febbraio , mentre la scrittura delle note termina nel .



DIZIONARIO GRAMSCIANO

dei Quaderni del carcere iniziato nell’anno  e giunto quasi all’epilogo del suo secondo ciclo, sia con il volume che ha raccolto i frutti del primo ciclo del seminario stesso, intitolato non a caso Le parole di Gramsci . I collaboratori di questo volume sono in buona parte frequentatori (giovani e meno giovani) del seminario, con l’aggiunta di numerosi studiosi gramsciani, italiani e stranieri, a cui è stato chiesto di scrivere in relazione ai loro rispettivi specialismi e interessi. È doveroso aggiungere che gli autori portano la responsabilità delle voci che firmano. I curatori si sono limitati a richiedere agli stessi autori mutamenti o aggiunte, avendo in ogni caso il loro placet, e hanno operato interventi di carattere formale, impegnandosi soprattutto a dare omogeneità a un lavoro tanto vasto e articolato. Si è inteso dunque proseguire con questo Dizionario, in forma diversa ma con lo stesso metodo di fedeltà al testo e di attenzione alla dimensione diacronica della riflessione carceraria, un lavoro iniziato da tempo, per offrire a un pubblico più largo uno strumento che fosse di aiuto nella conoscenza di un’opera tanto complessa quanto non sistematica. Non si vuole con ciò, ovviamente, semplificare o “ingabbiare” Gramsci, né si crede di poter restituire – in forma sistematizzata – tutta la ricchezza della sua elaborazione: la quale è connessa proprio con quella che è stata chiamata la strategia del pensiero e della scrittura di Gramsci e con il carattere intrinsecamente mobile, aperto, antidogmatico che essa comporta. È chiaro che il presente lavoro non pretende e non vuole sostituire la lettura diretta di un testo così ricco. Evidentemente chi ha scritto le voci si è fatto anche interprete del pensiero gramsciano, ha selezionato il materiale, deciso l’ordine e la gerarchia dei testi presi in considerazione, nonché le esclusioni (se non altro quelle dettate dai limiti di spazio). Tutto ciò va dichiarato apertamente e posto in evidenza. Ma va anche aggiunto che ci si è sempre sforzati di seguire quel che Gramsci afferma quando scrive che nella decifrazione di «una concezione del mondo» non «esposta sistematicamente», «la ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati» (Q , , -). In riferimento alla tensione fra un pensiero coerente e la sua esposizione frammentata, il nostro tentativo è stato quello di praticare e di suggerire un’attenzione al testo che non sempre è dato ritrovare nella critica. Crediamo infatti che un uso attento dei testi porti anche a una migliore approssimazione interpretativa, mentre un loro uso troppo disinvolto allontani dalla comprensione effettiva anche dello “spirito” di Gramsci. La voce di un dizionario non può rendere conto di tutta la ricchezza del pensiero di un autore, ma può e vuole essere strumento utile per accompagnarne la scoperta da parte del lettore. . Fabio Frosini, Guido Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci, Carocci, Roma . Il libro contiene saggi di Giorgio Baratta, Derek Boothman, Giuseppe Cospito, Lea Durante, Fabio Frosini, Guido Liguori, Rita Medici, Marina Paladini Musitelli, Giuseppe Prestipino, Pasquale Voza. I saggi sono rielaborazioni delle relazioni tenute nel primo ciclo del Seminario sul lessico dei Quaderni del carcere. Per le informazioni sul seminario in questione e sul suo secondo ciclo, ancora in corso, si veda il sito della Igs Italia: www.gramscitalia.it.



PREFAZIONE

Infine, il progetto di un dizionario gramsciano, a nostro avviso, non può non chiamare in causa, in forme certamente mediate e complesse, due ordini di questioni: la questione dell’“attualità” e insieme quella della “classicità” di Gramsci. Si tratta di due concetti, come si sa, profondamente connotati da uno spessore ricchissimo di significati teorici, filosofici e in ultima analisi politici, a cui non si intende qui nemmeno accennare. Si vuole solo dire che essi sono stati intesi in un loro peculiare intreccio, in riferimento all’opera gramsciana e alla sua capacità di farsi interrogare da molte domande del nostro presente e insieme di interrogarlo in profondità. Si spera che questa spinta fondativa e “segreta” abbia dato frutti positivi nella concreta realizzazione del nostro lavoro. GUIDO LIGUORI

PASQUALE VOZA

Ringraziamenti

Molte sono le persone con le quali sentiamo di avere un debito di riconoscenza e a cui riteniamo giusto manifestare anche pubblicamente il nostro ringraziamento. In primo luogo vogliamo ringraziare Fabio Frosini, che ha partecipato fin dall’inizio al lavoro di ideazione e messa a punto del progetto di Dizionario: senza la sua competenza, i suoi consigli e il suo lavoro questa opera non sarebbe la stessa. Un ringraziamento particolare esprimiamo a Lea Durante, che ha curato con grande capacità e dedizione i complessi rapporti istituzionali necessari alla realizzazione di un lavoro come questo: anche senza il suo apporto ben difficilmente il Dizionario avrebbe visto la luce. Il nostro ringraziamento va poi a tutte le autrici e a tutti gli autori delle voci, che hanno collaborato a questa impresa animati dal loro interesse per Gramsci, per la sua opera e per la sua vicenda intellettuale, umana e politica. Libere e liberi di esprimere la loro personale interpretazione dei testi, hanno però dovuto “subire” le richieste che il nostro ufficio di curatori ci imponeva di avanzare e hanno accettato di incanalare la loro fatica nello stile e nei limiti di spazio concordati. Ringraziamo tutte e tutti per la pazienza e la disponibilità, oltre che per la competenza e la passione. Il progetto di quest’opera è stato a lungo vagliato, discusso, modificato nel corso di ripetute riunioni avvenute con alcune studiose e alcuni studiosi che operano nell’ambito del Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e della International Gramsci Society Italia: Giorgio Baratta, Derek Boothman, Lea Durante, Fabio Frosini, Marina Paladini Musitelli, Alberto Postigliola e Giuseppe Prestipino. L’amicizia e la collaborazione che ci legano a esse e a essi, rafforzate dalla comune partecipazione al Seminario sul lessico dei Quaderni del carcere della Igs Italia, hanno reso naturale il loro coinvolgimento, ma non per questo rendono meno sentita e doverosa la nostra gratitudine. A tutti i componenti a vario titolo sia del Centro che della Igs Italia va del resto il nostro ringraziamento, per aver sostenuto le istituzioni all’interno delle quali il Dizionario è nato. Nel corso della realizzazione di questo progetto un ruolo di primo piano ha avuto Jole Silvia Imbornone, che ha curato gli aspetti informatici e redazionali del Dizionario, nonché la Bibliografia che ne è parte integrante. All’attento, meticoloso lavoro di Valeria Leo e Lelio La Porta dobbiamo il controllo delle innumerevoli citazioni gramsciane, importanti in un’opera come questa. A loro va il nostro grazie più sentito.



DIZIONARIO GRAMSCIANO

Un ringraziamento particolare rivolgiamo alle studiose e agli studiosi che hanno tradotto le voci originariamente scritte in lingua non italiana: Roberto Ciccarelli e Sara R. Farris per i testi in lingua inglese, Antonino Infranca per i testi in lingua portoghese, Lelio La Porta per i testi in lingua francese. Ringraziamo Giuseppe Vacca, che in qualità di presidente della Fondazione Istituto Gramsci ha messo a disposizione il testo dei Quaderni del carcere su supporto elettronico, e Alessandro Errico, che lo ha rivisto e che ha curato la trasposizione su supporto elettronico del testo delle Lettere dal carcere. Un ringraziamento doveroso quanto sentito va infine all’istituzione (e alle donne e agli uomini che ne hanno la responsabilità) che ha finanziato il nostro progetto: la Regione Puglia, soprattutto nelle persone del suo presidente Nichi Vendola e di Silvia Godelli, assessora al Mediterraneo e alle Attività culturali. GUIDO LIGUORI

PASQUALE VOZA

Avvertenza

Nelle voci del Dizionario Gramsci viene indicato con la sola lettera G., maiuscola e puntata. Per quel che concerne la grafia dei nomi si segue in genere la grafia dell’Indice dei nomi presente in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino  (che corregge alcuni errori e refusi presenti nella prima edizione del ). Nelle citazioni dalle Lettere e dai Quaderni è mantenuta la grafia gramsciana. Alla stessa edizione Gerratana vanno intesi i rimandi ai Quaderni, indicati con la lettera Q, quando è il caso seguita dai numeri di quaderno, paragrafo e pagina o pagine. Quando non vi è – nel testo gramsciano – numero di paragrafo, viene indicato il numero del quaderno seguito dal numero della pagina, preceduto dalla lettera p. Il rinvio all’Apparato critico dell’edizione Gerratana è indicato con le lettere Q, AC, seguite dal numero di pagina. Il rinvio alle traduzioni gramsciane presenti nei quaderni manoscritti e riportati nell’Appendice della stessa edizione è indicato con le lettere QA, seguite dal numero di pagina. Come nell’edizione Gerratana, le note gramsciane di prima stesura, di stesura unica e di seconda stesura sono indicate rispettivamente come Testo A, Testo B e Testo C. Poiché nell’edizione Gerratana dei Quaderni (e dunque nelle citazioni qui riportate) le parentesi quadre indicano aggiunte al testo apportate da Gramsci in interlinea o a margine, mentre le parentesi angolari indicano interventi della redazione dell’edizione critica, le avvertenze e interpolazioni poste dagli autori delle voci all’interno delle citazioni gramsciane sono state messe tra parentesi quadre con l’avvertenza “ndr”. Le corsivazioni operate dagli autori delle voci nei testi citati sono state anch’esse indicate in modo esplicito. Riguardo alle Lettere dal carcere (abbreviate con la sigla LC seguita dal numero di pagina o dai numeri di pagine) il rimando è ad Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo . Esso è completato dall’indicazione della data e del destinatario, per facilitare il reperimento della citazione anche in edizioni diverse. Per quanto riguarda i rimandi alle altre opere di Gramsci (come le precedenti sempre corsivati e quasi sempre tra parentesi tonde), essi sono espressi dalla sigla abbreviativa seguita dal numero di pagina. Hanno corso le seguenti abbreviazioni: CF: La città futura -, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino . CPC: La costruzione del Partito comunista -, Einaudi, Torino .

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DIZIONARIO GRAMSCIANO

CT: Cronache torinesi -, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino . D:  pagine di Gramsci, a cura di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, Il Saggiatore, Milano . FU: La formazione dell’uomo, a cura di Giovanni Urbani, Editori Riuniti, Roma . L: Lettere -, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino . LC: Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo . LGT: Antonio Gramsci, Tatiana Schucht, Lettere -, a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Einaudi, Torino . LST: Piero Sraffa, Lettere a Tania per Gramsci, introduzione e cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma . NM: Il nostro Marx -, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino . ON: L’Ordine Nuovo -, a cura di Valentino Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino . PLV: Per la verità, a cura di Renzo Martinelli, Editori Riuniti, Roma . Q: Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino  (). QT: Quaderni del carcere. . Quaderni di traduzioni (-), a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni,  voll., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma . QM: Alcuni temi della quistione meridionale, in CPC. RQ: Il rivoluzionario qualificato, a cura di Corrado Morgia, Delotti, Roma . RSC: La religione come senso comune, introduzione e cura di Tommaso La Rocca, prefazione di Giuseppe Vacca, Nuova Pratiche Editrice, Milano . SF: Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo -, Einaudi, Torino . SP: Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma . SS: Scritti scelti, introduzione e cura di Marco Gervasoni, Rizzoli, Milano . TL: Tesi di Lione, ovvero La situazione italiana e i compiti del PCI, in CPC. Per i rimandi a opere non di Gramsci viene usato il sistema anglosassone (cognome dell’autore, data dell’edizione citata ed eventuale numero di pagina), con rinvio alla Bibliografia posta alla fine del volume. Alla fine delle voci più rilevanti è presente una breve indicazione bibliografica, che rimanda alla stessa Bibliografia finale. Ricordiamo infine, per chi voglia completare o approfondire la ricerca bibliografica sui diversi lemmi o argomenti, l’utilità di due opere: la Bibliografia gramsciana dal  on line, a cura di John M. Cammett, Francesco Giasi e Maria Luisa Righi (www.fondazionegramsci.org), e la Bibliografia gramsciana ragionata, a cura di Angelo d’Orsi, di cui al momento è disponibile il primo volume, - (Viella, Roma ).

Elenco delle voci

A Action française (Bruno Brunetti) Agnelli, Giovanni (Lelio La Porta) agnosticismo (Domenico Mezzina) Alighieri, Dante: v. Dante alta cultura (Costanza Orlandi) alti salari (Derek Boothman) America (Giorgio Baratta) America del Sud (Giorgio Baratta) americanismo (Giorgio Baratta) americanismo e fordismo (Giorgio Baratta) analisi della situazione: v. rapporti di forza anarchia (Guido Liguori) anarco-sindacalismo: v. sindacalismo teorico animalità e industrialismo (Giorgio Baratta) Anti-Croce: v. Croce, Benedetto antimachiavellismo: v. machiavellismo e antimachiavellismo anti-nazionale: v. nazionale-popolare antiprotezionismo: v. liberismo antisemitismo: v. ebrei antistoria: v. storia antropologia: v. filosofia della praxis apoliticismo, apoliticità (Jole Silvia Imbornone) aporia (Eleonora Forenza) apparato egemonico (Guido Liguori) arbitrio (Rocco Lacorte) architettura (Lea Durante) arditi (Jole Silvia Imbornone) Aristotele (Lelio La Porta) armi e religione (Guido Liguori) arte (Yuri Brunello) arte militare (Silvio Suppa) artificiale: v. naturale-artificiale ascaro: v. crumiro



DIZIONARIO GRAMSCIANO

astensionismo (Marcos Del Roio) astrazione (Fabio Frosini) astrazione determinata: v. homo oeconomicus ateismo (Giovanni Semeraro) attualismo (Giuseppe D’Anna) autobiografia (Eleonora Forenza) autocritica (Manuela Ausilio) autodidatta (Jole Silvia Imbornone) autodisciplina: v. disciplina autogoverno (Marcos Del Roio) automatismo (Fabio Frosini) autorità (Michele Filippini) Azione cattolica (Tommaso La Rocca) B Babbitt (Derek Boothman) bambino (Valeria Leo) bellezza (Marina Paladini Musitelli) Benda, Julien (Pasquale Voza) Bergson, Henri (Ludovico De Lutiis) Bernstein, Eduard (Lelio La Porta) biblioteca (Fabio Frosini) biennio rosso: v. Ordine Nuovo (L’) bilancio statale (Vito Santoro) biografia nazionale (Jole Silvia Imbornone) blocco agrario (Antonella Agostino) blocco storico (Pasquale Voza) Bodin, Jean (Michele Filippini) bonapartismo (Michele Filippini) Bordiga, Amadeo (Andrea Catone) borghesia (Raul Mordenti) borghesia comunale (Jole Silvia Imbornone) borghesia rurale (Elisabetta Gallo) boria di partito (Lelio La Porta) boulangismo (Marcos Del Roio) brescianesimo (Marina Paladini Musitelli) briganti, brigantaggio (Antonella Agostino) Bronsˇtein: v. Trockij Bucharin, Nikolaj Ivanovic (Fabio Frosini) buon senso (Guido Liguori) burocrazia (Michele Filippini) C cadornismo (Manuela Ausilio) caduta tendenziale del saggio di profitto (Fabio Frosini)

ELENCO DELLE VOCI

Calogero, Guido: v. attualismo calvinismo (Fabio Frosini) camorra: v. mafia e camorra campagna: v. città-campagna cannibalismo (Raffaele Cavalluzzi) canto X dell’Inferno: v. Dante capitalismo (Andrea Catone) capitalismo di Stato (Guido Liguori) capo (Marcos Del Roio) capo carismatico (Michele Filippini) caporalismo (Michele Filippini) Caporetto (Marcos Del Roio) capovolgimento (Giuseppe Prestipino) carcere o prigione (Jole Silvia Imbornone) Carducci, Giosue (Marina Paladini Musitelli) casematte: v. trincee, fortezze e casematte caso (Giuseppe Prestipino) catarsi (Carlos Nelson Coutinho) catastrofe, catastrofico (Eleonora Forenza) catastrofismo: v. catastrofe, catastrofico Cattaneo, Carlo (Pasquale Voza) cattolici (Raffaele Cavalluzzi) causalità (Giuseppe Prestipino) Cavour, Camillo Benso, conte di (Silvio Suppa) cento città (Elisabetta Gallo) centralismo (Giuseppe Cospito) centralismo burocratico: v. centralismo centralismo democratico: v. centralismo centralismo organico: v. centralismo certo (Giuseppe Prestipino) Cesare, Caio Giulio (Jole Silvia Imbornone) cesarismo (Guido Liguori) chierici (Laura Mitarotondo) Chiesa cattolica (Tommaso La Rocca) chimica: v. fisica e chimica Cina (Derek Boothman) cinema (Raffaele Cavalluzzi) città-campagna (Elisabetta Gallo) città del silenzio: v. cento città classe, classi (Raul Mordenti) classe dirigente (Michele Filippini) classe media (Raul Mordenti) classe operaia (Raul Mordenti) classe politica (Michele Filippini) classe subalterna: v. subalterno, subalterni





DIZIONARIO GRAMSCIANO

classe urbana (Raul Mordenti) classico (Fabio Frosini) clero (Giovanni Semeraro) coda del diavolo: v. America del Sud coercizione (Lelio La Porta) coerenza, coerente (Peter Thomas) collettivismo: v. individualismo colonialismo (Renato Caputo) colonie (Renato Caputo) composizione demografica (Giuseppe Prestipino) compromesso (Guido Liguori) Comuni medievali (Jole Silvia Imbornone) comunismo: v. società regolata concezione del mondo (Guido Liguori) concio della storia (Guido Liguori) Concordato (Tommaso La Rocca) conformismo (Guido Liguori) congiuntura (Fabio Frosini) consenso (Lelio La Porta) Consigli di fabbrica: v. Ordine Nuovo (L’) consiliarismo: v. Ordine Nuovo (L’) consumo (Vito Santoro) contadini (Elisabetta Gallo) contenuto: v. forma-contenuto contraddizione (Giuseppe Prestipino) Controriforma (Roberto Dainotto) corporativismo (Alessio Gagliardi) Corradini, Enrico (Manuela Ausilio) corruzione (Michele Filippini) coscienza (Rocco Lacorte) cosmopolitismo (Lea Durante) Costituente (Giuseppe Cospito) costituzionalismo (Michele Filippini) Costituzione (Michele Filippini) creatività, creativo (Fabio Frosini) creazione: v. distruzione-creazione credenze popolari (Giovanni Mimmo Boninelli) crisi (Fabio Frosini) crisi del ’: v. crisi crisi di autorità (Michele Filippini) crisi di egemonia: v. crisi di autorità crisi organica (Lelio La Porta) Crispi, Francesco (Silvio Suppa) cristianesimo (Tommaso La Rocca) critica, critico (Fabio Frosini)

ELENCO DELLE VOCI

Croce, Benedetto (Giuseppe Cacciatore) crumiro (Vito Santoro) cultura (Giorgio Baratta) cultura alta: v. alta cultura cultura europea: v. Europa cultura francese, cultura italiana (Jole Silvia Imbornone) cultura mondiale (Giorgio Baratta) cultura popolare (Costanza Orlandi) Cuoco, Vincenzo: v. rivoluzione passiva Cuvier, Georges (Joseph A. Buttigieg) D D’Annunzio, Gabriele (Guido Liguori) Dante (Daniele Maria Pegorari) De Man, Henri (Domenico Mezzina) De Sanctis, Francesco (Marina Paladini Musitelli) debito pubblico (Vito Santoro) demagogia (Michele Filippini) democrazia (Guido Liguori) destra: v. sinistra-destra determinismo (Giuseppe Prestipino) dialettica (Giuseppe Prestipino) dialetto (Alessandro Carlucci) Dio (Vincenzo Robles) dio ascoso (Giuseppe Prestipino) diplomazia (Lelio La Porta) diretti: v. dirigenti-diretti direzione (Michele Filippini) dirigenti-diretti (Giuseppe Cospito) diritti e doveri (Fabio Frosini) diritto (Michele Filippini) diritto naturale (Carlos Nelson Coutinho) disciplina (Lelio La Porta) disgregato, disgregazione (Giuseppe Prestipino) disinteresse, disinteressato (Valeria Leo) disoccupazione (Lelio La Porta) disorganico (Giuseppe Prestipino) distruzione-creazione (Manuela Ausilio) dittatura (Lelio La Porta) divenire (Ludovico De Lutiis) Divina Commedia: v. Dante divisione dei poteri (Michele Filippini) divulgazione (Rocco Lacorte) domenicani (Ludovico De Lutiis) dominio (Lelio La Porta)





DIZIONARIO GRAMSCIANO

donna (Lea Durante) dopoguerra (Guido Liguori) dover essere (Claudio Bazzocchi) dramma (Yuri Brunello) due mondi (Jole Silvia Imbornone) dumping (Vito Santoro) E ebrei (Enzo Traverso) economia (Fabio Frosini) economia diretta: v. economia programmatica economia programmatica (Fabio Frosini) economia regolata: v. economia programmatica economia secondo un piano: v. economia programmatica economicismo: v. economismo economico-corporativo (Giuseppe Cospito) economismo (Fabio Frosini) educazione (Chiara Meta) egemonia (Giuseppe Cospito) eguaglianza, egualitarismo (Renato Caputo) Einaudi, Luigi (Fabio Frosini) elezioni (Renato Caputo) élite, elitismo (Michele Filippini) emigrazione (Antonella Agostino) empirismo (Lelio La Porta) Engels, Friedrich (Guido Liguori) epoca (Michele Filippini) Erasmo da Rotterdam, Desiderio (Fabio Frosini) eredità del passato (Jole Silvia Imbornone) eresie, eretici (Raffaele Cavalluzzi) errore (Fabio Frosini) esecutivo: v. legislativo-esecutivo esercito (Michele Filippini) esperanto (Peter Ives) esteromania (Jole Silvia Imbornone) estetica (Pasquale Voza) estinzione dello Stato: v. società regolata etica (Giuseppe Prestipino) etico-politico (Guido Liguori) Europa (Giorgio Baratta) evoluzionismo (Lelio La Porta) F famiglia (Valeria Leo) fantasia (Antonella Agostino)

ELENCO DELLE VOCI

fascismo (Carlo Spagnolo) fatalismo (Guido Liguori) fede (Fabio Frosini) federalismo (Michele Filippini) femminismo (Lea Durante) Ferrari, Giuseppe (Pasquale Voza) feticismo: v. astrazione feudalesimo: v. Medioevo Feuerbach, Ludwig (Andrea Catone) filologia e filologia vivente (Ludovico De Lutiis) filosofia (Fabio Frosini) filosofia classica tedesca (Fabio Frosini) filosofia della praxis (Roberto Dainotto) filosofia speculativa (Peter Thomas) filosofo e filosofo democratico (Peter Thomas) fini: v. mezzi e fini fisica e chimica (Derek Boothman) fisiocratici (Jole Silvia Imbornone) folclore, folklore (Giovanni Mimmo Boninelli) fordismo (Giorgio Baratta) forma-contenuto (Pasquale Voza) formazione dell’uomo (Giorgio Baratta) fortezze e casematte: v. trincee, fortezze e casematte Fortunato, Giustino (Daniele Maria Pegorari) forza (Michele Filippini) forze urbane: v. classe urbana Foscolo, Ugo (Domenico Mezzina) Fovel, Nino Massimo (Alessio Gagliardi) francescani (Ludovico De Lutiis) Francia (Elisabetta Gallo) Freud, Sigmund (Livio Boni) fronte ideologico (Guido Liguori) fronte politico-militare (Guido Liguori) fronte unico (Peter Thomas) funzionario (Michele Filippini) für ewig (Eleonora Forenza) futurismo (Marina Paladini Musitelli) G Gandhi, Mohandas Karamchand: v. pacifismo Garibaldi, Giuseppe (Vito Santoro) genere umano (Lelio La Porta) genio (Jole Silvia Imbornone) Gentile, Giovanni (Giuseppe D’Anna) geografia (Derek Boothman)



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DIZIONARIO GRAMSCIANO

Germania (Elisabetta Gallo) gesuiti (Giovanni Semeraro) giacobinismo (Rita Medici) Giappone (Derek Boothman) Gioberti, Vincenzo (Roberto Finelli) Giolitti, Giovanni (Marcos Del Roio) giornalismo (Guido Liguori) Giulia (Lea Durante) glottologia: v. linguistica Gobetti, Piero (Lelio La Porta) Goethe, Johann Wolfgang von (Yuri Brunello) gorilla ammaestrato (Giorgio Baratta) governati-governanti (Michele Filippini) governo (Silvio Suppa) grammatica (Peter Ives) Grande guerra (Vito Santoro) grande politica, piccola politica (Carlos Nelson Coutinho) Grecia (Derek Boothman) greco: v. latino e greco gruppo sociale (Raul Mordenti) guerra (Roberto Ciccarelli) guerra di movimento (Roberto Ciccarelli) guerra di posizione (Roberto Ciccarelli) guerra partigiana (Roberto Ciccarelli) guerre di indipendenza (Vito Santoro) Guicciardini, Francesco (Laura Mitarotondo) H Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (Roberto Finelli) hegelismo napoletano (Giuseppe D’Anna) hitlerismo (Vito Santoro) homo oeconomicus (Fabio Frosini) I Ibsen, Henrik (Yuri Brunello) idealismo (Giuseppe Prestipino) idee (Fabio Frosini) ideologia (Guido Liguori) idoli (Antonella Agostino) Ilici: v. Lenin Illuminismo (Paolo Quintili) immaginazione (Jole Silvia Imbornone) immanenza (Fabio Frosini) immigrazione (Giuseppe Prestipino) imperativo categorico (Claudio Bazzocchi)

ELENCO DELLE VOCI

imperialismo (Renato Caputo) Impero romano (Jole Silvia Imbornone) imprenditore (Jole Silvia Imbornone) inaudito (Pasquale Voza) incesto (Livio Boni) India (Derek Boothman) individuale: v. individuo individualismo (Fabio Frosini) individuo (Fabio Frosini) industrialismo (Elisabetta Gallo) Inghilterra (Derek Boothman) integralisti (Domenico Mezzina) intellettuali (Pasquale Voza) intellettuali italiani (Pasquale Voza) intellettuali organici (Pasquale Voza) intellettuali tradizionali (Pasquale Voza) internazionale, internazionalismo (Renato Caputo) intransigenza-tolleranza (Manuela Ausilio) ironia (Pasquale Voza) islamismo (Derek Boothman) Italia (Giovanni Mimmo Boninelli) italiani (Domenico Mezzina) Iulca o Julca: v. Giulia J jazz (Alessandro Errico) K Kant, Immanuel (Roberto Finelli) L Labriola, Antonio (Fabio Frosini) laici (Ludovico De Lutiis) laicismo (Manuela Ausilio) Lao-Tse (Derek Boothman) latino (Alessandro Carlucci) latino e greco (Alessandro Carlucci) lavoratore collettivo (Fabio Frosini) lavoro (Fabio Frosini) leggi di tendenza (Fabio Frosini) legislativo-esecutivo (Lelio La Porta) Lenin, Nikolaj (Vladimir Il’ic Ulianov, detto) (Fabio Frosini) Leonardo da Vinci (Marco Versiero) Leopardi, Giacomo (Lelio La Porta) letteratura artistica (Marina Paladini Musitelli)

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DIZIONARIO GRAMSCIANO

letteratura d’appendice (Bruno Brunetti) letteratura poliziesca o gialla (Bruno Brunetti) letteratura popolare (Marina Paladini Musitelli) liberali, liberalismo (Marcos Del Roio) liberismo (Andrea Catone) libero scambio (Andrea Catone) libertà (Rocco Lacorte) libertinismo (Lea Durante) limite (Valeria Leo) lingua (Derek Boothman) linguaggio (Derek Boothman) linguistica (Derek Boothman) logica: v. astrazione e tecnica del pensare Loria, Achille (Jole Silvia Imbornone) lorianesimo: v. lorianismo, loriani lorianismo, loriani (Jole Silvia Imbornone) lorismo: v. lorianismo, loriani lotta di generazioni (Guido Liguori) lotto (Giovanni Mimmo Boninelli) Lukács, György (Carlos Nelson Coutinho) Lutero, Martin (Fabio Frosini) Luxemburg, Rosa (Andrea Catone) M macchina (Antonella Agostino) Machiavelli, Niccolò (Lelio La Porta) machiavellismo e antimachiavellismo (Laura Mitarotondo) madre (Valeria Leo) mafia e camorra (Jole Silvia Imbornone) malattia (Jole Silvia Imbornone) male minore (Guido Liguori) Manzoni, Alessandro (Domenico Mezzina) Marx, Karl (Fabio Frosini) marxismo (Giuseppe Prestipino) massa, masse (Renato Caputo) massoneria (Guido Liguori) matematica (Derek Boothman) materia (Giuseppe Prestipino) materialismo e materialismo volgare (Giuseppe Prestipino) materialismo storico (Giuseppe Prestipino) Mathiez, Albert (Pasquale Voza) Maurras, Charles: v. Action française Mazzini, Giuseppe (Pasquale Voza) meccanicismo (Michele Filippini) meccano (Giorgio Baratta)

ELENCO DELLE VOCI

Medioevo (Jole Silvia Imbornone) melodramma (Marina Paladini Musitelli) mercantilismo (Lelio La Porta) mercato determinato (Fabio Frosini) merce (Lelio La Porta) metafisica (Peter Thomas) metafora (Peter Ives) metodico (Giuseppe Prestipino) metodologia (Fabio Frosini) mezzadria (Antonella Agostino) mezzi e fini (Giuseppe Cospito) Mezzogiorno (Antonella Agostino) Michels, Robert (Michele Filippini) Milano (Elisabetta Gallo) Missiroli, Mario (Vito Santoro) mistero di Napoli: v. Napoli mito (Guido Liguori) moderati (Pasquale Voza) modernismo (Vincenzo Robles) moderno (Giuseppe Prestipino) moderno Principe (Lelio La Porta) molecolare (Eleonora Forenza) moltitudine, moltitudini (Eleonora Forenza) monarchia (Guido Liguori) mondo (Giorgio Baratta) Mondolfo, Rodolfo (Guido Liguori) morale (Giuseppe Prestipino) morboso (Pasquale Voza) morte (Jole Silvia Imbornone) mosca cocchiera (Vito Santoro) Mosca, Gaetano (Michele Filippini) musica (Alessandro Errico) N Napoli (Giovanni Mimmo Boninelli) natura (Manuela Ausilio) natura umana: v. uomo naturale-artificiale (Renato Caputo) naturalismo (Marina Paladini Musitelli) naufrago (Eleonora Forenza) nazionale: v. nazionale-popolare nazionale-internazionale: v. nazione nazionale-popolare (Lea Durante) nazionalismo (Manuela Ausilio) nazione (Fabio Frosini)





DIZIONARIO GRAMSCIANO

necessità (Fabio Frosini) nemico (Fabio Frosini) neoidealismo: v. Croce e Gentile nesso di problemi (Eleonora Forenza) nipotini di padre Bresciani: v. brescianesimo Nord-Sud (Elisabetta Gallo) noumeno (Claudio Bazzocchi) nuovo (Pasquale Voza) O oggettività (Giuseppe Prestipino) oggettività del reale: v. oggettività opinione pubblica (Lelio La Porta) oppio (Eleonora Forenza) opposizione (Lelio La Porta) oratoria (Fabio Frosini) Ordine Nuovo (L’) (Guido Liguori) organico (Giuseppe Prestipino) organismo (Fabio Frosini) organizzazione (Giuseppe Prestipino) Oriani, Alfredo (Vito Santoro) Oriente-Occidente (Silvio Suppa) originale (Fabio Frosini) ortodossia (Fabio Frosini) ottimismo (Lelio La Porta) P pacifismo (Renato Caputo) padre (Valeria Leo) papa laico: v. Croce papa, papato (Vincenzo Robles) Papini, Giovanni: v. Voce (La) paragone ellittico (Fabio Frosini) parassitismo (Vito Santoro) Pareto, Vilfredo (Michele Filippini) parlamentarismo: v. parlamento parlamentarismo nero (Lelio La Porta) parlamento (Silvio Suppa) particulare (Laura Mitarotondo) partito (Michele Filippini) Partito comunista (Guido Liguori) Partito d’Azione (Pasquale Voza) Partito popolare (Marcos Del Roio) Partito socialista: v. socialisti Pascal, Blaise (Lelio La Porta)

ELENCO DELLE VOCI

Pascoli, Giovanni (Antonella Agostino) passato e presente (Fabio Frosini) passione (Eleonora Forenza) passività (Giuseppe Cospito) patria (Manuela Ausilio) pedagogia (Giovanni Semeraro) pedanteria (Jole Silvia Imbornone) persona (Rocco Lacorte) personalità (Chiara Meta) pessimismo (Lelio La Porta) piccola borghesia (Elisabetta Gallo) piccola politica: v. grande politica, piccola politica Piemonte (Raffaele Cavalluzzi) Pirandello, Luigi (Yuri Brunello) Pisacane, Carlo (Raffaele Cavalluzzi) plusvalore (Giuseppe Prestipino) plutocrazia (Lelio La Porta) poesia (Pasquale Voza) polemica (Lelio La Porta) politica (Silvio Suppa) politica estera (Roberto Ciccarelli) politica interna (Roberto Ciccarelli) politica internazionale (Roberto Ciccarelli) polizia (Guido Liguori) popolare (Marina Paladini Musitelli) popolare-nazionale: v. nazionale-popolare popolo (Lea Durante) popolo-nazione (Lea Durante) populismo (Domenico Mezzina) positivismo (Pasquale Voza) potere (Michele Filippini) pragmatismo (Chiara Meta) prassi, praxis: v. filosofia della praxis pratica: v. unità di teoria-pratica Prefazione del ’ (Fabio Frosini) presente: v. passato e presente prestigio (Peter Ives) prevedibilità: v. previsione previsione (Peter Thomas) Prezzolini, Giuseppe (Lelio La Porta) prigione: v. carcere o prigione profitto: v. caduta tendenziale del saggio di profitto progresso (Ludovico De Lutiis) proibizionismo (Derek Boothman) proletariato: v. classe operaia





DIZIONARIO GRAMSCIANO

propaganda (Manuela Ausilio) proprietà (Vito Santoro) prostituzione (Livio Boni) protezionismo: v. liberismo Proudhon, Pierre-Joseph (Fabio Frosini) proverbi (Giovanni Mimmo Boninelli) provincia, provincialismo (Fabio Frosini) psicanalisi (Livio Boni) psicologia (Livio Boni) pubblico (Lelio La Porta) Q quantità-qualità (Giuseppe Prestipino) Quarantotto (Andrea Catone) quistione agraria (Emanuele Bernardi) quistione dei giovani (Giuseppe Prestipino) quistione meridionale (Lea Durante) quistione nazionale (Vito Santoro) quistione politica degli intellettuali: v. intellettuali quistione sessuale (Livio Boni) quistione vaticana (Tommaso La Rocca) R rapporti di forza (Carlos Nelson Coutinho) rappresentati-rappresentanti (Giuseppe Cospito) razionale: v. reale-razionale razionalismo (Lelio La Porta) razzismo (Manuela Ausilio) reale-razionale (Giuseppe Prestipino) realismo greco-cristiano (Jole Silvia Imbornone) realismo storico e politico (Giuseppe Cospito) realtà del mondo esterno: v. noumeno referendum (Lelio La Porta) regolarità (Fabio Frosini) relativismo (Lelio La Porta) religione (Tommaso La Rocca) Restaurazione (Luigi Masella) retorica (Fabio Frosini) revisionismo (Lelio La Porta) Ricardo, David (Fabio Frosini) Riforma (Fabio Frosini) riforma economica (Giuseppe Prestipino) riforma intellettuale e morale (Fabio Frosini) riformismo (Lelio La Porta) Rinascimento (Roberto Dainotto)

ELENCO DELLE VOCI

Risorgimento (Pasquale Voza) ritmo del pensiero (Eleonora Forenza) rivoluzionario (Michele Filippini) rivoluzione (Lelio La Porta) Rivoluzione francese (Lelio La Porta) rivoluzione passiva (Pasquale Voza) rivoluzione permanente (Roberto Ciccarelli) rivoluzione-restaurazione: v. rivoluzione passiva robinsonate (Lelio La Porta) Roma (Andrea Catone) Romanticismo italiano (Domenico Mezzina) romanzo d’appendice: v. letteratura d’appendice Rotary Club (Derek Boothman) Rousseau, Jean-Jacques (Carlos Nelson Coutinho) Russia (Elisabetta Gallo) S Sacro romano impero (Jole Silvia Imbornone) saggio del profitto: v. caduta tendenziale del saggio di profitto Saggio popolare: v. Bucharin salario (Vito Santoro) Salvemini, Gaetano (Marcos Del Roio) san Gennaro (Giovanni Mimmo Boninelli) sarcasmo (Marina Paladini Musitelli) Sardegna, sardi (Domenico Mezzina) Savonarola, Girolamo (Raffaele Cavalluzzi) scetticismo (Manuela Ausilio) schiavitù (Lelio La Porta) Schucht, Giulia: v. Giulia Schucht, Tatiana: v. Tatiana scienza (Derek Boothman) scienza della politica (Carlos Nelson Coutinho) sciopero (Guido Liguori) Scolastica (Lelio La Porta) scuola (Chiara Meta) semplici (Marcus Green) senso comune (Guido Liguori) Sicilia, siciliani (Jole Silvia Imbornone) sindacalismo, sindacati (Vito Santoro) sindacalismo teorico (Fabio Frosini) sinistra-destra (Giuseppe Prestipino) situazione: v. rapporti di forza socialismo (Andrea Catone) socialisti (Silvio Suppa) società civile (Jacques Texier)





DIZIONARIO GRAMSCIANO

società comunista: v. società regolata società politica (Guido Liguori) società regolata (Guido Liguori) sociologia (Michele Filippini) soggettivo, soggettivismo, soggettività (Giuseppe Cacciatore) solipsismo, solipsistico (Fabio Frosini) soprastruttura o sovrastruttura: v. superstruttura, superstrutture Sorel, Georges (Guido Liguori) sovversivismo (Michele Filippini) Spagna (Elisabetta Gallo) Spaventa, Bertrando (Roberto Finelli) specialismo (Michele Filippini) specialista + politico (Lelio La Porta) spirito, spiritualismo (Giuseppe Prestipino) Spirito, Ugo (Roberto Finelli) spirito di scissione (Rocco Lacorte) spirito popolare creativo (Giorgio Baratta) spontaneismo (Marcos Del Roio) spontaneità (Marcos Del Roio) sport (Guido Liguori) Sraffa, Piero (Fabio Frosini) Stalin (Iosif Vissarionovic D=uga&vili, detto) (Andrea Catone) Stati Uniti (Derek Boothman) statistica (Derek Boothman) Stato (Guido Liguori) Stato allargato: v. Stato Stato etico (Guido Liguori) Stato guardiano notturno (Guido Liguori) Stato integrale: v. Stato statolatria (Guido Liguori) storia (Fabio Frosini) storia a disegno (Peter Thomas) storia di partito (Lelio La Porta) storia etico-politica (Pasquale Voza) storicismo (Giuseppe Cacciatore) storicismo assoluto: v. storicismo Strapaese-Stracittà (Domenico Mezzina) strumento tecnico (Jole Silvia Imbornone) struttura (Giuseppe Cospito) struttura ideologica (Guido Liguori) studio (Valeria Leo) studio delle fonti (Fabio Frosini) subalterno, subalterni (Joseph A. Buttigieg) Sud: v. Nord-Sud suffragio universale (Lelio La Porta)

ELENCO DELLE VOCI

superstruttura, superstrutture (Giuseppe Cospito) superuomo (Lelio La Porta) supremazia (Giuseppe Cospito) T Tania (Lea Durante) Tatiana: v. Tania taylorismo (Giorgio Baratta) teatro (Yuri Brunello) tecnica (Derek Boothman) tecnica del pensare (Chiara Meta) tecniche militari (Roberto Ciccarelli) teleologia (Giuseppe Prestipino) teologia (Giovanni Semeraro) teoria-pratica: v. unità di teoria-pratica teratologia (Eleonora Forenza) tipo sociale (Michele Filippini) tirannia della maggioranza (Laura Mitarotondo) titoli di Stato (Vito Santoro) tolleranza: v. intransigenza-tolleranza Tolstoj, Lev Nikolaevic (Jole Silvia Imbornone) totalitario (Renato Caputo) tradizione (Giuseppe Prestipino) traducibilità (Derek Boothman) traduzione (Derek Boothman) trasformismo (Raffaele Cavalluzzi) tre fonti del marxismo (Giuseppe Prestipino) trincee, fortezze e casematte (Roberto Ciccarelli) Trockij (Lev Davidovic Bron&tein, detto) (Andrea Catone) Turchia (Derek Boothman) turismo (Fabio Frosini) U ultima istanza: v. struttura umanesimo assoluto (Fabio Frosini) Umanesimo e nuovo umanesimo (Laura Mitarotondo) umili (Marcus Green) unificazione culturale (Rocco Lacorte) unità di teoria-pratica (Fabio Frosini) universale (Giuseppe Cacciatore) università (Derek Boothman) uomo (Fabio Frosini) uomo collettivo (Rocco Lacorte) uomo del Rinascimento (Laura Mitarotondo) uomo massa (Giorgio Baratta)





DIZIONARIO GRAMSCIANO

(Andrea Catone) Ustica (Jole Silvia Imbornone) utopia (Fabio Frosini)

URSS

V Valentino, Cesare Borgia, detto il (Laura Mitarotondo) valore, teoria del: v. economia velleitarismo (Michele Filippini) Verdi, Giuseppe (Pasquale Voza) Verga, Giovanni (Domenico Mezzina) verismo (Marina Paladini Musitelli) verità (Rocco Lacorte) vero (Rocco Lacorte) Vico, Giambattista (Fabio Frosini) visione del mondo: v. concezione del mondo Voce (La) (Jole Silvia Imbornone) volontà (Fabio Frosini) volontà collettiva (Carlos Nelson Coutinho) volontari (Lelio La Porta) volontarismo (Marcos Del Roio) Volpicelli, Arnaldo (Alessio Gagliardi) W Weber, Max (Michele Filippini)

A

Action française G. torna spesso nei Q su che cosa rappresenti, su che cosa esprima in termini politici e culturali l’Action française. Importanti le riflessioni di Q , , dedicate alla vita nazionale e alla situazione politica della Terza Repubblica francese. Al centro dell’analisi il movimento di opposizione monarchica intransigente, quale fu appunto l’Action française nei primi decenni del Novecento. G. pone l’accento sull’atteggiamento di «giacobino alla rovescia» tenuto da Maurras nel corso della crisi parlamentare francese del  (ivi, ). «I giacobini – egli scrive – impiegavano un certo linguaggio, erano convinti fautori di una determinata ideologia; nel tempo e nelle circostanze date, quel linguaggio e quella ideologia erano ultrarealistici» (ibid.). A differenza del movimento giacobino, l’Action française e il suo leader risolsero in «utopie dei letterati» (ivi, ) la concretezza politica e il consenso ottenuto che avevano segnato quel movimento rivoluzionario. In effetti l’illusione di poter prevedere tutto, in maniera «“minuziosissima”» (ibid.), prescindendo dal movimento reale, impedì a Maurras e al suo movimento ogni possibilità di vera azione politica, dimostrando che, a prescindere dalle formule («“Politique d’abord”», la più famosa), nella sua concezione esistevano «molti tratti simili a quelli di certe teorie formalmente catastrofiche di certo economismo e sindacalismo» (ivi, ). Indirettamente G. evoca il rapporto mito-utopia, che affronta all’inizio del Q  quando spiega come il Principe possa essere letto come «esemplificazione storica del “mi-

to” sorelliano» (Q , , ) in opposizione a ogni «fredda utopia» che, predisegnando un quadro d’azione minuziosamente analitico, impedisce la concreta formazione di una «volontà collettiva» (ivi, ). Se a questo si aggiunge che «l’acre polemica col Vaticano e la riorganizzazione del clero e delle associazioni cattoliche che ne fu una conseguenza, ha rotto il solo legame che l’Action Française aveva con le grandi masse nazionali» (Q , , ), si ottiene la dimostrazione della debolezza politica di Maurras e dell’Action française, l’incapacità di operare in termini di consenso collettivo (non per caso G. definisce l’Action française stessa come «un esercito costituito di soli ufficiali»: ivi, ). BRUNO BRUNETTI V. «Francia», «giacobinismo», «mito», «sindacalismo, sindacati», «Sorel», «volontà collettiva».

Agnelli, Giovanni G. considera Giovanni Agnelli uno di quei personaggi «pratici, di valore indiscusso e solido», meno conosciuti e apprezzati «di quanto talvolta meriterebbero» (Q , , ). I riferimenti ad Agnelli nei Q si concentrano attorno al suo tentativo, risalente al , di introdurre l’YMCA in Italia, proponendo agli operai la trasformazione della FIAT in una cooperativa; tale proposta – ricorda G. – fu fortemente avversata in quanto avrebbe ricondotto la lotta operaia nell’ambito dei meccanismi borghesi privandola, perciò, della sua peculiarità: «Tentativi di introdurre l’YMCA in Italia; aiuti dati dall’industria italiana a questi tentativi (finan-



ALIGHIERI , DANTE

ziamento di Agnelli e reazione violenta dei cattolici). Tentativi di Agnelli di assorbire il gruppo dell’“Ordine Nuovo” che sosteneva una sua forma di “americanismo” accetta alle masse operaie» (Q , , ; il Testo A, in cui il giudizio è già presente in forma più sintetica, è Q , ). G. tornerà sulla questione in Q , ,  (il Testo A è Q , ). Altri riferimenti ad Agnelli riguardano i suoi interventi sui modi di risolvere la crisi mondiale degli anni Trenta. Qui G. si esprime duramente sulla sua capacità di afferrare la sostanza dei problemi in gioco. Commentando una scambio di opinioni tra Agnelli ed Einaudi ospitato dalla “Riforma Sociale” nel , G. osserva che le soluzioni da essi proposte prescindono dal dato fondamentale che la disoccupazione attualmente non è «“tecnica”»: «il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di “lavoratori” e di “industriali”», mentre «il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non “scambia” lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con “ozio” proprio (e ozio nel senso deteriore)» (Q  II, , -). LELIO LA PORTA V. «americanismo e fordismo», «Einaudi», «Ordine Nuovo (L’)».

Alighieri, Dante: v. Dante. agnosticismo In Q , ,  troviamo il termine «agnosticismo» come voce della rubrica Nozioni enciclopediche. Va detto che nelle altre occorrenze ad «agnosticismo» è attribuita una connotazione essenzialmente negativa: in Q , , , a proposito di Otto Bauer, si parla di una posizione religiosamente agnostica che equivale al «più abbietto e vile opportunismo». Il fatto è che in G. il bisogno di una visione del reale decisamente antidogmatica si accompagna sempre con un’altrettanto netta diffidenza rispetto a ogni forma di relativismo conoscitivo ed etico (un esito scettico che del resto, e questo G. lo sapeva bene, era stato spesso addebi-

tato proprio al marxismo: Q , , , ma anche Q  II, .I, ). Da qui, una costante ricerca di equilibrio teorico che porta G. a distinguere accuratamente dogmatismo e agnosticismo, fino a giungere all’individuazione del criticismo come di una posizione media, di un “giusto mezzo” fra i due. Non è un caso, allora, se il termine in questione ricorra proprio in due passi dedicati al metodo critico, ai suoi orizzonti e strumenti: a) in Q , ,  viene etichettata come «agnosticismo» la concezione espressa da Adelchi Baratono, secondo il quale era impossibile, per difetto di obbiettività, un «giudizio di merito sui contemporanei», ovvero una valutazione delle loro posizioni ideologiche; ma se questo fosse vero, appunto, «la critica dovrebbe chiudere bottega» (come si legge nel Testo C: Q , , ); b) in Q , ,  G. tratta dell’«esperantismo» filosofico di chi concepisce la propria concezione del reale come detentrice esclusiva della verità. Questo «esperantismo» dogmatico è avversato dal pensatore sardo, il quale però, significativamente, ritiene necessario precisare: «d’altronde non bisogna pensare che la forma di pensiero “antiesperantistico” significhi scetticismo o agnosticismo o ecclettismo. È certo che ogni forma di pensiero deve ritenere se stessa come “esatta” e “vera” e combattere le altre forme di pensiero; ma ciò “criticamente”»: che era poi, per G., l’atteggiamento proprio della filosofia della praxis (ibid.). DOMENICO MEZZINA V. «critica, critico», «esperanto», «relativismo», «scetticismo».

alta cultura La voce compare per la prima volta nel Q , dove in una nota dal titolo di rubrica Passato e presente G. critica la debolezza politico-culturale dei partiti politici italiani. «Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata [...] Quindi miseria della vita culturale e angustia me-

ALTA CULTURA

schina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello» (Q , , ). A causa di questo scollamento tra istituzioni intellettuali e realtà del paese l’alta cultura (o, a volte, «coltura») italiana fatica a diventare “nazionale”, a differenza di quanto accade in Francia. G. esemplifica il diverso rapporto tra alta cultura e nazione nei due diversi paesi, confrontando la funzione dell’Accademia della Crusca in Italia con quella dell’Accademia degli Immortali in Francia. «Lo studio della lingua è alla base di ambedue: ma il punto di vista della Crusca è quello del “linguaiolo”, dell’uomo che si guarda continuamente la lingua. Il punto di vista francese è quello della “lingua” come concezione del mondo, come base elementare – popolare-nazionale – dell’unità della civiltà francese. Perciò l’Accademia Francese ha una funzione nazionale di organizzazione dell’alta cultura, mentre la Crusca...» (Q , , ). G. sottolinea in più passi l’anomalia di una cosiddetta alta cultura che, come nel caso italiano, non incarna il momento alto dell’attività intellettuale, artistica e scientifica del paese, ma si riduce a fenomeni esteriori e sterili quali la «retorica», la «burocrazia» o il «gesuitismo». Al concetto di alta cultura viene contrapposto spesso quello di «cultura popolare». Questi due livelli rappresentano due momenti distinti all’interno di una possibile dialettica, attuata storicamente dalla filosofia della praxis (Q , , , Testo C). Un tema decisivo e originale del pensiero politico-filosofico gramsciano è infatti la riflessione sul rapporto tra marxismo (o filosofia della praxis) e alta cultura. Come nuova concezione del mondo, il marxismo non avrebbe ancora avuto la possibilità di elaborare un proprio originale livello alto di cultura, anche perché il primo compito che si era dato era stato quello di innalzare il livello culturale delle masse. La questione della formazione e dell’organizzazione di un’alta cultura si pone per G. al momento della creazione di uno Stato, quando è ne-



cessario che ciò avvenga con un «atteggiamento [...] sempre critico e mai dogmatico» (Q , , ). Sempre in tema di rapporto tra cultura e politica, per G. si può stabilire il carattere «repressivo» o «espansivo» di un governo in base alla sua politica culturale. «Un sistema di governo è espansivo quando facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto, quando eleva il livello di cultura nazionalepopolare e rende quindi possibile una selezione di “cime intellettuali” su più vasta area. Un deserto con un gruppo di alte palme è sempre un deserto: anzi è proprio del deserto avere delle piccole oasi con gruppi di alte palme» (Q , , ). Nel Q  G. ritorna sul rapporto tra quantità e qualità in campo culturale. Nel mondo moderno si assiste a una maggiore diffusione della cultura, ma a questo aumento orizzontale, quantitativo, si accompagna anche una crescita verticale, favorita dalla specializzazione del sapere. «La complessità della funzione intellettuale nei diversi Stati si può misurare obbiettivamente dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto più estesa è l’“area” scolastica e quanto più numerosi i “gradi” “verticali” della scuola, tanto più è complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato» (Q , , ). La formazione di un’alta cultura non può avvenire quindi che all’interno di un contesto di democratizzazione del sapere e di un conseguente allargamento della base intellettuale di una società. G. spiega anche come la definizione di alta cultura sia storicamente determinata; di conseguenza, nella modernità «il grande intellettuale deve anch’egli tuffarsi nella vita pratica, diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura [...] l’uomo del Rinascimento non è più possibile nel mondo moderno, quando alla storia partecipano attivamente e direttamente masse umane sempre più ingenti» (Q , , ). COSTANZA ORLANDI V. «concezione del mondo», «cultura», «cultura popolare», «filosofia della praxis», «intellettuali», «lingua», «nazionale-popolare», «Stato».



ALTI SALARI

alti salari

America

G. scrive di alti salari prevalentemente riferendosi agli Stati Uniti, dove mediamente i salari erano più alti di quelli europei, e normalmente limitati alla retribuzione di alcuni operai, non all’intera classe operaia. In Europa, i salari più alti sarebbero serviti per creare un mercato interno (Q , , ). Negli Stati Uniti, gli alti salari pagati nell’industria razionalizzata e taylorizzata di Henry Ford furono il modo per selezionare e monopolizzare gli operai che possedevano una «nuova e originale qualifica psico-tecnica» (Q , , ) e psico-fisica (Q , ,  e Q , , -). Il monopolio di tali operai assicurava al datore di lavoro un vantaggio nella produzione (Q  II, .VII, ) e nella lotta per contrastare il calo tendenziale del saggio di profitto, ma la generalizzazione delle nuove tecniche, con conseguente diffusione del nuovo tipo di operaio, avrebbe abbassato di nuovo i salari (Q , , ). Non tutti gli operai – nota G. – preferivano gli alti salari: sebbene i ritmi e i metodi di lavoro fordisti offrissero sia una ricompensa per un lavoro logorante (Q , , ), sia la possibilità di un tenore di vita «adeguato ai nuovi modi di produzione», essi non necessariamente fornivano i mezzi per «reintegrare» le forze muscolari e nervose consumate (Q , , -; v. anche Q , , ). Accanto alla forza (gli attacchi antisindacali, diffusissimi in quegli anni) e alla coazione, furono gli alti salari a rappresentare il momento della persuasione tipica dell’egemonia; G. osserva infatti che, sempre in quegli anni e negli Stati Uniti, l’egemonia nasceva direttamente dalla fabbrica e che per il suo esercizio occorreva solo una quantità minimale di «intermediari professionali», categoria che, in quel contesto, ancora scarseggiava (Q , , ). A lungo termine, tuttavia, G. ipotizza che le caratteristiche del fordismo, se abbinate alla modifica delle condizioni sociali e dei costumi, avrebbero potuto generalizzarsi (Q , , ).

«America», abbreviazione usuale che rispecchia le ambizioni di dominio degli «Stati Uniti d’America», rappresenta per G. «una data conformazione sociale e un certo tipo di Stato» (Q , , ), terreno di cultura per lo sviluppo egemone dell’«americanismo», vale a dire per l’«americanizzazione» del sistema di vita e di lavoro che dagli Stati Uniti tende a irradiarsi nel mondo, per lo meno in tutto l’Occidente. Non a caso la prima comparsa del lemma si ha in relazione al «fenomeno emigratorio», il quale «ha creato un’ideologia (il mito dell’America)» (Q , , ). Non priva di allusioni mitologiche è la qualifica di «“vergine”», nel fondamentale Q , , attribuita all’America razionalizzatrice e modernizzatrice, «senza “tradizione”, ma anche senza questa cappa di piombo», contrapposta in quanto tale al Vecchio Continente, che è gravato di «classi assolutamente parassitarie» e improduttive (Q , , -). L’ago della bilancia non pende tutto dalla parte del nuovo: «L’assenza della fase europea segnata come tipo dalla Rivoluzione francese, in America, ha lasciato gli operai ancora grezzi» (ivi, ). Riprendendo questo passo nel Q , dedicato ad «americanismo e fordismo», G. scrive: «a ciò si aggiunga l’assenza di omogeneità nazionale, il miscuglio delle culture-razze, la quistione dei negri» (Q , , ). Siamo così avvertiti dei limiti di cui soffre il sistema americano. «America» è per G., sotto molti riguardi, una controfigura dell’Europa, anche se questo rapporto ha ormai cominciato a invertirsi: «non si tratta di una nuova civiltà, perché non muta il carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano» (Q , , ). G. scrive in un’epoca nella quale è ancora ben vivo il significato ideologico che il «fenomeno emigratorio» (Q , , ) riveste per l’America, la cui stessa «nascita», in quanto nazione, è essenzialmente tributaria dei «primi immigrati» anglosassoni, i «pionieri», i quali hanno importato «in America, con se stessi, ol-

DEREK BOOTHMAN V. «americanismo», «egemonia», «fordismo», «salario», «taylorismo».

AMERICA

tre l’energia morale e volitiva, un certo grado di civiltà, una certa fase dell’evoluzione storica europea, che trapiantata nel suolo vergine americano e avendo tali agenti, continua a sviluppare le forze implicite nella sua natura, ma con un ritmo incomparabilmente più rapido che nella vecchia Europa» (Q , , ). Ha radice in questa considerazione la tesi principale di G. sull’America, concernente «il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggiore sforzo collettivo [finora esistito] per creare con una rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e d’uomo» (Q , , ). G. insiste più volte sulla origine intrinsecamente “moderna” della nazione americana, che molto deve alla «moralità dei pionieri» (ivi, ), cioè «di forti individualità in cui la “vocazione laboriosa” aveva raggiunto la maggior intensità e vigore, di uomini che direttamente, e non per il tramite di un esercito di schiavi o di servi, entravano in contatto energico con le forze naturali per dominarle e sfruttarle vittoriosamente» (Q , , ). Nonostante – e in contraddizione con – l’osservazione sopra riportata sullo stato “grezzo” a livello culturale degli operai americani, la «“vocazione laboriosa”» (ibid.) appare costitutiva della società e della mentalità americana, ciò che attraversa tutte le classi sociali. «Il fatto che un miliardario continui a lavorare indefessamente anche sedici ore al giorno, fino a quando la malattia o la vecchiaia non lo costringono al letto, ecco il fenomeno tipico americano, ecco l’americanata più strabiliante per l’europeo medio» (Q , , ). Ritorna qui la questione della “verginità” e della «mancanza di “tradizioni” negli S.U., in quanto tradizione significa anche residuo passivo di tutte le forme sociali tramontate nella storia». Sappiamo che in Europa i «residui passivi» con disperata energia «resistono all’americanismo, perché il nuovo industrialismo li spazzerebbe via spietatamente». «Ma cosa avviene – si chiede G. – nella stessa America? Il distacco di moralità mostra che si stanno creando margini di passività sociale sempre più ampi» (ibid.).



Con il caratteristico andamento dicotomico-dialettico del suo stile di pensiero, G. si appresta a rovesciare la direzione complessiva, apparentemente così lineare, del suo ragionamento. Caratteristica della società americana è la «formazione massiccia sulla base industriale di tutte le superstrutture moderne» (Q , , ). Questo industrialismo spinto e spiccato mostra, dall’interno, molte crepe. Per un verso la “verginità” americana è espressione di una fase ancora “economico-corporativa” dello sviluppo, una fase che G. definisce «(apparentemente) idillica» (Q , , ). G. cita il «prof. Siegfried», che nel suo libro Les États-Unis d’aujourd’hui «ha riconosciuto nella vita americana “l’aspetto d’una società realmente collettivistica, voluto dalle classi elette e accettato allegramente (sic) dalla moltitudine”», ove l’«“allegria”» sarebbe costituita dalla mancanza di «lotta di classe», mentre in un altro libro, quello di Philip, che pure Siegfried loda (scrivendone la prefazione), «si dimostra l’esistenza della più sfrenata e feroce lotta di una parte contro l’altra» (Q , , ). G. affronta con lucido realismo le contraddizioni del «fenomeno americano», altrettanto “obbiettive”, per riprendere la sua espressione, quanto la «portata» del fenomeno stesso (Q , , ). Per altro verso, la freschezza e l’irruenza della “novità” americana appaiono in buona parte già invecchiate, in quanto la «“società industriale”» americana «non è costituita solo di “lavoratori” e di “imprenditori”, ma di “azionisti” vaganti (speculatori) [...] avviene che se il progresso tecnico permette un più ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma “sempre” irrazionalmente agli azionisti e affini. Né oggi si può dire che esistano “imprese sane”. Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa “grandezza” del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è così grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di “folla” (panico, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel “boom”, nel “run” ecc.) e la speculazione è diventata una necessità tecnica, più importante del lavoro



AMERICA DEL SUD

degli ingegneri e degli operai. L’osservazione sulla crisi americana del  appunto questo ha messo in luce: l’esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende “sane” per cui si può dire che “aziende sane” non ne esistono più» (Q  II, , -). A questa involuzione strutturale del «fenomeno americano» si aggiunge e si ricollega, a livello morale e intellettuale, «il distacco che si andrà facendo sempre più accentuato tra la moralità-costume dei lavoratori e quella di altri strati della popolazione» (Q , , -). Si ricollega altresì il diffondersi della «delinquenza» e della violenza, innescate dai «metodi di inaudita brutalità della polizia americana: sempre lo “sbirrismo” crea il “malandrinismo”» (Q , , ). Anche «la mancanza degli intellettuali tradizionali», caratteristica della modernità americana, è cosparsa di trabocchetti; particolare attenzione G. presta alla «formazione di un sorprendente numero di intellettuali negri che assorbono la cultura e la tecnica americana» (Q , , ). La questione negra interagisce con la necessità problematica di «fondere in un unico crogiolo nazionale tipi di culture diverse portati dagli immigrati di varie origini nazionali». Da questo punto di vista tale questione appare una spina nel fianco della nazione americana: «I negri d’America mi pare debbano avere uno spirito di razza e nazionale più negativo che positivo, creato cioè dalla lotta che i bianchi fanno per isolarli e deprimerli; ma non fu questo il caso degli ebrei fino a tutto il ?» (ibid.; v. anche Q , , ). GIORGIO BARATTA V. «americanismo», «americanismo e fordismo», «emigrazione», «Europa», «fordismo», «Stati Uniti», «taylorismo».

America del Sud G. sottolinea la «contraddizione che esiste nell’America del Sud tra il mondo moderno delle grandi città commerciali della costa e il primitivismo dell’interno, contraddizione che si prolunga per l’esistenza di grandi masse di aborigeni da un lato e di immigrati europei dall’altro più

difficilmente assimilabili che nell’America del Nord» (Q , , ). Il suo ragionamento, già dalla scelta lessicale (questione della «disgregazione»), tende a inquadrare l’analisi dell’America del Sud nell’ambito dell’internazionalizzazione della «quistione meridionale», avviata con Q , . G. si chiede: «È latina l’America centrale e meridionale? E in che consiste questa latinità? Grande frazionamento, che non è casuale. Gli Stati Uniti, concentrati e che attraverso la politica dell’emigrazione cercano non solo di mantenere ma di accrescere questa concentrazione [...], esercitano un grande peso per mantenere questa disgregazione, alla quale cercano sovrapporre una rete di organizzazioni e movimenti guidati da loro», come l’Unione panamericana, un movimento missionario cattolico e un’organizzazione bancaria, industriale e di credito panamericana (Q , , ). Riprendendo un concetto proposto nel citato Q , nel configurare la dicotomia Europa-America G. osserva, a proposito dei paesi dell’America centrale e meridionale, che «le cristallizzazioni resistenti ancora oggi in questi paesi sono il clero e una casta militare, due categorie di intellettuali tradizionali fossilizzate nella forma della madre patria europea». E continua: «La base industriale è molto ristretta e non ha sviluppato soprastrutture complicate: la maggior quantità di intellettuali è di tipo rurale e poiché domina il latifondo, con estese proprietà ecclesiastiche, questi intellettuali sono legati al clero e ai grandi proprietari. La composizione nazionale è molto squilibrata anche fra i bianchi, ma si complica per le masse notevoli di indii che in alcuni paesi sono la maggioranza della popolazione. Si può dire in generale che in queste regioni americane esiste ancora una situazione da Kulturkampf e da processo Dreyfus, cioè una situazione in cui l’elemento laico e borghese non ha ancora raggiunto la fase della subordinazione alla politica laica dello Stato moderno degli interessi e dell’influenza clericale e militaresca» (Q , , -). GIORGIO BARATTA V. «America», «Nord-Sud».

AMERICANISMO

americanismo In linea generalissima, l’«americanismo» rappresenta nei Q la dimensione ideologico-culturale o anche etico-politica assunta dal modo di produzione capitalistico nell’epoca a G. contemporanea, mentre «fordismo» ne costituisce la dimensione tecnicoproduttiva. L’espressione sintetica è «Americanismo e fordismo», che compare quale undicesimo tra gli «argomenti principali» elencati per il progetto di «note e appunti» nella prima pagina del Q , e che dà poi il titolo al “quaderno speciale” (monografico) Q . Occorre individuare e separare, a proposito di americanismo, quel che nell’elaborazione gramsciana risulta strettamente connesso con il fordismo da quel che ne è invece almeno relativamente indipendente. Consideriamo qui questo secondo aspetto. Come indica inequivocabilmente il termine, «americanismo» presenta un riferimento territoriale. Al pari di quanto va rilevato per lemmi quali «Oriente-Occidente», «Nord-Sud», «quistione meridionale», la valenza categoriale dell’espressione non è separabile da quella territoriale e viceversa. I due lati sono associabili attraverso la nozione, che però non compare esplicitamente nei Q, di “egemonia americana” nel mondo capitalistico e, più in generale, nel mondo (imperialismo). Un tema-problema appassionante è, da questo punto di vista, per G., il nesso tra Vecchio e Nuovo Continente, che è insieme di quasi-identità culturale («in America non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea»: Q , , ) e di differenza quasi antagonistica («l’America, col peso implacabile della sua produzione economica (e cioè indirettamente) costringerà o sta costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata»: ibid.). È da notare che «americanismo» è espressione polivalente e per certi versi ambigua, in quanto a volte appare come manifestazione, in primo luogo, dell’«ondata di panico» e, per altro verso, del bisogno di imitazione, addirittura “scimmiesco”, che congiuntamente esprime l’Europa nei confronti della «“prepotenza” americana» (ivi, ). «Americanismo» appare,



in contesti simili, più un segno di reazione all’America che di azione americana. Nella primissima fase di elaborazione, perlomeno fino al Q  – nella quale G. lo tematizza senza porlo in connessione con fordismo –, l’americanismo, nonostante l’assenza di «fioritura» superstrutturale, si presenta da solo come il filo rosso dello sviluppo capitalistico dei «tempi moderni», sia in senso economico che politico-culturale. La nota Q , , intitolata Americanismo, come tre altre note dello stesso quaderno, ha carattere strategico perché rappresenta l’irruzione della questione americana nel cuore della prima elaborazione gramsciana della teoria e analisi storica dell’egemonia, e produce altresì l’internazionalizzazione della questione meridionale, che G. da problema nazionale (esemplificato dal «“mistero di Napoli”») eleva simultaneamente a problema europeo, a problema dei rapporti Europa-America, a problema mondiale. Compare qui una considerazione demografica e socio-economica, che fornisce la chiave di volta della “modernità” e “razionalità” dell’americanismo in linea generale e nei suoi rapporti con la civiltà europea: «L’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: “la razionalizzazione della popolazione”, cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La “tradizione” europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali: l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio» (Q , , ; v. Q , , ). La “superiorità” dell’America-americanismo dilaga anche nel fronte culturale. G. si spinge sino a chiedersi se «la filosofia americana» e «la concezione americana della vita» rappresentino un traguardo per il quale «può il pensiero moderno [il materialismo storico, ndr] diffondersi in America, superando l’empirismo-pragmatismo, senza una fase hegeliana» (Q , , ). Il possibile scavalcamento di Hegel non è di poco conto: non si tratta infatti della filosofia di Hegel in quanto tale, ma dei destini della dialettica.



AMERICANISMO

In un’altra nota dedicata all’americanismo G. ne sottolinea il significato in quanto «azione reale, che modifica essenzialmente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale)», contrapponendolo alla filosofia di Gentile, che qualifica come «gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario non le cose, il gesto esterno non l’uomo interiore» (Q , , ; v. Q , , ). È stabilito così il primato dell’azione, cioè dell’«attività pratica», capace di «assorbire le maggiori intelligenze creative» della nazione, in modo tale che «tutte le migliori forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non si può ancora parlare di superstrutture» (Q , , ). G. nel corrispettivo Testo A continua: «Gli americani addirittura [...] hanno creato da ciò una teoria», sicché sarebbe «“poesia” cioè “creazione” solo quella economico-pratica» (Q , , ). La questione qui sollevata è delicata. La liquidazione del gentilianesimo non comporta certo una superiorità complessiva dell’americanismo rispetto ai valori della civiltà europea. Al contrario, G. si chiede se veramente in America «ci sia una creazione, in ogni caso, e d’altronde si potrebbe domandare come mai questa opera “creativa” economico-pratica, in quanto esalta le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi, non assuma anche forme letterarie che la celebrino» (ibid.). Non si tratta solo di letteratura né, come G. precisa nel relativo Testo C, della sorpresa per il fatto che questa America-americanismo pragmatica e azionista «non crea un’epica» (Q , , ). Il problema è cruciale e comporta, proprio in questa fase che rappresenta il culmine dell’“adesione” di G. all’americanismo, anche una sua presa di distanza radicale da esso. Egli infatti scrive: «In verità ciò [la traduzione della creazione pratica in creatività letteraria, ndr] non avviene: le forze non sono espansive, ma puramente repressive e si badi, puramente e totalmente repressive, non solo della parte avversa, ciò che sarebbe naturale, ma della propria parte, ciò che appunto è tipico e dà a queste forze il carattere repressivo» (Q , , ). Siamo al punto di snodo della grandezza e della miseria dell’americanismo, della

sua contraddittorietà, emblematica per i «tempi moderni». Sono molti i limiti e le mancanze: avviene in America l’«elaborazione forzata di un nuovo tipo umano»; gli operai sono «ancora grezzi» perché non hanno dietro di sé qualcosa come la «fase europea segnata come tipo dalla Rivoluzione francese» (Q , , ), e infatti, come G. rileverà più tardi, «l’America non ha ancora superato la fase economico-corporativa, attraversata dagli Europei nel Medio Evo» (Q , , ); la lotta egemonica «avviene con armi prese dal vecchio arsenale europeo e ancora imbastardite» (Q , , ), quindi esse «appaiono e sono “reazionarie”» (Q , , ), ed è per questo che «l’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia» (Q , , ). Con tutto ciò e forse, paradossalmente, anche per questo, razionalità e modernità americane rappresentano un punto di non ritorno, la nuova fase di sviluppo e di scontro a livello di rapporti di produzione e di lotta egemonica. G. ricorda i «tentativi di Agnelli verso l’“Ordine Nuovo”», ma ricorda anche che l’“Ordine Nuovo” «sosteneva un suo “americanismo”» (Q , , ). G. nei Q è sempre prudente, sobrio, analitico; raramente (e solo per grandi scorci o orizzonti generali) programmatico. Non c’è dubbio però che le contraddizioni dell’americanismo inducono a una domanda di fondo: che fare? Più che a una risposta, G. lavora alle condizioni che la rendano possibile. Ma non è facile. Il quadro è per molti versi desolante. Come preciserà meglio nell’unico testo in prima (e unica) stesura del Q , quello introduttivo, dedicato ad «americanismo e fordismo», quest’ultimo risulta «dalla necessità immanente di giungere [...] dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica» (Q , , ). Si tratta di un problema, o meglio del problema, epocale: il socialismo. L’America è avanzata perché il progetto, in essa affermatosi, di «razionalizzare la produzione» per «collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria» (Q , , ) si accompagna alla costruzione di un nuovo

AMERICANISMO

tipo di «Stato liberale» il quale, «giunto con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli» (Q , , ), preme – anche se G. non lo dice esplicitamente, né ne ha la stessa convinzione deterministica che ne aveva o avrebbe avuto Marx – per il suo superamento in una proprietà sociale o collettiva. Il fatto è che la «crisi americana del  [...] ha messo in luce [...] l’esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione», tali «per cui si può dire che “aziende sane” non ne esistono più» (Q  II, , -). Ancora: l’efficienza produttiva è in declino, tanto che si registra la crescita delle «forze di consumo in confronto a quelle di produzione» (Q  II, , ). La «crisi organica» del capitalismo, ben più profonda, ampia e strutturale di quella in ultima analisi congiunturale del , presenta sempre più «fenomeni morbosi» (Q , , ). Insomma: il nuovo è già vecchio. Appare opportuno a questo punto il riferimento a un confronto che G. istituisce tra la capacità critica e autocritica degli intellettuali americani e di quelli europei. Questi ultimi, secondo lui, «hanno già in parte perduto questa funzione [...] sono ridiventati agenti immediati della classe dominante, oppure se ne sono completamente staccati, costituendo una casta a sé, senza radici nella vita nazionale popolare». Diventa tanto più sospetto e infondato l’«antiamericanismo» diffuso in Europa, che è «comico, prima di essere stupido» (Q , , -). G. coglie in castagna «il piccolo borghese europeo» che «ride di Babbitt [titolo del libro di Sinclair Lewis, diffuso in Europa, apprezzato da G. non dal punto di vista letterario e culturale, ma per «la critica dei costumi» (ivi, ) che esso mette in atto, ndr] e quindi ride dell’America». Ma questo piccolo borghese «non può uscire da se stesso, comprendere se stesso come l’imbecille non può comprendere di essere imbecille». Babbitt, come lo descrive Lewis, sarà anche lui un filisteo, ma è «il filisteo di un paese in movimento» (Q , , , Testo B). Secondo G. la reale importanza di questo libro, che fa «cultura» attraverso la «critica dei costumi», è il suo carattere esemplare.



«Significa» che in America «si estende l’autocritica, che nasce cioè una nuova civiltà americana cosciente delle sue forze e delle sue debolezze: gli intellettuali si staccano dalla classe dominante per unirsi a lei più intimamente, per essere una vera superstruttura, e non solo un elemento inorganico e indistinto della struttura-corporazione» (Q , , -). L’analisi diacronica dei Q mostra una progressiva ripresa dell’energia egemonica delle modalità superstrutturali europee e un ridimensionamento della qualità innovativa della «filosofia americana», in particolare del pragmatismo, la cui valutazione da parte di G. fa registrare un drastico ripensamento. Il corpo a corpo che fin dal Q  G. intraprende nei confronti del pensiero di Croce, che significa anche per molti versi un “ritorno” a Hegel, non resta senza influssi sulla valutazione gramsciana degli aspetti “progressivi” dell’americanismo. Del resto, anche nella fase di maggiore apprezzamento dell’americanismo, al livello del Q , ne abbiamo riscontrato le crepe, ben profonde, percepite da G. sia nella dinamica interna all’americanismo, sia per la sua storicità, ancora ingenua e immatura, proprio dal punto di vista di ciò che rappresenta invece la grandezza e la miseria dell’Europa: la sua cultura e la sua tradizione, fucina di un’elaborazione alta delle superstrutture, ma anche veicolo di improduttività e parassitismo. La questione ora accennata apre un quesito di filologia e interpretazione tra i più complessi per la lettura dei Q. Frutto della rielaborazione di un’esperienza significativa, all’epoca dell’“Ordine Nuovo”, di rapporto indiretto ma intenso, anche attraverso il ritorno di operai immigrati, con le novità provenienti dall’America e dall’americanismo, nonché della produttiva stagione di “studi americani” che G., anche fortuitamente, ebbe la possibilità di compiere in carcere prima di potersi accingere alla stesura dei Q, la “scoperta” della dimensione americanista dei tempi moderni rappresenta un Leitmotiv dell’opera carceraria di G. Gli inizi ne sono una testimonianza. La trattazione di temi connessi, dapprima con «americanismo», poi con «americanismo e



AMERICANISMO E FORDISMO

fordismo», mostra infatti fin dal Q  uno sviluppo rapido, impetuoso; poi si acquieta, sino a riproporre con energia questa tematica, dopo sporadici interventi, con il Q . Quando stende il Q , G. aveva ormai abbandonato, a vantaggio di una concezione matura dell’egemonia, alcuni caratteri tendenzialmente ancora meccanicistici nella configurazione del nesso struttura-superstrutture. Grazie all’approfondimento del concetto di egemonia, egli aveva accantonato anche certe precedenti “illusioni”, che potremmo definire produttivistiche, sul primato dell’America e dell’americanismo nei confronti delle tradizioni egemoniche europee. E tuttavia, come dimostra l’ampiezza di articolazione del Q , nonostante e in certo senso in forza della caduta di queste residue illusioni, non si attenua, piuttosto viene esaltata la novità epocale (economica, politica, culturale, demografica, antropologica) dell’americanismo. La complessa vicenda della valorizzazione critica che G. compie dell’americanismo getta luce su un aspetto delicato dell’evoluzione complessiva dei Q. Certamente G. matura il suo pensiero sì da superare progressivamente concezioni non adeguate alla novità concettuale della teoria dell’egemonia. La trattazione di temi americanistici nei primi Q – dal Q  ai Q , ,  e  – non perde però in freschezza e originalità. Al contrario: insieme col ridimensionamento e la correzione di alcuni elementi in essa contenuti, resta intatto il loro carattere fondativo, in certo senso la definitività di determinate acquisizioni. La struttura singolarmente mobile e dinamica dei Q ha una ricaduta particolarmente importante rispetto all’analisi dell’americanismo nel Q , che tra l’altro, staccato dal contesto dell’opera, può indurre a fraintendimenti, perché esso non trascrive passi (precedentemente citati) importanti, ad esempio dei Q  e . Il Q  infatti viene redatto quando G., come abbiamo detto, ha maturato una posizione critica rispetto a residui parzialmente economicistici della sua primitiva impostazione. E tuttavia, nell’unica nota (introduttiva) di nuova stesura del Q , G. si avventura in alcuni degli interroga-

tivi più radicali – e forse ancora vitali, se accuratamente “tradotti” – della sua opera. BIBLIOGRAFIA: BARATTA ; BARATTA, CATONE ; BURGIO ; TRENTIN . GIORGIO BARATTA V. «America», «americanismo e fordismo», «Europa», «fordismo», «Ordine Nuovo (L’)», «pragmatismo», «quistione meridionale», «taylorismo».

americanismo e fordismo «Americanismo e fordismo», espressione paradigmatica, compare come undicesimo degli «argomenti principali» elencati nella prima pagina del Q . È altresì il titolo di uno dei più famosi quaderni “speciali”, il Q , del . In esso confluiscono quasi esclusivamente note (o loro parti) della prima fase di scrittura dei Q, intitolate Americanismo, solo più tardi Americanismo e fordismo, e riguardanti temi di diversa natura, dalla composizione demografica alla questione sessuale, alla questione meridionale, alla taylorizzazione del lavoro nelle industrie fordiste, ad argomenti finanziari e di teoria dello Stato, al rapporto Europa-America ecc. Nel complesso il Q  si presenta come un geniale zibaldone: un carattere che spinge ad attenuare e relativizzare la differenza tra “quaderni speciali” e “miscellanei” e rappresenta un’espressione esemplare dello stile adisciplinare e relazionale, o reticolare, dei Q. La comprensione organica dell’argomento «americanismo e fordismo» comporta sia la sua scomposizione nei suoi singoli elementi costitutivi – «americanismo», «fordismo», «taylorismo» – sia la sua ricomposizione unitaria, di cui qui ci occupiamo. È da notare che, mentre nella prima lettera progettuale alla cognata Tania, del  marzo , G. non vi aveva fatto cenno, nella lettera a Tania del  marzo  egli indica «l’americanismo e il fordismo» come uno dei «tre argomenti» in cui si condensa il suo «piano intellettuale» (LC ). È una novità importante, che implica una modificazione di questo «piano» dalla prima germinazione nel  all’avvio di realizzazione nel . Tra queste due date si colloca un intenso periodo di “studi ameri-

AMERICANISMO E FORDISMO

cani”, tra i quali rilievo particolare ha la lettura e traduzione di gran parte del numero speciale del  ottobre  della rivista tedesca “Die literarische Welt”, dedicato alla letteratura degli Stati Uniti. Non c’è dubbio che l’incontro con i libri di Siegfried, Romier, Philip, dello stesso Ford, con romanzi in traduzione francese come Babbitt di Sinclair Lewis e Il petrolio di Upton Sinclair, con numerosi articoli di rivista, abbia risvegliato un interesse per le grandi novità provenienti dal fordismo e dagli Stati Uniti, che rappresentava un punto fermo già nell’esperienza di G. ordinovista; e che questo rinnovato interesse abbia costituito come un contrappunto, nella genesi delle idee-guida dei Q, alla necessità sofferta di ricognizione nazionale e ai grandi interrogativi suscitati dalla costruzione del socialismo in un paese solo. L’espressione specifica dà il titolo a una nota densa e risolutiva nel Q  (Q , ) e viene riproposta quale “appendice” all’elenco dei «Saggi principali» ideati «per una storia degli intellettuali italiani» all’inizio del Q . Dopodiché, a parte Q ,  e Q , , almeno apparentemente essa tace fino a riesplodere nel Q . Nel suo complesso il Q  si limita a trascrivere, con poche variazioni, soprattutto note dei primi Q. Vengono tralasciate, probabilmente anche per motivi tecnici, note di rilevante valore (la cui assenza nel “quaderno speciale” ha un certo peso). L’articolazione del Q  è notevolmente rapsodica. La prima nota, introduttiva, l’unica di nuova stesura, fa compiere tuttavia all’intera trattazione dell’argomento un salto qualitativo tale da giustificare il ruolo che esso ha nel “piano” dei Q. Si comincia col dichiarare che il quaderno affronterà una «serie di problemi che devono essere esaminati sotto questa rubrica generale e un po’ convenzionale di “Americanismo e Fordismo”» (Q , , ). Siamo così avvertiti che ci troviamo in presenza di un’espressione non immediatamente perspicua e significativa, in certo modo ellittica. Vero è che la «serie di problemi» indicata sembra approfondire ed estendere la portata di «americanismo e fordismo» rispetto al significato che esso ha nei primi quaderni. Ciò che conta è che in questa nota G. precisa le



ragioni dell’importanza epocale di «americanismo e fordismo»: esso rappresenta la risposta capitalistica al problema essenziale dei tempi moderni, lo stesso che, sotto altre condizioni, dà origine alla necessità del socialismo, cioè la «necessità» di un’«economia programmatica»; è ancora incerto se questa risposta «possa determinare uno svolgimento graduale del tipo, altrove esaminato, delle “rivoluzioni passive” proprie del secolo scorso o se invece rappresenti solo l’accumularsi molecolare di elementi destinati a produrre un’“esplosione”, cioè un rivolgimento di tipo francese» (ivi, -). È da rilevare la consapevolezza che la potente originalità e l’incerta prospettiva che caratterizzano «americanismo e fordismo» vanno contestualizzate «nelle condizioni contraddittorie della società moderna, ciò che determina complicazioni, posizioni assurde, crisi economiche e morali a tendenza spesso catastrofica, ecc.» (ivi, ). È un avvertimento importante, che spinge ancor più alla cautela, atteggiamento con cui si muove G., dal suo punto di osservazione privilegiato per un verso, per l’oggettiva distanza critica che lo caratterizza, per l’altro però inficiato dall’enorme precarietà delle informazioni e delle conoscenze. Significativa dello “zibaldone” che caratterizza la scrittura carceraria di G., e che non nega ma qualifica l’energia sistematica del suo approccio, è «il registro di alcuni dei problemi più importanti o interessanti», suscitati da americanismo e fordismo, «anche se a prima vista paiono non di primo piano» (ibid.). Si tratta di questioni economiche (centralità della produzione industriale; tentativo «estremo», grazie al fordismo, di «superare la legge tendenziale della caduta del saggio del profitto»; i «così detti “alti salari” pagati dall’industria fordizzata e razionalizzata»); questioni demografiche (quale ricaduta avrà sull’Europa la «“razionalizzazione”» della composizione demografica, «condizione preliminare», dirà G. nella nota successiva, della modernità della società americana?); questioni antropologiche («quistione sessuale» ed «enorme diffusione» della psicoanalisi); questioni di morale pubblica e privata («il Rotary Club e la Massoneria»);

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ANALISI DELLA SITUAZIONE

infine, e soprattutto, questioni di “grande politica”. Abbiamo già citato il dilemma «rivoluzione passiva»-«rivolgimento di tipo francese». A esso si aggiunge un quesito che riprende fondamentali dicotomie che G. propone nei Q, in alcuni casi accentuandone il carattere oppositivo (guerra manovrataguerra di posizione; strutture-superstrutture, che G. tende a tradurre in quella economia-ideologia o egemonia; società civile-Stato, ecc.): la «quistione», cioè, «se lo svolgimento debba avere il punto di partenza nell’intimo del mondo industriale e produttivo o possa avvenire dall’esterno, per la costruzione cautelosa e massiccia di un’armatura giuridica formale che guidi dall’esterno gli svolgimenti necessari dell’apparato produttivo» (ivi, -). Quali prospettive apre «americanismo e fordismo» dal punto di vista dei rapporti di classe? G. evidenzia come «un’ondata di panico» e per altro verso un impulso “scimmiesco” investano gli «elementi che incominciano a sentirsi socialmente spostati dall’operare (ancora distruttivo e dissolutivo) della nuova assise in formazione» (Q , , ). E «le forze subalterne»? Esse, «che dovrebbero essere “manipolate” e razionalizzate secondo i nuovi fini, resistono necessariamente». Può mutare questa situazione? Secondo G. il fatto «che un tentativo progressivo sia iniziato da una o altra forza sociale non è senza conseguenze fondamentali» (Q , , ). La leva del comando è saldamente in mano ai monopoli e al loro Stato. Ma fino a quando? La conclusione del discorso è inequivocabile: «Non è dai gruppi sociali “condannati” dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi “devono” trovare il sistema di vita “originale” e non di marca americana, per far diventare “libertà” ciò che oggi è “necessità”» (Q , , ). GIORGIO BARATTA V. «alti salari», «americanismo», «fordismo», «ideologia», «massoneria», «psicanalisi», «quistione sessuale», «rivoluzione passiva», «Rotary Club», «società civile», «Stato», «taylorismo».

analisi della situazione: v. rapporti di forza. anarchia Nel “biennio rosso” - sull’“Ordine Nuovo” G. aveva ripetutamente polemizzato con anarchici e libertari, rivendicando la positività del ruolo dello Stato nella costruzione teorica e pratica del socialismo, e aveva ripetutamente criticato l’«anarchia» come utopia contigua al liberalismo (Lo Stato e il socialismo,  giugno- luglio , in ON ), dottrina disorganica ed eclettica (Socialisti e anarchici, - settembre , in ON  ss.), movimento di carattere massonico perché basato sull’amicizia e sul prestigio personale invece che sulla disciplina politica che nasce dalla discussione razionale dei problemi (Soviet e consigli di fabbrica, - aprile , in ON -), «concezione sovversiva elementare» delle classi oppresse ma anche vero modo d’essere della borghesia (Discorso agli anarchici, - aprile , in ON  ss.). E così via. Negli scritti carcerari G. non parla dell’anarchia intesa come ideologia politica. Egli certo continua a seguire il fenomeno («E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i “nichilisti” russi sono da considerarsi partito di centro, e così perfino gli “anarchici” moderni»: Q , , ). Ma i pochi cenni a esso sono perlopiù indiretti, derivanti dalla trascrizione di testi altrui, come nel caso del brano trascritto da una lettera di Riccardo Bacchelli sul suo romanzo Il diavolo al Pontelungo (Q , , - e il relativo Testo C: Q , , -). Per il resto «anarchia» appare come sinonimo di disordine di una situazione politica e ideologica: «anarchia feudale», ad esempio (Q , , ; ma gli esempi sono molti), o «anarchia giudaica» o «cristiana» (Q , , ); ma anche anarchia «morale» (ibid.), «sentimentale» (Q , , ) ecc. Accenni più interessanti sono riscontrabili nella discussione di alcune tesi di Michels. Scrive G.: «i “movimenti” antiautoritari, anarchici, sindacalisti-anarchici, diventano “partito” perché l’aggruppamento avviene intorno a personalità “irresponsabili” organizzativamente, in un certo senso “cari-

APOLITICISMO , APOLITICITÀ

smatiche”» (Q , , ). Le espressioni «sindacalisti anarchici», «sindacalismo anarchico», «tendenza politica anarchicosindacalista» o formulazioni simili, che ricorrono più volte (ad esempio Q , ,  e Q , , ) rimandano al cosiddetto anarcosindacalismo di ispirazione soreliana, che G. discute teoricamente nei Q come «sindacalismo teorico» (ad esempio Q , , ). GUIDO LIGUORI V. «capo carismatico», «liberalismo», «Michels», «massoneria», «Ordine Nuovo (L’)», «sindacalismo teorico», «Sorel».

anarco-sindacalismo: v. sindacalismo teorico.

me e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo». La questione cruciale della transizione a un industrialismo socialista, cioè a un «nuovo ordine [...] non di marca americana» (Q , , ), è sostanzialmente l’ipotesi del passaggio da una storia fatta di coercizioni di «inaudita brutalità», avvenute «per imposizione di una classe su un’altra [...] gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli, i refrattari» (Q , , ), a più razionali, progressive, comunitarie o comuniste forme di «autocoercizione» delle masse lavoratrici (Q , , ).

animalità e industrialismo Nel manoscritto originario “Animalità” e industrialismo dava il titolo a Q , , poi cancellato e sostituito con Americanismo e fordismo. Le LC testimoniano di un rapporto ricco e intenso di G. non solo con gli animali, come con le piante e con la terra, ma con la sua stessa «esistenza animale e vegetativa» (LC , a Iulca,  agosto ). La pressoché impossibile, tuttavia straordinaria, per molti versi “sublime” impresa comunicativa educativa con i propri figli lontani, è attraversata dalla dialettica natura-civiltà (o storia), pertanto da «animalità e industrialismo», simbolizzata dalle opposte e complementari figure dell’amico degli animali e della natura, e del «costruttore». Con una movenza che ricorda il Freud del Disagio della civiltà, G. osserva in Q , , : «L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di esattezza, di precisione». Nella trascrizione in Q , , - il passo acquista nuovi elementi: «La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento “animalità” dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide nor-



GIORGIO BARATTA V. «americanismo», «libertinismo», «taylorismo».

Anti-Croce: v. Croce. antimachiavellismo: v. machiavellismo e antimachiavellismo. anti-nazionale: v. nazionale-popolare. antiprotezionismo: v. liberismo. antisemitismo: v. ebrei. antistoria: v. storia. antropologia: v. filosofia della praxis. apoliticismo, apoliticità Secondo G. nel popolo italiano non era radicata alcuna «tradizione di partito politico di massa» (Q , , ). L’apoliticità è descritta come tipica soprattutto della piccola borghesia; essa permetteva a qualunque avventuriero di trovare un seguito di decine di migliaia di uomini ed è quindi tra i fattori che possono spiegare la «relativa popolarità “politica”» (ivi, ) di D’Annunzio, da cui ci si poteva aspettare «tutti i fini immaginabili, dal più sinistro al più destro» (ivi, ). In Q ,  si precisa invece che l’apoliticismo caratterizza le classi subalterne e trova un corrispettivo negli strati dominanti della po-



APORIA

polazione in quel «modo di pensare che si può dire “corporativo”» (ivi, ). A causa dell’apoliticismo e della «passività tradizionale» delle masse popolari è relativamente facile, secondo G., reclutare «volontari», i quali hanno sempre composto gli stessi partiti: questi ultimi, a eccezione della destra storica di Cavour e del Partito d’Azione, infatti non sono stati formati «mai o quasi di “blocchi omogenei sociali”» (Q , , ). D’altronde una variante dell’«“apoliticismo” popolare» è il «“pressappoco” della fisionomia dei partiti tradizionali» (Q , , ); nati «sul terreno elettorale», essi non furono una «frazione organica delle classi popolari», ma un’accolita di «galoppini e maneggioni elettorali», nonché di «piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia» (ibid.). Per quanto concerne poi i grandi industriali, essi per G. «non sono [...] “agnostici” o “apolitici” in qualsiasi modo» (Q , , ): non hanno un loro partito ma, per mantenere un determinato equilibrio, ne sostengono con i loro mezzi di volta in volta l’uno o l’altro, a eccezione del «solo partito antagonista, il cui rafforzamento non può essere aiutato neppure per mossa tattica» (ibid.). Se «apoliticismo animalesco» è detto l’individualismo (Q , , ), segno di apoliticità sono anche le manifestazioni del campanilismo e del cosiddetto «“spirito rissoso e fazioso”» (Q , , ), entrambi superati solo grazie all’allargamento degli «interessi intellettuali e morali» del popolo nella vita politica di partito, ma riemersi, al venir meno di questa, nel «“tifo campanilistico” sportivo» (ibid.). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «Cavour», «partito», «Partito d’Azione», «sport», «volontari».

aporia Il lemma compare nei Q in una sola nota (Q , , ), all’interno della rubrica Nozioni enciclopediche, in cui G. intendeva raccogliere, oltre che «nozioni enciclopediche propriamente dette, motivi di vita morale, argomenti di cultura, apologhi filosofici», anche «spunti per un dizionario di politica e

critica» (Q , , ). La trattazione gramsciana del lemma sembra infatti rispondere a un’esigenza più compilativa che teorica. G. definisce l’aporia prima semplicemente come «dubbio», poi come «nesso di pensiero ancora in formazione, pieno di contraddizioni che aspettano una soluzione», giungendo ad affermare che «pertanto l’aporia può risolversi, come ogni dubbio, positivamente e negativamente» (Q , , ). G., dunque, prima equipara genericamente l’aporia al dubbio, poi elabora una definizione non solo distante dal significato etimologico del termine (“passaggio impraticabile”, “strada senza uscita”), ma anche dal senso prevalente che esso ha assunto nella storia del pensiero filosofico (mancanza “strutturale” di una soluzione). G., infatti, sembra concepire l’aporia unicamente come un “non ancora” e dunque considerare l’assenza di una soluzione soltanto come fase transitoria e caduca all’interno dello svolgimento di un «pensiero in isviluppo», ancora in formazione. L’importanza di questa nota, allora, appare legata, più che alla pregnanza della definizione in sé, a quanto essa ci dice di G. e del «pensiero in isviluppo» nei Q con implicita valenza autoriflessiva. Pur nella forma aperta e per alcuni versi frammentaria, il pensiero si produce nel carcere sempre come svolgimento, processo, tensione dialettica alla risoluzione di contraddizioni non ancora risolte che non ammette teoricamente aporie irresolubili. ELEONORA FORENZA V. «dialettica», «ritmo del pensiero», «tecnica del pensare».

apparato egemonico Fin dalle prime note in cui parla di egemonia, G. introduce anche il riferimento all’«apparato egemonico», espressione non molto presente, ma che pure compare in vari quaderni (Q , , ,  e ) di epoca diversa, compresi due testi di seconda stesura (Q  II,  e Q , ). Nel caso della nota del Q , la frase che contiene il riferimento all’apparato egemonico non compare nel relativo Testo A (Q , , ).

APPARATO EGEMONICO

G. inizia a elaborare il suo concetto di egemonia, nuovo rispetto a quello usato nel periodo precarcerario, fin dal Q  (-): in Q ,  compare per la prima volta il termine; in Q , ,  (Hegel e l’associazionismo) inizia a delinearsi un nuovo concetto di Stato («lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche “educa” questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati»); in Q ,  G. si sofferma sulla storia politica francese e “mette al lavoro” il concetto di egemonia, dandone in corso d’opera anche una delle “versioni” fondamentali: «L’esercizio “normale” dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica» (ivi, ). Poche righe più sotto compare l’espressione «apparato egemonico»: «Nel periodo del dopoguerra – prosegue G. –, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile» (ibid.). È un Testo A. L’ultima frase, quella che qui interessa, la troviamo quasi eguale nel Testo C (datato -): «Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio» (Q , , ). L’apparato egemonico appare dunque subito fondamentale per l’esercizio dell’egemonia: il suo screpolarsi fa tutt’uno con la crisi della stessa. Tale concetto sembra anche essere il trait d’union tra il concetto di egemonia e quello, in via di formazione, di «Stato integrale» e offre una base materiale alla concezione gramsciana dell’egemonia, non assimilabile a una concezione idealistica, culturalistica o liberale. Ma che cosa è l’«apparato egemonico»? Come funziona? G. non risponde direttamente a queste domande, ma una serie di “spie” presenti in alcuni Testi B offrono qualche indicazione. In Q , ,  scrive: «Unità dello Stato nella distinzione dei poteri: il Parlamento più legato alla società civile, il potere giudiziario tra Governo e Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta (anche contro il Governo). Naturalmente tutti e

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tre i poteri sono anche organi dell’egemonia politica, ma in diversa misura: ) Parlamento; ) Magistratura; ) Governo. È da notare come nel pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze della amministrazione della giustizia: l’apparato egemonico è più sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi anche gli arbitri della polizia e dell’amministrazione politica». L’apparato egemonico è collegato all’articolazione statuale propriamente detta. Ma il concetto di Stato integrale ancora non sembra pienamente operante. Ancora una volta «apparato egemonico», come in Q , , appare contestuale all’attenzione volta alla formazione dell’opinione pubblica, certo non lasciata a una volatile “battaglia delle idee”, ma alla cura di una precisa «struttura» (altrove G. parla di «struttura ideologica» per indicare tutto ciò che forma l’«opinione pubblica»). Nello stesso Q  infatti leggiamo: «in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o più prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo-coercitivo» (Q , , ). L’«apparato egemonico» è una «società particolare» (formalmente «privata»), che diviene il corrispettivo dell’«apparato governativo-coercitivo» dello «Stato integrale»: «forza» e «consenso» hanno entrambi i rispettivi apparati, lo «Stato integrale» come unità-distinzione di società civile e Stato tradizionalmente inteso è ormai delineato. Un passo ulteriore è compiuto da G. nel Q , dove più esplicita è la problematica dello Stato: «La discussione su la forza e il consenso ha dimostrato come sia relativamente progredita in Italia la scienza politica [...] Questa discussione è la discussione della “filosofia dell’epoca”, del motivo centrale della vita degli Stati nel periodo del dopoguerra. Come ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli Stati del mon-

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ARBITRIO

do?» (Q , , ). L’«apparato» si è disgregato soprattutto «perché grandi masse, precedentemente passive, sono entrate in movimento», sia pure «in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva» (ibid.). La ricostruzione è affidata a una combinazione di forza e consenso. Anche il fascismo con la sua «illegalità» è stato funzionale al ripristino di un nuovo «apparato egemonico»: «Il problema era di ricostruire l’apparato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avvenire senza la forza: ma questa forza non poteva essere quella “legale”, ecc.» (ivi, ). Infine, in Q  II,  leggiamo – subito dopo la nota affermazione per cui «Ilici avrebbe fatto progredire [effettivamente] la filosofia [come filosofia] in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica» – l’accenno più maturo al concetto di «apparato egemonico», aggiunto in seconda stesura: «La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con linguaggio crociano: quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l’introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica» (ivi, ). Qui apparato egemonico e ideologia sono esplicitamente legati. Un «apparato» serve per creare una «nuovo terreno ideologico», per affermare una «riforma filosofica», una «nuova concezione del mondo». La lotta tra diverse egemonie è aperta, ma il ruolo che vi gioca lo Stato nel passaggio dei primi decenni del Novecento è delineato in tutta la sua centralità. GUIDO LIGUORI V. «concezione del mondo», «divisione dei poteri», «dopoguerra», «egemonia», «ideologia», «opinione pubblica», «Stato», «struttura ideologica».

arbitrio In G. il concetto di arbitrio è in relazione a quelli di necessità e razionalità. Esso coincide con il “momento” storico del «“particula-

re”» o dell’«irrazionale» in quanto «lotta» contro il «generale», il «razionale» (già affermato o affermantesi) e «si impone anch’esso in quanto determina un certo sviluppo del generale e non un altro». G. precisa che va «inteso per irrazionale ciò che non trionferà in ultima analisi, [...] ma che in realtà è razionale anch’esso perché è necessariamente legato al razionale, ne è un momento imprescindibile» (Q , , -). È del pari arbitraria quella filosofia o ideologia che non è «organica», che non «corrisponde a necessità obbiettive storiche» (Q , , ), che non è «“utile” agli uomini per allargare il loro concetto della vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa» (Q , , ). «Solo la lotta [...] dirà ciò che è razionale o irrazionale» (Q , , ). L’arbitrio, in quanto legato al razionale, ha una realtà o efficacia pratica. G. distingue come «arbitrio individualistico» ciò che non «si generalizza» e che è in contrasto con l’«“automatismo”» (o «libertà di gruppo»). Tuttavia, «se l’arbitrio si generalizza, non è più arbitrio ma spostamento della base dell’“automatismo”, nuova razionalità» (Q  II, , -). In questo contesto acquista rilievo la prassi rivoluzionaria: ogni «forza innovatrice [...] è sempre razionalità e irrazionalità, arbitrio e necessità, è “vita”» (Q  II, .XIV, ). Sarà da vedere se riuscirà a far prevalere il suo carattere di elemento «storicamente necessario» (Q , , ) diventando nuova razionalità. «Questo è il nesso centrale della filosofia della prassi»: «il punto in cui [...] cessa dall’essere “arbitraria” e diventa necessaria-razionale-reale» in quanto tende «a modificare il mondo», «si attualizza, vive storicamente, cioè socialmente e non più solo nei cervelli individuali» (Q  II, , ). Tutto ciò spiega perché il termine “arbitrio” e l’aggettivo corrispondente siano spesso posti da G. fra virgolette, a denotarne il senso di relativo (storico) e non di assoluto. ROCCO LACORTE V. «necessità», «organico», «particulare», «razionalismo», «regolarità».

architettura Il tema dell’architettura si inserisce nei Q a proposito del dibattito sul rapporto tra



ARDITI

valore estetico e funzione pratica dell’opera d’arte, sulla scorta dell’impostazione idealistica e crociana del problema. «Certo è che l’architettura pare di per sé, e per le sue connessioni [immediate] col resto della vita, la più riformabile e “discutibile” delle arti» (Q , , ). Il retroterra problematico della questione è rappresentato evidentemente dal concetto crociano di autonomia dell’arte, un concetto che per converso agisce anche in quella «deviazione infantile della filosofia della praxis» (di cui il Saggio popolare di Bucharin è espressione: Q , , ), secondo la quale «quanto più si ricorre a oggetti “materiali” tanto più si è ortodossi» (ibid.). L’architettura è un’arte particolare, sia per il suo rapporto con la tecnica, sia perché è «“collettiva”» non solo come «“impiego”» ma come «“giudizio”», e per queste ragioni ha raggiunto prima delle altre arti il moderno gusto del bello, ossia il «“razionalismo”» (Q , , ). Il suo carattere collettivo e la sua immediata utilità pratica, unite al legame strumentale stretto con i mezzi tecnici e le conoscenze teoriche che la presuppongono, fanno dell’architettura, per l’autore dei Q, un modello per le altre arti. Ma il dilemma del rapporto tra estetica e funzione resta in G. irrisolto, e proprio a proposito dell’architettura esso traspare singolarmente. Da un lato, infatti, egli ritiene che «una grande arte architettonica può nascere solo dopo una fase transitoria di carattere “pratico”», alludendo alla circostanza che il carattere pratico sia solo un primo livello dell’elaborazione del concetto di arte, un livello dal quale è necessario sollevare l’arte stessa (Q , , ); ma poi, d’altro canto, auspica che, data la capacità di anticipazione che l’architettura ha mostrato rispetto alle altre arti di farsi razionale, cioè adeguata a un indirizzo sociale prestabilito, sarebbe necessario che la letteratura la imitasse, per diventare «letteratura “secondo un piano”, cioè la letteratura “funzionale”, secondo un indirizzo sociale prestabilito» (Q , , ). In questo ambito, nel quale G. si muove con incertezza, la riflessione sull’architettura si apre a un più generale discorso sugli scopi dell’arte e sul rapporto tra arte e di-

mensione sociale, rispondendo preliminarmente all’eventuale obiezione che una simile proposta sia lesiva della libertà dell’espressione artistica: «La coercizione sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La coercizione, l’indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla più: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate [...] Se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma “rivelazione” di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato [...] Mi pare che il concetto di razionalismo in architettura, cioè di “funzionalismo”, sia molto fecondo di conseguenze di principi di politica culturale» (ivi, -). LEA DURANTE V. «arte», «coercizione», «razionalismo».

arditi In merito alla «quistione dell’arditismo», G. evidenzia i limiti di un’eventuale applicazione del modello del rapporto tra esercito e arditi alla scienza politica. A eccezione della Francia, la composizione sociale del cui esercito viene analizzata in Q , , , la funzione tecnica di arma speciale è stata svolta effettivamente dagli arditi in tutti gli eserciti della prima guerra mondiale, dove il «nuovo esercito di volontari» ha formato come «un velo tra il nemico e l’esercito di leva» (ibid.). La funzione politico-militare però sarebbe stata attribuita agli arditi solo in «paesi politicamente non omogenei e indeboliti» (Q , , ) e se non presupponeva un esercito totalmente inerte, la sua esistenza era comunque segno della passività e della «relativa demoralizzazione» (ivi, ) della massa militare. Commentando in Q , ,  una dichiarazione di Italo Balbo, G. nota che, seppure volontariato e arditismo di guerra abbiano avuto pregi storici indiscutibili, essi rappresentano infatti solo «una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali» (Q , , ), una soluzione di autorità, che troverebbe la legittimazione “formale” del consenso nei migliori, laddove



ARISTOTELE

però per «costruire storia duratura» servirebbero «le più vaste e numerose energie nazionali-popolari» (Q , , ). L’arditismo moderno sarebbe proprio della guerra di posizione così come si è presentata nel -, ma anche precedentemente la guerra di movimento (con la cavalleria e le armi celeri in generale) e quella di assedio o di posizione (nel servizio di pattuglie) contenevano elementi che potevano svolgere una funzione di arditi. Però, secondo G., la guerra di movimento e di manovra sarebbe propria solo di alcune classi sociali e d’altra parte lo stesso arditismo avrebbe un’importanza tattica diversa a seconda della classe di appartenenza, visto che chi non ha ampie disponibilità finanziarie e deve rispettare orari fissi sul lavoro non può permettersi «organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate» (Q , , ). Secondo G. non si dovrebbero quindi emulare i metodi di lotta delle classi dominanti: allorché in un’organizzazione statale indebolita come un esercito infiacchito si formano organizzazioni armate private, sarebbe sciocco rispondere all’arditismo con l’arditismo. Secondo l’autore dei Q sarebbe stupido inoltre nell’arte politica fossilizzarsi sul modello militare: la politica dovrebbe invece «essere superiore alla parte militare», dacché d’altronde solo «la politica crea la possibilità della manovra e del movimento» (ibid.). Con vari esempi tuttavia G. ammette che in alcune «forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante» (Q , , ), l’arditismo richiede «uno sviluppo tattico originale», per il quale l’esperienza di guerra può costituire uno stimolo, ma non può essere tuttavia un modello. In una breve nota del Q  è illustrato nello specifico il parallelo tra la funzione svolta dagli arditi nei confronti dell’esercito e quella politica assunta dall’intellettuale (Q , , ): G. stigmatizza il «volontarismo» degli arditi che non hanno dietro fanteria e artiglieria, espressione del «linguaggio dell’eroismo retorico» (Q , , ), e quello degli intellettuali senza massa, mentre di contro ritiene auspicabile che gli intellettuali (di massa), le «“avanguardie”» e gli arditi lavorino per sviluppare i blocchi sociali omoge-

nei che esprimono anziché per «perpetuare il loro dominio zingaresco» (Q , , ). Nel Testo C, in cui le modifiche e le variazioni rispetto al Testo A sono consistenti, si distingue anche un volontarismo che «teorizza se stesso come forma organica di attività storico-politica» (Q , , ) e che adopera un linguaggio superomistico atto a esaltare le «minoranze attive come tali», da quello che è concepito solo come «momento iniziale di un periodo organico da preparare e sviluppare, in cui la partecipazione della collettività organica, come blocco sociale, avvenga in modo completo» (ibid.). In Q , ,  il rapporto passività-volontariato porta la trattazione dell’arditismo nell’ambito delle riflessioni sulla rivoluzione passiva: il rapporto tra i soldati di leva e i volontari-arditi e quello tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento è paragonato nel Risorgimento a quello tra partiti politici tradizionali e movimenti democratici-demagogici di massa, la cui forza «“estemporanea”» ottenne nell’immediato, «con capi di fortuna» (ivi, ), risultati maggiori, che furono però successivamente incamerati dai moderati. JOLE SILVIA IMBORNONE V. «intellettuali», «guerra», «rivoluzione passiva», «volontari», «volontarismo».

Aristotele La questione filosofica alla quale G. associa Aristotele è quella dell’«“oggettività esterna del reale”» (Q  II, , ), la quale, a sua volta, è strettamente legata alla tematica kantiana della cosa in sé o noumeno. Secondo G. il concetto di cosa in sé deriva dall’idea dell’oggettività esterna del reale, propria del realismo greco-cristiano che ha i suoi massimi esponenti in Aristotele e Tommaso; questo nesso porta G. a concludere «che tutta una tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neo-kantiana o neo-critica» (ibid.). Nel Q  G. riprende il tema sottolineando l’accordo esistente fra cattolicesimo e aristotelismo sulla questione dell’«oggettività del reale» (Q , , ). Questo accordo va esteso anche al principio di autorità che legava strettamente fra loro la Bibbia e Aristo-

ARTE

tele, consentendo agli «scienziati» dell’epoca di pervenire a conclusioni la cui arbitrarietà e bizzarria contrastavano in modo evidente «con le osservazioni sperimentali del buon senso» (Q , , ). Soltanto l’adozione di un’abbondante dose di buon senso nel corso dei secoli XVII e XVIII permise di mettere in discussione tale principio (Q  II, , ). Due altre occorrenze di Aristotele nei Q vanno prese in considerazione per il loro rilievo critico e al tempo stesso ironico. Nel primo caso G. ricorda che Croce si sente legato fortemente ad Aristotele e Platone, «ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò appunto è da ricercare il carattere più rilevato della filosofia del Croce» (Q , , ). Nel secondo G. ironizza sulle teorie di Loria relative all’emancipazione dei salariati di fabbrica attraverso l’uso degli aeroplani (Q , , ), ricordando che Aristotele suggeriva le acropoli per i governi oligarchici e tirannici e le pianure per i governi democratici (Q , , -). LELIO LA PORTA V. «buon senso», «Croce», «Loria», «materialismo», «noumeno», «oggettività».

armi e religione Armi e religione è il titolo di un Testo B di Q , in cui G. scrive: «Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie altre formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia eticopolitica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode» (Q , , -). La “formula” è dunque letta da G. nell’ambito del suo ripensamento della politica come insieme di forza e consenso: il moderno «Stato integrale», con la consapevolezza però che al tempo di Guicciardini «la religione era il consenso e la Chiesa era la Società civile, l’apparato di egemonia del gruppo dirigente, che non aveva un apparato proprio, cioè non aveva una propria organizzazione culturale e intellettuale, ma sentiva co-

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me tale l’organizzazione ecclesiastica universale» (ivi, ). Se le «armi» indicano dunque la «forza», la coercizione, lo Stato stricto sensu, la «“religione”» è intesa in senso lato, come ideologia diffusa, senso comune, concezione del mondo, secondo il significato che G. elabora anche avendo presente «ciò che il Croce chiama “religione” cioè una concezione del mondo con un’etica conforme» (Q  II, .V, ): essa sta cioè a indicare il momento della sovrastruttura ideologica nell’ambito dei processi di funzionamento del potere. Il seguito della nota del Q  contiene un rimando gramsciano all’«iniziativa giacobina», che sentì il bisogno di istituire una religione laica, il «culto dell’“Ente supremo”», una religione di Stato, nell’ambito dello sforzo teso a «creare identità tra Stato e società civile», ma anche «prima radice dello Stato moderno laico, indipendente dalla Chiesa, che cerca e trova in se stesso, nella sua vita complessa, tutti gli elementi della sua personalità storica» (Q , , ). GUIDO LIGUORI V. «concezione del mondo», «consenso», «Croce», «egemonia», «forza», «giacobinismo», «Guicciardini», «ideologia», «religione», «senso comune», «società civile», «Stato».

arte Varie e molteplici risultano le riflessioni dedicate nei Q a opere artistiche di epoche e autori differenti. Ma, allo stesso modo in cui analizza o, più semplicemente, evoca singole realizzazioni estetiche, G. si sofferma anche su questioni di carattere più generale, relative allo statuto dell’arte e alla natura della creazione artistica. Il pensatore con cui, su questo versante, egli si confronta con maggior frequenza e in maniera sistematica è Benedetto Croce. In Q , ,  si incontra un esplicito riferimento all’Aesthetica in nuce, saggio crociano del , mentre in Q  II, .IV,  è menzionato il Breviario di estetica del . G. instaura con il filosofo napoletano un confronto di tipo dialettico. Ne riprende la terminologia, come dimostrano diversi passi dei Q in cui si parla, ad esempio, di «pura in-

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ARTE

tuizione fantastica» (Q , , ), dell’«identità di forma e contenuto» (Q , , ) o del «carattere di liricità dell’arte» (Q , , ). Nel far questo, però, G. trova terreno per consumare uno strappo con Croce e ribaltarne la prospettiva teorica, adeguando il lessico crociano – che pervade in maniera compatta nei Q la maggior parte degli assunti artistici – a una visione dell’arte basata, e in modo determinante, sul principio della storicità dell’estetico. Per questa ragione se «l’identificazione di contenuto e forma è affermata dall’estetica idealistica (Croce), ma su presupposti idealistici e con terminologia idealistica» (Q , , ), ecco che nei Q «“contenuto e forma” oltre che un significato “estetico” hanno anche un significato “storico”. Forma “storica” significa un determinato linguaggio, come “contenuto” indica un determinato modo di pensare» (Q , , ). In ciò la divergenza dalla concezione di Croce è decisa e sostanziale. Ma c’è di più: lo scarto investe un ulteriore aspetto, altrettanto rilevante. Il punto di vista di Croce, circoscritto all’individualità, si capovolge, perdendo i suoi tratti di «“individualismo” artistico espressivo antistorico (o antisociale, o anti-nazionalepopolare)» (Q , , ). G. ricorda la «teoria della “memoria” escogitata dal Croce per spiegare il perché gli artisti non si accontentino di concepire le loro opere solo idealmente ma le scrivano o le scolpiscano, ecc.» (Q , , -). A tale teoria egli contrappone l’idea secondo cui l’artista «non scrive o dipinge, ecc., cioè non “segna” esteriormente i suoi fantasmi solo per “un suo ricordo”, per poter rivivere l’istante della creazione, ma è artista solo in quanto “segna” esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi» (Q , , ). Anche perché l’arte non può non risentire del fatto di essere «sempre legata a una determinata cultura o civiltà» (Q , , ). Va letto così il peso che i Q attribuiscono al contenuto in ambito artistico e alla sua portata sociale. In Q , ,  si comprende con chiarezza come, per G., analizzare il contenuto di un prodotto estetico coincida con «la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli

nell’opera d’arte stessa». La concezione di contenuto che i Q propongono appare dunque assai ampia. Nella prosa narrativa, ad esempio, per contenuto «non basta intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è essenziale per il contenuto è l’atteggiamento dello scrittore e di una generazione verso questo ambiente. L’atteggiamento solo determina il mondo culturale di una generazione e di un’epoca e quindi il suo stile» (Q , , ). Non deve pertanto sorprendere che tra i modelli gramsciani spicchi Francesco De Sanctis, la cui critica viene giudicata militante e non «frigidamente estetica» (Q , , ). L’importanza di De Sanctis consiste nell’aver fornito una persuasiva risposta alla problematica delle relazioni che intercorrono tra forma, contenuto e società. Quello di De Sanctis, infatti, è un approccio all’arte contraddistinto anche da un chiaro impegno civile, in cui «le analisi del contenuto, la critica della “struttura” delle opere, cioè anche della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati sono legate a questa lotta culturale» (ibid.). Il ricorso a De Sanctis, oltre che rimarcare l’importanza dello spessore morale, semantico e politico nel fatto artistico, mostra anche quanto G. tenga in considerazione la forma e testimonia del ruolo tutt’altro che secondario rivestito da quest’ultima nella dinamica della sintesi con il contenuto. La ragione per cui G. prende De Sanctis a modello del corretto modo di fare critica da parte dei filosofi della prassi è che l’autore della Storia della letteratura italiana può servire da paradigma a un’ermeneutica e a una storiografia letteraria in cui si fondano «la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica» (Q , , ). I Q non condannano quindi l’esteticità dell’arte: il rifiuto riguarda la critica estetica considerata come fine a se stessa, ossia il vuoto formalismo, il quale affligge anche diverse esperienze artistiche, come quella ungarettiana (Q , , ; ivi, ; Q , , ). Gli attacchi di G., tuttavia, non risparmiano neppure il contenutismo, vale a dire la riduzione del valore di un’opera d’arte, trascurandone completamente la forma,

ARTE MILITARE

ai suoi soli contenuti: «Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato» (Q , , ). Di qui il seguente paradosso: «Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello» (Q , , ). Emerge così la posizione di rilievo che la dimensione estetica, nella sua organicità di forma e contenuto, riveste all’interno dei rapporti che legano reciprocamente struttura e sovrastruttura. G. non manca di osservare quanto l’arte debba alla storia: «La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per “partenogenesi” ma per l’intervento dell’elemento “maschile” – la storia – l’attività rivoluzionaria che crea il “nuovo uomo”, cioè nuovi rapporti sociali» (Q , , ). Accade che non si riesca a intendere concretamente «che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il “contenuto” dell’arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria» (Q , , ). I Q, nondimeno, mettono in luce anche un momento che risulta all’apparenza opposto: quello in cui è l’arte a fare la storia. È sempre avvenuto che nella storia «ogni nuova civiltà, in quanto era tale, anche compressa, combattuta, in tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni intellettuali e morali per l’espressione legislativa e statale» (Q , , ). In Q , , , come anche in altri punti dei Q, si ritrova l’espressione «arte politica», intendendo con ciò le teorie e le tecniche della politica. Nonostante G. segnali, in Q , , , il distacco «dell’intuizione politica dall’intuizione estetica, o lirica, o artistica», solo per metafora si può parlare di arte poli-

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tica. In questo caso, secondo G., l’intuizione politica «non si esprime nell’artista, ma nel “capo”» (ibid.). YURI BRUNELLO V. «Croce», «Dante», «De Sanctis», «Goethe», «letteratura artistica».

arte militare Spesso intrecciata con «guerra di movimento» e «guerra di posizione», l’espressione «arte militare» conduce al nesso conflitto-potenza, lungo due vedute. La prima – storica – pone un modello antico di intelligenza: «I commentari di Cesare – scrive G. – sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di arte politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare, ma specialmente il loro capo politico» (Q , , ). È la critica del bonapartismo, della forza del vincolo personale con l’esercito, in luogo del controllo politico sia dei conflitti, sia dello stesso esercito. Anche Bismarck, «sulle tracce del Clausewitz, sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare» (ibid.). Il ragionamento è funzionale al presente, che è l’altra prospettiva di G., e passato e presente si incrociano anche a proposito di Machiavelli, il quale nell’Arte della guerra «deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare; il suo unilateralismo [...] è dipendente dal fatto che non nella quistione tecnico-militare è il centro del suo interesse e del suo pensiero, ma egli ne tratta solo in quanto è necessario per la sua costruzione politica» (Q , , ). Ecco un altro versante della sintesi necessaria fra politica e arte militare, che rinvia al più ampio problema della «doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia, della violenza e della civiltà» (Q , , ). Ancora per il presente vale un chiarimento sulla tentazione dell’avanguardismo: «una organizzazione statale indebolita – avverte G. – è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private». Queste usano «l’illegalità [...] come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso [...] combattere l’arditismo con l’arditismo è una

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ARTIFICIALE

cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai» (Q , , ). L’impossibile neutralità dello Stato è la sintesi attuale del senso politico dell’arte militare. SILVIO SUPPA V. «arditi», «Cesare», «cesarismo», «guerra», «Machiavelli», «passato e presente», «politica».

artificiale: v. naturale-artificiale.

lerà matematicamente se con metodo rigorosamente intransigente lo si boicotterà nel campo governativo» (ibid.). Il sindacalismo rivoluzionario in Francia esprime il fatto che «in realtà l’astensionismo elettorale e l’economismo dei sindacalisti sono l’apparenza “intransigente” dell’abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono l’espressione di un piatto opportunismo seguito al salasso del » (ivi, ). MARCOS DEL ROIO

ascaro: v. crumiro. astensionismo In questa espressione rientra sia la posizione della Chiesa di fronte allo Stato italiano, sia la posizione “economicista” del sindacalismo rivoluzionario («sindacalismo teorico»), sia la posizione di Bordiga, benché su questi non vi siano riferimenti espliciti. Può essere il prodotto di una forma di scolastica o di una filosofia positivistica. Ma soprattutto esso è una forma di economicismo (per G. «economismo») e di sottovalutazione della politica. Per l’autore dei Q all’economismo «appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale», di cui esempio tipico è «l’astensionismo dei clericali italiani dopo il , dopo il  sempre più attenuato, fino al  e alla formazione del Partito popolare» (Q , , ). Il movimento di David Lazzaretti poteva essere vincolato al non expedit del Vaticano e mostrò al governo «quale tendenza sovversiva-popolareelementare poteva nascere tra i contadini in seguito all’astensionismo politico clericale» (Q , , ). Altro esempio di astensionismo cattolico è l’esperienza di Maurras e dell’Action française, sulla quale l’analisi di G. evidenzia come fosse «condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione nel momento risolutivo» (Q , , ). Infatti, l’astensionismo cattolico ha tratti di somiglianza con le teorie catastrofiste di certo economicismo e sindacalismo, giacché entrambe le correnti aspettano il collasso dello Stato liberale: «ogni astensionismo politico in generale e non solo quello parlamentare si basa su una simile concezione meccanicamente catastrofica: la forza dell’avversario crol-

V. «Action française», «Bordiga», «cattolici», «Chiesa cattolica», «economismo», «intransigenza-tolleranza», «parlamento», «Partito popolare», «sindacalismo teorico».

astrazione Il lemma «astrazione» compare dapprima nei Q in accezione negativa: «astrazione ideologica» contro «concretezza economica» (Q , , ), «la storia [...] vanificata nell’astrazione dei concetti» (Q , , ) ecc. Da Q , ,  inizia però un ripensamento di questo concetto, che lo identifica infine con la «grammatica del pensare normale» (Q , , ), che trova nel discorso scientifico una sua applicazione particolare. Questa consiste nell’insieme di procedimenti che ogni scienza usa per generalizzare i casi singoli, passando dall’individuo alla legge e viceversa. Essa coincide con lo stesso procedimento che conduce a costruire storicamente la nozione di obiettività, come ciò che è condiviso dalla generalità degli scienziati e, quindi, dell’umanità (Q , , ). Di vitale importanza politica è pertanto che gli scienziati siano in grado di tradurre il proprio metodo astrattivo in quello delle altre scienze (Q , , ). In riferimento alla scienza economica andrà fatta una distinzione fondamentale tra «astrazione determinata» e «generizzazione» (v. il discorso avviato in Q , ,  e proseguito in Q  II,, ). Vanno tenute distinte l’«astrazione arbitraria» e il «procedimento di distinzione analitica praticamente comodo per ragioni pedagogiche» (Q , , ). L’astrazione corretta sarà infatti quella che nella modalità stessa del suo istituirsi non dimentica il fatto, che ha valore

ATTUALISMO

solo in quanto comprende gli individui e i loro rapporti: il latino «si studia per abituare i fanciulli [...] ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo» (Q , , ). Quando questa capacità non sussiste si rischia di cadere nel «feticismo», consistente nell’assegnare realtà all’astrazione, nel «pensare che [...] al disopra dei singoli esiste una entità fantasmagorica, l’astrazione dell’organismo collettivo, una specie di divinità autonoma, che non pensa con nessuna testa concreta, ma tuttavia pensa, che non si muove con determinate gambe di uomini, ma tuttavia si muove ecc.» (Q , , ). FABIO FROSINI V. «homo oeconomicus», «logica», «oggettività», «scienza», «tecnica del pensare».

astrazione determinata: v. homo oeconomicus. ateismo Da politico-filosofo dell’«umanesimo assoluto» e dell’«immanenza assoluta», G. è convinto che le soluzioni ai problemi umani e sociali non si devono ricercare nell’ambito delle credenze religiose, ma neanche nell’ateismo, per evitare di cadere nell’«equivoco dell’ateismo» e nell’«equivoco del deismo in molti idealisti moderni», poiché gli sembra «evidente che l’ateismo è una forma puramente negativa e infeconda, a meno che non sia concepito come un periodo di pura polemica letterario-popolare» (Q , , ). G. dunque auspica la costruzione di «una cultura superiore autonoma». Quest’ultima costituisce «la parte positiva della lotta che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a- privativi e gli anti- (anticlericalismo, ateismo, ecc)». Si dà così «una forma moderna e attuale all’umanesimo laico tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato» (Q , , ; v. anche Q , , ). G. mette in risalto la contraddizione di intellettuali come Croce, che hanno un «ateismo da signori, un anticlericalismo che aborre la rozzezza e la grossolanità plebea degli

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anticlericali sbracati» (Q  II, .IV, ), che approdano all’ateismo «attraverso la scienza o la filosofia, ma sostengono che la religione è necessaria per la organizzazione sociale» (Q , , ). Posizione che riproduce in certo modo la contraddizione tra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica di Kant. Oppure di intellettuali come Gentile, che «vuol far credere che la sua filosofia è la conquista della certezza critica delle verità del cattolicesimo» e che per attrarre i cattolici tenta di convincerli persino con un equivoco non privo di conseguenze che «la religione si abbraccia con l’ateismo» (Q , , ). GIOVANNI SEMERARO V. «Croce», «Gentile», «immanenza», «Kant», «laicismo», «religione», «umanesimo assoluto».

attualismo G. affronta nei Q il problema dell’attualismo sia in relazione alla filosofia e alla teoria politica di Giovanni Gentile, sia in rapporto alle forme che esso assume in alcuni suoi interpreti e seguaci, come Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli e Guido Calogero. Per ciò che concerne l’attualismo gentiliano e le sue conseguenze etico-politiche, G. coglie con arguzia, in ambito di teoria della politica, la differenza tra la posizione di Croce e di Gentile e mostra di aver bene inteso la critica (sviluppata con chiarezza negli Elementi di politica del ) che Croce muove all’idea gentiliana di Stato etico. L’assolutizzazione dell’atto, la mancata distinzione tra economia ed etica, il rifiuto e la negazione del liberalismo e del comunismo, accusati da Gentile rispettivamente di individualismo e di materialismo, hanno come conseguenza l’identificazione tra storia e storia dello Stato e, hegelianamente, la risoluzione dell’individuo nello Stato stesso. Croce, invece, con la teorizzazione della storia intesa come storia etico-politica ribadisce il carattere antigiustificazionista dello «storicismo assoluto» e sottolinea, proprio nella specificazione della storicità come «etico-politica», sia la non coincidenza di etica e politica, sia il fatto che la storia dello Stato si estende anche a elementi che si oppongono e che possono rovesciare lo Stato

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stesso. Nella concezione crociana della storia etico-politica è la libertà, intesa da una parte come principio originario della storia, dall’altra come ideale morale a cui l’umanità deve tendere, ad avere in sé il concetto di lotta. Il possesso della libertà, infatti, non è mai quieto e definitivo; piuttosto la storia della libertà è storia della sua conquista, della sua perdita e della sua riconquista (in seguito si vedrà come G., tuttavia, si porrà criticamente nei confronti della crociana storia etico-politica). Nell’attualismo gentiliano, nell’unità dell’atto che identifica egemonia e dittatura, società civile e società politica, vengono meno sia l’idea della distinzione tra etica e politica, sia lo spazio per la possibilità dell’esercizio di un orizzonte plurale di forze in grado anche di opporsi allo Stato. G. ben sintetizza i motivi di contrasto tra la prospettiva crociana e le conseguenze dell’attualismo di Gentile; tuttavia, almeno in un passaggio sembra ammettere che l’attualismo gentiliano come modello ermeneutico meglio si presti alla spiegazione dello sviluppo storico-ideale dello Stato inteso come individualità, perché capace di sintetizzare ciò che in Croce, seppur in rapporto, rimane distinto, vale a dire il momento corporativo-economico e il momento etico dello Stato. G. ribadirà in altri luoghi che, in realtà, anche il concetto di storia etico-politica, seppur assorbito nell’astratta speculazione della logica dei distinti, sottende comunque l’idea di sviluppo della storia dell’egemonia, nella quale economia ed etica si danno insieme. Forse per questo G. sostiene che la filosofia di Croce non può essere analizzata indipendentemente da quella di Gentile e che un Anti-Croce deve essere nello stesso tempo anche un Anti-Gentile (Q  I, , ): «È da vedere in quanto l’“attualismo” di Gentile corrisponde alla fase statale positiva, a cui invece fa opposizione il Croce. L’“unità nell’atto” dà la possibilità al Gentile di riconoscere come “storia” ciò che per il Croce è antistoria. Per il Gentile la storia è tutta storia dello Stato; per il Croce è invece “etico-politica”, cioè il Croce vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura; i grandi intellettuali esercitano l’egemonia, che presuppone una certa collaborazione, cioè

un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale-democratico. Il Gentile pone la fase corporativo [-economica] come fase etica nell’atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato-governo, ecc.» (Q , , ). G. è tuttavia ben attento a non accettare una concezione radicale dell’attualismo, in cui, con troppa facilità, si parta dal presupposto che la soluzione a problemi attuali sia necessariamente e geneticamente inclusa nella soluzione di epoche passate. Prendere posizione a favore di una tale concezione dello sviluppo storico-politico della società significherebbe perdere quell’elemento di criticità che consente di individuare come specificità le problematiche collocate all’interno di una determinata epoca. Proprio l’annichilimento dell’elemento critico all’interno di una concezione attualistica radicale della storia sociale sfocerebbe in bieco empirismo. «Le soluzioni passate di determinati problemi aiutano a trovare la soluzione dei problemi attuali simili, per l’abito critico culturale che si crea nella disciplina dello studio, ma non si può mai dire che la soluzione attuale dipenda geneticamente dalle soluzioni passate: la genesi di essa è nella situazione attuale e solo in questa. Questo criterio non è assoluto, cioè non deve essere portato all’assurdo: in tal caso si cadrebbe nell’empirismo: massimo attualismo, massimo empirismo» (Q , , ). Sebbene G. mostri di prendere in seria considerazione l’attualismo gentiliano e di provarne continuamente la tenuta teorica come modello esplicativo dello sviluppo politico-sociale dell’umanità (G. pare tracciare, a volte, non in maniera del tutto corretta dal punto di vista storico e testuale, una linea di continuità fra teoria dello Stato hegelomarxista e teoria gentiliana dello sviluppo statuale; di quest’ultima, naturalmente, critica il carattere eccessivamente speculativo e soggettivo), va anche affermato che lo stesso G. confina e relaziona, almeno in alcuni passaggi dei Q, l’importanza dell’attualismo alla fase economico-corporativa che l’Italia vive

ATTUALISMO

in quegli anni (Q , , ). Così come G. limita la rilevanza dell’attualismo al momento corporativo-economico del periodo storico dell’Italia fascista, allo stesso modo è critico rispetto alla riforma che l’attualismo gentiliano presume di aver apportato alla dialettica hegeliana. Malgrado Gentile abbia tentato il superamento della dialettica di Hegel, che non sarebbe riuscita secondo lui a liberarsi dall’empirico perché fondata in ultima istanza sull’Idea logica-astratta e non sull’atto dello spirito, per G. la pretesa dell’attualismo gentiliano di esprimere la perfezione dialettica si risolve in un sofisma, dal momento che ancora del tutto oscuro resta il motivo secondo il quale la dialettica formale sarebbe superiore alla logica formale (Q , , ). Proprio nella disputa relativa alla dialettica tra l’attualismo gentiliano e la logica dei distinti crociana, G. intravede una contesa puramente tecnica, che discende dallo sforzo teorico idealistico in generale, e crociano in particolare, di identificare la filosofia con una metodologia della storia (Q , , ). Come visto fin qui, in G. il concetto di attualismo è spesso inserito nel contendere filosofico tra Croce e Gentile; ancora all’interno di questo contendere G. colloca la discussione e la critica della storia etico-politica di Croce. Per G. la logica dei distinti crociana funziona quando applicata alle questioni relative all’estetica, mentre per la storia il problema è molto più complesso, dal momento che «nella storia e nella produzione della storia la rappresentazione “individualizzata” degli Stati e delle Nazioni è una mera metafora». G. sostiene, in ultima analisi, che la filosofia di Croce può trovare compimento, risolvendo le proprie contraddizioni, solo all’interno dell’attualismo gentiliano, perché solo in questo l’illusione della rappresentazione individualizzata degli Stati scompare nell’unità dell’idea processuale dell’egemonia statuale. In realtà, secondo G., la concezione della storia eticopolitica non è così distante dall’attualismo, dal momento che la storia etico-politica altro non è se non la storia del momento dell’egemonia. Da qui «la necessità per il Croce e per la filosofia crociana di essere la matrice dell’“attualismo” gentiliano. Infatti so-

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lo in una filosofia ultra speculativa come quella attualistica, queste contraddizioni e insufficienze della filosofia crociana trovano una composizione formale e verbale, ma nello stesso tempo l’attualismo mostra in modo più evidente il carattere poco concreto della filosofia del Croce, così come il “solipsismo” documenta l’intima debolezza della concezione soggettiva-speculativa della realtà» (Q  I, , -). Per G. la filosofia della prassi non solo non esclude l’idea di storia eticopolitica, ma piuttosto la include e la rivendica come momento essenziale della storia dell’egemonia (ivi, ). G. esprime tuttavia critiche severe nei confronti sia dell’attualismo gentiliano sia verso gli esiti a cui esso giunge in alcuni discepoli dello stesso Gentile. L’idealismo attuale, infatti, nel teorizzare la coincidenza di ideologia e filosofia, cade dogmaticamente in una posizione che postula l’identità di ideale e reale, di teoria e prassi. Ponendo questa identità, l’idealismo attuale fa fare un passo indietro alla filosofia rispetto alle “vette” delle distinzioni alle quali l’aveva sollevata il pensiero crociano. «Questa degradazione è visibilissima negli sviluppi che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i “Nuovi Studi” diretti da Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso che io conosca di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando avviene in questo modo riporta a una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia cioè, ma un insieme di schemi astratti sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca» (Q , , ). G. si mostra sempre sprezzante nei confronti della filosofia di Spirito, arrivando persino ad affermare che l’apparente novità di contenuti e nella modalità di impostare i problemi si risolve in realtà in una questione linguistica e terminologica (Q , , ). Il novum in Spirito, a parere di G., è a tal punto esclusivamente un problema di “creatività linguistica” da fargli chiamare in causa il pragmatismo di Vailati e di Pareto, soprattutto in riferimento al linguaggio scientifico (ivi, ). G. affronta anche le posizioni di Spirito in relazione alla dottrina dello Stato e dell’economia: egli sostiene che la stessa polemica tra



ATTUALISMO

la concezione gentiliana dello Stato e la teoria della storia etico-politica di Croce si ripropone anche tra Einaudi e Spirito. In questo caso, tuttavia, G. rimprovera a Spirito ciò che non rimprovera direttamente a Gentile, vale a dire che la concezione statuale in lui è un ritorno alla pura economicità (Q , , ). Le stesse conclusioni G. avrebbe potuto trarle nel confronto Croce-Gentile che aveva affrontato appena alcune righe sopra. Inoltre G. rimprovera alle «nuove tendenze “giuridiche”» di Volpicelli e Spirito l’assimilazione tra Stato-classe e società regolata: anche se G. non lo afferma esplicitamente, questa identificazione può essere imputata come uno degli effetti derivanti dall’applicazione dell’attualismo gentiliano in ambito di teoria della politica; infatti, proprio come l’attualismo, con la concezione dello Stato etico, sospende il concetto di lotta, allo stesso modo l’assimilazione di Stato-classe e società regolata «è propria delle classi medie e dei piccoli intellettuali, che sarebbero lieti di una qualsiasi regolarizzazione che impedisse le lotte acute e le catastrofi: è concezione tipicamente reazionaria e regressiva» (ibid.). G. critica continuamente la concezione dello Stato di Spirito ma, soprattutto, ne critica la concezione dell’identità tra speculazione e prassi, obiettando che mutare le basi teoriche della concezione dello Stato non significa mutare lo Stato reale (Q , , ). Questa stessa critica, ironicamente più pungente (G. definisce Volpicelli e Spirito «i Bouvard e Pécuchet della filosofia, della politica, dell’economia, del diritto, della scienza, ecc.»), è mossa anche poco più avanti (ivi, ). In questo passaggio ancora una volta G. sottolinea l’inconsistenza dell’attualismo di Volpicelli e Spirito, opponendosi all’idea dell’identità utopistica di pensiero e azione e, anche se non espressamente, di atto creativo e realtà. G., vale a dire, rileva nelle teorie idealistiche attuali di Volpicelli e Spirito un ritorno all’immobilismo essenzialista e, nello stesso tempo, l’impossibilità di formulare una concezione dialetticamente dinamica del reale a lui tanto cara: «Bisognerebbe anche osservare come la concezione di Spirito e Volpicelli sia un derivato logico delle più scempie e “razionali” teorie democratiche. Ancora essa è

legata alla concezione della “natura umana” identica e senza sviluppo come era concepita prima di Marx per cui tutti gli uomini sono fondamentalmente uguali nel regno dello Spirito (= in questo caso allo Spirito Santo e a Dio padre di tutti gli uomini)» (ivi, ). G. torna in più passi sull’incompleta e confusa teoria dello Stato di Volpicelli e Spirito, denunciando ogni volta l’astrattezza del loro linguaggio e delle loro teorie. Un’altra contraddizione in cui, a parere di G., cade Spirito è determinata dalla sua concezione della dialettica; sebbene Spirito pensi la dialettica come antitesi radicale degli opposti (questo il senso, nella filosofia di Spirito, della mai conclusa “ricerca” e dell’inesauribile e irrisolvibile apertura della vita e dei problemi), come antinomia irriducibile, finisce tuttavia con il porre arbitrariamente tra gli opposti stessi una mediazione risolutiva e intellettualistica che annulla di fatto l’opposizione reale e la risolve in una mediazione speculativa (Q , , ). G. è forse troppo duro con Spirito che, in realtà, muoveva a sua volta l’accusa di intellettualismo alla concezione dialettica dello storicismo e teorizzava una dialettica maggiormente ancorata all’uomo concreto. Solo cinque sono invece nei Q le ricorrenze del nome di Guido Calogero. G. riporta l’interpretazione di una recensione scritta da Croce, pubblicata sulla “Critica” nel maggio del , in cui questi sostiene che Calogero ha denominato “filosofia della prassi” una propria specifica modalità interpretativa dell’attualismo gentiliano. G. si pone come compito quello di chiarire se si tratti solo di una questione di termini o ne vada, invece, dell’impostazione filosofica dello stesso Calogero (Q  I, p. ). G. riporta, inoltre, un lungo passaggio del lavoro di Calogero dal titolo Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo, apparso nella “Nuova Antologia” il  agosto . Questo passaggio non è commentato da G., che probabilmente ne accetta gli esiti, secondo i quali Croce, avendo individuato i plessi teoretici fondamentali del pensiero hegeliano (immanentismo, dialettica e storicismo), è vero seguace e continuatore dell’hegelismo (Q  II, , -). In conclusione, G. non pare riser-

AUTOBIOGRAFIA

vare a Calogero le stesse severe critiche che volge contro gli altri idealisti attuali. BIBLIOGRAFIA: BERGAMI ; MACCABELLI ; NEGRI . GIUSEPPE D’ANNA V. «Croce», «Einaudi», «Gentile», «idealismo», «pragmatismo», «società regolata», «solipsismo, solipsistico», «Spirito», «Stato», «Volpicelli».

autobiografia Nella nota intitolata Giustificazione delle autobiografie G. attribuisce valore all’autobiografia in quanto può essere «concepita “politicamente”». Concepita, cioè, non sulla base del presupposto narcisistico e individualistico dell’originalità («si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché “originale”, diversa dalle altre»), ma col fine di «aiutare altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi», raccontando la propria storia in quanto «simile a quella di mille altre vite», ma «per un “caso”», con «uno sbocco che le altre molte non potevano avere [...] Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il processo, si indica lo sbocco» (Q , , ). Dunque G. “giustifica” l’autobiografia in quanto segnata da un fine politico-pedagogico: in tal caso essa assume la valenza o addirittura «sostituisce» il «“saggio politico” o “filosofico”», poiché «descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente. È certo che l’autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principii morali dominanti» (ibid.). L’importanza di questa funzione storicodocumentale, di testimonianza del “particulare”, è di speciale rilievo in un paese in cui «la realtà effettuale è diversa dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa dagli intellettuali che interpretano questi fatti». Qui l’autobiografia può mostrare la distanza tra «il meccanismo in atto, nella sua funzione effettuale», e la «legge scritta» (Q , , -), e colmare le lacune della storiografia che, basata appunto sulla legge scritta, non riesce a dar conto dei cambiamenti storici che «rovesciano la situazione» poiché «manca il documento del come si è preparato il mutamento “molecolarmente”, finché è

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esploso nel mutamento»: l’autobiografia, come documento di storia materiale, aiuta a comprendere la qualità molecolare del processo storico, il rapporto tra formazione individuale e collettiva, il nesso tra mutamento quantitativo e mutamento qualitativo. Nei paesi particolarmente «“ipocriti”» per la distanza tra leggi e costumi «non abbondano i memorialisti oppure le autobiografie sono “stilizzate”, strettamente personali e individuali» (ivi, ). È quanto avviene in Italia: «sono rari i biografi e gli autobiografi» poiché «manca l’interesse per l’uomo vivente, per la vita vissuta». G. legge tale assenza come «un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale» (Q , , ). Dunque, nel riflettere sul problema dell’autobiografia, G. pone elementi per un metodo storico: non si fa «politica-storia» (né si può scrivere storia) senza connessione tra «sentire» e «comprendere» (Q , , ). Quando in carcere egli soffre la distanza dalla «vita di Pietro, di Paolo, di Giovanni» si chiede: «mi manca proprio la sensazione molecolare: come potrei, anche sommariamente, percepire la vita del tutto complesso?» (LC , a Giulia,  novembre ). Il molecolare, allora, come metodo storico: insieme metodo della conoscenza (non si comprende la storia se non attraverso i mutamenti molecolari) e della trasformazione (sia individuale che collettiva). Non si comprende, cioè, la storia senza autobiografie e, al contempo, l’autobiografia è comprensione della propria funzione molecolare nel processo storico di trasformazione. È allora il metodo filologico appreso alla scuola di Torino che diviene «metodo umano» (Debenedetti , ). Non a caso G. si sofferma, nella riflessione sulle riviste, sull’importanza delle «autobiografie politico-intellettuali» come momento di «grande efficacia formativa»: utili a descrivere le «lotte interiori, per raggiungere una personalità superiore storicamente», e dunque a «suggerire, in forma vivente, un indirizzo intellettuale e morale, oltre che essere un documento dello sviluppo culturale in certe epoche» (Q , , ). Risulta allora particolarmente importante il proposito di estrarre dalla rubrica Passato e presente «una

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AUTOBIOGRAFIA

serie di note che siano del tipo dei Ricordi politici e civili del Guicciardini»: essi «riassumono non tanto avvenimenti autobiografici in senso stretto (sebbene anche questi non manchino), quanto “esperienze” civili e morali (morali più nel senso etico-politico) strettamente connesse alla propria vita e ai suoi avvenimenti, considerate nel loro valore universale o nazionale» (Q , , ). G. annuncia questo progetto di marca chiaramente autobiografica con un riferimento di marca altrettanto chiaramente autobiografica: «una tal forma di scrittura può essere più utile che le autobiografie in senso stretto, specialmente se essa si riferisce a processi vitali che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da “villaggio”, ma nazionale» (ibid.). Ecco che l’esigenza e il processo di sprovincializzazione della cultura italiana, di costruzione di una cultura nazionale-popolare in connessione con quella europea, trovano una narrazione efficace attraverso il racconto del «processo in quanto sperimentato da un “triplice o quadruplice provinciale” come certo era un giovane sardo del principio del secolo» (ibid.). Il problema politico dell’autobiografia, dunque, come narrazione del processo di «comprensione critica di se stessi» (Q , , ), come narrazione del processo storico in atto, come comprensione della propria funzione storica in tale processo: come acquisizione progressiva di autocoscienza. G. guarda, cioè, gobettianamente, all’autobiografia come a un problema, come tensione morale costruttiva di sé e del processo storico; coniuga tensione gobettiana all’autoeducazione, responsabilità morale e formazione molecolare della personalità, intendendo il rapporto tra la sensazione molecolare e il tutto complesso anche come «senso di responsabilità verso tutte le molecole che compongono l’uomo intero»: è un tener conto, un «far collaborare le molecole in una specie di politica di unità dell’uomo» (Debenedetti , ). G. costruisce allora la sua teoria della personalità alla luce del suo sto-

ricismo assoluto intendendo storicamente, dialetticamente la costruzione della propria autobiografia: «si può trovare una serenità anche nello scatenarsi delle più assurde contraddizioni e sotto la pressione della più implacabile necessità, se si riesce a pensare “storicamente”, dialetticamente, e a identificare con sobrietà intellettuale il proprio compito» (LC , a Tania,  marzo ). La comprensione critica di se stessi, il divenire «“medici di se stessi”» (ibid.) attraverso «una coscienza continuamente presente» (Debenedetti , ) sono costruzione dell’autobiografia come comprensione della necessità storica: questa consapevolezza permette a G. di sfuggire alla condizione nevrotica dell’«“umiliato e offeso”». L’autobiografia, dunque, è «concepita “politicamente”» non solo come documento del carattere molecolare dei processi storici di trasformazione, ma anche di formazione della personalità. In questo senso, «tutti gli scritti di Gramsci» sono «percorsi da tentazioni autobiografiche, che appaiono però ogni volta frenate» (Gerratana , ): non c’è mai, cioè, il deposito immediatistico della propria esperienza, ma una tensione alla comprensione e costruzione di sé che si traduce anche in una tensione narrativa, appunto nella costruzione molecolare-morale dell’autobiografia. È questa tensione a fare di quell’autobiografia epistolare, dialogico-dialettica, che sono le LC un esempio di letteratura morale. E così in quelle che G. chiama esplicitamente Note autobiografiche la narrazione della propria “esperienza” diventa racconto, il racconto di sé diventa storia: l’autoanalisi di quel mutamento «“molecolare”», «progressivo della personalità morale che a un certo punto da quantitativo diventa qualitativo», generando «catastrofi del carattere» (Q , , ), è al contempo individuale e collettiva, diventa insieme riflessione sui processi di trasformazione della persona e della società. La resistenza della coscienza a quel processo non è argomento di morale eroica, ma diviene immediatamente responsabilità storica, comprensione e costruzione del processo storico in atto attraverso la comprensione critica di se stesso. È evidente allora

AUTODIDATTA

perché Giacomo Debenedetti, nella seconda di copertina del secondo volume dell’antologia  pagine di Gramsci, a proposito del carattere «autobiografico» e «narrativo» delle LC, sostenga che «in Gramsci l’autobiografia non si deteriori mai in autobiografismo, né il ragguaglio anche intimo in corrivo intimismo» (Debenedetti ). ELEONORA FORENZA V. «cannibalismo», «catastrofe, catastrofico», «Guicciardini», «molecolare», «naufrago», «personalità», «psicanalisi», «storia».

autocritica G. utilizza il termine «autocritica» in una varietà di significati e di situazioni. Ad esempio, la personalità di un filosofo è legata al suo ambiente culturale, che reagisce su di lui e lo costringe a una «continua autocritica» (Q  II, , ); nella «tendenza a diminuire l’avversario» c’è «un inizio di autocritica [...] che ha paura di manifestarsi esplicitamente» (Q , , ). Cadorna è ritenuto incapace d’esercitare l’autocritica (Q , , ) e ciò vuol dire non voler «eliminare le cause del male» (Q , , ); la Chiesa «non ha mai avuto molto sviluppato il senso dell’autocritica» (Q , , ). Ancora, G. ritiene la diffusione nel  del romanzo Babbitt di Lewis negli Stati Uniti un fenomeno rilevante poiché, con l’estendersi dell’«autocritica» dei costumi e dunque con la nascita di «una nuova civiltà americana cosciente delle sue forze e delle sue debolezze», gli intellettuali americani «si staccano dalla classe dominante» per unirsi a tale nuova civiltà «più intimamente» (Q , , -). Viceversa gli intellettuali europei sono filistei piccolo borghesi (Q , , ): «non rappresentano più l’autocoscienza culturale, l’autocritica della classe dominante», ma ne sono «agenti immediati» o se ne sono staccati «costituendo una casta a sé» (Q , , ). In Q , ,  G. evince la vuotezza e la «disoccupazione intellettuale e morale» dell’attuale generazione dalla «strana forma di autocritica» che esercita su di sé: sapendosi «di transizione», ricorre «a immagini [mitiche] prese dallo sviluppo storico passato» (ibid.), preda di un evoluzionismo «volgare, fatalistico, positivistico» (ibid.). Infine, in



L’autocritica e l’ipocrisia dell’autocritica G. rileva che l’autocritica è divenuta parola di moda: si vuol far credere che «alla critica rappresentata dalla “libera” lotta politica nel regime rappresentativo» si è trovato un equivalente che, «se applicato sul serio, è più efficace e produttivo di conseguenze dell’originale» (Q , , ). Tuttavia spesso dà luogo «a bellissimi discorsi, a declamazioni senza fine e nulla più: l’autocritica è stata “parlamentarizzata”» (ibid.). MANUELA AUSILIO V. «americanismo», «Babbitt», «Chiesa cattolica», «intellettuali», «Stati Uniti».

autodidatta L’idea secondo cui tutte le persone dotte sarebbero in realtà autodidatte, giacché «l’educazione è autonomia», è per G. un «luogo comune tendenzioso», che colpevolizza i meno abbienti e giustifica l’assenza dell’«apparato di cultura» necessario per l’educazione e l’istruzione. In senso stretto gli autodidatti sono coloro i quali sacrificano una parte anche considerevole di quel tempo che altri dedicano allo svago o ad altre attività al fine di «istruirsi e educarsi». Non esistono tuttavia forze sociali che nei fatti si preoccupino in Italia di soddisfare i bisogni di quanti hanno «a loro disposizione solo la loro buona volontà»; esistono piuttosto «forze sociali generiche» come il movimento libertario, che specula finanziariamente su tali «bisogni impellenti» e i cui caratteri di «antistoricismo» e «retrività» sono evidenti nel suo stesso «autodidattismo, che forma persone “anacronistiche” che pensano con modi antiquati e superati e questi tramandano, “vischiosamente”» (Q , , -). G. ricorda la «superficiale infatuazione per la scienza» diffusa da «giornalisti onnisapienti» e «autodidatti presuntuosi» (Q , , -), che porterebbe molti altri autodidatti, privi di «un abito scientifico e critico», a «fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema» (Q , , ). G. si propone allora di suscitare in tali persone «l’avversione per il disordine intellettuale», attraverso la descrizione di campioni di «ilotismo intellettuale» (ibid.) quali i loriani. Al-

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AUTODISCIPLINA

l’abitudine al dilettantismo, alla prolissità e al «paralogismo» (provocate dalla retorica: Q , , ), G. contrappone un lavoro intellettuale rigoroso che consenta di far acquisire «agli autodidatti la disciplina degli studi che procura una carriera scolastica regolare» (ibid.). «Sistema Taylor» da una parte e «autodidattismo» dall’altra compaiono nei Q a proposito delle «“grammatiche normative” scritte» che tendono ad «abbracciare tutto un territorio nazionale [...] per creare un conformismo linguistico nazionale unitario»; quest’ultimo però pone anche su un piano più alto «l’“individualismo” espressivo», allorché forma «uno scheletro più robusto e omogeneo di cui ogni individuo è il riflesso e l’interprete» (Q , , ).

costruire nell’involucro della Società politica una complessa e bene articolata società civile, in cui il singolo individuo si governi da sé senza che perciò questo suo autogoverno entri in conflitto con la società politica, anzi diventandone la normale continuazione, il complemento organico». In coerenza con lo sviluppo di un processo di costruzione della società civile e del suo autogoverno, la «“statolatria”» del gruppo sociale in ascesa, pur necessaria per la costruzione di una società civile autonoma e dell’autogoverno, deve essere «criticata» e superata (ivi, ). Tutto il ragionamento sembra svolto avendo anche presente la situazione della Russia post-rivoluzionaria.

JOLE SILVIA IMBORNONE

V. «Ordine Nuovo (L’)», «società civile», «Stato», «statolatria», «Unione Sovietica».

V. «educazione», «grammatica», «intellettuali», «Loria», «lorianismo, loriani», «taylorismo».

autodisciplina: v. disciplina. autogoverno La riflessione di G. sull’autogoverno si sviluppò soprattutto nel periodo dell’esperienza dei Consigli di fabbrica (-): l’autogoverno della classe operaia era l’embrione del nuovo Stato. Nei Q il lemma appare solo in Q , , associato e contrapposto a «“statolatria”». Per G. l’epoca feudale e anche i governi assoluti, in quanto esprimevano gli interessi di ordini privilegiati, rendevano possibile lo sviluppo culturale e morale di gruppi sociali che poi diventavano Stato, come nel caso della borghesia. Nella loro ascesa si presentavano come «società civile», con la richiesta di autogoverno di fronte alla «società politica» o «“governo dei funzionari”». Lo Stato, nell’accezione di G., si può dunque presentare sotto forma di società civile o autogoverno e società politica o governo dei funzionari. Lo Stato che si presenta come società civile è quello dotato di autogoverno, in quanto il governo dei funzionari è qualcosa che appare come esterno e sovrapposto. Nel caso di uno Stato che si identifica «con gli individui di un gruppo sociale», esso «deve servire a determinare la volontà di

MARCOS DEL ROIO

automatismo La riflessione sul concetto di «automatismo» viene avviata in Q ,  nel contesto di una riflessione sul «concetto e fatto di “mercato determinato”» e sulle premesse necessarie alla nascita di una nuova «scienza economica»: «Perché si possa parlare di una nuova “scienza” occorrerebbe aver dimostrato che esistono un nuovo rapporto di forze ecc. che hanno determinato un nuovo tipo di mercato con un suo [proprio] “automatismo” e fenomenismo che si presenta come qualcosa di “obbiettivo”, paragonabile all’automatismo delle leggi naturali» (ivi, ). Stante il fatto che l’automatismo attuale è pur sempre quello capitalistico, la filosofia della praxis dovrà limitarsi alla «“critica di una scienza economica”», cioè alla dimostrazione della storicità e sostituibilità dell’automatismo dato (ibid.). Il concetto di necessità che ne risulta è completamente storico, immanente agli effetti che esso produce, dunque non metafisico. L’automatismo, che si presenta come assenza di iniziativa politica, è, al contrario, da intendere come la generalizzazione di un’iniziativa politica e di una determinata organizzazione delle forze sociali. Esso va a coincidere pertanto con la nozione di “regolarità” ed entra a far parte del nuovo con-

AZIONE CATTOLICA

cetto di “necessità” e di “razionalità” schizzato nei Q (Q  II, , -; Q  II, , ; Q  II, ,  e soprattutto Q , , -). In quanto necessità immanente, l’automatismo si produce solo dopo che i rapporti sociali sono stati politicamente organizzati: di esso fanno parte integrante, di conseguenza, quelle che G. chiama «condizioni soggettive»: «L’automatismo storico di una certa premessa viene potenziato politicamente dai partiti e dagli uomini “capaci”: la loro assenza o deficienza (quantitativa e qualitativa) rende “sterile” l’automatismo stesso: c’è la premessa, ma le conseguenze non si realizzano» (Q , , ). E nel Testo C si precisa che se non vi sono le condizioni soggettive l’automatismo «non è automatismo» e di premesse si può parlare solo «astrattamente» (Q , , ). FABIO FROSINI V. «mercato determinato», «necessità», «razionalità», «regolarità», «scienza».

autorità Oltre che nelle formule di «crisi di autorità» (Q , , ) o crisi del «principio di autorità» (Q , , ), oltre al suo uso comune come sinonimo di poteri costituiti, G. assegna alla parola «autorità» almeno altri due significati. Il primo e più scontato è quello che la identifica con la conservazione: «la storia è libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione» (Q  I, , ). L’autorità è qui il freno del mutamento storico, l’elemento coercitivo che si oppone al dispiegarsi della libertà umana. Più avanti in questa nota il concetto di «“patria”» verrà ricondotto a «un sinonimo», non «di “libertà”», bensì «di Stato, cioè d’autorità» (ivi, ). G. non è però un idealista e non accetta la visione crociana del processo storico come trionfo della libertà contro l’autorità. Complica quindi il suo discorso e, in un passo in cui commenta l’interpretazione di Machiavelli da parte di Luigi Russo (curatore dell’edizione del Principe del ), richiama il momento dell’autorità come momento necessario: «Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell’au-

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torità e dell’individuo) e dei Discorsi quello dell’egemonia [...] o del consenso accanto a quello della autorità e della forza [...] l’osservazione è giusta» (Q , , ). Non solo G. condivide la necessità di entrambi i momenti, ma rileva anche la loro non contraddittorietà: «non c’è opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratta piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e universalità» (ibid.). L’autorità non è quindi solamente l’impedimento al completo dispiegarsi della libertà, ma è anche un elemento funzionale allo sviluppo umano quando la sua «origine è “democratica”, se cioè l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un “arbitrio” o una imposizione estrinseca ed esteriore» (Q , , ). MICHELE FILIPPINI V. «crisi di autorità», «dittatura», «dominio», «egemonia», «forza », «libertà», «Machiavelli».

Azione cattolica All’Azione cattolica G. dedica momenti sporadici di analisi e giudizi interessanti già negli scritti giovanili. Ma è soprattutto nei Q (in molte note sparse e soprattutto nel Q ) che egli ritorna sull’argomento con frequenza e con una certa sistematicità. Qui l’analisi sull’Azione cattolica è condotta in stretta connessione con quella sugli intellettuali religiosi contemporanei (cattolici integrali, gesuiti e modernisti), poiché egli ritiene che «i due studi sono inscindibili in un certo senso e come tali devono essere elaborati» (Q , , ). Non poche le note che G. intitola precisamente Azione cattolica, pur trattando dei «cattolici integrali, gesuiti e modernisti». I conflitti tra gli intellettuali cattolici contemporanei sono, infatti, momenti di lotta per la conquista dell’egemonia sull’Azione cattolica, il cui controllo consente poi l’influsso anche sulla politica generale del Vaticano. Dell’Azione cattolica G. fornisce un profilo storico e uno politico. In alcuni blocchi di note del Q  (-, passim) e del Q  (, -, -) G. distingue tre periodi nella storia dell’Azione cattolica: dopo il  (la preistoria), dopo il , dopo il . In generale egli identifica la storia dell’Azione cat-

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AZIONE CATTOLICA

tolica con quella delle organizzazioni che, a partire dalla Rivoluzione francese e soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, cercano di creare forme nuove di presenza cristiana in una società che va progressivamente e totalmente scristianizzandosi. G. attribuisce grande importanza storica all’Azione cattolica perché essa «segna l’inizio di una epoca nuova nella storia della religione cattolica: quando essa da concezione totalitaria (nel duplice senso: che era una totale concezione del mondo di una società nel suo totale), diventa parziale (anche nel duplice senso) e deve avere un proprio partito» (Q , , ). L’Azione cattolica si presenta agli occhi di G. come un vero e proprio partito, suscitato e organizzato direttamente dalla Chiesa nei tempi moderni per arginare il processo di «apostasia di intere masse [...] il superamento di massa della concezione religiosa del mondo» (ibid.) avviatosi con la Rivoluzione francese. A partire da questo momento il problema politico di fondamentale importanza e urgente per la gerarchia ecclesiastica è proprio quello di recuperare, attraverso l’opera dei propri intellettuali e dell’Azione cattolica, l’egemonia ideologica, sociale e politica compromessa. Questo ruolo politico dell’Azione cattolica è simile ma anche specificamente diverso da quello delle altre organizzazioni cattoliche (sindacati, Partito popolare, intellettuali cattolici). Rapporto che viene così precisato da G.: «L’Azione cattolica è stata sempre un organismo complesso, anche prima della costituzione della Confederazione bianca del Lavoro e del Partito Popolare. La Confederazione del Lavoro era considerata organicamente una parte costitutiva dell’Azione cattolica, il Partito Popolare invece no, ma lo era di fatto. Oltre che alle altre ragioni, la costituzione del Partito Popolare fu consigliata da ciò che si riteneva inevitabile nel dopo guerra una avanzata democratica, alla quale occorreva dare un organo e un freno, senza mettere in rischio la struttura autoritaria dell’Azione Cattolica che ufficialmente è diretta personalmente dal Papa e dai Vescovi: senza il Partito Popolare e le innovazioni in senso democratico portate nella Confederazione sindacale, la spinta popolaresca avrebbe sovvertito tutta

la struttura dell’Azione Cattolica, mettendo in quistione l’autorità assoluta delle gerarchie ecclesiastiche» (Q , , ). Questo rapporto istituito da G. tra l’Azione cattolica e i partiti-sindacati cattolici è stato rappresentato (Portelli ) nei termini di una distinzione fra «il permanente e il congiunturale», «l’obbligatorio e il facoltativo», precisando però che esso non sempre, all’atto pratico, si evidenzia come di subordinazione dei partiti o dei sindacati alla gerarchia ecclesiastica e al Vaticano, attraverso la mediazione dell’Azione cattolica. Ciò si verifica in Italia, dove sindacato e partito sono più direttamente subordinati all’Azione cattolica, non invece in Germania, dove ha la preminenza il partito cattolico di centro (Zentrum), e nella stessa Francia, dove l’Azione cattolica, sebbene presenti una struttura solida e disponga di un personale più qualificato di quello italiano, è tuttavia soggiogata in misura maggiore dal movimento politico integralista anziché dal Vaticano (Q , , ; v. Portelli , ). Altrettanto interessante il rapporto che G. istituisce tra l’Azione cattolica e gli intellettuali cattolici. La nascita e lo sviluppo dell’Azione cattolica, come pure del modernismo, gesuitismo e integralismo contemporanei, «hanno significati più vasti che non siano quelli strettamente religiosi: sono “partiti” nell’“impero assoluto internazionale” che è la Chiesa Romana ed essi non possono evitare di porre in forma religiosa problemi che spesso sono puramente mondani, di “dominio”» (Q , , ). Il giudizio politico di G. a proposito dell’Azione cattolica non è univocamente negativo, ma complesso, ricalcato su quello già espresso nel periodo giovanile riguardo al Partito popolare. In un articolo apparso su “La Correspondance Internationale”, sebbene la ritenga generalmente un’organizzazione «nelle mani dell’aristocrazia, dei grandi proprietari e delle alte autorità ecclesiastiche, reazionarie e simpatizzanti col fascismo» (Il Vaticano,  marzo , in CPC ), egli annota tuttavia anche che «una parte dei contadini, [...] risvegliata alle lotte per la difesa dei suoi interessi dalle stesse organizzazioni autorizzate e dirette dalle auto-

AZIONE CATTOLICA

rità ecclesiastiche, [...] accentua il proprio orientamento di classe e incomincia a sentire che le sue sorti non sono separabili da quelle della classe operaia. Indizio di questa tendenza è il fenomeno Miglioli. Un sintomo assai interessante di essa è anche il fatto che le organizzazioni bianche, le quali, essendo una parte dell’“Azione cattolica”, fanno capo direttamente al Vaticano, hanno dovuto entrare nei comitati intersindacali con le Leghe rosse, espressione di quel periodo proletario che i cattolici indicavano fin dal  come imminente alla società italiana» (La situazione italiana e i compiti del PCI, gennaio , in CPC ). Anche nella seconda metà del  – quando ormai «l’Azione cattolica [...] rappresenta [...] una parte integrante del fascismo, tende attraverso l’ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata in un certo senso, nell’intenzione di una tendenza fortissima del Partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso Partito fascista nella funzione di partito di massa e di organismo di controllo politico sulla popolazione» (Un esame della situazione italiana, agosto , in CPC ) – G. non desiste dal tentare ugualmente un approccio aperto verso i giovani dell’Azione cattolica, ritenendo che «se ha importanza il fatto che un massimalista, un riformista, un repubbli-



cano, un popolare, un sardista, un democratico meridionale aderiscono al programma del fronte unico proletario e della alleanza fra operai e contadini, molta maggior importanza ha il fatto che a tale programma aderisca un membro dell’azione cattolica come tale», poiché «ogni nostro successo sia pure limitato nel campo dell’Azione cattolica significa pertanto che noi riusciamo a impedire lo svolgimento della politica fascista in un campo che sembrava precluso a qualsiasi iniziativa proletaria» (ibid.). Da tener sempre presente che l’analisi dell’Azione cattolica e degli intellettuali cattolici contemporanei è solo l’ultimo capitolo di una ricerca ben più ampia sugli intellettuali italiani, comprendente a sua volta un consistente capitolo sulla Chiesa come intellettuale (LC -, a Tatiana,  luglio ). Studio che G. conduce sotto l’angolatura particolare del rapporto tra intellettuali e masse popolari e come esempio di storicizzazione del rapporto dialettico tra senso comune, religione popolare e filosofia. TOMMASO LA ROCCA V. «cattolici», «Chiesa cattolica», «contadini», «egemonia», «filosofia», «gesuiti, gesuitismo», «ideologia», «integralisti», «intellettuali», «intellettuali italiani», «modernismo», «partito», «Partito popolare», «quistione cattolica», «religione», «senso comune».

B

Babbitt Babbitt è il protagonista del romanzo omonimo di Sinclair Lewis che G. lesse in carcere, in traduzione francese, e che è anche oggetto di commenti nel fascicolo della rivista tedesca “Die literarische Welt”, che egli tradusse. Per G., il libro di Lewis è di «importanza culturale più che artistica: la critica dei costumi prevale sull’arte», è rappresentativo dell’inizio di un’autocritica sulla nuova civiltà statunitense da parte di un ceto intellettuale che inizia a staccarsi dalla classe dominante (Q , , ), in un paese in cui – non va dimenticato – l’assenza di un gran numero di intellettuali tradizionali fa sì che l’egemonia nasca direttamente dalla fabbrica, con l’apporto di «una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia» (Q , , ). Babbitt è il prototipo di colui che, facendo parte delle classi medio-basse statunitensi dell’epoca, assume il grande industriale come «modello» (Q , , ) e, senza accorgersene, ne riproduce i pregiudizi. Il suo ragionare, la sua logica sono inficiati dal fatto che egli vi introduce inconsapevolmente opinioni connotate da un preciso punto di vista sociale e di classe (Q , , ). Il che fa concludere a G. che gli uomini, nella maggioranza dei casi, «non si accorgono di quanto il sentimento e l’interesse immediato turbino il processo logico» (ibid.). Il conformismo di Babbitt, tipico del «filisteo di un paese in movimento» (Q , , ), «è ingenuo e spontaneo», «una superstizione energetica e progressiva» (Q , , ); il conformismo equivalente in Europa, fornito dal «canonico della cattedrale, dal nobila-

stro di provincia, dal capo sezione del Ministero», è «una superstizione imputridita e debilitante» (ibid.). Nonostante tutto – conclude G. –, il Babbitt americano guarda in avanti, mentre quello europeo guarda indietro, verso una società non necessariamente superata, ma certamente arretrata. DEREK BOOTHMAN V. «americanismo», «conformismo», «Europa», «intellettuali».

bambino «Bambino» e «fanciullo» compaiono in numerose note dei Q e in buona parte delle LC, che G. invia alla moglie Julca (Giulia) e alla cognata Tatiana, soprattutto in riferimento alla questione della formazione della personalità. In particolare G. valorizza, nel concetto di bambino, contro la presunta componente naturale, quella storica perché è «con la coercizione» (LC , a Giulia,  dicembre ) che si determina la formazione del bambino come dell’uomo. Gli elementi della personalità, infatti, si formano storicamente di volta in volta, poiché – osserva G. – «la coscienza del fanciullo non è alcunché di “individuale” (e tanto meno di individuato)», ma rappresenta «il riflesso della frazione di società civile cui il fanciullo partecipa, dei rapporti sociali quali si annodano nella famiglia, nel vicinato, nel villaggio ecc.» (Q , , ). G. infatti considera «il cervello del bambino» non come «un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare», come «si immagina» (Q , , ), ma come una parte del complesso mondo storico su cui l’ambiente, la società, esercita la sua coercizione. Tali considerazioni sono



BAMBINO

legate in G. non soltanto al problema dello «sviluppo della personalità» (LC , a Julca,  ottobre ) dei figli, Delio e Giuliano, e della nipote Edmea, ma anche alla questione del peculiare rapporto del bambinoallievo con il maestro e con la scuola. Emblematica appare la lettera, già citata, del  in cui G., a proposito della formazione dei figli, rimprovera a Giulia di lasciarsi influenzare da una concezione «metafisica» dell’educazione, dal presupporre cioè «che nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee della natura». Secondo G., infatti, «ciò che si crede forza latente» non è che il «complesso informe ed indistinto delle sensazioni e delle immagini dei primi giorni, dei primi mesi, dei primi anni di vita, immagini e sensazioni che non sempre sono le migliori che si vuole immaginare». E poiché – continua G. – queste immagini e queste sensazioni che vengono assorbite dal bambino in modo rapido e quantitativamente straordinario fin dai primi giorni di nascita saranno ricordate nel periodo di giudizi più riflessivi, in seguito all’«apprendimento del linguaggio», rinunziare a formare il bambino potrebbe significare cadere «in una forma di trascendenza o di immanenza» (LC , a Giulia,  dicembre ), ovvero permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall’ambiente generale tutti i motivi di vita. Di notevole interesse è anche il passo di una lettera dello stesso anno in cui G., prendendo a pretesto il racconto del processo di crescita di alcune pianticelle che coltiva nella sua cella e della sua tentazione quotidiana «di tirarle un po’ per aiutarle a crescere», dichiara a Tatiana di rimanere «incerto tra le due concezioni del mondo e dell’educazione», ovvero di non riuscire a decidere «se essere roussoiano e lasciar fare la natura che non sbaglia mai ed è fondamentalmente buona o se essere volontarista e forzare la natura introducendo nell’evoluzione la mano esperta dell’uomo e il principio d’autorità» (LC , a Tania,  aprile ). Tale iniziale incertezza sembra cominciare a esaurirsi qualche mese più tardi in una lette-

ra indirizzata a Giulia in cui G., dopo averle confessato di essere «molto invidioso» poiché non può «godere la prima freschezza delle impressioni sulla vita dei bambini» e non può aiutarla «a guidarli e a educarli», palesa le sue perplessità rispetto al modello educativo «ginevrino e roussoiano» (LC , a Julca,  luglio ) con cui, a suo avviso, vengono educati Delio e Giuliano. G. dichiara infatti che se tale modo, tipicamente svizzero, «di concepire l’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente» aveva avuto «la sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando negava una filosofia ancora peggiore», ora esso appare «altrettanto superato» (LC , a Giulia,  dicembre ). A questo proposito risultano altrettanto interessanti i giudizi, spesso critici e perentori, di G. rispetto alla personalità della nipote Edmea, giudicata «troppo puerile per la sua età» e senza «bisogni sentimentali che non siano piuttosto animaleschi (vanità ecc.)», a causa, «forse», dei troppi vizi e della non costrizione, da parte dei familiari, «a disciplinarsi» (LC , alla madre,  luglio ). In realtà la riflessione sulla formazione della nipotina permette a G. di esprimere la sua opinione sul fondamentale ruolo della famiglia e della scuola nel processo educativo del bambino. Nell’elencare infatti quelle «qualità solide e fondamentali per il suo avvenire», che ogni fanciullo dovrebbe possedere, ovvero «la “forza di volontà”, l’amore per la disciplina e per il lavoro, la costanza nei propositi», G. dichiara di tener conto, «più che del bambino, di quelli che lo guidano e che hanno il dovere di fargli acquistare tali abitudini, senza mortificare la sua spontaneità»: un concetto, quest’ultimo, ricco di implicazioni e largamente affrontato, assieme a quello di «direzione consapevole», in numerose note dei Q. A tal riguardo egli poi aggiunge che considerando le «condizioni molto sfavorevoli» in cui si esplica l’«attività femminile [...] fin dalle prime scuole», allora è assolutamente auspicabile che «nella concorrenza [...] le donne abbiano qualità superiori a quelle domandate ai maschi e una maggior dose di tenacia e di perseveranza» (LC , a Teresina,  maggio ).

BENDA , JULIEN

Se ogni fanciullo, dunque, dovesse affrontare la scuola portando con sé una parte di quella mediazione della famiglia, purché non accecata «dai sentimenti» (LC , a Giulia,  dicembre ), allora «l’educazione» è da intendersi secondo G. come «una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura per dominarla e creare l’uomo “attuale” alla sua epoca» (Q , , ). Sulla base di ciò G., nonostante consideri assolutamente necessario che la scuola si liberi da rapporti di disciplina ipocrita e meccanica, allo stesso tempo ritiene comprensibile che la stessa, nella sua prima fase, debba tendere «a disciplinare, quindi anche a livellare, a ottenere una specie di “conformismo” che si può chiamare “dinamico”» (Q , , ). Superata questa prima fase, secondo G., spetta al «lavoro vivente del maestro» il compito di «accelerare e [...] disciplinare la formazione del fanciullo» (Q , , ), poiché la scuola, a suo avviso, rappresenta soltanto «una frazione della vita dell’alunno» (Q , , ), un’integrazione della società e ne assimila tutti gli elementi di contrasto e di lotta, poiché «la coscienza individuale [...] dei fanciulli riflette rapporti civili e culturali diversi e antagonistici con quelli che sono rappresentati dai programmi scolastici» (Q , , ). Soltanto in un secondo momento, cioè quando la scuola diventa «creativa, sul fondamento raggiunto di “collettivizzazione” del tipo sociale», essa favorirà l’espansione della personalità «divenuta autonoma e responsabile, ma con una coscienza morale e sociale solida e omogenea» (Q , , ). VALERIA LEO V. «coercizione», «educazione», «famiglia», «Giulia», «natura», «personalità», «Rousseau», «scuola», «spontaneità», «uomo».

bellezza «Bellezza» è per G. sinonimo di arte. Il termine indica, crocianamente, una non meglio definita qualità formale dell’arte, che non comporta, però, da parte dei fruitori, né un immediato riconoscimento né un automatico godimento estetico. Esso implica quella preliminare distinzione tra «“bellez-



za”» e «contenuto “umano e morale”» (Q , , ) che permette a G. di prendere le distanze dall’estetica crociana. Egli non nega che compito dell’estetica «come scienza» sia «quello di elaborare una teoria dell’arte e della bellezza, dell’espressione» (Q , , ), ma ribadisce che nell’approccio all’arte si deve privilegiare lo studio della sua «“funzione”», pur ammettendo che un simile studio «non è sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza» (Q , , ). Per G. la «ricerca sulla bellezza di un’opera» non può che essere «subordinata alla ricerca del perché essa è “letta”, è “popolare”, è “ricercata” o, all’opposto, del perché non tocca il popolo e non l’interessa» (Q , , ). La questione è affrontata anche in due lettere alla moglie Giulia. Contestando di aver affermato che «“avere dell’amore per uno scrittore od un altro artista non è lo stesso che avere per lui della stima”», G. obietta di essersi limitato a distinguere «il godimento estetico e il giudizio positivo di bellezza artistica, cioè lo stato d’animo di entusiasmo per l’opera d’arte come tale, dall’entusiasmo morale, cioè dalla compartecipazione al mondo ideologico dell’artista, distinzione [....] criticamente giusta e necessaria» (LC -,  settembre ). Da questo punto di vista è significativo che invitando un anno dopo la moglie a illustrare al figlio Delio le motivazioni storiche della religiosità della Capanna dello zio Tom, G. rivaluti il ruolo della bellezza e del godimento estetico come via privilegiata alla comprensione di sentimenti non più attuali: «A me pare che debba avvenire in noi una catarsi, come dicevano i greci, per cui i sentimenti si rivivono “artisticamente” come bellezza, e non più come passione condivisa e ancora operante» (LC ,  agosto ). In questo modo egli apre la strada a una considerazione della bellezza artistica estranea alle premesse idealistiche. MARINA PALADINI MUSITELLI V. «arte», «Croce», «estetica».

Benda, Julien G., partendo da un articolo di Benda del , considerato come un corollario del pamphlet La trahison des clercs, sottolineava



BERGSON , HENRI

come l’intellettuale francese intervenisse su una questione allora assai dibattuta, dal primo dopoguerra lungo il corso degli anni Venti: la questione della «nazionalità del pensiero» (per cui, ad esempio, «il Geist tedesco è ben diverso dall’Esprit francese»). In connessione, ma anche in rapporto critico, con le considerazioni di Benda, G. osservava che, se è vero che «l’universale si serve meglio quanto più si è particolari», è altresì vero che «una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo» (Q , , ). In ciò consisteva per G. l’equivoco del nazionalismo, il quale pretendeva spesso di essere «il vero universalista, il vero pacifista» (ibid.) proprio in nome di un particolarismo che si concepiva come universalismo. Più in generale, l’autore dei Q tendeva ad accomunare Benda e Croce, nel senso che entrambi, a suo avviso, esaminavano la «quistione degli intellettuali» facendo astrazione sia «dalla situazione di classe degli intellettuali stessi» sia «dalla loro funzione», che si era andata definendo e precisando con l’enorme diffusione del libro e della stampa periodica (ivi, ). Infine, riguardo al convincimento di Benda secondo cui il fervore in atto, volto a mantenere e a preservare la «nazionalizzazione dello spirito», significava in realtà che lo spirito europeo stava nascendo e che al suo interno l’intellettuale-artista avrebbe dovuto «individualizzarsi» per attingere una dimensione «universale», G. precisava con decisione che la «lotta intellettuale», condotta senza una «lotta reale» tendente a capovolgere una situazione storica, non poteva che essere sterile, e così concludeva: «È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato più elevato» (ivi, ). PASQUALE VOZA V. «Croce», «Goethe», «intellettuali», «nazionalismo».

Bergson, Henri Bergson è spesso citato in relazione all’accusa rivolta al movimento torinese di essere «“spontaneista”», «“volontarista”» e appunto «bergsoniano» (all’epoca G. rispose

con sarcasmo a questa accusa nell’articolo Bergsoniano!, del  gennaio , in SF -; a tali accuse, lanciate già nel  anche in ambito massimalista, si fa riferimento in Q , , ). Al riguardo G. ricorda che nel socialismo italiano «dominava una concezione fatalistica e meccanica della storia [...] e però si verificavano atteggiamenti di un volontarismo formalistico sguaiato e triviale» (ibid.), mentre il movimento torinese produsse una «unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”» (Q , , ). Non a caso i giudizi su Bergson si inseriscono frequentemente in discussioni circa la volontà di G. di superare visioni del mondo e concezioni della storia che eccedano in materialismo o in idealismo oppure compaiono nella ricorrente tesi della «doppia revisione» subita dalla filosofia della praxis, revisione che implica anche l’affermazione dell’influenza del marxismo su molte filosofie: «Bisognerebbe [...] studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo» (Q , , -). Brani di Bergson offrono inoltre spunti di riflessione circa «l’intuizione politica», ma in un contesto a lui estraneo e più ispirato a Machiavelli. Il più diretto riferimento a Bergson è in una discussione di un saggio contenuto in L’énergie spirituelle dedicato all’ipotesi di un’umanità rivolta alla vita interiore piuttosto che al mondo materiale: «Il regno del mistero sarebbe stato la materia e non più lo spirito, egli dice [...] In realtà “umanità” significa Occidente, perché l’Oriente si è proprio fermato [...] al mondo interiore. La quistione sarebbe questa [...]: se non è proprio lo studio della materia [...] che ha fatto nascere il punto di vista che lo spirito sia un “mistero”» (Q , , ). Non vi sono valutazioni complessive della filosofia bergsoniana, apprezzata in funzione antipositivistica, ma citata soprattutto in riferimento a «forme di irrazionalismo e arbitrarietà» (Q  I, , ). LUDOVICO DE LUTIIS V. «filosofia della praxis», «Machiavelli», «marxismo», «materia», «Oriente-Occidente», «pragmatismo», «revisionismo», «Sorel», «spirito, spiritualismo», «spontaneismo», «volontarismo».



BILANCIO STATALE

Bernstein, Eduard In Q , , - G. sottopone ad analisi critica l’affermazione di Bernstein «secondo cui il movimento è tutto e il fine è nulla». Lungi dal tentare un’interpretazione della dialettica, Bernstein propone «una concezione meccanicistica della vita e del movimento storico» nella quale le forze umane appaiono passive e il movimento è colto in un’ottica di evoluzionismo volgare piuttosto che di svolgimento e di sviluppo. Ciò che stupisce, continua G., è il fatto che Bernstein attinga al revisionismo idealistico che, comunque, contempla l’intervento degli uomini ritenendolo decisivo «nello svolgimento storico». Eppure Bernstein non esclude totalmente l’intervento umano, «ritenuto efficiente come tesi, ossia nel momento della resistenza e della conservazione», ma «rigettato come antitesi, ossia come iniziativa e spinta antagonista». Mentre però per la resistenza e la conservazione possono esistere «“fini”», ciò non accade per il progresso e per l’iniziativa innovatrice. Insomma, conclude G., si tratta di un’astuta teorizzazione della passività, in cui la tesi debilita l’antitesi, la quale «ha bisogno di prospettarsi dei fini, immediati e mediati, per rafforzare il suo movimento superatore. Senza la prospettiva di fini concreti, non può esistere movimento del tutto» (ibid.). Secondo Sorel, come si evince da una sua lettera a Croce, ispiratore di Bernstein era stato anche il lavoro dello stesso Croce (Q  II, , ), che divenne «leader intellettuale delle tendenze revisionistiche degli anni » (Q  I, p. ). LELIO LA PORTA V. «Croce», «dialettica», «evoluzionismo», «mezzi e fini», «revisionismo», «socialisti», «Sorel».

biblioteca La biblioteca è agli occhi di G. uno dei luoghi fondamentali di formazione e diffusione della cultura. Nei Q il concetto interviene sia nell’esame del «materiale ideologico» che confluisce a formare una determinata egemonia, sia anche nell’analisi della «scuola unitaria» (per il primo caso v. Q , , -: Materiale ideologico): «Uno studio di come è orga-

nizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il “fronte” teorico o ideologico [...] La stampa è la parte più dinamica di questa struttura ideologica, ma non la sola: tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente le appartiene: le biblioteche, le scuole, i circoli e clubs di vario genere, fino all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste» (ibid.). È indicativo della peculiare struttura dell’egemonia in Italia il fatto che certi servizi, altrove finanziati dallo Stato, «sono da noi trascurati quasi del tutto; tipico esempio le biblioteche e i teatri» (Q , , ). A proposito della scuola unitaria, G. sottolinea come la biblioteca, insieme ai «seminari», ai «gabinetti sperimentali» e ai «laboratori» (Q , , ), costituisca il corpo centrale dell’attività educativa e formativa, in cui «si raccoglieranno gli elementi fondamentali per l’orientazione professionale» (ibid.). Questa struttura dovrebbe prolungarsi in un sistema accademico territoriale completamente nuovo, centralizzato e razionalizzato («nelle sezioni provinciali e al centro tutte le attività dovranno essere rappresentate, con laboratori, biblioteche, ecc.»: ivi, ), e capace di mettere in luce i più meritevoli. G. nutre inoltre un certo interesse per le biblioteche popolari, che possono fornire «spunti “reali” sulla cultura popolare» (Q , , ). Anche le biblioteche carcerarie, da lui sempre frequentate, sono testimonianza sia di un sistema egemonico, sia di un certo modo popolarmente diffuso di pensare (si vedano i numerosi spunti nelle LC, in particolare LC -, a Tania,  aprile ). FABIO FROSINI V. «apparato egemonico», «architettura», «carcere o prigione», «cultura popolare», «egemonia», «giornalismo», «scuola», «struttura ideologica».

biennio rosso: v. Ordine Nuovo (L’). bilancio statale Nel lungo e articolato Q ,  – ricco di cifre e dati e comprensivo anche di un diagramma – G. riprende e commenta quanto



BIOGRAFIA NAZIONALE

scritto dall’economista Tommaso Tittoni sulla situazione finanziaria italiana degli anni -, anche in rapporto a quella di altre nazioni europee, in due articoli pubblicati sulla “Nuova Antologia”, intitolati entrambi Problemi finanziari, rispettivamente del  maggio  e del ° giugno . Il «bilancio italiano – si legge – non è un conto di fatto, di tipo inglese, che registra incassi e spese effettivamente avvenuti, ma un conto di diritto, di tipo francese, comprendente da una parte le entrate accertate e scadute, da un’altra parte le spese ordinate, liquidate ed impegnate nei modi prescritti dalla legge» (Q , , ). Ciò comporta il grande inconveniente che in un bilancio di competenza i residui, sia attivi che passivi, non possono essere valutati alla stessa stregua di incassi e pagamenti: «nessun esercizio si esaurisce in sé» perché «lascia sempre dei residui attivi e passivi, in modo che alla gestione del bilancio proprio dell’esercizio si aggiunge quella dei residui attivi e passivi dei precedenti esercizi che la cassa va a sopportare» (ibid.). Più tardi, nel Q , G. nota che sul bilancio dello Stato italiano gravano l’apparato amministrativo e un iniquo sistema pensionistico. Sulla scorta delle analisi di Renato Spaventa, G. rileva che un decimo della popolazione italiana è costituito da uomini poco più che quarantenni, quindi nel pieno vigore delle forze fisiche e intellettuali. Questi, «dopo  anni di servizio statale, non si dedicano più a nessuna attività produttiva, ma vivacchiano con le pensioni più o meno grandi, mentre un operaio può godere una assicurazione solo dopo i  anni e per il contadino non esiste limite di età al lavoro» (Q , , -). Cosa che non accade in America, dove la razionalità della composizione demografica impedisce l’esistenza di «classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie» (ivi, ). VITO SANTORO V. «crisi», «debito pubblico», «fordismo», «titoli di Stato».

biografia nazionale In Q , ,  e poi nel Q , il “quaderno speciale” sul Risorgimento italiano,

G. descrive e biasima la concezione della storia come «“biografia” nazionale», secondo cui l’Italia viene considerata, a un tempo astrattamente e concretamente, come la «bella matrona delle oleografie popolari» (Q , , ), di cui gli italiani sarebbero «i “figli”». Alla biografia della madre consegue e succede allora quella dei «“figli buoni”», a cui sono contrapposti quelli «deviati». Questo tipo di storia sarebbe nata con il sentimento nazionale, perché avrebbe la funzione di rinsaldarlo nelle grandi masse e sarebbe pertanto adoperata come «uno strumento politico» (ibid.). Concepita e sorta per motivi propagandistici, si svilupperebbe a partire dal presupposto che «ciò che si desidera sia sempre esistito e non abbia potuto affermarsi per l’intervento di forze estranee o per l’addormentarsi delle virtù intime» (Q , , ). Secondo G., la storia vista come «“biografia” nazionale» sarebbe quindi doppiamente antistorica, dacché sarebbe in contraddizione con la realtà e sminuirebbe in particolare le peculiarità e l’«originalità» del fenomeno del Risorgimento e lo sforzo compiuto dai suoi uomini per contrastare i nemici esterni, ma anche le «forze interne conservatrici che si opponevano all’unificazione» (Q , , ). In questo testo di seconda stesura G. illustra la diffusione “pedagogica” dell’immagine oleografica dell’Italia e della relativa forma storiografica attraverso un paragone con la situazione francese. Per spostare l’accento sugli uomini e mettere fine all’idea dello Stato come patrimonio e territorio, Napoleone si disse imperatore dei francesi e Luigi Filippo re dei francesi, con un appellativo di «carattere nazionale-popolare profondo» (ibid.); inoltre la rappresentazione simbolica della madrepatria francese, «“Marianna” [...] può essere canzonata anche dai più accesi patriotti». Scherzare sull’equivalente figura stilizzata dell’Italia invece «significherebbe senz’altro essere antipatriotti come lo furono i sanfedisti e i gesuiti prima e dopo il » (ibid.). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «Francia», «nazionale-popolare», «Risorgimento».

BLOCCO STORICO

blocco agrario In un noto passo della QM G. definisce la società del Sud Italia come un «grande blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande massa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali». In questo contesto i contadini da un lato vivono in una situazione di «perpetuo fermento», dall’altro, in quanto «massa», si rivelano «incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e precisione» (CPC ). La borghesia colta meridionale – notai, medici, avvocati, insegnanti – è infatti, a detta di G., la custode e la garante del potere dei capitalisti del Nord, formando un blocco intellettuale che ha impedito «che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana» (ivi, ). Non a caso «Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana» (ivi, ). In Q , , -, analizzando il problema del rapporto città-campagna nel Risorgimento, G. evidenzia come anche l’elemento principale di debolezza della politica di Crispi risiedeva nella scelta di «legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto, e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini». In altre parole, «di non avere osato [...] posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria». Da qui «l’impressione» che fu Cavour il solo politico a considerare «le classi agrarie meridionali come fattore primario,

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classi agrarie e non contadine naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e grandi intellettuali». ANTONELLA AGOSTINO V. «Cavour», «contadini», «Crispi», «Croce», «Mezzogiorno», «quistione meridionale», «Risorgimento».

blocco storico Come la nozione di «rivoluzione passiva» è dichiaratamente ricavata da Vincenzo Cuoco e poi viene rielaborata e ritradotta quale chiave originale di analisi storica e di riflessione teorico-politica, così la nozione di «blocco storico» è dichiaratamente ricavata da Georges Sorel e, una volta sviluppata e ripensata da G., diviene una categoria fondamentale del «pensiero in isviluppo» dei Q. Si può dire innanzitutto che tale categoria chiama in causa sostanzialmente due questioni essenziali del marxismo di G.: la questione delle ideologie (o «superstrutture») e quella della storia etico-politica, a partire dall’elaborazione datane da Croce. In un importante paragrafo del Q  intitolato Croce e Marx G. afferma che per studiare bene l’«argomento del valore concreto delle superstrutture in Marx» è necessario «ricordare il concetto di Sorel del “blocco storico”» (Q , , ). Va subito precisato che l’espressione non ricorre letteralmente in Sorel e che il concetto è legato nell’autore francese alla sua nozione centrale di mito: il che vuol dire che G. di quel concetto opera, sin dall’inizio, una propria, peculiare “traduzione”. Più avanti, in un paragrafo successivo dello stesso Q , G. afferma che, quando «il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente)», allora soltanto si crea un reale rapporto di rappresentanza e «si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale» e si crea dunque il «“blocco storico”» (Q , , ). Ma, non a caso, è in un paragrafo dedicato alla «validità», alla realtà, alla storica determinatezza delle ideologie (non riducibili a mere “apparenze”), cioè in un paragrafo de-

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BODIN , JEAN

dicato a un punto fondamentale e innovativo del suo marxismo, che G. fornisce la definizione forse più limpida della nozione di blocco storico: in esso «le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali» (Q , , ). In sostanza, attraverso il concetto di blocco storico, in connessione con quello di ideologia, G. rinnova criticamente la concezione marxiana corrente del rapporto struttura-sovrastruttura, all’interno della quale la seconda fungeva da mero “riflesso” speculare della prima. Ed è proprio di tale concetto che G. si vale per sviluppare il suo attacco critico alla nozione crociana di storia etico-politica, per mostrare che tale storia non è neanche eticopolitica, ma, più propriamente, «speculativa». La storia etico-politica – afferma decisamente G. – «non può prescindere neanche essa dalla concezione di un “blocco storico”, in cui l’organismo è individualizzato e reso concreto dalla forma etico-politica, ma non può essere concepito senza il suo contenuto “materiale” o pratico» (Q , , ). E tuttavia, ad avviso di G., il pensiero di Croce deve essere apprezzato come «valore strumentale», come utile «“canone empirico”» (G. utilizza ad arte la stessa espressione crociana), nella misura in cui esso «ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero» nella vita della storia, e sul momento dell’egemonia e del consenso come «forma necessaria del blocco storico concreto» (Q  I, , ). Del suo concetto di blocco storico G. si vale anche nella ricorrente e serrata critica dei concetti, definiti intimamente dogmatici, di «uomo in generale» e di «natura umana»: «L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo» (Q  II, , ). Infine, nella lettera alla cognata Tania del , in cui, con appassionata intonazione “pedagogica”, spiega il suo «Anti-Croce», G. mette in discussione la pensabilità di una «storia unita-

ria» dell’Europa che inizi dal , cioè dalla Restaurazione (come fa appunto la Storia d’Europa di Croce). Egli afferma che, se si vuole scrivere una storia d’Europa come storia del processo di formazione di un blocco storico, allora essa non può prescindere dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, che «nel blocco storico europeo sono la premessa “economico-giuridica”, il momento della forza e della lotta». Invece Croce, proprio perché la sua, al fondo, è una «storia “speculativa”», in cui è costitutivamente assente il concetto “unitario” di blocco storico, assume il momento successivo alla Rivoluzione francese, quello in cui «le forze scatenate precedentemente si sono equilibrate, “catartizzate” per così dire», e fa di tale momento «un fatto a sé», costruendo così «il suo paradigma storico» (LC -,  maggio ). PASQUALE VOZA V. «Croce», «forma-contenuto», «ideologia», «natura umana», «Sorel», «storia etico-politica», «struttura», «superstruttura, superstrutture», «uomo».

Bodin, Jean Larga parte di Q ,  è riservata a Jean Bodin. Lo spunto è la precisazione sulla «moderna “machiavellistica” derivata dal Croce», della quale, accanto ai meriti, «occorre segnalare anche le “esagerazioni” e le deviazioni cui ha dato luogo». Scrive G.: «bisogna considerare maggiormente il Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo» (ivi, ), e da questa «concezione del Machiavelli più aderente ai tempi deriva subordinatamente una valutazione più storicistica dei così detti “antimachiavellici”» (ivi, ). È il caso appunto di Jean Bodin e della sua presunta appartenenza alla schiera degli antimachiavellici: «non si tratta, in realtà, di antimachiavellici, ma di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni diverse da quelle che operavano sul Machiavelli» (ibid.). Per G. Bodin si situa a tutti gli effetti sullo stesso solco di Machiavelli, quello dell’elaborazione di una politica finalizzata alla creazione e al mantenimento di uno Stato moderno.

BONAPARTISMO

Se il solco è lo stesso, diverso è però il punto in cui si trovano i due pensatori: Machiavelli è nella fase iniziale, alle prese con l’accentramento territoriale e l’unità del comando, Bodin è invece già in una fase successiva, «fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all’epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell’interno di questo Stato già forte e radicato» (ivi, ). La conclusione di G. è che «non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso» (ibid.), ovvero le pratiche adatte a mantenere, non più a instaurare, uno Stato sovrano. Nelle condizioni della Francia monarchica, sottolinea G., «il Machiavelli serviva già alla reazione, perché poteva servire a giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo in “culla” [...], quindi bisognava essere “polemicamente” antimachiavellici» (ibid.). MICHELE FILIPPINI V. «consenso», «Machiavelli», «Stato».

bonapartismo Il concetto di «bonapartismo» è legato in G. a quello di «cesarismo», ovvero di un regime che «esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca» (Q , , ). In questa situazione, in cui date due forze A e B in lotta «può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall’esterno assoggettando ciò che resta di A e di B» (Q , , ), il bonapartismo rappresenta l’ascesa di una personalità forte che assume il comando ed evita la distruzione reciproca delle parti in conflitto. G. ritiene importante «fare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità “eroica”» (Q , , ), così da poter ricostruire il ruolo storico da loro svolto e le forze, progressive o regressive, che sotto questo regime si sono sviluppate.



Oltre che caratterizzato dal comando di una forte personalità, il bonapartismo è caratterizzato anche dall’appoggiarsi all’elemento militare. Su questo G. precisa come «in una serie di paesi» l’influenza «dell’elemento militare nella politica non ha solo significato influenza e peso dell’elemento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare (ufficiali subalterni specialmente) trae specialmente origine» (Q , , ). È questa un’accortezza che «pare serva bene ad analizzare l’aspetto più riposto di quella determinata forma politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo» (ibid.). Lo strato sociale da cui si reclutano le forze che compongono l’elemento militare che supporta il bonapartismo è il protagonista del legame che si instaura in questa particolare forma di organizzazione del potere. G. prende a esempio la storia italiana dal Risorgimento in poi, notando come «il governo ha infatti operato come un “partito” [...] per disgregarli [gli altri partiti, ndr], per staccarli dalle grandi masse e avere “una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo”» (Q , , ). Pur non essendo di fronte a un vero regime bonapartistico, anche davanti alle «così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti» (ibid.), l’Italia post-unitaria ne presenta però quello che è il suo carattere fondamentale, ovvero il legame “personale” di un certo strato sociale con il governo, mediato attraverso «la burocrazia», che «diventava appunto il partito statale-bonapartistico» (ivi, ). Due sono i luoghi dei Q dove G. mette in guardia dalle possibili derive bonapartiste. Il primo è in una nota che analizza le difficoltà insite nell’adattamento ai nuovi automatismi del lavoro industriale. G. denuncia: «in questa questione il fattore ideologico più depravante è l’illuminismo, la concezione “libertaria” legata alle classi non manualmente produttive» (Q , , ), ovvero la pretesa che le nuove abitudini possano essere acquisite «solo per via di persuasione e di convinzione» (ibid.). Constatato che la classe al potere, con la crisi di libertinismo legata al suo stato non produttivo («crisi in “permanenza”», ibid.), non riesce a imporre i nuovi au-

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BORDIGA , AMADEO

tomatismi, G. vede come unica soluzione quella dell’autodisciplina delle masse, figlia ovviamente della rivoluzione vittoriosa: «se non si crea l’autodisciplina, nascerà una qualche forma di bonapartismo» (ibid.). Il secondo luogo dove G. mette in guardia dal bonapartismo è nella critica a Trockij e al suo tentativo di istituire gli eserciti del lavoro in Russia: «la tendenza di Leone Davidovi [...] Il suo contenuto essenziale era dato dalla “volontà” di dare la supremazia all’industria e ai metodi industriali, di accelerare con mezzi coercitivi la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Sarebbe sboccata necessariamente in una forma di bonapartismo, perciò fu necessario spezzarla inesorabilmente» (Q , , ). Questo giudizio così severo trova però un correttivo poco più avanti: «le sue soluzioni pratiche erano errate, ma le sue preoccupazioni erano giuste. In questo squilibrio tra pratica e teoria era insito il pericolo» (ibid.). MICHELE FILIPPINI V. «burocrazia», «cesarismo», «disciplina», «esercito», «illuminismo», «Risorgimento», «Trockij».

Bordiga, Amadeo Amadeo Bordiga (citato nei Q come Amadeo o Gottlieb), segretario del PCD’I dalla fondazione (Livorno, ) al , impersonifica all’interno del movimento comunista una tendenza e una concezione politica che G. avversa apertamente tra il  e il . Già nella lettera da Vienna del  febbraio  G. individua i limiti della visione bordighiana del partito, concepito non come «il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualche cosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione» (Togliatti , ). Le tesi preparate da G. e Togliatti per il III Con-

gresso del partito (Lione, gennaio ) criticano lo scetticismo di Bordiga «sulla possibilità che la massa operaia organizzi dal suo seno un partito di classe [...] capace di guidare la grande massa sforzandosi di tenerla in ogni momento collegata a sé». Bordiga non concepisce il partito come «parte» della classe operaia, ma come suo organo, formato da elementi eterogenei; non lo vede come guida della classe, ma come elaboratore di «quadri preparati a guidare la massa quando lo svolgimento delle situazioni l’avrà portata al partito». Errore teorico che porta a errori organizzativi e tattici: la linea politica, elaborata in base a preoccupazioni formalistiche, invece che sulla base dell’analisi dialettica della situazione concreta, induce alla passività, di cui l’astensionismo elettorale fu un aspetto. E in ciò si avvicina al massimalismo di destra (CPC -). Nei Q le poche note dedicate a Bordiga sono sferzanti e stroncatorie; la critica non è sistematica e articolata (come quella nei confronti di Croce o Bucharin), ma, in continuità con gli scritti precedenti, ne approfondisce alcuni aspetti teorici. Il principale testo preso di mira nei Q è costituito dalle Tesi di Roma sulla tattica, scritte da Bordiga e Terracini per il II Congresso del PCD’I (pubblicate sull’“Ordine Nuovo” del  gennaio ), dalle quali G. aveva già preso le distanze nella lettera da Vienna del  febbraio , nonché nell’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito dell’aprilemaggio : «La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi, il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri distintivi politici e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza di attrazione, si staccherebbe dalle masse» (CPC -). Nei Q la critica va alla radice filosofica dell’impianto delle Tesi di Roma: in esse «viene applicato il metodo matematico come nella economia pura», esempio tipico di «bizantinismo o scolasticismo», che è la «tendenza degenerativa a trattare le quistioni così det-

BORDIGA , AMADEO

te teoriche come se avessero un valore di per se stesse, indipendentemente da ogni pratica determinata». Ma «le idee non nascono da altre idee, [...] le filosofie non sono partorite da altre filosofie, ma [...] sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale», per cui «ogni verità, pur essendo universale, e pur potendo essere espressa con una formula astratta, di tipo matematico (per la tribù dei teorici), deve la sua efficacia all’essere espressa nei linguaggi delle situazioni concrete particolari: se non è esprimibile in lingue particolari è un’astrazione bizantina e scolastica, buona per i trastulli dei rimasticatori di frasi» (Q , , ). La critica alle Tesi di Roma ritorna indirettamente in una nota dedicata a Croce. Mesnil aveva pubblicato sull’“Humanité” del  marzo  un articolo in cui ravvisava in esse l’influenza di Croce. Secondo G., che rovescia l’accusa di idealismo crociano che Bordiga aveva più volte rivolto al gruppo dell’“Ordine Nuovo”, «mutate le stature intellettuali, Amadeo può essere avvicinato al Croce, come forse non pensava Jacques Mesnil», poiché entrambi sono affetti da «“giacobinismo” deteriore», si pongono come puri intellettuali, distaccati dalle masse (Q  I, , ). Entrambi si oppongono, nella teoria e nella pratica, all’auspicata riforma intellettuale e morale, non operano per un progresso intellettuale di massa. L’impianto filosofico di Bordiga risulta, nella critica gramsciana, fondato sul materialismo volgare, molto distante dall’impostazione dialettica di Marx. Nel bilancio politico sulla vita del partito, tracciato nel gennaio , quello di Bordiga è definito come «il vecchio metodo della dialettica concettuale proprio della filosofia premarxista e persino prehegeliana», tutt’altra cosa rispetto al «metodo della dialettica materialistica proprio di Marx» (Cinque anni di vita del partito, in CPC ). Bordiga è accostato a Feuerbach: «Ricordare l’affermazione di Amadeo che se si sapesse ciò che un uomo ha mangiato prima di un discorso, per esempio, si sarebbe in grado di interpretare meglio il discorso stesso. Affermazione infantile, e, di fatto, estranea anche alla scienza positiva» (Q , , ). Ritorna in una nota an-

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che l’accusa di ultraeconomicismo (con un riferimento all’articolo Socialismo e cultura sul “Grido del Popolo” del  gennaio , in CT -) che, al pari dell’opportunismo culturalistico di Tasca, è l’altra faccia della «stessa immaturità e dello stesso primitivismo» (Q , , ). Bordiga, che ha proposto di sostituire la formula del “centralismo democratico” con quella di “centralismo organico” (Verbale ), propende piuttosto per il centralismo burocratico. Per G., infatti, «l’“organicità” non può essere che del centralismo democratico il quale è un “centralismo” in movimento [...] una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall’alto [...] è “organico” perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia» (Q , , ). Infine, Bordiga è un «nomade» della politica. G. suggerisce l’analogia tra il partito mazziniano e quello bordighiano: «occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è evidente che per volontari non si deve intendere l’élite quando essa è espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o indifferente per essa) [...] La posizione del Gottlieb fu appunto simile a quella del Partito d’Azione, cioè zingaresca e nomade: l’interesse sindacale era molto superficiale e di origine polemica, non sistematico, non organico e conseguente, non di ricerca di omogeneità sociale, ma paternalistico e formalistico» (Q , , -). Espressa in altri termini, è la stessa critica delle Tesi di Lione: Bordiga concepisce il partito non come parte di un blocco sociale omogeneo, ma come costituito da elementi spuri. Nonostante i netti dissensi politici, espressi prima e dopo l’arresto, le LC testimoniano di rapporti di amicizia e solidarietà tra G. e Bordiga. Ritrovatisi alla fine del  confinati a Ustica in attesa di processo (LC , a Tania,  dicembre ), i due dirigenti, con

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BORGHESIA

altri comunisti, condivisero la casa (LC , a Sraffa,  dicembre ) e organizzarono «tutta una serie di corsi, elementari e di cultura generale, per i diversi gruppi di confinati» (ibid.). Molte le manifestazioni di stima e simpatia espresse da G. verso il suo antagonista politico (LC , a Tania,  gennaio ; LC -, a Julca,  gennaio ). ANDREA CATONE V. «centralismo», «economismo», «Feuerbach», «giacobinismo», «Ordine Nuovo (L’)», «partito», «Partito comunista».

borghesia Del tutto assente nelle LC, il lemma «borghesia» è frequentissimo nei Q (si contano  occorrenze del sostantivo, a cui sono da aggiungere aggettivi e derivati); d’altra parte il titolo Sviluppo della borghesia italiana fino al  compare già (al secondo posto dell’elenco) fra i sedici «Argomenti principali» che inaugurano i Q (Q , p. ). Il concetto di borghesia è sempre usato da G. in modo marxianamente preciso, riferito alla classe che, possedendo i mezzi di produzione e percependo il plusvalore, dà vita al capitalismo e al suo Stato; non c’è insomma mai in G. quell’uso metaforico (o polemico) del termine tanto in voga nella pubblicistica socialista del primo Novecento, come generico sinonimo di classe dei ricchi, o dei signori, o dei nemici del popolo ecc. Al contrario, è costante lo sforzo per una definizione precisa di borghesia (dato che tale categoria analitica è cruciale per poter svolgere quell’analisi storico-politica delle classi e dei meccanismi egemonici che G. si propone); ad esempio – descrivendo la situazione francese alla vigilia della rivoluzione – G. distingue fra «borghesia» e «ceti artigiani» («se la situazione della borghesia era florida, certamente non buona era la situazione dei ceti artigiani»: Q , , ); così come distingue «borghesia» da «classe media»; soprattutto egli critica il concetto di «signori» come espressione del primitivo «“sovversivismo”» italiano (Q , ,  e passim); si può dedurne che «sovversivo» sta a «signori» come «rivoluzionario» sta a «borghesia». Dunque il concetto di borghesia è in diretta contrappo-

sizione a quello di proletariato, ed è significativa l’espressione gramsciana «le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno)» (Q , , ), che diventa, nella riscrittura in Testo C, «le classi fondamentali produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno)» (Q  II, , ). L’uso più frequente di «borghesia» in G. è quello che si riferisce alla Francia, alla sua rivoluzione, al giacobinismo, letto essenzialmente come un’alleanza politica fra la borghesia rivoluzionaria della città e la campagna. Ciò rivela una coordinata fondamentale dell’intero sistema di pensiero gramsciano: la storia francese viene letta (anche sulle orme del Marx storico delle lotte di classe in Francia) come un paradigma della lotta fra le classi ed essa funziona come una sorta di pietra di paragone per la borghesia italiana: la borghesia in Francia è stata ciò che la borghesia anche in Italia avrebbe dovuto essere e non è riuscita a essere (è tuttavia da vedere come G. discuta e precisi il concetto di «modello Francia-Europa», ivi, ). Rispetto a un tale exemplum viene pertanto formulato ripetutamente un confronto, che si tramuta in un giudizio di valore fortemente negativo per la borghesia italiana; al centro, naturalmente, la vicenda della rivoluzione e la capacità della borghesia francese di esprimere compiutamente la sua egemonia rivoluzionaria. Già l’esperienza napoletana del  è considerata in modo comparativo rispetto alla Francia: «anche in Francia ci fu una rottura fra nobili e monarchia e un’alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia. Solo che in Francia la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nella classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia meridionale e successivamente in tutto il risorgimento» (Q , , ). Appare evidente il debito di G. nei confronti della lettura del Mathiez: lo storico è citato ben sei volte nei Q e la sua Révolution française (-) non solo è fra le opere possedute da G. in carcere, ma figura anche in un elenco di traduzioni (Q, AC, ). Invece è originalmente gramsciana l’idea di una classe che si eleva dal livello corporativo a quello della pienezza rivoluzionaria dell’egemonia, essenzialmente grazie all’iniziativa politica

BORGHESIA COMUNALE

del suo partito. Si veda il densissimo brano Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo, che valuta il Partito d’Azione italiano sulla base dell’esperienza dei giacobini (intesi in quanto “partito”): «i giacobini [...] si imposero alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto “spontaneamente” [...] Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere [...] può essere “schematizzato” così: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di questa parte, che inizialmente pone [...] i suoi interessi “corporativi” immediati [...]; i precursori della rivoluzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma che in realtà domandano ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri “corporativi” e diventa classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l’attività politica dei giacobini» (Q , , ; v. anche Q , , che si intitola in modo più circoscritto e puntuale Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia). La capacità di compiere la rivoluzione è anche per la borghesia strettamente connessa alla capacità di coinvolgere come alleati nel processo altri ceti, il popolo di Parigi e (per G. soprattutto) i contadini. Si noti che le due cose (la radicalità rivoluzionaria della borghesia e la sua capacità di stringere alleanze egemoniche) stanno insieme, e non per caso G. lega la sconfitta del Termidoro alla rottura dell’alleanza della borghesia con la classe operaia di Parigi (in conseguenza della legge Le Chapelier). Ma quella vicenda termidoriana si carica per G. di un significato storico più generale: la borghesia ha trovato un limite insuperabile alla sua capacità espansiva nel primo manifestarsi del proletariato: «La rivoluzione aveva trovato i limiti più larghi di classe; la politica delle allean-

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ze e della rivoluzione permanente aveva finito col porre quistioni nuove che allora non potevano essere risolte» (Q , , ). Proprio una tale pienezza di autonomia egemonica, capace di coinvolgere nel processo rivoluzionario altre classi, era mancata del tutto alla borghesia italiana (ibid.): «La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo. Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese» (Q , , ; v. anche Testo A: Q , , ). D’altra parte il Partito d’Azione «non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica» (Q , , ) e fallì nel compito di coinvolgere i contadini nel processo risorgimentale per la sua timidezza nel porre la questione agraria. Furono i moderati di Cavour a rappresentare la borghesia italiana, e infatti essi poterono assorbire “molecolarmente”, e comunque egemonizzare politicamente, lo stesso Partito d’Azione, riducendolo di fatto a proprio strumento di agitazione. Questo vizio d’origine, il carattere limitato e meschino della borghesia italiana, si riflette su tutta la storia nazionale, di cui G. traccia, sia pure a grandi tratti, un vero e proprio affresco; sono ad esempio manifestazioni desolanti di questa strutturale e storica debolezza della borghesia italiana il trasformismo, l’incapacità di risolvere la «quistione romana» e la «quistione meridionale», il carattere non popolare-nazionale della nostra letteratura, lo stesso giolittismo, il «cadornismo», insomma una costante vena di asfittica ristrettezza antipopolare che si rivela incapace di sussumere egemonicamente il popolo nello Stato e che culmina nella dittatura fascista (v. soprattutto i Q  e  su Machiavelli e quelli  e  sul Risorgimento). RAUL MORDENTI V. «borghesia rurale», «Cavour», «classe, classi», «classe media», «classe operaia», «Francia», «giacobinismo», «moderati», «Risorgimento», «Rivoluzione francese», «sovversivismo».

borghesia comunale G. accenna alla borghesia comunale per la prima volta nel Q , in una nota sul Rina-

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BORGHESIA RURALE

scimento: commentando un articolo di Vittorio Rossi, egli definisce il petrarchismo come un «fenomeno puramente cartaceo», in quanto sorto in una società in cui i sentimenti che avevano alimentato la poesia del dolce stil nuovo e di Petrarca non dominavano più la vita pubblica, allo stesso modo in cui poteva dirsi che non dominasse più politicamente la «borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in decadenza» (Q , , ). Nel Cinquecento infatti – continua G. – dominava al posto della borghesia dei Comuni «un’aristocrazia in gran parte di parvenus, raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura», una classe che produce la cultura dell’epoca e «aiuta le arti», ma si rivela anche «politicamente [...] limitata» (ibid.), finendo così sotto il dominio straniero. In un’altra nota dello stesso Q il pensatore sardo afferma che i «Comuni non hanno superato il feudalesimo» (Q , , ); non si può dire che la borghesia comunale abbia creato uno Stato, al pari della Chiesa e dell’impero, o almeno, in altre parole, che essa fu in grado di «creare uno Stato “col consenso dei governati” e passibile di sviluppo» (Q , , ). Secondo G. infatti «lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale» (ibid.). Le motivazioni della mancata creazione di uno Stato possono essere riscontrate nell’incapacità della borghesia comunale italiana di superare la fase «“economico-corporativa”», una situazione interna che G., allorché si interroga sulle ragioni per cui in Italia non sorse una monarchia assoluta, definisce come «una forma particolare di feudalesimo anarchico» (Q , , ): si tratta, politicamente, della «peggiore delle forme di società feudale», poiché è la «meno progressiva» e la «più stagnante» (Q , , , Testo C). Mancò invece – e non poteva costituirsi – una «forza “giacobina” efficiente», capace di creare «la volontà collettiva nazionale popolare». Per la formazione di quest’ultima era indispensabile che le grandi masse composte dai contadini riuscissero a irrompere «simultaneamente nella vita politica» (Q , , -); a questo si opponevano l’aristocrazia terriera e la «“borghesia rurale”» (Q , , ), che G. reputa un’«eredità di

parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio)» (ibid.). Inoltre G. precisa che «la ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare» andrebbe ricercata proprio nell’esistenza di «determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia», oltre che nel carattere di altri gruppi che «riflettono la funzione internazionale dell’Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero» (ivi, ). Sull’argomento del mancato superamento della fase economico-corporativa da parte della borghesia comunale G. si riproponeva di leggere il volume di Gioacchino Volpe Il Medio Evo (v. Q , , ) e riteneva inoltre indispensabile la lettura del libro di Bernardino Barbadoro Le Finanze della repubblica fiorentina (v. Q , , ). Sul primo dei due testi G. aveva letto una recensione di Riccardo Bacchelli nella “Fiera letteraria” del ° luglio , uno stralcio della quale è riportato con non poche perplessità, tanto che il pensatore sardo riteneva necessario verificare se il Volpe autorizzasse «queste... bizzarrie». Per Bacchelli infatti nel volume di Volpe «si legge come il popolo dei Comuni sorge e vive nella situazione di privilegio sacrificato che gli fu fatta dalla Chiesa Universale e da quell’idea del Sacro Impero, che, imposta (?!) dall’Italia come sinonimo ed equivalente di umana civiltà all’Europa che tale la riconobbe e coltivò, impediva (!?) poi all’Italia il più (!) naturale sviluppo storico a nazione moderna» (Q , , . I punti esclamativi e interrogativi sono ovviamente di G.). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «Comuni medievali», «Dante», «feudalesimo», «Machiavelli», «Rinascimento».

borghesia rurale La voce non ricorre nei Q molte volte, ma fa riferimento a concetti frequenti in G. e sottende l’analisi della specifica situazione italiana. La causa della mancata formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare in Italia è da ricercarsi in primo luogo nella proprietà terriera e nella «“borghesia rura-

BOULANGISMO

le”, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio)» (Q , , ). L’apparente frazionamento della terra in Italia non è dato dalla grande quantità di contadini coltivatori, ma dalla grande diffusione della borghesia rurale, spesso più feroce e usuraia del grande proprietario (Q , , ). Questa classe, totalmente parassitaria, vive sulle spalle dei contadini senza investire nessuna risorsa nella attività produttiva e rappresenta l’ostacolo maggiore a una rapida accumulazione (Q , , ). Così in Italia la borghesia rurale produce specialmente funzionari statali e professionali liberi, cioè intellettuali. Il «“morto di fame”» piccolo borghese è originato dalla borghesia rurale, la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l’essere liquidata, ma gli elementi di questa classe non vogliono lavorare manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari ecc. «Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il “sovversivismo” di questi strati – scrive G. – ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro “coraggio” disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati» (Q , , -). In alcuni paesi in cui le istituzioni repubblicane sono fragili e la componente militare è molto forte, come la Spagna, questo gruppo sociale ricopre un ruolo fondamentale nell’equilibrio politico nazionale (Q , , ). ELISABETTA GALLO V. «borghesia», «borghesia rurale», «cento città», «contadini», «intellettuali», «nazionale-popolare», «Spagna», «volontà collettiva».

boria di partito Il senso con cui G. usa l’espressione «boria di partito» non è lo stesso con cui viene usata nell’attualità politica. Essa indica la chiusura del partito in se stesso, il suo pro-

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gressivo allontanamento dai gruppi che rappresenta. Scrive G.: «Il punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la “boria delle nazioni” di cui parla il Vico» (Q , , ). A conclusione di questa stessa nota, intitolata Machiavelli. Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali, G. ritorna sulla questione: «In ogni modo occorre disprezzare la “boria” del partito e alla boria sostituire i fatti concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la politica della boria, è da sospettare di poca serietà senz’altro» (ivi, ). G. si riferisce ai partiti politici in genere e, in particolare, proprio al partito rivoluzionario, le cui caratteristiche di base devono essere la disciplina e la fedeltà, ma anche la capacità di individuare le soluzioni dei problemi che si trova a dover affrontare volta per volta. Sembra proprio che G. stia pensando alla funzione dirigente che il partito deve assolvere e senza la quale non si può dire che esso sia «formato». Da qui l’importanza del gruppo dirigente insieme alla sua capacità egemonica, all’influenza culturale che sa esercitare. Bisogna però stare attenti alla burocratizzazione del partito: il partito deve «reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico» (Q , , ). Un ottimo antidoto alla «boria di partito» è «dire la verità» che, «nella politica di massa», «è una necessità politica» (Q , , ). LELIO LA PORTA V. «burocrazia», «Partito comunista», «verità».

boulangismo Il boulangismo fu un movimento politico di opposizione alla Terza Repubblica francese tra il  e il . Attorno a Georges Boulanger si unirono forze politiche monarchiche e nazionaliste di diverse sfumature. G. si riferisce al boulangismo nel Q  e riprende il discorso nel Q , sempre riguardo alla discussione sull’«“economismo”» (ovvero sull’economicismo). L’interpretazione di G. è

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BRESCIANESIMO

che l’economicismo, nelle sue molte varianti, pur incidendo sul materialismo storico, sia un’ideologia borghese: «nella sua forma più diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari» (Q , , ). La proposta di G. è che si combatta l’economicismo «sviluppando il concetto di egemonia» (ivi, -). Come ipotesi teorica suggerisce che si studino certi movimenti politici prendendo il boulangismo come «archetipo» (Q , , ) o «tipo» (Q , , , Testo C). Dello stesso tipo è considerato il processo Dreyfus o anche il colpo di Stato di Luigi Bonaparte, la cui analisi marxiana è particolarmente utile «per studiare quale importanza relativa vi si dà al fattore economico immediato e quale posto invece vi abbia lo studio concreto delle “ideologie”» (ibid.). Sono forti gli indizi che fanno credere che G. cercasse elementi teorici in grado di arricchire la sua interpretazione del fascismo come movimento politico di massa. La valutazione di un movimento di tipo boulangista deve seguire il metodo della correlazione di forze, ma «anche in questo caso l’analisi dei diversi gradi di rapporto delle forze non può culminare che nella sfera dell’egemonia e dei rapporti etico-politici» (ivi, ). MARCOS DEL ROIO V. «bonapartismo», «economismo», «egemonia», «fascismo», «filosofia della praxis», «Francia», «nazionalismo».

brescianesimo Il lemma «brescianesimo» deriva, secondo un procedimento che G. aveva già utilizzato per altre discusse figure intellettuali, dal cognome del gesuita Antonio Bresciani, accanito avversario del liberalismo e autore di un fazioso romanzo storico, L’ebreo di Verona, a cui Francesco De Sanctis nel  aveva riservato una stroncatura particolarmente corrosiva. G. utilizza questo termine nei Q per indicare quei fenomeni letterari in cui la rappresentazione della realtà, condizionata da evidenti pregiudizi politici, risulta manipolata a

fini propagandistici, più o meno scoperti. Quando in carcere, sulla prima pagina del quaderno su cui ha finalmente ottenuto il permesso di scrivere, G. inserisce nella lista degli argomenti che intende trattare la voce I nipotini di Padre Bresciani, il suo intento è infatti quello di fare i conti con la produzione letteraria direttamente implicata nella rappresentazione dell’attualità storico-politica dell’Italia fascista. Quale migliore formula di quella dei «nipotini di Padre Bresciani» per individuare e classificare, col necessario sarcasmo, quel filone di narrativa di largo consumo, esplicitamente rivolto alla media e piccola borghesia, che attraverso una rappresentazione deformata e deformante degli avvenimenti del “biennio rosso”, ma anche attraverso una raffigurazione nostalgica e paternalistica del mondo contadino, contribuiva a perpetuare e diffondere pregiudizi antidemocratici, già peraltro ben radicati nelle classi medie? Quando G. introduce, e per la prima volta, il termine «brescianesimo», in Q , , quella produzione ha già ai suoi occhi i caratteri di una vera e propria scuola letteraria, che va diventando perdipiù, come chiarisce, «la “scuola” letteraria preminente e ufficiale» (ivi, ). Una scuola, quella del «Brescianesimo laico», come G. la definisce per distinguerla da quella risorgimentale, che ha la propria “preistoria”, negli anni che precedono la guerra, nei romanzi d’argomento storico-politico di Luca Beltrami – Casate Olona - – e di Luca Beltramelli – Gli uomini rossi e Il Cavalier Mostardo –, romanzi ispirati a una rozza avversione per il socialismo, in cui tutto concorre a rendere il quadro della vita politica italiana falso, stucchevole, quando non grevemente macchiettistico. In questa fase della stesura dei Q G. annovera nel brescianesimo, identificato soprattutto con opere quali Mio figlio ferroviere di Ugo Ojetti o Il padrone sono me di Alfredo Panzini, entrambe del , tutta l’ultima produzione di Panzini, il “Ciclo dei Vela” di Salvator Gotta, il Palazzone di Margherita Sarfatti, Pietro e Paolo di Mario Sobrero del , ma anche romanzi quali L’ultimo Cireneo di Leonida Répaci o Angela Maria di Umberto Fracchia, entrambi del , o Gli emigranti di Francesco Perri, del , opere meno compromes-

BRESCIANESIMO

se sul piano della propaganda politica, ma non per questo meno superficiali e settarie nell’analisi e nella rappresentazione della realtà contemporanea. Di alcuni di questi autori, come Beltramelli – membro del partito nazionalista e più tardi di quello fascista, tra i primi a essere nominato accademico d’Italia – o Mario Sobrero, era facile dimostrare la faziosità. Nelle loro opere infatti, con un’operazione analoga a quella di Bresciani, che nell’Ebreo di Verona aveva dipinto i carbonari come loschi mestatori e feroci assassini, essi raffigurano i socialisti e i comunisti come gente assetata di potere e di ricchezze e coloro che si lasciano attrarre da quelle idee, nella migliore delle ipotesi come idealisti deboli e illusi, nella peggiore come uomini senza scrupoli capaci di abbandonarsi a veri e propri atti di vandalismo. Da questo punto di vista può essere significativo ricordare che mettendo in scena in Pietro e Paolo gli scontri che a Torino nel periodo dell’occupazione delle fabbriche avevano opposto il sindacato dei metallurgici al gruppo dell’“Ordine Nuovo” – chiamato nel romanzo “Età nuova” –, Sobrero vi aveva sbozzato un ritratto gramsciano di raffinata perfidia: «sorpassava appena con il petto e le spalle aguzze la tavola che aveva dinnanzi; sul suo viso di mostruosa bruttezza era stampato un ghigno sardonico che il luccichio degli occhiali accentuava. Incominciò passandosi una manina rachitica sulla capigliatura ricciuta e incolta per cui pareva enorme la sua grossa testa». Meno facile era dimostrare l’intento propagandistico di opere in cui il pregiudizio anticomunista operava a livelli meno scoperti, ma proprio su questo piano l’analisi di G. coglie nel segno perché, nonostante le tante differenze di temi, di stile e di livello artistico dei romanzi presi in considerazione, gran parte dei testi attribuiti alla scuola del brescianesimo mettono in scena la stessa faziosa rappresentazione manichea degli scontri di classe: da un lato i borghesi, rappresentati come i custodi dei veri valori della vita, spettatori preoccupati e spesso vittime innocenti dei tumulti popolari, dall’altro i proletari, ignoranti, superstiziosi, avidi, nemici di Dio, facilmente manovrabili da politicanti peggiori di loro.

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Una contrapposizione che, non a caso, trova nel Padrone sono me una delle sue rappresentazioni più riuscite, con un padrone appunto che proprio per la sua bonaria superiorità di intellettuale è destinato a divenire la vittima predestinata dell’avidità del suo mezzadro. Se nel caso del Padrone sono me lo scontro tra i protagonisti è conseguenza della contrapposizione di classe, in altri romanzi di Panzini esso rappresenta l’antitesi, più generale e avvertita come esiziale, tra vecchio e nuovo mondo e si ispira da un lato alla diffidenza del proprietario terriero per ogni forma di rivoluzione, dall’altro alla sua nostalgia per il mondo apparentemente incontaminato della vecchia società patriarcale contadina. Da rifiutare, demonizzandoli, in questo caso non sono solo i recenti episodi dell’occupazione delle terre o gli esiti di quelle lotte sociali che avevano portato i vecchi mezzadri a sostituirsi ai padroni borghesi, ma l’intera gamma delle trasformazioni apportate dal progresso. Un’antitesi, dunque, meno rozza, ma non per questo meno pericolosa, di cui G. coglie tutta la valenza reazionaria. In quel patetico culto del passato, come egli capisce, confluiscono infatti lo sgomento dell’intellettuale umanista di fronte all’avanzare della società di massa, la paura del socialismo, l’anticapitalismo reazionario del padronato terriero, la preoccupazione di mantenere una qualche forma di dominio sui contadini, il bisogno di veder ristabilito l’ordine sociale di fronte al susseguirsi delle crisi: tutti fattori che favorivano l’avvicinamento delle classi medie al fascismo e rafforzavano il blocco storico conservatore. Sono cose che oggi ci sono fin troppo chiare, ma che nel vivo di quei processi non doveva essere facile cogliere e la cui comprensione costituisce una riprova dell’intelligenza critica con cui G., pur da una situazione di isolamento come quella del carcere, sapeva tenere sotto osservazione e giudicare la produzione letteraria del tempo, ben consapevole che lo sguardo critico dell’intellettuale comunista andava esercitato innanzitutto sulla letteratura contemporanea, nel vivo di quello scontro ideologico di cui le opere letterarie sono elementi attivi.



BRESCIANESIMO

Cosa significa, infatti, la categoria interpretativa del brescianesimo se non la capacità di rivelare e denunciare il grado di contraffazione della storia presente in quelle operazioni letterarie? Una contraffazione che, quando non era direttamente sostenuta dalla propaganda politica, era comunque espressione di gravi vizi congeniti della classe intellettuale italiana: la tronfia considerazione che lo scrittore aveva di sé, che lo legittimava a fare della propria coscienza il metro di giudizio della storia stessa, e la persistente estraneità a qualunque forza viva del processo storico in atto, che condannava le sue opere a un velleitarismo tutto retorico privandole di ogni sincerità. Non comprenderemmo interamente il disprezzo che G. riserva alla categoria del brescianesimo se non chiarissimo come essa fosse tutt’uno, ai suoi occhi, con la viltà, l’ipocrisia, la doppiezza caratteriale, la piaggeria, la boria trionfalistica che avevano sempre contraddistinto e caratterizzato il comportamento degli intellettuali italiani. Chiedendosi in una delle prime note del Q  per quali ragioni le classi dominanti non sapessero esprimere che forme di letteratura “gesuitica”, G. ne attribuisce la causa all’incapacità delle stesse classi dominanti di mettere in campo energie propulsive. Dunque brescianesimo anche e soprattutto come fenomeno tipico di una fase culturale dominata da forze borghesi incapaci di suscitare energie espansive, prima di tutto sul piano pratico-economico. «Ogni innovazione è repressiva per i suoi avversari, ma scatena forze latenti nella società, le potenzia, le esalta, è quindi espansiva. Le restaurazioni sono universalmente repressive: creano appunto i “padri Bresciani”, la letteratura alla padre Bresciani. La psicologia che [ha] preceduto queste innovazioni è il “panico”, la paura comica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono controllare. Il ricordo di questo “panico” perdura per lungo tempo e dirige le volontà e i sentimenti: la libertà creatrice è sparita, rimane l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo. Tutto diventa pratico, inconsciamente, tutto è “propaganda”, è polemica, è negazione, ma in for-

ma meschina, ristretta, gesuitica appunto» (Q , , -). Nel corso della stesura dei Q la nozione di brescianesimo subisce un’estensione semantica di cui G. imposta le premesse in una nota dedicata alla biografia panziniana di Cavour, La Vita di Cavour (Q , , -). Quell’opera infatti, che conferma l’«incommensurabile [...] stupidaggine storica del Panzini» (Q , , ), offre a G. lo spunto per analizzare le modalità con cui gli scrittori brescianeschi operavano quella comica e meschina contraffazione della storia che del brescianesimo costituiva una delle caratteristiche salienti. Sotto accusa è appunto la volontà di Panzini di rappresentare la storia come una «“piacevolezza”» (ibid.), trattando i suoi contenuti con un’ironia di maniera che poteva tutt’al più simulare profondità di pensiero, non certo suffragarla, e, sul piano della resa letteraria, il modo irriverente di trattare episodi e figure determinanti per la storia d’Italia. La riduzione della storia a «storielle divertenti senza nesso né di personalità né di altre forze sociali» (Q , , ) maschera infatti la rinuncia o l’incapacità a cogliere e rappresentare le motivazioni che stanno dietro ai fatti della storia, ai programmi e ai progetti politici. Su questo piano la biografia cavouriana presenta la stessa incongruenza tra cause ed effetti e lo stesso imprevedibile sviluppo dei romanzi d’appendice alla Ponson du Terrail, con l’effetto da un lato di abbassare la statura di Cavour al livello della limitata consapevolezza politica e morale di una borghesia pavida e fatua, dall’altro di trasformare la sagacia politica dello statista nel frutto imponderabile di un non meglio giustificato «stellone» personale (ivi, ). Può essere utile sottolineare che, a conclusione di Q , , G. parla di «gesuitismo letterario» (ivi, ), facendo di questa formula, da questo momento in poi, un sinonimo di brescianesimo. In realtà quella definizione, che si riferisce più al fattore della costruzione letteraria che a quello ideologico-politico, prepara quell’assimilazione tra i due piani che permetterà di trovare aspetti di brescianesimo anche in autori e opere prive di intenti propagandistici. Non è un caso se tra

BRESCIANESIMO

le schiere dei «nipotini del padre Bresciani» troviamo annoverati senza distinzione Curzio Malaparte (Q , , ), Riccardo Bacchelli (Q , , ), Mario Puccini (Q , , ), Luigi Capuana (Q , , ), Ugo Ojetti (Q , , ), Filippo Crispolti (Q , , ), Vincenzo Cardarelli (Q , , ), Giulio Bechi (Q , , ), Lina Pietravalle (Q , , ), Massimo Bontempelli (Q , , ), Angelo Gatti (Q , , ), Bruno Cicognani (Q , , ), Enrico Corradini (Q , , ), Ardengo Soffici (Q , , ), Giovanni Papini (Q , , ), Giuseppe Ungaretti (Q , , ). Si può ipotizzare inoltre che a partire da Q ,  G. si sforzi di connettere le osservazioni sul carattere propagandistico della produzione letteraria contemporanea alla denuncia della mancanza, in essa, di «storicità, di socialità di massa», a partire dalla lingua stessa, e che dietro questo sforzo si intraveda la volontà di inserire la riflessione sul brescianesimo in una più ampia considerazione sulla funzione sociale della letteratura. È come se G. volesse intrecciare due ordini di argomentazioni precedentemente sviluppate in modo autonomo: quelle relative alla letteratura nazionale-popolare e quelle riservate appunto al brescianesimo. Basterebbe a confermarlo il fatto che a partire dal Q  il titolo di rubrica I nipotini di padre Bresciani è spesso accompagnato dalla specificazione Letteratura popolare-nazionale e che nelle note così rubricate G. affronta e sviluppa spunti di grande rilevanza metodologica per la riflessione intorno alla natura e alla finalità della letteratura. Se ne può dedurre, dunque, che quando G., all’inizio del Q , stilando l’elenco dei saggi principali in cui si sarebbe dovuta articolare la sua storia degli intellettuali italiani, introduce la voce I nipotini di padre Bresciani, che con le voci La letteratura popolare dei romanzi d’appendice e Reazioni all’assenza di un carattere popolare-nazionale della cultura in Italia: i futuristi, avrebbe dovuto rendere ragione dell’intera produzione letteraria italiana contemporanea, il brescianesimo avesse già assunto nella sua riflessione i caratteri di una categoria critico-letteraria di natura generale, nuova nel panorama del dibattito critico contem-

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poraneo nella misura in cui connota innanzitutto un atteggiamento nei confronti della realtà fatto di superficialità, sostanziale mancanza di sincerità, «esteriorità donchisciottesca» (Q , , ). A confermare l’estensione semantica subita dal lemma è anche la nota Q ,  in cui G., a conclusione di alcune osservazioni sul disinteresse degli intellettuali italiani per il lavoro, definisce il brescianesimo «“individualismo antistatale e antinazionale”», identificando proprio in quell’estraneità alla vita della nazione e alle aspirazioni delle classi popolari il tarlo responsabile di aver trasformato gli intellettuali italiani in una casta separata e di aver reso difficile il rapporto tra le classi dirigenti e le grandi moltitudini nazionali. È questa, d’altronde, la convinzione che avrebbe portato G. a trovare tracce di brescianesimo anche in autori come Manzoni e Verga. Il destino di questa categoria non è però quello di annullarsi nella riflessione sulle carenze degli intellettuali italiani e sulle sue cause: essa continua a rivelarsi infatti strumento indispensabile per valutare e classificare le nuove forme di narrativa contemporanea, dai libri di guerra alla letteratura cattolica “estremista” militante, espressa dal gruppo fiorentino del “Frontespizio” guidato da Papini. Questa è anche la ragione per cui il quadro storico del brescianesimo moderno, che G. delinea in Q , un quaderno speciale intitolato, non a caso, Critica letteraria, risulta più ricco e articolato di quello tratteggiato nelle note di prima stesura, problematizzato dall’emergere di sue sempre nuove manifestazioni e sostenuto dalla convinzione che il brescianesimo, indipendentemente dal pregiudizio politico che lo sosteneva, fosse in realtà espressione del più generale e diffuso rifiuto di «ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale» (Q , , ). B IBLIOGRAFIA : F ORGACS , N OWELL SMITH ; PALADINI MUSITELLI ; PETRONIO . MARINA PALADINI MUSITELLI V. «De Sanctis», «intellettuali italiani», «nazionale-popolare», «Ordine Nuovo (L’)».

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BRIGANTI , BRIGANTAGGIO

briganti, brigantaggio L’analisi di G. sul fenomeno del brigantaggio italiano si collega alla sua più ampia riflessione storico-politica sul rapporto città-campagna. Le cause di questo fenomeno vengono fatte risalire dal pensatore sardo alla mancata impostazione della questione agraria, che «portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa» (Q , , ). A tal proposito, scrive G., «i moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni» (ibid.). Il Partito d’Azione, invece, quasi «paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di [una] riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici» (ibid.), contribuì, negli anni Settanta dell’Ottocento, alla nascita del brigantaggio, inteso come un «movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra» (ibid.), punibile con l’art.  del codice Zanardelli, «rivolto a reprimere le sommosse localistiche, specialmente comuni nell’Italia Meridionale e che erano – così scrive G. in una lettera alla cognata Tatiana – una continuazione attenuata del così detto brigantaggio che infierì nel Mezzogiorno tra il  e il » (LC ,  novembre ). Secondo G., il fenomeno si inserisce nella problematica legata alla mancanza di quell’unità sociale capace di accorpare attorno al nuovo Stato tutte le classi, delle città e delle campagne, del Nord e del Sud. Il Risorgimento in quanto rivoluzione passiva determinò un divario di strutture sociali ed economiche tra il Nord più sviluppato e il Sud, ancora legato alla sua economia feudale, in «un rapporto simile a quello di una grande città e una grande campagna» (Q , , ), fermo restando che anche nelle città conti-

nuarono a persistere nuclei abbastanza corposi di popolazione oppressa, la massa indifesa del proletariato agricolo, schiacciata dalla stragrande maggioranza della popolazione, inconsapevole dei propri diritti e dei mezzi di tutela contro ingiustizie e sopraffazioni. È qui, in queste città che comincia a diffondersi quell’ideologia urbana, caratterizzata dall’odio e dal disprezzo per il “villano”, il “cafone”, a cui erano precluse le cariche pubbliche sia per la sua mancanza di cultura sia per la sua appartenenza al ceto “servile”. Una vera e propria ostilità che genererà un rapporto complesso, ambiguo, manifestatosi poi durante le lotte per il Risorgimento. G. cita a tal proposito il clamoroso esempio della Repubblica partenopea del , quando il cardinale Fabrizio Ruffo, esponente di punta della grande nobiltà reazionaria borbonica, abilmente e acutamente sfruttò e guidò l’insurrezione antigiacobina dell’Italia meridionale, manovrando sapientemente l’avversione che i contadini, soprattutto i nullatenenti e quelli maggiormente vessati dai latifondisti cosentini e catanzaresi, nutrivano per i proprietari borghesi e per i signori feudali. Il modo, quindi, in cui l’unità fu raggiunta e amministrata, secondo G., spiega il fenomeno del brigantaggio, inteso come moto le cui cause vanno ricercate nelle varie vicende economiche, politiche e sociali attraverso cui il Mezzogiorno era passato. È chiaro che si trattò di una vera e propria guerra sociale che interessò soprattutto il Mezzogiorno e la Sicilia e che richiese l’intervento delle truppe piemontesi dal  al , lasciandosi dietro una lunga scia di sangue, rancori, odi. I soldati «riportarono la convinzione nei loro paesi della barbarie siciliana e, viceversa, i siciliani si persuasero della ferocia piemontese» (Q , , ). C’è però un alone di mistero e di fascino a circondare la figura del brigante, alimentata da tutta una letteratura post-unitaria. G., oltre a menzionare testi come i Maggi in Toscana e i Reali di Francia, si sofferma sul Guerin Meschino di Andrea da Barberino. In quest’ultimo caso prende spunto da un articolo di Radius apparso sulle colonne del “Corriere della Sera” del  gennaio , intitolato I classici del popolo. Guerino detto il

BUCHARIN , NIKOLAJ IVANOVICˇ

Meschino. Scrive G. a tal riguardo: «Il sopratitolo I classici del popolo è vago e incerto: il Guerino, con tutta una serie di libri simili (I Reali di Francia, Bertoldo, storie di briganti, storie di cavalieri, ecc.) rappresenta una determinata letteratura popolare, la più elementare e primitiva, diffusa tra gli strati più arretrati e “isolati” del popolo: specialmente nel Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I lettori del Guerino non leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno Sherlock Holmes. A questi strati corrisponde un determinato folclore e un determinato “senso comune”» (Q , , ). È chiaro, quindi, che per G. il Guerin assume una rappresentatività non solo letteraria ma soprattutto socio-culturale. Il popolo ha sempre avuto esigenze intellettuali e artistiche e il testo preso in esame mostra il distacco esistente tra il popolo stesso e gli intellettuali. Si tratta di un malessere storico, la cui causa non è riconducibile al “popolo”, ma ricade fortemente sulla classe dirigente, responsabile dell’arretratezza, della rozzezza e dello stato di sudditanza cui soggiace la gente meridionale. ANTONELLA AGOSTINO V. «contadini», «folclore, folklore», «letteratura popolare», «moderati», «nazionale-popolare», «Nord-Sud», «Partito d’Azione», «quistione agraria», «quistione meridionale», «Risorgimento», «senso comune», «rivoluzione passiva».

Bronsˇtein: v. Trockij. Bucharin, Nikolaj Ivanovicˇ Il rapporto di G. con Bucharin è caratterizzato da due fasi molto diverse: nel  ne utilizza la Teoria del materialismo storico per la Scuola interna di partito da lui organizzata: nella seconda dispensa è tradotto dallo stesso G. quasi tutto il primo capitolo (RQ -). Qui «l’unica variante significativa» era nella «riluttanza di G. a impiegare il termine “legge”, che ricorre spesso in Bucharin», sostituendolo «quasi sempre con diverse espressioni: “normalità”, “regolarità”, “relazione tra causa ed effetto”» (Q, AC, ). Invece nei Q il Manuale popolare di sociologia marxista, come recita il sottotitolo della Teoria, è sottoposto a una critica insi-

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stita e ampia, che viene raccolta nella sezione II del Q , intitolata Osservazioni e note critiche su un tentativo di «Saggio popolare di sociologia» (annunciata nel quarto dei «raggruppamenti di materia» del Q , Introduzione allo studio della filosofia e note critiche ad un Saggio popolare di sociologia). Tra l’uno e l’altro episodio vi è, nel , la sconfitta politica di Bucharin da parte di Stalin. G. dunque, quando in carcere sottopone a una dura requisitoria il Saggio popolare, sapeva di indirizzarla a una figura caduta in disgrazia. Tuttavia la Teoria, pubblicata nel  e riproposta in numerose edizioni e traduzioni nelle principali lingue europee, continuò a esercitare un ruolo di primaria importanza nel movimento comunista internazionale, sia come base per l’elaborazione del marxismoleninismo e del materialismo dialettico staliniano, sia anche – e questo poteva per G. essere di molto maggiore importanza – come tipo di “manuale” diffuso a livello di massa, nel quale si esponevano i principi fondamentali del marxismo a un pubblico non specializzato, e che doveva costituire la base diffusa di una filosofia che aspirava a trasformare il mondo. Infatti lo spirito con il quale il Saggio popolare era stato scritto era di fornire una guida e un’introduzione alla teoria del materialismo storico che fosse accessibile alla cultura media degli operai. Dunque il libro di Bucharin era anch’esso un progetto di «progresso intellettuale di massa», anche se fondato su un’impostazione contraria a quella di G. L’impostazione metodologica di Bucharin nel Saggio popolare è deterministica: la storia si svolge secondo leggi causali del tipo di quelle usate nelle scienze della natura (di conseguenza, la storia è prevedibile). Lo sfondo filosofico è dato dalla relazione di materialismo storico e materialismo filosofico. Questa concezione del marxismo, esposta nei primi tre capitoli dell’opera, corrisponde a quella che G. nei Q definisce revisione materialistica, cioè a quel tipo di marxismo che, per la necessità di «rischiarare le masse popolari, la cui cultura era medioevale» (Q , , ), si è venuto «“volgarizzando”» (Q  I, , ), diventando così «un “marxismo” in “combinazione”» con il ma-

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BUCHARIN , NIKOLAJ IVANOVICˇ

terialismo volgare, come tale «insufficiente per creare un vasto movimento culturale che abbracci tutto l’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue condizioni sociali, unificando moralmente la società» (Q , , ). Di qui la necessità di smontare puntualmente questo progetto, mostrandone la tendenza intrinseca a eludere il compito fondamentale posto al movimento operaio, una volta che, fondato «un nuovo tipo di Stato, nasce [concretamente] il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive» (Q , , ; v. anche Q , , ). Le critiche al Saggio popolare (G. ha in carcere la traduzione francese, Bucharin ) sono sviluppate nelle tre serie di Appunti di filosofia e raccolte, come detto, in una sezione del Q . Il primo spunto si trova però nel Q , in un testo dedicato a Conversazione e cultura. Qui G. osserva che nella cultura orale è molto più facile il verificarsi di «errori logici», rispetto a cui lo studio della logica formale aristotelica può essere un utile antidoto. «Queste osservazioni mi sono state suggerite dal Materialismo storico di Bukharin che risente di tutte le deficienze della conversazione. Sarebbe curioso fare una esemplificazione di tutti i passi che corrispondono agli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione di Engels che anche i “modi” del pensare sono elementi acquisiti e non innati» (Q , , ). Bucharin scrive infatti nella premessa: «L’opera è nata dalle discussioni che si svolgevano durante le conferenze di lavoro pratico dirette dall’autore e da J. P. Denike» (Bucharin , ). Tuttavia G. non fa questa esemplificazione e quando avvia gli Appunti di filosofia nel Q  prende subito posizione sul merito del testo: in un confronto con il libro di Ernst Bernheim sul metodo storico (Bernheim ), G. nota: «La “sociologia marxista” (cfr. il Saggio popolare) dovrebbe stare al marxismo, come il libro del Bernheim sta allo storicismo: una raccolta sistematica di criteri pratici di ricerca e di interpretazione, uno degli aspetti del “metodo filologico” generale» (Q , , ). E subito aggiunge, avviando così già la critica: «Sotto alcuni punti di vista si dovrebbe

fare, di alcune tendenze del materialismo storico (e, per avventura, le più diffuse) la stessa critica che lo storicismo ha fatto del vecchio metodo storico e della vecchia filologia, che avevano portato a nuove forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l’interpretazione con la descrizione esteriore, più o meno accurata dei fenomeni» (ibid.). Questa critica verte anzitutto sul fatto che «il titolo non corrisponde al contenuto del libro. Teoria del materialismo storico dovrebbe significare sistemazione logica dei concetti filosofici che sono noti sotto il nome di materialismo storico. Il primo capitolo, o un’introduzione generale, dovrebbero aver trattato la quistione: che cos’è la filosofia? una concezione del mondo è una filosofia? come è stata finora concepita la filosofia? il materialismo storico rinnova questa concezione? quali rapporti esistono tra le ideologie, le concezioni del mondo, le filosofie? La risposta a questa serie di domande costituisce la “teoria” del materialismo storico» (Q , , ). Come si vede, sono proprio le questioni di cui si occupa G. nell’elaborazione in positivo della filosofia della praxis. Ma neanche si può dire che vi sia nesso tra titolo (teoria) e sottotitolo (sociologia): «il sottotitolo è più esatto se si dà del termine “sociologia” una definizione circoscritta», mentre Bucharin la fa diventare «un embrione di filosofia non sviluppata» sulla cui base svolgere appunto la «filosofia» del marxismo (ibid.; v. anche Q , , -). In dipendenza da questo errore, sorge l’altrettanto erroneo collegamento del marxismo con il materialismo filosofico, come una filosofia di cui il primo avrebbe bisogno: «Cosa intende per “materia” il Saggio popolare?» (Q , , ). «Per il materialismo storico la “materia” non deve essere intesa né nel suo significato quale risulta dalle scienze naturali [...] né nel suo significato quale risulta dalle diverse metafisiche materialistiche [...] ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione, come rapporto umano [...] Ma in realtà, questo è solo uno dei tanti elementi del Saggio popolare che dimostrano la superficiale impostazione del problema del materialismo storico, il non aver saputo dare a questa conce-

BUCHARIN , NIKOLAJ IVANOVICˇ

zione la sua autonomia scientifica e la posizione che le spetta di fronte alle scienze naturali o [,peggio,] a quel vago concetto di “scienza” in generale che è proprio della concezione volgare del popolo» (ivi, -). La dipendenza di Bucharin da una concezione generica e volgare della scienza gli impedisce di riconoscere e valorizzare il concetto e la funzione essenziale che la dialettica riveste nel materialismo storico. La sua «errata interpretazione del materialismo storico che viene dogmatizzato» lo spinge a identificarlo «con la ricerca della causa ultima o unica ecc.», senza rendersi conto che «il problema delle cause ultime è appunto vanificato dalla dialettica» (Q , , ). «La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici [...] Quindi la ricerca delle cause essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”. Ma le “Tesi su Feuerbach” avevano già criticato anticipatamente questa concezione semplicistica» (Q , , ). Non padroneggiando la dialettica, Bucharin non sa riconoscere il nesso tra quantità e qualità (Q , , ) e quello tra “premessa” materiale e “compiti” politici (Q , , ). In conclusione: «La filosofia del Saggio popolare è puro aristotelismo [positivistico], cioè un riadattamento della logica formalistica secondo i metodi delle scienze naturali: la legge di causalità è sostituita alla dialettica; la classificazione astratta, la sociologia ecc.». Il suo è un «idealismo alla rovescia nel senso che alle categorie dello spirito sostituisce delle categorie empiriche altrettanto a priori e astratte. [Causalismo e non dialettica. Ricerca della legge di “regolarità, normalità, uniformità” senza superamento, perché l’effetto non può essere superiore alla causa, meccanicamente]» (Q , , ). Questa «riduzione del materialismo storico a “sociologia” marxista» favorisce l’«estensione della legge dei grandi numeri dalle scienze naturali alle scienze storiche e politiche»; ma questa estensione «ha diverse conseguenze per la storia e per la politica:

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nella scienza storica può avere per risultato spropositi scientifici, che potranno essere corretti agevolmente [...]; ma nella scienza e nell’arte politica può avere per risultato delle catastrofi, i cui danni “secchi” non potranno mai più essere risarciti» (Q , , ). Nel Saggio popolare si annida pertanto – in corrispondenza della natura del marxismo, che è insieme scienza e azione (Q , , ), filosofia e ideologia – un rischio politico ben preciso: una politica pensata su basi deterministiche e fatalistiche non può infatti che condurre alla sconfitta. Le critiche al Saggio popolare sono dunque complessive e distruttive: dal titolo al contenuto, dai presupposti generali alle implicazioni politiche, dalla metodologia allo stile argomentativo, non c’è un aspetto che G. ritenga possa essere utilmente impiegato in un progetto di “manuale popolare” della filosofia della praxis. Il suo progetto è dunque, come risulta dalla struttura stessa del Q , globalmente alternativo a quello di Bucharin. Il modo con cui G. discute il Saggio popolare – senza rinvii a pagine precise, senza citazioni virgolettate, con qualche imprecisione – non è tanto indicativo dell’assenza (o meno) della Teoria tra i libri che G. poteva tenere in cella (sulla questione si veda la discussione tra Giovanni Mastroianni e Gianni Francioni: Francioni ,  e , ; Mastroianni ,  e , -). Piuttosto, esso è leggibile alla luce del carattere di “modello esemplare”, ma in negativo, che il Saggio popolare assume (si veda la già ricordata contrapposizione al libro di Bernheim), rispetto a cui va costruita un’alternativa che non risparmi neanche un dettaglio. Questo modo di lavorare emerge nel trattamento da G. riservato a un concetto che nel Saggio popolare compare di sfuggita e che invece assume nel progetto della filosofia della praxis un ruolo centrale: l’immanenza. È infatti in una riformulazione storicistica dell’immanenza, e non nella tradizione materialistica, che secondo G. va ravvisata l’originalità della filosofia di Marx. Questa tesi viene enunciata in Q , , dove si nota anche che «quando si dice che Marx adopera l’espressione “immanenza” in senso metaforico, non si dice nulla: in realtà Marx

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BUCHARIN , NIKOLAJ IVANOVICˇ

dà al termine “immanenza” un significato proprio» (ivi, ). È un’allusione a Bucharin, come si evince da Q , , : «Ciò che si è detto della “teleologia” si può ripetere dell’“immanenza”» (il riferimento è a Q , , intitolato La teleologia nel «Saggio popolare»). Scrive G.: «Nel Saggio popolare si nota che Marx adopera l’espressione “immanenza”, “immanente”, e si dice che evidentemente quest’uso è “metaforico”. Benissimo. Ma si è così spiegato il significato che l’espressione “immanenza” ha metaforicamente in Marx? Perché Marx continua a usare questa espressione? Solo per l’orrore di creare termini nuovi? [...] L’espressione “immanenza” in Marx ha un preciso significato e questo occorreva definire: in realtà questa definizione sarebbe stata veramente “teoria”. Marx continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura da tutto il suo apparato metafisico e la conduce nel terreno concreto della storia. L’uso è metaforico solo nel senso che la concezione è stata superata, è stata sviluppata ecc.» (Q , , ). Immanenza e teleologia vengono da G. accostate. Difatti egli si sta riferendo all’insieme del paragrafo I. della Teoria, intitolato Dottrina della finalità in generale (teleologia) e sua critica. Finalità immanente, dove tra l’altro si legge: «Vale la pena far notare che, se qualche volta Marx e Engels sembrano fare uso di concezioni teleologiche, in realtà si tratta di metafore e di immagini [cela ne constitue qu’une métaphore et une façon imagée d’exprimer la pensée]» (Bucharin , ; v. Bucharin , -). Il nesso tra finalità e immanenza è presente, negativamente, in Bucharin e G. lo riprende rovesciandolo in positivo. A suo avviso, solo assumendo problematicamente la nuova accezione kantiana (consegnata alla Critica del giudizio e agli scritti di filosofia della storia), secondo cui si può utilizzare la finalità in modo regolativo, salvaguardando così l’individualità empirica dei fatti, è possibile sfuggire al pericolo di convertire il determinismo storico in una forma obsoleta di finalismo: «Sul “Saggio popolare”. La teleologia. Nella frase e nella concezione di “missione storica” non c’è una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un va-

lore equivoco e mistico. Ma in altri ha un significato che, dopo le limitazioni di Kant, può essere difeso dal materialismo storico» (Q , , ). A queste critiche G. ne aggiunge altre nel momento in cui (v. LC , a Tatiana,  agosto ) riceve il libro che raccoglie le relazioni della delegazione sovietica al II Congresso internazionale di storia della scienza e della tecnologia, tenutosi a Londra nell’estate . Di questo testo (Bucharin a) G. nota soprattutto il modo «superficiale ed estraneo al materialismo storico» di porre «il problema della «“realtà oggettiva del mondo esterno” (Q , , ). Infatti, per il senso comune popolare una tale questione è assurda: «Il pubblico popolare “crede” che il mondo esterno sia obbiettivo ed è questa “credenza” che occorre analizzare, criticare, superare scientificamente» (Q , , ). Invece di fare questo lavoro, Bucharin si preoccupa di confutare le posizioni idealistiche, a suo avviso tutte neganti la realtà del mondo esterno, senza rendersi conto né che tale tesi non coincide senz’altro con l’idealismo, né che, come il materialismo volgare, la tesi dell’irrealtà del mondo esterno ha «origine religiosa», come si può vedere in Berkeley, peraltro da Bucharin citato (Q , , ). In questo modo Bucharin non può «spiegare che una tale concezione, che non è certo una futilità, anche per un filosofo della praxis, oggi, esposta al pubblico, possa solo provocare il riso e lo sberleffo». Essa è «il caso più tipico della distanza che si è venuta formando tra scienza e vita, tra certi gruppi di intellettuali [...] e le grandi masse popolari: e come il linguaggio della filosofia sia diventato un gergo che ottiene lo stesso effetto di quello di Arlecchino» (ibid.). BIBLIOGRAFIA: BUCI-GLUCKSMANN ,  ss.; FRANCIONI  e ; IACONO ; MASTROIANNI  e ; PAGGI , - e -; ZANARDO . FABIO FROSINI V. «determinismo», «dialettica», «filosofia della praxis», «immanenza», «Kant», «materialismo e materialismo volgare», «oggettività», «sociologia», «solipsismo, solipsistico», «teleologia», «unità di teoria-pratica».

BUON SENSO

buon senso In Q , ,  G. scrive che il «tipo» di riviste di cui sta trattando «appartiene alla sfera del “buon senso” o “senso comune”», con un uso che implicitamente rende equivalenti le due espressioni. Non sempre è così. Anzi, l’uso prevalente che G. fa di «buon senso» è contestuale, ma diversificato (sia pure in modo altalenante), rispetto a «senso comune»: talvolta «buon senso» è assunto positivamente, altre volte con valenza negativa. In Q , , , ad esempio, leggiamo che «per comandare non basta il semplice buon senso» (valenza negativa), mentre in Q , ,  si spiega come «un uomo di buon senso» potrebbe mettere in crisi una concezione olistica dello Stato (valenza positiva). In Q , ,  vi è coincidenza: «Filosofia e senso comune o buon senso». In Q , , , a proposito di Pirandello e della «concezione dialettica dell’oggettività», G. nota nell’opera del commediografo la rappresentazione di una «lotta paradossale contro il senso comune e il buon senso»; in Q , ,  afferma che «Croce civetta continuamente col “senso comune” e col “buon senso” popolare». In Q , ,  leggiamo invece: «Il “buon senso” ha reagito, il “senso comune” ha imbalsamato la reazione e ne ha fatto un canone “teorico”, “dottrinario”, “idealistico”»: nella contrapposizione è il buon senso ad avere qui valenza positiva. In Q , ,  compare un celebre riferimento a Manzoni: «Senso comune. Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (Cfr. Promessi Sposi, Cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, aggiunge: “Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”». Il buon senso è equiparato da Manzoni alla ragione, che nulla però può contro il senso comune, la rozza ideologia delle masse. G. non commenta il brano. Una valutazione più positiva del buon senso si ha nei contesti filosofici, in cui esso è usato in senso tecnico: «La filosofia è la

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critica della religione e del senso comune e il loro superamento: in tal senso, la filosofia coincide col “buon senso”» (Q , , ). A partire dal Q , nell’ambito di paragrafi non presenti in prima stesura, la valutazione del buon senso è quasi sempre positiva. In Q  II, , - leggiamo una nota in cui senso comune e buon senso sono equiparati e valutati positivamente: «In che consiste esattamente il pregio di quello che suol chiamarsi “senso comune” o “buon senso”? Non solamente nel fatto che, sia pure implicitamente, il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo-profonde, pseudo-scientifiche ecc.». Siamo alla funzione del senso comune o buon senso come critica e rifiuto dell’intellettualismo fine a se stesso (presente anche in Q , , ). Non sorprende che altre esemplificazioni di questa funzione che ha il buon senso, di sentinella a guardia degli eccessi dell’intellettualismo vacuo, trovi delle applicazioni anche nel Q , dedicato al Lorianismo, ove ad esempio si legge: «Questo articolo, data l’amenità del contenuto, si presta a diventare “libro di testo negativo” per una scuola di logica formale e di buon senso scientifico» (Q , , ). O ancora: «il buon senso, svegliato da un opportuno colpo di spillo, quasi fulmineamente annienta gli effetti dell’oppio intellettuale» (Q , , ). Ancora più positiva è la valutazione del buon senso là dove G. ne disgiunge radicalmente le sorti dal senso comune, come in Q , , : «È questo il nucleo sano del senso comune, ciò che appunto potrebbe chiamarsi buon senso e che merita di essere sviluppato e reso unitario e coerente». In Q , , - si parla di una filosofia individuale che – in quanto non arbitraria – diviene «una cultura, un “buon senso”, una concezione del mondo, con una etica conforme alla sua struttura [...] Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo in avanti al pensiero, sulla base della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo,

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BUROCRAZIA

storicizzando il pensiero in quanto lo assume come concezione del mondo, come “buon senso” diffuso nel gran numero». Buon senso equivale qui a «concezione del mondo», con un’accezione non necessariamente positiva o negativa. Ma l’equiparazione così esplicita presente in questa nota non trova altri riscontri. GUIDO LIGUORI V. «concezione del mondo», «filosofia», «filosofia della praxis», «lorianismo, loriani», «Manzoni», «senso comune».

burocrazia Il lemma «burocrazia» ha nei Q una funzione duplice: se da una parte infatti, soprattutto in forma aggettivata, è usato con frequenza come sinonimo di «fossilizzazione» (Q , , ), «pedanteria» (Q , , ), «meccanicità» (Q , , ), dall’altra – e in tale accezione, pressoché costante in tutti i Q, verrà qui considerato – esso identifica l’insieme dei funzionari civili e militari di uno Stato o di un’organizzazione di partito. In Q ,  G. riflette sulla debolezza dei partiti politici italiani, sul loro distacco dalle masse che è cronico «dal risorgimento in poi», esattamente come Weber, dieci anni prima, nel suo Parlamento e governo rifletteva sulla debolezza della borghesia tedesca nella Germania guglielmina (il riferimento al testo del sociologo tedesco è esplicitato alla fine della nota gramsciana). Ma se in Germania l’immaturità della classe borghese e la sua inettitudine al governo erano ricondotte da Weber al ruolo paternalistico storicamente avuto da Bismarck, per G. la situazione italiana è caratterizzata dal fatto che «il governo ha [...] operato come un “partito”, si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere “una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo”» (Q , , -). Il riferimento al governo, in questo caso, va letto come riferimento alla burocrazia, come G. chiarisce subito dopo: «La burocrazia

così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico» (ivi, ). La burocrazia entra quindi nei Q già come elemento degenerato, come frutto della mancata forma nazionalepopolare del Risorgimento, come elemento detentore della competenza tecnica e amministrativa al servizio non del popolo ma del partito di governo e dei propri interessi di riproduzione tipici di una «casta» (Q , , ). Questo tema verrà ripreso più tardi in Q , , , dove il giudizio diventerà, se possibile, ancora più duro: «la burocrazia italiana può essere paragonata alla burocrazia papale, o meglio ancora, alla burocrazia cinese dei mandarini». La burocrazia italiana fa gli interessi di gruppi specifici come gli agrari o l’industria protetta, ma li fa, secondo G., «senza piano e sistema, senza continuità», con spirito meccanico di combinazione invece che «organicamente e secondo un indirizzo conseguente»: una burocrazia che diventa quindi «specialmente “monarchica” [...] sola forza “unitaria” del paese, permanentemente “unitaria”» (ibid.), ancora una volta legata all’angusta struttura di potere del governo e non al «popolo-nazione» come era avvenuto invece in Francia. La letteratura prodotta dai funzionari statali è a questo proposito illuminante. Scrive G. riportando un passo di un articolo dell’“Italia letteraria”: «“In Francia, in Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da noi scrivono solo per i loro superiori”» (Q , , ). G. chiarisce in Q , ,  questo carattere meccanico e brutale della burocrazia riconducendolo alla sua composizione sociale, ovvero identificando gli strati sociali per i quali «la carriera militare e burocratica» è «un elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica». G. ricostruisce quindi questa determinata funzione sociale e la «psicologia che è determinata da questa funzione» (ivi, ). Si tratta, nel caso, di quella «borghesia rurale media e piccola» che, abituata a «comandare “politicamente”»

BUROCRAZIA

ma «non “economicamente”», non avendo funzioni economiche ma solamente redditi parassitari derivanti dalla «“bruta” proprietà», «vive sulla miseria cronica e sul lavoro prolungato del contadino» (ibid.): una piccola borghesia fatta di «morti di fame» (Q , , ) abituata da secoli alla repressione di ogni organizzazione del lavoro contadino. Uno strato sociale di cruciale importanza nella storia d’Italia che, una volta fattosi burocrazia, ha una funzione direttiva specifica, anche se mediata dalla coincidenza o meno con la «volontà [...] della classe alta»: «In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato, e non in senso assoluto: tuttavia non è piccola cosa» (Q , , ). In Q , , dopo aver distinto all’interno della struttura dei partiti politici «il gruppo sociale» e «la massa del partito», G. rileva come la «forza consuetudinaria più pericolosa» sia «la burocrazia o stato maggiore del partito» (ivi, ), riversando così il problema della burocrazia statale anche all’interno di quelli che sono per lui gli «“sperimentatori” storici» (Q , , ) di nuove concezioni del mondo. Anche nei partiti politici la componente burocratica si «organizza come corpo a sé» e rischia di far entrare in crisi i partiti. Da questo punto di vista G. ritiene che i partiti francesi siano «i più utili per studiare l’anacronizzarsi delle organizzazioni politiche», in quanto hanno l’esperienza di una stratificazione che inizia con la Rivoluzione dell’Ottantanove e che «permette ai dirigenti di mantenere la vecchia base pur facendo compromessi con forze affatto diverse e spesso contrarie e asservendosi alla plutocrazia» (Q , , ).



Accanto alla critica delle degenerazioni burocratiche del parlamentarismo e del regime rappresentativo in generale (Q , , -), G. nota come la progressiva burocratizzazione dell’attività politica sia anche un fattore epocale e irresistibile della nascente politica di massa. Se non gli si può ascrivere in questo caso il merito di aver trovato la formula risolutiva del complesso rapporto fra democrazia e burocrazia, gli si deve però riconoscere quello di aver messo per primo a tema, almeno in campo marxista, la spinosa questione. Già in Q , , parlando dell’«autogoverno» inglese, nota sinteticamente: «Burocrazia divenuta necessità», proseguendo: «la quistione deve essere posta di formare una burocrazia onesta e disinteressata, che non abusi della sua funzione per rendersi indipendente dal controllo del sistema rappresentativo» (ivi, ). Il problema è quello della funzione specifica, tecnica, di un ceto professionale in grado di manovrare la complessa struttura dello Stato moderno, con le sue ramificazioni nella società civile. Una funzione che è analoga a quella svolta dal ceto intellettuale, centrale nella riflessione dei Q, la cui affinità G. esplicita in modo estremamente chiaro in Q , , : «Il fatto che nello svolgimento storico e delle forme economiche e politiche si sia venuto formando il tipo del funzionario tecnico ha una importanza primordiale [...] In parte questo problema coincide col problema degli intellettuali». MICHELE FILIPPINI V. «bonapartismo», «intellettuali», «partito», «Weber».

C

cadornismo La meditazione sul «cadornismo» nasce all’interno della riflessione di G. sul problema del rapporto fra direzione militare e direzione politica nella formazione e nello sviluppo dello Stato moderno e del rapporto fra dirigenti e diretti, in particolare in Italia. Con questo termine G. intende l’atteggiamento per cui «una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, “la colpa” viene riversata su chi “avrebbe dovuto” ecc.» (Q , , ). Il neologismo ha la sua origine nella figura del generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore dell’esercito italiano sino alla battaglia di Caporetto, che G. definisce «un burocratico della strategia», che «quando aveva fatto le sue ipotesi “logiche”, dava torto alla realtà e si rifiutava di prenderla in considerazione» (Q , , ). Il termine diviene dunque metafora per indicare chi, sul piano politico, non esita a sacrificare i propri “soldati” per dimostrare la giustezza della propria strategia schematicamente decisa a tavolino: forse anche in riferimento critico alla strategia fatta propria dal movimento comunista con la “svolta del ’”, che tanti «sacrifizi inutili» (Q , , ) aveva prodotto. Secondo G. propria degli «strateghi del cadornismo politico» è la convinzione che gli avvenimenti «si svolgono fulmineamente e con marcia progressiva definitiva» (Q , , ). Cadorna rinnovava grandi offensive di logoramento accrescendo, tuttavia, il distacco fra soldati e comandi: era noto come «realmente i soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario, ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati» (Q , , ).

G. legge l’articolo di Mario Missiroli su Cadorna del , apparso sulla “Nuova Antologia”, e intraprende una riflessione sul rapporto tra capo militare e capo politico. Missiroli imputa a Cadorna d’essersi fossilizzato «sull’aspetto tecnico» trascurando «l’aspetto storico-sociale» (Q , , ). G. ritiene questa «un’accusa esagerata: la colpa non è di Cadorna, ma dei governi che devono essi educare politicamente i militari» (ibid.). Mentre infatti Napoleone «rappresentava la società civile e il militarismo della Francia» e congiungeva in sé le due funzioni di capo del governo e dell’esercito, «la classe dominante italiana non ha saputo preparare dei capi militari» (ivi, ). Se per un verso è certamente vero che «il capo militare deve avere, per la sua stessa funzione, una capacità politica», tuttavia «l’atteggiamento politico verso le masse militari e la politica militare devono essere fissati dal governo sotto la sua responsabilità» (ivi, ). Da qui G. apre una riflessione più complessa sulla prima guerra mondiale e le responsabilità della disfatta di Caporetto. Fra governo Sonnino e Cadorna non v’era identità di vedute sui fini strategici della politica militare e i mezzi per raggiungerli e, secondo G., Cadorna fu «miglior politico di Sonnino» poiché, a differenza di quest’ultimo, tentò di fare una «politica delle nazionalità» per «disgregare l’esercito austriaco» (ibid.). Il governo a ciò s’oppose per non «urtare la Germania, alla quale non aveva dichiarato la guerra: così la scelta di Cadorna – scelta relativa, come si vede, per l’equivoca posizione verso la Germania – mentre poteva essere politicamente ottima, divenne pessima; le truppe slave videro nella guerra una guerra nazionale di difesa delle

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CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

loro terre da un invasore straniero e l’esercito austriaco si rinsaldò» (ibid.). Secondo G., peraltro, dell’effettiva incomprensione e conseguente «avversione di Cadorna per la vita politica parlamentare» non lui solo fu responsabile, bensì «specialmente il governo» (ivi, ). G. sostiene che il governo trascurò d’occuparsi d’un nodo fondamentale: «l’amministrazione politica delle masse militari», mentre in Francia «gli stessi deputati si recavano al fronte e controllavano il trattamento fatto ai soldati» (ibid.). Egli imputa però a Cadorna colpe ben precise. Dalle Memorie del generale G. apprende che egli era «informato, prima di Caporetto, che il morale delle truppe era infiacchito» e qui attua «una sua particolare attività “politica”, molto pericolosa: egli non cerca di rendersi conto se occorre mutare qualcosa nel governo politico dell’esercito, se cioè l’infiacchimento morale delle truppe non sia dovuto al comando militare» (ivi, ). Cadorna, «ostinato più che volitivo: energia del testardo» (ivi, ), sostanzialmente «non sa esercitare l’autocritica», ottusamente persuaso «che il fatto dipende dal governo civile, dal modo con cui è governato il paese», e così richiede «misure reazionarie, domanda repressioni, ecc.» (ibid.). G. si sofferma poi sulla «bigotteria» e l’influsso del sentimento religioso su cui «Cadorna fondava la sua politica verso le masse militari: l’unico coefficiente morale del regolamento era infatti affidato ai cappellani militari» (ivi, ). In merito a una riflessione su arte e scienza della politica in Machiavelli, G. pone in luce i rischi in cui s’incorre se non s’indaga bene il «fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)» dell’esistenza di «dirigenti e diretti, governanti e governati» (Q , , ). In questo quadro, G. reputa pericoloso l’automatismo di un’obbedienza a tutti i costi, la pretesa di un’azione non solo «senza bisogno di una dimostrazione di “necessità” e razionalità», ma da ritenersi «indiscutibile». Infatti qualcuno può arrivare a pensare e operare secondo l’idea che «l’obbedienza “verrà” senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata» (ivi, ). Così «è difficile estirpare dai dirigenti il “cadornismo”», la «abitudine

criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili», nonostante persino il senso comune mostri che il più dei disastri politici avviene perché «si è giocato, con la pelle altrui»: dopo ogni rovina occorre dunque «prima di tutto ricercare le responsabilità dei dirigenti» (ibid.). Ciò vale anzitutto per chi riflette sull’«elemento fondamentale dello “spirito statale”», ovvero «lo spirito di partito» (ivi, ), sinora configuratosi come la forma più adeguata «per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione» (ivi, ). MANUELA AUSILIO V. «Caporetto», «direzione», «dirigenti-diretti», «esercito», «Grande guerra», «guerra», «guerra di movimento», «guerra di posizione», «partito», «tecnica militare».

caduta tendenziale del saggio di profitto L’espressione compare per la prima in Q , , nel contesto di una discussione – ispirata a un’osservazione critica formulata da Benedetto Croce (Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse, in Croce a,  nota) – del “lorianismo” dell’economista marxista Antonio Graziadei. Dinnanzi alla «sotterranea corrente di romanticismo popolare creata dal “culto della scienza”, dalla “religione del progresso” e dall’ottimismo generale del secolo XIX», «è da vedere», annota G., «se non sia legittima la reazione del Marx, che con la “legge tendenziale della caduta del saggio del profitto” e col “catastrofismo” gettava molta acqua sul fuoco: è da vedere anche quanto queste correnti ottimistiche abbiano impedito una analisi più accurata delle proposizioni di Marx» (ivi, ). Il testo, del febbraiomarzo , viene ripreso nel  con alcune varianti sostitutive: «è da vedere se non sia stata legittima e di larga portata la reazione del Marx, che colla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto e col così detto catastrofismo gettava molta acqua nel fuoco; è da vedere anche in che misura l’“oppiomania” abbia impedito una analisi più accurata delle proposizioni del Marx» (Q , , ). L’allusione, già presente nella prima stesura, al fatto che il marxismo fu preda della stessa fede nel progresso che caratterizza-

CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

va le correnti borghesi viene nella seconda stesura resa esplicita con il rinvio all’effetto di “stupefacente” derivante dal «metodo politico di forzare arbitrariamente una tesi scientifica per trarne un mito popolare energetico e propulsivo: il metodo potrebbe paragonarsi all’uso degli stupefacenti che creano un istante di esaltazione delle forze fisiche e psichiche ma debilitano permanentemente l’organismo» (Q  II, , : questa osservazione si riferisce proprio all’arbitraria forzatura della legge della caduta del saggio del profitto). Allo stesso modo, la lettura, già presente nel Q , della legge tendenziale formulata da Marx come qualcosa di comprensibile solo come reazione al trionfalismo progressista del secolo XIX (lettura parallela a quella delle principali tesi della Prefazione del ’ come “metafore”, leggibili solo alla luce del tessuto di riferimenti linguistici in cui nascono), viene nel Q  arricchita con la nota relativa alla «larga portata» di questa legge tendenziale. Difatti, la lettura che nei Q viene via via sviluppata si dipana lungo due direttrici principali, le quali entrambe rendono comprensibile quest’ultima variante. La prima di esse, annunciata in Q ,  (febbraio-novembre ) e ripresa in seconda stesura in Q  II, .VII (agosto-dicembre ), riguarda la possibilità di leggere la dinamica in corso di maggiore momento del mondo contemporaneo – la combinazione di taylorismo e fordismo che si afferma negli Stati Uniti – come «il tentativo di superare questa prima approssimazione», cioè il «teorema di prima approssimazione» a cui la “legge” formulata da Marx in realtà si riduce (Q , , ). Nella seconda stesura l’espressione «teorema di prima approssimazione» non viene ripresa e tutto il passaggio è riformulato e chiarito: «Questa legge dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del fordismo. Non sono questi due metodi di produzione e di lavoro dei tentativi progressivi di superare la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili nelle condizioni dell’aumento progressivo del capitale costante?» (Q  II, .VII, ). L’aggiunta di «progressivi» va vista alla luce dello sviluppo dell’analisi dell’americanismo, culminante nel Q , al cui esordio vie-



ne ripreso il riferimento alla “legge”: «il fordismo come punto estremo del processo di tentativi successivi da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della caduta del saggio del profitto» (Q , , ). Parallelamente alla convinzione del carattere obiettivamente progressivo dell’americanismo, cresce dunque in G. la consapevolezza analitica relativa allo statuto della legge tendenziale della caduta del saggio del profitto. Poco prima di Q ,  egli aveva paragonato la «teoria dei costi comparati [e decrescenti]» e la teoria «dell’equilibrio statico e dinamico» alla «teoria marxista del valore [e della caduta del saggio del profitto]» (Q , , ), aggiungendo che le prime due erano forse da considerare «l’equivalente scientifico» delle seconde «in linguaggio ufficiale e “puro” (spogliato di ogni energetica politica per le classi produttrici subalterne)» (ibid.). Questo apprezzamento, che riprende il cenno del Q  al carattere “reattivo” della legge tendenziale e di cui si trova traccia nella definizione di essa come «teorema di prima approssimazione», viene modificato già nel corso di Q ,  e più tardi, nel momento in cui la lettura del fordismo rivela le potenzialità euristiche della legge, ben al di là del suo carattere “energetico”: di fatto, all’altezza del Q  l’intero sviluppo capitalistico è letto come «processo di tentativi successivi» (Q , , ) di reagire a crisi «ritornanti a ciclo» (Q , , ) o, se si vuole, come un succedersi di spinte alla decrescita dei costi grazie alla crescita della produttività. In questo modo acquista sempre maggiore peso la specifica qualificazione della legge come “tendenziale”. La sollecitazione a riflettere su di essa proviene a G. da Croce, come da Croce, per quanto si è visto, era derivato anche il primo spunto critico verso Graziadei in Q , . In effetti, la crociana raccolta di saggi risalenti alla fine del XIX secolo, intitolata Materialismo storico ed economia marxistica, viene fino al  utilizzata da G. sia come reagente nei confronti di qualsiasi lettura riduzionistica ed economicistica del materialismo storico e della teoria economica marxista, sia come testimonianza del mutamento della posizione dello stesso Croce, che da quell’iniziale



CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DI PROFITTO

fase di rispetto e scrupolo scientifico passa, a partire dal dopoguerra, a esibire verso Marx e il marxismo un’attitudine liquidazionistica e sbrigativa. Nel Q  è testimoniata una forte crescita di attenzione verso la teoria economica, accompagnata da un’attenta rilettura della summenzionata opera di Croce. La prima testimonianza di ciò si trova in Q  II, , in una variante instaurativa al termine di un impegnativo testo dedicato al concetto di filosofia. A queste riflessioni G. aggiunge l’osservazione generale «che le affermazioni del Croce sono state molto meno assiomatiche e formalmente decise di quanto egli voglia oggi fare apparire. La teoria del valore è tutt’altro che intrinsecamente negata nel suo saggio principale», cioè nel libro citato. Lì Croce «afferma che sola “teoria del valore” scientifica è quella del grado finale d’utilità, e che la teoria del valore marxista è “un’altra cosa”, ma come “altra cosa” ne riconosce la saldezza e l’efficacia e domanda agli economisti di ribatterla con ben altri argomenti da quelli che di solito impiegano il BöhmBawerk e C. [...] La stessa prudenza formale appare nello scritto sulla caduta del saggio di profitto: cosa avrà voluto dire l’autore della teoria? Se ha voluto dir questo, non è esatto. Ma ha voluto dir questo? Dunque occorre ancora pensarci su, ecc. È anzi da porre in rilievo come questo atteggiamento prudente sia completamente mutato in questi anni e tutto sia diventato perentorio e definitivo nello stesso momento in cui è maggiormente acritico e ingiustificato» (ivi, -; v. uno svolgimento di questa critica in Q  II, ). Lo spunto è ripreso e radicalizzato in Q  II, , dove si osserva che anche in quello scritto di fine secolo vi è «un errore fondamentale», ovvero il non aver tenuto conto del rapporto tra primo e terzo libro del Capitale. Se la legge è enunciata nel terzo libro, nel primo Marx aveva «già impostato» il problema introducendo il concetto «del plusvalore relativo e del progresso tecnico come causa appunto di plusvalore relativo». E aggiunge: «nello stesso punto si osserva come in questo processo si manifesti una contraddizione, cioè mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusva-

lore, dall’altro determina, per il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio del profitto e ciò è dimostrato nel III volume della Critica dell’Economia Politica». Quindi «il Croce presenta come obbiezione alla teoria esposta nel III volume quella parte di trattazione che è contenuta nel I volume, cioè espone come obbiezione alla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto la dimostrazione dell’esistenza di un plusvalore relativo dovuto al progresso tecnico, senza però mai accennare una sola volta al I volume, come se l’obbiezione fosse scaturita dal suo cervello, o addirittura fosse un portato del buon senso» (ivi, ). Ciò che interessa a G. qui affermare, al di là delle sue comprensibili cautele («tutte queste note [...] sono state scritte in grandissima parte fondandosi sulla memoria», ivi, -), è il fatto che l’interazione tra dilatazione del plusvalore e cambiamento della composizione organica del capitale dà luogo a un movimento reale, storico, che assegna un particolare significato all’aggettivo “tendenziale”. Infatti fin dall’inizio, come si è visto, G. preferisce parlare di «legge tendenziale», ciò che acquista progressivamente significato in relazione all’analisi dell’americanismo. Ma è nel Q  che tale scelta viene argomentata: «Inoltre occorrerà forse meglio determinare il significato di legge “tendenziale” [...] mentre di solito l’aggettivo “tendenziale” si sottintende come ovvio, si insiste invece su di esso quando la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio del profitto è presentata come l’aspetto contraddittorio di un’altra legge [...] in cui una tende ad elidere l’altra con la previsione che la caduta del saggio del profitto sarà la prevalente» (ibid.). “Tendenziale” non vuole quindi dire solamente che la legge non è deterministica (che poggia cioè su un «supposto che»), ma che due tendenze realmente si oppongono e si contrastano, parzialmente annullandosi. Scrive infatti G. in un testo immediatamente posteriore: «È da svolgere l’accenno sul significato che “tendenziale” deve avere, riferito alla legge della caduta del profitto. È evidente che in questo caso la tendenzialità non



CALVINISMO

può riferirsi solo alle forze controperanti nella realtà ogni volta che da essa si astraggono alcuni elementi isolati per costruire un’ipotesi logica. Poiché la legge è l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella del plusvalore relativo che determina l’espansione molecolare del sistema di fabbrica e cioè lo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico, non può trattarsi di tali forze controperanti come quelle delle ipotesi economiche comuni. In questo caso la forza controperante è essa stessa studiata organicamente e dà luogo a una legge altrettanto organica che quella della caduta. Il significato di “tendenziale” pare dover essere pertanto di carattere “storico” reale e non metodologico: il termine appunto serve a indicare questo processo dialettico per cui la spinta molecolare progressiva porta a un risultato tendenzialmente catastrofico nell’insieme sociale, risultato da cui partono altre spinte singole progressive in un processo di continuo superamento che però non può prevedersi infinito, anche se si disgrega in un numero molto grande di fasi intermedie di diversa misura e importanza» (Q  II, , -). Nello stesso testo viene anche approfondita la critica al saggio crociano, con la duplice osservazione che «il Croce dimentica nella sua analisi un elemento fondamentale nella formazione del valore e del profitto cioè il “lavoro socialmente necessario”, la cui formazione non può essere studiata e rilevata in una sola fabbrica o impresa», e che egli erroneamente «parte dal presupposto che ogni progresso tecnico determini immediatamente, come tale, una caduta del saggio del profitto» (ivi, -). Il fatto che il lavoro socialmente necessario si costituisce come eguagliamento tra lavori mediato dalla concorrenza, fa anche sì che il progresso tecnico (cioè i successivi approfondimenti nell’estrazione di plusvalore relativo) si generalizzi solo gradualmente, e proprio grazie a ciò, renda inizialmente possibile una crescita e non una diminuzione del saggio di profitto. Torna qui, non casualmente, il riferimento a Ford: «Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio del

profitto, mantenendo una posizione di superiorità sui concorrenti» (ibid.). BIBLIOGRAFIA: BARBAGALLO ; POTIER . FABIO FROSINI V. «catastrofe, catastrofico», «Croce», «economia», «fordismo», «leggi di tendenza», «mercato determinato».

Calogero, Guido: v. attualismo. calvinismo I riferimenti che nei Q fa G. al calvinismo sono – come del resto quelli al luteranesimo – funzionali a spiegare alcuni fenomeni attuali. In Q , ,  vengono accostati Kaser  e Philip , cioè un libro sulla storia della Riforma e della Controriforma e un’analisi del mondo nord-americano del secolo XX. Il risultato, agli occhi di G., è che la teoria, secondo la quale la «dottrina della grazia» calvinista si converte «in motivo di energia industriale», sviluppata in Kaser, trova una conferma nell’analisi di Philip, «dove sono citati documenti attuali di questa conversione [...] la documentazione del processo dissolutivo della religiosità americana: il calvinismo diventa una religione laica, quella del Rotary Club». In America la religione aderisce alla vita quotidiana molto più di quanto non accada per il cattolicesimo europeo, e questo è un fatto che va spiegato a partire dall’intimo della dottrina puritana. Kaser si rifà alle analisi di Weber, pur non citandolo, ed è proprio al libro di Weber che G. ricorrerà più tardi, quando lo leggerà nella traduzione pubblicata nei “Nuovi studi di diritto, economia e politica” tra l’agosto  e l’ottobre  (Weber -). G. subito (Q ,  e , , novembre ) ne riprende le tesi, usandole però per spiegare la conversione in attivismo di massa della fede cieca nella dottrina, che si scatena nell’URSS del primo piano quinquennale. Usando Weber, G. critica la posizione di Guido De Ruggiero, che non riesce a spiegarsi «il fatto paradossale, di un’ideologia grettamente [...] materialistica, che dà luogo, in pratica, a una passione dell’ideale» (De Ruggiero , ). G. trascrive il passo in Q , , 



CAMORRA

e nel Testo C aggiunge: «De Ruggiero non riesce a penetrare» il problema, «forse per la sua mentalità ancora fondamentalmente cattolica e antidialettica» (Q  II, , ). Nella stessa direzione va il riferimento al calvinismo in Q , , , «con la sua concezione ferrea della predestinazione e della grazia, che determina una vasta espansione di spirito di iniziativa (o diventa la forma di questo movimento)», con rinvio anche qui a Weber - e a Groethuysen . FABIO FROSINI V. «Croce», «Lutero», «Riforma», «Rotary Club», «Weber».

camorra: v. mafia e camorra. campagna: v. città-campagna. cannibalismo Per G. il cannibalismo è il comportamento estremo (un atto aberrante conseguente al «disfacimento» interiore) cui gli uomini possono giungere in seguito alla modificazione morale «molecolare» che, soprattutto dietro la pressione costante e illimitata di un “terrorismo” psicologico, può escludere, per i singoli, atti eroici e provocare inimmaginabili «catastrofi del carattere». G. ne parla in pagine “autobiografiche” (Q , , -) sia alludendo alle responsabilità di chi induce, per intervento diretto, un irrefrenabile indebolimento psicologico-morale nella condizione dei prigionieri politici (nel suo caso, Mussolini e le autorità fasciste), sia implicitamente riferendosi, in un passaggio critico e delicatissimo della sua vita nei mesi a cavallo tra il  e il , alla sua esperienza carceraria quasi vicina al “naufragio”, e a «“condannatori”» più o meno consapevoli che egli aveva creduto di individuare in alcuni responsabili della sua stessa parte politica (LC , a Tania,  febbraio  e LC -, a Tania,  marzo ). Se ne deduce un’ottica antimoralistica che conferma, con acuta fermezza (nelle circostanze in cui ogni residua resistenza è inevitabilmente annientata da «cause di forza maggiore»: LC , a Tania,  febbraio ), le ragioni dell’inagibilità perfino dell’alterna-

tiva del suicidio, che gli permettono, tra l’altro, di focalizzare il meccanismo di stimolazione, nella fisiologia della moderna società di massa (quando è “volontario” e programmato), dell’evento del “crollo” morale individuale e di ogni inibizione di principio, gestito dai sistemi di coercizione (ma non esclusivamente da essi) tramite il «terrorismo materiale e anche morale» esercitato sulle volontà soggette. Facendo salve, tuttavia, sempre le responsabilità anche dei singoli e pensando ancora al suo difficilissimo rapporto non certo soltanto con il carnefice nemico, quando G. ad esempio così conclude: «Ciò aggrava la responsabilità di coloro che, potendo, non hanno, per imperizia, negligenza, o anche volontà perversa, impedito che certe prove fossero passate» (Q , , ). RAFFAELE CAVALLUZZI V. «autobiografia», «catastrofe, catastrofico», «molecolare», «naufrago», «persona», «personalità».

canto X dell’Inferno: v. Dante. capitalismo La classica espressione marxiana «modo di produzione capitalistico» ricorre di rado nei Q e indica piuttosto il sistema di fabbrica (Q  II, , ), mentre il termine «capitalismo», presente in vari contesti, designa una totalità contraddittoria, che parte dalla fabbrica ma non si limita ad essa, come indica il più sviluppato capitalismo degli Stati Uniti, dove «per sfuggire [...] alla legge della caduta del saggio del profitto [...] Ford è dovuto uscire dal campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce, determinando così una distribuzione della massa del plusvalore più favorevole all’industriale produttore» (ivi, -), fino a cercare di conformare, in funzione delle esigenze della massima produttività e della razionalizzazione produttiva, l’intera vita sociale e culturale del lavoratore, regolamentandone ogni aspetto, compresi i costumi (proibizionismo) e la vita sessuale (Q , -). Il capitalismo è il prodotto di un processo storico, si sviluppa nell’età moderna, diffondendo «un tipo relativamente omogeneo di uomo economi-

CAPITALISMO

co» (Q  II, , ). Perché il capitalismo si affermi occorre un insieme combinato e interagente di condizioni economiche, sociali, culturali, politiche. Sbagliano perciò quanti – afferma G. –, ignorando il principio di specificazione storica, pretendono, come fa Corrado Barbagallo, «di trovare nell’antichità ciò che è essenzialmente moderno, come il capitalismo [...] e le manifestazioni» che al capitalismo sono collegate (Q , , ; v. anche LC , a Giulia,  febbraio ). Mosso dalle sue intime contraddizioni, il capitalismo si sviluppa in modo disuguale nel tempo e nello spazio geopolitico. Esso è tanto più sviluppato, quanto maggiore è la sua capacità di estrazione del plusvalore relativo, come è nei paesi con numerose «industrie progressive (nelle quali il capitale costante è andato aumentando)» (Q , , ), e quanto minore è il peso delle classi sociali «parassitarie», prive di «una funzione essenziale nel mondo produttivo» (Q , , ). G. considera il sistema industriale come luogo in cui viene prodotta nuova ricchezza, con una visione del capitalismo legata alla cosalità della produzione piuttosto che all’essenza del rapporto salariale. Nel confronto tra Stati Uniti ed Europa, i primi hanno «“una composizione demografica razionale”» (ibid.), mentre «l’Italia è il paese, che [...] ha il maggior peso di popolazione parassitaria» (Q , , ). Anche il confronto tra Germania e Inghilterra, entrambe travolte dalla crisi economica mondiale, vede nella prima una potenziale ripresa grazie alla maggior presenza di imprese industriali, mentre nella seconda prevale il capitale commerciale e finanziario (Q , , -). Nel  G. legge la distinzione tra paesi più o meno capitalisticamente avanzati alla luce del rapporto centro-periferia, che articola il sistema capitalistico mondiale in una relazione di dipendenza-subordinazione dei paesi di capitalismo periferico rispetto ai capitalismi centrali, in cui lo Stato è molto più forte, «la classe dominante possiede delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia» (Un esame della situazione italiana, - agosto , in CPC ). Nei Q l’autore espone una concezione antideterministica e dialettica del capitalismo.



La caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi sono le questioni intorno a cui si articola la contraddizione tra «le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione» (Q , , ), posta da Marx a fondamento del movimento della storia nella Prefazione del ’ a Per la critica dell’economia politica, uno dei testi più visitati nella riflessione dei Q sul marxismo. Nello studio del capitalismo è un errore separare il processo di produzione del capitale (esposto nel primo libro del Capitale di Marx) dal processo complessivo della produzione capitalistica (terzo libro), come invece fa Croce che, assumendo la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto come se «fosse valida “assolutamente” e non invece come termine dialettico di un più vasto processo organico», isolandola dalla produzione del plusvalore relativo e da quell’«elemento fondamentale nella formazione del valore e del profitto» che è «il “lavoro socialmente necessario”, la cui formazione non può essere studiata e rilevata in una sola fabbrica o impresa», si preclude la comprensione del movimento complessivo della società capitalistica, fino a ipotizzare in termini paradossali la sua «fine automatica e imminente»; visione “crollista”, condivisa per una fase dal movimento comunista con la “mitizzazione” di alcuni passi del Capitale e duramente contestata da G. (Q  II, , -). Se il movimento contraddittorio del capitale non porta deterministicamente al crollo del capitalismo, resta aperta la questione delle condizioni e dei tempi – lunghi – in cui la contraddizione economica raggiungerà un livello tale da richiedere la sua soluzione in una rivoluzione politica, «quando tutta l’economia mondiale sarà diventata capitalistica e di un certo grado di sviluppo: [...] le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società» (Q  II, , ). La crisi che si prolunga «in forma catastrofica dal » è un «processo complicato», non attribuibile a una sola causa («semplificare significa snaturare e falsificare»), di cui il crol-



CAPITALISMO DI STATO

lo borsistico è solo «una delle clamorose manifestazioni». Essa è immanente al capitalismo, «ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici»: anzi si può dire che lo sviluppo del capitalismo sia stato una continua crisi. Il capitalismo è un sistema mondiale («il mondo è una unità, [...] tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe “crisi”»), mosso da contraddizioni fondamentali, tra cui quella fra la tendenza all’internazionalizzazione dell’economia e l’arroccamento degli Stati in forme protezionistiche e autarchiche (Q , , -). Superando la concezione presente negli scritti giovanili (L’intransigenza di classe e la storia italiana,  maggio , in NM ) del capitalismo come sistema esclusivamente fondato sull’individualismo del capitale privato e della libera concorrenza, G., che già nel  individua nel «predominio del capitale finanziario sul capitale industriale» «una struttura organica, una normalità del capitalismo e non già un “vizio contratto dalle abitudini di guerra”» (La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino,  giugno , in ON ), affronta con diversi strumenti concettuali la questione del capitalismo di Stato, suscitato dal movimento capitalistico stesso, dalla crisi che è inerente al suo modo di produzione. Posta come unitaria, «economica e politica insieme», l’origine della classe dominante (Q , , ), G. non vede le imprese pubbliche come una forma di socialismo, ma come «parte integrante del capitalismo» (Q , , ): «tutte le tendenze organiche del moderno capitalismo di Stato» sono «un modo per un savio sfruttamento capitalistico nelle nuove condizioni che rendono impossibile (almeno in tutta la sua esplicazione ed estensione) la politica economica liberale» (Q , , ). L’intervento statale, sorto per fronteggiare la crisi capitalistica, segna tuttavia una svolta (nel momento in cui lo Stato assume «una funzione di primo ordine come capitalista, [...] deve intervenire per controllare se i suoi investimenti sono bene amministrati»: Q , , ), è la manifestazione della necessità del superamento del sistema e indica la strada dell’«economia programmatica» (Q , ,

), che, liberata dal comando del capitale, rappresenta la prospettiva futura. ANDREA CATONE V. «capitalismo di Stato», «Croce», «economia», «Marx».

capitalismo di Stato G. è il marxista che più riflette sul nuovo rapporto tra Stato e società (Stato «nel significato integrale»: Q , , ) sviluppatosi nel Novecento. Indaga anche sul nuovo rapporto che si determina tra Stato ed economia, interessandosi al fenomeno allora nuovo delle obbligazioni statali. Negli anni seguenti il crollo di Wall Street la fiducia nel sistema capitalistico è scossa, il pubblico «vuole partecipare all’attività economica, ma attraverso lo Stato» (Q , , ). E se lo Stato raccoglie il risparmio, non potrà fare a meno di entrare nell’«organizzazione produttiva» (Q , , -, del ). G. coglie il passaggio dell’economia capitalistica verso la sua fase “keynesiana”, affermando: «Non si tratta infatti di conservare l’apparato produttivo così come è in un momento dato. Bisogna svilupparlo parallelamente all’aumento della popolazione e dei bisogni collettivi. In questi sviluppi necessari è il pericolo maggiore dell’iniziativa privata e qui sarà maggiore l’intervento statale» (ivi, ). Nel Testo C (Q , , , del ), G. precisa che lo Stato è spinto a intervenire per «i salvataggi delle grandi imprese in via di fallimento o pericolanti; cioè, come è stato detto, la “nazionalizzazione delle perdite e dei deficit industriali”». G. non solo è critico nei confronti della versione fascista del nuovo rapporto politicaeconomia, cogliendo la «struttura plutocratica» e i «legami col capitale finanziario» dello Stato fascista (Q , , ), al di là di ogni retorica corporativistica. Critica anche il «capitalismo di Stato» tout court, lo considera «un modo per un savio sfruttamento capitalistico nelle nuove condizioni che rendono impossibile [...] la politica economica liberale» (Q , , ) e avanza obiezioni tanto verso la «politica dei “lavori pubblici”» (Q , , ) che rispetto alla nascita dell’IMI, dell’IRI ecc. (Q , , -). Non muta per G. il segno di

CAPO CARISMATICO



classe, il fine ultimo (lo sfruttamento capitalistico) del capitalismo di Stato.

per G. deve divenire tendenzialmente il «moderno Principe», ossia il partito comunista.

GUIDO LIGUORI

MARCOS DEL ROIO

V. «capitalismo», «corporativismo», «fascismo», «Stato».

V. «capo carismatico», «demagogia», «dirigentidiretti», «Lenin», «moderno Principe», «Partito comunista».

capo Nei Q il lemma «capo» appare in accezioni abbastanza differenti: capo di Stato, capo di governo, capo militare, capo sindacale, capo di una tendenza o gruppo intellettuale. Se per Machiavelli l’uomo più virtuoso era il fondatore di religioni, seguito dal fondatore di Stati, G. non ha dubbi sul fatto che il capo politico, specie se fondatore di Stati, sia il maggior esempio di virtù. Già in occasione della morte di Lenin, nel , egli aveva scritto un articolo intitolato «Capo» (marzo , in CPC  ss.), presentando una concezione del capo politico come personalità individuale-collettiva indispensabile nel momento in cui vi è ancora necessità che vi siano «dirigenti». Nel Q  G. espone una sua interpretazione, condotta per negazioni di cosa sia un capo: «se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera “costituente” costruttiva, allora si ha una “demagogia” superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati “culturali”». Il capo che G. giudica necessario è dunque quello capace di organizzare ed educare le masse, quello che «tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili “concorrenti” ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo» (Q , , ). Il capo come lo concepisce G. tende a essere non un individuo, anche se carismatico, poiché «nella realtà di qualche Stato il “capo dello Stato”, cioè l’elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro l’interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è appunto il “partito politico”» (Q , , ). Il capo

capo carismatico Commentando un articolo di Robert Michels in Q , , G. mette per la prima volta a tema la nozione di «“capo charismatico”», con precisione ri-attribuita a Weber dopo che Michels aveva «fatto molto baccano in Italia per la “sua” trovata del “capo charismatico”» (ivi, ). Il resoconto dell’articolo letto e il personale commento gramsciano si intrecciano, portando alla luce un forte nucleo di senso che attribuisce all’elemento carismatico una caratteristica specifica: «il cosidetto “charisma”, nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze» (ivi, ). Se da una parte il capo carismatico è una figura che G. relega a una fase non ancora moderna della politica, non ancora di massa, dall’altra il suo emergere può essere anche il segno, ora certamente moderno, di una situazione di stallo politico, in cui l’equilibrio delle forze in campo non permette la vittoria di un gruppo sull’altro: «in certi momenti di “anarchia permanente” dovuta all’equilibrio statico delle forze in lotta, un uomo rappresenta l’“ordine” cioè la rottura con mezzi eccezionali dell’equilibrio mortale» (ivi, ). Il capo carismatico può quindi presentarsi là dove c’è una «crisi organica» che minaccia la distruzione di entrambi i contendenti; scrive G. nel Testo C: «Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici» (Q , , -). MICHELE FILIPPINI V. «capo», «crisi organica», «Michels», «Weber».



CAPORALISMO

caporalismo In Q ,  G. annota una serie di riflessioni brevi e secche, come a fare memoria di un tema importante, ma che non ha ancora sviluppato in tutta la sua fecondità. La nota si intitola Nozioni enciclopediche. Comandare e obbedire e il tema portante è quello dell’analisi della funzione di comando, specialmente del «carattere del comando e dell’obbedienza nell’ordine militare». G. distingue tra «comandare per comandare», che «è il caporalismo» (ivi, ), e «il comando del direttore d’orchestra», in cui c’è «collaborazione» e «il comando è una funzione distinta, non gerarchicamente imposta» (ivi, ). Ma la nota è appunto un abbozzo, in cui la contrapposizione non è poi così netta e sviluppata, tanto che G. prosegue: «comandare per comandare è il caporalismo; ma si comanda perché un fine sia raggiunto, non solo per coprire le proprie responsabilità giuridiche»; e poco prima: «nell’obbedienza c’è un elemento di comando e nel comando un elemento di obbedienza» (ivi, ). Con la sua riflessione in corso d’opera, G. mette a tema il problema della pura astrattezza e irresponsabilità dell’azione di comando caporalesco. Un’ulteriore indicazione su questo concetto così poco elaborato possiamo ricavarla da una nota coeva, se non addirittura posteriore (anche se appartiene a un quaderno precedente), in cui G. sostiene che «occorre distinguere tra il “comando” espressione di diversi gruppi sociali: da gruppo a gruppo l’arte del comando e il suo modo di esplicarsi muta di molto» (Q , , ). È l’origine del comando, quindi, che ne definisce le caratteristiche: «il centralismo organico, col comando caporalesco e “astrattamente” concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento» (ibid.).

per le truppe italiane. Contro le spiegazioni meramente tecnico-militari, G. afferma che «la responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente» (Q , , -). G. affronta il tema della rotta di Caporetto come un esempio di mancanza di «grande politica» e amplia la valutazione per l’insieme delle relazioni tra Italia e Austria dal  al . Si trattava, nel , di mobilitare una forza insurrezionale che fosse capace di cacciare gli austriaci e di impedirne il ritorno, stimolando la disgregazione dell’Impero asburgico e il rafforzamento delle forze liberali. L’inerzia politica dei partiti nazionali rese possibile, al contrario, che l’Austria usasse i suoi reggimenti italiani nella repressione dell’impeto rivoluzionario. Alla fine si può dire che «la politica della destra piemontese ritardò l’unità d’Italia di  anni» (Q , , ). Scrive G. che «lo stesso errore fu commesso da Sonnino durante la guerra mondiale, anche contro il parere di Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’Impero absburgico e si rifiutò a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, questa politica fu fatta maltusianamente e non dette i rapidi risultati che avrebbe potuto dare» (ibid.). La politica italiana nella guerra, per G., avrebbe dovuto puntare sulla disgregazione dell’esercito austriaco sollevando la questione delle nazionalità; ma le classi dirigenti italiane temevano di stimolare un movimento rivoluzionario e poi di restare vittime dello stesso. Si trattava ancora delle carenze nei rapporti tra dirigenti e diretti proprie della realtà italiana. MARCOS DEL ROIO

V. «capo», «centralismo», «esercito».

V. «cadornismo», «dirigenti-diretti», «esercito», «Grande guerra», «grande politica», «guerra», «sciopero».

Caporetto

capovolgimento

La battaglia di Caporetto ebbe luogo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del , impegnando l’esercito italiano e quello austro-ungarico, e il risultato fu disastroso

Vi è «capovolgimento» quando un nuovo modo di produzione subentra all’altro, non quando il modo capitalistico accentua le sue capacità innovative: «il Lanino affer-

MICHELE FILIPPINI

CARCERE O PRIGIONE

ma che in America è avvenuto “un capovolgimento completo di quelli che sino allora erano stati i criteri economici fondamentali della produzione industriale. La legge della domanda e dell’offerta rinunziata nelle paghe. Il costo di produzione diminuito pure aumentando queste”. Non è stato rinunziato nulla: il Lanino non ha compreso che la nuova tecnica basata sulla razionalizzazione e il taylorismo ha creato una nuova e originale qualifica psico-tecnica e che gli operai di tale qualifica non solo sono pochi, ma sono ancora in divenire» (Q , , ). Vi può essere capovolgimento anche nei confronti della propria precedente formazione filosofica: «il Croce, secondo me, ha viva la coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del problema filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale» (Q , , ; v. anche Q  II, .IV, ). Marx, capovolgendo l’impianto hegeliano, ne aveva nondimeno “tradotto” un nucleo vitale nella nuova concezione “immanentistica”. Il primo Croce non tentava a sua volta di “ritradurre” in termini speculativi lo stesso marxismo? In seguito, si pente: «Il recente atteggiamento del Croce verso la filosofia della praxis [...] non è solo un rinnegamento (anzi un capovolgimento) della prima posizione assunta dal Croce prima del  [...] non giustificato logicamente, ma è anche un rinnegamento, anch’esso non giustificato, della sua propria filosofia passata (almeno di una parte cospicua di essa) in quanto il Croce era un filosofo della praxis “senza saperlo”» (Q  II, .I, ). Anche il sociologismo presume di poter “capovolgere” la prospettiva storicistica, introducendovi una ricerca di costanti infallibili o di regolarità uniformi mutuata dal metodo delle scienze naturali: invero, la «ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici. Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evolu-



zione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita “scientifica” solo se e in quanto abilita astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società» (Q , , ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «Croce», «filosofia della praxis», «materialismo storico», «scienza», «taylorismo».

carcere o prigione In Q ,  G. pare riportare con implicita partecipazione alcuni estratti da Impressioni di prigionia di Jacques Rivière, in cui l’autore racconta l’umiliazione delle perquisizioni e dei sequestri degli oggetti personali in cella (in primis carta da scrivere e il libro delle conversazioni di Goethe con Eckermann), la sensazione di vulnerabilità disarmata e impotente, la paura e l’inaridimento dello spirito di iniziativa, che renderebbero difficile approfittare anche di un’eventuale occasione di fuga. L’insicurezza del recluso, a proposito della quale G. scrive nelle LC che solo a costo di «molta sofferenza» ci si abitua all’idea di essere un «oggetto senza volontà e senza soggettività nei confronti della macchina amministrativa» (LC -, a Tania,  gennaio ), si espande nella sua famiglia: essa trova infatti un corrispettivo nelle condizioni di «spavento permanente» in cui la madre di G. si trova a vivere fin dallo scoppio della guerra, avendo tre figli al fronte, in un paese in cui «è difficile comprendere che si può andare in prigione senza essere né un ladro, né un imbroglione, né un assassino» (LC , a Tania,  marzo ). Così alla sorella Teresina G. chiede di assicurare alla madre che la sua «onorabilità» e «rettitudine» non sono «affatto in quistione», trovandosi egli in carcere per «ragioni politiche» (LC ,  marzo ). D’altronde per l’autore dei Q non può contare solo il «carcere da soffrire», ma anche la «posizione morale», unica a poter dare «la forza e la dignità» (LC , alla madre,  marzo ). Continua G.: «Il carcere è una bruttissima cosa; ma per me sarebbe anche peggiore il disonore per debolezza morale e per vigliaccheria» (ibid.). Scrive ancora alla madre: «in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto muta-



CARDUCCI , GIOSUE

re le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione» (LC ,  maggio ). G. sentì ben presto il logorio della monotonia che la vita in carcere implica, in «giornate sempre uguali» che diventano uno «stillicidio» di ore e minuti (LC , a Teresina,  febbraio ). In questo contesto nasce l’assillo di occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che «assorbisse e centralizzasse» la sua vita interiore (LC , a Tania,  marzo ). G. legge molto, eppure si accorge che, contrariamente a quanto pensava, «in carcere si studia male, per tante ragioni, tecniche e psicologiche» (LC , a Giulia,  maggio ). Ancora nel febbraio del  G. lamentava d’altronde di non avere a disposizione carta e penna, dato che passava per «un terribile individuo, capace di mettere il fuoco ai quattro angoli del paese o giù di lì» (LC , a Teresina,  febbraio ). Le LC sono ovviamente ricche di annotazioni su come l’esperienza in carcere veniva vissuta dal pensatore sardo, che pure a volte tace su alcuni argomenti per il timore della censura: essa comporterà in lui l’ossessione di scivolare nell’epistolografia più convenzionale, quella appunto «convenzionalmente carceraria» (LC , a Giulia,  maggio ). Dalla cella il mondo esterno non può che sembrare «grande e terribile», nonché «incomprensibile» (LC , a Tania,  ottobre ). La lettura di libri o riviste possono solo fornire «idee generali, abbozzi di correnti generali della vita del mondo» (LC , a Giulia,  novembre ), ma la vita dei suoi cari diventa – come G. scrive in una celebre lettera – il suo «Giappone» (ibid.), con riferimento alla preoccupazione di un giovane operaio che non ne trovava notizie sui giornali italiani se non in casi eccezionali. Il «sintomo più vistoso del carcere», che si manifesta nei più «resistenti» durante il terzo anno di reclusione, è l’«atonia psichica»: «la massa di stimoli latenti che ognuno porta con sé dalla libertà e dalla vita attiva, comincia ad estinguersi e rimane quel barlume di volontà che si esaurisce nelle fantasticherie dei piani grandiosi mai realizzati» (LC , a Tania, ° luglio ). In tali condizioni il detenuto finisce col trascor-

rere il suo tempo sputando sul soffitto, «sognando cose irrealizzabili» (ibid.). In qualche modo G. ritiene di aver sostituito agli sputi contro il soffitto l’osservazione della sua rosa e del ciclo delle stagioni nella sua auspicata fioritura, allorché il tempo gli appare come «una cosa corpulenta» (ivi, ), a fronte dell’azzeramento della dimensione dello spazio. Nel dicembre  G. riesce comunque ancora a scrivere a sua madre che in carcere la sua serenità non è scomparsa: «Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose» (LC , alla madre,  dicembre ). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «Giappone».

Carducci, Giosue Carducci rappresenta per G. una figura intellettuale dotata di valore simbolico, che incarna da un lato, con l’Inno a Satana, l’anticlericalismo e l’ateismo cari al naturalismo (Q , , ) e simboleggia dall’altro, in qualità di moderno esponente della «retorica tradizionale e accademica» dipendente «dai Sepolcri di Foscolo», il difensore della continuità della tradizione di Roma (Q , , ) che il «movimento vociano e futurista» invece osteggiava (Q , , ); infine, che rappresenta, da un altro lato ancora – quello del «tipo di critica letteraria propria del materialismo storico» –, il metodo da rifuggire, perché di carattere esclusivamente retorico e filologico (Q , , ). L’interesse di G. per Carducci, forse sollecitato dalla notizia della pubblicazione di due volumi sul suo pensiero (Q , , ), si concentra soprattutto su alcuni degli aspetti di quel pensiero, di cui si preoccupa di ricostruire fonti e grado di influenza nella cultura contemporanea. Penso alla tesi di Quinet «dell’equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana» fatta propria da Carducci, come suggerisce Mattalia, tramite «il concetto giobertiano della classicità nazionale» (Q , , ), o alle suggestioni del pensiero idealistico che avevano portato Carducci ad accostare pensiero

CATARSI

politico francese e pensiero filosofico tedesco, analogamente a quanto aveva fatto Marx nella Sacra famiglia (Q , , ), o alla peculiare natura di quella rivendicazione della tradizione classica che, se permetteva a Carducci di attingere con naturalezza alla letteratura latina, conteneva in sé un esito reazionario, dato che «nella storia della cultura nazionale» il passato «non vive nel presente» e «non c’è continuità e unità» e, di conseguenza, «l’affermazione di una continuità ed unità è solo un’affermazione retorica o ha valore di mera propaganda suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare artificialmente ciò che non esiste» (Q , , ). MARINA PALADINI MUSITELLI V. «Gioberti», «naturalismo», «rivoluzione passiva», «Roma».

ze distruttive» (ivi, ). Al caso sive natura si oppone il concetto filosofico di libertà, sinonimo di possibilità reale: «poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire “libertà”» (ivi, -). La disciplina consapevole, anche nell’insegnamento, si oppone alla pedagogia che confida nel caso, evitando «che la formazione del bambino sia lasciata al caso delle impressioni dell’ambiente e alla meccanicità degli incontri fortuiti» (LC , a Tatiana,  dicembre ). GIUSEPPE PRESTIPINO

casematte: v. trincee, fortezze e casematte. caso La nozione di «caso» è opposta a quella di «legge»: chi spiega «il mondo come l’effetto delle leggi e del caso, non si accorge di perdersi in vuote parole?» (Q , , ). In economia e in filosofia il metodo ipotetico deve evitare i due estremi del provvidenzialismo cristiano e del materialismo classico, che enfatizzava la casualità degli accadimenti: «Il caso e la legge. Concetti filosofici di “caso” e di “legge”: tra concetto di una “provvidenza” che ha stabilito dei fini al mondo e all’uomo, e del materialismo filosofico che “il mondo a caso pone”» (Q , , ; v. Q , , ). Dal canto loro, «i contadini continuano a non comprendere il “progresso”, cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso» (Q  II, , ). G. accosta spesso l’uno all’altro i concetti di caso e di natura: «Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio [...] Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduto la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso “democratico”; cioè che i “portatori” ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato for-



V. «libertà», «natura», «progresso», «teleologismo».

catarsi Come in altri casi, G. si avvale di un vecchio termine ma lo riempie di un nuovo contenuto, creando in tal modo un concetto inedito e originale. Il termine «catarsi» venne utilizzato per la prima volta da Aristotele per individuare l’effetto che la tragedia esercita sullo spettatore. Il filosofo di Stagira parla di catarsi come «purgazione delle passioni», nel senso di un’elevazione, di un superamento e, in un certo senso, di un passaggio dall’arte alla morale, ma ciò facendo non va oltre la definizione della tragedia e dei suoi effetti. È proprio tale momento dell’elevazione, del superamento, ciò che G. coglie nel termine aristotelico. Ma, universalizzandolo, egli ne fa una determinazione essenziale della prassi sociale in generale e, più specificamente, della prassi politica. Scrive G.: «Si può impiegare il termine di “catarsi” per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento eticopolitico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini» (Q  II, , ). Siamo qui davanti a quel movimento tramite il quale il particolare (l’economico-corporativo) è dialetti-



CATARSI

camente superato nell’universale (l’etico-politico), elevazione che G. considera una determinazione essenziale della prassi politica quando questa è intesa nel suo senso ampio. Del resto, qui G. suggerisce un modo dialettico di pensare il rapporto tra struttura e superstruttura sulla base di uno dei testi marxiani più presenti nei Q (e anche citato da G. alla fine della nota in questione), la Prefazione al Per la critica dell’economia politica. Ma questo passaggio dal particolare all’universale non è l’unico superamento dialettico che G. crede essere contenuto nel “movimento catartico”; strettamente legati ad esso vi sono altri passaggi dialettici: «Ciò [la catarsi, ndr] significa anche il passaggio dall’“oggettivo al soggettivo” e dalla “necessità alla libertà”. La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative» (ibid., corsivo mio). Qui viene meno qualsiasi possibilità di una lettura meccanicistica del rapporto struttura-superstruttura: la prassi umana, nel suo momento catartico, mette in movimento precisamente il passaggio dalle determinazioni oggettive alla soggettività (che è all’origine di «nuove iniziative»), ossia il passaggio dalla necessità alla libertà. Senza negare i momenti dell’oggettività e della necessità, che sono anche essi costitutivi dell’essere sociale, G. indica il loro ineliminabile rapporto con la soggettività creatrice e dunque con la libertà. Siamo qui davanti a un momento essenziale dell’ontologia gramsciana dell’essere sociale, dove si congiungono causalità e teleologia, necessità e libertà. Per sottolineare l’importanza ontologica della sua particolare concezione di catarsi, G. afferma: «La fissazione del momento “catartico” diventa così, mi pare, il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico» (ibid., corsivo mio). Possiamo adesso capire meglio il senso che G. ha in mente quando dice ripetutamente che “tutto è politica”. Si tratta di un altro modo di dire che “tutto è catarsi”, ossia che tutte le forme di prassi – dal lavoro

volto alla dominazione della natura fino alle forme più complesse di interazione sociale – contengono questa possibilità di passaggio dal particolare all’universale, dall’oggettivo al soggettivo, dalla necessità alla libertà. Non sono molti altri i brani in cui G. parla di catarsi. In un unico caso tratta il termine sotto un profilo essenzialmente estetico: discutendo il canto X dell’Inferno sostiene che sia «catarsi» il passaggio dalla poesia alla struttura (per utilizzare i termini crociani dei quali, in questo contesto, si avvale), ossia il passaggio da una frase di valore “estetico” sulla presunta morte del poeta Guido alle «didascalie» di Farinata, che provocano il dramma di Cavalcanti, il padre del poeta (Q , , ). Ma nell’altro brano dei Q dove G. parla di catarsi con riferimento all’arte, già appare con chiarezza il rapporto con la politica in senso ampio. A proposito di Casa di bambola di Ibsen G. scrive: «E cosa dovrebbe essere poi il così detto teatro d’idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi con soluzioni drammatiche che rappresentino una catarsi “progressiva” [corsivo mio, ndr], che rappresentino il dramma della parte più progredita intellettualmente e moralmente di una società e che esprime lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esistenti?» (Q , , -). In queste due note di “estetica” G. ribadisce il passaggio dal particolare all’universale come tratto distintivo della catarsi. Vi sono però altri brani dove l’uso del termine assume chiaramente il senso ontologico-politico presente in Q  II, . Significativo è il passo dove, dopo aver esposto il concetto di rivoluzione passiva nell’ambito di un’analisi critica della storiografia di Croce, G. parla del gruppo sociale che si presenta come promotore della catarsi, ossia del passaggio dal particolare all’universale. Dopo aver parlato del modo di vedere la dialettica proprio della «concezione “rivoluzione-restaurazione”», ossia di «un conservatorismo riformistico temperato», G. afferma: «Un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la “catarsi” dal momento economico al momento eti-

CATASTROFE , CATASTROFICO

co-politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso» (Q  I, , -). Sebbene non lo dica esplicitamente, G. crede che il principale promotore di una catarsi rivoluzionaria per i gruppi subalterni sia quello che egli chiama «moderno Principe», che forma, per usare una nota espressione togliattiana, un “intellettuale collettivo”. Ancora in polemica con Croce – laddove cerca di dimostrare che quella tra ideologia e filosofia è una distinzione solo di grado, poiché ambedue sono “concezioni del mondo” –, G. specifica cosa intenda per filosofia, che egli considera più universale dell’«ideologia politica», proprio perché si tratta di una «catarsi»: «è filosofia la concezione del mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale (catarsi di una determinata vita pratica) di un intero gruppo sociale concepito in movimento e visto quindi non solo nei suoi interessi attuali e immediati, ma anche in quelli futuri e mediati» (Q  I, , , corsivo mio). G. torna a parlare di catarsi in un celebre paragrafo dove discute il «passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere» e afferma che «non si fa politica [...] senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione». G. sembra concepire questa connessione come una forma moderna di catarsi, di costruzione della «vita d’insieme che sola è la forza sociale», tramite la quale «si crea il “blocco storico”». In effetti, egli dice che «il De Man “studia” i sentimenti popolari, non con-sente con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna: la sua posizione è quella dello studioso di folclore» (Q , , -, corsivo mio). Sebbene appaia non molte volte nei Q, il concetto di catarsi occupa dunque un posto centrale nell’ontologia sociale di G., che con questo termine esprime l’idea per cui l’essere sociale è costituito da un rapporto sempre mutevole di particolare e universale, di oggettivo e soggettivo, di necessità e libertà. CARLOS NELSON COUTINHO V. «Aristotele», «concezione del mondo», «Croce», «Dante», «De Man», «filosofia», «ideologia», «Ibsen», «intellettuali», «libertà», «necessità», «oggettività», «soggettivo», «struttura», «superstruttura, superstrutture».



catastrofe, catastrofico La tematizzazione gramsciana del concetto di catastrofe è strettamente intrecciata al nesso quantità-qualità, centrale nella filosofia della prassi: la catastrofe è l’esito di un processo molecolare di trasformazione che da quantitativa diviene qualitativa. Nelle Note autobiografiche, riflettendo sulle «catastrofi del carattere», G. parla di «mutamenti “molecolari”», cioè di un «mutamento progressivo della personalità morale che a un certo punto da quantitativo diventa qualitativo», determinando lo sviluppo di una «nuova personalità, completamente nuova» (Q , , -). La riflessione sulla trasformazione e formazione della personalità nei Q è anche strettamente connessa all’esperienza di vita raccontata nelle LC. Il prigioniero, stremato dal carcere e da condizioni di salute definite più volte «catastrofiche», teme che «l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo “individuo”»; osserva il suo processo di trasformazione molecolare – «un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte)» (LC , a Tania,  marzo ) – e racconta, attraverso il paragone col naufrago che diventa antropofago, anche la paura di una sua “catastrofe del carattere”. Tale riflessione gramsciana sui processi di trasformazione della personalità è ampiamente traducibile in quella sui processi di trasformazione economica e sociale, anch’essi articolati lungo il nesso molecolarecatastrofico. Argomentando la tesi del carattere «“storico” reale» e non «metodologico» del significato di «“tendenziale”» nella legge sulla caduta del saggio di profitto, G. afferma che il termine serve a indicare il «processo dialettico per cui la spinta molecolare progressiva porta a un risultato tendenzialmente catastrofico nell’insieme sociale, risultato da cui partono altre spinte singole progressive in un processo di continuo superamento che però non può prevedersi infinito, anche se si disgrega in un numero molto grande di fasi intermedie di diversa misura e importanza» (Q  II, , ). Dunque, la storicità del processo, o meglio dei processi molecolari, rende storicamente tendenziale la prospettiva catastrofica: lungo la



CATASTROFE , CATASTROFICO

polarità molecolare-catastrofico G. articola una sua teoria della trasformazione in chiara antitesi a ogni teoria del crollo e, quindi, a ogni accezione deterministica della catastrofe e del nesso quantità-qualità. G. polemizza con la strumentale interpretazione crociana della legge sul saggio di profitto, che «“importerebbe né più né meno che la fine automatica e imminente della società capitalistica”. Niente di automatico e tanto meno di imminente» (ibid.). E, nella stessa nota, inserisce l’interpretazione catastrofista della legge nell’ambito di un processo di mitizzazione di «molte affermazioni dell’economia critica»: è «il metodo politico di forzare arbitrariamente una tesi scientifica per trarne un mito popolare energetico e propulsivo», un metodo che G. propende a considerare «inetto in ultima analisi» e paragonabile «all’uso degli stupefacenti che creano un istante di esaltazione delle forze fisiche e psichiche ma debilitano permanentemente l’organismo» (ivi, -). E infatti, nel chiedersi se l’origine della legge non sia interpretabile come risposta allo scientismo positivista e al mito del progresso, G. riflette proprio sugli effetti mistificanti e passivizzanti della mitizzazione e della forzata interpretazione positivistica della legge stessa: «è da vedere se non sia stata legittima e di larga portata la reazione del Marx, che colla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto e col così detto catastrofismo gettava molta acqua nel fuoco; è da vedere anche in che misura l’“oppiomania” abbia impedito una analisi più accurata delle proposizioni del Marx» (Q , , ). Sempre in chiave antipassiva, G. critica anche le interpretazioni economicistiche a lui contemporanee, in particolare quelle di marca sindacale e luxemburghiana. Ad esempio, in termini critici nei confronti delle cosiddette teorie del crollo, G. polemizza col catastrofismo inteso come trasposizione politica dell’economismo di un certo sindacalismo (il riferimento esplicito è a Maurras, ma la critica implicita è rivolta a Bordiga): «Nella concezione di Maurras esistono molti tratti simili a quelli di certe teorie formalmente catastrofiche di certo economismo e sindacalismo. È spesso avvenuta questa trasposizione nel campo politico e parlamenta-

re di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico in generale e non solo quello parlamentare si basa su una simile concezione meccanicamente catastrofica: la forza dell’avversario crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente intransigente lo si boicotterà nel campo governativo (allo sciopero economico si accoppia lo sciopero e il boicottaggio politico)» (Q , , ). E ancora nella polemica anticatastrofista G. critica il «pregiudizio “economistico” e spontaneista» della Luxemburg, riflettendo sulla «efficacia dell’elemento economico immediato» e sul rapporto «tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione» nell’arte militare e nell’arte politica (Q , , -): negli «Stati più avanzati [...] la “società civile” è diventata una struttura molto complessa e resistente alle “irruzioni” catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna» (ivi, ). Nessun crollo è prevedibile o attendibile in Occidente: niente di automatico e tantomeno di imminente. La critica al catastrofismo assume cioè una sua peculiare densità e cogenza nell’ambito della riflessione sul carattere complesso della società civile contemporanea negli Stati occidentali. La tensione molecolarecatastrofico si connette allora, nelle società contemporanee – in cui si verificano «crisi economiche e morali a tendenza spesso catastrofica» (Q , , ) –, all’analisi dello «sviluppo del capitalismo» come «“continua crisi”» (Q , , -): G. legge così quegli «avvenimenti che assumono il nome di crisi e che si prolungano in forma catastrofica dal » come «processo» e «intensificazione quantitativa di certi elementi» (ivi, -). Inoltre G. sviluppa un’analisi comparata dei fenomeni di cesarismo, «situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica»: «il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca» (Q , , ). Tuttavia, G. opera una distinzione tra prospettiva ca-

CATTANEO , CARLO

tastrofica (la tendenza o prospettiva catastrofica di un processo molecolare allude a un esito necessariamente qualitativo) e fase catastrofica: «la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica “momentanea” della forza dominante tradizionale e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile» o nei casi in cui le parti in lotta, «pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire “assolutamente” ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare [...] almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini storico-politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica)» (ivi, ). Se nel passato, secondo G., si sono potuti verificare sia fenomeni di cesarismo quantitativo-qualitativo che meramente quantitativo, «nel mondo moderno l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente». Tuttavia, aggiunge G., anche nel mondo moderno «una forma sociale ha sempre possibilità marginali di ulteriore sviluppo» (ivi, ). Da ultimo, nota G. nella sua riflessione su Americanismo e fordismo, una «crisi [...] “permanente”, cioè a prospettiva catastrofica» (Q , , ), potrebbe riscontrarsi nel rapporto tra animalità e industrialismo in relazione alle forme di coercizione connesse alla formazione di un nuovo tipo umano. ELEONORA FORENZA V. «animalità e industrialismo», «autobiografia», «Bordiga», «caduta tendenziale del saggio di profitto», «cannibalismo», «cesarismo», «crisi», «economismo», «individuo», «Luxemburg», «molecolare», «naufrago», «oppio», «personalità», «quantità-qualità».

catastrofismo: v. catastrofe, catastrofico. Cattaneo, Carlo La prima attenzione che G. dedica nei Q a Carlo Cattaneo riguarda la sua attività giornalistica (Q , , ), che ritiene utile studiare ai fini di un’«esposizione generale dei

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tipi principali di riviste» (ibid.): G. fa riferimento all’“Archivio Triennale” e al “Politecnico” e, a proposito di quest’ultimo, precisa che è «un tipo di rivista da studiare accuratamente (accanto ad esso la rivista “Scientia” del Rignano)» (ivi, ). Nel corrispettivo Testo C, G. riprende e ribadisce sostanzialmente queste considerazioni. Un altro punto di interesse è costituito dal tema della città e dal rapporto città-campagna all’interno dei processi di formazione del Risorgimento italiano: G. (in Q , , ) cita il saggio cattaneano, pubblicato per la prima volta nel , sulle colonne del “Crepuscolo”, la rivista diretta da Carlo Tenca, intitolato La Città considerata come principio ideale delle istorie italiane, e lo segnala come possibile fonte di uno studio di Arrigo Solmi del  che aveva suscitato un vivace dibattito, ospitato nel “Leonardo” in quello stesso anno. G. conclude la sua breve nota, chiedendosi: «il Solmi ha preso dal Cattaneo il suo principio? D’altronde cosa significa “città”? Non significa forse “borghesia”, ecc.?» (ibid.). Ancor più interessante è un passo di poco successivo, in cui G., dopo aver dichiarato di condividere le considerazioni di chi collegava al magistero di Romagnosi «il concetto esposto dal Cattaneo della necessità dell’unione tra città e campagna per il risorgimento italiano» (Q , , ) e dopo avere indicato come altra possibile fonte la «letteratura francese democratica del tempo, che seguiva la tradizione giacobina», precisa con fermezza che il fatto davvero importante sarebbe consistito non tanto nella formulazione, da parte di Cattaneo, di quel concetto in sé, quanto piuttosto nel conferimento a quel concetto («necessità dell’unione tra città e campagna») di «un’espressione politica italiana immediata» (ibid.). Qui G., toccando, sia pur velocemente, uno dei punti fondamentali della sua analisi della rivoluzione passiva del Risorgimento (in relazione all’egemonia moderata e alla sostanziale debolezza-subalternità dell’ala democratica), afferma che tale «espressione politica italiana immediata» mancò, anzi fu evitata «sistematicamente dai partiti democratici del Risorgimento» (ibid.). Per quanto concerne la questione del federalismo cattaneano, G. lo af-



CATTOLICI

fronta in una nota del Q  intitolata significativamente Nesso storico -. Il federalismo di Ferrari-Cattaneo. Dopo aver affermato che tutta la questione del federalismo nel Risorgimento chiama in causa «l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia» (Q , , ), G. sostiene che il fatto che Cattaneo tendesse a presentare il federalismo come «immanente», ovvero ricorrente in tutta la storia italiana, a partire dall’età comunale, andava letto in connessione con il bisogno dell’intellettuale lombardo di valersi di un «elemento ideologico, mitico» per «rafforzare il programma politico attuale» (ibid.). A tal riguardo, egli poi aggiunge che non ha senso «accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario», dal momento che va tenuto presente il criterio metodologico, secondo cui «altro è la storia del Risorgimento e altro l’agiografia delle forze patriottiche e anzi di una frazione di esse, quelle unitarie», e secondo cui, più in generale, il Risorgimento è «uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici» (ibid.). Gli sparsi elementi di giudizio sulla figura e sul ruolo di Cattaneo, più o meno affioranti nei Q, trovano singolarmente, in un passo delle LC, una corposa, quasi perentoria condensazione. Nell’esporre sinteticamente (in una lettera a Tatiana del  settembre ) la sua «concezione della funzione degli intellettuali» (LC ), G. dichiara che è da tale concezione che può essere illuminata la ragione, o almeno una delle ragioni, della caduta dei Comuni medievali: vale a dire, del «governo di una classe economica, che non seppe crearsi la propria categoria di intellettuali e quindi esercitare un’egemonia oltre che una dittatura» (ibid.). Per G. Machiavelli aveva colto questa debolezza costitutiva delle società comunali, che non erano potute pervenire alla dimensione etico-politica di una piena statualità («Stato integrale»), e, attraverso l’organizzazione dell’esercito, aveva inteso invano «organizzare l’egemonia della città sulla campagna» (ibid.). G. afferma che per questo Machiavelli si può chiamare il primo giacobino italiano e poi, in parentesi, aggiunge: «il secondo è stato Carlo Cattaneo

ma con troppe chimere in testa» (ibid.). Sottolineando così nettamente il carattere “chimerico” del giacobinismo cattaneano, G. intende rimarcare la sostanziale incapacità dell’intellettuale lombardo e, più in generale, dell’intellettualità democratica a porsi in termini politici, prima e dopo il Quarantotto, il problema dell’inserimento delle masse popolari, soprattutto contadine, nel movimento nazionale italiano e, per questa via, a porsi altresì il problema di costituire un’alternativa politica reale all’egemonia moderata. PASQUALE VOZA V. «città-campagna», «Comuni medievali», «federalismo», «Ferrari», «giacobinismo», «intellettuali», «Machiavelli», «Partito d’Azione», «Risorgimento», «rivoluzione passiva».

cattolici Da un articolo di Mario Barbera nella “Civiltà Cattolica” del ° giugno  trae spunto una pagina particolarmente densa di temi filosofici propri di G. (Q , , -, già in Q , , -), il quale sembra paradossalmente concordare con il gesuita nell’individuare nel carattere monistico del soggettivismo idealistico una condizione gnoseologica non solo nettamente contrapposta all’«“obbiettività” della conoscenza», ma anche distinta, proprio sotto il profilo di tale caratteristica, dal “monismo” del materialismo storico. E lo fa appoggiandosi alla marxiana Prefazione al Per la critica dell’economia politica quale essenziale riferimento alla critica dell’ideologia in rapporto alla consapevolezza del «conflitto tra le forze materiali di produzione» nel terreno, appunto di natura ideologica, delle «forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche» (Q , , ). G. pensa altresì che tale proposizione sia da rielaborare nei confronti di «ogni conoscenza consapevole», senza limitarla al «conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – secondo la lettera del testo» (ibid.): anzi, tale elaborazione deve investire, a suo modo di vedere e assai significativamente, «tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture», andando al di là anche del materialismo che, ai suoi occhi, comportava

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anch’esso, non nello spirito, bensì nella natura, la primigenia, univoca condizione di uno e di un solo principio di determinazione. Il materialismo (storico) che ne conseguiva era «identità dei contrari nell’atto storico concreto» (non del gentiliano atto “puro”), «cioè attività umana (storia-spirito) in concreto, connessa indissolubilmente a una certa “materia” organizzata (storicizzata), alla natura trasformata dall’uomo» (ibid.). Del resto, il pensatore marxista si riferisce ancora al «cattolicismo» nel constatare l’«accordo» di questo «con l’aristotelismo sulla quistione dell’oggettività del reale» (ritenuto peraltro anche atteggiamento proprio del materialismo di Engels), non a caso chiamando in causa – con l’appoggio di un saggio di Bertrand Russell pubblicato in Italia da Sonzogno –, come emblematico esempio pragmatico dell’oggettivismo scientifico, l’uso delle coordinate geografiche (Oriente e Occidente, nel caso specifico), che non cessano di essere “oggettivamente reali” sebbene all’analisi si dimostrino niente altro che «una “costruzione” convenzionale cioè “storico-culturale”»: ragion per cui, nell’indicare punti nello spazio geografico, «sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà» (e «si sono cristallizzati» – Oriente e Occidente – come termini convenzionali, «non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale ma dal punto di vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare dovunque») (Q , , ). In altre pagine della stessa Introduzione alla filosofia, sempre dalla polemistica cattolica anche contemporanea G. rileva che il «termine di materialismo» è usato come «opposto di spiritualismo in senso stretto, cioè di spiritualismo religioso e quindi si comprende in esso tutto lo hegelismo e in generale la filosofia classica tedesca, oltre al sensismo e illuminismo francese. Così, nei termini del senso comune, si chiama materialismo tutto ciò che tende a trovare in questa terra, e non in paradiso, il fine della vita» (Q , , ), collocando così l’argomento all’interno della problematica della «riduzione al materialismo metafisico tradizionale del materialismo storico» (l’in-

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sieme è, come noto, una puntuale discussione critica del Saggio popolare di Bucharin). G. più avanti (Q , , ), evocando ancora «polemisti a buon mercato (specialmente i cattolici)», anche per la filosofia della prassi, alla stregua di ogni altra «filosofia storicistica», sottolinea «una difficoltà» che porta, abusandone, a «dedurre che lo storicismo conduce necessariamente allo scetticismo morale e alla depravazione»: «Se la filosofia della prassi afferma teoricamente che ogni “verità” creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore “provvisorio” (storicità di ogni concezione del mondo e della vita), è molto difficile far comprendere “praticamente” che una tale interpretazione è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l’azione» (ibid.). E conclude assai acutamente: «Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza. Perciò avviene anche che la stessa filosofia della prassi tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando, come nel Saggio popolare, esso è confuso col materialismo volgare, con la metafisica della “materia” che non può non essere eterna e assoluta» (ibid.). Tramite l’aspro e netto confronto teorico col cattolicesimo, incontrato come riferimento critico cruciale per l’elaborazione di una rigorosa, ma anche, come s’è visto, problematica (o addirittura aperta) filosofia della prassi, G. mette a tema elementi basilari del suo punto di vista filosofico, del suo pensiero antimetafisico (rapporto critico con il soggettivismo idealistico, con l’oggettivismo, con il materialismo e con lo stesso materialismo storico). Tuttavia, assai più forse dell’efficacia di questi punti d’attacco di tale pensiero, nei Q vale ed è più diffuso l’insieme delle note che si riferiscono all’analisi storica concreta del modo di essere dei cattolici. G. sembra conoscere bene le articolazioni politico-culturali del corpo ecclesiastico del Novecento e le dinamiche dei suoi conflitti interni. In essi i cattolici «integrali» del-

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l’età di Pio X si contrappongono come «reazionari» alla mediazione tentata dai gesuiti per attenuare l’impatto con la tendenza popolare democratica veicolata dalle strutture politiche e intellettuali dell’Azione cattolica (Q , , -). La costante azione «cospirativa» degli integralisti in Italia, in Francia, in Belgio, fino allo sbocco nell’Action française, è fatta di documenti riservati e perfino di associazioni segrete, di centri pubblici e di canali clandestini, che li vede tatticamente alleati con quanti si collocano ai loro antipodi, i circoli cioè modernisti, mentre i gesuiti (che non restano sempre però compatti) risultano i più omogenei all’orientamento della Chiesa di Pio XI. Ed è questa tuttavia una lotta che, secondo G., per il suo carattere elitario – giacché la forza coesiva della Chiesa era minore di quanto s’immagini –, lascia nell’apparente indifferenza le masse di clero e di fedeli, pur facendo maturare, nei tempi lunghi, significative «trasformazioni molecolari» (Q , , ) e risultati non trascurabili nel processo di modernizzazione del mondo cattolico (Q , , -). D’altra parte, per la battaglia ideologica che si combatte nei primi decenni del secolo sul fronte dei cattolici e all’interno delle loro stesse file, nelle posizioni dell’idealismo di Benedetto Croce si manifesta una visibile contraddizione data dal fatto che il campione del pensiero laico, piuttosto che riconoscere il carattere riformatore del modernismo – da sempre mancato per altri passaggi d’innovazione tentati dalla società italiana –, aiuta i gesuiti nello screditare e isolare questo movimento (Q  I, , - e Q  II, .IV, ). I cattolici, poi, nella concreta azione politica, cioè nel rapporto con lo Stato, sostengono per G. un atteggiamento «intervenzionista» della mano pubblica, salvo, al massimo, rimanere indifferenti e perciò estranei allo spirito liberale ereditato dal Risorgimento (Q , , ). Insomma, il pensiero sociale dei cattolici pare improntato quasi sempre a una forma di opportunismo (Q , , - e Q , , -), mentre, sul piano etico, la dottrina della Chiesa autorizzerebbe perfino l’insurrezione armata (vedasi il caso della rivoluzione belga) qualora da parte

dello Stato venissero a essere toccati, insieme ad altre legittimità, i beni e gli interessi ecclesiastici (Q , , ). La dottrina sociale cattolica prevede quindi la salvaguardia del principio di proprietà (Q , , -) nel nome dell’individualismo (Q , , -) e la difesa della povertà è fatta solo sulla base statica e paternalistica dei valori del paritarismo rosminiano (Q , , ). Infine, a proposito del rapporto del cattolicesimo con gli intellettuali, e più precisamente con i letterati, G. sostiene la difficoltà di affermazione di un’arte cattolica (G. parla addirittura di «meschinità» di essa) al di là dei limiti del brescianesimo, eccezion fatta per Dante, ma non per Manzoni, valutato alla luce del rischio anticlericale che il suo atteggiamento comporterebbe (Q , , -): dal punto di vista di G., nell’età contemporanea sembrano peraltro costituire anch’essi un’eccezione rispetto all’«indifferentismo dello strato intellettuale per la concezione religiosa», i pochi scrittori cattolici della rivista “Frontespizio” (Q , , -). G. riconosce tuttavia un «risveglio di religiosità» in Italia che in gran parte coincide con il dopo-Concordato (Q , , ), in qualche misura preparato dalle aperture del nuovo corso segnato dall’opera di Leone XIII tra Ottocento e Novecento, sia dal lato del positivismo che da quello dell’idealismo (Q , , ). Del resto, nell’ambito della performance novecentesca di quest’ultimo, Croce appare più dello stesso Gentile un «riformatore religioso» (Q  I, , -). Comunque, nell’analizzare l’“individualismo” cattolico G. lo valuta in ultima istanza come insoddisfacente «dal punto di vista “filosofico”» per «il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell’uomo stesso individuo, cioè concepisce l’uomo come individuo ben definito e limitato» (Q  II, , -). E aggiunge: «Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l’uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità». G., nell’ottica alternativa del materialismo storico, precisa altresì: «È su questo punto che occorre riformare il concetto dell’uomo. Cioè occorre concepire

CAUSALITÀ

l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: ) l’individuo; ) gli altri uomini; ) la natura. Ma il ° e il ° elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore di intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte» (ivi, ). Sullo sfondo resta il nodo, forse, dell’identificazione concettuale e di fatto che è alla base del ragionamento gramsciano considerato dal lato della «filosofia» cattolica tra “individualismo” e “personalismo”, concetto, quest’ultimo, che sembra più appropriatamente alla base di tutta la filosofia e teologia cristiana. Del resto, a questo riguardo, per ciò che almeno attiene all’età moderna, gli stessi fenomeni del giansenismo e del modernismo (d’ispirazione più agostiniana che scolastica) meritano talora da parte di G. apprezzamenti che perderebbero gran parte della loro motivazione se privati della focalizzazione di tale caratteristica gnoseologica. BIBLIOGRAFIA: L A ROCCA  e ; PORTELLI . RAFFAELE CAVALLUZZI V. «Action française», «Azione cattolica», «Chiesa cattolica», «cristianesimo», «domenicani», «francescani», «integralisti», «intellettuali», «modernismo», «oggettività», «religione», «semplici».



causalità La nozione di causa suole essere impiegata più ragionevolmente dalla sana opinione comune che non dalle, talvolta sofisticate, teorie scientifiche. Qual è il «pregio di quello che suol chiamarsi “senso comune” o “buon senso”»? In «una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudoprofonde, pseudo-scientifiche ecc.» (Q  II, , ). Le scienze, solitamente, cercano la causalità nella successione temporale (Q , , ); ma le nozioni-chiave delle scienze naturalistiche quali cambiamenti subiscono nelle scienze storiche? «Da queste considerazioni si può trarre argomento per stabilire ciò che significa “regolarità”, “legge”, “automatismo” nei fatti storici. Non si tratta di “scoprire” una legge metafisica di “determinismo”, e neppure di stabilire una legge “generale” di causalità. Si tratta di vedere come nello sviluppo generale si costituiscono delle forze relativamente “permanenti” che operano con una certa regolarità e un certo automatismo» (Q , , -; v. anche Q , , ). Ancora: «Prendo lo spunto dai due concetti, fondamentali per la scienza economica, di “mercato determinato” e di “legge di tendenza” che mi pare siano dovuti al Ricardo e ragiono così: – non è forse da questi due concetti che si è preso motivo per ridurre la concezione “immanentistica” della storia, – espressa con linguaggio idealistico e speculativo dalla filosofia classica tedesca, – in una “immanenza” realistica immediatamente storica, in cui la legge di causalità delle scienze naturali è stata depurata del suo meccanicismo e si è sinteticamente identificata col ragionamento dialettico dell’hegelismo?» (LC -, a Tania,  maggio ). Ancora sull’incompatibilità tra la dialettica e la causazione in quanto legata alla logica formale: «La filosofia del Saggio popolare è puro aristotelismo [positivistico], cioè un riadattamento della logica formalistica secondo i metodi delle scienze naturali: la legge di causalità è sostituita alla dialettica» (Q , , ). Ma il determinismo può talvolta riuscire utile nella spiegazione di alcuni com-

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portamenti devianti? «Così la pena [...] trova il suo fondamento non soltanto nella responsabilità (scuola classica) ma nel fatto puro e semplice che l’individuo può fare il male conoscendolo come tale. La causalità può tenere le veci della responsabilità. Il determinismo di chi delinque equivale al determinismo di chi punisce» (Q , , ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «buon senso», «dialettica», «legge di tendenza», «logica», «mercato determinato», «senso comune».

Cavour, Camillo Benso, conte di I Q ci propongono un duplice profilo del ministro piemontese che, nel cuore dell’Ottocento italiano, ora spinge alla modernizzazione dei rapporti sociali, ora punta alla continuità, pur nel mirato mutamento di forme e modi della politica. In ogni caso, notevole è l’attenzione per Cavour nei Q, al centro di un crocevia di interessi dal significato sia immediatamente politico, sia più mediatamente teorico e sociale. È il caso, innanzitutto, dell’originale combinazione di diplomazia e movimento che il ministro sabaudo rappresenta per G.; essa trova la sua massima espressione in quella sorta di incoraggiamento e, insieme, di controllo, proprio del Piemontese, rispetto al genere di mobilitazione popolare che trova la sua concretezza nell’impresa dei Mille. Ma il discorso è ancora più complesso; con Cavour siamo di fronte a un segno della propensione gramsciana per un Risorgimento del tutto affrancato da cifre storiografiche, e assunto a teatro di una periodizzazione storica intorno al concetto-processo di rivoluzione passiva, adversus quello simmetricamente opposto di protagonismo delle masse. Nei Q emerge il significato moderno di Cavour, come provocatore di una coscienza soggettiva dei ceti urbani, in grado di autopromuoversi al livello della direzione e del dominio. La direzione è data dal controllo del «rapporto “città-campagna”», in quanto asse «delle forze motrici fondamentali della storia italiana» (Q , , ), da parte dei ceti urbani in generale, a svantaggio di quelli rurali. Il dominio è invece dato dalla specificità

storico-politica del Risorgimento, opera di sacrificio del Mezzogiorno (ceti urbani piccolo-borghesi e grandi latifondisti) alle ambizioni del blocco urbano-industriale del Nord. Questa delicata operazione, perfezionata da Crispi, si avvia con Cavour, sotto la cui guida «i moderati avevano organizzato il Nord e il Centro» (ibid.). Dunque l’acume “patriottico” del Piemontese in realtà è il segno di una seconda pagina storica di «rivoluzione passiva», dopo la prima, resa nei Q con lo schema interpretativo di Vincenzo Cuoco. Con Cavour, patria e formazione di una classe sociale dominante sono un medesimo disegno, in cui la retorica del “riscatto” appare a G. decisamente secondaria rispetto al carattere di classe e di diseguaglianza che l’intero processo di unificazione nazionale ha assunto. Siamo ben oltre la critica, pur ricorrente nelle note carcerarie, del Risorgimento in funzione piemontese; siamo alla ricostruzione di un disegno che si spinge sino all’ambizione di allineare l’Italia alla modernità statuale della Francia. Ma Italia e Francia sono politicamente incommensurabili per G., il quale riscontra un freddo cinismo nel lavoro del binomio Cavour-Crispi, accreditando entrambi i ministri di una lucida personalità: decisamente «termidoriano preventivo» il secondo (Q , , ), più programmatico il primo (ibid.), anche se l’esercizio del suo programma rientra sostanzialmente nella medesima tipologia del «termidoriano preventivo». Di questa curiosa definizione, carica di una valenza non rivoluzionaria, e dunque di sconfitta, è lo stesso G. a fornirci il significato, prezioso indizio per classificare l’intero senso di quella originale miscela di apprezzamento e critica che egli nutre verso Cavour. Il «termidoriano preventivo» è «un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze si scatenino» (ibid.). La scelta antigiacobina, e perciò termidoriana, corrisponde dunque a una valutazione che precede e condiziona gli eventi futuri, è azione apparentemente prammatica ma inscritta in un modello politico non rivelato perché intuito solo dal suo medesimo autore. In questo senso Cavour gode di una duplice personalità: sotto il profilo

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dell’azione egli è maestro di «realismo politico» e di «empirismo», di contro ai disegni meramente etici o universalistici di Gioberti o di Mazzini (ibid.). Sotto il profilo del disegno, invece, il Piemontese possiede una lunga veduta, all’altezza della storia e della politica insieme, ma tale veduta non si concede nell’immediatezza dell’azione, come nel caso di Crispi, e la sua verità è tutta nel suo stesso divenire: «Sarà da ricercare attentamente – scrive G. – se nel periodo del Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in cui l’unità della struttura economico-sociale italiana sia stata vista in questo modo concreto [da “termidoriano preventivo”, ndr]: ho l’impressione che stringi, stringi, il solo Cavour ebbe una concezione di tal genere, cioè nel quadro della politica nazionale, pose le classi agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non contadine naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e grandi intellettuali. Sarà bene da studiare perciò il volume speciale dei carteggi cavourriani dedicato alla “Quistione meridionale”» (ivi, -). Va notato che l’intera portata egemonica della direzione di Cavour trova per G. una misura decisamente moderata. Il moderatismo qui si riferisce non soltanto all’indirizzo del “partito politico” nel modello del ministro piemontese, ma anche e soprattutto alla capacità dell’abile diplomatico di misurare i limiti oltre i quali la sua stessa azione sarebbe divenuta oltranzista e giacobina, quasi di un antigiacobinismo a sua volta “furiosamente” giacobino: «Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio», scrive G. per sottolineare la durezza di Crispi in occasione dei «Fasci» siciliani (Q , , ). La considerazione torna in Q , , , laddove l’intero paragrafo è dedicato al ruolo della rivoluzione passiva, con un’intestazione estremamente significativa: Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia (ivi, ). Ma i caratteri moderni del moderatismo cavouriano derivano da altri elementi di rilievo. È il caso del rapporto fra diplomazia e rivoluzione: non si tratta solo della sottile critica relativa alla capacità del ministro torinese di stemperare

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nella manovra delle cancellerie le potenziali spinte rivoluzionarie sempre implicite in un processo complesso come l’unificazione della nazione; qui ritorna la netta cesura fra la modernizzazione del neonato Stato italiano e la consolidata tradizione nazionale francese. Se alla seconda è contributo inseparabile la rivoluzione del , con il suo corredo giacobino, al contrario per l’Italia si può parlare di un modello di Stato senza rivoluzione: «i liberali di Cavour – scrive G. – non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la destra del Solaro [Solaro della Margarita, ndr], ma non qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese» (Q , , ). La formula «diplomatizzare la rivoluzione», che G. impiega più volte, avendola mutuata dal testo del  Confessioni e ricordi di Ferdinando Martini, indica il segno diverso del protagonismo storico, che nel caso italiano viene circoscritto a una politica tanto incisiva quanto non aperta alle classi popolari e ai grandi movimenti. Il problema è proprio nella mancanza, tutta italiana, di un rapporto fra nazione e disegno politico, fra movimenti e istituzioni, come attesta l’amara sintesi gramsciana, secondo cui «Talleyrand non può essere paragonato con Napoleone» (Q , , -). Il problema viene proposto anche attraverso il lessico, in G. molto usuale, della tradizione intellettuale italiana: la categoria del guicciardinismo è ora uno strumento particolarmente adeguato per rappresentare la sottile analisi del fenomeno della diplomatizzazione della rivoluzione. In realtà, qui il tema “Cavour” viene riletto da G. come una pagina intensa della più lunga storia della mentalità italiana, relativa al particolarismo politico, che si riassume nella formula del “guicciardinismo”. Seguendo un’espressione di Edgard Quinet («equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana»: Q  II, .XIV, ), G. ovviamente rinvia a Cuoco, già prima richiamato, poi si diffonde contro lo storicismo crociano. Tralasciando la critica del filosofo neoidealista, qui va notato che fra Cuoco e il crocianesimo G. incontra ancora Cavour, esempio di un modo di intervenire nella storia che limita gli spazi dell’iniziativa politica. Il “precipitato” della

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miscela cavouriana di contenimento e di controllo dei processi innovativi è “rubricato” in G. nel guicciardinismo, modello – dedotto da De Sanctis – di universalizzazione del particolare e della politica degli scopi parziali, di contro all’universalismo rivoluzionario dello spirito giacobino-francese. L’alternativa fra rivoluzione e diplomazia interpreta la modalità cavouriana del guicciadinismo, poiché «il Cavour avrebbe appunto “diplomatizzato” la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini ed egli stesso si avvicinava come tipo al Guicciardini» (ivi, ). L’eterno ritorno di Guicciardini – motivo ormai celeberrimo nella letteratura gramsciana – testimonia dell’impossibilità di ridurre la trasformazione unitaria dello Stato italiano a “conato” impotente nella storia della penisola. Anzi, la metafora dello storico rinascimentale fiorentino è l’indizio della possibilità pratica, già esperita con successo da Cavour, di coniare una tradizione politica della conservazione, accanto alle culture del rinnovamento che, da Machiavelli al presente, attestano l’ambivalenza della storia civile italiana. Si tratta, a ben vedere, di una sottile percezione in G. del potenziale di “universalizzazione” del particolare che con il tramite di Guicciardini apre, a partire proprio da Cavour, alla trasformazione dei progetti politici nel loro contrario (rivoluzione in diplomatizzazione), e dunque al trasformismo politico. È appena il caso di notare, grazie alle molteplici suggestioni promosse da un Cavour liberato dalla sua statura più immediatamente storico-unitaria, che nell’efficace formulazione di un “modello umano” di tipo guicciardiniano G. cerca di configurare una lunga, anzi lunghissima nozione di egemonia, da verificare già nel modello liberale-cavouriano dell’unità nazionale. Il profilo di un leader – diremmo noi posteri – ben si attaglia all’uomo-Cavour, erede più aggiornato, anche se non certo ultimo, dell’uomo-Guicciardini e della sua capacità di essere non solo forza di contenimento, ma anche forza di dominio e di controllo di qualsiasi giacobinismo di ogni tempo. Ecco la silenziosa accumulazione di pratica e di prudenza di un laboratorio liberale – quello italiano – che G. analizza nei suoi momenti più carichi di significato e che

non riduce tanto a una forma mimetizzata di ragione di Stato “al di sopra” dei popoli, quanto a una forma di “ragione politica” controllata dai governi, una specie di simbiosi fra modernità e dominio, in cui il secondo termine pone decisamente in ombra il primo. Accanto a questa modernità conservatrice, Cavour propone altri motivi di innovazione, nel giudizio di G. segno dell’avvio anche di più equilibrate tradizioni politiche civili, che poi il fascismo ha rimosso. Il principio dello Stato laico fa parte di tale patrimonio, adottato da Cavour con la legge del maggio , secondo la quale – G. riprende da un lavoro di Arturo Carlo Jemolo – «lo Stato non deve sussidiare alcun culto» (Q , , ). Nel  fu invece introdotto il sostegno statale per il clero e per il culto, primo passo verso la pratica dei concordati, nei Q considerata un passo indietro per la coscienza laica e una «capitolazione dello Stato moderno» (ivi, ). Il rimpianto, quasi, della coerenza cavouriana nella scelta laica, peraltro ripreso più di una volta nelle note carcerarie, è il segno di una tormentata rivisitazione della tradizione liberale. Fulcro di una sfida intellettuale e politica per la trasformazione dello Stato italiano, la tradizione liberale è tuttavia oggetto di attrazioni e repulsioni così continue nelle note carcerarie, da connotarle come laboratorio di una disorganicità sorprendentemente produttiva e feconda. Cavour è il crocevia di questa tradizione liberale, per la statura politica che lo contraddistingue, per la sua già ricordata propensione alla pratica, pur “armata” da un’intelligenza di governo fortemente progettuale, e inoltre è anche il campione di una partita giocata fra “uomini” e “cose” del Risorgimento, che G. non esita a raccogliere in due grandi correlazioni, in due collegamenti fra i più sintomatici della sua inquieta scrittura: il nesso tra rivoluzione passiva e guerra di posizione e quello, parallelo, tra forza «regolare» e forza «“carismatica”», che divide cioè, lo schieramento «intorno a Cavour e Garibaldi» (Q , , ). Questa seconda contraddizione corrisponde a una delle possibili forme del rapporto di reciproca esclusione fra rivoluzione passiva e guerra di movimento. L’argomento è fra i

CENTO CITTÀ

più ampi e generali della prosa gramsciana; ma qui interessa perché, già all’altezza della nascente Italia liberale, trova nel ruolo di Cavour l’esito di un primo confronto, duro, anche se non tragico, grazie alle caratteristiche non giacobine di un liberalismo nazionale molto pratico e assai meno informato a principi e culture ideologiche. In ultima analisi, la già rilevata scansione cavouriana del guicciardinismo incorpora la possibilità storicamente data di un liberalismo poco strutturato in quanto cultura civile e invece molto attrezzato nella sua capacità di revoca di qualsiasi forza “di movimento”. Dunque non siamo, con Cavour, di fronte a un liberalismo colto e tollerante, ma piuttosto di fronte a un aggiornamento della passivizzazione delle masse, pur in presenza di una relativa autonomia delle passioni e della forza di organizzazione delle componenti popolari. La natura decisamente politica del ragionamento gramsciano, nel quale Cavour occupa lo spazio di una solida conferma interpretativa, è ulteriormente attestata dalla rubricazione del paragrafo Q ,  nel “grande” segno di Machiavelli; qui si delinea l’intero quadrilatero teorico costituito dal paradigma della guerra di posizione, vincente su quello della guerra di movimento, e dalla sua evidente esemplificazione storica in Cavour, il quale prevale su Garibaldi. Che il Piemontese risponda a una logica politica più completa e più incisiva di quella dell’universalismo repubblicano di Mazzini o cattolico di Gioberti è acquisizione frequente nelle note gramsciane; che poi il senso più profondo dell’accezione italiana del liberalismo consista nella configurazione di uno “spazio di manovra”, delle classi popolari, certo, ma non in una loro dignità di governo, è affermazione chiara in G.: si consideri, a riguardo, proprio la forza «carismatica» riconosciuta a Garibaldi e al suo paradigma di azionismo, della quale il vero beneficiario risulta poi lo stesso Cavour. Dopo il , infatti, cioè dopo il massimo di “guerra di movimento” sul piano continentale, la combinazione fra “regolari” (piemontesi) e “carismatici” (camicie rosse garibaldine) «diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour» (ibid.).



Non mancano, infine, lucidissimi riferimenti alla teoria e allo studio del partito politico moderno, contraddistinti da una lettura parallela degli scritti di Michels, estremamente utile per verificare ancora l’originalità e la modernità di Cavour, rispetto al modello del partito «di volontari» riscontrato nello schema mazziniano e garibaldino. In Q , , -, il carattere «organico» e omogeneo del partito della destra storica del ministro piemontese illumina ancora la sua modernità e consente a G. una dura allusione al rigetto delle posizioni di Bordiga a proposito del Partito comunista d’Italia, debole perché privo di organicità. BIBLIOGRAFIA: BUCI-GLUCKSMANN ; GALASSO ; MANGONI ; VOZA . SILVIO SUPPA V. «Bordiga», «città-campagna», «Concordato», «Crispi», «direzione», «dominio», «giacobinismo», «Garibaldi», «Gioberti», «guerra di movimento», «guerra di posizione», «liberali, liberalismo», «Mazzini», «Mezzogiorno», «Michels», «moderati», «partito», «Piemonte», «Risorgimento», «rivoluzione passiva».

cento città Il tema delle «cento città» si lega nei Q a quanto G. scrive sul rapporto tra città e campagna: in Italia l’urbanesimo non è «solo» e nemmeno «specialmente» un fenomeno industriale. Le «“cento” città» italiane non sono industriali né «“tipicamente” industriali» (Q , , ): anche le più grandi (Napoli, Roma) sono per la maggior parte città a carattere rurale e non industriale, non solo nel Centro-Sud (Palermo, Bari) ma persino nel Nord (Bologna, in parte, Parma, Ferrara ecc.). G. si domanda se esistano elementi per distinguere con criteri oggettivi le «città» dai «centri industriali»; i due concetti in Italia infatti non coincidono: «l’industria tessile presenta zone industriali senza grandi città, come biellese, comasco, vicentino, ecc.» (Q , , , Testo B). Le città italiane sono spesso costituite da agglomerati abitati dalla borghesia rurale e borgate contadine abitate da braccianti senza terra. In questo tipo di città il gruppo sociale che esercita la direzione politica e intellettuale sulle grandi masse non sono gli intellettua-

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CENTRALISMO

li “di tipo urbano” (i “tecnici” o i sindacalisti di fabbrica), ma quelli legati ai grandi proprietari terrieri, che «a loro volta, direttamente e indirettamente [...] sono diretti dalla grande borghesia, specialmente finanziaria» (ibid.). Questa composizione sociale tipica delle città italiane spiega la cronica mancanza di iniziativa politica della borghesia italiana e la difficoltà delle classi operaie delle industrie del Nord a essere egemoni in tutto il paese. Il problema, di portata storica, è alla base di tutte le «rivoluzioni mancate» in Italia e trova nella formula delle cento città una sintesi sotto l’aspetto socio-economico. G. si propone di riflettere in termini storici su quanto abbia ostacolato la formazione in Italia di centri urbani (industriali) veri e propri, capaci di esercitare la loro egemonia sulla campagna. Alla base del mancato decollo verso la modernità c’è, a parere di G., l’impossibilità di accumulazione dei capitali delle rendite agricole, inghiottiti dai ceti parassitari, nonostante il basso tenore di vita delle grandi masse contadine. Inoltre il protezionismo garantisce gli interessi del latifondo e della grande industria del Nord-Ovest ma impedisce lo sviluppo della piccola azienda, diffusa capillarmente sul territorio nazionale. Così si spiega lo stento in cui vivono certe industrie esportatrici italiane con ottime potenzialità di sviluppo, come quella della seta, che potrebbe entrare in vittoriosa concorrenza con la Francia, alla quale l’Italia cede la materia prima (i bozzoli). G. propone un’analisi delle industrie d’esportazione che potrebbero nascere e svilupparsi senza il sistema doganale protezionistico imposto (lo zucchero, il grano ecc.). La mancanza di materie prime non rappresenta l’ostacolo maggiore né quello determinante alla modernizzazione italiana. Eppure tale mancanza è sempre stata l’argomento più abusato per sostenere la politica militarista e nazionalista (non «imperialista», perché l’imperialismo non propagandistico presuppone un’effettiva dislocazione di risorse e investimenti). In verità ci si è ben guardati dal chiedersi, sostiene G., se le materie prime esistenti in Italia siano ben sfruttate; il che dimostra quanto la politica economica italiana sia parassitaria e volta a difendere gli interessi di pochi (Q , , -, Testo B).

Il numero rilevante di grandi e medi agglomerati urbani senza industria è uno degli indizi, forse il più importante, dello sfruttamento parassitario delle campagne. Tuttavia anche in queste città esistono nuclei di popolazione tipicamente urbana ma la loro posizione è quella di essere premuti, schiacciati dal resto della popolazione, che è rurale e costituisce la grandissima maggioranza. Questa impossibilità degli intellettuali urbani di esprimersi e di lottare efficacemente per l’egemonia spiega il perché G. definisca le cento città italiane come le città del «silenzio» (Q , , ). ELISABETTA GALLO V. «borghesia comunale», «borghesia rurale», «città-campagna», «intellettuali», «Mezzogiorno», «Nord-Sud», «quistione meridionale».

centralismo Con il termine «centralismo» si indica la norma fondamentale che ha regolato la vita interna dei partiti comunisti, vale a dire l’impossibilità del sorgere nel proprio seno di frazioni organizzate e la necessità della più severa disciplina in virtù della quale, come scrive G., «ogni membro del partito, qualsiasi posizione o carica occupi, è sempre un membro del partito ed è subordinato alla sua direzione» (Q , , ). Questa regola è da G. accettata e difesa non solo nei Q – «nei partiti la necessità è già diventata libertà, e da ciò nasce il grandissimo valore politico (cioè di direzione politica) della disciplina interna di un partito» (Q , , ) –, ma fin dagli scritti giovanili: già nel Voci d’oltretomba del  aprile , riferendosi all’espulsione dal PSI di Guido Podrecca in seguito al suo appoggio alla guerra libica, G. giustifica la decisione in quanto l’estromesso «non aveva più diritto di appartenere alla famiglia del proletariato italiano» (CT ), aggiungendo che «si deve essere implacabili contro gli spropositanti [...] quando si vuole ottenere uno scopo e si vuole far trionfare una verità» (ivi, ). Il principio del centralismo tuttavia è passibile di una duplice interpretazione, che G. connota con gli aggettivi «democratico» e «burocratico»: «quando il partito è progressivo esso funziona “democraticamente” (nel

CENTRALISMO

senso di un centralismo democratico), quando [...] è regressivo esso funziona “burocraticamente” (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso è allora tecnicamente un organo di polizia» (Q , , ), laddove con «polizia» non si riferisce a «quella tale organizzazione ufficiale, giuridicamente riconosciuta e abilitata alla funzione pubblica della pubblica sicurezza che di solito si intende. Questo organismo è il nucleo centrale e formalmente responsabile, della “polizia”, che è una ben più vasta organizzazione, alla quale, direttamente o indirettamente, con legami più o meno precisi e determinati, permanenti o occasionali, ecc., partecipa una gran parte della popolazione di uno Stato» (Q , , ). La condanna di quest’ultima concezione della disciplina interna si estende nei Q al “centralismo-burocrazia” dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, ammantato di marxismo ortodosso e scientifico (Q , , ), al «centralismo dell’alta burocrazia» dei gruppi governanti nell’Europa continentale, contrapposto al self-government dei paesi anglosassoni (Q , , ), e perfino al «centralismo gerarchico vaticanesco» (Q , , ) e al «centralismo nazionale e burocratico» del regime fascista (Q , , ), ma si concentra in particolare sulla direzione bordighiana del PCD’I, cui G. attribuisce un’interpretazione formalistica e sostanzialmente deviante delle dottrine leniniane, e implicitamente sulla leadership staliniana del PCB e del Comintern, con cui G. aveva già avuto modo di polemizzare nella celebre lettera del . Per parte sua Bordiga, che fin dal  aveva teorizzato la necessità di un rapporto “organico” tra partito e classe e quindi concepiva il primo come “organismo” della seconda, era solito impiegare anche l’espressione “centralismo organico” per denotare la sua visione del partito e anzi, al Congresso di Lione (), aveva sostenuto l’opportunità di sostituirla del tutto alla tradizionale formula del “centralismo democratico”, a indicare la necessità di una direzione ristretta e meno collegiale. È contro di essa che G. polemizza per la prima volta in Q , , : «il “centralismo organico” ha come principio la



“cooptazione” intorno a un “possessore della verità”, a un “illuminato della ragione” che ha trovato le leggi “naturali” ecc. (Le leggi della meccanica e della matematica funzionano da motore intellettuale; la metafora sta invece del pensiero storico). Collegato col maurrasismo». A Il giacobinismo a rovescio di Carlo Maurras era dedicata la nota precedente, in cui al fondatore dell’Action française veniva attribuita una concezione della storia tanto minuziosa quanto astratta e utopica, nonché atteggiamenti di tipo «settario e massonico» (a partire proprio dal meccanismo della cooptazione del gruppo dirigente): «la politica irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la società è condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione al momento risolutivo» (Q , , -). Sono dunque queste, a parere di G., le caratteristiche fondamentali da attribuire alla concezione bordighiana del centralismo organico. Infatti, come esplicitamente affermato poche pagine dopo, «nella concezione di Maurras ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche formali di certo sindacalismo o economismo [...] Ogni astensionismo politico si basa su questa concezione (astensionismo politico in generale, non solo parlamentare). Meccanicamente avverrà il crollo dell’avversario se, con metodo intransigente, lo si boicotterà nel campo governativo (sciopero economico, sciopero o inattività politica)» (Q , , ). Anche se qui G. sostiene che «l’esempio classico italiano è quello dei clericali dopo il » (ibid.), in ossequio al non expedit papale, è molto forte l’analogia con certe tesi di Bordiga, o almeno con l’immagine che ne viene fornita nel seguito dei Q, in cui viene accusato di crasso materialismo (Q , , ), «estremismo “economista”» (Q , , ), «“giacobinismo” deteriore» (Q  I, , ), mentre le bordighiane Tesi di Roma vengono definite «un esempio tipico di bizantinismo» (Q , , ), cui «si può avvicinare la forma mentale di don Ferrante» (Q , , ). Un’altra analogia è suggerita in Q , ,  dalla strategia adottata dal comando inglese nella battaglia dello Jutland: esso infatti «aveva centralizzato “organicamente” il piano nella nave ammiraglia: le altre unità



CENTRALISMO

dovevano “attendere ordini” volta per volta», con risultati inferiori alle aspettative, «perché a un certo punto, l’ammiraglio perdette le comunicazioni con le unità combattenti e queste commisero errori su errori». Il legame intercorrente fra i quattro appunti del Q  finora citati è confermato dalla loro ripresa, insieme ad altri testi, in due note contigue di Q ,  e . In Q ,  la questione del centralismo organico è ulteriormente approfondita: ora il paragone è con «un tipo di direzione castale e sacerdotale», che concepisce «l’“ideologia” [...] come qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente» e non, «storicamente, come una lotta incessante». Infatti, «il centralismo organico immagina di poter fabbricare un organismo una volta per sempre, già perfetto obbiettivamente. Illusione che può essere disastrosa, perché fa affogare un movimento in un pantano di dispute personali accademiche» (ivi, ). In Q , ,  – «se l’intellettuale non comprende e non sente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramente burocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo organico)» – e Q , ,  – «il centralismo organico, col comando caporalesco e “astrattamente” concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.» – si sancisce l’identificazione tra «centralismo organico» e «centralismo burocratico» e la loro contrapposizione al «centralismo democratico». Una svolta si verifica in Q , , -, intitolato Machiavelli. Centralismo organico e centralismo democratico. Qui, dopo una serie di osservazioni sui «reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle manifestazioni di centralismo organico e di centralismo democratico in una serie di campi: nella vita statale (unitarismo, federalismo ecc.), nella vita interstatale (alleanze, forme varie di costellazioni politiche internazionali), nella vita dei partiti politici e delle associazioni sindacali economiche (in uno stesso paese, tra paesi diversi ecc.)», ancora fondate sulla contrapposizione tra le due concezioni, G. arriva finalmente al cuore del problema: dapprima propone una di-

stinzione all’interno delle «teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma politico di predominio reale di una parte sul tutto (sia questa parte costituita da uno strato come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale privilegiato) e quelle che sono una pura posizione unilaterale (anch’essa propria d’intellettuali), cioè un fatto settario o di fanatismo, immediatamente, e che, pur nascondendo un programma di predominio, è però meno accentuato come fatto politico cosciente». Poi afferma che in realtà, per queste ultime, «il nome più esatto è quello di centralismo burocratico: l’organicità non può essere che del centralismo democratico, il quale appunto è un “centralismo in movimento” per così dire, cioè una continua adeguazione dell’organizzazione al movimento storico reale ed è organico appunto perché tiene conto [...] di qualcosa di relativamente stabile e permanente o per lo meno che si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. [...] Nei partiti rappresentanti gruppi socialmente subalterni l’elemento di stabilità rappresenta la necessità organica di assicurare l’egemonia non a gruppi privilegiati: ma alle forze sociali progressive [...] In ogni caso ciò che importa notare è che nelle manifestazioni di centralismo burocratico spesso la situazione si è formata per deficienza d’iniziativa, cioè per la primitività politica», mentre «il centralismo democratico è una formula elastica, che si presta a molte “incarnazioni”; essa vive in quanto è interpretata continuamente e continuamente adattata alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e distinto e opposto nell’apparente uniformità, e nell’organizzare e connettere strettamente ciò che è simile [...] Essa richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra strati intellettuali e massa, tra governanti e governati», mentre «nella concezione “burocratica” [...] non esiste unità ma palude stagnante superficialmente calma e “muta”, e non federazione ma sacco di patate, cioè giustapposizione meccanica di “unità” singole senza rapporto tra loro». D’ora in avanti, pur restando fermi i capisaldi della concezione gramsciana del partito e della sua organizzazione, questa non si espri-

CENTRALISMO

merà più nell’opposizione «centralismo democratico» vs. «centralismo burocratico» 5 «centralismo organico», bensì in quella «centralismo democratico» 5 «centralismo organico» vs. «centralismo burocratico». Tale svolta terminologica è certo da mettere in relazione con l’uso frequente e generalmente con accezione positiva nei Q del termine “organico” e simili, rispetto al quale la formula bordighiana appare in qualche modo in controtendenza. Così, fin da Q , ,  la «burocraticità» dei rapporti tra dirigenti e diretti attribuita al centralismo organico è contrapposta alla necessità di un’«adesione organica [corsivo mio]» fra gli stessi; in Q , ,  si pone l’accento sulla necessità per la volontà di «centralizzarsi organizzativamente [corsivo mio] e politicamente». Più avanti, in Q , , -, discorrendo di «“dilettantismo e disciplina”, dal punto di vista del centro organizzativo [corsivo mio] di un raggruppamento», G. sostiene la necessità «di assimilare alla frazione più avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento: è un problema di educazione delle masse, della loro “conformazione” secondo le esigenze del fine da raggiungere», precisando che «la continuità “giuridica” del centro organizzativo non deve essere di tipo bizantino-napoleonico, cioè secondo un codice concepito come perpetuo, ma romano-anglosassone, cioè la cui caratteristica essenziale consiste nel metodo, realistico, sempre aderente alla concreta vita in perpetuo sviluppo», in una parola, come da G. stesso esplicitato subito dopo, di tipo «organico» (corsivo mio). E ancora in Q , , : «se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine “carismatica”, deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità», il che si verifica solo quando «il capo non considera le masse umane come uno strumento servile [...] per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici [corsivo mio] di cui queste masse sono il necessario protagonista storico». In Q , , : «i tentativi di movimenti culturali “verso il popolo” – Uni-

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versità popolari e simili – hanno sempre degenerato in forme paternalistiche: d’altronde mancava in essi ogni organicità sia di pensiero filosofico, sia di centralizzazione organizzativa» (corsivo mio). Quest’ultima ha invece costituito da sempre «la forza delle religioni e specialmente del cattolicismo», perché «esse sentono energicamente la necessità dell’unità di tutta la massa religiosa e lottano per non staccare mai gli strati superiori dagli strati inferiori». La validità del modello gerarchico cattolico è ribadita in Q , , , in cui si riconosce al papato l’efficienza della «sua organizzazione pratica di centralizzazione dell’organismo [corsivo mio] ecclesiastico». La svolta terminologica gramsciana si riflette variamente nel prosieguo dei Q: le seconde stesure dei passi citati in precedenza, in cui con l’espressione “centralismo organico” ci si riferiva alla formula bordighiana, vale a dire Q , , che riprende Q , , e Q , , costituito dall’unione di Q ,  e , non presentano, come spesso avviene nei Testi C relativamente tardi, sostanziali varianti rispetto alle scritture originali, fatta salva l’aggiunta dell’espressione «cosidetto» alla formula «centralismo organico» nell’accezione sinonima di «burocratico», che si ritrova anche nella prima parte di Q ,  che riprende Q , . Analogo uso compare in Q , , -, nel quale viene rifiutata, come manifestazione di «feticismo», «ogni forma del così detto [corsivo mio] “centralismo organico”, il quale si fonda sul presupposto [...] che il rapporto tra governanti e governati sia dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto “devono” averne il consenso, cioè deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti». Nel Testo B di Q , , -, intitolato Passato e presente. Centralismo organico e centralismo democratico. Disciplina, si legge invece che quest’ultima, intesa «non certo come passivo e supino accoglimento di ordini, come meccanica esecuzione di una consegna (ciò che però sarà pure necessario in determinate occasioni, come per esempio nel mezzo di un’azione già decisa e iniziata) ma come una consapevole e lucida assimilazione

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CENTRALISMO BUROCRATICO

della direttiva da realizzare, [...] non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile», almeno nel caso in cui l’«“origine del potere che ordina la disciplina” [...] è “democratica”, se cioè l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un “arbitrio” o una imposizione estrinseca o esteriore», in modo che la disciplina stessa giunga a costituire «un elemento necessario di ordine democratico, di libertà»: l’identificazione tra centralismo organico e democratico appare a quest’altezza talmente scontata da non essere più neppure oggetto di discussione. B IBLIOGRAFIA : D ONZELLI ; F ERRI ; GRUPPI ; PAGGI . GIUSEPPE COSPITO V. «Action française», «Bordiga», «dirigenti-diretti», «egemonia», «organico», «Partito comunista», «polizia», «rappresentati-rappresentanti».

centralismo burocratico: v. centralismo. centralismo democratico: v. centralismo. centralismo organico: v. centralismo. certo G. critica un’«errata interpretazione del principio vichiano del “certo” e del “vero”: la storia non può essere che “certezza” o almeno ricerca di “certezza”. La conversione del “certo” nel “vero” dà luogo a una costruzione filosofica [della storia eterna], ma non alla costruzione della storia “effettuale”: ma la storia non può che essere “effettuale”: la sua “certezza” deve essere prima di tutto “certezza” dei documenti storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei documenti storici)» (Q , , ). La sociologia, per contro, è riduzionistica anche nel concepire il certo storico: è «un tentativo di ricavare “sperimentalmente” le leggi di evoluzione della società umana in modo da “prevedere” l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia (Q , , ). Gentile «dice: “La filosofia si potrebbe definire come un [...] conquistare la certezza critica delle verità del senso comune e della

coscienza ingenua; di quelle verità che ogni uomo si può dire che senta naturalmente e che costituiscono la struttura solida della mentalità di cui egli si serve per vivere”. Mi pare un altro esempio della rozzezza incondita del pensiero gentiliano, derivato “ingenuamente” da alcune affermazioni del Croce sul modo di pensare del popolo come riprova di determinate proposizioni filosofiche» (Q , , ). A conferma di quella “ingenuità” va considerato invece, per G., il distacco tra il soggettivismo idealistico e la credenza, propria del senso comune in quanto derivato dalla religione, che esista una realtà oggettiva avulsa dall’agire storico (Q , , ). Nella scuola il certo, in quanto “serio”, vale di più: se «il nesso istruzione-educazione viene sciolto per risolvere la questione dell’insegnamento secondo schemi cartacei in cui l’educatività è esaltata, [...] si avrà una scuola retorica, senza serietà, perché mancherà la corposità materiale del certo, e il vero sarà vero di parole, appunto retorica» (Q , , ). In una lettera al figlio Delio, il certo è contrapposto al possibile e al verosimile: «puoi scrivere su Pu&kin [...] in modo da darmi una prova conclusiva della tua capacità a pensare, a ragionare e a criticare (cioè a discernere il vero dal falso, il certo dal possibile e dal verosimile)» (LC , novembre ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «Croce», «Gentile», «religione», «scuola», «senso comune», «vero».

Cesare, Caio Giulio In certi momenti storici può succedere che manchino uomini politici di valore, mentre i capi militari dimostrano notevoli capacità politiche: Cesare, al pari di Napoleone Bonaparte, non fu e non fu visto dai suoi soldati solo come un grande capo militare, ma soprattutto come «il loro capo politico, il capo della democrazia» (Q , , ), come dimostra d’altronde la «sapiente combinazione di politica e arte militare» (Q , , ) dei Commentarii, soprattutto del De bello civili. La figura di Cesare, come quella dello stesso Napoleone, rappresenta per G. un esempio di cesarismo progressivo, in cui cioè l’intervento «“arbitrale”» di una grande per-

CESARISMO

sonalità, in una situazione in cui le forze in lotta «si equilibrano in modo catastrofico» (Q , , ), porta al trionfo della forza progressiva. Sia nel caso di Cesare che in quello di Napoleone, però, le forze in campo, pur essendo «distinte e contrastanti», non lo erano così tanto da non poter giungere «“assolutamente” ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare» (Q , , -), cosa che in qualche misura si verificò. Il cesarismo ha rappresentato, secondo G., «la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo» (ivi, ): con Cesare, che sciolse il «nodo storico-politico» con la spada (Q , , ), iniziò infatti un’epoca nuova, in cui, dopo la conquista della Gallia, l’Occidente intraprese a lottare con l’Oriente, che assumerà da quel momento in poi «un peso talmente grande» che finirà per soverchiare la controparte e determinare una frattura nell’Impero (ibid.). Inoltre Cesare è espressione di uno «sviluppo storico» che, se in Italia assunse i caratteri del «cesarismo», ha come sfondo tuttavia «l’intero territorio imperiale». Tale sviluppo è consistito infatti in una «“snazionalizzazione” dell’Italia» (Q , , ) e nella sua «subordinazione agli interessi dell’Impero» (ibid.), fenomeni che rendono l’azione di Cesare l’ideale prosecuzione, ma anche la conclusione del movimento democratico dei Gracchi, di Mario e di Catilina. Se la «rivoluzione» di quest’ultimo avrebbe potuto forse preservare per l’Italia «la funzione egemonica del periodo repubblicano», la rivoluzione di Cesare esce dai confini della lotta tra le «classi italiche» per comprendere tutto l’impero, o comunque le «classi con funzioni principalmente imperiali (militari, burocrati, banchieri, appaltatori ecc.)» (ibid.). Secondo G., Roma con Cesare subì sì una trasformazione, ma non passò da «Stato-città» a «Capitale dell’Impero», come aveva affermato Emilio Bodrero in un articolo del  sulla “Nuova Antologia”, essendo all’epoca la capitale equivalente semplicemente alla residenza dell’imperatore, ma divenne capitale in senso burocratico e «una città cosmopolita» (ibid.), mentre a sua volta l’Italia diventava il centro della cosmopoli dell’Impero e assumeva pertanto funzione cosmopolita. Fu



allora che secondo G. fiorì anche la letteratura latina, che pertanto non può dirsi «espressione essenzialmente nazionale» (Q , , ), come voleva Augusto Rostagni sulle pagine dell’“Italia Letteraria”. Cesare e poi Augusto modificarono radicalmente la posizione di Roma e dell’Italia «nell’equilibrio del mondo classico» (Q , , ) e trasferirono «la funzione egemonica a una classe “imperiale” cioè supernazionale», con conseguenze sulle «tendenze ideologiche della futura nazione italiana» (ibid.). Come ricorda G. citando Svetonio, Cesare diede infatti la cittadinanza romana non solo ai medici, ma anche ai maestri delle altre arti liberali, affinché vivessero più volentieri a Roma e vi fossero attirati «i migliori intellettuali di tutto l’Impero romano» (Q , , ). Una presenza permanente a Roma degli intellettuali, i quali cambiarono la propria condizione sociale nel passaggio dal «regime aristocratico-corporativo» della Repubblica a quello «democratico-burocratico» dell’Impero (ibid.), era infatti indispensabile per l’organizzazione culturale; si cominciò così a formare la «categoria di intellettuali “imperiali”», che «continuerà nel clero cattolico» (ibid.) e influirà sul cosmopolitismo degli intellettuali italiani. Il mito della figura di Cesare, che G. definisce come «attuale», non avrebbe infine per il pensatore sardo alcuna base storica concreta: il caso è in tal senso assimilato all’esaltazione della repubblica romana come «istituzione democratica e popolare» che avvenne nel Settecento (Q , , -). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «bonapartismo», «cesarismo», «intellettuali», «Roma».

cesarismo Categoria diffusa e dibattuta nella politologia del tempo, nei Q essa è presente spesso in coppia con «bonapartismo» (Q , , -), termine più tradizionalmente marxista, a indicare in primo luogo l’«influenza dell’elemento militare» quando è anche «influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare [...] trae specialmente origine» (ibid.; quasi invariato il Testo

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CESARISMO

C: Q , , ). A differenza di «bonapartismo», sempre inteso negativamente, G. sembra dare di «cesarismo» uno spettro interpretativo più vario, anche se la differenza tra i due termini non è mai esplicitata. Il lemma viene approfondito in due note del Q ,  e  – poi fuse nel Testo C (Q , ) –, intitolate entrambe Il cesarismo (titolo posto dopo il titolo generale di rubrica Machiavelli). Si può dire che «il cesarismo o bonapartismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca» (Q , , ); ma il cesarismo, «se esprime sempre la soluzione “arbitrale”, affidata a una grande personalità», tra due forze equivalenti ormai infiacchite dalla lotta reciproca, «non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e un cesarismo regressivo» (ibid.). È progressivo il cesarismo «quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente» (ibid.). Cesare e Napoleone sono per G. esempi di cesarismo progressivo, Napoleone III e Bismarck di cesarismo regressivo. Nel «mondo moderno», precisa G., «con le sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è diverso da quello che fu fino a Napoleone III». Nell’epoca caratterizzata dal parlamentarismo, il compromesso tipico del cesarismo è possibile a livello parlamentare, a partire dai governi di coalizione: «Si può avere “soluzione cesarista” anche senza un cesare, senza una grande personalità “eroica” e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato il meccanismo per tali soluzioni di compromesso» (ivi, ). E il cesarismo più che militare è poliziesco, intendendo la «polizia in senso largo», nel senso «non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma

dell’insieme di forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio [politico ed economico] della classe dirigente» (ibid.). G. aggiunge che «la fase catastrofica può annodarsi per deficienza politica [momentanea] della forza dominante tradizionale, e non già per una sua deficienza organica insuperabile necessariamente» (Q , , ): può essere cioè causata, ad esempio, non da un effettivo equilibrio delle forze fondamentali, ma dal fatto che la forza tradizionalmente dominante è divisa in fazioni e dunque lascia spazio a quella antagonista, anche se quest’ultima non è ancora realmente matura per candidarsi seriamente al potere. L’elemento cesaristico interviene allora (fu per G. il caso di Napoleone III) per salvaguardare lo sviluppo storico secondo le direttrici di fondo dell’effettivo sviluppo delle forze fondamentali in campo. Per questo, anche il cesarismo di Napoleone III può essere considerato «obbiettivamente progressivo, sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I» (ibid.). È importante notare non solo che G. si allontana dal giudizio espresso da Marx nel suo celebre Il  brumaio di Luigi Bonaparte, ma che queste osservazioni modificano il modello fondato sulla secca dicotomia «bonapartismo progressivo»/«bonapartismo regressivo». Qui si ha un bonapartismo «obbiettivamente» (relativamente) progressivo, che non sposta in avanti gli equilibri complessivi della società dando vita a un nuovo tipo di Stato, ma garantisce solo il congelamento degli equilibri essenziali già raggiunti: «Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per così dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante quantitativamente e tali, da rappresentare un completo rivolgimento qualitativo. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo; non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro tipo, ma solo “evoluzione” dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta» (ibid.). Altra caratteristica del cesarismo nel mondo moderno consiste nel fatto che «l’equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze contrastanti che in ultima analisi po-

CHIERICI



chierici

trebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e si approfondisce anzi specialmente coll’avvento di forme cesaree» (ibid.): la lotta tra borghesia e proletariato pare all’autore tale da non contemplare la possibilità di un compromesso duraturo. Un’altra nota nel cui titolo compare la categoria di cesarismo è un Testo B, Q , , intitolato Machiavelli. Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico-sociali. G. complica il quadro di comprensione dei fenomeni cesaristici notando come sarebbe errato credere che «tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all’equilibrio delle forze “fondamentali”; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all’influenza egemonica. Così non si comprenderebbe il colpo di Stato del  dicembre senza studiare la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi» (Q , , -). Anche «l’affare Dreyfus» rientra nella casistica storica del cesarismo, come esempio di cesarismo mancato, di movimento che ha impedito lo sbocco cesaristico che si stava preparando: «sono elementi dello stesso blocco sociale dominante che sventano il cesarismo della parte più reazionaria del blocco stesso», appoggiandosi a frazioni e ceti delle classi subalterne (ibid.). Infine, Cesare e il cesarismo è il titolo di Q , , ma la “rubrica” in cui rientra non è più Machiavelli, bensì Argomenti di cultura: «La teoria del cesarismo, che oggi predomina [...] è stata immessa nel linguaggio politico da Napoleone III, il quale non fu certo un grande storico o filosofo o teorico della politica. È certo che nella storia romana la figura di Cesare non è caratterizzata solo o principalmente dal “cesarismo” in questo senso stretto» (ivi, ). G. prosegue la nota con una sua valutazione della funzione e del ruolo di Giulio Cesare.

Il sostantivo ricorre in modo coerente nella stesura disorganica dei Q, assecondando l’urgenza di definire senza equivoci, e muovendo da un’analisi etimologica, lo statuto dell’intellettuale contemporaneo. Se la riflessione gramsciana non può dirsi avulsa dal contesto che alimenta la scrittura di La trahison des clercs, documento di un’epoca che promuove l’identificazione divenuta canonica fra il chierico e l’intellettuale, nei Q aleggia il riscontro di un limite sostanziale nell’opera di Benda, consistente nella mancata risoluzione della contraddizione insorta nella vicenda storica contemporanea della borghesia europea. Ispirata da un milieu culturale ricettivo circa la questione della funzione degli intellettuali, la problematizzazione del concetto di chierico si sposa a temi politici e categorie storiche di stringente attualità come quelle di particolarismo, universalismo e nazionalismo. Insistendo sull’importanza di Benda, confrontato con Croce, nella consapevolezza che «nel Croce esiste una costruzione organica di pensiero, una dottrina [...] sulla funzione degli intellettuali nella vita statale, che non esiste nel Benda» (Q  II, , -), G. adotta il termine “chierici” come identificativo di un gruppo sociale preciso. La presenza del tono polemico – è nota l’espressione «chierici fanatici» (Q , , ) – si accompagna all’esigenza di chiarire la genesi storica del sostantivo; il chierico, «“specialista” [...] della parola», nasce in un tempo connotato dal «monopolio delle superstrutture da parte degli ecclesiastici» (Q , , ) e caratterizzato dalla supremazia del latino, lingua di un’élite, custode del sistema dei saperi. La volontà di risalire alla genesi del processo che ha favorito la crescente “specializzazione” degli intellettuali rientra nella riflessione intorno al nodo della loro possibile autonomia e muove da considerazioni di carattere sociale e culturale per avviare una «ricerca sulla storia degli intellettuali», di impronta storico-politica e non sociologica (ibid.).

GUIDO LIGUORI

LAURA MITAROTONDO

V. «bonapartismo», «Cesare», «parlamentarismo», «polizia», «rapporti di forza».

V. «Benda», «Croce», «intellettuali», «nazionalismo».



CHIESA CATTOLICA

Chiesa cattolica «Chiesa» e «Chiesa cattolica» sono termini che G. utilizza indifferentemente senza distinzione per indicare la Chiesa sia quale comunità dei fedeli, sia quale istituzione ecclesiastica, ma sempre, anche quest’ultima, connessa con la prima. Quando vuole accentuarne l’aspetto prevalentemente istituzionale, G. ricorre ad altri termini, quali «papato» o «Vaticano». Sulla Chiesa G. opera una ricerca puntuale e critica, secondo una chiave di lettura nuova e controcorrente rispetto alla tradizionale critica marxista: «Chiesa come intellettuale», studio che egli inquadra nel più ampio progetto di delineare una storia degli intellettuali italiani. G. espone questo piano nella lettera alla cognata Tatiana del  luglio : «Uno degli argomenti che più mi ha interessato in questi ultimi anni è stato quello di fissare alcuni aspetti caratteristici nella storia degli intellettuali italiani [...] Bisogna necessariamente risalire all’Impero Romano e alla prima concentrazione di intellettuali “cosmopoliti” (“imperiali”) che esso determinò: studiare quindi la formazione dell’organizzazione clericale cristiano-papale che dà all’eredità del cosmopolitismo intellettuale imperiale una forma castale europea ecc. ecc.» (LC ). Progetto di ricerca che in Q , pp. - viene articolato in una serie di titoli che avrebbero dovuto costituire altrettanti sezioni e capitoli di un unico saggio sugli intellettuali. La Chiesa, per tutto l’arco della sua storia bimillenaria, appare a G. come “l’intellettuale collettivo” che più di ogni altro ha saputo instaurare e intrattenere rapporti costanti con «i semplici», condizionando fortemente, a volte totalmente, la vita culturale, sociale e politica dei popoli e degli Stati. Il potere dello Stato, secondo G., si regge su due elementi fondamentali: la coercizione, esercitata per mezzo di apparati repressivi propri (esercito, polizia, tribunali, carceri ecc.), e il consenso, che viene ottenuto per mezzo di apparati ideologici, o dell’apparato egemonico, come scrive G., quali i partiti, i sindacati, le scuole, la Chiesa. Anche la Chiesa, quindi, è tra gli apparati ideologici che or-

ganizzano il consenso popolare (Q , , ; Q , , -; Q , , -; Q , , -; Q , , -; Q , , ). G. definisce, sia pure sommariamente, il rapporto di questo particolare apparato ideologico con la società politica, lo Stato in senso stretto, e con la società civile, gli altri apparati ideologici (Q , , ; Q , , -), studiandolo sia nello svolgimento storico, sia sotto l’aspetto tecnico-strutturale, quello dei meccanismi e delle modalità attraverso cui esso si realizza, con particolare riferimento alla situazione italiana. La conclusione generale alla quale G. giunge è la seguente: quanto più la Chiesa accresce la propria egemonia nella società civile, tanto più è egemone anche nei confronti dello Stato; invece a una caduta egemonica della Chiesa nella società civile corrisponde generalmente anche la perdita di posizioni di forza di fronte allo Stato. Storicamente la Chiesa conosce una fase ascendente di conquista e mantenimento dell’egemonia sociale fino al Medioevo, periodo anche del massimo potere politico della Chiesa romana e del papato e della loro superiorità rispetto all’impero e all’imperatore, situazione che G. rappresenta sinteticamente con l’espressione «comando per grazia di Dio» (Q , , ). La formula del “Sacro romano impero”, dove è il “sacro” che predomina, esprime bene questa posizione di supremazia della Chiesa. Durante il millennio medievale la Chiesa si perfeziona organicamente sul piano ideologico, soprattutto tramite due grandi strutture organizzative, i monasteri e le sedi episcopali. I monasteri sono luoghi di preghiera e di studio, ma anche di lavoro (ora et labora). Al loro interno si sperimenta anche una delle prime forme di divisione razionale del lavoro (Q , , -). Le sedi episcopali si presentano come centri di raggruppamento di intellettuali, religiosi e laici e svolgono una triplice funzione, ideologica, repressiva e sociale, attraverso proprie scuole, strutture assistenziali per le classi subalterne e creazione di propri tribunali (Q , , - e Q , , ). Il primo millennio di storia della Chiesa si chiude con l’affermazione della sua sovranità sullo Stato feudale e della sua egemonia nella società medievale.

CHIESA CATTOLICA

A un certo punto, a partire dall’età comunale in poi, inizia però anche la crisi del blocco ideologico faticosamente costruito nei secoli precedenti. Ciò perché nel rapporto tra Chiesa e società viene a manifestarsi una contraddizione di fondo: quella tra la funzione della Chiesa quale intellettuale organico della classe dirigente (l’aristocrazia agraria), da una parte, e la sua pretesa di esserlo anche per le classi umili e sottomesse, dall’altra. È il momento in cui i princìpi religiosi e morali cristiani, fondamentalmente popolari, entrano in contraddizione con la prassi del clero, diventato anch’esso casta feudale. Scrive espressamente G.: «Quando si esalta la funzione che la Chiesa ha avuto nel medio evo a favore delle classi inferiori, si dimentica semplicemente una cosa: che tale funzione non era legata alla chiesa come esponente di un principio religioso-morale, ma alla Chiesa come organizzazione di interessi economici molto concreti, che doveva lottare contro altri ordini che avrebbero voluto diminuire la sua importanza. Questa funzione fu dunque subordinata e incidentale: ma il contadino non era meno taglieggiato dalla chiesa che dai signori feudali. Si può forse dire questo: che la “chiesa” come comunità dei fedeli conservò e sviluppò determinati principi politico-morali in opposizione alla chiesa come organizzazione clericale» (Q , , -). È per questo che la Chiesa comincia a essere contestata dall’interno e minacciata al tempo stesso dall’esterno. La contestazione interna proviene dalla stessa base sociale popolare, organizzata da intellettuali religiosi legati al popolo. L’attacco esterno viene condotto dal gruppo di nuova formazione degli intellettuali laici, che sfidano la Chiesa proprio sul terreno su cui essa si credeva più forte e sicura, la cultura, in particolare sul terreno giuridico, dove i laici si impegnano a promuovere il ritorno al diritto romano (Q , , ), e su quello letterario, con l’uso e lo sviluppo della lingua volgare per contrastare rispettivamente il dominio del diritto canonico e il latino degli ecclesiastici (Q , , -). Dinanzi al rischio di un’eventuale saldatura tra popolo e intellettuali laici e intellettuali religiosi popolari, la Chiesa appa-



re preoccupata ed è costretta a correre ai ripari. Essa riesce, a volte, a recuperare il movimento di contestazione dal basso suscitando «movimenti di massa», inquadrati da nuovi ordini religiosi, gli «ordini mendicanti». Il caso più riuscito per la gerarchia ecclesiastica del tempo resta quello del francescanesimo (Q , , ). Altre volte invece la Chiesa è costretta a ricorrere alla repressione, condannando ed eliminando anche fisicamente i capi carismatici del movimento e soffocando «le eresie [...] col ferro e col fuoco» (Q , , ). Tuttavia essa non riesce sempre e dappertutto a soffocare i fermenti nuovi. Poiché se è vero che «gli intellettuali più in vista dell’epoca [...] in Italia almeno, sono o soffocati o addomesticati dalla Chiesa, […] in altre parti d’Europa si mantengono come fermento per sboccare nella Riforma» (Q , , ). Nell’età moderna la contestazione interna e l’opposizione della borghesia laica sfociano in rotture clamorose della comunità ecclesiastica e in movimenti rivoluzionari popolari contro il regime feudale. Sul fronte religioso si hanno la Riforma di Lutero, la guerra dei contadini tedeschi, la nascita delle Chiese e delle sette protestanti; sul fronte laico si assiste allo sviluppo del nazionalismo e degli Stati nazionali assoluti. La crisi dell’egemonia ecclesiastica è ormai consumata e inizia la fine del suo monopolio ideologico. Il fronte, laico e religioso, alternativo al sistema feudale e alla Chiesa cattolica rompe l’unità territoriale, sociale e ideologica della cristianità: Nord e Centro Europa protestanti, Europa mediterranea cattolica romana e controriformista; separazione crescente della Chiesa dalla classe sociale emergente – la borghesia – fino a ridursi al ruolo reazionario e conservatore di intellettuale tradizionale, espressione cioè della classe sociale di origine feudale – l’aristocrazia agraria – dominante nel passato. A livello ideologico, infine, la rottura si rende visibile nella differenza tra il carattere popolare-nazionale, l’esigenza di «ritorno alle “origini”» della Riforma e il carattere «cosmopolita», reazionario, «disciplinare» della Controriforma (Q , ,  e Q , , ; v. inoltre Q , , ; Q , , ; Q , , -;



CHIESA CATTOLICA

Q , , ; Q , , ). Il risvolto immediatamente politico della nuova posizione di debolezza ideologica della Chiesa cattolica è l’instaurarsi di una situazione di belligeranza, con il risultato della subordinazione della Chiesa agli Stati nazionali. Ne sono prova il gallicanesimo, il giuseppinismo e altre forme di giurisdizionalismo, che sono «la “prefazione’” alla limitazione della Chiesa nella società civile e politica» (Q , , ). Non più la Chiesa, ma gli Stati nazionali dettano le regole del gioco politico. La Controriforma esprime la consapevolezza della Chiesa cattolica di trovarsi di fronte a una crisi radicale e di vaste proporzioni. Il Concilio di Trento, il più grande tentativo della Chiesa moderna di operare una revisione globale dell’ideologia cattolica e del suo rapporto con la società, lungi dal rinnovare, cristallizza invece per i secoli successivi la Chiesa nel ruolo di intellettuale tradizionale, legata cioè alle classi egemoni del passato e staccata dalle masse popolari. Il nuovo corso controriformista accresce il divario tra la Chiesa cattolica, rimasta fondamentalmente feudale, e l’istanza popolare di superamento del sistema medievale: «Colla Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile [...]: la Chiesa, con la sua concreta attività, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio, anche indiretto, staccandosi dalle masse popolari» (Q , , ). La mediazione positiva dei vecchi e nuovi intellettuali ecclesiastici tra la Chiesa e le masse fallisce. Essa si riduce alla mera funzione negativa di contenimento di quella che per G. è “l’eresia di massa” del cattolicesimo, che si manifesterà in tutta la sua portata nella Rivoluzione francese e ancor più con il progredire in Europa del socialismo. In Italia, in particolare, la rottura tra Chiesa cattolica romana e popolo si verifica in misura anche maggiore, e perdipiù si cristallizza e non trova sbocchi operativi. Con la Controriforma la Chiesa cattolica recepisce e continua la cultura cortigiana, staccata dal popolo-nazione, essenzialmente reazionaria, elaborata dall’Umanesimo e dal Rina-

scimento (Q , , -; Q , , ; Q , , -; Q , , ). A differenza di altri paesi europei, non si creano in Italia intellettuali propri delle classi popolari. Machiavelli, Bruno, Galilei e altri restano episodi singoli e isolati. Di fronte alla rottura Chiesa-masse non si forma un nuovo blocco alternativo di intellettuali-popolo. È per questo che, secondo G., non si è avuta in Italia alcuna riforma o rivoluzione popolare simile alle tre grandi riforme e rivoluzioni dell’età moderna avvenute in Germania, Inghilterra e in Francia (Q , , -; v. anche Q , , ). La frattura si manifesta in Italia molto più tardi, solo nel momento della rottura del rapporto politico tra Chiesa cattolica e Stato liberale borghese nel , quando la Chiesa, consapevole di non poter più disporre del consenso delle masse, non oserà andare, però, allo scontro frontale, ma preferirà la strategia della protesta passiva del non expedit. D’altra parte, lo Stato liberale intanto poté giocare la carta dell’unità nazionale, che comportava necessariamente la negazione del potere temporale del papato, in quanto sapeva appunto di avere dalla propria parte, o almeno non contro, il consenso popolare (plebisciti per le annessioni), venuto meno invece alla Chiesa. Tutto questo era indice, oltre che di una debolezza politica e sociale, anche di un’inferiorità ideologica della Chiesa cattolica. Ed è proprio su questa tacita ammissione di inferiorità ideologica che essa, a cominciare dal pontificato di Leone XIII, tenta di riorganizzarsi, ristrutturarsi per riconquistare l’egemonia culturale e sociale perduta. Però, a differenza del passato, ora la Chiesa deve scendere direttamente sul terreno sociale e politico e mettere a punto programmi e organizzazioni di massa adeguati ai tempi, che siano, cioè, competitivi con gli apparati ideologici degli avversari (Q , ,  e Q , , -). Deve farsi partito essa stessa. Innanzitutto, la Chiesa ridefinisce il pensiero sociale cattolico all’interno del quadro dottrinale rinnovato del tomismo (ideologia medievale), nelle encicliche sociali (dalla Rerum novarum alla Quadragesimo anno), e crea moderne organizzazioni sociali di massa (cooperative, casse rurali, leghe dei contadini, sindacati bian-



CINEMA

chi) e politiche (Azione cattolica, Opera dei Congressi, Partito popolare). Ciò permette alla Chiesa di riorganizzarsi e ridiventare, in appena mezzo secolo di tempo, protagonista sociale e politico. Il successo del Partito popolare è sufficiente perché essa possa ripresentarsi a contrattare da posizione di forza con lo Stato liberale. Il Concordato con lo Stato fascista sancisce la ripresa sociale e politica della Chiesa e soprattutto le restituisce il ruolo primario, quello ideologico, che dai Patti Lateranensi esce addirittura rafforzato (Q , , -; Q , , -; Q , , -; Q , , ; Q , , -; Q , , -). Tuttavia, il riconquistato ruolo ideologico e politico della Chiesa sotto il fascismo è destinato, nelle previsioni di G., a rivelarsi fragile non appena il regime cadrà, perché privo di una base popolare solida. L’ultimo esperimento popolare cattolico, il Partito popolare, avrebbe potuto offrire alla Chiesa un’estrema occasione di collegarsi in modo reale al popolo. Ma il Vaticano lo fece fallire, mandando in esilio a Londra il suo capo fondatore, don Sturzo. Infine, l’ingresso diretto nella politica con propri partiti politici (Azione cattolica, Opera dei Congressi, Partito popolare) e proprie organizzazioni sociali (sindacati bianchi, cooperative sociali ecc.), tutti strumenti, per loro natura, di rivendicazione e tutela di interessi di parte, fa perdere alla Chiesa il suo carattere proprio, quello di Chiesa “cattolica”, universale. Il ricorso a queste organizzazioni di massa «segna l’inizio di una epoca nuova nella storia della religione cattolica: quando essa da concezione totalitaria (nel duplice senso: che era una totale concezione del mondo di una società nel suo totale), diventa parziale (anche nel duplice senso) e deve avere un proprio partito» (Q , , ). BIBLIOGRAFIA: FATTORINI ; LA ROCCA ; PORTELLI ; VINCO . TOMMASO LA ROCCA V. «Azione cattolica», «Concordato», «consenso», «Controriforma», «egemonia», «eresie, eretici», «francescani», «ideologia», «intellettuali», «intellettuali italiani», «laici», «Lutero e luteranismo», «modernismo», «Partito popolare», «quistione vaticana», «società civile», «Stato».

chimica: v. fisica e chimica. Cina Insieme all’India, la Cina è il paese che per G. potrebbe mutare gli equilibri mondiali, spostandone l’asse nel Pacifico, se divenisse una nazione moderna sotto il profilo economico-produttivo (Q , , ). G. si chiede se il confronto con la civiltà occidentale, destinata a uscire vincitrice, non avrebbe permesso il costituirsi anche in Cina di «nuovi intellettuali formatisi nella sfera del materialismo storico» (Q , , ). Sebbene paese più vasto dell’India, la Cina e i suoi intellettuali sono per certi aspetti considerati più omogenei culturalmente per la presenza unificante dell’ideogramma, il cui valore «“esperantistico”» (Q , , ) rende possibile la comprensione reciproca tra intellettuali parlanti lingue diverse, sebbene della stessa famiglia linguistica. Al tempo stesso tale sistema di scrittura è espressione della «completa separazione degli intellettuali dal popolo» (Q , , ), col risultato che gli intellettuali sono «cosmopoliti» analogamente a coloro che usavano il latino nell’Europa medievale. Nel lungo Q , , pieno di osservazioni sulla lingua, sulla cultura e sulla filosofia cinesi, G. nota come l’omogeneità del ceto intellettuale tradizionale trovi un riflesso anche nell’apparato statale, il quale, con relativamente poche modifiche, è rimasto «quasi intatto» (ivi, ) da due millenni, fino alla rivoluzione nazionale di Sun Yat-Sen nel . Per G. l’introduzione di un alfabeto «sillabico» (ivi, ) avrebbe potuto dar luogo a una fioritura di lingue e di culture diverse dei popoli cinesi e a livello politico una convenzione pancinese avrebbe potuto sfidare l’egemonia dei «gruppi dirigenti» privi di un «programma di riforme popolari» (ivi, ). In ogni modo il movimento ormai «scatenato» non può per G. che concludersi con «una profonda rivoluzione nazionale di massa» (ivi, ). DEREK BOOTHMAN V. «cosmopolitismo», «esperanto», «India», «intellettuali», «Lao-Tse».

cinema Le poche occasioni in cui G. accenna al «cinematografo» presentano spunti di note-



CITTÀ - CAMPAGNA

vole interesse storico-critico e teorico. Un’intuizione storica feconda è infatti alla base innanzitutto della corrispondenza individuata in Q , ,  tra alcuni tipi di romanzo popolare d’appendice (ideologico-politico di tendenza democratica, sentimentale-popolare, di intrigo a carattere conservatore, storico, poliziesco, misterioso, scientifico d’avventura, di vite romanzate) e i tipi di analoga natura di opere cinematografiche (e teatrali), destinate a consolidarsi, nel tempo, con la denominazione di generi. Se ne può dedurre che il cinema, nascendo, tra l’altro, nella fase di massima affermazione del romanzo d’appendice, eredita e traduce con la sua varia casistica – soprattutto nei primi decenni della sua storia – i connotati letterari propri di esso e li mantiene, poi, pressoché intatti nei caratteri strutturali della scrittura dei suoi sceneggiatori. A queste considerazioni si legano inoltre anche quelle di G. sul «gusto melodrammatico del popolano italiano», che ritengono tale gusto e il linguaggio conforme («sentimentalismo melodrammatico, cioè dell’espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco»: Q , , ) presenti nei teatri popolari e, insieme, nel «cinematografo parlato» (ivi, ), come già nelle didascalie del cinema muto. Del resto, per una politica culturale per le masse popolari, quella che è detta «“letteratura popolare”» o letteratura d’appendice, la cui fortuna è individuata da G. trionfare tra le «masse nazionali» grazie anche all’aiuto del cinema e del giornale (Q , , ), lo spinge a riflettere, a proposito di «neolalismo», sullo specifico linguistico di alcune arti (nella modernità, appunto, il cinema, nel passato il melodramma e la musica in generale) rispetto al carattere aulico – specie nella tradizione italiana – della lingua letteraria (Q , , -). RAFFAELE CAVALLUZZI V. «letteratura d’appendice», «letteratura popolare», «melodramma», «teatro».

città-campagna Il rapporto tra città e campagna è generalmente caratterizzato dal disprezzo della città per tutto ciò che ha a che fare con il lavoro contadino nelle campagne, sentimento

largamente contraccambiato dai contadini, anche se mescolato a un senso di invidia e di inferiorità. Nelle campagne imperano ignoranza, analfabetismo, eccessiva prolificità, spesso le più bieche aberrazioni sessuali. La città pone il problema di un adattamento psico-fisico a condizioni di lavoro, di nutrizione, di bassa natalità, di abitazioni che non sono “naturali” ma urbane. G. afferma che i caratteri urbani acquisiti si tramandano per ereditarietà o vengono assorbiti nello sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza. La bassa natalità domanda una continua spesa per il tirocinio dei nuovi “inurbati” e porta con sé un costante mutamento della composizione socio-politica delle città, ponendo quindi anche un problema di egemonia (Q , , ). Il paragrafo Q , , intitolato Riviste tipo, è quasi interamente dedicato al rapporto città-campagna e a quello Nord-Sud. Le due coppie di lemmi sono talmente intrecciate e ricche di correlazioni che separarle non è semplice. Nel paragrafo, ampiamente ripreso in alcuni Testi C (Q , ; Q , ; Q , ), si afferma che i rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono sempre gli stessi: una città «“industriale”» – nota G. – è sempre più progressiva della campagna che ne dipende, ma in Italia non tutte le città sono industriali, anzi l’urbanesimo nostrano è un fenomeno industriale solo in minima parte. La più grande città italiana del tempo, Napoli, non è una città industriale; la stessa cosa può dirsi per Roma, Palermo e molte città del Centro-Sud. Nelle città del Sud la popolazione urbana è quasi sommersa e schiacciata da quella rurale, che forma la grandissima maggioranza. Questo fenomeno molto complesso sarebbe da studiare, secondo G., per le sue ripercussioni in campo politico, specie nel nostro Risorgimento. Tipico è l’episodio della Repubblica partenopea del : la campagna schiacciò la città con le orde del cardinale Ruffo perché la città aveva completamente trascurato la campagna nella sua rivendicazione rivoluzionaria (Q , , ). L’industrializzazione permette un diverso rapporto di forza tra città e campagna, più favorevole alle città nel Nord, mentre nel Sud la città dipende da una campagna sfruttata all’inverosimile. La conseguenza politica

CITTÀ - CAMPAGNA

che G. ne trae è che la capacità d’iniziativa rivoluzionaria non sarebbe nella forza rurale, troppo disgregata e priva di un programma politico, né negli intellettuali rurali, di tipo tradizionale e non organici ai contadini, né negli intellettuali di tipo urbano, legati agli interessi degli imprenditori, ma nelle forze operaie del Nord. Queste purtroppo sono spesso ferme a interessi corporativi o a un privilegiato “protezionismo operaio” (riformismo, cooperative, lavori pubblici), possibile proprio perché basato sullo sfruttamento della campagna o di altri operai. Lo sviluppo del proletariato è verso l’internazionalismo, ma è il punto di vista nazionale quello da cui prendere le mosse. Il rapporto città-campagna permette a G. l’individuazione delle seguenti forze in campo: a) la forza urbana settentrionale; b) la forza rurale meridionale; c) la forza rurale settentrionale-centrale; d) la forza rurale della Sicilia e nella Sardegna. «Restando ferma la posizione di “locomotiva” della prima forza», afferma G. (ivi, ), «occorre studiare le diverse combinazioni “più utili” per formare un “treno” che progredisca il più speditamente nella storia». Si ammette che alla forza operaia settentrionale è mancata la capacità «di direzione politica e militare», cioè di organizzazione e di aggregazione intorno alla sua lotta, ma rimane innegabile per G. che se questa forza raggiungesse un certo grado di unità e di combattività essa eserciterebbe spontaneamente una funzione direttiva. Le forze urbane del Nord dovevano non solo far capire a quelle del Sud la loro funzione direttiva, suggerendo loro le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali, ma anche convincere se stesse della complessità del sistema politico. Anche la forza rurale settentrionale-centrale pone infatti una serie di problemi alla forza urbana del Nord rispetto al rapporto regionale cittàcampagna. Come la città, anche la campagna non rappresenta un tutto omogeneo: nel Lombardo-Veneto aveva il suo peso massimo la forza clericale, nel Piemonte quella laica. L’eccessiva semplificazione della questione religiosa nelle campagne ha storicamente permesso che queste costituissero spesso un argine all’azione rivoluzionaria.



G. vede nella Francia la lezione storica esemplare per l’impostazione del rapporto città-campagna; lì i giacobini riuscirono a sconfiggere i girondini sulla questione agraria, impedendo la coalizione rurale contro Parigi e moltiplicando nelle province i loro aderenti. Il fallimento arrivò solo con il tentativo di Robespierre di instaurare una riforma religiosa. Il problema storico che la forza urbana francese ha affrontato con successo può essere scomposto in due aspetti: la distanza tra città e campagna, sia sul piano economico che culturale (molto legata alla Chiesa la campagna, compreso il suo ceto intellettuale), e la disomogeneità del terzo stato, con un’élite intellettuale disparata e politicamente molto moderata. G. afferma (Q , , -) che il tratto storico caratteristico del giacobinismo, a partire dalle “teste rotonde” di Cromwell, fu quello di forzare (apparentemente) la situazione creando fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti il grosso della borghesia «a calci nel sedere» grazie a uomini estremamente energici e risoluti. Lo sviluppo degli avvenimenti può essere descritto attraverso uno schema storico che può costruire un modello esplicativo: innanzitutto i rappresentati del terzo stato partono dai loro interessi corporativi immediati; secondariamente la borghesia si rende conto di essere forza egemone anche delle forze popolari, in ragione: a) della resistenza delle vecchie forze sociali; b) della minaccia internazionale. Naturalmente tutta la concretezza di questa politica si basa sul legare strettamente la città alla campagna: senza questo legame Parigi avrebbe avuto la Vandea alle porte. La Francia rurale, per distruggere definitivamente il vecchio regime, riconobbe quindi a Parigi tale ruolo, in funzione della creazione di uno Stato borghese moderno, premessa per l’ammodernamento della nazione. Che i giacobini non si siano comunque mai mossi dal terreno della borghesia è dimostrato dagli eventi successivi. Il Partito d’Azione avrebbe potuto trarre anche dalla storia italiana gli esempi storici a cui poteva attingere per organizzare un collegamento tra città e campagna in Italia: ad esempio l’esperienza dei Comuni nel Medioevo uniti contro i grandi feudatari (Q ,



CITTÀ DEL SILENZIO

, -); ma sarebbe bastato anche solo un riferimento a Machiavelli, la cui riflessione sulla formazione delle milizie indica come una volontà collettiva nazionale popolare sia impossibile senza che le masse dei contadini entrino simultaneamente nella vita politica (Q , , ). G. non sembra discostarsi molto dallo schema marxiano che prevede l’iniziativa operaia a guida delle masse rurali, meno aggregate e consapevoli, ma la novità del suo pensiero sta nella profonda consapevolezza che l’iniziativa rivoluzionaria semplicemente fallisce senza il coinvolgimento capillare delle masse rurali. L’originalità di G. si basa sulle osservazioni di fondamentale importanza, di seguito sinteticamente elencate: a) nel processo di unificazione italiana la retorica risorgimentale nasconde la carenza d’analisi degli elementi strutturali e storici; b) il corporativismo operaio rappresenta un problema uguale e contrario a quello della disgregazione sociale contadina; c) la “crisi organica” ha conseguenze diverse sulle masse urbane e su quelle rurali, che collassano più rapidamente e rappresentano l’“anello debole” del dominio capitalista; d) l’unione cittàcampagna rappresenta un nodo irrisolto nelle varie “rivoluzioni mancate” italiane (da Bixio al “biennio rosso”); e) il rapporto cittàcampagna deve necessariamente tener conto non solo degli aspetti economici (il parassitismo della città sulla campagna, la questione della proprietà della terra), ma anche di quelli culturali, prevalentemente religiosi. Le realtà nazionali presentano un diverso rapporto tra città e campagna. In Italia in fenomeno ha caratteristiche regionali, ma la soluzione deve avere una prospettiva nazionale per essere efficace. Il problema è estremamente complesso ed è costituito da aspetti che non possono che essere tenuti insieme contestualmente. ELISABETTA GALLO V. «contadini», «giacobinismo», «nazionale-popolare», «Nord-Sud», «Partito d’Azione», «quistione meridionale», «Risorgimento», «Rivoluzione francese».

città del silenzio: v. cento città.

classe, classi Non esiste nei Q una definizione del concetto di classe, fondamentale nel marxismo, benché il lemma ricorra in essi assai spesso. Sono praticamente trascurabili le poche occorrenze di «classe» nelle LC, ma è da notare come al concetto marxista di classe G. ricorra invece con molta insistenza (ben sei occorrenze: quasi la metà del totale) in quello che si può definire un piccolo ciclo di lettere alla cognata Tania (e forse anche a Piero Sraffa) sul tema degli ebrei e dell’antisemitismo (LC ,  settembre ; LC ,  ottobre ; LC ,  ottobre ; LC ,  febbraio ). L’assenza di una definizione teorica rigorosa, astratta, di «classe» si spiega con il fatto che il concetto è usato da G. operativamente, e dunque esso è di necessità riferito a contesti discorsivi precisi quanto diversificati, così che il termine è di continuo, per così dire, aggettivato (non solo grammaticalmente ma soprattutto semanticamente e politicamente). Per questo motivo si rendono necessari i rinvii agli altri lemmi che specificano il concetto (borghesia, classe operaia, classe media, classe urbana ecc.) e alle occorrenze sinonimiche che probabilmente derivano da una prudente volontà di attenuazione causata dalla censura carceraria che è ben presente a G. (gruppo sociale, subalterno-i, gruppo economico, ecc.). A questo proposito la circostanza secondo cui solamente a partire dal Q  (del ) G. preferisce adottare «gruppo sociale» invece di «classe» per sfuggire alla censura verrebbe confermata dal fatto che il lemma «classe» si trova concentrato per circa un quarto delle occorrenze totali (oltre  ricorrenze al singolare e altrettante al plurale) nei primi due soli Q (e molte delle occorrenze rimanenti sono dei Testi C ripresi dai Q  e Q ). Anche l’espressione «lotta di classe» è assai rara nei Q (solo sette occorrenze) e sempre presente solo in appunti bibliografici su testi altrui, fra i quali spiccano un riferimento a Sorel (Q , , , poi Testo C: Q , , ) e uno sulla presunta assenza di lotta di classe negli Stati Uniti (Q , , , poi Testo C: Q , , ). È tuttavia assai illuminante, a chiarire la trama concettuale che definisce in G. il con-

CLASSE , CLASSI

cetto di classe, la contrapposizione costante nei Q fra «classe» e «casta»: casta è residuo del passato (Q , , ; Q , ,  e passim) e al tempo stesso, significativamente, caratteristica dell’Oriente (Q , , ; Q , , ; Q , ,  e passim). Il concetto di «casta» è sempre connotato negativamente e considerato sinonimo di «“consorteria”, “cricca”, “combriccola”, “camarilla”, ecc.» (Q , , -); classe insomma sta a casta come la modernità capitalistica sta al Medioevo feudale, il che naturalmente non esclude il ripresentarsi di forme castali nelle società moderne ma, appunto, come fenomeno regressivo e, più precisamente, degenerativo; così, ad esempio, il «brescianesimo», inteso come «spirito “economico-corporativo”, “privilegiato” di casta e non di classe, di carattere politico-medioevale e non moderno» (Q , , , Testo A), poi, ancora più nettamente nel corrispondente Testo C: «opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale» (Q , , ). Non mancano aggettivazioni di “classe” che potremmo definire di tipo sociologico, cioè non rigorose secondo l’ottica marxista e, a volte, apertamente contraddittorie con l’impianto generale del pensiero gramsciano: si veda l’uso di «classe politica» (ma giustificato dal riferimento al pensiero di Gaetano Mosca), di «classe militare-burocratica», di «classe colta» e, perfino, di «classe intellettuale» (in evidente contraddizione con la definizione gramsciana di intellettuali). Uno dei passi in cui compare l’espressione «classe intellettuale» – che, a partire da Hegel, si riferisce al rapporto istituito da Marx tra «la filosofia classica tedesca» e la politica «francese» – è comunque da leggere attentamente, dato che il riferimento di G. sembra polemico nei confronti di quei marxisti che fanno propria la posizione lì descritta: «Ciò che è “politica” per la classe produttiva diventa “razionalità” per la classe intellettuale. Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la “razionalità” alla “politica”, la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rapporti storici è da spiegare l’idealismo filosofico moderno» (Q , , , Testo A). Non per caso, l’ambigua



espressione «classe intellettuale» scompare del tutto nella riscrittura in Testo C: «In realtà il parallelo [«tra la pratica francese e la speculazione tedesca», ndr] può essere esteso: ciò che è “pratica” per la classe fondamentale diventa “razionalità” e speculazione per i suoi intellettuali (su questa base di rapporti storici è da spiegare tutto l’idealismo filosofico moderno)» (Q  II, , ). Costituiscono invece delle nervature caratteristiche del pensiero gramsciano gli usi frequenti di «classe dirigente» e «classe dominante» (in cui prevale nettamente la forma singolare) in contrapposizione a «classi subalterne» e «classi popolari» (in cui prevale, ancor più nettamente, la forma plurale). L’espressione «classe rivoluzionaria» è sempre declinata storicamente e si può dunque riferire alla borghesia (soprattutto quella francese) quando essa è impegnata nella sua rivoluzione; analogamente la bella (e rara nei Q) espressione «classe storica» si riferisce alla borghesia italiana del Risorgimento, in contrapposizione alla piccola borghesia («il Partito d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica»: Q , , ; Testo C: Q , , ), ma è da notare l’uso che G. fa dell’espressione in riferimento alla borghesia italiana del Cinquecento (criticando il fraintendimento del critico Ireneo Sanesi sulle commedie di quel secolo): «Per il Sanesi, gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente» (Q , , ). Ma niente rivela meglio il determinante impianto marxista del pensiero gramsciano quanto l’uso del concetto di «classe fondamentale», che viene riferito sempre, ed esclusivamente, alla borghesia e alla classe operaia: «Sebbene sia certo che per le classi fondamentali produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non sia concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione» (Q  II, , ). RAUL MORDENTI V. «borghesia», «classe dirigente», «classe media», «classe operaia», «classe politica», «classi urbane», «gruppo sociale», «intellettuali», «Mosca», «Risorgimento», «Rivoluzione francese», «subalterno, subalterni».



CLASSE DIRIGENTE

classe dirigente Il termine «classe dirigente» acquista in G. un significato più vasto rispetto all’uso comune che si è soliti farne. Nelle prime pagine dei Q esso viene messo in relazione all’intera classe borghese: «i giacobini [...] fecero della borghesia la classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente» (Q , , ). Altre volte il termine identifica invece un preciso nucleo di persone con compiti direttivi nello Stato, come ad esempio nelle note che richiamano la sconfitta di Caporetto e le responsabilità a questa connesse: «sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente» (Q , , ). L’appartenenza degli intellettuali alla classe dirigente è un altro motivo di indagine per G., che si chiede: «hanno [un] atteggiamento “servile” verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?» (Q , , ). Infine, anche il «formarsi di vaste burocrazie [...] per tutelare il dominio [politico ed economico,] della classe dirigente» (Q , , ) mette davanti al problema della sua reale composizione. Queste oscillazioni nella definizione del termine, come anche l’uso alternativo del singolare o del plurale, non escludono che G. sviluppi delle precise riflessioni sul ruolo sociale e politico delle classi dirigenti. Un primo chiarimento riguarda il rapporto tra classi dirigenti e Stato: l’«unificazione storica delle classi dirigenti è nello Stato e la loro storia è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati» (Q , , ). Questa unificazione si basa anche sui «grandi sistemi delle filosofie tradizionali e la religione dell’alto clero», che «influiscono sulle masse popolari come forza politica esterna, come elemento di forza coesiva delle classi dirigenti» (Q , , ). Al contrario che per le classi subalterne, quindi, dove «l’unificazione non avviene» in quanto «la loro storia è intrecciata a quella della “società civile”» (Q , , ), per le classi dirigenti la coesione e l’efficacia sono garantite dal disporre del potere statale e di una Weltanschauung (Q , , ) corrispondente: «Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica

e mantiene il suo dominio non solo ma – aggiunge G. – riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (Q , , ). Quest’ultima precisazione ci dà un altro elemento chiave per definirne la natura ovvero la specificità della «funzione egemonica della classe dirigente» (Q , , ) rispetto all’azione di puro dominio politico. G. ne parla a proposito del Risorgimento e del ruolo guida del Piemonte rispetto ai piccoli «nuclei di classe dirigente» presenti nel resto del paese: «il dirigente presuppone il “diretto”, e chi era diretto da questi nuclei? Questi nuclei non volevano “dirigere” nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi ed aspirazioni di altri gruppi. Volevano “dominare” non “dirigere”» (Q , , ). G. distingue quindi la capacità di dirigere, la «funzione egemonica» (Q , , ), intesa come capacità del «raggruppamento egemone» di fare «sacrifizi di ordine economico-corporativo» (Q , , ) per poter poi appunto “dirigere” gli altri gruppi, dalla volontà di dominio, basata sulla pura coercizione e perciò più precaria. Questa capacità “direttiva” della classe dirigente si esprime attraverso «l’apparato “privato” di egemonia o società civile» (Q , , ) e attraverso lo Stato con i suoi apparati. G. prende ad esempio la funzione giuridica: «il diritto non esprime tutta la società (per cui i violatori del diritto sarebbero esseri antisociali per natura, o minorati psichici), ma la classe dirigente, che “impone” a tutta la società quelle norme di condotta che sono più legate alla sua ragion d’essere e al suo sviluppo» (Q , , ). La capacità dirigente delle classi al potere, sebbene radicata anche nelle pieghe “private” della società civile, può però incappare in una «crisi di egemonia [...] che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione» (Q , , ). Questa è la crisi

CLASSE MEDIA

che la classe dirigente italiana fronteggia alla fine del primo conflitto mondiale, ed è la crisi proprio delle classi dirigenti dello Stato liberale che verranno travolte dal fascismo. G. rileva anche un altro elemento di crisi della classe dirigente, questa volta non legato a un evento specifico come la guerra ma a una più generale constatazione: «se si osserva bene si deve giungere alla conclusione che l’ideale di ogni elemento della classe dirigente è quello di creare le condizioni in cui i suoi eredi possano vivere senza lavorare, di rendita: come è possibile che una società sia sana quando si lavora per essere in grado di non lavorare più? Poiché questo ideale è impossibile e malsano, significa che tutto l’organismo è viziato e malato. Una società che dice di lavorare per creare dei parassiti, per vivere sul così detto lavoro passato (che è metafora per indicare il presente lavoro degli altri) in realtà distrugge se stessa» (Q  II, , ). MICHELE FILIPPINI V. «classe politica», «direzione», «dirigenti-diretti», «egemonia», «società civile», «Stato».

classe media Alla nozione di «classe media» G. dedica una vera e propria voce, di respiro comparatista e internazionale: Enciclopedia di concetti politici, filosofici, ecc. Classe media, in Q , , -, ripresa in un Testo C del  con il solo titolo di Classe media (Q , , -). L’espressione «classe media» (middle class) deriva – afferma G. – dalla peculiare storia inglese, in cui è mancata un’alleanza fra borghesia e popolo in funzione antifeudale (opera ancora una volta in G. il modello francesegiacobino) e, al contrario, si è verificata un’alleanza fra nobiltà e popolo, un «blocco nazionale-popolare contro la Corona prima e poi contro la borghesia industriale» (ivi, ); ciò ha anche consentito un conservatorismo popolare («gli operai, se non votano per il partito laburista, votano per i conservatori»: Q , , ); così altrove, sempre in riferimento all’Inghilterra, G. identifica senz’altro classe media con piccola borghesia («classi medie piccolo-borghesi»: Q , , ). L’uso del concetto di classe media in Francia è invece del tutto improprio e dà luogo a equi-



voci, «perché c’è la tradizione politica e culturale del terzo stato, cioè del blocco tra borghesia e popolo» (Q , , ). Infine in Italia, per la mancanza di un’aristocrazia feudale già distrutta dai Comuni (tranne che al Sud), il concetto di classe media «si è abbassato di un gradino» e l’espressione «significa “negativamente” non-popolo, cioè “non operai e contadini”; significa positivamente i ceti intellettuali, i professionisti, gli impiegati» (Q , , ). Tali classi medie urbane, «medie in senso italiano» – precisa G. –, «rafforzate dagli studenti di origine rurale», diventano alleate delle dittature e possono anche imporsi alle «classi alte» (Q , , ). Non mancano tuttavia le contraddizioni: G. parla delle «conquiste rivoluzionarie delle classi medie [...] limitate e codificate» dalla Restaurazione, identificando dunque classe media e borghesia (Q , , ); e, ancora, contraddice lo schema che contrappone la classe media inglese al terzo stato francese scrivendo: «egemonia della classe media, ossia del terzo stato» (Q , , -), ma forse tale affermazione risale all’articolo di Missiroli con cui G. sta polemizzando. Analogamente: in una polemica con il concetto di “classe politica” di Gaetano Mosca, G. sembrerebbe far coincidere classe media con la categoria, ben diversa, dei possidenti: «Pare abbracci tutte le classi possidenti, tutta la classe media» (Q , , ); ma nella riscrittura in Testo C l’equivoco, che risale a Mosca, è chiarito da G.: «Talvolta pare che per classe politica si intenda la classe media, altre volte l’insieme delle classi possidenti, altre volte ciò che si chiama la “parte colta” della società» (Q , , ). La nozione di classe media come essenzialmente parassitaria e improduttiva è evidente in una nota sul corporativismo in cui G. ne rifiuta l’interpretazione (di Fovel) come blocco produttivo fra industriali e operai: «In realtà finora il regime corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste» (Q , , ). D’altronde il corporativismo «crea occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie» (Q , , ). Lo stesso concetto compare a spiegare la violenta op-



CLASSE OPERAIA

posizione da parte di «classi medie e intellettuali» che ora, per la prima volta, sono sottoposti alle forme di razionalizzazione (per G. progressive) indotte dal capitalismo («razionalizzazione coercitiva dell’esistenza»: Q , , ); da qui il manifestarsi in questi ceti di «preoccupazioni e scongiuri ed esorcismi» (Q , , ). Il carattere fortemente negativo di “classe media” in G. è confermato dall’unica occorrenza nelle LC: G. scrive al figlio Delio (con virulenza polemica davvero insolita) che Cechov ha «contribuito a liquidare le classi medie, gli intellettuali, i piccolo-borghesi», mostrandoli «come erano, meschini, vesciche gonfie di gas putridi, fonte di comicità e di ridicolo» (LC , estate ). RAUL MORDENTI V. «borghesia», «classe, classi», «corporativismo», «Mosca».

classe operaia Potrebbe rappresentare un paradosso dei Q la circostanza che in essi non compaiano quasi mai le parole «classe operaia» e «proletariato», peraltro del tutto assenti in LC. Ciò rende necessario il rinvio ad altre possibili definizioni di classe operaia: «classe subalterna», «classe urbana», «classe produttiva», «gruppo sociale subalterno» ecc. Le pochissime occorrenze di «classe operaia» (solo tre per il singolare, cinque per il plurale) sono tutte rappresentate da citazioni, o dirette e virgolettate o indirette, tratte da testi che G. viene considerando (è questo il caso di Q , , ; Q , , ; Q , ,  e Q , , ; Q , ,  e delle riscritture di tali brani in Testi C). In Q , ,  (che prende spunto dall’articolo Problemi finanziari di Tittoni comparso sulla “Nuova Antologia”) il tono specialistico-economico del paragrafo (l’unico dei Q che presenti una tabella economica) consente a G. di scrivere che in Inghilterra «il deficit [...] è ottenuto aumentando lo stanziamento fisso per propaganda contro i minatori, cioè si aumenta la quota di bilancio a favore dei capitalisti a danno della classe operaia». Non diverso è l’andamento del sostantivo «proletariato», spesso presente in citazioni da testi altrui. Ma è da notare che in

Q ,  (un lungo Testo C intitolato Sorel, Proudhon, De Man) la parola “proletariato” è abbreviata, come altre parole che evidentemente appaiono a G. compromettenti per la censura carceraria: «M.» sta per «Marx», «Com.» per «comunismo», «riv.» per «rivoluzione» e «rivoluzionario», e ancora «rivol.» compare al posto della parola «comunisti» usata da Sorel nel testo che G. cita (ivi, -); la costellazione delle parole abbreviate perché proibite che emerge da queste pagine non potrebbe essere più significativa: Marx, proletariato, rivoluzione, comunismo. Se la necessità di sottrarsi alla censura sembra essere il motivo determinante dello scarso uso di “classe operaia” e di “proletariato”, tuttavia, a partire dalla presenza assai rilevata del lemma “operaio” (ben  occorrenze nei Q), si potrebbe anche inferire un certo rifiuto di G. per le astrazioni lessicali e, invece, una sua netta preferenza per la designazione concreta. Si vedano a questo riguardo le occorrenze di “operai” nelle LC, dove si tratta sempre di operai in carne e ossa, sia tale concretezza di tipo storico (le vicende dei Ciompi, quelle degli operai milanesi) oppure frutto di rapporto individuale (l’incontro con operai torinesi inviati al confino, i ricordi personali ecc.). Spiccano infine fra le occorrenze di “proletariato” quelle che derivano dalle traduzioni gramsciane di Marx pubblicate solo in parte in QA  da Gerratana e ora integralmente in QT. Deriva ancora dal marxismo la celebre frase sul «proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca» (Q , , ), che è del Ludovico Feuerbach di Engels, anche se erroneamente attribuita a Marx (Q , , -) e che appare a G. talmente cruciale da essere ripetuta in altri tre luoghi (Q , , ; Q , , ; Q  II, ,  e Q  II, .X, ). RAUL MORDENTI V. «classe, classi», «classe urbana», «Engels», «Marx», «marxismo», «subalterno, subalterni».

classe politica La riflessione sul lemma «classe politica» si svolge nel Q , per poi riversarsi quasi intatta, nel relativo Testo C, all’interno del Q

CLASSE URBANA

 dedicato alle Noterelle sulla politica del Machiavelli. In Q ,  G. riprende il concetto di classe politica dal volume di Gaetano Mosca Elementi di scienza politica, uscito in versione aggiornata nel , dandone subito una prima definizione: «La cosiddetta “classe politica” del Mosca non è altro che la categoria intellettuale del gruppo sociale dominante [...] un altro tentativo di interpretare il fenomeno storico degli intellettuali e la loro funzione nella vita statale e sociale» (ivi, ). Nel libro di Mosca la nozione di classe politica è però, a giudizio di G., «ondeggiante ed elastica»: non è definita chiaramente, tanto che «non si capisce neanche esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica». G., mentre scrive queste note, sta cercando di definire il proprio uso del concetto, ma per dispiegare l’analisi ha bisogno della sponda critica della definizione moschiana, imprecisa e labile, propria di un pensatore che «non affronta nel suo complesso il problema del “partito politico”», un pensatore «che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vuole reagire», ma che è nell’imbarazzo di non avere più presa sul reale, un imbarazzo che per G. emerge nelle «due parti del libro scritte in due momenti tipici della storia politico-sociale italiana, nel  e nel , mentre la classe politica si disintegra e non riesce a trovare un terreno solido di organizzazione». La conclusione di questa nota ci fornisce il quadro teorico all’interno del quale G. intende riposizionare il suo concetto di classe politica: egli fa notare che nel «moderno Principe» si pone «la quistione dell’uomo collettivo, cioè del “conformismo sociale” ossia del fine di creare un nuovo livello di civiltà, educando una “classe politica” che già in idea incarni questo livello» (Q , , ). La classe politica rappresenta quindi per G. uno strato sociale omogeneo che svolge funzioni di direzione intellettuale di uno specifico blocco storico. Un significato che ritroviamo espresso anche nella definizione di una sua classica distinzione, quella fra «grande politica e piccola politica», nella quale quest’ultima riguarda appunto «le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica» (Q , , ).

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In Q , , G. utilizza di nuovo il concetto di classe politica applicandolo alla realtà statunitense, questa volta commentando un articolo del “Corriere della Sera” che rileva come «dopo la crisi, la classe finanziaria che prima padroneggiava la classe politica, in questi ultimi mesi ne ha “subito” il soccorso, virtualmente un controllo». Da questi rilievi G. deduce, con una preveggenza politica notevole, l’apertura di una «nuova fase» della vita americana, in cui l’elemento politico e la complessa costruzione delle sovrastrutture la fanno da padroni: «Poiché in realtà classe finanziaria e classe politica sono in America la stessa cosa, o due aspetti della stessa cosa, il fatto significherebbe solo che è avvenuta una vera e propria differenziazione, cioè che la fase economico-corporativa della storia americana è in crisi e si sta per entrare in una nuova fase». È facile leggere in controluce, nel passaggio dall’economico-corporativo a una fase più avanzata, la svolta del New Deal che da lì a pochi anni rivoluzionerà la società americana. Il concetto di classe politica subisce così un’ulteriore specificazione che lo porta a identificare quegli strati sociali che, superata la fase economico-corporativa, riescono nelle ormai complesse società occidentali a costruire l’egemonia. MICHELE FILIPPINI V. «economico-corporativo», «egemonia», «grande politica, piccola politica», «intellettuali», «moderno Principe», «Mosca», «partito».

classe subalterna: v. subalterno, subalterni. classe urbana L’espressione conferma nei Q la sua genericità semantica, o piuttosto la sua ambiguità costitutiva: compare infatti con tre diversi significati: a) come sinonimo di borghesia; b) come sinonimo di classe operaia; c) a indicare l’insieme di borghesia e proletariato (in questo caso al plurale: «classi urbane»). Nel significato di «borghesia», G. usa «classe urbana» in Q , ,  (poi ripreso quasi alla lettera nel Testo C di Q , , ): lo sviluppo del giacobinismo in Francia (il contesto del ragionamento è il “rovesciamento” del giacobinismo operato da Maurras) trova



CLASSICO

il suo pieno compimento nel regime parlamentare, che realizza «nel periodo più ricco di energie “private” nella società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato» (ibid.). Con particolare accentuazione del carattere cittadino della borghesia compare anche l’espressione «forze urbane» (vs. «forze rurali» o «contadinesche»), con frequente riferimento al Partito d’Azione (come in Q , , - e passim). Nel significato di “classe operaia”, G. usa “classe urbana” in Q , , , al termine del lunghissimo (e cruciale) paragrafo intitolato Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo: G. si riferisce (pur senza nominarla) alla formula, prima marxiana poi trockijsta, della “rivoluzione permanente”. Al carattere disastroso di tale posizione di Trockij («inerte e inefficace», «una cosa astratta, da gabinetto scientifico»), che avrebbe rotto l’alleanza operai-contadini su cui si basava la Rivoluzione russa, G. contrappone la fondatezza della politica perseguita dalla «corrente che [...] avversò» Trockij (cioè da Lenin e da Stalin), un’«alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana»; nella riscrittura di questo brano (in Q , , ) la stessa frase viene fatta oggetto di una attenuazione lessicale: «alleanza di due gruppi sociali, con l’egemonia del gruppo urbano». Infine, l’espressione compare anche per indicare l’insieme di borghesia e proletariato: è il caso di Q , , , dove il ricorso a forme di dittatura militare in Spagna e Grecia è messo in rapporto (come nel caso del fascismo) con l’«equilibrio delle classi urbane in lotta, che impedisce la “democrazia” normale, il governo parlamentare». Sembra riferirsi a una fase storica di unità ancora indifferenziata fra le due classi (data l’inesistenza di un proletariato in quanto classe autonoma) il ricorrere dell’espressione nel Q  e soprattutto nel Q  su Machiavelli («se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa»: Q , , ); ma ciò che conta è che nel ragionamento gramsciano opera qui – una volta di

più – il modello “giacobino”, e specialmente la lettura del giacobinismo come rapporto egemonico fra città e campagna. Interessante, da questo punto di vista, il concetto di “blocco urbano” (evidentemente fra borghesia rivoluzionaria e popolo parigino) che G. legge nella Rivoluzione francese, ricordando i «rapporti tra Parigi e la provincia, ossia tra la città e la campagna, tra le forze urbane e quelle contadinesche», e precisando: «Durante la Rivoluzione, il blocco urbano parigino guida [...] la provincia» (Q , , ). RAUL MORDENTI V. «borghesia», «classe, classi», «classe operaia», «giacobinismo», «Lenin», «Maurras», «Partito d’Azione», «Stalin», «Trockij».

classico Il termine «classico» riceve nei Q una significazione precisa, ravvisabile nel modo in cui G. discute di Goethe: questi gode «sempre di una certa attualità, perché [...] esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi, per esempio, è ancora torbido romanticismo: la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo» (Q , , ). La sua attualità però non è identità passionale con il presente: «una persona intelligente e moderna deve leggere i classici in generale con un certo “distacco”, cioè solo per i loro valori estetici [...] L’ammirazione estetica può essere accompagnata da un certo disprezzo “civile”, come nel caso di Marx per Goethe» (LC , a Giulia, ° giugno ). Classico è dunque tutto ciò che appartiene a una fase storica definitivamente conclusa, nel duplice senso che appartiene al passato e che da una particolare prospettiva esprime una fase di civiltà che ha raggiunto la sua “perfezione”, in quanto ha superato il momento di distacco polemico dal passato e trova in se stessa tutte le motivazioni positive sulle quali poggiare. Se classico esprime un certo passato, esso può indicare anche un divenire possibile del presente in vista del futuro. Così, la filosofia della praxis non è entrata nella sua fase classica (ciò vorrebbe dire che appartiene al passato, Q , , ); il suo deve essere un atteggiamento critico, dunque «un atteggiamento in certo senso romantico, ma di un ro-



COERCIZIONE

manticismo che consapevolmente ricerca la sua serena classicità» (Q , , ). Questa tensione è necessaria, perché la critica non va abbandonata a se stessa, ma fatta lavorare affinché produca uno stacco progressivo di civiltà. Ma vi è anche un’accezione negativa di “classico”: il classicismo di chi usa precettisticamente la compostezza formale – in estetica come nella teoria della storia – per soffocare le istanze romantiche di rinnovamento: «il classicismo letterario e artistico dell’ultima estetica crociana» (Q , , ; Q , , ; Q , , ; Q  I, , ; Q  II, .XIV, ) e la «classicità nazionale» di Gioberti (Q , , - e Q , , ) come istanze volte a far apparire “irrazionale” e “antistorico” ogni tentativo di spezzare l’attuale sistemazione dei rapporti di forze.

Il clero «come tipo di stratificazione sociale deve essere tenuto sempre presente nell’analizzare la composizione delle classi possidenti e dirigenti» (Q , , ). Per questo G. si chiede: «Esiste uno studio organico sulla storia del clero come “classe-casta”? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell’umanità» (Q , , ). Come intellettuali, gli ecclesiastici sono stati «monopolizzatori per lungo tempo di alcuni servizi essenziali (l’ideologia religiosa, la scuola e l’istruzione, e in generale la “teoria”, con riferimento alla scienza, alla filosofia, alla morale, alla giustizia ecc., oltre alla beneficenza e all’assistenza ecc.)» (Q , , ).

FABIO FROSINI

GIOVANNI SEMERARO

V. «critica, critico», «Croce», «Gioberti», «Goethe», «Leopardi».

V. «cattolici», «Chiesa cattolica», «Concordato», «intellettuali», «religione».

clero

coda del diavolo: v. America del Sud.

Nei Q vi è una visione del clero complessa e articolata, con distinzioni sottili e anche minuziose tra vari tipi di clero: «alto» (Q , , ), «basso» (ivi, ), «liberaleggiante e antigesuitico» (Q , , ), «modernista» (Q , , ), «conservatore», «aristocratico», «classe eletta» (Q , , ), classe tradizionale (Q , , ), clero come «ordine feudale alleato al re e ai nobili» (Q , , ), clero del Nord e del Sud (Q , , ). Nella maggior parte dei casi G. fa notare la distanza tra «comunità del clero» e «comunità dei fedeli» (Q , , ) e «tra la religione del popolo e quella del clero e degli intellettuali» (Q , , ). A G. interessa la funzione del clero nel Risorgimento, nei partiti, nell’opinione pubblica (Q , , ), come parte della funzione degli intellettuali. Egli sottolinea l’«origine sociale» del clero, anche «per giudicare della sua influenza politica: nel Nord il clero [è] di origine popolare (artigiani e contadini), nel Sud [è] più legato ai “galantuomini” e alla classe alta. Nel Sud e nelle isole il clero [...] appare al contadino spesso, oltre che come guida spirituale, come proprietario che pesa sugli affitti (“gli interessi della chiesa”) e come usuraio» (ibid.).

coercizione Il lemma ha nelle opere carcerarie una gamma di applicazioni articolata, che va dalla teoria dell’educazione alla teoria politica propriamente detta e che in genere non ha valenza intrinsecamente negativa, poiché nei diversi ambiti G. sembra cogliere la necessità, se non anche la positività, di una componente coercitiva. Nella lettera a Giulia del  dicembre  egli infatti, scrivendo dell’educazione del figlio Delio e sottolineando come essa fosse basata su una concezione eccessivamente «metafisica», costruita intorno al presupposto che nel bambino fosse presente in potenza già l’uomo, del quale si pretendeva di lasciar sviluppare, con un semplice aiuto e senza «coercizioni», ciò che vi è di latente, così concludeva: «Io invece penso che l’uomo è tutta una formazione storica ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) e solo questo penso: che altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o di immanenza» (LC ). Si tratta di quello stesso tipo di coercizione che consente a «uno studioso di quarant’anni» di rimanere seduto a un tavolo per

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COERCIZIONE

diverse ore di seguito: sarebbe stato in grado di farlo – si chiede G. – «se da bambino non avesse coattivamente, per coercizione meccanica, assunto le abitudini psicofisiche appropriate?» (Q , , ). Eppure l’assunzione di determinate abitudini attraverso la coercizione non è sufficiente affinché un individuo trovi la sua collocazione all’interno dei meccanismi che regolano la convivenza sociale. In questo caso – nota G. – serve qualcos’altro, poiché il rispetto dell’ordine legale costituito da quell’insieme di regole su cui si organizza «la vita degli uomini tra di loro» non può derivare soltanto da un’imposizione esterna, ma deve essere il frutto di una spontanea convinzione: deve maturare «per necessità riconosciuta e proposta a se stessi come libertà e non per mera coercizione» (ivi, ). A conclusioni simili G. perviene dopo un ragionamento sullo Stato che si snoda nel Q . Dopo aver preso le mosse da un’affermazione di Guicciardini secondo la quale «per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione» (Q , , ) e dopo averla articolata in una serie di coppie di opposti – «forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e Chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico-politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, [...] violenza e frode» (ivi, ) –, G. afferma che «nella nozione generale di Stato entrano elementi che sono da riportare alla nozione di società civile (nel senso, si potrebbe dire, che Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione)» (Q , , -). Questo argomento – prosegue – diventa fondamentale in una dottrina dello Stato secondo la quale lo Stato stesso tenda a estinguersi: più si affermano elementi di «società regolata (o Stato etico o società civile)», più «l’elemento Stato-coercizione» tende a esaurirsi. L’estinzione dello Stato, ossia una situazione di «Stato senza Stato», presuppone un’accettazione spontanea delle leggi, un’accettazione libera «e non per coercizione, come imposta da altra classe, come cosa esterna alla coscienza» (ivi, ). È una situazione nella quale viene prospettata una forma di diritto e di giustizia regolamentata da istituzioni specifiche che nulla

spartiscono con quelle «caduche» delle epoche passate, che altro non sono state «che coercizione, compressione, deformazione arbitraria della vita pubblica e della natura umana» (Q , , ), al punto che alcuni intellettuali ne hanno scritto in termini di un’equiparazione fra diritto e ingiustizia. Nell’indicazione delle coppie di opposti nell’ambito di Q ,  G. inseriva «politica e morale» come caratterizzanti la storia eticopolitica di Croce. Egli sottolinea con forza il fatto che nel pensiero crociano «l’etica si riferisce all’attività della società civile, all’egemonia; la politica si riferisce all’iniziativa e alla coercizione statale-governativa» (Q  II, .III, ; va notato che nel relativo Testo A, Q , ,  «coercizione» non compare e si legge che la politica corrisponde «all’iniziativa statale-governativa»). Il mantenimento da parte di Croce della distinzione fra i due momenti ha conseguenze rilevanti: ponendo la distinzione in modo speculativo, astratto, ne consegue che la «coercizione statale» opera al fine di giustapporre «civiltà e culture diverse» organizzandole in una «“coscienza morale”» «contraddittoria e nello stesso tempo “sincretistica”» (Q  I, , ). Va quindi operata una critica in profondità della posizione crociana dal punto di vista del materialismo che, secondo il filosofo abruzzese, significa «la “forza materiale”, la “coercizione”, il “fatto economico” ecc.» (Q  II, , ). Proprio nell’ottica della critica a Croce, G. ricorda che «tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile» (Q  II, , ) e lo Stato è lo strumento attraverso il quale la società civile si adegua alla struttura economica; ciò, però, può avvenire soltanto se la guida dello Stato è affidata ai rappresentanti «del mutamento avvenuto nella struttura economica» (ivi, ). Attendere che l’adeguamento della società civile alla nuova struttura economica avvenga «per via di propaganda e di persuasione [...] è una nuova forma [...] di moralismo economico vacuo ed inconcludente» (ibid.). Anche per questa via sembra ribadita la necessità del momento coercitivo. Un altro vasto campo di applicazione del concetto di coercizione è quello attinen-

COERCIZIONE

te al rapporto con il sistema produttivo e con le necessità in esso insite. Nel Q  (Americanismo e fordismo), analizzando il nuovo sistema produttivo introdotto negli Stati Uniti con il taylorismo e le cause del suo fallimento, G. precisa cosa intenda per la coercizione «non solo nel senso brutale» di cui scriveva alla moglie il  dicembre  (LC ). Il nuovo industrialismo americano non fallisce, secondo G., a causa della violenza, delle “pressioni coercitive” conseguenti all’applicazione delle nuove tecniche produttive. Tutta la storia dell’industrialismo, per G., è stata caratterizzata da pressioni coercitive crescenti, tendenti a disciplinare le inclinazioni naturali dei lavoratori riducendo l’attività di questi ultimi «al solo aspetto fisico macchinale» (Q , , ), al fine di soggiogare gli istinti naturali, «l’elemento “animalità” dell’uomo» (Q , , ), per creare «norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione» all’altezza delle esigenze di forme di vita collettiva «sempre più complesse» a causa dello sviluppo dell’industrialismo stesso. Nelle nuove forme dell’industrialismo americano (il taylorismo) – continua G. – è di certo contenuta una percentuale maggiore di brutalità rispetto alle epoche precedenti, ma non basta denunciare ciò e decretarne l’irrazionalità, anche perché questo vorrebbe dire porsi in una condizione di critica insostenibile nei confronti di ogni processo innovativo. D’altronde – ricorda G. – da sempre il nuovo si afferma sul vecchio per «compressione meccanica». Gli istinti oggi definiti «“animaleschi”» sono un progresso rispetto a quelli «più primitivi» e ciò è il risultato di processi storici contraddistinti da costi altissimi in termini di vite umane e di «soggiogamenti degli istinti». G. propone come esempi il «passaggio dal nomadismo alla vita stanziale e agricola [...] le prime forme di schiavitù della gleba e del mestiere ecc.». E aggiunge: «Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le forze produttive della società». «Brutalità inaudite» hanno selezionato (o “educato”) l’uomo adatto «alle nuove forme di produzione e di

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lavoro [...] gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari o eliminandoli del tutto» (ivi, -). Ogni processo innovativo comporta dei costi, anche in termini di vite umane. Pensare che questo non avverrà con i metodi tayloristi è illusorio. Il complesso delle «compressioni e coercizioni dirette e indirette» (Q , , ), dal disciplinamento della vita sessuale al proibizionismo, fino alla quasi totale liquidazione dei sindacati, funzionale allo sviluppo del modello fordista di fabbrica, è legittimo almeno nel senso che rappresenta l’ultimo momento dell’evoluzione delle forme storiche di vita. Per cui si può esser più o meno d’accordo, ma «il principio della coercizione, diretta e indiretta, nell’ordinamento della produzione e del lavoro è giusto» (ivi, ). La «crisi organica» dell’ordine borghese nel corso del primo dopoguerra, caratterizzata da «una crisi di costumi di estensione e profondità inaudite», «si è verificata contro una forma di coercizione» (Q , , ) pensata per le necessità della guerra, alla cui conclusione masse ormai consapevoli del proprio ruolo storico rivendicavano, ad esempio attraverso i sindacati, una nuova collocazione sociale determinando, a un tempo, la costituzione dell’«uomo-collettivo odierno» (Q , , ) e la messa in discussione del ruolo dei gruppi dominanti. In presenza di questa nuova situazione G. pone la questione di «una coercizione di nuovo tipo» (ivi, ), di fronte alla quale l’ordine borghese è impreparato in quanto consapevole che, applicandola, libererebbe anche la soggettività della nuova figura storico-sociale costituita dall’uomo collettivo. Infatti questa nuova coercizione si fonda su un equilibrio psico-fisico del lavoratore «non imposto dal di fuori» (Q , , ), bensì «interiore [...] proposto dal lavoratore stesso» (ibid.), ed essa accelererà il processo di acquisizione di capacità critiche e, perciò, di autonomia del lavoratore. Si tratta di «una coercizione di nuovo tipo in quanto esercitata dalla élite di una classe sulla propria classe» (Q , , ); una coercizione che è «un’autocoercizione, cioè un’autodisciplina» (ibid.), che mira all’autonomia dei produttori e, perciò, si con-



COERENZA , COERENTE

trappone anche ai «mezzi coercitivi esteriori», cioè alla militarizzazione della produzione, come proposto da Trockij (Q , , ). Nella fabbrica fordista, invece, lo strumento di persuasione che dovrebbe lenire la coercizione è costituito dagli alti salari: «La coercizione [...] deve essere sapientemente combinata con la persuasione e il consenso e questo può essere ottenuto [...] da una maggiore retribuzione» (Q , , -). Ma ciò non basta per scaricare la pressione esercitata sugli operai, autenticamente “spremuti” (Q , , ). Proprio l’incapacità degli industriali americani di cogliere la necessità di un nuovo tipo di coercizione, non più imposta dall’esterno, conduce al fallimento del nuovo industrialismo. Nell’ottica dell’autocoercizione sarebbe invece necessaria una revisione del compito educativo e formativo dello Stato, il quale dovrà elaborare «nuovi e più alti tipi di civiltà» (Q , , ) da adeguare ai nuovi sistemi produttivi, ossia un diritto talmente universale da consentire a ogni individuo di «incorporarsi nell’uomo collettivo», e dovrà esercitare sui singoli una «pressione educativa» tale da ottenerne «il consenso e la collaborazione, facendo diventare “libertà” la necessità e la coercizione» (ibid.). In sostanza «la coercizione è tale solo per chi non l’accetta, non per chi l’accetta» (Q , , ). Svilupparsi in rapporto allo sviluppo delle forze sociali «non è coercizione» ma risultato di un «metodo accelerato». Per coloro che, per «libera volontà», seguono i ritmi di tale sviluppo, la coercizione assume lo stesso significato di «ciò che i religiosi dicono della determinazione divina» (ibid.). In un altro luogo G. torna sulla militarizzazione della produzione e, seppur implicitamente, sulla posizione di Trockij; invece dell’espressione «mezzi coercitivi esteriori» (Q , , ) leggiamo qui «disciplina esteriore coercitiva» (Q , , : il contesto è costituito da una riflessione sulla pedagogia). G. nota come l’educazione di un gruppo sociale arretrato abbisogni di una «disciplina esteriore coercitiva» anche se ciò non debba significare necessariamente la riduzione alla schiavitù, «a meno che non si pen-

si che ogni coercizione statale è schiavitù» (ibid.). Anche per il lavoro c’è una coercizione di tipo militare (quella, appunto, sostenuta da Trockij) da applicare ai gruppi sociali “immaturi” e «rivolta ad educare un elemento immaturo» (ibid.), ossia un elemento che, posto al fianco di elementi già maturi, mostri la sua immaturità; è chiaro, secondo G., che si tratta di un’immaturità che nulla spartisce con la schiavitù, la quale «organicamente è l’espressione di condizioni universalmente immature» (ibid.). B IBLIOGRAFIA : B URGIO ; T EXIER ; TOSEL . LELIO LA PORTA V. «alti salari», «americanismo», «bambino», «consenso», «Croce», «disciplina», «educazione», «fordismo», «Guicciardini», «libertà», «necessità», «pedagogia», «società politica», «società regolata», «Stato», «taylorismo», «Trockij».

coerenza, coerente G. utilizza nei Q i termini «coerenza» e «coerente» con due significati distinti ma collegati. Il primo significato fa riferimento a una relazione logica tra premesse e conclusioni, relazione che costituisce un sistema internamente coerente o uno sviluppo temporale non contraddittorio. In questo senso la coerenza svolge un ruolo importante nella definizione gramsciana di «senso comune», «il “folclore” della filosofia», il cui «carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente» (Q , , ). Al contrario, il filosofo di professione pensa «con maggior rigore logico, con maggiore coerenza» (Q  II, , ; per la natura «coerente» ma non scientifica della teologia v. Q  II, , ). G. perciò pone il problema di «un rinnovato senso comune» che sarebbe in grado di diffondere «la coerenza e il nerbo delle filosofie individuali» tra le classi popolari (Q , , ). Il secondo significato di coerenza si avvicina all’etimo della parola (essere connesso o unito) e fa riferimento al momento di formazione di corpi collettivi e gruppi sociali. In una nota che risale alla fine del , dedicata a Machiavelli, G. sostiene che la di-

COLONIALISMO

rezione collettiva pone il problema di come mantenere un gruppo «unitario e coerente nella sua opera continuativa» (Q , , ). G. sostiene che questo significato del termine “coerenza” è importate per afferrare la formulazione specifica dell’identificazione di teoria e pratica nella filosofia della prassi. Q , ,  (maggio ) pone il problema di una «una teoria che coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo la pratica più omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo». La coerenza nel duplice significato logico e politico viene perciò posta da G. alla base della formazione di un’egemonia delle classi popolari. PETER THOMAS V. «Bucharin», «Croce», «concezione del mondo», «filosofia», «filosofia della praxis», «filosofo e filosofo democratico», «senso comune», «unità di teoria-pratica».

collettivismo: v. individualismo. colonialismo A parere di G. i grandi imperi coloniali sorti nell’ultimo decennio del XIX secolo sono la risposta alla crisi di sovrapproduzione innescata dalla caduta del saggio di profitto, che imponeva alle potenze europee «di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi» (Q , , ). Tale politica, che segna il passaggio dalla fase liberale del capitalismo alla fase imperialista, interessa solo marginalmente paesi in via di industrializzazione come l’Italia, privi di capitali da esportare. Il “colonialismo” italiano, non avendo una base economica, segue una logica tutta politica: il rafforzamento dell’unità nazionale. Dinanzi alle resistenze economicamente motivate degli industriali, il colonialismo in Italia si afferma per la necessità del ceto politico dirigente di esercitare la propria egemonia sulle masse rurali del Sud, restie a riconoscersi nello Stato unitario. Non potendo o volendo rompere il blocco sociale dominante fra industriali settentrionali e agrari meridionali, il ceto politico dirigente non aveva altro modo di risponde-

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re alle esigenze di terra delle masse che, nota G., «deviandone la soluzione all’infinito», ovvero prospettando «il miraggio delle terre coloniali da sfruttare» (ivi, -). In paesi a capitalismo arretrato le industrie, non ancora in grado di fronteggiare la concorrenza internazionale, hanno bisogno del protezionismo. La produzione non è finalizzata alla soddisfazione di un mercato interno reso debole dalla politica di bassi salari, ma è volta a conquistare, come osserva G., «mercati all’estero con un vero e proprio dumping permanente» (Q , , ). Importanza decisiva ha, dunque, lo sviluppo di una politica coloniale che apra mercati alle merci «in paesi arretrati dell’estero, dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza» (ibid.). Il colonialismo tende a mascherare la sua origine, fondata sugli interessi economici delle classi dominanti, dietro un’ideologia nazionalista. Per G. quest’ultima è particolarmente deleteria per paesi arretrati come l’Italia, in cui riesce a conquistare intellettuali piccolo-borghesi precedentemente vicini al socialismo. Emblematico è il caso di Pascoli o Corradini, che si ingegnano a ripensare la lotta di classe su un piano geopolitico sulla base dello pseudo-concetto di «nazione proletaria» (Q , , ). L’espansione coloniale di paesi come l’Italia avrebbe la sua giustificazione nella scarsezza delle risorse naturali che costringerebbe all’emigrazione le masse agricole meridionali. Al contrario, a parere di G. la conquista di colonie non risponde a ragioni d’ordine demografico, ma a interessi economici e politici delle classi dominanti: «non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di “popolamento”»; tanto l’emigrazione quanto «la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa» (Q , , ). Così diversi insediamenti di colonie italiane all’estero si trovano in paesi sotto il dominio di altre potenze coloniali nella forma di «Capitolazioni», ovvero un sistema di privilegi economici che rappresentava una forma di colonizzazione indiretta che aveva il vantaggio di curare gli interessi nazionali cercando di non sobbarcarsi «l’odiosità della situazione creata dall’Europa» (Q , , ).



COLONIALISMO

Al di là della critica al «socialismo-nazionale», G. deve affrontare sulla questione coloniale un conflitto teorico all’interno del proprio campo. Persino il primo marxista italiano di statura europea, Antonio Labriola, aveva infatti sostenuto l’avventura coloniale in Libia. G. sottolinea in particolare l’emblematica risposta data da Labriola a un allievo – citata nelle Conversazioni critiche di Croce – a proposito dell’efficacia della pedagogia moderna nell’educazione di un papuano. In un primo momento sarebbe stato indispensabile, a parere di Labriola, ridurlo in stato di schiavitù, nella speranza che attraverso la sua colonizzazione sarebbe stato possibile portare i suoi discendenti a intendere la pedagogia moderna. G. considera tali posizioni viziate da uno «pseudostoricismo», ovvero da «un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo» (Q , , ). Rifacendosi a Bertrando Spaventa, G. assimila tale giustificazione del colonialismo alla posizione di coloro che «vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla» (ibid.). A suo parere, al contrario, un paese o una classe sociale che avesse sviluppato un livello di civiltà avanzato dovrebbe «“accelerare” il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova esperienza» (ivi, ). Per G. non ci si può limitare, come faceva Labriola, a giustificare l’esistente, ovvero a constatare la funzione entro certi limiti civilizzatrice del colonialismo; al contrario, se si vuole veramente che i discendenti delle popolazioni colonizzate possano liberarsi dalla schiavitù e venir «educati con la Pedagogia moderna», occorre condurre un’impietosa lotta al colonialismo. All’interno dei paesi coloniali essa avrà l’essenziale funzione di indurre «gli stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi» (ibid.). Per G. in assenza di una lotta al colonialismo ogni pretesa di una funzione pedagogica europea nei confronti delle popolazioni colonizzate è da considerarsi un’ipocrisia. La schiavitù è infatti «l’e-

spressione di condizioni universalmente immature» (ivi, ), mentre la pedagogia moderna necessita della presenza di un docente maturo che possa sostenere nel suo sviluppo un discente in formazione. La lotta al colonialismo è inoltre decisiva per G. poiché esso è alla base delle moderne guerre imperialiste. Le borghesie degli Stati a capitalismo avanzato tendono infatti «ad allargare la base della società lavoratrice da cui prelevare plusvalore» (Q , , ). Tale tendenza «naturale» diviene una necessità impellente in fasi di crisi economico-sociale. L’esigenza di allargare la base d’estrazione del plusvalore mediante il colonialismo entra così «in conflitto con altri gruppi dirigenti che aspirano allo stesso fine o ai cui danni l’espansione di esso dovrebbe necessariamente avvenire, poiché anche il globo terrestre è limitato» (ibid.). G. analizza, infine, le profonde trasformazioni che il colonialismo produce nella struttura dello Stato e di conseguenza nella lotta socio-politica al suo interno. Negli ultimi decenni del XIX secolo, in seguito all’espansione coloniale, «i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano più complessi e massicci» (Q , , ), al punto che «la formula quarantottesca della “rivoluzione permanente”» diviene obsoleta e deve esser sostituita con quella di lotta per l’egemonia (ibid.). Negli Stati colonialisti, infatti, il conflitto fra le classi sociali si svolge principalmente nella forma della «guerra di posizione» per la conquista dell’egemonia nella società civile. Allo stesso modo, nelle guerre coloniali la soluzione militare non è sufficiente, non basta conseguire come in una guerra normale il «fine strategico», ma poiché occorre occupare in pianta stabile il paese sconfitto, anche dopo averne disperso le truppe, il conflitto proseguirà sul «terreno politico e di “preparazione” militare» (Q , , ). Sia le guerre coloniali sia le guerre di liberazione nazionale sono, dunque, simili alla moderna lotta politica, articolandosi come questa su tre piani differenti: la guerra «di movimento, di posizione e sotterranea» (ibid.). Si tratta di forme «di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico prepon-



COMPOSIZIONE DEMOGRAFICA

derante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare)» (ivi, ), poiché i colonialisti sono in evidente inferiorità numerica e i movimenti di liberazione nazionale sono privi degli equipaggiamenti indispensabili per poter sostenere un conflitto in campo aperto. RENATO CAPUTO V. «colonie», «Labriola», «nazionalismo», «pedagogia», «quistione meridionale», «schiavitù», «società civile».

colonie L’interesse di G. per le colonie è rivolto anzitutto all’analisi «delle colonie interne nei paesi capitalistici» arretrati (Q , , ), come l’Italia di fine Ottocento. La politica liberale dominante si fondava su «un blocco “urbano”» fra industriali e aristocrazie operaie del Nord, che preservava la sua egemonia sul resto del paese mediante il protezionismo. «Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto “disciplinato” con due serie di misure»: repressione violenta d’ogni forma d’organizzazione delle masse rurali e “corruzione-cooptazione” degli intellettuali (Q , , ). In tal modo «lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale» (ivi, ). La repressione dei disorganici tentativi di ribellione delle masse meridionali, che si manifestavano nel brigantaggio, erano condotti con la brutalità delle «spedizioni coloniali» (Q , , ). Lo stadio di arretramento cui tali politiche condannavano il Meridione era funzionale a giustificare la conquista di colonie all’estero: alla «fame di terra», alle «sofferenze dell’emigrazione» delle masse rurali, l’ideologia dominante rispondeva con una politica «di colonialismo di popolamento» (Q , , ). Tuttavia, a parere di G., non esiste una relazione necessaria fra «esuberanza demografica» e dominio diretto di colonie, poiché l’«emigrazione segue leggi proprie, di carattere economico» (Q , , ).

Molto scarna è l’analisi di G. sulle colonie italiane, presumibilmente per evitare la censura. Vi sono cenni all’Albania (Q , , ) e all’Eritrea (Q , , ) in brevi note in cui G. si limita a sintetizzare articoli letti su riviste. Più significative le note dedicate ai domini coloniali inglesi, posti in discussione dal sorgere dei «movimenti nazionali e nazionalistici», che sono visti da G. in parte come «una reazione al movimento operaio – nei paesi a capitalismo sviluppato», in parte come «un movimento contro il capitalismo stimolato dal movimento operaio: India, negri, cinesi, ecc.» (Q , , ). RENATO CAPUTO V. «colonialismo», «composizione demografica», «nazionalismo», «pacifismo», «quistione meridionale».

composizione demografica La composizione demografica è posta in relazione al reddito nazionale che, se è basso, può essere «in gran parte distrutto (divorato) da troppa popolazione passiva» (Q , , ). Dunque bisogna vedere se la questione demografica «sia “sana” anche per un regime capitalistico e di proprietà» (ibid.). A tal fine si può fare ricorso al «teorema delle proporzioni definite», utile per «la scienza dell’organizzazione (lo studio dell’apparato amministrativo, della composizione demografica, ecc.)» (Q , , ; v. anche, sulle proporzioni definite nella composizione demografica, Q , , ). In quest’ultima nota G. confronta la situazione europea con «alcuni aspetti dell’americanismo e del fordismo», in specie la diffusione, in Europa, del «vecchio ceto plutocratico», che vorrebbe prolungare una «anacronistica struttura sociale-demografica», con la «forma modernissima di produzione» del tipo americano fordista: in America vi è «“una composizione demografica razionale” e consiste in ciò che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie» (ivi, -). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «americanismo», «classe, classi», «Europa», «fordismo».



COMPROMESSO

compromesso

Comuni medievali

G. sa bene che la necessità del compromesso è insita nell’azione politica e critica l’«economismo» deterministico che nega la lotta per l’egemonia, fondata sul compromesso tra gruppi sociali alleati. L’economismo e tutte le teorie «così dette dell’intransigenza», infatti, si basano sulla «convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in più la persuasione di un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti palingenetici, risulta l’inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa volontaria» (Q , , -). La necessità del compromesso è più che mai evidente nella creazione di un nuovo «blocco storico economico-politico» (il riferimento sembra all’Unione Sovietica), poiché «due forze “simili” non possono fondersi in organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi» (ibid.). G. respinge «il ricorso alle armi e alla coercizione», ritenendo che «l’unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la “buona volontà” e l’entusiasmo» (ivi, -). Certo, tutto dipende da quale tipo di compromesso si mette in campo. A tal proposito scrive G.: «Il fatto dell’egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l’essenziale, poiché se l’egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica» (Q , , ).

L’età dei Comuni medievali, al pari di quella di Roma imperiale, è reputata in Italia il periodo in cui il popolo italiano è «“nato”» o «“sorto”», sicché parole come «“Rinascimento”» o «“Risorgimento”», difficili da tradurre in altre lingue, fanno riferimento al «ritorno a uno stato già esistito anteriormente» (Q , , ). G. non sembra aderire alla suddetta concezione, ma ricorda che proprio nell’età comunale i «popolani» acquisirono la consapevolezza della loro forza: in una rubrica del miscellaneo Q  G. rammenta infatti che la necessità di formare forze militari quanto più consistenti possibili per fronteggiare le guerre tra i vari Comuni funzionò da eccitante di «formazioni di partito»: gli ex combattenti come pedites, inizialmente accogliendo anche sparuti milites appartenenti ai ceti nobiliari, restarono uniti infatti anche durante la pace, costituendo ad esempio a Bologna le «“Società d’armi”». Essi si proponevano non solo di difendere il Comune dai nemici esterni, ma anche di tutelare ogni popolano dalle «aggressioni dei nobili e dei potenti» e di adempiere a una serie di obblighi simili a quelli delle confraternite, attraverso un «ente a parte» (Q , , ) con proprie leggi, che somigliava a un vero e proprio partito ed era guidato dal capitano del popolo. Grazie a questa organizzazione il popolo riuscì – nota G. – a «fare accettare negli Statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al “Popolo” e di uso interno» (ivi, ). Così esso giunse in alcuni casi (a Siena dopo il , a Bologna con gli ordinamenti «“Sacrati”» e «“Sacratissimi”» e a Firenze con gli «“Ordinamenti di giustizia”») a «dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante» (ibid.). Da un punto di vista economico, G. invece ricorda – sulla scorta di Barbadoro , recensito da Antonio Panella su “Pègaso” nel  – che la classe dominante, colpita dalle imposte dirette, tendeva a scaricare i pesi fiscali sulla popolazione attraverso le imposte sul consumo, causando così lo sviluppo di una prima forma di debito pubblico con i prestiti o «anticipazioni che i ceti abbienti fanno per i

GUIDO LIGUORI V. «blocco storico», «coercizione», «determinismo», «economismo», «egemonia», «URSS».

COMUNI MEDIEVALI

bisogni dell’erario, assicurandosene il rimborso attraverso le gabelle» (Q , , ). Nell’imposta diretta e nel debito pubblico consistevano le «basi essenziali della struttura economica del Comune» (ibid.). Si iniziò a seguire «un principio di giustizia distributiva», migliorando anche il sistema dell’imposta diretta, solo con il regime signorile, che sovrastava «agli interessi delle classi sociali», finché nel , ormai «agli albori del principato mediceo e al tramonto dell’oligarchia», nacque il catasto. G. annota che la borghesia comunale non fu in grado di «superare la fase economico-corporativa» (ivi, -), come dimostra il libro di Barbadoro, e che uno sviluppo statale poteva realizzarsi solo con il principato e non con i Comuni medievali e le loro repubbliche. La transizione dallo Stato corporativo repubblicano a quello monarchico assoluto è simboleggiata dalla figura di Machiavelli, che pur non volendo prendere le distanze dalla repubblica si rende conto che «solo un monarca assoluto può risolvere i problemi dell’epoca» (Q , , ). In un’altra nota sul «comune medioevale come fase economico-corporativa dello Stato moderno» G. precisa d’altronde che l’opera di Machiavelli dimostra che «una fase del Mondo Moderno è già riuscita a elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative in modo già molto chiaro e approfondito» (Q , , ), laddove Dante chiude invece una fase del Medioevo. Non sono ipotizzabili secondo il pensatore sardo connessioni genetiche tra le concezioni politiche dei due autori: seppure Dante auspicasse una forma di società che costituiva il superamento di quella comunale, e quindi fosse «superiore sia alla Chiesa che appoggia i Neri» che «al vecchio impero che appoggiava i ghibellini» (ivi, ), egli tuttavia prospettava soluzioni con gli occhi rivolti al passato, che gli offriva esempi come «lo schema romano augusteo e il suo riflesso medioevale, l’Impero romano della nazione germanica» (ivi, ). G. esclude pertanto ogni filiazione del principe di Machiavelli dall’imperatore di Dante. Guelfi e ghibellini possono essere considerati d’altra parte un esempio delle lotte che si combattevano nei Comuni medievali tra le varie “fazioni”: il termine, di origine milita-



re, indicava il «carattere delle lotte politiche medioevali, esclusiviste, tendenti a distruggere fisicamente l’avversario», anziché a «creare un equilibrio di partiti in un tutto organico con l’egemonia del partito più forte» (Q , , ). Il passaggio dalla fase «corporativa-economica» (Q , , ) a quella di «Stato moderno (relativamente)» (ivi, ) si è realizzato a Firenze, secondo G., con l’assedio del -, sul cui significato gli storici – G. accenna alla polemica sviluppata sulle colonne del “Marzocco” tra Antonio Panella e Aldo Valori – hanno discusso perché non avevano colto i caratteri delle due fasi, cadendo vittime della «retorica sul Comune medioevale» (ivi, ). I Comuni d’altra parte hanno dimostrato il loro legame con il Medioevo allorché resistettero con il papa a Federico II: per quanto l’imperatore restasse parzialmente ancorato all’epoca medievale come uomo del suo tempo, se ne allontanava secondo il pensatore sardo nella sua «lotta contro la Chiesa», nella «tolleranza religiosa» e nell’«essersi servito di tre civiltà: ebraica, latina, araba» (Q , , ), tentando di amalgamarle. Egli avrebbe potuto fondare pertanto una nuova civiltà laica e nazionale, che si distaccasse da quella universalistica che aveva al suo centro la religione e il potere della Chiesa, in una società di intellettuali cosmopoliti. G. inoltre osserva che, basandosi sul modello della Chiesa, gli intellettuali italiani non avevano un «carattere popolare-nazionale ma cosmopolita»: la storia dei Comuni medievali ebbe fine anche perché non furono in grado di dare vita a una «propria categoria di intellettuali» e quindi di «esercitare un’egemonia oltre che una dittatura» (LC , a Tatiana,  settembre ). Furono così uno «stato sindacalista» e non riuscirono a diventare «Stato integrale come indicava invano il Machiavelli che attraverso l’organizzazione dell’esercito voleva organizzare l’egemonia della città sulla campagna» (ibid.). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «borghesia comunale», «Dante», «debito pubblico», «economico-corporativo», «intellettuali», «intellettuali italiani», «Machiavelli», «nazionalepopolare», «Rinascimento», «Risorgimento».



COMUNISMO

comunismo: v. società regolata. concezione del mondo «Concezione del mondo» è espressione usata da G., al pari di «ideologia», ma in un senso ancora più largo, per indicare il terreno connettivo sul quale sorgono gradi diversi di elaborazione delle capacità del soggetto di interpretare la realtà; per cui, ad esempio, «filosofia significa più specialmente una concezione del mondo con caratteri individuali spiccati, senso comune è la concezione del mondo diffusa in un’epoca storica nella massa popolare» (Q , , ). Espressione largamente diffusa nella filosofia del tempo (G. stesso cita un articolo di Gentile su La concezione umanistica del mondo: Q , , ), «concezione del mondo» fa dunque parte di una famiglia di lemmi che definisce l’articolazione del concetto gramsciano di ideologia ed è perciò contigua a religione, conformismo, senso comune, folclore. Più raramente nei Q si trovano, con significato analogo, anche espressioni quali «visione del mondo», «concezione generale della vita», «concezione del mondo e della vita», «concezione della realtà». L’espressione compare per la prima volta in Q , , , nella nota intitolata Folklore. Quest’ultimo – scrive G. – dovrebbe essere studiato «come “concezione del mondo” di determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero. Concezione del mondo [...] che è una giustapposizione meccanica di parecchie concezioni del mondo, se addirittura non è un museo di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia». Fin dai primi Q ricorrono espressioni quali «concezione pagana del mondo» (Q , , ), «concezione totalitaria del mondo» e «concezione religiosa del mondo» (Q , , ), «concezione tradizionale popolare del mondo» (Q , , ). In Q , , - l’espressione è usata in rapida successione come sinonimo di filosofia, ideologia, cultura. Ripetutamente (ad esempio in Q , , ) essa è esplicitamente posta come sinonimo esplicativo-rafforzativo di ideologia. Tutti gli individui hanno una loro propria

concezione del mondo, più o meno elaborata, anche grandi intellettuali come Machiavelli (Q , , ), Tolstoj, Manzoni (Q , , ), Pirandello (Q , , ). Marx stesso ha elaborato una concezione del mondo, come appare evidente dall’incipit di Q : «Se si vuole studiare una concezione del mondo che non è stata mai dall’autore-pensatore esposta sistematicamente» (Q , , ). La filosofia della praxis è una concezione del mondo, anzi il marxismo «contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma [...] per diventare una integrale, totale civiltà» (Q , , ). L’espressione, dunque, ha una gamma di utilizzo molto ampia. Indica tanto la filosofia dei semplici, il senso comune, quanto le concezioni elaborate, egemoniche o potenzialmente egemoniche, tanto le grandi idee collettive quanto le elaborazioni individuali dei grandi pensatori che, certo a partire da una concezione del mondo preesistente nella quale si sono formati e hanno vissuto, contribuiscono a elaborarne una nuova e originale. Quest’ultimo è peraltro un processo al quale tutti danno un contributo, poiché G. scrive: «ogni uomo [...] partecipa di una concezione del mondo e quindi contribuisce a mantenerla, a modificarla, cioè a creare delle nuove concezioni» (Q , , ). La concezione del mondo è determinante per l’individuazione delle identità collettive e individuali: «Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare» (Q , , ). Poiché «non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del mondo e si fa sempre una scelta tra di esse» (ivi, ). Anche se altrove la scelta appare relativizzata, poiché G. afferma che non esiste uomo che non partecipi a una concezione del mondo, «sia pure inconsapevolmente» (Q , , ), inintenzionalmente. Tutti partecipano dunque di una concezione del mondo, ad esempio attraverso l’utilizzo di un certo «“linguaggio”» (ibid.), fermo restando che è possibile «elaborare la propria concezione del mondo consapevol-

CONCIO DELLA STORIA

mente e criticamente» oppure «“partecipare” a una concezione del mondo “imposta” dal di fuori» (ibid.). Riguardo al linguaggio, per G. «ogni lingua è una concezione del mondo integrale» (Q , , ) e la lotta fra concezioni del mondo – parte fondamentale della lotta fra egemonie – può assumere anche la forma di lotta fra lingue diverse, ad esempio, nel Rinascimento, fra quella «borghese-popolare che si esprimeva nel volgare» e quella «aristocratico-feudale che si esprimeva in latino» (ivi, -). E ancora: «dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo» (Q , , ). Una concezione del mondo può avere carattere prevalentemente religioso o prevalentemente politico o altro, ma la sua particolare “coloritura” è piuttosto contingente, varia in base al momento storico o al contesto sociale. G. infatti scrive che «ogni uomo tende ad avere una sola concezione del mondo organica e sistematica, ma poiché le differenziazioni culturali sono molte e profonde, la società assume una bizzarra variegazione di correnti che presentano un colorito religioso o un colorito politico a seconda della tradizione storica» (Q , , -). Rilevante è la connessione con la religione, oltre che in senso proprio, in senso “crociano”: «Per il Croce [...] è religione ogni filosofia, cioè ogni concezione del mondo [...] come stimolo all’azione» (Q  I, , ). Del filosofo neoidealista G. rifiuta la distinzione tra filosofia e ideologia: «la distinzione è solo di grado; è filosofia la concezione del mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale [...] di un intero gruppo sociale [...] è ideologia ogni particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e circoscritti» (Q  I, , ). G. si pone il problema – che riguarda il partito rivoluzionario – della diffusione e dell’affermazione di una nuova concezione del mondo, che soppianti le precedenti e affermi i valori della nuova classe, e si chiede: «Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo? [...] la ricerca interessa specialmente per ciò che riguarda le masse popolari, che più diffi-



cilmente mutano di concezione, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma “pura”, per dir così, ma solo e sempre come combinazione più o meno eteroclita e bizzarra [...] Si può concludere che il processo di diffusione delle concezioni nuove avviene per ragioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma che l’elemento formale, della logica coerenza, l’elemento autoritativo e l’elemento organizzativo hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l’orientamento generale è avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi» (Q , , -). L’intreccio di fattori “spontanei” e consapevoli, l’importanza di un lavoro organizzato di irradiazione delle ideologie, l’ancoraggio a precise istanze sociali sono tutti elementi che rimandano allo scenario del sorgere e soprattutto dell’affermarsi di una nuova egemonia. GUIDO LIGUORI V. «conformismo», «egemonia», «filosofia della praxis», «folclore, folklore», «ideologia», «intellettuali», «linguaggio», «religione», «senso comune», «Sorel».

concio della storia I Q sono in primo luogo una riflessione sulla sconfitta, un’indagine sulle sue cause e sulle possibilità di una “ripartenza”: la sconfitta delle classi subalterne, del movimento comunista, delle speranze di una “città futura” da realizzare a breve termine. La sconfitta di fronte al nazifascismo, certo, ma anche – ciò appare probabilmente sempre più chiaro a G. in carcere – la probabile sconfitta a fronte dei processi di modernizzazione capitalistica incarnati dall’americanismo e delle varie forme di rivoluzione passiva davanti a cui le risposte della prima società e del primo Stato “socialisti” erano state a volte eroiche, ma anche nel loro insieme primitive e insufficienti. Il sentimento della sconfitta raramente è presente nei Q (maggiormente in assoluto lo è nelle LC) come nel breve Q , , , un Testo B in cui vi è certo un’eco autobiografica, elevata a riflessione generale. Compare qui la metafora del «concio della storia», di coloro che accettano di essere “concime” per il futuro, sapendo che è inu-



CONCORDATO

tile sperare di vincere nell’immediato, ma che non per questo si deve rinunciare a battersi, non per questo è giusto «tirarsi indietro, rientrare nel buio, nell’indistinto»: essi scelgono di operare per «ingrassare la terra», per “l’aratore” che verrà in futuro. Non è un gesto retoricamente “eroico”: un atto di eroismo, come la morte, dura un attimo. Qui si tratta di sacrificarsi «a lungo», di rinnovare la decisione di questo sacrificio di continuo. La retorica del «giorno da leone» lascia il posto all’accettare di vivere «da sottopecora per anni e anni». È il laico attaccamento ai propri ideali e alla certezza che essi saranno ripresi e portati avanti: per chi domani si sobbarcherà tale compito, il sacrificio e il lavoro apparentemente inutili dell’oggi si riveleranno preziosi. Come l’esempio di G. e il suo lascito teorico in effetti sono stati. GUIDO LIGUORI V. «americanismo», «americanismo e fordismo», «autobiografia», «fascismo», «passato e presente», «rivoluzione passiva», «sconfitta».

Concordato Le riflessioni di G. sul Concordato sono strettamente connesse con la «quistione vaticana». Esse sono contenute un po’ in tutte le note dei Q relative al tema del rapporto tra Stato e Chiesa, ma c’è un luogo in cui G. le raccoglie in maniera unitaria: il Q . Due le critiche fondamentali che l’autore muove al Concordato e alla prassi concordataria: politicamente è una forma di sottrazione di sovranità allo Stato a favore della Chiesa; tecnicamente è uno strumento giuridico inadeguato per risolvere la questione di ordine internazionale, rappresentata appunto dal rapporto tra due ordini ineguali: lo Stato liberale, sede di sovranità “nazionale”, e la Chiesa e il Vaticano, sede di sovranità internazionale (Q , , - e Q , , -). Più sviluppati i motivi della prima critica. L’intera politica concordataria viene giudicata da G. da un lato come la rinuncia da parte dello Stato a svolgere certi ruoli essenziali nella società civile, ai quali abdica invece a favore di un ente privato (la Chiesa), dall’altro come un segno della ripresa politica della Chiesa e del suo ruolo primario – quel-

lo ideologico – nella società civile. Ruolo che dai Patti Lateranensi esce rafforzato a causa del riconoscimento di una serie di privilegi a una casta privata: autonomia e protezione statale assicurata alle istituzioni ecclesiastiche, specie a quelle educative e formative: l’Azione cattolica (l’unica forma di associazionismo popolare – per G., in realtà, associazionismo “politico” – ammessa dal fascismo), le scuole confessionali, l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole statali, l’Università cattolica del Sacro Cuore, le parrocchie sovvenzionate dallo Stato. Una serie di privilegi politici accordati a una casta privata, dalla quale lo Stato riceve in cambio unicamente il sostegno al proprio potere mediante un’opera di organizzazione del consenso dei cittadini, ciò che denota, però, una situazione di debolezza dello Stato nel non poter o non saper ottenere questo consenso. Nello stesso momento in cui lo Stato ricorre, per questo, all’ausilio della Chiesa, le riconosce una superiorità ideologica. Una situazione che a G. pare ripetere il sistema di potere tipico del Medioevo, il sistema delle due sovranità, temporale e spirituale, con specifici ambiti di competenza e di intervento, ma con la pretesa di superiorità della prima (la Chiesa) sulla seconda (lo Stato) in base al principio della maggiore o minore “dignità dei fini”. Scrive G.: «La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione (sia pure di una speciale determinata giurisdizione) [...] Mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dell’altra parte: se limitazione esiste per questa altra parte, essa si

CONFORMISMO

riferisce all’attività svolta nel territorio del primo Stato, sia da parte dei cittadini della Città del Vaticano, sia dei cittadini dell’altro Stato che si fanno rappresentare dalla Città del Vaticano. Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito – afferma G. – di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale». E chiarisce: «Non si tratta certo più della stessa forma di sovranità supernazionale (suzeraineté) quale era formalmente riconosciuta al papa nel Medio Evo, fino alle monarchie assolute e in altra forma anche dopo, fino al , ma ne è una derivazione necessaria di compromesso». Infatti «i concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno». E la contropartita che ottiene in cambio «la ottiene nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini. Lo Stato tiene (e in questo caso occorrerebbe dire meglio il governo) che la Chiesa non intralci l’esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga, così come una stampella sostiene un invalido. La Chiesa cioè si impegna verso una determinata forma di governo (che è determinata dall’esterno, come documenta lo stesso concordato) di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri: ecco in che consiste la capitolazione dello Stato, perché di fatto esso accetta la tutela di una sovranità esteriore di cui praticamente riconosce la superiorità. La stessa parola “concordato” è sintomatica» (Q , , -; Testo A: Q , , -). TOMMASO LA ROCCA V. «Azione cattolica», «Cavour», «Chiesa cattolica», «consenso», «fascismo», «quistione vaticana», «religione», «società civile».

conformismo «Conformismo significa poi niente altro che “socialità”, ma piace impiegare la parola “conformismo” appunto per urtare gli imbecilli» (Q , , ). Questa lapidaria definizione gramsciana fa comprendere come «conformismo» spesso nei Q sia da intendere quale opposto di “individualismo”, piuttosto che di “eterodossia”. G. indaga il rap-



porto tra individuo e gruppo socio-culturale di appartenenza, giungendo alla conclusione che «per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi» (Q , , ). Tale visione dell’individuo, definito intrinsecamente a partire dal suo rapporto con gli altri, e della società, divisa in sottoinsiemi in cui si intrecciano momenti socio-economici e culturali, porta l’autore a respingere l’impostazione etica kantiana, che presuppone una società, un mondo, una cultura omogenei, cioè – afferma G. – «un conformismo “mondiale”» (Q , , ). Se dunque nei primi Q il termine «conformismo» è usato con una valenza non particolarmente significativa, come opposto di “eterodosso” – si parla ad esempio di «un corso di pensieri poco conformista» (Q , , ) – a partire dal Q  esso assume (accanto al significato tradizionale, che permane, v. ad esempio Q , , ) anche una curvatura particolare, che lo porta a far parte della famiglia di lemmi connessi alla visione gramsciana dell’ideologia come concezione del mondo. Il nuovo significato inizia a delinearsi in riferimento al diritto, alla sua «funzione [...] nello Stato e nella Società», poiché «attraverso il “diritto” lo Stato [...] tende a creare un conformismo sociale» (Q , , ). Poche pagine dopo, in Q , , , nella nota intitolata I costumi e le leggi, G. parla analogamente di «conformismo segnato dal diritto». E più avanti (Q , , ) pone la «quistione dell’“uomo collettivo” o del “conformismo sociale”», ovvero del «compito educativo e formativo dello Stato» (ibid.). Il termine assume così a volte un significato vicino a «ideologia» e viene rapportato alla lotta per l’egemonia: «il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra “due conformismi” cioè di una lotta di egemonia» (Q , , ); «la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale)» (Q , , ). Si tratta di lottare contro il conformismo «autoritario» e «retrivo» per approdare all’«uomo-collettivo»,



CONGIUNTURA

sviluppando l’«individualità e [una, ndr] personalità critica» (Q , , ), sulla base di un nuovo rapporto tra singolo e collettività: «Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura [...] avendo creato un nuovo “conformismo” dal basso, permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale» (Q , , ). Sarà anche compito del partito, del «moderno Principe», affrontare «la quistione dell’uomo collettivo, cioè del “conformismo sociale” ossia del fine di creare un nuovo livello di civiltà» (Q , , ). Da segnalare infine che G. parla anche di «conformismo grammaticale» o «linguistico» (Q , , -): la grammatica come azione “normativa” per omogeneizzare gruppi e classi sociali, dare loro identità, stabilire gerarchie. Fondamentale tale conformismo linguistico in relazione alla nazione, come indica lo stesso titolo di Q , , : Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali, che in buona parte coincide con l’apparato egemonico proprio dello «Stato integrale»: «) La scuola; ) i giornali; ) gli scrittori d’arte e quelli popolari; ) il teatro e il cinematografo sonoro; ) la radio; ) le riunioni pubbliche» (ibid.). GUIDO LIGUORI V. «apparato egemonico», «concezione del mondo», «ideologia», «individualismo», «individuo», «libertà», «lingua», «moderno Principe», «nazione».

congiuntura Il termine ha nei Q la sorte singolare di ricevere due diverse definizioni sotto la medesima rubrica Nozioni enciclopediche. La prima di esse (Q , , , marzo-agosto ) la fissa come «fluttuazione economica», subordinandola come aspetto secondario al concetto di «situazione»: «la congiuntura sarebbe il complesso dei caratteri immediati e transitori della situazione economica», mentre quest’ultima rinvia ai «caratteri più fondamentali e permanenti della situazione stessa»: esse si rapportano come la «“tattica”» al-

la «“strategia”». Nella seconda definizione, assai più tarda (aprile-maggio ), la congiuntura è definita «come l’insieme delle circostanze che determinano il mercato in una fase data, se però queste circostanze sono concepite come in movimento, cioè come un insieme che dà luogo a un processo di sempre nuove combinazioni, processo che è il ciclo economico. Si studia la congiuntura per prevedere e quindi anche, entro certi limiti, determinare il ciclo economico in senso favorevole agli affari. Perciò la congiuntura è stata anche definita l’oscillazione della situazione economica, o l’insieme delle oscillazioni» (Q , , ). Il significato è qui straordinariamente più complesso, indicando non solo l’insieme di elementi che si “congiungono” a determinare la situazione, ma ciò, secondo una prospettiva dinamica, in cui la situazione attuale diventa un “ciclo” e la stabilità o permanenza è data solo da un “sistema di oscillazioni”. In questo passaggio si riflette tutta la ricerca attorno al «“mercato determinato”» (Q , , ) e ai «“rapporti di forza”» (Q , , -), dove i fattori o movimenti «congiunturali» sono stati sempre più strettamente collegati a quelli «permanenti», fino all’affermazione che le lotte politiche tra le forze sociali «sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell’insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo» (ivi, ). FABIO FROSINI V. «crisi», «economia», «mercato determinato», «rapporti di forza».

consenso Il lemma compare nei Q con un ampio spettro di significati, spesso tra virgolette, a segnalarne l’ambivalenza e la problematicità. Esso innanzitutto è associato al concetto di egemonia, di cui a volte è sinonimo. Nel suo uso G. fluttua tra un consenso spontaneo e un consenso ricercato e ottenuto dallo Stato, dalle istituzioni, che può essere attivo e diretto o passivo e indiretto (Testo A: Q , , ; Testo C: Q , , ). Esso cioè da una parte è una modalità di espletazione della de-

CONSENSO

mocrazia e dell’autogoverno, dall’altra può essere apparenza, effetto delle società tendenzialmente totalitarie del Novecento. G. giornalista del “Grido del popolo” usa l’espressione «consenso dei governati» già nel commento agli eventi dell’Ottobre russo, in specie riferendosi all’introduzione del suffragio universale esteso anche alle donne: «In Russia tende a realizzarsi così il governo col consenso dei governati, con l’autodecisione di fatto dei governati, perché non vincoli di sudditanza legano i cittadini ai poteri, ma si avvera una compartecipazione dei governanti ai poteri» (Per conoscere la rivoluzione russa,  giugno , in NM ). Nei Q poi l’espressione “consenso dei governati” è ricorrente, inizialmente nell’ambito della descrizione della dottrina hegeliana dello Stato, connesso e rafforzato da una «trama privata» articolata in partiti e associazioni. La dottrina hegeliana è per G. la logica conclusione della fase storico-politica aperta dalla Rivoluzione francese e avente il suo esito nel costituzionalismo inteso come «Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato» (Q , , ), in quanto «l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata» (Q , , ), derivante dal fatto che «lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche “educa” questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente» (Q , , ). In una nota del Q  intitolata I comuni medioevali come fase economica-corporativa dello sviluppo moderno G. nota che «la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economico-corporativa, cioè a creare uno Stato “col consenso dei governati” e passibile di sviluppo» (Q , , ). Dalla fase economico-corporativa a quella etico-politica o egemonica dello Stato, ossia dalla preistoria alla storia dello Stato moderno, si passa attraverso l’acquisizione del consenso dei governati. E che sia così, soprattutto in riferimento agli Stati democratici del Novecento, ma anche a quelli socialisti, lì dove questi ultimi si pongano nell’ottica della dialettica democrazia-socialismo, a G. pare evidente. Infatti «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un ope-



raio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone, sia pure “astrattamente”, nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine» (Q , , -). In questa accezione la democrazia mette a disposizione delle classi subalterne gli strumenti, specie culturali, determinanti per la transizione al socialismo. Nella definizione di Stato quale intreccio di società politica e società civile, cioè «egemonia corazzata di coercizione» (Q , , -), e nelle rielaborazioni di tale definizione che si incontrano nei Q, è possibile rinvenire spesso la sostanziale coincidenza del significato di egemonia e di consenso. Ad esempio, affrontando la questione dell’opinione pubblica, G. lascia chiaramente intendere come essa sia strettamente connessa «con l’egemonia politica, è cioè il punto di contatto tra la “società civile” e la “società politica”, tra il consenso e la forza» (Q , , ), dove «consenso» corrisponde alla società civile e «forza» alla società politica. Ancora più chiaramente, discutendo di Croce e Gentile, G. delinea la distinzione dei due momenti che, come avviene per il filosofo siciliano, ove dovessero corrispondere darebbero vita a uno Stato molto lontano da quello liberale-democratico: «il Croce vuole mantenere una distinzione fra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura; i grandi intellettuali esercitano l’egemonia, che presuppone una certa collaborazione, cioè un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale-democratico. Il Gentile pone la fase corporativo[-economica] come fase etica nell’atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato-governo, ecc.» (Q , , ). E, proseguendo nell’apprezzamento, almeno in questo ambito, del pensiero crociano, G. afferma che Croce «ha energicamente attirato l’attenzione sull’impor-



CONSENSO

tanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto» (Q  I, , ). Nelle note carcerarie il lemma “consenso” compare anche nella definizione dello Stato: «Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (Q , , ). Quindi G. aggettiva il consenso come «attivo» e lo specifica come «dei governati». Attraverso la discussione con i fondatori della scienza politica, Machiavelli, Guicciardini e Bodin, diventa chiaro a G. come il concetto di “consenso” sia il cuore delle questioni relative alla fondazione di un nuovo tipo di Stato: «in lui [Machiavelli, ndr] è contenuto in nuce anche l’aspetto etico-politico della politica o la teoria dell’egemonia e del consenso, oltre all’aspetto della forza e dell’economia» (Q  II, .X, ); e nella sua opera fondamentale, Il Principe, non mancano «gli accenni al momento dell’egemonia o del consenso accanto a quelli dell’autorità o della forza» (Q , , ). Nonostante queste novità certamente rivoluzionarie, «la “democrazia” del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice dell’anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l’appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale, centralizzato, ecc.» (Q , , ). Anche Guicciardini offre motivi di riflessione intorno al nesso dialettico forza-consenso: «Affermazione del Guicciardini che per la vita di uno Stato due cose sono assolutamente necessarie: le armi e la religione. La formula del Guicciardini può essere tradotta in varie altre formule, meno drastiche: forza e consenso, coercizione e persuasione, Stato e chiesa, società politica e società civile, politica e morale (storia etico-politica del Croce), diritto e libertà, ordine e disciplina, o, con un

giudizio implicito di sapore libertario, violenza e frode» (Q , , -). Ma soltanto con Bodin, ossia in presenza della forma moderna dello Stato, tali formule trovano la loro autentica applicazione: «Il Bodin fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto più avanzato e complesso di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all’epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell’interno di questo Stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo stato è talmente cosciente della sua forza e della sua dignità, conosce così bene che la fortuna della Monarchia assoluta è legata alla propria fortuna e al proprio sviluppo, che pone delle condizioni per il suo consenso, presenta delle esigenze, tende a limitare l’assolutismo» (Q , , ). Eppure il punto di riferimento della scienza politica non può che essere il Segretario fiorentino: «Altro punto da fissare e da svolgere è quello della “doppia prospettiva” nell’azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai più elementari ai più complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro machiavellico, ferina e umana, della forza e del consenso, dell’autorità e dell’egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale [...], dell’agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia ecc.» (Q , , ). Il ruolo dirigente esercitato dalla borghesia francese all’epoca della rivoluzione del  ha creato intorno ad essa un consenso attivo delle classi popolari a cui «si sostituisce il consenso indiretto, ossia la passività politica (suffragio universale-suffragio censitario)» (Q , , ) nel momento in cui subentra al potere una gerarchia composta da elementi aristocratici. Il consenso attivo risiede nel rapporto che si stabilisce fra chi governa e chi è governato, un rapporto «dato dal fatto che i governanti fanno gli interessi dei governati e pertanto “devono” averne il consenso, cioè

CONSENSO

deve verificarsi l’identificazione del singolo col tutto, il tutto (qualunque organismo esso sia) essendo rappresentato dai dirigenti» (Q , , ). È quindi il consenso ottenuto che specifica la capacità dirigente di una classe; quando viene meno tale consenso si è in presenza di una crisi che investe lo Stato nel suo complesso (Q , , ), quello stesso Stato che è dato dal «consenso attivo dei governati» (Q , , ); si tratta di una crisi di consenso. La “passività politica” delle grandi masse, a sua volta, è una forma di attività in quanto è una ricerca di soluzione a una crisi di consenso dello Stato. Ci sono organismi per i quali è questione vitale «non il consenso passivo e indiretto, ma quello attivo e diretto, la partecipazione quindi dei singoli» (Q , , ). Il «consenso [attivo]», inoltre, ricorda G., appartiene alla fase «“egemonica”» (Q , , ) dello sviluppo dello Stato, ne è un momento determinante; in questo modo vengono poste le basi della critica del concetto crociano di storia etico-politica, che viene definito «una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’egemonia, della direzione politica, del consenso, nella vita e nello svolgimento dell’attività dello Stato e della società civile» (Q  I, , ). Il consenso è attivo quando i governati partecipano alla vita dell’organismo statale alla cui guida ci sono governanti da essi accettati; il consenso è passivo quando i governati sottoscrivono con atti formalmente democratici (il suffragio) l’accettazione di coloro che li guidano e che, perciò, in un’ottica di democrazia formale, tendenzialmente li dominano; esiste poi una terza forma di consenso, quello spontaneo «che nasce “storicamente” dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione» (Q , , ). La gestione del consenso spontaneo è considerata da G. una funzione subalterna dell’egemonia sociale e del governo politico affidata agli intellettuali quali “commessi” del gruppo dominante. A loro spetta anche curare il funzionamento «dell’apparato di coercizione statale che assicura “legalmente” la disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente né passivamente, ma è costi-

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tuito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo vien meno» (ibid.). Inoltre è necessaria una sorta di preparazione al consenso: «Il massimo di capacità del legislatore si può desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso “spontaneo” delle masse che devono “vivere” quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere» (Q , , ). Fra chi governa e chi è governato operano gli intellettuali organici al gruppo dominante, che preparano il «consenso “spontaneo”» (ibid.), dove ovviamente «spontaneo» non può che essere tra virgolette, a significare come esso sia spontaneo solo in apparenza. Ci sono poi dei casi particolari in cui il consenso è richiesto a partire da una situazione in cui lo Stato da solo non è nelle condizioni di ottenerlo: «La Chiesa [...] si impegna verso una determinata forma di governo (che è determinata dall’esterno, come documenta lo stesso concordato) di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri» (Q , , ). È il caso del fascismo il quale, non potendo ottenere, nella costruzione dello Stato totalitario, il consenso di tutti i governati, ricorre alla Chiesa (anche grazie al Concordato) per ottenere il consenso di quella «parte dei governati» che non potrebbe avere in modo diverso, cioè facendo ricorso alle strutture del partito e alla sua propaganda. BIBLIOGRAFIA: BUCI-GLUCKSMANN ; CANFORA ; GERRATANA ; TORTORELLA . LELIO LA PORTA V. «armi e religione», «Bodin», «Concordato», «democrazia», «direzione», «economico-corporativo», «egemonia», «governati-governanti», «Guicciardini», «intellettuali», «intellettuali organici», «Machiavelli», «opinione pubblica», «prestigio», «società civile», «Stato», «suffragio universale».

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CONSIGLI DI FABBRICA

Consigli di fabbrica: v. Ordine Nuovo (L’). consiliarismo: v. Ordine Nuovo (L’). consumo Analizzando la grande crisi degli anni Trenta, G. – contro le interpretazioni liberali, come quella di Einaudi, che vedevano il crollo di Wall Street come un fenomeno congiunturale – ne evidenzia il carattere “organico”, risultato di un processo complesso che rifiuta una spiegazione monocausale. A tal proposito, il pensatore sardo respinge sia la lettura di Giovanni Agnelli (che pure, interpretando la crisi in chiave di sottoconsumo e disoccupazione tecnologica, auspicava interventi di riduzione d’orario e aumenti salariali: Q  II, ), sia quella di Pasquale Jannaccone (che al contrario, vedendovi la rottura dell’equilibrio dinamico tra consumo e risparmio, chiedeva politiche deflazionistiche di bassi salari: Q , ). G. osserva come «nella distribuzione del reddito nazionale attraverso specialmente il commercio e la borsa, si sia introdotta, nel dopoguerra [...], una categoria di “prelevatori” che non rappresenta nessuna funzione produttiva necessaria e indispensabile, mentre assorbe una quota di reddito imponente» (ivi, ). Inoltre sottolinea in Q  II, ,  come vadano sempre più crescendo le forze di consumo in confronto a quelle di produzione, per cui «può avvenire che una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria». Se in Italia ancora troppo forte era il peso della rendita fondiaria, in Inghilterra svolgevano un ruolo preminente, rispetto a quelle industriali, le attività commerciali e di servizio. Questo genere di attività improduttive era invece ridotto al minimo negli Stati Uniti. Qui il fordismo fondava un’organizzazione sociale razionale, sottomettendo alla produzione sia il commercio sia la distribuzione e i servizi, cosa che rendeva il paese-guida della razionalizzazione produttiva pericolosamente esposto al parassitismo di borsa (Q , , -). VITO SANTORO V. «fordismo», «parassitismo», «salario».

contadini Grandissima è l’attenzione di G. al tema dei contadini già negli scritti precarcerari. Nel primo elenco di argomenti dei Q (dell’ febbraio : Q , p. ) non troviamo la voce «contadini», ma altre a essa connesse: «Formazione dei gruppi degli intellettuali italiani»; «Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa»; «Il concetto di folklore». E, soprattutto, le seguenti: «La “quistione meridionale” e la quistione delle isole» e «Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell’emigrazione». Questi ultimi due argomenti sono assenti nell’elenco stilato all’inizio del Q  (), dove però trovano spazio altri temi inerenti alla questione contadina, tra cui: «Folclore e senso comune»; «La quistione della lingua letteraria e dei dialetti»; «Storia dell’Azione Cattolica»; «L’assenza di “giacobinismo” nel Risorgimento italiano» (Q , pp. -). I Q - sono ricchi di spunti di analisi socio-economica sulla questione contadina; si tratta prevalentemente di Testi B, che non trovano ulteriori approfondimenti e rimangono interessanti indicazioni di lavoro. Le condizioni materiali della classe contadina (abitazione, alimentazione, alcolismo, pratiche igieniche, abbigliamento), il movimento demografico (mortalità, natalità, mortalità infantile, nuzialità, inurbamento), le condizioni socio-giudiziarie dei contadini (la frequenza dei reati di sangue e altri reati economici: frodi, furti, falsi, nascite illegittime), la litigiosità giudiziaria per questioni di proprietà (ipoteche, subaste per imposte non pagate), i movimenti della proprietà terriera, le condizioni culturali (orientamento della psicologia popolare nell’ambito della religione e della politica, frequenza scolastica dei fanciulli, analfabetismo delle reclute e delle donne) dovrebbero essere, per G., temi di analisi statistico-scientifica più accurata (Q , , ). G. si domanda se questi argomenti siano stati trattati nel Risorgimento, da chi e come, visto che da esso non è partita una crescita d’interesse sulle condizioni di vita nelle campagne. I dati relativi a fenomeni macroscopici quali la pellagra (Q , , ) o la fame endemica (Q , , ) hanno avuto una diffusione solo parziale, malgrado

CONTADINI

sia stato statisticamente dimostrato che i braccianti meridionali (contadini senza terra) a stento giungano alle . calorie annue, ossia i due quinti della media stabilita dagli scienziati per la sopravvivenza. Per quanto riguarda la vita sessuale nelle campagne italiane dei primi lustri del secolo, G. osserva che vi avvengono i reati più mostruosi e più numerosi. Nell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno si afferma che in Abruzzo e Basilicata (maggiore patriarcalismo e maggiore fanatismo religioso) si ha l’incesto nel  per cento delle famiglie. In campagna è molto diffuso il bestialismo. La funzione della riproduzione non è solo legata al mondo produttivo, ma anche al rapporto tra i lavoratori attivi e il resto della popolazione: lo spettacolo di come siano bistrattati nei villaggi i vecchi e le vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare figli. I progressi dell’igiene pubblica hanno però elevato la speranza di vita anche nelle campagne, ponendo il problema del sovrappopolamento. I contadini sono possessori di cultura a livello di folklore, privi dell’organicità propria del pensiero filosofico. Indizio sulla cultura folklorica contadina è dato dal linguaggio rurale, che G. conosce per esperienza giovanile e carceraria, vero “laboratorio glottologico” per il G. linguista: molti termini nel lessico corrente, come “cristiano” per indicare “uomo” o “villano” per “mascalzone”, testimoniano come i contadini siano storicamente privi di aggregazione e di intellettuali organici (Q , , ). I contadini continuano a non comprendere il “progresso” e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità “magica”, medievale, religiosa (Q  II, , ). G. osserva che come il ragazzo di una famiglia di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico allo studio, così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini; «ecco perché molti del “popolo” pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un “trucco” [...]; vedono il “signore” [...] compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue» (Q , , ). In letteratura, persino dove si ammette che i contadini possano avere una dignità

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umana essi sono considerati con un distacco che li costringe entro i limiti della loro condizione sociale. G. non allude solo agli autori annoverabili come «nipotini di padre Bresciani», ma anche a Giovanni Verga. «Sarebbe da studiare», afferma infatti G., «se il naturalismo francese non contenesse già in germe la posizione ideologica che poi ha grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga», per cui il popolo della campagna è visto con «“distacco”», come «“natura”» estrinseca allo scrittore, come spettacolo naturale ecc. Questa posizione si innestò nell’ideologia preesistente in cui esiste lo stesso distacco dagli elementi popolari, ad esempio nei Promessi sposi di Manzoni, appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale (Q , , ). Sono inoltre per G. molto interessanti alcune pagine, ad esempio di D’Annunzio, in cui i contadini sono raffigurati con tinte epiche ed eroiche, ricche di elementi emotivi ma prive di concetti politici reali (Q , , ). Le classi rurali sono subalterne in quanto la loro memoria storica è relegata ai fenomeni del ribellismo, del lazzaronismo, al folklore ed è priva di dignità storiografica (esemplare la vicenda di Lazzaretti, Q ,  e Q , , poi Q , ,  ss.). Storicamente, il protagonismo politico dei contadini è stato teorizzato da Machiavelli, che però limita al loro coinvolgimento esclusivamente al piano militare e non politico (Q , , ). L’assenza di intellettuali organici ha fatto sì che i contadini siano stati egemonizzati dalla Chiesa e dagli intellettuali organici alla classe dei possidenti meridionali (Giustino Fortunato e Benedetto Croce). Gli intellettuali di tipo rurale hanno la funzione politica di mettere in contatto la massa contadina con l’amministrazione statale o locale (avvocati, notai ecc.) e i possidenti. Nella campagna l’intellettuale (prete, avvocato, maestro, notaio, medico ecc.) rappresenta per il contadino medio un modello sociale: il contadino pensa sempre che almeno un suo figlio potrebbe diventare intellettuale (specialmente prete), cioè diventare un “signore”, elevando il grado sociale della famiglia e facilitandone la vita economica. L’atteggiamento del «contadino verso l’intellettuale è duplice: egli ammira la posizione sociale dell’intellettuale e in



CONTADINI

generale del dipendente statale, ma finge talvolta di disprezzarla, cioè la sua ammirazione istintiva è intrisa da elementi d’invidia e di rabbia appassionata. Non si comprende nulla dei contadini se non si considera questa loro subordinazione effettiva agli intellettuali» (Q , , ). Da un punto di vista economico numerosi sono i luoghi dei Q in cui G. parla della sovrappopolazione delle campagne, dell’eccedenza del bracciantato, della disoccupazione e della conseguente immigrazione. I contadini sono produttori di plusvalore di cui si avvantaggiano le classi parassitarie (dei mezzadri, degli amministratori, oltre che delle rendite fondiarie), anche nella forma di “pensioni di Stato”. La proprietà, specie fondiaria, è definita dal Codice sociale della Chiesa e dal Sillabo “naturale” e inviolabile; inoltre i poveri devono accontentarsi della loro sorte perché distinzioni di classe e distribuzione della ricchezza sono disposizioni di Dio (Q , , ). Il numero rilevante di grandi e medi agglomerati urbani senza industria è uno degli indizi, forse il più importante, dello sfruttamento parassitario delle campagne. La media e piccola proprietà terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittadina o del borgo. Questo volume enorme di piccola o media borghesia, di «pensionati» e «redditieri», ha creato nell’economia italiana la figura mostruosa del «produttore di risparmio», cioè di una classe numerosa di «usurai» che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare. Questa situazione non si presenta solo in Italia; in misura notevole è diffusa in tutta Europa, più in quella meridionale, sempre meno verso il Nord (Q , , -; v. Q , ). G. propone persino il calcolo delle nuove passività: per effettuare un risparmio di . lire l’anno una famiglia di «“produttori di risparmio”» ne consuma . costringendo alla denutrizione una decina di famiglie di contadini ai quali estorce la rendita fondiaria e altri profitti usurari. Sarebbe da vedere se queste . lire immesse nella terra non permetterebbero un’accumulazione maggiore di risparmio, oltre a elevare il tenore di vita e lo sviluppo intel-

lettuale e tecnico dei contadini (Q , , ). G. confronta il risparmio rurale italiano a quello francese, nettamente superiore, malgrado il tenore di vita francese sia in media superiore. Questo avviene perché in Francia non esistono le classi assolutamente parassitarie né la borghesia rurale (Q , , ). La diffusione dei piccoli proprietari in Francia ( milioni su ) è maggiore rispetto all’Italia ( milione e mezzo su ) (Q , , ). G. sostiene che il fascismo non ha significato la fine dello sfruttamento dei contadini. Nel giugno del  alcuni senatori presentarono un progetto di legge in cui si aumentavano ancora i canoni, nonostante la rivalutazione della lira. Il progetto non fu preso in considerazione, ma rimane come prova dell’offensiva generale dei proprietari contro i contadini (Q , , ). Lo sfruttamento dei contadini non è andato quindi attenuandosi. La tassa sul macinato, immediatamente successiva all’unificazione, risultò insopportabile per i piccoli contadini, che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi. La distribuzione della proprietà ecclesiastica non ha impedito che si formassero nuovi redditieri, ancora più parassitari in quanto non svolgevano neppure le funzioni sociali del clero (beneficenza, cultura popolare, assistenza pubblica ecc.). Per comprendere la differenza tra la classe rurale e quella operaia è importante soffermarsi sulla “mentalità proprietaria” diffusa tra i contadini e descritta da Giuseppe Ferrari, inascoltato specialista in questioni agrarie del Partito d’Azione: i braccianti, cioè i contadini senza terra, hanno una psicologia comune al colono e al piccolo proprietario (Q , , ). Interessante anche la differenza tra «“giornaliero”» agricolo e «contadino» (Q , , ). La questione si pone in forma acuta non solo nel Mezzogiorno, ma anche nella valle padana, dove il fenomeno è più velato. Ma se la posizione di Ferrari è per G. indebolita dal federalismo, Mazzini e Garibaldi spostarono tutta l’attenzione sull’unità e l’indipendenza, trascurando la proprietà della terra (Q , , ). La “terra ai contadini” era stato in Italia un argomento perennemente all’ordine del giorno, già agitato nel  e ripreso nel , nel momento in cui, dopo Caporetto, si ri-

CONTADINI

schiava la diserzione in massa dei contadini dall’esercito e si affermavano gli orientamenti socialisti. In realtà non se ne fece mai nulla: la terra rimase in mano alla borghesia rurale. Quella posseduta dai contadini coltivatori tendeva inoltre a frazionarsi fino alla polverizzazione; questo avveniva per diverse ragioni: a) la povertà, che costringe i contadini a vendere parte della loro poca terra; b) la tendenza delle amministrazioni a opporsi alla monocultura; c) il principio di eredità della terra divisa tra i figli (Q , , ). L’esistenza del bracciantato padano era dovuta alla sovrappopolazione che non trovava sbocco nell’emigrazione, come avveniva nel Sud, ed era artificialmente mantenuta con la politica dei lavori pubblici. I proprietari terrieri del Nord non volevano consolidare in un’unica classe braccianti e mezzadri, alternando quindi le due forme e selezionando un gruppo di mezzadri privilegiati (Q , , ). La crescita del fenomeno del bracciantato del  per cento nei primi decenni del Novecento portò alla diffusione nelle classi rurali italiane del sindacalismo (largamente rappresentato da meridionali) e alla nascita del movimento della «cosidetta “Democrazia cristiana”», in luogo del riformismo e del modernismo, ed era alla base del partito nazionalista di Enrico Corradini (Q , , ). Prevalentemente la classe rurale si è aggregata episodicamente in base a un odio generico e semifeudale, limitandosi a un’individuazione del nemico (Q , , ). La difficoltà storica che sta a cuore a G. è la possibilità di unire le classi urbane a quelle rurali, operazione riuscita al giacobinismo francese e fallita dal Partito d’Azione in Italia. Quest’ultimo avrebbe dovuto legarsi ai contadini, facendo forza da una parte su di essi, accettandone le rivendicazioni elementari e inserendole nel proprio programma di governo, e dall’altra sugli intellettuali. L’esperienza di molti paesi, primo fra tutti la Francia rivoluzionaria – scrive G. –, ha dimostrato che se i contadini si muovono con impulsi “spontanei”, gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Ma data la dispersione e l’isolamen-



to della popolazione rurale e la difficoltà di concentrarla in solide organizzazioni, secondo G. conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in genere però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può anche dire che è quasi impossibile creare partiti contadini nel senso stretto della parola: il partito contadino si realizza in genere come forte corrente di opinione, non già in forme schematiche di inquadramento burocratico; tuttavia individuare l’esistenza anche di un solo scheletro organizzativo tra i contadini è di utilità immensa, anche per impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente su altro terreno. È da osservare il fenomeno della capacità organizzativa acquistata in guerra dalle masse contadine, le quali, distaccandosi dal blocco rurale tradizionale e affidandosi agli ex ufficiali di guerra, spesso si organizzano in forme regionalistiche (Q , , -). Poche sono le note in cui G. affronta la questione contadina nel Sud del mondo: perciò esse sono state accusate dai cultural studies e dai postcolonial studies di occidentalismo ed eurocentrismo. All’America Latina, così come all’India, alla Cina, al mondo arabo, G. attribuisce caratteristiche analoghe a quelle individuate puntualmente nel Mezzogiorno italiano. Il radicamento dell’elemento religioso nel mondo rurale assume caratteristiche diverse a seconda delle situazioni: in India e in Cina, a causa dell’analfabetismo dilagante e della frammentazione etnica e linguistica, un’enorme distanza separa gli intellettuali dal popolo, mentre nel mondo protestante questa differenza è minima (Q , , ). Ciò unitamente a un’economia di tipo parassitario spiegherebbe, per G., il ristagno della storia in questi paesi (Q , , -). BIBLIOGRAFIA: BISCIONE ; VILLARI . ELISABETTA GALLO V. «blocco agrario», «borghesia rurale», «Chiesa cattolica», «città-campagna», «dialetto», «Ferrari», «folclore, folklore», «incesto», «intellettuali», «intellettuali organici», «Manzoni», «Mezzogiorno», «Nord-Sud», «quistione agraria», «quistione meridionale», «quistione sessuale», «Risorgimento», «subalterno, subalterni».



CONTENUTO

contenuto: v. forma-contenuto. contraddizione La contraddizione paradigmatica si dà nel rovesciarsi o declinare di un dato modo di produzione e nella simultanea insorgenza del modo opposto: G. menziona il «Kulturkampf primitivo, dove cioè lo Stato moderno deve ancora lottare contro il passato clericale e feudale. È interessante notare questa contraddizione che esiste nell’America del Sud tra il mondo moderno delle grandi città commerciali della costa e il primitivismo dell’interno, contraddizione che si prolunga per l’esistenza di grandi masse di aborigeni da un lato e di immigrati europei dall’altro» (Q , , ). Insanabile è anche la contraddizione interna a uno stesso modo di produzione, se tenta di perpetuarsi oltre il suo limite strutturale, contraddizione che G. così traduce dalla sua formulazione classica e senza sostanziali innovazioni: «A un determinato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione (cioè coi rapporti della proprietà, il che è l’equivalente giuridico di tale espressione), dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’eran mosse» (Q , , ). Nel primo volume del Capitale – annota G. – Marx indica un’altra contraddizione: «mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio del profitto» (Q  II, , ). Questa contraddizione nella struttura può portare a un profondo rivolgimento sociale per l’azione congiunta dei limiti naturali e, specialmente, dei “riflessi” superstrutturali, ossia politici, prevedibili per il rafforzarsi della coscienza rivoluzionaria della classe operaia, sempre più minacciata dalla disoccupazione tecnologica. G., recuperando un’espressione già presente in Gentile e in Mondolfo, definisce un tale esito possibile come “rovesciamento della praxis”: «la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio del profitto è presentata co-

me l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo, in cui una tende ad elidere l’altra con la previsione che la caduta del saggio del profitto sarà la prevalente [...] Le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società. Cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della praxis» (ivi, ). In altri termini, una tale contraddizione strutturale può dar luogo a una (superstrutturale) presa di coscienza capace di togliere, in prospettiva, la contraddizione stessa. «Constatato che, essendo contradditorio l’insieme dei rapporti sociali, non può non essere contradditoria la coscienza degli uomini, si pone il problema del come si manifesta tale contraddizione e del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione» (Q , , ). Ma la distinzione-contraddizione tra struttura e superstrutture è metodica, laddove la loro unità è organica: «Struttura e superstrutture. La struttura e le superstrutture formano un “blocco storico”, cioè l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione. Se ne trae: che solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della praxis» (Q , , ). In questo passo il concetto di un “riflesso”, in apparenza ligio al materialismo storico tradizionale, lascia trasparire forse la nozione più originalmente gramsciana di una corrispondenza o, meglio, co-incidenza reciproca tra struttura e superstrutture. Anche la distinzione tra Stato in senso stretto e società civile è metodica, laddove la loro unità è organica. Perciò anche la loro “contraddizione” metodica potrà essere attenuata o progressivamente superata in futuro. Sulla “società regolata”: «in questa società il partito dominante non si confonde organicamente col governo, ma è strumento

CONTRADDIZIONE

per il passaggio dalla società civile-politica alla società “regolata”, in quanto assorbe in sé ambedue, per superarle (non per perpetuarne la contraddizione)» (Q , , ). Una contraddizione, invece, antagonistica può essere risolta in due modi. Se è sempre possibile una tentata sintesi conservatrice, deve considerarsi sintesi superiore quella cui si accinge la forza rivoluzionaria: «Ogni gruppo sociale ha una “tradizione”, un “passato” e pone questo come il solo e totale passato. Quel gruppo che comprendendo e giustificando tutti questi “passati”, saprà identificare la linea di sviluppo reale, perciò contraddittoria, ma nella contraddizione passibile di superamento, commetterà “meno errori”, identificherà più elementi “positivi” su cui far leva per creare nuova storia» (Q  II, .II, ). Una filosofia storico-critica non può, unilateralmente, giudicare apparente o il solo divenire o la sola immutabilità (come nel primo pensiero classico greco). Che fare, invece? «Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità» (Q , , ). G. allude forse a Lenin nel notare l’occasionale scambio delle parti tra il filosofo e il politico: «Un uomo politico scrive di filosofia: può darsi che la sua “vera” filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica. In ogni personalità c’è un’attività dominante e predominante: è in questa che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddizione con quello espresso ex professo» (Q , , ). G. considera fondato il criterio crociano in base al quale ogni errore teorico avrebbe origine “pratica”, ma lo considera (inconsapevolmente?) tributario della concezione marxiana sulle ideologie che, pur presentandosi come concezioni “vere”, abbiano invece carattere di “falsa coscienza”: «occorre fare una distinzione tra elementi puramente “ideologici”, ed elementi d’azione pratica, tra studiosi che sostengono la spontaneità come “metodo” immanente [ed obiettivo] del divenire storico e politicanti che la sostengono come metodo “politico”. Nei primi si tratta di una concezione errata, nei secondi si tratta di una contraddizione [imme-



diata e meschina] che lascia vedere l’origine pratica evidente, cioè la volontà [immediata] di sostituire una determinata direzione a un’altra. Anche negli studiosi l’errore ha un’origine pratica, ma non immediata come nei secondi» (Q , , ). In una contraddizione (non dialettica, ma banalmente acritica) cade invece Croce quando non discerne tra la libertà come principio teleologicostorico generale e il liberalismo come particolare indirizzo politico in un periodo dato: «il Croce, in contraddizione con se stesso, confonde “libertà” come principio filosofico o concetto speculativo e libertà come ideologia ossia strumento pratico di governo, elemento di unità morale egemonica. Se tutta la storia è storia della libertà, ossia dello spirito che crea se stesso (e in questo linguaggio libertà è uguale a spirito, spirito è uguale a storia e storia è uguale a libertà), perché la storia europea del secolo XIX sarebbe essa sola storia della libertà?» (LC , a Tania,  maggio ). Qual è il senso dell’«autonomia della politica, quale rapporto dialettico tra essa e le altre manifestazioni storiche? Problema della dialettica in Croce e sua posizione di una “dialettica dei distinti”: non è una contraddizione in termini, una “ignorantia elenchi”? Dialettica può darsi solo degli opposti, negazione della negazione, non rapporto di “implicazione”» (Q , , ). Tuttavia, come G. precisa altrove, nel criterio crociano dei distinti vi è un’esigenza reale che la filosofia della praxis deve avvertire e valorizzare. Sgomberare la filosofia della praxis da ogni elemento ideologico, nel significato marxiano della parola, equivale a darle piena consapevolezza di un movimento dialettico (contraddizione e tentativo di superarla in una “sintesi superiore”) che si svolga nella storia in generale, ma possa investire anche la stessa filosofia della praxis in quanto materialismo storico: «In un certo senso, adunque, il materialismo storico è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è la filosofia liberata da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se



CONTRORIFORMA

stesso come elemento della contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico e d’azione» (Q , , ). G. prende occasione da un riferimento alla psicologia femminile per adombrare, ancora, il concetto di una duplice sintesi possibile nelle contraddizioni dialettiche, e quindi di una possibile sintesi superiore: «devo pensare a Giulia e trattare con lei secondo gli schemi della banale psicologia che ordinariamente si attribuisce al mondo muliebre? Ciò mi ripugnerebbe in sommo grado. Eppure... Come ti pare che debba essere interpretata la sua lettera dove dice che dopo la mia lettera del  luglio si è sentita più vicina a me, però è rimasta quattro mesi senza scrivermi proprio dopo quella lettera. Io finora non sono riuscito a trovare la sintesi superiore di questa contraddizione e non so se riuscirò a trovarla» (LC , a Tatiana,  dicembre ). L’approccio psicanalitico può riuscire di una qualche utilità nell’indagare i momenti di crisi, essendo ogni crisi sempre esistenziale e insieme – o prima – sociale. In un tale contesto, incontriamo l’aggettivo “morboso”, del quale G. fa un uso metaforico, in specie quando osserva che un vecchio mondo di rapporti o di concezioni “muore” e uno nuovo non nasce o non può nascere ancora, ossia che le contraddizioni di fondo sono ancora irrisolte: «Io credo che tutto ciò che di reale e di concreto si possa salvare dall’“échaffaudage” psicanalitico si possa e debba restringere a questo, all’osservazione delle devastazioni che determina in molte coscienze la contraddizione tra ciò che appare doveroso in modo categorico e le tendenze reali fondate sulla sedimentazione di vecchie abitudini e vecchi modi di pensare. Questa contraddizione si presenta in una molteplicità innumerevole di manifestazioni, fino ad assumere un carattere strettamente singolare in ogni individuo dato. In ogni momento della storia, non solo l’ideale morale, ma il “tipo” di cittadino fissato dal diritto pubblico è superiore alla media degli uomini viventi in un determinato Stato. Questo distacco diviene molto più pronunziato nei momenti di crisi, come è questo del dopoguerra, sia perché il livello di “moralità” si abbassi, sia perché più in alto si ponga la meta da raggiungere e che viene

espressa in una nuova legge e in una nuova moralità. Nell’un caso e nell’altro la coercizione statale sugli individui aumenta, aumenta la pressione e il controllo di una parte sul tutto e del tutto su ogni suo componente molecolare. Molti risolvono la quistione facilmente: superano la contraddizione con lo scetticismo volgare. Altri si attengono esteriormente alla lettera delle leggi. Ma per molti la quistione non si risolve che in modo catastrofico, poiché determina scatenamenti morbosi di passionalità repressa, che la necessaria “ipocrisia” sociale (cioè l’attenersi alla fredda lettera della legge) non fa che approfondire e intorbidare» (LC -, a Tania,  marzo ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «caduta tendenziale del saggio di profitto», «Croce», «dialettica», «filosofia della praxis», «Gentile», «ideologia», «libertà», «psicoanalisi», «società regolata», «struttura», «superstruttura, superstrutture».

Controriforma «Il vero punto di rottura tra democrazia e Chiesa è da porre [...] nella Controriforma, quando la Chiesa [...] abdicò alla sua funzione democratica» (Q , , ). Reiterata è nei Q l’idea che la Controriforma segni il momento storico del distacco della Chiesa dal demos, «dalle masse degli “umili”» (Q , , ). Essa rimane nodo irrisolto e ancora attuale della cultura nazionale italiana, che «continua ad essere dominata dalla Controriforma» (Q , , ). Sviluppando tesi che troveranno conferma nella lettura di Max Weber, G. vede nella Controriforma una fondamentale resistenza allo «spirito “moderno”» (Q , , ). Antimoderna è la tendenza ecumenica controriformista ad «accentuare il carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita nazionale» (Q , , ) attraverso, ad esempio, l’uso del latino; e antimoderno è l’arresto storico, nell’Italia post-tridentina, dell’evolversi di un nuovo senso di individualità inteso come «coscienza della responsabilità individuale», cioè come rapporto personale uomo-dio (e quindi, “metaforicamente”, uomo-realtà) libero dalla mediazio-

CORPORATIVISMO

ne clericale (Q , , -). L’impatto della Controriforma finisce quindi per spiegare non solo la tardiva affermazione storica della borghesia capitalistica e individualistica (l’«eresia liberale» di Q , , ) e l’ancora più tarda affermazione di una cultura propriamente nazionale, ma anche, implicitamente, la propensione italiana a casi più recenti di autoritarismo. Effetto della Controriforma in Italia è, ancora, l’insanabile divario tra cultura (e lingua) intellettuale e popolare (Q , , ). Per quanto antimoderna, «la Controriforma, come tutte le Restaurazioni, non poté non essere che un compromesso [...] tra il vecchio e il nuovo» (Q , , ): elementi di novità e progresso convivono come “forme” della modernità in un ambiente controriformista in cui è il vecchio ordine a essere restaurato. ROBERTO DAINOTTO V. «calvinismo», «Chiesa cattolica», «cristianesimo», «intellettuali italiani», «latino e greco», «Lutero e luteranismo», «religione», «Riforma», «Weber».

corporativismo La riflessione sul corporativismo fascista che G. sviluppa nei Q non si limita – diversamente da molti dei contributi prodotti dalla cultura antifascista prima e poi dalla storiografia – a denunciare il fallimento di quell’esperimento istituzionale. L’analisi dei Q sottolinea infatti la pluralità dei motivi e dei processi in cui il corporativismo si sostanzia: la rilevanza del nuovo ordinamento sindacale ovvero la funzione di «polizia economica» (Q , , -); il legame tra legislazione corporativa e “americanismo” e tra ideologia corporativa e consenso dei ceti medi; il lento emergere di nuovi modelli di mediazione tra istituzioni e istanze sociali sostitutivi dei tradizionali sistemi parlamentari. Il corporativismo si presenta innanzitutto come azione di “polizia economica”, vale a dire come repressione della conflittualità e della libertà di organizzazione, irreggimentazione delle strutture organizzative, ma anche, al tempo stesso, come riconoscimento del valore pubblico del sindacato (sebbene di un sindacato nei fatti in gran parte svuo-



tato e subordinato alla politica). Il termine “polizia” è infatti inteso da G. in senso largo, come chiariscono altri luoghi dei Q (Q , , -). In particolare, analizzando le moderne forme della politica a partire dalla Francia di Napoleone III, egli chiarisce che “polizia” non si lega solo al «servizio statale destinato alla repressione della delinquenza», ma anche all’«insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti» (Q , , ). Di conseguenza, «interi partiti “politici” e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo» (ivi, -). Si tratta dunque di un’accezione classica del termine, quella che si ritrova nella Filosofia del diritto di Hegel, con tutta probabilità fonte di G. Ed è un’accezione che coglie pienamente la complessità dell’ordinamento sindacale fascista, nel quale alla soppressione delle organizzazioni preesistenti si affianca la parallela costruzione di un nuovo ordinamento, fondato sulla presenza del sindacato unico legalmente riconosciuto e quindi sull’estensione della sfera di applicazione del diritto pubblico e della struttura amministrativa dello Stato. Il corporativismo naturalmente non è soltanto polizia economica, sebbene, scrive G. nell’estate del , «l’elemento negativo della “polizia economica” ha avuto finora il sopravvento sull’elemento positivo dell’esigenza di una nuova politica economica» (Q , , ). Il corporativismo dunque è – o potrebbe essere – anche «politica economica» (ibid.). In quanto tale è concepito in funzione dell’adattamento in Italia del modello americano e dell’«economia programmatica» (Q , , ). Può infatti costituire la «forma giuridica» per un «rivolgimento tecnico-economico» (Q , , ) su larga scala e, di conseguenza, si riconnette alla possibilità di introdurre in Italia le innovazioni del taylorismo e del fordismo e, più in generale, quel complesso di fenomeni di modernizzazione economica e sociale ricompresi nella categoria di “americanismo”. G. sin dal  rileva questi nessi potenziali, escludendo però di fatto la possibilità di una loro



CORPORATIVISMO

traduzione pratica. Solo a partire dal , quando è ormai evidente l’estensione e la profondità della crisi economica, inizia (come attestano numerose varianti tra testi di prima e seconda stesura), sebbene ancora in forma dubitativa, a intravedere nel corporativismo una concreta condizione per l’adattamento in Italia del modello americano di società industriale. È dunque in questo quadro analitico che si situa la riflessione gramsciana sul corporativismo come politica economica. È una riflessione già introdotta nel Q  (che risale al ), ripresa in singoli punti dei Q  e  e sviluppata poi nel Q  (Americanismo e fordismo) e nella quale, come detto, il corporativismo viene legato strettamente al fordismo, viene anzi a costituire (soprattutto nelle note scritte a partire dal ) una delle condizioni della possibile razionalizzazione fordista nel quadro di un paese industriale periferico: «una delle condizioni, non la sola condizione e neanche la più importante», ma «la più importante delle condizioni immediate» (Q , , ). Il corporativismo costituirebbe la cornice istituzionale dell’economia programmata, cioè di un’«“economia media” tra quella individualistica pura e quella secondo un piano in senso integrale». In questo senso, il corporativismo appare a G. la «forma economica» assunta dalla «“rivoluzione passiva”» rappresentata dal fascismo, perché potrebbe rendere possibile «il passaggio a forme politiche e culturali più progredite senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice» (Q , , ). Il fascismo (e in ciò risiede il suo carattere di rivoluzione passiva) sarebbe in grado di attuare un profondo cambiamento della struttura economica senza alterare le preesistenti gerarchie sociali: «Si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento “piano di produzione”, verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del

profitto» (Q  I, , ). Il corporativismo e l’economia programmata renderebbero possibile «sviluppare le forze produttive dell’industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali» (ibid.). D’altra parte, non sfugge a G. come gli stessi processi innescati dalla crisi economica dei primi anni Trenta creino le condizioni per una trasformazione di questo genere. Con la costituzione dell’IRI e l’acquisizione da parte dello Stato della proprietà di una parte significativa dell’apparato produttivo e creditizio nazionale, lo Stato viene «ad essere investito di una funzione di primordine nel sistema capitalistico, come azienda (holding statale) che concentra il risparmio da portare a disposizione dell’industria e dell’attività privata, come investitore a medio e lungo termine» (Q , , -). Diventa di conseguenza necessario mettere in atto programmi razionalizzatori. Una volta assunta «per necessità economiche imprescindibili» la funzione del finanziatore, del banchiere, lo Stato non può «disinteressarsi» dell’organizzazione della produzione e dello scambio, perché «se ciò avvenisse, la sfiducia che oggi colpisce l’industria e il commercio privato» lo «travolgerebbe». Lo Stato «è così condotto necessariamente a intervenire per controllare se gli investimenti avvenuti per il suo tramite sono bene amministrati» e, al tempo stesso, a riorganizzare l’apparato produttivo «per svilupparlo parallelamente all’aumento della popolazione e dei bisogni collettivi» (ivi, ). G. dunque individua nel nesso corporativismorazionalizzazione (nesso potenziale e non già dato) una chiave di lettura efficace, che richiama più volte. È infatti proprio ponendo al centro quel nesso che può collocare la sua analisi del fascismo e del corporativismo italiano nel quadro dei processi più generali che investono le società occidentali. Deriva probabilmente da qui la scelta di assumere come punto di riferimento critico quegli autori che più nettamente pongono al centro il rapporto tra razionalizzazione, modernizzazione industriale e corporativismo. Ugo Spirito, Arnaldo Volpicelli e il gruppo da loro raccolto intorno alla rivista “Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica” rappresentano il principale contraltare critico.

CORPORATIVISMO

G. considera le loro concezioni corporative utopiche e astratte; vi vede però anche un segno dei tempi, riconosce cioè a Spirito e agli autori di “Nuovi Studi” di aver intuito la portata dei profondi cambiamenti in atto. Analoghi spunti sono forniti a G. da Nino Massimo Fovel, nei cui scritti – conosciuti solo indirettamente – il corporativismo è configurato come un’“economia di produttori”, in cui si realizzerebbe un’elisione della rendita e in cui la corporazione assumerebbe un’evidente funzione razionalizzatrice. Anche in questo caso vi si può scorgere un’idea del corporativismo come «premessa per l’introduzione in Italia dei sistemi americani più avanzati nel modo di produrre e di lavorare» (Q , , ). G. è comunque consapevole del fatto che le declinazioni fordiste del corporativismo – per quanto eclatanti – non sono affatto rappresentative dell’intero dibattito. Va infatti sottolineato che il legame stabilito tra americanismo e corporativismo è sostenuto da G. in forma dubitativa: non indica un dato di fatto ma una tendenza dagli esiti non scontati. Non solo, ma nei Q sono sviluppati tre ulteriori passaggi, che rendono ancora più complessa l’analisi del nesso tra corporativismo e razionalizzazione capitalistica. Il primo è costituito dal fatto che i filoni fordisti e “progressivi” dell’ideologia corporativa sono interpretati sì come un segno dei tempi, ma senza mai dimenticare che le loro aspirazioni non sono generalmente condivise e che anzi sono «antagoniste» alla «parte conservatrice» e non certo minoritaria del fascismo (Q , , ). È indicativo che G. generalmente parli di quelle aspirazioni utilizzando il condizionale, a voler sottolineare proprio il carattere di processo e l’esito non scontato. Il secondo sta nella consapevolezza della lentezza ed estrema gradualità della costruzione dell’apparato corporativo, che «potrebbe procedere a tappe lentissime, quasi insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine» (Q , , ). I tortuosi percorsi istituzionali che precedono le principali realizzazioni del nuovo sistema istituzionale stanno a testimoniarlo. Il terzo aspetto, infine, è da rintracciare nella consapevolezza espressa nei



Q del valore relativo che avrebbe la piena realizzazione del progetto corporativo. Questo è infatti anche un elemento della politica demagogica del fascismo, rivolto in particolare a conquistare il consenso dei ceti medi. In questo senso G. sostiene addirittura che la realizzazione pratica dell’organizzazione corporativa come veicolo di introduzione dell’«economia secondo un piano» ha un «valore relativo». Una funzione rilevante è infatti svolta dal corporativismo in quanto ideologia, perché avrebbe la funzione di «creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la grande massa dei piccoli borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali». L’ideologia corporativa dunque «servirebbe come elemento di una “guerra di posizione” nel campo economico (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento) internazionale, così come la “rivoluzione passiva” lo è nel campo politico» (Q  I, , -). In questo senso, il corporativismo non è né un bluff né una velleitaria forzatura, ma semmai anche un’abile politica culturale rivolta principalmente verso i ceti medi. L’enfasi posta sulla “terza via” – alternativa sia al capitalismo sia al socialismo – corrisponde infatti alla duplice diffidenza della piccola borghesia verso le grandi concentrazioni capitalistiche e verso i lavoratori salariati, diffidenza che si acuisce enormemente durante la grande crisi. Se il corporativismo come ideologia e politica culturale rispecchia dunque l’anima piccolo borghese del fascismo, le politiche concretamente attuate vanno in ben diversa direzione: «Ne consegue che teoricamente lo Stato pare avere la sua base politico-sociale nella “piccola gente” e negli intellettuali, ma in realtà la sua struttura rimane plutocratica e riesce impossibile rompere i legami col grande capitale finanziario» (Q , , ). La contraddizione interna del corporativismo riflette quella, più generale, del fascismo e delle politiche da questo poste in essere: finalizzate, come si è visto, a rendere compatibile lo sviluppo delle forze



CORRADINI , ENRICO

produttive – potenzialmente dirompente perché ad esso si lega una redistribuzione delle risorse e l’espulsione dal mercato di numerosi soggetti – e la conservazione degli equilibri sociali esistenti. Il tema del corporativismo si collega anche al profilarsi di una nuova forma di rappresentanza in grado di sostituire quella individualistica dei regimi liberaldemocratici. Già all’inizio degli anni Venti G. si era soffermato sul progressivo svuotamento del parlamento quale luogo di formazione della decisione politica: aveva infatti evidenziato il carattere ormai di «corpo consultivo» del parlamento stesso, «senza potere di iniziativa e di controllo» (Il parlamento italiano,  marzo , in SF ), e aveva analizzato il «trasferimento di poteri», «singolare dal punto di vista costituzionale», dal parlamento al Consiglio superiore del lavoro e nel contempo denunciato la «vanità delle accademie “paritetiche”, la grottesca vanità delle aspirazioni e dei tentativi di collaborazione» (Il controllo operaio al consiglio del lavoro,  marzo , in SF -). Nei Q l’analisi viene spinta più avanti, assumendo probabilmente come implicito interlocutore polemico la campagna sulla “fine del parlamento” lanciata dal  da “Critica fascista”, la rivista del fascismo più agguerrita culturalmente, diretta da Giuseppe Bottai. G. sottolinea come al ridimensionamento o all’eliminazione del parlamento non corrisponda affatto il ridimensionamento o l’eliminazione del parlamentarismo: «Si vuole, a parole, far credere che alla critica rappresentata dalla “libera” lotta politica nel regime rappresentativo, si è trovato un equivalente, che, di fatto, se applicato sul serio, è più efficace e produttivo di conseguenze dell’originale» (Q , , ), scrive all’inizio di una nota, la cui stesura è datata al marzo  (e che significativamente prende avvio con un riferimento all’URSS). «Si vuole far credere», appunto, ma la realtà è assai più complessa: infatti, «non è stato osservato finora che distruggere il parlamentarismo non è così facile come pare». Senza un pieno superamento dell’individualismo (cioè della centralità dell’individuo separato e generico, autentico deposita-

rio della capacità di esprimere rappresentanza) l’abolizione non tanto del parlamento quanto, più in generale, del sistema parlamentare risulta antistorica. Laddove ciò è stato tentato, come nell’Italia fascista o in Unione Sovietica, modalità parlamentari si sono, più o meno sotterraneamente, reintrodotte nello svolgimento della vita politica e istituzionale. Si è andato così affermandosi quello che G. chiama «parlamentarismo “implicito” [e “tacito”]» o «“parlamentarismo nero”» («cioè funzionante come le “borse nere” e il “lotto clandestino” dove e quando la borsa ufficiale e il lotto di Stato sono per qualche ragione tenuti chiusi»). Questo diverso «parlamentarismo» risulta «molto più pericoloso che non quello esplicito, perché ne ha tutte le deficienze senza averne i valori positivi», perché privo delle regole e delle tradizioni di cui dispone quest’ultimo. Nell’Italia fascista il «parlamentarismo nero», o «“implicito”», assume i connotati proprio di un «ritorno al “corporativismo”». Un ritorno da intendere non «nel senso “antico regime”», ma «nel senso moderno della parola, quando la “corporazione” non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di “funzione sociale”, senza restrizione ereditaria o d’altro» (ivi, -). B IBLIOGRAFIA : D E F ELICE ; G A GLIARDI ; MACCABELLI ; MANGONI ; SALSANO ; RAFALSKI . ALESSIO GAGLIARDI V. «americanismo», «capitalismo di Stato», «corporativismo», «fascismo», «fordismo», «ideologia», «parlamentarismo nero», «parlamento», «polizia», «rivoluzione passiva», «Spirito», «taylorismo».

Corradini, Enrico Il maggiore esponente del nazionalismo italiano, Enrico Corradini, viene associato da G. al tipo «retorico sentimentale, oratore delle grandi occasioni» (Q , , ); la sua opera letteraria, «non arte e anche cattiva politica, cioè semplice rettorica ideologica» (Q , , ), lo colloca nell’ambito del «Brescianesimo» (Q , , ). Ma G. menziona Corradini anzitutto in relazione alla politica

COSCIENZA

estera, per un verso «astratta rivendicazione imperiale contro tutti» (Q ,  ), per l’altro significativa in riferimento al «concetto di nazione proletaria» (Q , , ) in lotta con le nazioni plutocratiche e capitaliste (Q , , ). Assieme a varie personalità politiche, Corradini cercò «di cristallizzare intorno ai problemi della politica estera e dell’emigrazione le correnti meno pacchiane del tradizionale patriottismo» italiano (Q , , ). Dinanzi all’apoliticismo «verniciato di rettorica nazionale verbosa» degli scrittori italiani, G. riteneva «più simpatici Enrico Corradini e il Pascoli col loro nazionalismo confessato e militante», che in Corradini si esprimeva in «programmi ben razionalizzati» (Q , , ). Il concetto di “proletario” venne trasposto da Corradini «dalle classi [...] alle nazioni» (Q , , ), sostenendo che la «“proprietà nazionale”» (ibid.) italiana si dovesse espandere a partire dalla presenza di immigrati italiani nei paesi esteri (Q , , -). Tuttavia, osserva G., «la povertà di un paese è relativa ed è l’“industria” dell’uomo – classe dirigente – che riesce a dare a una nazione una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro; l’emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale» (Q , , ) ed è da G. collegata alla «quistione meridionale» (Q , , ). In definitiva, il «mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale» è «verbale e retorico, fondato sul passato» (Q , , ).



meno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale», riferendosi ai personalismi o ai settarismi per cui «ogni gruppetto interno di partito crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero partito» (Q , , ). Dello stesso tono è un appunto sull’emigrazione italiana, in cui la «corruzione» è sinonimo di «decomposizione politica e morale» (Q , , ). Accanto a questa accezione generale ve n’è però una più specifica che rimanda la causa della corruzione a un preciso modo di organizzazione del potere in Italia. Scrive G. che «tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode [...] cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti» (Q , , ): una pratica che lo Stato italiano svolge prevalentemente nel Mezzogiorno, attraverso «misure politiche: favori personali al ceto dei paglietta o pennaioli [...] cioè incorporamento a “titolo personale” degli elementi più attivi meridionali nelle classi dirigenti, con particolari privilegi “giudiziari”, impiegatizi ecc.» (Q , , ). Questo «fenomeno di corruzione» serve a sterilizzare quello «strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale», tanto da farlo diventare «uno strumento della politica settentrionale» (ibid.). In questa accezione il fenomeno della corruzione, da sinonimo di decomposizione morale, diventa pratica politica strategica, ricollegandosi in G. alle riflessioni sul trasformismo e sulle trasformazioni molecolari.

MANUELA AUSILIO

MICHELE FILIPPINI

V. «apoliticismo, apoliticità», «brescianesimo», «emigrazione», «imperialismo», «nazionalismo», «Pascoli», «quistione meridionale».

V. «consenso», «crisi di autorità», «forza», «Mezzogiorno», «molecolare», «quistione meridionale», «trasformismo».

corruzione

coscienza

La corruzione è vista da G. sotto due diversi aspetti fra loro complementari. Da una parte sta a indicare, in un senso più generale, un elemento delle fasi di «crisi del principio di autorità», come quella seguita alla prima guerra mondiale, in cui «l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile». In questo contesto G. rileva come «le forme di questo feno-

Il termine si riferisce al grado di «intelligenza» che l’uomo, come singolo o come gruppo, acquista di rapporti sociali necessari dati e, al tempo stesso, alle modificazioni pratiche che acquisire tale intelligenza comporta: avere coscienza «più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare)» tali rapporti «già li modifica» (Q  II, , ). La co-



COSCIENZA

scienza di ciò che «è realmente» comincia con l’«elaborazione critica» di «un’infinità di tracce» che il «processo storico finora svoltosi» ha lasciato nell’individuo e quindi col fare l’«inventario» di ciò che si è accolto acriticamente (Q , , ). G. parte dall’idea di origine marxiana (Tesi su Feuerbach) dell’uomo concepito come «una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare» (Q  II, , ). L’occhio di G. è simultaneamente ai rapporti del presente e del passato; il suo sguardo è sincronico, diacronico e genetico: «non basta conoscere l’insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato». Di qui la necessità di «elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti [necessari, ndr] sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza» (ivi, -). Con ciò entra in gioco il concetto di “ideologia” – col suo valore «gnoseologico» (Q , , ) e “psicologico”: il «terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano ecc.» (Q , , -), nel suo intimo nesso col linguaggio (v. già Q , , ) – inteso, insieme, come competenza e tecnica intellettuale da acquistare e, eventualmente, da (ri-)elaborare (Q ,  e Q ). La coscienza reale di ciò che si è, in quanto si plasma sul terreno ideologico-linguistico, è assunta come «momento necessario» per il «rovesciamento della praxis» (Q  II, .XII, ), ossia acquista nuovo significato alla luce della traduzione in termini teorici della prassi rivoluzionaria di Lenin. Se dunque da un lato «la “natura” dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita» (Q , ,

), dall’altro la coscienza reagisce (e serve a reagire) su di essi modificandoli. Con lo «sviluppo politico del concetto di egemonia» (Q , , ) si approfondisce anche il concetto di coscienza: «La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico» (Q  II, , ). Connessa a questa idea va letta la seguente, con la quale si capisce che ogni tentazione solipsistica viene da G. rifiutata, legando egli lo sviluppo della coscienza e della personalità individuali alla relazione attiva con la natura e gli altri uomini, in una dinamica che può essere di interiore rivoluzione passiva o attiva: «Si crea la propria personalità: ) dando un indirizzo determinato e concreto (“razionale”) al proprio impulso vitale o volontà; ) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; ) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il “miglioramento” etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è “individuale”, ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente “politico”, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua “umanità”, la sua “natura umana”» (Q  II, , ). Ora, se la coscienza non è separabile dagli uomini e dalla loro storia, essa non può essere un’entità statica e neppure unica («l’insieme dei rapporti sociali è contradditorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento,

COSMOPOLITISMO

sicché la “natura” dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi», Q , , -). Ci sono, anzi, «diverse coscienze» (Q , , ) e contraddittorie a seconda della diversità e della contraddittorietà dei rapporti sociali. A questo proposito, «si pone il problema del come si manifesta» la «contraddizione» della coscienza e, soprattutto, «del come possa essere progressivamente ottenuta l’unificazione: si manifesta nell’intero corpo sociale, con l’esistenza di coscienze storiche di gruppo (con l’esistenza di stratificazioni corrispondenti a diverse fasi dello sviluppo storico della civiltà e con antitesi nei gruppi che corrispondono a uno stesso livello storico) e si manifesta negli individui singoli come riflesso di una tale disgregazione “verticale e orizzontale”. Nei gruppi subalterni, per l’assenza di autonomia nell’iniziativa storica, la disgregazione è più grave e più forte la lotta per liberarsi dai principii imposti e non proposti nel conseguimento di una coscienza storica autonoma» (Q , , , Testo C). Dall’osservazione che i subalterni, e nella fattispecie l’«uomo attivo di massa», hanno «due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria)» – per cui una coscienza «superficialmente esplicita» o «concezione “verbale”» per un verso riannoda quest’ultimo a un dato gruppo dominante e influisce sulla sua «condotta morale» e sull’indirizzo della sua «volontà», per l’altro è in contraddizione con la coscienza «implicita» nel suo operare, la quale «realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà» (Q , , ) – segue che per G. la coscienza è un processo (come si è visto, molteplice e multiforme e non – idealisticamente – avente una direzione prefissata) in alcune fasi del quale la coscienza non si è ancora elaborata come nuovo linguaggio verbale proprio di un gruppo e tale da esprimere ed elaborare in forma esplicita, organica, coerente e omogenea i nuovi bisogni espressi a livello dell’operare. Perciò è necessario avviare la fase dell’«elaborazione critica», ovvero, quell’«inventario» di cui sopra, inteso come un «“conosci te stesso”» (ivi, ), ossia lavorare a produrre il «passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa» (Q



, , ). «La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale» (Q , , ). La nascita di una «coscienza critica» segna il fiorire di una nuova «individualità» in lotta contro un dato «conformismo» (Q , , -), sicché senza la coscienza che elabora i rapporti sociali necessari, senza cioè «l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini», o «“catarsi”», non vi può essere passaggio da «necessità» a «libertà» (Q  II, , ). Tutto ciò comporta evidentemente la necessità di considerare l’ideologia come elemento necessario all’azione trasformatrice collettiva, e la coscienza come centro di questa trasformazione. ROCCO LACORTE V. «catarsi», «egemonia», «ideologia», «Lenin», «persona», «spirito di scissione», «soggettività», «subalterno, subalterni», «traducibilità».

cosmopolitismo «Gli intellettuali italiani sono “cosmopoliti”, non nazionali» (Q , , ), scrive G. nel Q , ponendo le fondamenta di quella analisi complessa che riguarda le radici dell’idea di nazione, il percorso storico che ha portato alla separatezza in Italia delle classi colte dai ceti popolari, il modo attuale di pensare la nazione formata. Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani è il titolo di una rubrica che percorre i Q dall’inizio alla fine e che è parte dell’ossatura più profonda dell’intero programma di ricerca gramsciano. La più tradizionale cultura nazionale italiana non è per la sua antichità più autoctona. La base materiale di questa cultura italiana, infatti, non era in Italia, perché tale cultura è «la continuazione del “cosmopolitismo” medievale, legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali» (ibid.), «con sede “geografica” in Italia», come G. preciserà nella destinazione definitiva di questa importante nota, il quaderno su Benedetto Croce (Q  II, , ). Fu Cesare, ricostrui-



COSMOPOLITISMO

sce G. attraverso Svetonio, a determinare un accentramento degli intellettuali nella capitale dell’impero, creando una categoria di produttori di cultura imperiale e modificando anche la relazione della classe colta, in origine composta da liberti greci e orientali, con la classe dirigente romana: determinando cioè il passaggio da «un regime aristocratico-corporativo a uno democratico-burocratico». Da quel momento, e fino al Settecento, tutta la storia dell’intellettualità laica e del clero sarebbe stata segnata dalla sua non organicità allo sviluppo sociale popolare (Q , , ); e dopo il Settecento, con il decadere della positività della funzione cosmopolita, il perdurare di una condizione divenuta ormai anacronistica sarebbe stato storicamente dannoso, se è vero che ancora oggi l’intellettuale tipico moderno «si sente legato più ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano» (Q , , ). Di grande importanza, nell’ambito del tema della condizione intellettuale rispetto al resto della società, che è il cuore del breve e denso Q , appare a G. la necessità di ricostruire, intorno alla questione del cosmopolitismo, il modo in cui civiltà diverse hanno assorbito culture subalterne o sono state assorbire da culture dominanti, ovvero il modo in cui hanno cercato di diventare parte di quelle culture. Così G. si interroga su come i grandi imperi abbiano “usato” il cosmopolitismo come elemento del nazionalismo: oltre che di Roma, è il caso dell’impero di Alessandro il Macedone (Q , , ), ma anche dell’Impero russo di Pietro il Grande e della Cina attuale. Non mancano considerazioni sull’India e sull’islam, ma anche sul Giappone, e sono abbozzi di ragionamento che, pur in mancanza di elementi sufficienti alla valutazione, cercano di comprendere l’evoluzione possibile di queste grandi concentrazioni territoriali e geopolitiche rispetto all’avanzata della modernizzazione capitalistica – che è per sua natura cosmopolita – anche in relazione alle religioni tradizionali locali e alla loro capacità e necessità di riadattarsi alla realtà del nuovo modello produttivo in tempi molto più veloci di quanto sia accaduto al cattolicesimo,

che ha invece avuto nove secoli per differenziare nazionalmente il suo universalismo, smussandone le occasionali contraddizioni con i nazionalismi, sebbene in modo non sempre agevole, come nel caso della Germania hitleriana (Q , ; Q , ; Q , , ). Di non minore importanza è l’osservazione del fenomeno opposto, o meglio reciproco: quello relativo al modo in cui agisce per alcuni gruppi sociali la “razza” nella formazione del senso di nazione in un ambito cosmopolita. È il caso degli intellettuali neri d’America, che assorbono in tutto la cultura americana, e per i quali G. prefigura possibili vari esiti futuri, fra cui quello che essi si rendano promotori di un movimento che faccia della Liberia «la Sion dei negri americani, con la tendenza a porsi come il Piemonte africano» (Q , , ). Gli ebrei italiani, invece, rappresentano un caso storico significativo in relazione alla formazione della coscienza nazionale. Concordando con un articolo di Arnaldo Momigliano, G. ritiene infatti che «la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico» (Q , , ). Il superamento del cosmopolitismo cattolico avrebbe comportato per gli ebrei la manifestazione di una nazionalizzazione, di un loro “disebreizzarsi” almeno nella misura in cui per i piemontesi e i napoletani tale superamento avrebbe comportato la perdita della loro regionalità (ibid.). La formazione dello spirito nazionale, dunque, viene vista da G. per l’Italia non solo come un “ampliamento” dell’orizzonte della regione o del piccolo Stato, o della confessione-comunità, come del caso degli ebrei, ma anche come “restringimento” dell’orizzonte sopranazionale di matrice prima imperiale, poi papale e da ultimo illuminista. Cosmopolitismo forma con nazionalepopolare una coppia oppositiva; le due nozioni sono in una connessione strettissima, teorica e storica. Gli intellettuali italiani sono cosmopoliti e perciò non nazionali-popolari ma, nello stesso tempo, l’orgoglio per il prestigio internazionale della loro cultura fondata sull’universalismo è stato la base per lo sviluppo di un nazionalismo sciovinista e

COSMOPOLITISMO

retorico, che ha prodotto un’idea di Stato unitario rivelatasi più astratta in coloro che, in nome del legame con la cultura della propria nazione, meno erano disposti a guardare alle esperienze straniere, che erano invece più concretamente nazionali e perciò storicamente fondate. È la doppia faccia del giacobinismo, quel paradosso che spinge G. ad affermare che i tradizionali criteri di valutazione del Risorgimento devono essere capovolti: giacobini in senso deteriore devono essere considerati «i rappresentanti della corrente tradizionale, [...] che realmente vogliono applicare all’Italia schemi intellettuali e razionali, elaborati sì in Italia, ma su esperienze anacronistiche e non sui bisogni immediati nazionali» (Q  II, , ). Se Machiavelli, allora, è stato parte dell’intellettualità cosmopolita italiana del Rinascimento, non si può negare che egli abbia guardato agli avvenimenti spagnoli, francesi, inglesi per il suo Principe, ma lo ha fatto per volgerli alla situazione italiana concreta (ibid.). Anzi, se intesi in senso «politico-etico» e non artistico, Umanesimo e Rinascimento hanno avuto in Machiavelli il loro esponente più espressivo, l’intellettuale capace di comprendere in termini storici reali che la vera continuazione di Roma antica fu la Francia e non l’Italia, e che appunto guardare alla Francia era necessario per la «ricerca delle basi di uno “Stato italiano”» (Q , , ). Il Rinascimento può essere considerato, da questo punto di vista «politicoetico», «l’espressione culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova classe intellettuale di portata europea» (Q , , ). Tale classe politica, finché durò la funzione cosmopolita, si mosse sostanzialmente in due direzioni: una interna, in cui esercitava una funzione cosmopolita reazionaria, collegata al papato e basata sulla “piccola politica”, mirata a non mutare nulla dell’angusta vita degli Stati regionali, e una esterna, europea, progressiva, rivolta alla “grande politica”, creativa e partecipativa della nascita degli Stati nazionali, con contributi tecnici di varia natura (ibid.; v. Q , , ). Cellini, Michelangelo, Leonardo, per fare nomi eccellenti, erano stati fra gli italiani illustri in grado di lasciarsi accogliere



da qualunque corte europea che avesse garantito loro la possibilità di lavorare (Q , , -). Nel Settecento, poi, l’ultima epoca storica in cui il cosmopolitismo degli intellettuali italiani ha costituito una funzione positiva in Europa, G. ricorda con Carlo Calcaterra che un intellettuale come Algarotti aveva acquistato opere d’arte in Italia per arricchire la galleria d’arte di Dresda, di cui era provveditore per Augusto III di Sassonia: in questo modo egli non aveva la colpa di aver impoverito le collezioni delle corti italiane, ma piuttosto il merito, secondo l’ideologia del tempo, di aver realizzato pienamente la sua funzione, italiana e cosmopolita insieme, di propagatore del gusto italiano (Q , , ). Eppure, nello stesso periodo la Francia era già avviata a una funzione cosmopolita dei suoi intellettuali di segno del tutto diverso, una funzione perdurante ancora oggi: «Gli intellettuali francesi esprimono e rappresentano esplicitamente un compatto blocco nazionale, di cui sono gli “ambasciatori” culturali, ecc.» (Q , , ). Ma il nodo del problema, lo si è detto, è l’interpretazione del Risorgimento. La tradizione nazionale, su cui si è basata la costruzione ideologica risorgimentale, «non risale all’antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e […] fu ricollegata all’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento». Una base troppo debole per fondare una nazione moderna, una base priva «dell’elemento politico-militare e politico-economico» che sono necessari a una ideologia nazionalista o, diciamo, alla maturazione del concetto di Stato nella sua forma nazionalepopolare. Lo «sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale» (Q , , - ). «Il Partito d’Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo», proprio perché «era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile della popolazione inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradi-



COSMOPOLITISMO

zione culturale» (Q , , ). In queste condizioni non avrebbe mai potuto esercitare – come infatti non esercitò – la funzione che era stata dei giacobini francesi, di saldare cioè la campagna alla città per garantire un reale sostegno di massa al movimento nazionale unitario (ibid.). Il cosmopolitismo, dunque, si configura come un fattore determinante negativo proprio per quegli intellettuali che durante il Risorgimento erano stati più generosamente impegnati sull’idea e sulla formazione della nazione con intenzioni nazionali-popolari, perché proprio sul loro progetto la condizione cosmopolita anacronistica era destinata ad assumere maggiormente una forma retorica e illusoria. Se la funzione cosmopolita ha conosciuto per gli intellettuali italiani il suo momento più importante nel Rinascimento, tuttavia G. costruisce il proprio ritratto di Benedetto Croce utilizzando le categorie che gravitano intorno al concetto di cosmopolitismo. Croce è non solo l’ultimo uomo del Rinascimento, da questo punto di vista, ma «è riuscito a ricreare nella sua personalità e nella sua posizione di leader mondiale della cultura quella funzione di intellettuale cosmopolita che è stata svolta quasi collegialmente dagli intellettuali italiani dal Medio Evo alla fine del  [...] La funzione del Croce si potrebbe paragonare a quella del papa cattolico» (Q  II, .IV, -), il che significa una coincidenza di universalismo e cosmopolitismo in un certo senso; «ciò non vuol dire che egli non sia un “elemento nazionale”, anche nel significato moderno del termine, vuol dire che anche dei rapporti ed esigenze nazionali egli esprime specialmente quelli che sono più generali e coincidono con nessi di civiltà più vasti dell’area nazionale: l’Europa, quella che suole chiamarsi civiltà occidentale, ecc.» (ibid.). Croce, il paradigma stesso del grande intellettuale tradizionale cosmopolita nella contemporaneità, è per G. l’ispiratore di una sprovincializzazione della cultura italiana attraverso lo scambio e il contatto con le idee internazionali, ma appunto, «nel suo atteggiamento e nella sua funzione è immanente un principio essenzialmente nazionale». Anche a questo proposito, insomma, G. ribadisce come il cosmopoliti-

smo sia la forma propria dello spirito nazionale italiano, così come esso si è venuto formando da parte della casta degli intellettuali e attraverso l’esclusione dei ceti popolari e delle masse dai processi storici. A questo punto, per ipotizzare un’inversione di tendenza G. tiene opportunamente conto delle condizioni reali in cui l’idea di nazione si è formata in Italia e del fatto che nemmeno il popolo è rimasto del tutto indenne dal modo cosmopolita in cui si sono radicate le cosiddette tradizioni nazionali. Immagina perciò un mutamento dei costumi che non neghi del tutto il cosmopolitismo, ma lo ricrei su basi nuove. Se fino a questo momento la tradizione retorica ha avuto al centro i miti della patria e della nazione, con evidenti implicazioni politiche e militari, nel presente italiano, caratterizzato da un’espansione finanziaria e capitalistica, «l’elemento “uomo” o è l’“uomo capitale” o è l’“uomo-lavoro”» (Q , , ). Parliamo naturalmente di un’epoca, il primo Novecento, segnata da una forte emigrazione popolare rivolta in tutte le direzioni. «Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di sviluppo all’uomo – lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi». «Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi del frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano»: in queste note, che possono solo implicitamente alludere al colonialismo fascista in Africa, proposte in forma definitiva nel Q  dopo un lavorio non privo di passaggi problematici e che attraversa diversi testi, G. prefigura le condizioni del mondo contemporaneo nella sua rete di relazioni in cui il concetto stesso di nazione, come quello di popolo, non è più definibile negli stessi termini, e nomina anche l’idea pascoliana della nazione proletaria, un’idea che aveva goduto di una certa fortuna proprio in concomitanza con la prima percezione del fenomeno dell’internazionalizzazione da parte degli intellettuali più avverti-

COSTITUZIONALISMO

ti. Se il cosmopolitismo è l’altra faccia del nazionale-popolare da un punto di vista analitico, esso può diventarne una componente interna da un punto di vista previsionale. Sarebbe un cosmopolitismo positivo, a cui partecipano anche gli operai e i contadini: un cosmopolitismo, per così dire, nazionale-popolare. BIBLIOGRAFIA: BARATTA ; CILIBERTO ; DURANTE . LEA DURANTE V. «Chiesa cattolica», «Croce», «emigrazione», «Francia», «giacobinismo», «intellettuali», «intellettuali italiani», «Machiavelli», «nazionale-popolare», «nazione», «Rinascimento», «Risorgimento», «Umanesimo e nuovo umanesimo».

Costituente Dalle testimonianze dei compagni di prigionia sappiamo che G., verso la fine del , sostenne la necessità di una Costituente democratico-repubblicana quale fase intermedia dal fascismo al socialismo, giudizio riproposto nel marzo , tramite Sraffa, alla direzione del partito. Alla luce di ciò si chiariscono alcuni riferimenti ellittici dei Q alla «rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza [...])» (Q , , ), al «costituentismo che trapela da tutti i pori di quell’Italia “qu’on ne voit pas”» (Q  II , , ), al «sostegno dato alle ideologie costituentiste» nella contrapposizione fra «la teoria della così detta rivoluzione permanente» e «il concetto di dittatura democratico-rivoluzionaria» (Q , , ): una Costituente sul modello della Russia rivoluzionaria, sia pure con tutte le differenze tra Oriente e Occidente, appare un passaggio obbligato nella lunga “guerra di posizione” che prelude alla conquista dello Stato e, successivamente, alla sua estinzione. Del resto, la mancata convocazione durante il Risorgimento di un’«assemblea nazionale costituente», sul modello francese dell’Ottantanove, da parte sia del «Partito d’Azione (per congenita incapacità)» sia dei moderati affinché «la monarchia piemonte-



se, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta l’Italia» (Q , , ), aveva condizionato la vita del regno, che anzi aveva visto progressivamente affermarsi una «tendenza “costituentesca” alla rovescia, che dando un’interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di Stato reazionario» (Q , , ), sfociata prima nel tentativo giolittiano di «una Costituente senza la Costituente, senza cioè l’agitazione politica popolare» (Q , , ), in occasione delle elezioni a suffragio universale del , che pure «ebbero per il popolo un carattere di Costituente» (Q , , ), e poi nel fascismo. GIUSEPPE COSPITO V. «Giolitti», «guerra di posizione», «OrienteOccidente», «Risorgimento», «URSS».

costituzionalismo In una nota sulla codificazione del diritto romano G. accenna al costituzionalismo come compimento di una lunga stagione giuridica tesa a istituire «un quadro permanente di “concordia discorde”, di lotta entro una cornice legale», al fine di poter «sviluppare le forze implicite nella [...] funzione storica» (Q , , ) della classe borghese. Questo fenomeno è analizzato nelle Costituzioni europee, come quella «spagnola del  [...] “esemplare” per l’Europa assolutista» (Q , , ), quella polacca del , «che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» (Q , , ), quella di Malta del  (Q , , ). La riflessione di G. sul costituzionalismo come concetto ampio e dinamico prosegue in una nota su Hegel, la cui «dottrina [...] sui partiti e le associazioni come trama “privata” dello Stato [...] doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo» (Q , , ). Il costituzionalismo moderno sintetizzato da Hegel, che «supera già, così, il puro costituzionalismo», è la cornice politica che permette il «governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche “educa” questo consenso» (ibid.).



COSTITUZIONE

La considerazione ampia che G. ha del fenomeno costituzionale emerge anche dal riferimento al rapporto tra l’esercito e la Costituzione: «non è vero che l’esercito, secondo le costituzioni, non deve mai fare della politica; l’esercito dovrebbe appunto difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato» (Q , , ). Machiavelli stesso, per G., è attento a questo livello costituzionale: «in tutto il Machiavelli si trovano sparsi principi generali di diritto costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non cadere sotto i colpi dell’arbitrario» (Q , , -). MICHELE FILIPPINI

essere uno dei mezzi più efficaci per combattere l’astrattismo meccanicistico e il fatalismo deterministico» (Q , , ). Questa “storicizzazione” delle Costituzioni va però di pari passo con il rilievo dato ai meccanismi giuridici che sono alla base dei testi costituzionali. Dimostrando di seguire un dibattito che in quegli anni oppone Kelsen a Schmitt, e iniziando a riflettere sui limiti del costituzionalismo davanti al nazismo montante, G. rileva come «in ogni costituzione sono da vedere i punti che permettono il passaggio legale dal regime costituzionaleparlamentare a quello dittatoriale: esempio l’art.  della costituzione di Weimar, che tanta importanza ha avuto nella recente storia tedesca» (ivi, ). MICHELE FILIPPINI

V. «consenso», «Costituzione», «Hegel», «Machiavelli», «Stato».

V. «diritto», «rapporti di forza».

Costituzione

creatività, creativo

In Q ,  G. segnala il suo interesse per i testi costituzionali sottolineando come «il punto più interessante pare debba essere questo: come la costituzione scritta si adatti (sia adattata) al variare delle congiunture politiche, specialmente a quelle sfavorevoli alle classi dominanti» (ivi, ). In questo contesto viene ripresa «l’acuta analisi fatta dal Marx della Carta spagnola» come «dimostrazione chiara dell’essere quella Carta l’espressione esatta di necessità storiche della società spagnola e non un’applicazione meccanica dei principi della Rivoluzione francese [...] Bisognerebbe riprendere quindi l’analisi di Marx, confrontare con la costituzione siciliana del  e con i bisogni meridionali: il confronto potrebbe continuare con lo Statuto albertino» (Q , , ). La Costituzione è quindi per G., più che una norma fondamentale e immutabile, un testo che rispecchia i rapporti di forza all’interno di uno Stato: «si può dire in generale che le costituzioni sono più che altro “testi educativi” ideologici, e che la “reale” costituzione è in altri documenti legislativi (ma specialmente nel rapporto effettivo delle forze sociali nel momento politico-militare). Uno studio serio di questi argomenti, fatto con prospettiva storica e con metodi critici, può

Nei Q l’aggettivo «creativo» compare in quattro contesti: il lavoro, la politica, la scuola e la filosofia. In tutti, è sinonimo di “attivo”, cioè di un aspetto che si manifesta tendenzialmente in tutti i momenti della vita sociale ed è il fondamento della sua storicità. Tale aspetto, sempre presente, non lo è però sempre allo stesso modo: «scuola creativa» significa «scuola in cui la “recezione” avviene per uno sforzo spontaneo e autonomo dell’allievo» (Q , , ), distinta dalla scuola volta al mero addestramento professionale; «nella politica [...] l’elemento volitivo ha un’importanza molto più grande che nella diplomazia», che «è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica (tutta l’attività umana è creativa)» (Q , , -); l’azione del capo carismatico sarà, a differenza di quella del “moderno Principe”, «di tipo “difensivo” e non creativo» (Q , , ); infine, il rapporto di grammatica e logica «collo spirito infantile è sempre attivo e creativo, come attivo e creativo è il rapporto tra l’operaio e i suoi utensili di lavoro: un calibro è un insieme di astrazioni, anch’esso, eppure non si producono oggetti reali senza la calibratura, oggetti reali che sono rapporti sociali e contengono implicite delle idee» (Q , , ).

CRISI

Da queste occorrenze emerge l’esigenza di individuare un piano, sul quale quel discorso generico e formale sulla creatività umana si specifichi in differenze reali, di contenuto. Tale piano viene individuato – come sintesi di una lunga riflessione precedente – in un Testo B del Q : la filosofia della praxis definisce la creatività del pensiero in modo non speculativo, «storicizzando il pensiero», cioè assumendolo «come concezione del mondo, come “buon senso” diffuso nel gran numero [...] in modo tale da convertirsi in norma attiva di condotta. Creativo occorre intenderlo quindi nel senso “relativo”, di pensiero che modifica il modo di sentire del maggior numero e quindi della realtà stessa che non può essere pensata senza questo maggior numero» (Q , , ). FABIO FROSINI V. «concezione del mondo», «filosofia», «solipsismo, solipsistico», «volontà».

polare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali» (ibid.). La solidità delle credenze è ravvisata anche in altri contesti storico-sociali: nell’islam dell’Africa settentrionale (Q , , ); nel gandhismo (Q , , ), dov’è visibile il nesso con “credenze religiose”, “morale di popolo”, cioè imperativi «molto più forti e tenaci che non quelli della morale kantiana» (Q , , ), modificato in «“morale” ufficiale» in Testo C (Q , , ). Nella lettera alla cognata Tania del  febbraio  G. annota la preoccupazione di un tale «evangelista o metodista o presbiteriano», tormentato dal pericolo, «per la omogeneità delle credenze e dei modi di pensare della civiltà occidentale [...] di un innesto dell’idolatria asiatica» in Italia a seguito della circolazione di certe immaginette buddiste (LC ). Nei Q vi è poi un diffuso uso generico del lemma “credenze”, la cui accezione è via via desumibile dal contesto in cui il termine compare. GIOVANNI MIMMO BONINELLI

creazione: v. distruzione-creazione. credenze popolari Per Marx «l’eguaglianza e la validità eguale di tutti i valori [...], può essere decifrat[a, ndr] soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare» (Marx , ). L’affermazione è ricordata in diverse note dei Q: «la frequente affermazione che fa il Marx della “solidità delle credenze popolari”» (Q , , ), quando una concezione del mondo «avrà la forza delle credenze popolari» (ibid.); «granitica compattezza fanatica delle “credenze popolari” che hanno il valore di “forze materiali”» (Q , ,  e Q , , , Testo C), così come in Q , , , dove l’autore corregge le «“illusioni” popolari» di Testo A (Q , , ). Similmente dove G. scrive: «“saldezza delle convinzioni”» (Q , , ), «imperatività» delle credenze popolari (Q , , ) nel regolare la condotta umana e la sua “filosofia”. Nella citazione marxiana è implicitamente affermata «la necessità di nuove credenze popolari [...] di un nuovo senso comune e quindi di una nuova cultura e di una nuova filosofia che si radichino nella coscienza po-

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V. «cultura», «cultura popolare», «ideologia», «senso comune».

crisi La riflessione sulla crisi prende avvio nei Q da una nota sul partito monarchico francese di Charles Maurras. Esso, nota G., è «un partito-movimento notevole, imponente persino, ma che si esaurisce in se stesso, che non ha cioè, riserve da buttare nella lotta in una crisi risolutiva. È notevole dunque solo nei periodi normali, quando gli elementi attivi si contano solo a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (numericamente) nei momenti di crisi, quando gli attivi si potranno contare a centinaia di migliaia e forse a milioni» (Q , , ). “Crisi” indica pertanto, in questa prima comparsa, secondo la sua accezione medica originaria, il punto culminante o risolutivo di un processo, connotato da un subitaneo cambiamento in meglio o in peggio, che decide del decorso della malattia. In questa stessa accezione, crisi indica qui anche una situazione di mobilitazione collettiva, in cui le masse improvvisamente si fluidificano, rivelando e accelerando processi strutturali prima lenti e impercettibili.



CRISI

Nella stessa accezione il termine torna, con un esplicito rinvio interno a questo testo, in un altro luogo del Q , dove il tema viene ripreso in modo assai più impegnativo. Il giacobinismo «di contenuto», scrive G., trova «la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie “private” nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso “volontario”, in un modo o nell’altro)» (Q , , ). «Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: “crisi del principio di autorità” – “dissoluzione del regime parlamentare”» (ivi, ). Questo riferimento è a un dibattito assai diffuso a partire dal dopoguerra, a cui partecipa anche Maurras, condotto a partire da vari punti di vista (Q , ; Q , ; Q , ; Q , ; Q , ; Q , ; Q , ; Q , ), tutti accomunati, ad avviso di G., dall’incapacità di afferrare il nucleo centrale della crisi in quanto crisi di egemonia. Mentre si diagnostica la crisi di un “principio”, si dovrebbe in realtà analizzare il modo e le ragioni per le quali gli apparati egemonici non sono più in grado di formare il consenso con mezzi normali. Questa analisi, che G. conduce nel corso del  sviluppando la categoria di intellettuali come funzionari dello Stato, come Stato più società civile, culmina in due testi coevi (novembre ) del Q , in cui la crisi di egemonia viene specificata come «crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi» (Q , , ) e, in modo innovativo, viene focalizzata sulla dinamica di sviluppo dei partiti politici in rapporto alle classi sociali che essi rappresentano. «A un certo punto dello sviluppo storico – scrive G. – le classi si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono o li dirigono, non rappresentano più la loro classe o frazione di classe. È que-

sta la crisi più delicata e pericolosa, perché offre il campo agli uomini provvidenziali o carismatici. Come si forma questa situazione di contrasto tra rappresentati e rappresentanti, che dal terreno delle organizzazioni private (partiti o sindacati) non può non riflettersi nello Stato, rafforzando in modo formidabile il potere della burocrazia (in senso lato: militare e civile)? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. La crisi è pericolosa quando essa si diffonde in tutti i partiti, in tutte le classi, quando cioè non avviene, in forma acceleratissima, il passaggio delle truppe di uno o vari partiti in un partito che meglio riassume gli interessi generali. Questo ultimo è un fenomeno organico [e normale], anche se il suo ritmo di avveramento sia rapidissimo in confronto ai periodi normali: rappresenta la fusione di una classe sotto una sola direzione per risolvere un problema dominante ed esistenziale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella dell’uomo provvidenziale, significa che esiste un equilibrio statico, che nessuna classe, né la conservatrice né la progressiva hanno la forza di vincere, ma anche la classe conservatrice ha bisogno di un padrone» (Q , , ; v. anche Q , ). La crisi come punto culminante è stata qui compiutamente risolta nelle dinamiche egemoniche che la intramano, e il risultato è uno schema analitico in cui il rapporto tra classi e partiti, mediato dagli intellettuali, oscilla costantemente tra la sfera statale-privata e quella politico-statale, dando luogo, nel corso di queste oscillazioni, a momenti “critici” che possono sfociare regressivamente nella rinuncia della classe dominante a costruire il consenso. Più tardi, tra il maggio e il luglio del , G. tornerà nuovamente su questa accezione di crisi come momento culminante di un rapporto di forze, fissando due punti chiave. Anzitutto, che il tanto dibattuto, in quegli anni, tema della crisi del parlamentarismo trova origine «nella società civile», in particolare nel «fenomeno sindacale», non «inteso nel suo senso elementare di associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine», ma nell’accezione tipica «per eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova for-

CRISI

mazione, che precedentemente non avevano “voce in capitolo” e che per il solo fatto di unirsi modificano la struttura politica della società» (Q , , ). L’irruzione sulla scena della storia del movimento operaio organizzato, con la sua stessa esistenza, rende estremamente difficoltoso l’esercizio dell’egemonia liberale. Il secondo aspetto è che questa irruzione è databile alla «guerra del ’-», che pertanto «rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del  hanno appunto fatto “mucchio”, modificando la struttura generale del processo precedente» (Q , , ). Un processo lento e molecolare si condensa repentinamente in un’esplosione che, per essere l’espressione delle tendenze in quello presenti, non ne è però una meccanica trasposizione, ma appunto il momento risolutivo, in cui tutte le forze in gioco si affrontano sul terreno politico (e politico-militare) in modo decisivo. Il riferimento al fenomeno fascista come tentativo di uscita dalla crisi di egemonia, determinata dallo spostamento delle masse nel dopoguerra, apre l’analisi a un inquadramento più generale della nozione di crisi, che giunge gradualmente a unificare l’accezione strettamente politico-egemonica finora esaminata con quella più tecnica di “crisi economica”, attraverso la mediazione del concetto di crisi come epoca di transizione tra diversi modi di produzione. Una traccia precisa di questa esigenza si trova già nel Q , dove G. si domanda se l’americanismo possa essere «una fase intermedia dell’attuale crisi storica», e più specificamente se «la concentrazione plutocratica» possa «determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul modello dell’industria americana» (Q , , ). Questo spunto verrà sviluppato con la ricerca su americanismo e fordismo, in cui il rapporto tra Europa e America viene letto alla luce dell’esigenza, sorta come reazione alla crisi del  e alla connessa caduta tendenziale del saggio di profitto, di passare dall’economia individualistica a un’economia programmatica. La crisi del  sorge infatti dalla “determinazione” nazionale del “mercato”, dalla sua

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nazionalizzazione forzosa, imposta politicamente dalle diverse borghesie nazionali come garanzia del mantenimento di determinati rapporti di forza nazionali e internazionali (Q , , , dell’ottobre-novembre : con la politica doganale «ogni nazione importante può tendere a dare un sostrato economico organizzato alla propria egemonia politica su le nazioni che le sono subordinate»), mentre il mercato capitalistico è strutturalmente un mercato mondiale (Q , , - e Q  II, , -). In definitiva, la valutazione di G., espressa già nel Q  e non più rimessa in discussione, è che la «crisi odierna [...] è una resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all’intensificarsi dell’importanza del mercato mondiale» (Q , , , del dicembre -marzo ). In questo quadro, il fascismo è un tentativo di inserire su nuove basi l’Italia nei rapporti di forze internazionali. Alti esponenti del regime sono consapevoli di questo nesso tra livello nazionale e internazionale della crisi e della sua possibile soluzione, nota G., ricordando nel giugno  due discorsi parlamentari del ministro degli Esteri Dino Grandi, in cui «la quistione italiana» viene posta «come quistione mondiale, da risolvere insieme alle altre che formano l’espressione politica della crisi iniziata nel » (Q , , ). Ma il suo giudizio a questo riguardo rimane prevalentemente negativo, dato che questa riorganizzazione viene rivendicata a partire dall’uso parassitario della spesa pubblica e favorendo il disinvestimento di capitale produttivo, grazie al mantenimento a livelli assai bassi del tenore di vita della popolazione (Q , ,  e Q , ). Se il fascismo si annuncia con «un inizio di fanfara fordistica», ha poi luogo la «conversione al ruralismo e all’illuministica depressione delle città: esaltazione dell’artigianato e del patriarcalismo, accenni di “proprietà del mestiere” e di lotta contro la “libertà industriale”» (Q , , , febbraiomarzo ), anche se, nota G. nella seconda stesura di questo testo (febbraio-marzo ), pur essendo «lo sviluppo [...] lento e pieno di comprensibili cautele, non si può dire che la parte conservatrice, la parte che rappresenta la vecchia cultura europea con tutti i suoi strascichi parassitarii, sia senza antagonisti

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CRISI

(da questo punto di vista è interessante la tendenza rappresentata dai “Nuovi Studi”, dalla “Critica Fascista” e dal centro intellettuale di studi corporativi organizzato presso l’Università di Pisa)» (Q , , ). La crisi del  va letta dunque alla luce del concetto di rapporti di forza. Non casualmente, la riflessione di G. su questa nozione, a partire da Q ,  (ottobre ), si sviluppa in funzione della comprensione della crisi in quanto «epoca di rivolgimenti sociali», come emerge dalla marxiana Prefazione al Per la critica dell’economia politica. In Q ,  G. nota che stabilire «i rapporti tra struttura e superstrutture» è «il problema cruciale del materialismo storico» e che per risolverlo è necessario fare ricorso a quel passo della Prefazione in cui vengono fissati i due «principii» metodologici del materialismo storico: «°) il principio che “nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti” [o esse non siano in corso di sviluppo e di apparizione], e °) che “nessuna società cade se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti”» (ivi, ). In questo modo si fissa il margine di oscillazione tra “vecchio” e “nuovo” nella storia, lo spazio entro il quale è pensabile una crisi di egemonia e pertanto la decisività della politica. La centralità della politica è dunque condizionata dalla crisi, la fusione di economia e politica è circoscritta alle fasi di passaggio. G. precisa infatti che «nello studio di una struttura occorre distinguere ciò che è permanente da ciò che è occasionale» (ibid.), discriminando struttura e congiuntura, sviluppo strutturale da epoca di rivolgimento sociale. Tuttavia, nel delineare il concetto di crisi, G. utilizza riferimenti irriducibili a questo schema stadiale della storia, quando spiega la superiorità di una forza politico-sociale sull’altra (e dunque la soluzione della crisi) come una dimostrazione che avviene «coi fatti in ultima analisi, cioè col proprio trionfo, ma immediatamente con la polemica ideologica, religiosa, filosofica, politica, giuridica ecc.», riprendendo un celebre passaggio della Prefazione, ma in connessione con il concetto di “verità” elaborato nelle Tesi su Feuerbach. E

nella seconda stesura precisa che la «concretezza» di queste polemiche ideologiche «è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali» (Q , , ). Questo contrasto di impostazioni giunge a sciogliersi, a favore della seconda, quando G. elabora il concetto di mercato determinato. A questo punto, decisivo diventa individuare gli «elementi» che, in una determinata «struttura fondamentale» di una «società», sono «[relativamente] costanti» e quindi «determinano il mercato ecc., e quegli altri “variabili e in isviluppo” che determinano le crisi congiunturali fino a quando anche gli elementi [relativamente] costanti ne vengono modificati e si ha la crisi organica» (Q , , , marzo ). Costanza e variazione sono però adesso – stante il concetto di mercato determinato – da ricondurre entrambe a una “fissazione” giuridica e in ultima istanza politica, che è sempre l’esito instabile di processi egemonici antagonistici. Pertanto la costanza (che “tollera” crisi congiunturali) è qui un caso limite di variazione, che invece si condensa in crisi organica. Lo “scambio” di elementi costanti e variabili (cioè la crisi organica) non inaugura una nuova fase storica (dallo sviluppo alla crisi), ma mette in luce processi presenti anche in precedenza. Una volta unificate accezione egemonica e accezione economica della crisi, questa diventa un aspetto presente anche nelle fasi di “sviluppo”, sia pure in forma di costante elusione. Queste conseguenze vengono tratte in un testo in qualche modo conclusivo, appartenente al Q . L’origine della crisi economica mondiale, scrive qui G., risale molto al di qua delle manifestazioni clamorose del crollo di Borsa: risale al dopoguerra e alla stessa guerra (Q , , -, febbraio ), e «la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici» (ivi, ), vale a dire (in base alla nozione di mercato determinato) in uno scambio tra elementi costanti e variabili che ridetermina tutto l’equilibrio tra rapporti di forza economico-sociali, politici e militari. «La “crisi” – prosegue G. – non è altro che l’intensificazione quantitativa di certi elementi, non nuovi e originali, ma specialmente l’in-

CRISI DI AUTORITÀ

tensificazione di certi fenomeni, mentre altri che prima apparivano e operavano simultaneamente ai primi, immunizzandoli, sono divenuti inoperosi o sono scomparsi del tutto. Insomma lo sviluppo del capitalismo è stata una “continua crisi”, se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale. Sono allora sopravvenuti avvenimenti ai quali si dà il nome specifico di “crisi”, che sono più gravi, meno gravi appunto secondo che elementi maggiori o minori di equilibrio si verificano» (ivi, -). BIBLIOGRAFIA: BRACCO ; DE GIOVANNI ; POTIER . FABIO FROSINI V. «americanismo e fordismo», «catastrofe, catastrofico», «crisi di autorità», «crisi organica», «economia programmatica», «fascismo», «intellettuali», «Prefazione del ’», «rapporti di forze».

crisi del ’: v. crisi. crisi di autorità Per «crisi di autorità» G. intende un elemento particolare della più generale «crisi organica» che lo Stato liberale italiano si trova a fronteggiare dopo la prima guerra mondiale. Questo elemento è la crisi dell’aspetto “ideologico” del dominio di classe. Per G., a «un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe» (Q , , -). Più avanti nella nota la crisi è chiamata anche «crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa atti-

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vità e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di “crisi di autorità” e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso» (ibid.). Uno dei sintomi classici di questa crisi viene ravvisato da G. nei «fenomeni della attuale decomposizione del parlamentarismo» (Q , , ), un elemento su cui aveva spesso insistito anche nei primi anni Venti (v. ad esempio La sostanza della crisi, Il processo della crisi e Una crisi nella crisi, rispettivamente ,  e  febbraio , in SF -, -, -), quando il fascismo era alle porte e la situazione si mostrava ancora aperta a diversi esiti. Il distacco delle grandi masse dai consueti strati dirigenti crea per G. una situazione pericolosa, nella quale possono intervenire «potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici» (Q , , ). Ma questa situazione ha, per il G. maturo, un suo lato positivo, perché offre spazi liberi nei quali può inserirsi una nuova concezione del mondo, a sostituzione della vecchia caduta in declino. Si può aprire così un vero e proprio campo egemonico nel quale combattere una battaglia: uno spazio teorico e pratico che G. prevede passi inizialmente per uno «scetticismo diffuso», per poi configurarsi come campo aperto nel quale sussistano le «condizioni più favorevoli per un’espansione inaudita del materialismo storico» (Q , , ). L’iniziale scetticismo sarà dovuto alla «morte delle vecchie ideologie» e verrà accompagnato da un rifiuto «verso tutte le teorie e le formule generali» (ivi, ). Al contrario, gli elementi più legati «al puro fatto economico» e alla «politica [...] realista» (ibid.) verranno rivalutati e la «stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa, lo renderà più espansivo [...] questa riduzione all’economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità [e necessità] di formazione di una nuova cultura» (ivi, -). Niente di automatico in tutto questo per G., ma la constatazione che l’irruzione delle masse nella politica apre nuovi spiragli per l’azione delle classi subalterne.



CRISI DI EGEMONIA

Se in Q ,  la crisi di autorità appare un fenomeno ciclico e ricorrente, che periodicamente cambia le forme di direzione intellettuale, in Q ,  si coglie uno slittamento di significato che la fa diventare un evento eccezionale, una cesura storica che modifica l’azione politica e il modo di intendere il rapporto egemonico. La crisi di autorità è infatti per G. anche il segno di un mutare strutturale dei tempi, per cui, con l’entrata delle masse nella sfera politica, non è più possibile mantenere l’egemonia attraverso un gruppo di intellettuali sostanzialmente autoreferenziali che si tengono lontani dalla vita pratica. Croce se ne rende conto ed «esprime il rammarico per questo fatto, che rappresenta una “crisi d’autorità”» (ivi, ). La funzione del grande intellettuale, seppur ancora intatta, lo è soltanto nella misura in cui questi riesca a tuffarsi «nella vita pratica», a «diventare un organizzatore degli aspetti pratici della cultura», soltanto se l’intellettuale è capace di «democratizzarsi» (ibid.). Per G., l’umanità ha attraversato nella sua storia varie crisi di autorità, per cui si può dire che «oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo» (ivi, ). Ma la crisi attuale è anche una crisi che inaugura una nuova epoca, visto che gli «intellettuali non hanno né l’organizzazione chiesastica, né qualcosa che le rassomigli e in ciò la crisi moderna è aggravata in confronto alla crisi medioevale [...] Questo [processo di] disintegrazione dello Stato moderno è pertanto molto più catastrofico del [processo storico] medioevale che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo» (ivi, ). L’elemento ricostruttivo-integrativo è ora nelle mani di chi saprà creare un’unità organica che rappresenti il fondamento di una nuova società. Se «la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”» (Q , , ), è il nuovo intellettuale organico alla classe operaia l’elemento chiamato da G. a svolgere questo compito. MICHELE FILIPPINI V. «classe dirigente», «crisi organica», «egemonia», «Medioevo», «Stato».

crisi di egemonia: v. crisi di autorità. crisi organica «Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (Q , , ). Si verifica una situazione complessa nella quale, pur avendo perduto il consenso, la classe dominante conserva l’autorità, per cui non è più dirigente ma continua a essere dominante. Al tempo stesso la classe dominata è pervenuta all’acquisizione di una certa quota di consenso, ma non ha l’autorità per cui sarebbe già dirigente. In questo contesto si sviluppa una dialettica che non rimanda a un puro e semplice rapporto basato sulla forza, ma a una dinamica che ruota intorno al nesso forza-consenso. Se il “nuovo” tarda ad affermarsi, sia il “vecchio” sia il “nuovo” si trovano a convivere in una situazione di «scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica», ergo «riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura» (ivi, ). La crisi organica è proprio costituita da una frattura fra struttura e sovrastruttura, determinata dal sorgere delle contraddizioni che nascono nel momento in cui la sovrastruttura si sviluppa in modo non conforme alla struttura. Le condizioni necessarie al dirompere di una crisi organica sono due: a) il fallimento della politica della classe dirigente; b) l’organizzazione delle classi subalterne, senza di che la crisi non provocherà ripercussioni all’interno della prima. La crisi esplode, scrive G., «o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o posto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che

CRISI ORGANICA

nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione» (Q , , ). G. fa l’esempio di quanto avvenuto in Italia alla fine del primo conflitto mondiale, a cui seguì una crisi organica «) perché grandi masse, precedentemente passive, sono entrate in movimento, ma in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva; ) perché classi medie che nella guerra avevano avuto funzioni di comando e di responsabilità, ne sono state private con la pace, restando disoccupate, proprio dopo aver fatto un apprendissaggio di comando; ) perché le forze antagonistiche sono risultate incapaci a organizzare a loro profitto questo disordine di fatto» (Q , , -). Perciò quando la classe dirigente ha cessato di «far avanzare realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico-produttiva», appena il gruppo ormai soltanto dominante ha cessato questa funzione, «il blocco ideologico tende a sgretolarsi» (Q , , ). La crisi organica si presenta con le caratteristiche proprie di una crisi di egemonia: «In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente» (Q , , ). La crisi di egemonia si manifesta nel momento in cui la società civile priva lo Stato del supporto costituito dalla direzione, dall’organizzazione del consenso di massa e dalla formazione ideologica di funzionari e quadri dirigenti. È così aperta la strada alla crisi organica in conseguenza della quale «lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato» (Q , , ). Esemplificazione storica: «Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e in aspetti secondari e derivati. I più triviali sono: “crisi del principio di autorità” e “dissoluzione del regime parlamentare”. Naturalmente del fenomeno

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si descrivono solo le manifestazioni “teatrali” sul terreno parlamentare e del governo politico ed esse appunto si spiegano col fallimento di alcuni “principii” (parlamentare, democratico, ecc.) e con la “crisi” del principio d’autorità [...] La crisi si presenta praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi: essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti» (Q , , -). G. sottolinea con forza gli elementi strutturali della crisi organica, l’arresto della capacità espansiva dei quadri sociali come elemento dinamico della modernità borghese, arresto iniziato con «la crisi dell’“Occidente”» (Q , , ). Che si tratti di una crisi epocale G. lo sottolinea commentando l’intervento di Croce al Convegno internazionale di filosofia svoltosi a Oxford nel novembre-dicembre del : «Oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco fra “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo: fenomeno molto più complesso di quello di allora, di quanto è diventata più complessa la vita moderna. I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economico-corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica-corporativa; gli intellettuali tradizionali, staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica. Segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva [...] Oggi lo “spirituale” che si stacca dal “temporale” e se ne distingue come a se stante, è un qualcosa di disorganico, di discentrato, un pulviscolo instabile di grandi personalità culturali “senza Papa” e senza territorio. Questo [processo di] disintegrazione dello Stato moderno è pertanto molto più catastrofico del [processo storico] medioevale che era disintegrativo e integrativo nello stesso tempo» (Q , , -). Questo insieme di problematiche convince G. a definire «orga-

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CRISPI , FRANCESCO

nica» la crisi che investe l’Europa a partire dall’ultimo trentennio del XIX secolo, una crisi che pone la società capitalistico-borghese nella condizione di dover fare i conti, «in questo interregno», con «i fenomeni morbosi più svariati» (Q , , ). LELIO LA PORTA V. «apparato egemonico», «consenso», «crisi», «crisi di autorità», «direzione», «dominio», «economico-corporativo», «egemonia», «intellettuali tradizionali», «Medioevo», «società civile», «Stato», «struttura», «superstruttura, superstrutture».

Crispi, Francesco Nell’ambito della riflessione gramsciana, la figura di Crispi è collocata nel processo di perfezionamento del controllo egemonico del Nord sul Mezzogiorno d’Italia: «La relazione di città e campagna tra Nord e Sud – scrive G. – può essere studiata nelle diverse forme di cultura. Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono a capo, nell’inizio di questo secolo, di un movimento culturale che si contrappone al movimento culturale del Nord (futurismo) [...] Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale; Pirandello nelle linee generali è più vicino al futurismo; Gentile ed il suo idealismo attuale sono anch’essi più vicini al movimento futurista, inteso in senso largo, come opposizione al classicismo tradizionale, come forma di un “romanticismo” contemporaneo» (Q , , ). Questa breve galleria di personaggi eterogenei sintetizza in un “futurismo”, non immediatamente letterario, il segno di una chiusura specificamente politica con la tradizione. Crispi è a favore di un cambiamento a fini di egemonia, in quanto colloca nel sistema produttivo legato alla fabbrica la forza che guida nel nuovo secolo tutto il paese. Egli pone dunque un’originale fusione fra moderatismo (partito moderato) e giacobinismo: moderato perché punta al consolidamento dell’egemonia del Nord contro le forze centrifughe del Mezzogiorno, giacobino perché campione di un pensiero determinato a divenire forza politica decisiva. Afferma G.: «Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico e

risoluto perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee. Crispi è “giacobino” solo in questo senso. Per il suo programma egli è un moderato puro e semplice. La sua “ossessione” giacobina è l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio è sempre la sua bussola d’orientamento» (Q , , -). Si tratta di un esempio di “duro” trasformismo politico, argomento ripreso più volte nei Q. SILVIO SUPPA V. «città-campagna», «Croce», «egemonia», «Fortunato», «futurismo», «Gentile», «giacobinismo», «guerra di movimento», «Mezzogiorno», «moderati», «Nord-Sud», «Pirandello».

cristianesimo «Cristianesimo» non è termine univoco in G. Esistono tante forme di cristianesimo a seconda dei periodi storici e a seconda degli strati sociali credenti. Si ha un cristianesimo primitivo delle origini, uno medievale, uno riformato dell’Età moderna e uno positivizzato e secolarizzato dell’Età contemporanea. G. intende indagare soprattutto i motivi di successo del cristianesimo e della sua bimillenaria storia, la sua capacità di sopravvivere alla trasformazione e al mutamento delle vicende storiche. Egli individua il segreto di questo successo fondamentalmente nella capacità del cristianesimo di elaborare una «riforma intellettuale e morale», una concezione del mondo e della vita con corrispettive condotte pratiche di vita, corrispondenti alle esigenze dei ceti popolari: «il cristianesimo rappresenta una rivoluzione nella pienezza del suo sviluppo, una rivoluzione cioè che è giunta fino alle sue estreme conseguenze, fino alla creazione di un nuovo ed originale sistema di rapporti morali, giuridici, filosofici, artistici» (Il Partito comunista,  settembre , in ON ). Questo carattere consente al cristianesimo anche di organizzare il consenso popolare e conquistare l’egemonia sociale. Storicamente il cristianesimo conosce due grandi fasi: una ascendente di «conquista e mantenimento» e una discendente di «perdita» di questa egemonia. La prima va dal cristianesimo primitivo fino all’alto Me-

CRISTIANESIMO

dioevo, periodo coincidente anche con l’esercizio del massimo potere politico della Chiesa cristiana romana e del papato e con la loro superiorità rispetto all’impero e all’imperatore, ciò che G. esprime con l’espressione «comando per grazia di Dio» (Q , , ; v. anche Q , , -). La formula del Sacro romano impero, dove è il “sacro” che predomina, esprime bene questa situazione di raggiunta supremazia della Chiesa. La seconda fase, che giunge fino all’Età contemporanea, inizia nel basso Medioevo, quando il cristianesimo comincia ad avvertire la crisi del blocco ideologico costruito nei secoli precedenti. La feudalizzazione totale della Chiesa riduce il cristianesimo da ideologia delle classi “umili” a ideologia di dominio e di controllo sociale e politico. Comincia a delinearsi la scissione, che diventerà rottura nei secoli successivi, tra religione popolare e religione ecclesiasticoclericale. Le classi subalterne cominciano ad avvertire di non essere più rappresentate dalla Chiesa gerarchica e reagiscono tentandone una riforma con la proposta di un ritorno al cristianesimo genuino delle origini. Ne sono manifestazione i movimenti ereticali e i movimenti religiosi popolari, con a capo minoranze di intellettuali religiosi. Il medesimo movimento “borghese” comunale è ritenuto da G. un’“eresia” cristiana. Esso, infatti, nella lotta per la rivendicazione dell’autonomia nei confronti dell’imperatore avrebbe finito col mettersi contro lo stesso papato (Q , , -). È questo aspetto di movimento ideologico popolare rivoluzionario, colto da G. soprattutto nel cristianesimo primitivo e in alcune espressioni del cristianesimo popolare medievale, che colpisce la sua attenzione fin da giovane e l’induce, analogamente a Engels, Kautsky e altri pensatori marxisti, a instaurare dei paralleli positivi tra esso e il socialismo (Il Partito comunista,  settembre , in ON -). Analogamente al cristianesimo primitivo, anche le eresie medievali sono delle forme di resistenza o di “rivoluzione passiva”: «anche i movimenti religiosi popolari del Medioevo, francescanesimo ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fron-



te a oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli “umiliati e offesi” si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella “nuda” esposizione della loro “natura umana” disconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio-padre e di uguaglianza, ecc.» (Q , , -). La novità, rispetto al cristianesimo primitivo, è che tra gli oppressori, questa volta, c’è anche la Chiesa, divenuta parte del sistema feudale. Ma anche in questo caso la resistenza pacifica, la «perseveranza paziente e ostinata» (sostenuta dalla convinzione di senso comune secondo cui anche se «io sono sconfitto momentaneamente [...] la forza delle cose lavora per me a lungo andare»: Q , , ) cominciano a porre le condizioni per cambiamenti radicali. Le eresie introducono nella società medievale «elementi embrionali di nuova cultura» che avviano inconsapevolmente un processo di disfacimento e di disgregazione del mondo culturale esistente e, quindi, degli istituti medievali, Chiesa e impero. La reazione della Chiesa non riesce sempre e dappertutto a soffocare i fermenti nuovi; lo stesso tentativo di neutralizzare gli influssi degli intellettuali religiosi più legati al popolo non riesce del tutto, poiché se è vero che «gli intellettuali più in vista dell’epoca in Italia sono o soffocati o addomesticati dalla chiesa, [...] in altre parti d’Europa si mantengono come fermento per sboccare nella Riforma» (Q , , ). Anche se difficile e sotterraneo, permane sempre un contatto tra intellettuali religiosi subalterni e popolo. Ciò spiega perché dai domenicani esca poi un Savonarola e dagli agostiniani «la riforma prima e il giansenismo più tardi» (LC , a Tania,  marzo ). Nell’età moderna la contestazione interna e l’opposizione della borghesia laica sfociano in rotture clamorose della comunità ecclesiastica e in movimenti rivoluzionari popolari contro il regime feudale. Sul fronte religioso si hanno la Riforma di Lutero, la guerra dei contadini tedeschi, la nascita delle Chiese e delle sette protestanti. Sul fronte laico si assiste allo sviluppo del nazionalismo e degli Stati nazionali assoluti. La crisi dell’egemonia ecclesiastica è ormai consumata e inizia la fine del suo monopolio ideologico.

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CRISTIANESIMO

Il fronte, laico e religioso, alternativo al sistema feudale e alla Chiesa cattolica rompe l’unità territoriale, sociale e ideologica della cristianità: Nord e Centro Europa protestante, Europa mediterranea cattolica controriformista; separazione crescente della Chiesa dalla classe sociale emergente – la borghesia – fino a ridursi al ruolo reazionario e conservatore di intellettuale tradizionale, espressione cioè della classe sociale di origine feudale – l’aristocrazia agraria – dominante nel passato. A livello ideologico, infine, la rottura si rende visibile nella differenza tra il carattere popolare-nazionale, l’esigenza di “ritorno alle origini” della Riforma e il carattere “cosmopolita”, reazionario, “disciplinare” della Controriforma (Q , , ; v. inoltre Q , , ; Q , , ; Q , , -; Q , , ; Q , , ). Il risvolto immediatamente politico della nuova posizione di debolezza ideologica della Chiesa cattolica è – a parere di G. – l’instaurarsi di una situazione di belligeranza con il risultato della subordinazione della Chiesa agli Stati nazionali. Ne sono prova il gallicanesimo, il giuseppinismo e altre forme di giurisdizionalismo, che sono «la “prefazione” alla limitazione della chiesa nella società civile e politica» (Q , , ). È la fine del regime teocratico e la crisi del cosmopolitismo, tratti essenziali della civiltà feudale cattolica. Non più la Chiesa, ma gli Stati nazionali dettano le regole del gioco politico. E ciò può avvenire solo perché essi, alleandosi con gli strati borghesi contro l’aristocrazia feudale, riescono a sottrarre alla Chiesa una parte consistente di consenso popolare. La Controriforma esprime la consapevolezza della Chiesa di trovarsi di fronte a una crisi radicale e di vaste proporzioni. Il Concilio di Trento, il più grande tentativo della Chiesa moderna di operare una revisione globale dell’ideologia cattolica e del suo rapporto con la società, lungi dal rinnovare cristallizza invece per i secoli successivi la Chiesa nel ruolo di intellettuale tradizionale. I tentativi della Chiesa di raccordarsi alle masse popolari, come già nel Medioevo, mediante nuovi più moderni ordini religiosi e istituti secolari (in prima linea l’ordine dei gesuiti), non ripetono il successo della diplomazia ec-

clesiastica medievale, nonostante la maggiore efficienza della struttura organizzativa sia a livello strettamente culturale-religioso che sociale. È infatti cresciuto il divario tra l’ideologia cattolica, rimasta fondamentalmente feudale, e l’istanza popolare di superamento del sistema medievale (Q , , ; Q , , ; Q , , ; Q , , ). La mediazione positiva degli intellettuali ecclesiastici tra la Chiesa e le masse fallisce; essa si riduce alla mera funzione negativa di contenimento di quella che G. definisce «l’eresia di massa» del cattolicesimo, che si manifesterà in tutta la sua portata nella Rivoluzione francese e ancor più con il progredire in Europa del socialismo. D’altra parte comincia a far presa fra le masse l’ideologia alternativa della Riforma e del Rinascimento. Nascono i nuovi intellettuali espressi dalle classi subalterne emergenti, che, sul terreno religioso e su quello laico, si fanno portatori della nuova ideologia: Savonarola, Lutero, Calvino, Machiavelli, Giordano Bruno e, più avanti nel tempo, i nuovi scienziati (Galilei), gli illuministi, gli enciclopedisti. Sebbene in misura ancora ridotta e in maniera ancora imperfetta, la nuova concezione del mondo portata dalla Riforma coinvolge le masse popolari, suscitando un atteggiamento attivo verso il mondo. Esse, infatti, si lasciano alle spalle le “rivoluzioni passive” del cristianesimo primitivo e medievale e non esitano a prendere anche le armi per combattere guerre apparentemente di religione, ma che in realtà sono vere e proprie lotte di classe: la guerra dei contadini tedeschi, la Rivoluzione inglese, la Rivoluzione francese. Nell’Età moderna e contemporanea la crisi di rottura tra cristianesimo e popolo si cristallizza e non trova sbocchi operativi. La Controriforma cattolica recepisce e continua la cultura cortigiana, staccata dal popolo-nazione, essenzialmente reazionaria, elaborata dall’Umanesimo e dal Rinascimento (Q , , -; Q , , ; Q , ,  -; Q , , ). G. scrive espressamente: «il vero punto di rottura tra democrazia e chiesa è da porre però nella Controriforma» (Q , , ); «Con la Controriforma il papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si

CRITICA , CRITICO

era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile» (Q , , ). «La Controriforma ha isterilito questo pullulare di forze popolari» (Q , , ). Questo stato di distacco del cristianesimo dalle masse appare più marcato particolarmente in Italia, sede del papato, dove, a differenza di altri paesi europei, non si produce alcuna riforma o rivoluzione popolare simile alle tre grandi riforme e rivoluzioni dell’Età moderna avvenute in Germania, Inghilterra e Francia (Q , ,  e Q , , ). Non si creano intellettuali propri delle classi popolari. Di fronte alla rottura Chiesamasse non si forma, dall’altra parte, un nuovo blocco alternativo di intellettuali-popolo. Machiavelli, Bruno, Galilei e altri restano episodi singoli e isolati. Questa frattura fra cristianesimo e classi popolari, in Italia, si manifesterà solo più tardi, nel momento della rottura del rapporto politico tra Chiesa e Stato liberale borghese nel , quando la Chiesa, consapevole di non poter più disporre del consenso delle masse, non oserà andare allo scontro frontale, ma preferirà la strategia della protesta passiva del non expedit (Q , , ). D’altra parte lo Stato liberale intanto poté giocare la carta dell’unità nazionale, che comportava necessariamente la negazione del potere temporale del papato, in quanto sapeva appunto di avere dalla propria parte, o almeno non contro, il consenso popolare (plebisciti per le annessioni), venuto meno invece alla Chiesa. Indice tutto questo, oltre che di debolezza politica, anche di inferiorità ideologica della Chiesa. Ed è proprio su questa tacita ammissione di inferiorità ideologica che la Chiesa, a cominciare dal pontificato di Leone XIII, tenta di riorganizzarsi e ristrutturarsi per riconquistare l’egemonia culturale e sociale perduta. A differenza del passato, però, in cui essa faceva ricorso a risorse interne, di natura specificamente religiosa (ad esempio gli ordini religiosi), o a sistemi coercitivi propri o presi a prestito dallo Stato per far rientrare o eliminare il dissenso, ora la Chiesa deve scendere direttamente sul terreno sociale e politico e mettere a punto programmi e organizzazioni

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di massa adeguati ai tempi, che siano, cioè, competitivi con gli apparati ideologici degli avversari (Q , ,  e Q , , -). Ma su questo terreno la Chiesa, secolarizzandosi, è destinata alla sconfitta e condurrà essa stessa alla scomparsa medesima del cristianesimo. Già negli scritti giovanili G. parla di questa deriva nei termini di “suicidio del cristianesimo”, quale processo interno di autodegenerazione e autodistruzione (I cattolici italiani,  dicembre , in NM -; La settimana politica. I popolari, ° novembre , in ON -). Analoga analisi e interpretazione del cristianesimo con medesima prospettiva di autonegazione ed estinzione andava proponendo anche il pensatore austromarxista Max Adler. BIBLIOGRAFIA: L A ROCCA  e ; PORTELLI . TOMMASO LA ROCCA V. «cattolici», «Chiesa cattolica», «Controriforma», «eresie, eretici», «Lutero», «quistione vaticana», «religione», «Riforma», «Savonarola».

critica, critico Per G. quello di Marx è un pensiero «eminentemente pratico-critico» (Q , , ): questa formulazione stabilisce chiaramente che il termine «critica», come sostantivo e come aggettivo, non è usato da G. in senso kantiano, come limitazione delle pretese della ragione, ma nel senso in cui anche Marx lo usa nei titoli di diverse opere: come intervento della politica nella “teoria” e messa in evidenza della natura ideologica, cioè parziale, cioè in ultima analisi “politica” della teoria stessa. Di questa natura ideologica – propria di ogni teoria e filosofia – la filosofia della praxis è l’unica a essere consapevole. Perciò essa non pretenderà di applicare la critica pratica alle altre filosofie e teorie, se questa non venga applicata in primo luogo alla filosofia della praxis stessa. Di qui il suo statuto peculiarmente autoriflessivo: la filosofia della praxis da una parte distrugge e dileggia «tutti i concetti “unitari” staticamente» (Q , , ), dall’altra mantiene un «atteggiamento [...] sempre critico e mai dogmatico, [...] un atteggiamento in certo senso romantico, ma di un romanticismo che con-

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CROCE , BENEDETTO

sapevolmente ricerca la sua serena classicità» (Q , , ). Pertanto, in quanto filosofia che si sa espressione ideologica, di una società percorsa da contrasti, la filosofia della praxis afferma «implicitamente» che essa stessa è talmente storica, talmente “critica”, che la sua “classicità” corrisponderà alla sua stessa sparizione come filosofia: «Il filosofo attuale può affermare ciò e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dal terreno attuale delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia» (Q , , -; qui si può vedere un elemento kantiano, ma profondamente ripensato alla luce dell’unità di teoria e pratica). G. si sofferma anche sul significato di “critica” in riferimento alla teoria di Marx, chiamandola «Economia critica» (Q  II , ) e distinguendo tra «scienza economica e “critica di una scienza economica”» (Q , , ). FABIO FROSINI V. «filosofia della praxis», «Kant», «Marx», «marxismo».

Croce, Benedetto Sul rapporto G.-Croce si è esercitata una consistente parte della letteratura critica, sia quando si è trattato di valutarne gli aspetti comparativi, testuali e storico-filologici, sia quando il discorso si è collocato sul piano del confronto fra la tradizione marxista e quella liberale, sia infine per il valore che esso ha nel quadro più generale della storia degli intellettuali italiani del secolo XX. Qui non è certo possibile ripercorrere la complessa trama delle interpretazioni; è sufficiente riferirsi al giudizio, ancora oggi del tutto condivisibile, che sul finire degli anni Sessanta esprimeva Garin, quando scriveva che il dialogo-confronto tra i due pensatori traduceva, all’altezza dei problemi e dei contesti italiani, «alcuni grandi temi della cultura contemporanea». Quanto G. percepisse (e criticasse) la rilevante presenza di Croce nella politica e nella cultura italiana lo si può rilevare dal primo significativo riferimento al filosofo abruzzese nel Q , nelle pagine dedicate alla direzio-

ne moderata del Risorgimento e al formarsi di un blocco intellettuale meridionale «che ha a capo B. Croce e Giustino Fortunato e che si dirama in tutta Italia» (Q , , ). Era questo, in sostanza, il motivo di fondo che doveva indurre G. a una serrata critica della filosofia di Croce. Egli ben vedeva la distanza che correva tra la fin troppo smaccata identità tra ideologia e filosofia postulata dall’attualismo di Gentile e la filosofia crociana delle distinzioni, ma nella tendenza alla fusione tra pratica e teoria – alla quale Croce resisteva “eroicamente” – G. includeva anche il materialismo storico, e ciò perché Croce «ha viva la coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del problema filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale» (Q , , ). Sta qui, dunque, il nucleo essenziale del giudizio gramsciano su Croce. Si tratta del convincimento che G. espone in Q , . Il marxismo è stato un momento cruciale e determinante della cultura moderna, tanto da influenzarne non poche correnti di pensiero. Ma, come avviene per tutti i grandi fenomeni culturali, esso è stato anche integrato e influenzato da altre posizioni. G. assegna a se stesso la prosecuzione del compito avviato da Labriola: la riconquista dell’autonomia concettuale e ideale del marxismo, attraverso la critica delle forme di revisione del suo corpus teorico. G. parla di una «doppia revisione»: «Da un lato alcuni suoi elementi, esplicitamente o implicitamente, sono stati assorbiti da alcune correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson, ecc., i pragmatisti ecc.); dall’altra i marxisti “ufficiali”, preoccupati di trovare una “filosofia” che contenesse il marxismo, l’hanno trovata nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche in correnti idealistiche come il Kantismo (Max Adler)» (ivi, -). Vengono così delineandosi i contenuti del confronto che G. apre con Croce, a iniziare dalla individuazione di quei tratti del marxismo assorbiti e “rivisti”: il convincimento che il materialismo storico potesse esser ridotto a canone empirico di ricerca storica e la questione del valore delle ideologie e della

CROCE , BENEDETTO

loro identità-distinzione con la filosofia. Sul valore delle ideologie, ad esempio, G. rileva alcune contraddizioni in cui cadrebbe Croce. Mentre negli Elementi di politica egli ritiene, sbagliando secondo G., che per Marx le superstrutture sono apparenze e illusione, più avanti avrebbe invece sostenuto che le ideologie sono «“costruzioni pratiche”, sono strumenti di direzione politica», accogliendo dunque, dal materialismo storico, solo la parte «critico-distruttiva». L’apparente convergenza tra il giovane Croce, critico delle alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità, e il marxismo, si dissolve dinanzi all’errata interpretazione del valore delle ideologie in Marx. Questi afferma con chiarezza che è sul terreno delle superstrutture che gli uomini prendono coscienza dei conflitti sociali e dei propri compiti, dunque sul terreno di una teoria critica e alternativa. Ciò che va combattuto sono le ideologie dei gruppi dominanti, gli strumenti del dominio politico. Tutt’altro il percorso di Croce, che «deve ora fare molti passi a ritroso e dare apparenza di florida giovinezza a un’altra decrepita maga sdentata, il liberalismo più o meno deificato» (Q , , -; ma v. anche Q , ,  e Q , , ). Il confronto, come si vede, si sviluppa su un terreno di teoria politica più che di filosofia in senso stretto. Ciò è dimostrato dal fatto che il filosofo napoletano rientra tra gli autori con cui G. si misura quando deve affrontare il tema dell’autonomia del fatto politico. Così, quando egli si sofferma sull’importanza che il machiavellismo ha avuto nello sviluppo della scienza politica in Italia, pone in risalto «la dimostrazione fatta, in modo compiuto, dal Croce, dell’autonomia del momento politico-economico». G. pone, sia pure in termini problematici, la questione – già precedentemente toccata – del debito contratto da Croce nei confronti del materialismo storico, senza il quale forse egli non sarebbe giunto a quella conclusione. Ma accanto al riconoscimento vi è anche la critica, giacché questa posizione di Croce mal si concilia con la «sua riduzione del materialismo storico a un mero canone empirico di metodologia storica» (Q , , -). Quel che appare importante, in questi passaggi, è

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l’avvio della radicale critica gramsciana ai punti-chiave della filosofia di Croce: anzitutto alla dialettica dei distinti, della quale si riconosce l’«esigenza reale», ma anche la contraddizione rispetto a un’idea canonica di dialettica che, hegelianamente, non può essere che degli opposti, negazione della negazione. La riforma crociana e gentiliana della dialettica (e qui G. accosta due posizioni oggettivamente e filologicamente inconciliabili) ha reso Hegel più astratto, privandolo della parte «più realistica, più storicistica». Il distacco è ora netto: da un lato la tradizione e gli eventi da cui nascono Hegel e Marx – la Riforma protestante e la Rivoluzione francese, cioè la filosofia della storia e l’identificazione del fare e del pensare –, dall’altro la tradizione di Vico (malgrado la sua «genialità») e Spaventa, cioè la speculazione astratta (v. anche Q  II, .X, ). Ma la critica alla filosofia di Croce si connette costantemente in G. alla critica del suo atteggiamento pratico. Ne sono testimonianza le note a inizio del Q , quando G. affronta il tema cruciale del ruolo degli intellettuali nella grande crisi europea degli anni Venti e Trenta. Nelle analisi crociane dell’inizio degli anni Trenta G. coglie alcuni elementi di verità e, tuttavia, la critica crociana dei fenomeni deteriori, astratti, irrazionali non conduce al riconoscimento del ruolo che nel mondo moderno può svolgere non il singolo intellettuale (o gruppi di intellettuali), ma la lotta sociale delle masse organizzate (in Q , ,  G. accomuna nel medesimo errore di non aver visto la vera direzione della «corrente storica» Giolitti e Croce). L’atteggiamento pratico di Croce può, per G., aiutarci a capire la sua filosofia: «Nel Croce filosofia e “ideologia” finalmente si identificano, anche la filosofia si mostra niente altro che uno “strumento pratico” di organizzazione e di azione: di organizzazione di un partito, anzi di una internazionale di partiti, e di una linea di azione pratica. Il discorso di Croce al congresso di filosofia di Oxford [del , ndr] è in realtà un manifesto politico, di una unione internazionale dei grandi intellettuali di ogni nazione, specialmente dell’Europa; e non si può negare che questo possa diventare un partito im-

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CROCE , BENEDETTO

portante che può avere una funzione non piccola» (Q , , ). Il discorso di Croce viene criticato da G. anche in Q , ,  ss., dove si respinge come ideologica un’interpretazione del materialismo storico come «“scientismo”» e «“superstizione materialistica”», ma, più distesamente, in Q  II, .I, -, dove, però, sembra sfuggire a G. che il discorso di Croce conteneva non solo una critica del materialismo storico, ma anche una sferzante polemica contro il misticismo antistoricistico di Gentile che gli procurò furibondi attacchi dalla stampa del regime fascista. Quella di Croce, dunque, è una visione “utopistica” della politica, sia nella sua sfera teorica che in quella pratica, nel senso che mentre pensa di realizzare una pura storia e una pura filosofia, compie invece un esercizio di ideologia (Q , , ). G. dunque denuncia, per così dire, il carattere ideologico della filosofia di Croce, non senza però far notare una netta differenza tra storicismo crociano e attualismo gentiliano, tra una visione della storia come storia dello Stato e la storia etico-politica (Q , , ; ma v. anche Q , ,  e Q , , ) fondata sulla distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura, tra un «regime liberale-democratico» e lo «Stato-governo» fascista (Q , , ). Croce è per G. «l’ultimo uomo del Rinascimento», da considerare non tanto come filosofo, ma come «moralista e maestro di vita, costruttore di principi di condotta» (Q , , ), ma proprio per questo è da combattere a viso aperto quando la sua filosofia diventa ideologia, nel senso gramsciano di «tendenza pratico-politica unilaterale» (Q , , ). L’esigenza, così, di dar vita a un Anti-Croce è generata non da una polemica di poco conto o riduttivamente propagandistica, ma nasce da un continuo e serrato confronto critico tra storicismo materialistico e storicismo speculativo (tra gli altri luoghi in cui si criticano le tendenze speculative crociane v. Q , , -). Si legga quella straordinaria ed efficacissima sintesi di un gran lavoro analitico e interpretativo che G. affida a una breve nota sullo storicismo di Croce. Esso viene posto in relazione con i passaggi chiave di una riflessione di ampio

respiro sulla storia italiana, sulla rivoluzione passiva, sui nessi rivoluzione-restaurazione: «Il Croce si inserisce nella tradizione culturale del nuovo Stato italiano e riporta la cultura nazionale alle origini, ma vivificandola [e arricchendola] con tutta la cultura europea [...] Stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa appunto ridurlo alla sua reale portata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una contemplazione disinteressata dell’eterno divenire della storia umana» (Q , , ). A questo punto si può affrontare la lettura delle pagine gramsciane programmaticamente dedicate a Croce. Si conferma pienamente che l’argomento Croce è uno dei pochi ai quali G. dedica una scrittura e un interesse quasi sistematici. Come è noto, l’intero Q  (oltre  pagine a stampa) ha per oggetto la filosofia di Croce. L’articolazione del programma di studio del pensiero di Croce era stata anticipata nei Punti per un saggio su B. Croce, che si trovano in Q , , -. In questa sede non è possibile entrare nel dettaglio di tutte le analisi gramsciane: si pensi alle note sulle opere storiche di Croce, sulla sua concezione della religione, sulla sua concezione degli intellettuali, sui suoi errori di interpretazione delle dottrine economiche di Marx (come nelle pagine in cui si critica il saggio crociano sulla caduta tendenziale del saggio di profitto: v. Q  II, , - e Q  II, ,  ss.) o a quelle in cui si polemizza con la lettura crociana della teoria del valore come paragone ellittico (Q  II, ,  ss.), alle note sulle teorie estetiche di Croce, che si criticano nei presupposti idealistici, ma si difendono dalle letture superficiali e giornalistiche (Q , , ), sulle questioni di logica e di grammatica (Q , , -). In sintesi, esse muovono dall’esigenza di capire gli «interessi intellettuali e morali (e quindi sociali)» di Croce (la sua sostanziale adesione alla «tradizione italiana dei moderati», Q , , -), per passare poi a valutare il suo ruolo non secondario

CROCE , BENEDETTO

nella costruzione delle tendenze revisionistiche alla Bernstein e alla Sorel. Ancora una volta G. riesce a cogliere appieno i punti focali della riflessione teorica con la quale egli intende misurarsi. Innanzitutto il tema della libertà che Croce ora disloca sul piano della filosofia, ragionando di identità di storia e spirito (Q  I, ,  ss.), ora fa regredire a livello di ideologia e di «strumento pratico di governo» (Q  I, p. ), ma poi, ancora una volta, la ripresa delle critiche alla Storia d’Europa come teoria della rivoluzione passiva e alla concezione etico-politica della storia, anche se, a proposito di quest’ultimo problema, G. riconosce a Croce di aver stimolato «l’attenzione allo studio dei fatti di cultura e di pensiero come elementi di dominio politico, alla funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati, al momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto» (ivi, p. ). Per questo la storia etico-politica è uno dei «canoni di interpretazione storica da tener sempre presente nell’esame e nell’approfondimento dello svolgimento storico, se si vuol fare storia integrale e non storie parziali od estrinseche» (ivi, p. ; ma per un’analisi della storia etico-politica a partire dai saggi storiografici di Croce v. Q  I, ,  ss.). Il momento focale della critica teorica e politica di G. del pensiero crociano è individuabile nella seconda parte del Q  e specialmente nelle pagine dedicate all’identità di storia e filosofia, cioè di qualcosa che è «immanente nel materialismo storico». Questa identità, tuttavia, è diventata tutt’altro in Croce, cosicché una proposizione teorica che poteva essere «ricca di conseguenze critiche» diventa «mutila se non giunge anche alla identità di storia e di politica [...] quindi anche alla identità di politica e di filosofia» (Q  II, , ). G. spesso si chiede se nella visione filosofica di Croce non siano restate consistenti tracce di filosofia della praxis (v. Q  I, , -, ma anche Q  II, , -). Egli ne è convinto, tanto da affermare che la tesi crociana dell’identità di filosofia e storia è un modo di presentare «lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall’Engels». Solo che, per Engels, «“storia”

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è pratica (l’esperimento, l’industria) per Croce Storia è ancora un concetto speculativo». Insomma, e in questo giudizio si riassume la valutazione complessiva di G., Croce ha fatto a ritroso il cammino che dalla filosofia speculativa aveva condotto alla filosofia della praxis. Egli «ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero» (ivi, ). In definitiva, lo storicismo di Croce finisce per essere una «forma di moderatismo politico», di ciò che in linguaggio moderno si potrebbe definire «riformismo» (Q  II, .XIV, ), ma anche una «forma, abilmente mascherata, di storia a disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche» (Q  II, .XVI, ). Quanto G. fosse convinto della necessaria, dal suo punto di vista, elaborazione di un Anti-Croce, fondata tuttavia su un serio e documentato confronto con le opere del filosofo napoletano, è testimoniato dalle continue richieste di suoi libri che egli invia alla cognata Tania e ad altri corrispondenti. E proprio in una lettera alla cognata del  aprile  (LC -, a Tania; ma v. anche LC -, a Tatiana, ° dicembre  a proposito della polemica Croce-Lunacarskij durante il Congresso di Oxford, e LC -, a Tania,  aprile , dove si cercano le ragioni della grande popolarità di Croce, ma anche LC -, a Tania,  maggio , dove si critica il tentativo crociano di «liquidazione della filosofia della praxis», e ancora LC , a Tania,  maggio , dove si analizzano criticamente le opere storiche di Croce, e infine LC -, a Tania,  giugno , in cui si discute della religione della libertà), G. sintetizza in modo esemplare il suo giudizio su questo grande intellettuale, quel medesimo giudizio che egli, nel frattempo, veniva affidando alle sue note dei Q. Si può ancora far ricorso, in conclusione, a un giudizio sul rapporto G.-Croce espresso, ormai mezzo secolo fa, da Garin. È indubbio, egli osservava, che il dialogo con il filosofo dell’idealismo storicista caratterizzi per molti versi l’attività culturale di G.: «In Croce G. vede, non solo il grande intellettuale di tipo erasmiano, ma anche l’espressione più avanzata della cultura italiana con-



CRUMIRO

temporanea, quella che ha più presa e maggiore efficacia “conformatrice”. Il fatto che G. combatta su quella linea, e a volte si ha l’impressione di una sua volontà di opporsi a Croce punto per punto, giudizio contro giudizio [un Anti-Croce, appunto, ndr], in tutta la valutazione della storia italiana, in una correzione costante delle posizioni discusse, per uno spostamento sistematico del punto di vista [...]: tutto questo indica [...] l’attualità di una discussione, la sua storicità concreta, una analisi che, appunto perché non “speculativa” ma indirizzata all’azione, intendeva combattere una battaglia reale e opporre a scelte reali, attuali, scelte che, appunto per collocarsi sul medesimo terreno dell’avversario, fossero capaci di contrapporglisi efficacemente, ed anche, a volte, perché no? di accettare e integrare» (Garin , -). BIBLIOGRAFIA: BELLAMY ; FINELLI ; FRANCIONI ; FROSINI ; GALASSO ; G ARIN ; L EONE D E C ASTRIS ; MARTELLI .

che dalla Tunisia si spingeva in Algeria a fare delle razzie» (Q , , ). Ma al contempo, si chiede perché questo termine fosse entrato nel «vocabolario speciale del sindacalismo» (Q , , ). In Q ,  e in Q ,  la definizione di crumiro segue quella di «ascaro», entrata nel lessico parlamentare a definire i deputati della maggioranza sempre pronti alla defezione perché «senza programma e senza indirizzo». G. precisa che la parola era legata «alle prime esperienze fatte in Eritrea di truppe indigene mercenarie» (Q , , ). In Q , ,  a queste due definizioni G. ne aggiunge un’altra, quella di «“moretto”», sorta di variante di ascaro, usata per evidenziare «l’attitudine al servilismo e la predisposizione a eseguire i più bassi servizi, con grande disinvoltura».

GIUSEPPE CACCIATORE

«Cultura» nei Q è non solo un lemma amplissimo, con diramazioni, aggettivazioni, specificazioni assai variegate, ma anche un concetto estremamente mobile e, per così dire, irrequieto, nel senso che tende a straripare verso ambiti categoriali diversi, che peraltro, a contatto con esso, acquistano nuova valenza (verificheremo gli esempi di «egemonia» e «filosofia»). «Cultura» va concepita in primo luogo «come espressione della società» (Q , , ), ciò che è ormai una nozione di senso comune. Non lo era ai tempi di G., il quale nei Q perviene a un tale punto di vista tessendo un reticolato categoriale che veste di abiti nuovi la tradizione marxista. Si tratta di una rete di concetti che possiamo attraversare sia sincronicamente che diacronicamente, tra i quali mettiamo qui in rilievo: egemonia e lotta egemonica (dal Q ), traducibilità (dal Q ), riforma intellettuale e morale, nuovo umanesimo e religione laica (entrambi fin dal Q ). Mettendo la cultura in (questa) rete, possiamo riempire di contenuti specifici, non banali, l’affermazione solo apparentemente semplice riportata all’inizio. La complessità proviene dal termine “espressione”, tenendo conto che per G. «ogni

V. «Bernstein», «caduta tendenziale del saggio di profitto», «dialettica», «egemonia», «filosofia», «filosofia della praxis», «filosofia speculativa», «Fortunato», «Gentile», «Hegel», «ideologia», «Marx», «materialismo storico», «paragone ellittico», «religione», «revisionismo», «riformismo», «società civile», «Sorel», «storia etico-politica», «storicismo», «uomo del Rinascimento», «Vico».

crumiro In una “cronaca dell’Ordine Nuovo” dell’ novembre , non firmata, G. annuncia l’inizio di una decisiva azione di repulisti portata avanti nelle fabbriche dai commissari di reparto nei confronti dei crumiri, cioè di quei «traditori della classe che seminano lo sconforto nella massa» e che «nei momenti di maggior tensione, cercano di spezzare la compagine operaia». Si tratta di un’opera destinata – negli auspici di G. – a creare «un nuovo costume operaio» (ON ). Della parola “crumiri” G. offre nei Q una “nozione enciclopedica”, chiarendone l’etimologia, «legata all’occupazione, da parte della Francia, della Tunisia, fatta con il pretesto di respingere la tribù dei Krumiri

VITO SANTORO V. «colonialismo», «Ordine Nuovo (L’)», «Parlamento», «sindacalismo, sindacati».

cultura

CULTURA

espressione ha una “lingua” storicamente determinata» (Q , , ). La concezione gramsciana della cultura è inseparabile dalla concezione della lingua e del linguaggio, che accompagna del resto l’intera filosofia dei Q. A tale proposito occorre tener ben fermo che cultura e linguaggio sono considerati da G. sempre con attenzione a una capillare, irriducibile differenziazione di dislivelli e stratificazioni sociali – locali, regionali, nazionali, continentali – portatrici di culture e linguaggi determinati; solo a partire da questa consapevolezza acquista significato l’orizzonte generale cui G. mira, volto all’«unificazione culturale del genere umano» (Q , , ). Qui pulsa quella che si potrebbe chiamare l’accezione forte di cultura nell’intendimento di G., intesa come «concezione del mondo», cioè per un verso come «rapporto tra l’uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia» (Q , , ), per l’altro come «“religione laica”, una filosofia che sia diventata appunto “cultura”, cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale» (Q , , ). Questa duplice polarità – scientifico-tecnologica ed etico-religiosa – restituisce l’amplissima gamma di significazioni, di temi e problemi entro i quali si muove l’uso del concetto di cultura nei Q. Fin dal Q , a cui va riconosciuta una funzione fondativa sia della genesi che della struttura della totalità dei Q, le acquisizioni essenziali del nesso cultura-egemonia appaiono raggiunte, anche se, secondo alcuni interpreti, con un certo residuo di economicismo in tutta la prima fase di stesura (che comunque non inficia la novità del pensiero). La cultura viene definita un «mondo», una «sfera», un «campo», una «struttura» di attività compiute dai «ceti» intellettuali, vale a dire da quella «massa sociale che esercita funzioni organizzative» – oltre che nel campo della cultura – anche nella «produzione» e nel «campo amministrativo-politico» (Q , , ). La questione organizzativa è centrale, sia perché è alla luce di essa che G. distingue la funzione degli intellettuali da altre funzioni sociali-lavorative o professionali, sia perché a G. (per riprendere di nuovo la citazione iniziale) interessa la cultura quale espressione pratica, cioè strutturata e articolata, in-



somma organizzata o organizzabile della società. Da questo punto di vista è sintomatico come, sempre nel Q , G. consideri l’americanismo, in contrapposizione col «gladiatorismo gaglioffo» dell’attualismo gentiliano, quale «azione reale, che modifica essenzialmente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale)» (Q , , ), e come proprio concependo una sfida che si potrebbe definire epocale nei confronti dello stesso americanismo egli ritenga che «il problema» principale sia quello «di creare una nuova cultura su una base sociale nuova» (Q , , ). Appaiono così fissati gli elementi decisivi che associano la cultura alla comprensione della categoria più originale e difficile del pensiero politico gramsciano: l’egemonia. G. parla di egemonia culturale a proposito, ad esempio, della Firenze del Cinquecento, che «esercita l’egemonia culturale, perché esercita un’egemonia economica» (Q , , ). Si potrebbe osservare che l’egemonia quale «direzione culturale e morale» (Q  I, , ) della società e dello Stato riveste sempre e comunque una dimensione culturale. Fatto è che G. usa “cultura” sia in senso forte e centrale o generale (e in questo senso egemonia e cultura sono categorie associate) che debole e periferico, o specifico ad ambiti particolari e circoscritti di discorso, come, per l’appunto quando parla di una peculiare egemonia culturale. Creare una nuova cultura, cioè una «cultura superiore» che determini il superamento del tradizionale «distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore» (Q , , ) e costituisca «la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato» (Q , , ), espressione politica di una «nuova società»: sono queste le determinanti propriamente culturali della lotta egemonica. Con il Q  l’andamento del discorso acquista un contenuto più marcatamente teorico e filosofico, che però va inteso in un senso diverso rispetto alla concezione tradizionale della filosofia quale “elaborazione individuale” di concetti: prende avvio un processo di pensiero che porterà a intendere la filosofia dal punto di vista del «filosofo democratico» (Q  II, , ) o «pensatore



CULTURA

collettivo» (Q , , ), che attua una «lotta culturale per trasformare la “mentalità” popolare» (Q  II, , ). G. richiama alla necessità di lavorare per «un vasto movimento culturale che abbracci tutto l’uomo» (Q , , ), per un «nuovo umanesimo» (Q , , ), ed elabora, a questo fine, la tesi della traducibilità reciproca, a «livello internazionale», di linguaggi e culture, espressioni di «civiltà fondamentalmente simili», che «credono di essere antagonistiche, diverse, una superiore all’altra, perché adoperano diverse espressioni ideologiche, filosofiche», mentre «per lo storico, esse sono intercambiabili, sono riducibili una all’altra, sono traducibili scambievolmente» sia pure in modo non perfetto, non «in tutti i particolari» (Q , , ). Non si tratta solo di una traducibilità inter-nazionale, ma anche inter-disciplinare, come tra «filosofia – politica – economia» (Q , , ): celebre teorizzazione con la quale G. decreta la morte della filosofia “separata” e la sua risoluzione in una costellazione culturale che salvaguardia l’autonomia del filosofare ma ne stabilisce la connessione strutturale con le due sfere di attività che restituiscono al pensiero la funzione pubblica e sociale e stabiliscono l’interrelazione tra teoria e pratica. È un corollario di questa posizione il suo ancoramento alla «storia della cultura, che è più larga della storia della filosofia» (Q , , ): più larga, anche perché più duttile e articolata, essendo capace di rappresentare ed esprimere, con maggiori determinazioni, la contemporanea, altalenante identità-differenza tra lingue, civiltà, culture, costellazioni nazionali diverse. La traducibilità diventa così veicolo della determinazione della filosofia della prassi quale volano di una “nuova cultura”. Con il Q  la teoria della traducibilità acquista nuovi elementi, ma l’essenziale appare sin da ora fissato. Con i Q - giunge a maturazione la concezione-progetto, fissata nel Q , di una «nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano» (Q  I, , ). Alla luce dello studio storico e della trasvalutazione

teorica della polarità Rinascimento-Riforma, che G. mutua da Croce, ma trasformandone il senso, egli imposta in maniera più ricca e penetrante la questione già accennata del superamento del distacco tra cultura alta e cultura popolare e formula la prospettiva di una «riforma intellettuale e morale», la quale diventa un modo nuovo, originalissimo, di pensare alla rivoluzione. I riferimenti del presente a categorie del passato implicano un’attenzione storico-filologica che consente a G. di riempire di sostanza e concretezza lo slancio metaforico-immaginativo del pensiero. Il Rinascimento viene rievocato come una «grande rivoluzione culturale», attraverso la quale «non è stato “scoperto” l’uomo, ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè di sforzo per creare un nuovo tipo di uomo nelle classi dominanti» (Q , , ). L’espressione “rivoluzione culturale” compare nei Q un’altra sola volta, là dove G. dichiara che «compito degli intellettuali è quello di determinare e organizzare la rivoluzione culturale, cioè di adeguare la cultura alla funzione pratica» (Q , , ). Va sottolineato che qualcosa di analogo egli dice quando osserva che «il compito degli intellettuali è quello di determinare e organizzare la riforma morale e intellettuale, cioè di adeguare la cultura alla funzione pratica» (Q , , ). La «riforma morale e intellettuale» appare insomma come una rivoluzione culturale: si potrebbe osservare ancora che tutto questo ha significato e valenza sul terreno stabilito dalla rivoluzione passiva, quale scenario generalizzato e generalizzabile della dinamica sociale nei tempi moderni. Si vede così quale peso abbia per G. – il quale si mantiene ben fermo alla consapevolezza del carattere strutturale o prioritario delle trasformazioni economiche – la dimensione culturale, attraverso la quale si gioca la possibilità di non rassegnarsi a un’accezione conservativa, in ultima analisi interclassista e passivizzante della rivoluzione passiva medesima. Potremmo formulare così il grande interrogativo che agita G. nei Q, e che mostra di ingrossarsi nell’evoluzione del suo pensiero in carcere: è possibile una riforma morale e intellettuale, cioè una rivoluzione culturale o, in termi-

CULTURA

ni più pragmatici (nel contesto vissuto da G. in carcere), una costituente democratica che sottragga la rivoluzione passiva alla dittatura del presente o alla mera gestione dell’esistente? È insomma ancora possibile la lotta egemonica, che è lotta per una nuova cultura, e in questo senso è lotta politica per la formazione di un “uomo intero”? L’interrogativo è drammatico. La genesi dei Q ha a che fare con la consapevolezza di una sconfitta, la denuncia di un fallimento, l’abbandono di certe illusioni: «I laici hanno fallito nella soddisfazione dei bisogni intellettuali del popolo: io credo proprio per non avere rappresentato una cultura laica, per non aver saputo creare un nuovo umanesimo, adatto ai bisogni del mondo moderno, per aver rappresentato un mondo astratto, meschino, troppo individuale ed egoista». G. annota questo pensiero già nel Q  (Q , , ) e lo riprende, radicalizzando la necessità di diffusione di una «cultura laica» e di un «moderno “umanesimo” [...] fino agli strati più rozzi e incolti», nel Q  (Q , , ). L’idea di una cultura laica è centrale nei Q. Una cultura in senso forte – nel senso cioè che abbiamo ricordato dianzi quando si è parlato della reciproca imbricazione dei concetti di egemonia e cultura, e poi della morte e resurrezione della filosofia nel contesto di una nuova cultura – è naturaliter laica. Anche “laico” è un concetto che conosce una sua forza, sì da dispiegare la sua natura come di un valore capace di tener testa, o far concorrenza, o sostituirsi, o assorbire (sono sfumature di un unico processo) la religione. Scrive infatti G. nel Q , a proposito della concezione di De Sanctis: «Ma cosa significa “cultura” in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale “concezione della vita e dell’uomo”, una “religione laica”, una filosofia che sia diventata appunto “cultura”, cioè abbia generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale» (Q , , -). È questa probabilmente la concezione più ardita cui sia pervenuto G. nel tessere quel che abbiamo all’inizio chiamato un reticolato categoriale, che in questo caso investe il senso più pregnante del concetto di cultura. Avviene per la religione qualcosa



di analogo a quanto abbiamo riscontrato per la filosofia: la metodologia gramsciana – un caposaldo della quale è la dinamicità dei concetti o la loro mobilitazione, nel duplice senso di renderli mobili e agibili in contesti diversi da quelli originari, o ancora la loro traduzione o traducibilità in metafore e in immagini – fa compiere, o meglio invita a compiere un salto gigantesco sia alla filosofia, che da affare individuale diventa azione collettiva o di massa, sia alla religione, che diventa cittadina dell’immanenza, abbandonando perciò misticismi e trascendenze. Un esempio di ciò che intendiamo per “mobilitazione” dei concetti nella metodologia gramsciana è il modo con cui G. pensa all’Europa e alla cultura europea, nel contesto di un quadro geopolitico e geoculturale che nei Q si presenta fortemente in movimento, al punto da lumeggiare, nel Q , , , il passaggio del testimone dall’Atlantico al Pacifico nella guida marinara del mondo. L’Europa è in transito per almeno due ragioni. Il mondo non è più di fatto, cioè economicamente e politicamente, eurocentrico, anche se l’oggettiva, progressiva «unificazione culturale dell’umanità» mostra tuttora una connotazione europea. Per altro verso ci sono tutte le condizioni affinché prenda concretamente avvio il processo sociale e politico destinato a determinare politicamente l’unione europea, che per G. rappresenta un fattore decisivo per il superamento del fattore forse principale della crisi organica della società contemporanea: il nazionalismo. È qui evidente la fortissima valenza culturale del problema ora sfiorato, espressione di una produttiva ambivalenza, che ci riconduce altresì alla ricchissima articolazione storico-metaforica con cui G. guarda al Rinascimento, quale culla culturale – nel bene come nel male – dell’Europa, e del mondo, moderni. In conclusione, è opportuno sottolineare la contemporanea universalità e frammentarietà del concetto. Vien da pensare alla nota metafora gramsciana del raggio e dei prismi: «Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e dà rifrazioni di luce diverse» (Q , , ). La dialettica, o contrappunto, di identità e differenze, che attraversa l’inte-



CULTURA ALTA

ro mondo di pensiero di G., rispetto a “cultura” è determinante non solo in linea generale, ma anche con riferimento alla questione centrale del marxismo di G.: il contrasto di classe. Per usare il titolo di un classico dell’antropologia culturale italiana di ascendenza gramsciana (Cirese ), esso si presenta, dal punto di vista culturale (o sovrastrutturale, per riprendere la terminologia tradizionale), come dicotomia tra cultura egemone e culture subalterne, ove va messa in evidenza, accanto al carattere fondamentalmente oppositivo, la sua storica e complessa fluidificazione, sì che l’immagine che potrebbe prestarsi a raffigurarla è una spirale, atta a sottolineare il permanente processo di intersecamento e di differenziazione che caratterizza la storia culturale dei rapporti tra egemoni e subalterni. B IBLIOGRAFIA : C IRESE ; C REHAN ; GARIN . GIORGIO BARATTA V. «alta cultura», «americanismo», «concezione del mondo», «cultura popolare», «egemonia», «Europa», «filosofia», «ideologia», «intellettuali», «lingua e linguaggio», «nazionalismo», «riforma intellettuale e morale», «Rinascimento», «religione», «rivoluzione passiva», «traducibilità».

cultura alta: v. alta cultura. cultura europea: v. Europa. cultura francese, cultura italiana Il confronto operato tra i caratteri della cultura francese e quelli della cultura italiana è vasto e articolato nell’ambito della riflessione carceraria; in primis la funzione cosmopolita svolta dagli intellettuali francesi a partire dal Settecento risulta ben diversa da quella esercitata dagli italiani precedentemente. In Italia infatti essa è «causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell’Impero Romano al » (Q , , ). La Francia invece costituisce per G. un esempio di «sviluppo armonico di tutte le energie nazionali e specialmente delle categorie intellettuali» (ibid.), sicché gli intellettuali francesi «esprimono e rappresentano esplicita-

mente un compatto blocco nazionale, di cui sono gli “ambasciatori” culturali» (Q , , ). Vi è stata infatti una «massiccia costruzione intellettuale» che spiega la funzione internazionale della cultura francese nei secoli XVIII e XIX, che può dirsi «di espansione a carattere imperialistico ed egemonico in modo organico» (Q , , ). Essa è molto diversa da quella italiana, «a carattere immigratorio personale e disgregato, che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla ma invece concorre a rendere impossibile il costituirsi di una salda base nazionale» (ivi, -). G. mette a confronto inoltre le produzioni letterarie dei due paesi quando affronta il problema della mancanza di una letteratura popolare in Italia; in riferimento a una nota della “Critica fascista” del , in cui ci si chiedeva come mai i quotidiani italiani pubblicassero in appendice romanzi francesi dell’Ottocento, il pensatore sardo spinge a riflettere sulle motivazioni per cui «il pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana» (Q , , ). Non si può accusare infatti il popolo italiano di non dimostrare interesse nei confronti della letteratura «in tutti i suoi gradi, dai più infimi (romanzacci d’appendice) ai più elevati» (ivi, ), ove si pensi che esso ricerca e si concentra sui libri stranieri, soprattutto francesi, come dimostra il dato che essi siano quelli più pubblicati dal “Romanzo mensile” e dalla “Domenica del Corriere” (Q , , ), perché «l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione» (Q , , ). Gli intellettuali italiani infatti «non escono dal popolo, non ne conoscono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta cioè» (Q , , ). Se i volumi della letteratura divulgativa francese sono «letti e ricercati» (ibid.), una diffusione e fortuna popolare è toccata a pochi casi isolati tra gli scrittori italiani, come Carolina Invernizio, Mastriani o Guerrazzi. La Invernizio ha copiato d’altra parte «meccanicamente» per la sua Firenze l’«ambiente romanzesco» della letteratura d’appendice francese, dando vita così a «determinate

CULTURA FRANCESE , CULTURA ITALIANA

tendenze di folclore» (Q , , ). Mastriani e Guerrazzi rappresentano invece secondo G. quel laicismo a cui anche la letteratura francese dava espressione, laddove in Italia i laici avrebbero invece «fallito nella soddisfazione dei bisogni intellettuali del popolo», forse proprio per «non avere rappresentato una cultura laica» (Q , , ). La letteratura cattolica italiana d’altronde non ha riscontrato maggiore successo: essa non ha utilizzato a dovere le esperienze dei missionari nel campo dei romanzi d’avventura e i grandi risultati della ricerca astronomica nel campo della scienza. Essa resta quindi «troppo impregnata di apologetica gesuitica» (ibid.); il cattolicesimo italiano è infatti, secondo G., «sterile nel campo letterario come negli altri campi della cultura». Pertanto non è possibile un confronto tra gli scrittori cattolici italiani e quelli francesi, «Bourget, Bazin, Mauriac, Bernanos» (Q , , ). Molti romanzi popolari stranieri, soprattutto storici, hanno un’ambientazione italiana, ma l’Italia non può contare in nessuna delle tipologie dei romanzi popolari (poliziesco, misterioso, d’intrigo ecc.) una produzione paragonabile a quella francese (ma anche inglese e tedesca) per valore letterario o commerciale, per «numero, fecondità e anche dati di piacevolezza letteraria» (Q , , ). Il pubblico italiano si è così «appassionato attraverso il romanzo storicopopolare francese, alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie», e quindi a un «passato non suo», adopera nel parlare e nel pensare metafore e riferimenti francesi e risulta in definitiva «culturalmente più francese che italiano» (Q , , ). Paradossalmente, allora, per adattarsi al gusto popolare italiano formatosi su romanzi soprattutto francesi gli scrittori italiani scelgono i loro argomenti fuori d’Italia (Q , , ). La lettura dei romanzi d’appendice francesi aveva influito persino sulla classe politica fascista: come recitava un articolo del  pubblicato sull’“Unità”, «i sentimenti diffusi nei romanzi d’appendice del romanticismo francese del ’» erano gli unici contenuti ideali della «fantasia squilibrata» e dell’«irrequietezza psicologica» tipiche della mentalità fascista, che in questo senso ap-



pariva “romantica” (Gioda o del Romanticismo,  febbraio , in CPC ). G. riscontra delle precise motivazioni di carattere storico e politico per il carattere «“popolare-nazionale”» della cultura francese, storica e non. Negli ultimi centocinquant’anni in Francia si era dissolta ogni tendenza dinastica a causa del succedersi di «tre dinastie antagoniste tra loro in modo radicale» (Q , , ); si erano inoltre avvicendati governi repubblicani molto differenti tra loro. Questo comportava l’impossibilità di un’«“agiografia” nazionale unilineare»; pertanto il protagonista della storia francese è diventato l’«elemento permanente di queste variazioni politiche, il popolonazione» (ibid.). Ne è conseguito un «tipo di nazionalismo politico e culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici» e un «collegamento stretto tra popolonazione e intellettuali» (ivi, -). In Italia, invece, mancando «l’elemento permanente», cioè il popolo-nazione, non poteva esserci unità nazionale. La tendenza dinastica poi «doveva prevalere dato l’apporto che le dava l’apparato statale», mentre le tendenze politiche contrapposte non avevano «un minimo comune di obbiettività». Pertanto la storia era «propaganda politica» che doveva tendere a «creare l’unità nazionale», per cui «la nazione, dall’esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura, era un voler essere, non un dover essere perché esistono già le condizioni di fatto». In questa situazione gli intellettuali italiani diffidavano del popolo, che per loro era «qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli teste» (ivi, ). In mancanza di una letteratura nazionale-popolare, in Italia mancava anche la critica del pubblico, che in Francia invece poteva dirsi «largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura» e poteva così costituire la «vera Borsa dei valori letterari» (Q , , ). Assente è poi in Italia una letteratura prodotta dai funzionari statali militari e civili, relativa alla loro attività, che sia scritta per il popolo, come in Francia e in Inghilterra, e non solo per i propri superiori (Q , , ). Per quanto riguarda invece il rapporto tra moralisti francesi e italiani, G. si sofferma su un’in-



CULTURA MONDIALE

teressante osservazione di Angelo Gatti secondo cui i primi studiano «come “dirigere” e quindi come “comprendere” per influenzare e ottenere un “consenso spontaneo e attivo”», mentre il moralista italiano studierebbe come «“dominare”, come essere più forte, più abile, più furbo» (Q , , ). Abbondano così libri come il Galateo, in cui «si bada all’atteggiamento esteriore delle classi alte», ma non c’è alcun libro «come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e capillari» (ivi, ). Chiara è infine l’immagine delle due culture che risulta dal confronto tra l’Accademia della Crusca e quella degli Immortali in Francia: entrambe ovviamente si occupano dello studio della lingua, ma il punto di vista della prima è quello del «“linguaiolo”, dell’uomo che si guarda continuamente la lingua», mentre la seconda considera la lingua come «concezione del mondo», come «base elementare – popolare-nazionale – dell’unità della civiltà francese» (Q , , ). JOLE SILVIA IMBORNONE V. «fascismo», «Francia», «intellettuali», «intellettuali italiani», «letteratura d’appendice», «letteratura poliziesca o gialla», «nazionale-popolare», «popolo-nazione».

dal prosieguo della nota, quell’egemonia è destinata a cedere il testimone a un «nuovo processo culturale», che straripa sia dalla centralità euro-occidentale, sia dalle forme tradizionali di cultura rappresentate dai «grandi intellettuali» e “filosofi di professione”, e pone le basi di una cultura che «tende a diventare popolare, di massa, con carattere concretamente mondiale». A G. non interessa una cultura mondiale unificata, che trascuri le differenze e articolazioni geoculturali. Di Benedetto Croce egli sottolinea la consapevolezza di essere «un leader della cultura mondiale e delle responsabilità e dei doveri che essa porta con sé» (LC , a Tania,  aprile ), riconoscendo che il «movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce», fondato sulla convinzione che «l’uomo moderno può e deve vivere senza religione [...] rivelata o positiva o mitologica», sia «il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani» (LC -, a Tatiana,  agosto ). Per altro verso G. critica, già in QM, scritto pochi mesi prima di venire arrestato, la proiezione europea e mondiale del pensiero di Croce, in quanto funzionale al rifiuto di ogni attenzione alla problematica sociale e culturale del Mezzogiorno d’Italia. GIORGIO BARATTA

cultura mondiale «Cultura» e «mondo» sono concetti chiave del pensiero di G., congeniali al suo peculiare “universalismo”, teso all’«unificazione culturale del genere umano». L’espressione «cultura mondiale», come tale, si ritrova raramente nei Q e nelle LC. All’inizio di Q , , - il passo più delicato, che parla dell’«egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale», e continua: «Ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione “gerarchica” della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente o concretamente universale». Il passo ha fatto parlare di un pregiudizio “etnocentrico” di G.; come si evince invece

V. «Croce», «cultura», «intellettuali», «intellettuali italiani», «mondo», «quistione meridionale».

cultura popolare La voce «cultura popolare» compare per la prima volta in Q , , - ed è usata come sinonimo di «folklore», che è anche il titoletto dato alla nota. Si tratta di un passo fondamentale e molto citato dei Q, in cui G. definisce il folklore una vera e propria «concezione del mondo», che merita uno studio serio e non deve essere considerato come una «bizzarria» o un fenomeno «“pittoresco”». Dal punto di vista pedagogico, un approccio scientifico allo studio del folklore sarà anche utile agli insegnanti per avvicinarsi maggiormente alla concezione dei propri alunni e favorirne così l’apprendimento. La formazione delle grandi masse popolari porterà al supe-

CULTURA POPOLARE

ramento della distanza tra «cultura moderna» da una parte e «folklore» o «cultura popolare» dall’altra. Si vede quindi, già da questo primo passaggio, che l’espressione “cultura popolare” si contrappone dialetticamente, oltre che ad “alta cultura” – in senso verticale, all’interno di una determinata società nazionale –, anche a “cultura moderna”, termine che ha una portata più internazionale e fa riferimento a una data epoca storica. Altrove, parlando del teatro di Pirandello, G. definirà il folclore come «cultura popolare di grado infimo» (Q , , ), facendo così intendere come tra i due termini non ci sia una perfetta sovrapposizione. In Q , ,  G. prende un appunto su un articolo di Ettore Fabietti dedicato al fenomeno delle biblioteche popolari, che egli definisce «la più cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno». L’attenzione di G. cade sulla descrizione del comportamento degli operai rispetto ai libri, che essi trattano con estrema cura, tanto da essere definiti i «migliori “clienti”» delle biblioteche, rispetto ad altre categorie di visitatori. Da questo e da altri dettagli sembra che G. pensi di fermare queste idee per poter poi sviluppare uno studio sull’atteggiamento della classe operaia nei confronti della cultura. G. scrive infatti: «La letteratura delle biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti “reali” sulla cultura popolare» (ibid.). Rispetto alla nota precedente vediamo che qui il concetto di cultura popolare non è più solo un sinonimo di folklore, ma denota anche le forme reali, cioè determinate (relative qui agli operai milanesi), del sapere e non più solo delle credenze, delle tradizioni, dei gusti popolari che si contrappongono a un’idea di cultura moderna. La definizione di cultura popolare assume complessità crescente nel corso della riflessione carceraria. In Q , , in cui si affronta un tema ricorrente nei Q, quello della letteratura popolare e del carattere non popolare della letteratura nazionale italiana, G. delinea una chiave di ricerca destinata a rimanere aperta, chiedendosi quale sia la natura del rapporto tra connotazione «nazionale» e «popolare», ricordando che in alcune lingue i due aggettivi sono usati come si-



nonimi. È così che alcune righe dopo, riguardo alla situazione italiana, G. scrive: «Gli intellettuali non escono dal popolo, non ne conoscono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta cioè. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura popolare o nazionale e non al solo romanzo o alla sola letteratura» (ivi, ). Da questo passo vediamo allora come “cultura popolare” venga usato anche come sinonimo di “cultura nazionale”. Sempre sul tema di una possibile letteratura nazionale, che sia espressione di una «nuova cultura», G. scrive: «La premessa della nuova letteratura non può non essere storico-politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura popolare così come è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e convenzionale» (Q , , ). Se la cultura popolare è importante per non perdere di vista la relazione con il mondo reale, è però solo attraverso l’opera degli intellettuali che la cultura può passare da una fase di «elaborazione critica» e di «processo di sviluppo» (Q , , ). Il concetto di cultura popolare, assieme al suo opposto dialettico, quello di alta cultura, fa parte del grande nodo tematico che include sia la riflessione sulla portata filosofica del marxismo, sulla sua natura di filosofia autonoma (filosofia della praxis), sia tutta la parte delle note carcerarie dedicate al nesso Riforma-Rinascimento, termini che, oltre alle due epoche storiche reali, denotano metaforicamente due diversi atteggiamenti di politica culturale, che per semplificare possiamo definire come sistemi di cultura “dal basso” e “dall’alto”. «La riforma luterana e il calvinismo crearono una cultura popolare, e solo in periodi successivi una cultura superiore», scrive G. in Q , , . La filosofia della praxis invece, in quanto sintesi di movimento culturale sia dall’alto che dal basso, rappresenta la simultaneità dello sviluppo di cultura popolare e alta cultura. La caratteristica di far procedere all’u-



CUOCO , VINCENZO

nisono il progresso culturale di tutta la società è per G. la qualità distintiva dei governi espansivi (usato come contrario di repressivi, in Q , , ): «Un sistema di governo è espansivo quando facilita e promuove lo sviluppo dal basso in alto». Quello che G. ha in mente non è un modello di livellamento culturale verso il basso, non si propone cioè di abbassare la qualità del livello culturalescientifico di una società: piuttosto egli propone di mantenere insieme quantità e qualità della cultura, affermando che quanto più si estende la base di accesso e si eleva il livello complessivo, tanto più sarà possibile una selezione di «“cime intellettuali”». COSTANZA ORLANDI V. «alta cultura», «calvinismo», «concezione del mondo», «cultura», «filosofia della praxis», «letteratura popolare», «Lutero», «nazionale-popolare», «popolare», «popolo», «popolo-nazione», «Riforma», «Rinascimento», «sport».

Cuoco, Vincenzo: v. rivoluzione passiva. Cuvier, Georges Una delle prime note dei Q recita: «L’ossicino di Cuvier. Osservazione legata alla nota precedente. Il caso Lumbroso. Da un ossicino di topo si ricostruiva talvolta un serpente di mare» (Q , , ). La «nota precedente» è intitolata Achille Loria ed è dedicata alle «“stranezze”» dello studioso preso a esempio di superficialità intellettuale (Q , , ), mentre Alberto Lumbroso è un “loriano” (v. Q , , ). In una lettera coeva ( dicembre ) torna il nome del naturalista e paleontologo Georges Cuvier: «Ricostituire da un ossicino un megaterio o

un mastodonte era proprio di Cuvier, ma può avvenire che con un pezzo di coda di topo si ricostruisca invece un serpente di mare» (LC , a Giulia). G. intende dunque mettere soprattutto in guardia sia dal pericolo di giungere a conclusioni frettolose sulla base di labili indizi, sia dalla cattiva trasposizione del metodo delle scienze naturali nel campo delle conoscenza storico-sociale operata dal positivismo. Nel Q  G. precisa che, se «il principio di Cuvier, della correlazione tra le singole parti organiche di un corpo», può essere «utile [...] nella sociologia», per la «storia passata, il principio della correlazione [...] non può sostituire il documento, cioè non può dare altro che storia ipotetica, verosimile ma ipotetica». Mentre «diverso è il caso dell’azione politica e del principio di correlazione (come quello d’analogia) applicato al prevedibile, alla costruzione di ipotesi possibili e di prospettive. Si è appunto nel campo dell’ipotesi e si tratta di vedere quale ipotesi sia più verosimile e più feconda di convinzioni e di educazione» (Q , , ). Infine, il Testo C di Q , , notevolmente modificato, afferma: «non tutti sono Cuvier e specialmente la “sociologia” non può essere paragonata alle scienze naturali. Le generalizzazioni arbitrarie e “bizzarre” vi sono estremamente più possibili (e più dannose per la vita pratica)» (Q , , ). G. qui pensa a Bucharin e alla “sociologia marxista” (si noti nel testo gramsciano “sociologia” tra virgolette), uno degli idola polemici dei Q. JOSEPH A. BUTTIGIEG V. «Bucharin», «lorianismo, loriani», «positivismo», «previsione», «sociologia».

D

D’Annunzio, Gabriele Nella situazione del dopoguerra G. presta attenzione critica (v. ad esempio La settimana politica,  ottobre , in ON ) a D’Annunzio e al movimento fiumano, tentando invano anche di incontrare il “poetaguerriero” nell’aprile , per cercare di impedire l’avvicinamento dei “legionari fiumani” al movimento fascista (Caprioglio ). In Q ,  (-), una nota intitolata La politica di D’Annunzio («Concetti politici reali neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.»: ivi, ), quello del “vate” viene considerato «uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli, ma forse bisogna risalire a Garibaldi) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè per condurre le grandi masse all’“idea” nazionale o nazionalista-imperialista)» (ivi, ). Ma, si chiede G., «come si spiega la relativa popolarità “politica” di G. D’Annunzio?». Con i seguenti motivi: «°) l’apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali) [...] °) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa [...] °) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente “vagabondi”, disancorati» (Q , , -). E, ancor di più, un motivo «legato a un carattere permanente del popolo italiano: l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo po-

polare in Italia» (ivi, -). In definitiva, una traduzione nostrana del «Nietzsche-superuomo», ove però «D’Annunzio ha caratteri folcloristici spiccati», anche se – riconosce G. – egli ha una cultura «non legata immediatamente alla mentalità del romanzo di appendice» (Q , , ). GUIDO LIGUORI V. «apoliticismo, apoliticità», «Garibaldi», «intellettuali italiani», «letteratura d’appendice», «nazionalismo», «Pascoli», «piccola borghesia», «quistione nazionale», «superuomo».

Dante Se la maturazione del pensiero filosofico-politico di G. e la messa a punto di una strumentazione critico-analitica finalizzata all’esercizio della guida politica passano, lungo tutto l’arco dei Q, attraverso il confronto e il rovesciamento delle categorie crociane, gli appunti sul canto X dell’Inferno contenuti nel Q  costituiscono un’interessante occasione per cimentarsi con la ben nota distinzione fra “poesia” e “struttura”, elaborata da Croce nei volumi laterziani La poesia di Dante del  e Poesia e non poesia del . Entrambi i saggi fanno parte, insieme con il Dante, Farinata, Cavalcanti del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac (Mondadori, Milano ), di una serie di opere richieste alla cognata Tania nella lettera del  dicembre  (LC ), il che dimostra che l’intenzione di sottoporre al vaglio l’estetica crociana nasce già con un preciso riferimento applicativo al canto X e che essa è ben formata nella mente di G. molto prima del , anno a cui si possono far risalire le prime pagine del Q . Addirit-



DANTE

tura la richiesta di «una Divina Commedia di pochi soldi» compare già nella famosa lettera dell’autunno  indirizzata alla «Gentilissima signora» Clara Passarge, sua padrona di casa a Roma (LC ): un’epistola mai recapitata perché sequestrata dalla polizia e allegata agli atti processuali presso il Tribunale speciale. Già il  agosto , ricordando a Tatiana di fargli tenere il saggio di Morello (nella speranza ch’esso possa informarlo sul più recente dibattito critico), le annuncia di aver «fatto una piccola scoperta che [...] verrebbe a correggere in parte una tesi troppo assoluta di B. Croce sulla Divina Commedia» (LC ); il nucleo di questa intuizione vi è già compendiato nel confronto fra l’espressione della dannazione nell’episodio degli eretici e l’estetica classica del dolore, così com’è attestata nel ciclo delle pitture pompeiane. È evidente che le osservazioni che G. si appresta a elaborare trovano il proprio humus nei corsi universitari torinesi di Letteratura italiana e Storia dell’arte, rispettivamente tenuti da Umberto Cosmo e Pietro Toesca, come confermerà la lettera del  settembre , in cui trasmette alla cognata lo schema degli appunti stesi, al fine di sottoporli al giudizio di Cosmo (LC ): la lettera è da considerarsi il terminus ante quem di gran parte delle note sul canto X (Q , ), stante l’abitudine, altrove documentata (v. LC -, a Tania,  febbraio ), di inviare ai propri interlocutori un sommario razionale solo dopo aver riversato sulle pagine dei Q le proprie riflessioni, con tempi e modi generalmente discontinui. I rimanenti appunti (Q , -) sono invece da considerarsi successivi e risalenti probabilmente al marzo , quando G. viene raggiunto dalla risposta di Cosmo (ricopiata in Q , ) e mostra di non aver intenzione di proseguire nello sforzo esegetico (come, invece, gli suggeriva il vecchio professore) e di ritenere più funzionale al proprio ruolo di rappresentante «di un gruppo sociale subalterno» la dimostrazione di saper «far le fiche» (caso eccellente di metatestualità, visto che l’espressione è dantesca, da Inferno, XXV, ) al tipo di intellettuale “ruffiano” del potere, incarnato da Morello (Q ,

, ). Uno dei più squisiti intenti ermeneutico-letterari dell’opera gramsciana si è così rapidamente risolto sul piano più consueto della contesa politica e dell’affilamento delle armi dialettiche. Tuttavia le note sul canto di Farinata e Cavalcanti, vergate dunque tra il  e l’estate del , non appaiono affatto prive d’interesse se contestualizzate nell’ambito degli studi danteschi fra le due guerre e rapportate alla consuetudine di considerare il canto X come il “canto di Farinata”, riservando al microepisodio di Cavalcante (vv. -) un ruolo marginale e persino d’intralcio per la compattezza “poetica” della rappresentazione dell’«altro magnanimo»: la parentesi cavalcantiana, anzi, obbligherebbe la parabola di Farinata a subire una declinazione “strutturale”, piegandola alle ragioni “didascaliche” delle delucidazioni sulla preveggenza e l’ignoranza degli eretici. G. riesce invece a dimostrare persuasivamente come la scissione fra struttura e poesia renda inefficace la lettura di questo canto ed eluda la necessaria cooperazione dell’una e dell’altra categoria al pieno dispiegamento del senso. Capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi del canto, G. fa di Cavalcante il vero cuore dell’episodio, in quanto nell’ottenebramento del suo intelletto e nella indescrivibilità del suo dolore risiede la vera natura del contrappasso riservato agli epicurei («Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato»: Q , , ), laddove la presenza di Farinata riveste quasi la funzione di cornice, non certo accessoria, ma destinata semmai dapprima a far risaltare “drammaturgicamente”, con la sua imperturbabilità, la passione dolorosa del padre di Guido e poi a dare l’indispensabile giustificazione teorica all’equivoco nel quale era caduto il compagno di pena. Senza l’improvvisa sortita di Cavalcante («mio figlio ov’è? e perché non è teco?», v. ) e il suo riferimento all’«altezza d’ingegno», infatti, non coglieremmo in atto lo stato dell’eretico dannato, costretto a veder punita la cieca fiducia riposta nel materialismo razionale, attraverso il supplizio di una mente re-

DANTE

sa capace di leggere il lontano futuro, ma espropriata delle più comuni facoltà di conoscenza del presente o di previsione del futuro prossimo. Così l’anima è costretta a vivere in un «cono d’ombra» (LC , a Tatiana,  agosto  e Q , , ), in cui la dolorosa memoria del passato e la chiara preveggenza del futuro – ben esemplificate da Farinata – sono significativamente compensate da quella ignoranza del presente che, scolpita nella maschera di Cavalcante, riduce lo stato degli eretici a una condizione men che umana. Culmine tragico di questa cecità intellettuale è lo sgomento determinato dall’uso del tempo remoto nella celebre risposta di Dante («colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», vv. -): per G. «su “ebbe” cade l’accento “estetico” e “drammatico” del verso ed [esso] è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata» (Q , , ), in quanto è la definitiva manifestazione d’inferiorità dell’«ingegno» eretico, attestata dall’equivoco linguistico. Avendo creduto che la risposta contenesse la notizia della perdita del figlio, Cavalcante tace e improvvisamente si eclissa alla vista del pellegrino. Se si tien conto che, per questioni cronologiche, G. non poteva conoscere la lucida osservazione di Erich Auerbach (Auerbach ), intorno a quel silenzio come perfetta espressione dell’atteggiamento eretico – di una mente, cioè, che non credendo all’immortalità dell’anima, non solo giunge a negare l’evidenza stessa del proprio essere anima, ma pure non avverte il bisogno di chiedere informazioni circa il destino oltremondano del figlio –, risalta allora tutta l’acutezza delle note del Q , in riferimento al capovolgimento della «razionalità» in «passione», e in una passione luttuosa che, come già nell’arte classica (gli esempi addotti sono quelli dell’iconografia di Agamennone e di Medea, entrambi uccisori dei figli), non può essere rappresentabile. Vi sarebbe, così, una retorica delle «rinunzie descrittive» (come le definiva Luigi Russo sul “Leonardo” dell’agosto ) non esclusiva dell’ineffabile paradisiaco, ma caratteristica anche dei luoghi dell’estremo



dolore nell’Inferno. Dante, secondo G., metterebbe in risalto l’inaccettabilità del dolore più grande, quello per la perdita del figlio, proprio troncando di netto il cuore poetico del canto e contrapponendovi l’indifferenza di Farinata («non mutò aspetto, / né mosse collo, né piegò sua costa; / e sé continuando al primo detto», con quel che segue: vv.  ss.), espressione complementare del materialismo epicureo: quanto ciecamente passionale è la condizione del padre di Guido, altrettanto ciecamente impassibile è quella del suocero di questi. Di qui ha origine la sarcastica contestazione della lectura di Morello che, invece, tentava di rintracciare le ragioni del distacco di Farinata in presunte intenzioni collocate oltre la «portata della espressione letterale» concretamente realizzata, secondo «la mentalità dell’uomo del popolo», che integra il racconto dato con amplificazioni psicologiche e congetture storiche tutt’altro che essenziali e ampiamente arbitrarie (Q , , -). Al contrario, restando ancorato al testo, G. sottolinea la necessità “poetica” dell’atteggiamento di Farinata degli Uberti e del suo sussiego esplicativo nei vv. -, l’uno e l’altro legati all’episodio di Cavalcante come le «didascalie» alla scrittura teatrale: se alle battute è affidata l’intensità poetica del dramma, la didascalia nel teatro moderno ha «un’importanza essenziale, in quanto limita l’arbitrio dell’attore e del direttore», inglobando parzialmente la funzione dei monologhi in uso nel passato (LC , a Tatiana,  settembre ). Notò giustamente Cosmo, nelle sue considerazioni epistolari spedite da Torino il  dicembre  (ma giunte a G. circa tre mesi dopo, come testimonierebbe il confronto fra una lettera di Tatiana del  febbraio  e la lettera del  marzo , con un ritardo che sarebbe addebitabile a Piero Sraffa, incaricato della mediazione epistolare), che l’interpretazione di G., nonostante riesca a dimostrare che «anche la struttura dell’opera ha valore di poesia», è in qualche modo figlia essa stessa della lezione crociana, dal momento che non abroga, ma rifunzionalizza la dicotomia fra poesia e struttura: cosa che non è sfuggita alla critica gramsciana più avveduta.



DANTE

È passato inosservato, invece, che, mentre nelle LC e nei Q -, successivi al , i riferimenti a Dante non mancano, ma sono sempre più sporadici e d’interesse marginale, i Q -, coevi o di poco successivi alle note sul canto X, rivelano una messe di presenze dantesche, quasi che le riflessioni esegetiche fin qui ricordate e la consuetudine con la lettura della Commedia (e in parte anche delle opere minori) avessero fatto di Dante un punto d’interrogazione costante per il pensatore sardo. Illuminante è in Q ,  l’accostamento del poeta a Machiavelli, in quanto promotore di quella corrente laica della letteratura politica italiana che culmina nella visione – propria del Segretario fiorentino, ma ancorata a un «linguaggio medioevale» – «della Chiesa come problema nazionale negativo» (ivi, -); in Q , , invece, si fa più esplicita l’affermazione di una distanza fra il «“nuovo ghibellinismo”» di Dante, utopia di «un vinto della guerra delle classi», e il Principe di Machiavelli, prima formulazione autonoma delle questioni statuali poste dalla modernità (ivi, -). Il carattere ancipite della funzione intellettuale rappresentata da Dante si annoda ancora una volta a una riflessione di Croce a proposito di quella estenuazione dei motivi letterari che si produce quando si pretenda di generare, come per «partenogenesi», la poesia dalla poesia, senza «l’intervento dell’elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale» (B. Croce, Troppa filosofia, , citato da G. in Q , , ). Qui G. traduce la questione nei termini classici del materialismo storico: le “superstrutture” artistiche, infatti, non possono generarsi da sole, se non come forme epigoniche di una cultura conservativa, mentre al contatto con l’elemento vivo della “storia” esse producono quei capolavori dell’arte a cui si consegnano i nuovi rapporti sociali. La Commedia, a questo proposito, assume il carattere straordinario di opera di transizione, a cavallo fra «vecchio» e «“nuovo uomo”», sintesi suprema di un sistema culturale appartenente al passato e messo in crisi dall’anarchia comunale («canto del cigno medioevale») e anticipazione di una nuova funzione intellettuale di tipo umanistico (ivi, -).

Questa intuizione è sviluppata poi in Q , , - in margine alla recensione di Arezio a Toffanin  apparsa sulla “Nuova Antologia” del ° luglio . Partendo dal rovesciamento dell’equazione burckhardtiana fra Umanesimo e laicità, G. distingue, all’interno di una nozione più comprensiva di Rinascimento (che, sia pure con variabili geografiche, interessa l’Europa dalla fine dell’XI al XVI secolo: Q , ), una fase comunale, coincidente in Italia con i secoli XII-XIII e connotata da un’istanza rivoluzionaria, borghese e antifeudale, da una fase umanisticolatina, caratteristica dei secoli XIV-XV, in cui la reazione alla crisi delle istituzioni comunali assume una direzione neoaristocratica, sia nelle forme statuali che nel rapporto fra intellettuali e masse. I Comuni vengono qui visti come forza progressiva e costitutivamente «eretica», poiché portatori, sul piano politico, di una scompaginazione, insieme, dell’unità imperiale e dell’egemonia pontificia e, sul piano culturale, dell’indipendenza dal classicismo e della promozione letteraria della lingua volgare; al contrario, l’Umanesimo accompagna la trasformazione dell’alta borghesia imprenditoriale in proprietari agrari e l’irrigidimento delle spinte democratiche entro le forme della signoria, attraverso una cultura educata al rispetto dell’auctoritas letteraria e religiosa che presenta «una non superficiale affinità con la Scolastica». Ora, appare particolarmente interessante notare che G. individua in Guido Cavalcanti l’esponente massimo di quell’intellettualità comunale “eretica” che aveva posto l’esigenza dell’abbandono di Virgilio e dei «liberali studi», secondo una linea di sviluppo della civiltà che sarà ripresa solo da Machiavelli e dalla Riforma; mentre Dante compare in quella stessa pagina nella consueta collocazione di uomo della crisi, da un lato fondatore di quel volgare illustre che diverrà il primo fondamento dell’identità nazionale italiana (tema sul quale convergono anche le pagine di Q ,  e più tardi, nel , anche quelle di Q , ), dall’altro teorico di una soluzione politicamente autoritaria e culturalmente elitaria, per la quale probabilmente G. aveva in mente soprattutto la Monarchia e il Paradiso. Non può sfuggire, a

DE MAN , HENRI

questo punto, la suggestione offerta al nostro autore proprio da quel canto X dell’Inferno nella cui lettura era allora immerso e, in particolare, da una possibile interpretazione del celebre v.  («forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»): in Q , , infatti, G. non aveva mostrato alcuna incertezza nell’identificare il «cui» con Virgilio (ipotesi oggi molto meno accreditata, rispetto a quella che vuole si riferisca a Dio o, soprattutto, a Beatrice), accogliendo la nota esplicativa che trovava nella modesta ma praticissima edizione tascabile hoepliana della Commedia di cui poteva disporre (è ancora LC , a Tatiana,  settembre  a testimoniarlo), ma rielaborando in chiave storico-culturale la spiegazione morale ivi fornita da Raffaello Fornaciari. Il disdegno di Guido per Virgilio non sarebbe stato quello dell’epicureo strettamente inteso per «la ragione naturale soggetta alla fede», ma l’espressione di una volontà di «discontinuità storica» (Q , , ) rispetto al mondo classico, il cui soccorso (morale, politico, stilistico) è invece invocato da Dante. B IBLIOGRAFIA : A NGLANI  e , -; DEL SASSO ; GARBOLI , -; MARTINELLI  e . DANIELE MARIA PEGORARI V. «borghesia comunale», «Comuni medievali», «Croce», «dramma», «Machiavelli», «superstruttura, superstrutture».

De Man, Henri Il nome del politico e intellettuale belga ricorre nei Q in contesti concettuali anche molto diversi, ma immancabilmente in chiave negativa, fino a divenire contrassegno quasi antonomastico di una posizione teorica e culturale assolutamente infondata. Se il suo libro Au-delà du marxisme () era stato interpretato come un emblematico “ripudio” del marxismo, in Q , ,  G. prova a contestualizzare tale antimarxismo, collocandolo all’interno della corrente revisionistica di coloro che, alla ricerca di un sistema filosofico che in qualche modo “contenesse” il marxismo, avevano provato a «collegare la filosofia della prassi al kantismo o ad altre tendenze filosofiche non positivistiche e materialistiche», in un ampio ventaglio di op-



zioni fra cui, appunto, «quella freudiana del De Man» (ibid., il Testo A è Q , , ). In Q , ,  il belga è visto come esaltatore della «spontaneità»: attento osservatore dei più vari e autentici elementi della psicologia dell’operaio, egli è incline a esaltarli in quanto tali, contrapponendoli incongruamente a ogni forma di ulteriore acquisizione conoscitiva ovvero di coscienza di classe. In questo entusiasmo De Man è simile a quegli «ammiratori del folklore appunto, che ne sostengono la conservazione, gli “stregonisti” legati al Maeterlinck»: una posizione intimamente retrograda e insieme un caso di «teratologia intellettuale» (ibid.). Molto spesso De Man è accostato a Sorel e a Proudhon, sempre per sottolineare come il profilo teorico-politico del belga fosse nettamente più basso. In Q , , - si parla di un atteggiamento «pedantesco», ovvero dell’atteggiamento «“scientifista”» di chi osserva il popolo ma soltanto «per “teorizzarne” i sentimenti, per costruirvi degli schemi pseudo-scientifici». Più volte G. analizza e ridimensiona le premesse culturali e gli strumenti metodologici propri di De Man, con particolare riferimento al suo esteriore psicanalismo, curvato in direzione antimarxista (Q  II, , ). In Q , ,  (che riprende il Testo A Q , , ) G. è impegnato, invece, a respingere l’eventualità di una riduzione della filosofia della praxis a sociologia (con l’estensione della legge statistica alla sfera della politica), opponendo a siffatta riduzione la prospettiva di una più proficua «scienza della politica». Ebbene, in tale particolare ottica l’operazione culturale attuata da De Man sembra profilarsi come una sorta di occasione sprecata: se è vero, infatti, che egli insiste giustamente per un approccio tutto empirico e non statistico ai «sentimenti reali», è anche vero, però, che da ultimo anch’egli, a causa del proprio scarso rigore metodologico, «ha finito col creare una nuova legge statistica e [...] una nuova sociologia astratta» (ivi, ). Ancora, in Q , , -, partendo da un articolo di Arturo Masoero, si ipotizza che De Man deriverebbe molte delle proprie idee dall’economista americano Thorstein Veblen, il quale a sua volta, volendo introdurre l’evoluzionismo nella scienza econo-



DE MAN , HENRI

mica, aveva mutuato diversi concetti dal positivismo di Comte e Spencer: ebbene, proprio da questa linea teorica sarebbero derivate, in De Man, le idee grossolane (eppure decisamente utili in direzione antimarxista, come aveva ben intuito Croce) di un «“istinto creatore”» e di un «animismo operaio» (G. segnala che il belga ne aveva ampiamente trattato nel suo libro-inchiesta La gioia del lavoro). La nota in cui G. affronta in maniera frontale (e globale) il nucleo problematico connesso all’opera di De Man è Q , , , un Testo C dove vengono rielaborati spunti precedenti e, soprattutto, si procede a confutare quella specifica idea di “superamento del marxismo” che caratterizzava il pensiero di De Man e che da più parti gli veniva accreditata. G. riconosce al belga il merito di essere portatore, ma solo al livello astratto delle intenzioni, di un’esigenza condivisibile: quella, cioè, di fondare ogni discorso politico a partire da una ricognizione diretta e il più possibile documentata di sentimenti, stati d’animo e punti di vista dei lavoratori, fino a rivendicare una rinnovata centralità ai «così detti “valori psicologici ed etici” del movimento operaio» (ivi, ); a questo punto, però, avveniva che De Man, avendo verificato come la costellazione psicologica dei singoli lavoratori nel presente non fosse ancora del tutto allineata con una Weltanschauung marxista, ne deduceva arbitrariamente l’insufficienza del marxismo stesso. Non era così per G., il quale segnalava con sarcasmo l’infondatezza dei procedimenti logici del belga: «Ciò sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande maggioranza degli uomini è ancora alla fase tolemaica, significhi confutare le dottrine copernicane» (ibid.). In altre parole, con la sua concezione del dato psicologico reale come di un dato «eterno» e assolutamente non passibile di modificazione, De Man approdava a una visione politicamente immobilistica: laddove, invece, «compito di ogni iniziativa storica è di modificare le fasi culturali precedenti, di rendere omogenea la cultura a un livello superiore del precedente ecc. In realtà la filosofia della prassi ha sempre lavorato in quel terreno che il De Man

crede di aver scoperto, ma vi ha lavorato per innovare» (ibid.). Ne consegue che «la “scoperta” del De Man è un luogo comune e la sua confutazione una rimasticatura poco gustosa» (ibid.). Quindi, partito dal problema specifico del revisionismo e delle sue differenti strategie, il prolungato confronto di G. con il belga tendeva a stagliarsi su uno sfondo ideale sempre più ampio: lo dimostrerebbe la presenza del suo nome in una nota di primaria importanza (Q , , ), in cui G. formulava la necessità, per l’intellettuale nuovo, di superare «l’errore dell’intellettuale», che è poi quello di credere «che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato». Ebbene, tipico portatore di siffatto «errore» era proprio il «pedante» De Man, il quale «“studia” i sentimenti popolari, non “consente” con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna» (ivi, ). In un’altra serie di occorrenze G. indaga i tratti specifici propri della ricezione italiana dell’opera di De Man. In Q , ,  si afferma che proprio il suo «“conservatorismo”» (consistente nella suddetta visione del dato psicologico popolare come di un dato immobile, non modificabile) avrebbe determinato «il discreto successo del De Man, anche in Italia, almeno in certi ambienti (specialmente nell’ambiente crociano-revisionista e in quello cattolico)». Ma, in tale prospettiva, il nome di De Man era indissolubilmente legato a quello di Croce, il quale aveva patrocinato la traduzione italiana del suo libro (avvenuta nel , con il titolo Il superamento del marxismo) e ne aveva parlato sulla “Critica” in termini assai lusinghieri. In Q  I, ,  viene proposta un’ipotesi circa la vera natura di tale interesse crociano verso il «mediocrissimo» De Man (non a caso siamo vicinissimi al passo dell’esplicita dichiarazione della necessità storica di un «Anti-Croce»): questo interesse costituirebbe, in definitiva, una delle prove più decisive per dimostrare come, all’interno e della «biografia scientifica» (Q  I, , ) e del magistero crociano a partire dal dopoguerra fosse assolutamente preminente il bisogno di arginare e liquidare il materialismo storico: per cui Croce «nella sua lotta ricorre ad alleati para-

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dossali, come il mediocrissimo De Man» (Q  I, , ). Non solo. Come è noto, per G. l’operatività culturale del filosofo neoidealista poteva vantare anche un versante più propriamente pratico, tanto accentuato da costituire una ben precisa azione egemonica: era precisamente qui che la promozione crociana del libro di De Man, in se stessa assolutamente sospetta, si collocava strategicamente: in Q  II, ,  si afferma che i «giudizi del Croce sul libro del De Man Il superamento mostrano che nell’atteggiamento del Croce, nel periodo attuale, l’elemento “pratico” immediato soverchia la preoccupazione e gli interessi teorici e scientifici». DOMENICO MEZZINA V. «Croce», «filosofia della praxis», «Freud», «marxismo», «passione», «positivismo», «Proudhon», «psicoanalisi», «revisionismo», «scienza della politica», «sociologia», «Sorel», «spontaneità», «teratologia».

De Sanctis, Francesco Per G. Francesco De Sanctis è un punto di riferimento determinante sin dagli anni torinesi. Come critico (nella commemorazione di Renato Serra sul “Grido del Popolo”, il  novembre , G. lo definisce «il più grande critico che l’Europa abbia mai avuto»: La luce che si è spenta, in CT ), ma soprattutto come esempio di un modo diverso, antiaccademico e profondamente umano, di essere intellettuale. Egli ne loda in particolare la capacità di «riavvicinare la poesia alla vita, agli uomini, anche a quelli più semplici» e di portare in questo modo una vera e propria rivoluzione nell’asfittico mondo della cultura accademica: «La poesia era diventata privativa dei professori: Dante per esempio era stato o trasumanato oppure i suoi libri si presentavano circondati da reticolati irti di spine erudite e di sentinelle che urlavano il “chi va là?” a ogni profano che osasse avvicinarsi troppo; così si è formata nei più la convinzione che Dante sia come una torre impenetrabile ai non iniziati. Il De Sanctis non è di questi: [...] anzi se vede una faccia sparuta, se vede un umile ritrarsi indietro quasi spaventato di troppo osare, gli si fa da presso, quasi direi lo pren-

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de a braccetto, con espansione tutta napoletana, lo guida lui, gli dice: “Vedi, ciò che credevi difficile non lo è, oppure non merita la pena d’esser letto; salta a piè pari queste siepi, lascia che altre mascelle si facciano sanguinare le gengive a rodere quei cardi”» (ivi, ). Un’ammirazione e una consapevolezza cresciute sui banchi dell’università grazie all’insegnamento di giovani professori come Umberto Cosmo. Come G. spiega in un articolo del  dicembre , «del suo garzonato universitario» ricordava «con più intensità quei corsi, nei quali l’insegnante gli fece sentire il lavorio di ricerca attraverso i secoli per condurre a perfezione il metodo di ricerca». E tra questi corsi egli elencava anche quelli di Filologia, in cui il docente si sforzava di far capire agli alunni come si fosse arrivati al metodo storico e come, ad esempio, «i criteri e le convinzioni che guidavano Francesco De Sanctis nello scrivere la sua storia della letteratura italiana, non fossero che delle verità venutesi affermando attraverso faticose esperienze e ricerche, che liberarono gli spiriti dalle scorie sentimentali e retoriche che avevano inquinato nel passato gli studi di letteratura» (L’università popolare, in CT -). Al metodo desanctisiano e al suo concetto di realismo si ispirano d’altronde gran parte delle cronache teatrali gramsciane. Il realismo ha per G., infatti, come l’aveva per De Sanctis, un’evidente valenza politica: è l’espressione del rapporto che deve legare l’arte alla vita e nello stesso tempo la conferma che l’arte può cogliere e rappresentare, della realtà, aspetti e conflitti che possono aiutare a illuminare le sue dinamiche storiche e sociali, offrendo in questo modo a lettori o spettatori un importante strumento di conoscenza e di riflessione su quella stessa realtà. Quel che è certo è che G. sin dal periodo torinese dimostra di possedere una conoscenza puntuale della maggior parte dei saggi critici di De Sanctis, da alcuni dei quali, come le Lezioni dantesche, L’Ebreo di Verona, L’uomo del Guicciardini, La Scienza e la Vita, continuerà a ricavare durante tutto l’arco della sua vita stimoli per lo sviluppo di alcuni importanti filoni della sua riflessione. Altrettanta dimestichezza doveva avere con la Storia della letteratura,

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di cui durante la guerra aveva pubblicato brani significativi sulle pagine del “Grido del Popolo” e che non considerava un manuale, ma «una storia della civiltà italiana», come si può ricavare da una lettera a Tania in cui tra i libri che G. suggerisce di inviare a Giulia perché possa sviluppare la sua conoscenza della cultura italiana vi è proprio quella storia straordinaria (LC ,  settembre ). Non stupisce dunque che tra i pochissimi libri di sua proprietà, di cui G. può disporre nel carcere di San Vittore di Milano e che dichiara di scorrere «continuamente» e «di studiare», ci siano proprio la Storia della letteratura italiana e i Saggi critici di Francesco De Sanctis (LC -, a Tania,  maggio ). È indubbio che la figura di De Sanctis ha un rilievo esemplare anche nei Q, ma questa affermazione richiede alcune precisazioni preliminari. Per troppi anni, infatti, anche come conseguenza del successo ottenuto negli anni Cinquanta dal volume delle note letterarie dei Q nell’edizione tematica Letteratura e vita nazionale, in cui si tendeva a riconoscere il nucleo più originale del pensiero gramsciano, G. è stato considerato soprattutto l’erede di Francesco De Sanctis, il critico che ne aveva ripreso e arricchito la lezione; interpretazione che ha favorito e alimentato una lettura del rapporto De Sanctis-G. funzionale più alle aspirazioni democratiche della cultura progressista post-resistenziale che alla comprensione del progetto politico e culturale di G. Va precisato cioè che l’attenzione che G. dedica negli anni del carcere alle questioni desanctisiane trova alimento e spiegazione invece in una battaglia ben più avanzata e rivoluzionaria: quella politica che G. conduce per l’affermazione di una nuova, superiore forma di civiltà integrale, in grado di unificare tutto il genere umano. Quell’attenzione si colloca inoltre in un preciso contesto culturale: quello del dibattito che, a partire dal  ma soprattutto negli anni -, agita le acque della cultura italiana in nome della richiesta, interna alla cultura idealistica, di un maggiore realismo, richiesta che tra le sue parole d’ordine aveva, e non a caso, la formula gentiliana “Torniamo al De Sanctis”. Pur dall’isola-

mento cui lo costringeva il carcere, G. seguiva con grande interesse, sulle pagine delle riviste letterarie che riceveva e poteva consultare nella propria cella, il dibattito innescato da Luigi Russo con i suoi articoli sul “Leonardo” e con la pubblicazione nel  del volume Francesco De Sanctis e la cultura napoletana - e le polemiche sul realismo provocate, sempre nel , dagli articoli di Francesco Perri sulla “Fiera letteraria”. Si interrogava sulle insofferenze, che serpeggiavano tra gli stessi crociani, nei confronti del formalismo astratto, cercava di capire dove portasse quella volontà di tornare alle opere di De Sanctis, di studiarne gli aspetti meno noti o trascurati, e guardava con simpatia all’opera di chi aveva voluto mettere al centro di questa rinnovata attenzione il nesso tra la riflessione estetica e l’attività politica di De Sanctis, come G. capiva doveva aver fatto Luigi Russo nel suo recentissimo volume. Ma se i termini e i concetti di questa polemica potevano richiamare quelli dell’impegno desanctisiano, G. sapeva che in quegli anni per gran parte degli intellettuali italiani il problema rimaneva quello di confermare la natura fondamentalmente spirituale della letteratura e il carattere preminentemente formale o tutt’al più etico della funzione critica. Da questo punto di vista è significativo l’avvertimento introdotto a commento delle posizioni di Borgese, colpevole di non capire perché De Sanctis chiedesse alla nostra letteratura, a suo parere già così ricca di capolavori, di rinnovarsi: «È interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della critica attuale» (Q , , ). Messe a confronto con questo dibattito e con il suo significato politico, le note gramsciane su De Sanctis ne costituiscono una risposta, o meglio un’esplicita presa di distanza, inserite come sono in quella ricostruzione della storia degli intellettuali che costituisce la struttura portante dei Q e il vero metro di misura per giudicare funzione e valore delle varie scelte intellettuali. Ma G. si preoccupa di prendere le distanze anche da chi, tra gli scrittori e i critici vicini al materialismo storico, credeva di poter esaurire il problema del rapporto arti-

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stico limitandosi a descrivere ciò che un artista rappresenta di un determinato ambiente sociale. A questo proposito G. si preoccupa di chiarire che ai fini del materialismo storico il problema non è quello del giudizio né quello del metodo critico, ma quello della «lotta per una nuova cultura», nella piena consapevolezza che la «critica del costume», la «lotta per distruggere certe correnti di sentimenti e credenze e punti di vista, per crearne e suscitarne delle altre», è altra cosa dalla «critica artistica». È in questi termini, dunque, che G. può ribadire tutto il suo apprezzamento per la critica desanctisiana: «La critica del De Sanctis è militante, non è frigidamente estetica: è propria di un periodo di lotta culturale; le analisi del contenuto, la critica della “struttura” delle opere, cioè anche della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati sono legate a questa lotta culturale: in ciò mi pare consista la profonda umanità e l’umanesimo del De Sanctis che lo rende simpatico anche oggi; piace sentire in lui il fervore appassionato dell’uomo di parte, che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli» (Q , , ). Anche la citatissima affermazione «Il tipo di critica letteraria propria del materialismo storico è offerto dal De Sanctis, non dal Croce, o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): lotta per la cultura, cioè, nuovo umanesimo, critica del costume e dei sentimenti, fervore appassionato, sia pure sotto forma di sarcasmo» (ibid.) trova in quest’ordine di considerazioni la sua motivazione più profonda. L’esemplarità di De Sanctis è fortemente legata, d’altronde, in questa fase della riflessione gramsciana, anche grazie alle suggestioni fornitegli dal lavoro di Luigi Russo, al riconoscimento dell’importanza della sua lotta «per la creazione, ex nuovo in Italia, di una alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi di vario genere, retorica e gesuitismo» (ibid.). È indubbio dunque che in questi anni De Sanctis impersoni agli occhi di G. l’intellettuale che era riuscito a dare alla cultura italiana un «indirizzo nazionale-popolare», un intellettuale cioè che, pur da posizioni borghesi, aveva «fortemente sentito il

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contrasto Riforma-Rinascimento, cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale-statale» (Q , , ) e aveva cercato di reagirvi staccandosi «dall’idealismo speculativo» e avvicinandosi «al positivismo e al verismo in letteratura» (ibid.), con la speranza di unificare intorno a questi principi tutta la classe colta italiana. Un intellettuale che aveva il merito, inoltre, di aver posto con il saggio La Scienza e la Vita «la quistione dell’unità di teoria e pratica» (Q , , ) e di essere stato nello stesso tempo un grande intellettuale e un grande uomo politico. Questo riconoscimento non va confuso però con un’acritica identificazione di G. con De Sanctis, né con l’attribuzione al suo metodo storico del valore di un modello assoluto, come è avvenuto per molti aspetti nella fase post-resistenziale. Il riconoscimento della grandezza e dell’esemplarità “nazionale” della figura intellettuale di De Sanctis ha i meriti e i limiti del significato che G. attribuisce al termine stesso di nazionale: «Si può [...] dire che un carattere è “nazionale” quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello. Era nazionale in questo senso [...] De Sanctis nella critica letteraria» (Q , , ). Se G. non rinnega la distinzione tra critica culturale e critica artistica, di fronte alla persistente impopolarità e all’asettico calligrafismo della letteratura italiana contemporanea comincia a chiedersi se proprio la critica culturale non potesse contribuire, invece, a individuare e valutare su una base meno angusta e astratta il valore di un’opera letteraria. «Posto il principio che nell’opera d’arte sia solamente da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli nell’opera d’arte stessa [...] Ciò che si esclude è che un’opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato». Capovolgendo il precedente ragionamento critico G. si chiede se il fallimento artistico non possa, paradossalmente, dipendere dall’intrusione di «preoccupazioni

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pratiche esteriori, cioè posticce e insincere», dato che una nuova arte potrà nascere solo «se il mondo culturale per il quale si lotta è un fatto vivente e necessario». Solo in quel caso «la sua espansività sarà irresistibile» ed «esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d’accordo con loro» (Q , , -). Da De Sanctis dunque G. più che una lezione di metodo critico ricava una lezione politica: quella di una battaglia politico-culturale che mette in discussione lo stesso concetto di cultura. Non è un caso che l’ultima nota dedicata da G. a De Sanctis nei quaderni miscellanei ponga esplicitamente la domanda che aleggiava implicita in molte delle note di argomento desanctisiano: «La parola d’ordine di Giovanni Gentile: “Torniamo al De Sanctis!” cosa significa? e cosa può e dovrebbe significare?». Rievocando il passaggio di De Sanctis alla sinistra parlamentare, «il suo timore di una ripresa reazionaria», il suo giudizio «“Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura”», G. sente il dovere di precisare che “cultura” in questo caso significa «una coerente e unitaria, e di diffusione nazionale, “concezione della vita e dell’uomo”, cioè una “filosofia” ma diventata appunto “cultura” cioè che ha generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale» (Q , , ). Solo da questo punto di vista la lezione di De Sanctis poteva considerarsi, infatti, per G. ancora attuale. Una chiarificazione che diventa ancor più esplicita e significativa nella trascrizione della nota in Q . In essa G. si preoccupa di chiarire preliminarmente che tornare a De Sanctis non «significa “tornare” meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all’arte e alla letteratura» né «significa assumere verso l’arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi» – per G. gli obiettivi politicoculturali del liberale rivoluzionario non avrebbero mai potuto corrispondere a quelli del rivoluzionario comunista –, ma capire

«quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l’attività del De Sanctis e le impressero una determinata direzione» (Q , , ). G. chiarisce così che il vero merito di De Sanctis ai suoi occhi era quello di aver capito che «l’avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana» (ibid.) «domandava [...] un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è “nazionale”, diverso da quello della destra storica, più ampio, meno esclusivista, meno “poliziesco” per così dire» (ivi, ). E basterebbe il commento che conclude la nota a confermare l’importanza che per G. riveste questa maggiore disponibilità politica nei confronti delle classi popolari, questa forma particolare di andata al popolo: «È questo lato dell’attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare» (ibid.). G. chiude in questo modo i conti con De Sanctis attribuendo al rapporto privilegiato che aveva intrattenuto con la sua lezione fin dalla giovinezza un valore emblematico per il suo progetto politico-culturale. Più che come maestro di critica letteraria De Sanctis assume infatti rilievo nei Q come promotore di quel processo di unificazione nazionale della classe intellettuale che era sempre mancato e continuava a mancare in Italia. BIBLIOGRAFIA: DOMBROSKI ; GERRATANA ; LONGO ; MUSCETTA ; PETRONIO ; STIPCEVIC . MARINA PALADINI MUSITELLI V. «arte», «Croce», «cultura», «estetica», «intellettuali», «intellettuali italiani», «letteratura artistica», «nazionale-popolare», «poesia», «teatro».

debito pubblico Partendo da un libro dello storico Bernardino Barbadoro (Barbadoro ), considerato «indispensabile per vedere [...] come la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economica-corporativa, cioè a creare uno Stato “col consenso dei governati” e passibile di sviluppo», G. rileva «l’importanza politica del debito pubblico». Nella Firenze della fine del Quattrocento, infatti, la classe dominante, detentrice di ricchezza,

DEMOCRAZIA

riteneva di riversare, attraverso una politica di prestiti all’erario, sulla massa popolare la maggior parte degli oneri fiscali, per poi trovarsi punita dall’insolvenza del Comune. Insolvenza che, «coincidendo con la crisi economica, contribuì ad acuire il male e ad alimentare il dissesto del paese» (Q , , ). In Q , , - G. torna a occuparsi del problema del debito pubblico nell’ambito dell’ampia riflessione sugli effetti della crisi del . Lo spunto è offerto dai discorsi parlamentari tenuti nel  da Dino Grandi, che intendeva porre «la quistione italiana come quistione mondiale, da risolvere insieme alle altre che formano l’espressione politica della crisi iniziata nel ». Secondo il ministro, la “questione italiana” consiste nel fatto che «l’incremento demografico del paese è in contrasto con la povertà relativa del paese», cioè consiste «nell’esistenza di un superpopolamento». Occorrerebbe perciò che «all’Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente che demograficamente ecc.». G. osserva che i rapporti generali internazionali sono sfavorevoli all’Italia, ma rileva che «il basso saggio individuale di reddito nazionale» non è solo dovuto alla «povertà “naturale” del paese», ma è imputabile anche a «fattori storico-sociali creati e mantenuti da un determinato indirizzo politico». La politica del debito pubblico condotta dal governo italiano è infatti la dimostrazione della volontà politica di non razionalizzare i rapporti interni: «Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è, anche così ristretto, riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo relativo e assoluto». VITO SANTORO V. «bilancio statale», «borghesia comunale», «crisi».

demagogia G. distingue due significati, entrambi politici, contenuti nell’uso corrente del termine. La demagogia è il titolo della nota Q , , dove G. si preoccupa di precisare come «bisogna intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia». Contro chi sostiene

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che gli uomini del Risorgimento, pur non riuscendo a compiere l’unità d’Italia come volevano, non furono dei demagoghi, G. ribatte che «in realtà [...] gli uomini del Risorgimento furono dei grandissimi demagoghi: essi fecero del popolo-nazione uno strumento, degradandolo, e in ciò consiste la massima demagogia, nel senso peggiorativo che la parola ha assunto in bocca dei partiti di destra» (ivi, ). G. torna sul tema in una nota successiva: «demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari» (Q , , ). L’argomentazione è la stessa, ma l’aggiunta di «nel senso deteriore» apre a una diversa definizione possibile del lemma. Prosegue infatti G.: «se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile [...] ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico», allora «si ha una “demagogia” superiore». Non è con la presenza del capo davanti alla massa che si crea inevitabilmente la demagogia, essa dipende dai fini politici sottesi all’azione del capo e dai modi in cui questa si esplica: «il “demagogo” deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé», mentre «il capo politico dalla grande ambizione [...] tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili “concorrenti” ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo» (ibid.). MICHELE FILIPPINI V. «capo», «massa, masse», «popolo-nazione», «Risorgimento».

democrazia Come nota lo stesso G., «tanti [sono i, ndr] significati di democrazia» (Q , , ). Nei Q sono molti i riferimenti alla corrente politico-ideologica che, almeno a partire da Rousseau e dalla sua «democrazia sovversiva» (Q , , ), si fa strada durante la Rivoluzione francese prima e poi nell’Ottocento come ala più avanzata del processo di insorgenza della borghesia. G. nota anche

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che «si può osservare il parallelo svolgersi della democrazia moderna e di determinate forme di materialismo metafisico e di idealismo. L’uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo XVIII nella riduzione dell’uomo a categoria della storia naturale [...] essenzialmente uguale ai suoi simili» (Q  II, , ). I «democratici» nel Risorgimento sono gli esponenti di quello che G. chiama il Partito d’Azione, che i «moderati» vittoriosamente contrastano (Q , , ). G. è ovviamente avvertito dei diversi svolgimenti che le idee democratiche hanno avuto, a volte in convergenza, a volte in opposizione rispetto alle idee liberali, e delle alternative che il lemma racchiude, in primo luogo quella di una democrazia puramente politica vs. una democrazia anche socio-economica. Egli, proveniente dal marxismo terzinternazionalista, ritiene con Lenin che ciò che si chiama in genere “democrazia” sia “democrazia borghese”, intendendo con ciò la democrazia liberale, parlamentare, delegata. Negli anni torinesi G. è critico verso questa democrazia ostile ai «proletari» (Libertà,  settembre , in CT ; L’apocalisse,  febbraio , in CF ). Ondeggia (ma è il lemma stesso a prestarsi a significati diversi) fra il ritenere che gli ideali della democrazia siano incompatibili col capitalismo (Repubblica e proletariato in Francia,  aprile , in CF ) e il pensare che la democrazia si identifichi con esso (I giorni,  maggio , in NM ). Diviene nel “biennio rosso”  un esponente di punta della “democrazia consiliare” o “soviettista” europea (ON, passim, ma anche Costituente e Soviety,  gennaio , in CF ), ovvero un tipo di democrazia fondata sul controllo stretto dei rappresentanti da parte dei rappresentati e sull’omogeneità sociale della rappresentanza politica che, per Marx e per Lenin, aveva avuto il suo primo esperimento nella Comune di Parigi del , della qual cosa anche i Q recano traccia: «Nel  Parigi ha fatto un gran passo in avanti perché si ribella all’Assemblea nazionale formata dal suffragio universale, cioè implicitamente Parigi “capisce” che tra progresso e suffragio universale “può” esserci conflitto, ma questa esperienza storica, di valore inestimabile, è perduta

immediatamente, perché i portatori di essa vengono fisicamente soppressi: non c’è sviluppo normale quindi. Il suffragio universale e la democrazia coincidono sempre più» (Q , , ). Vince e si afferma storicamente – non solo dopo la Comune – la democrazia parlamentare; ma G. – anche all’altezza dei Q (il Q  è datato - e in esso ancora troviamo affermazioni molto nette) – mostra di non essere tornato indietro dal considerare la “democrazia consiliare” come una forma di democrazia superiore. In Q , ,  infatti egli critica il parlamentarismo sulla base della mancanza della precondizione di un’effettiva eguaglianza economico-sociale («è strano che [il regime parlamentaristico, ndr] non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza») e afferma che in un «sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale [...] il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt’altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo [...] Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consente si impegna a fare qualcosa di più del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile» (ivi, -). Palese è l’adesione gramsciana a questa tipologia di democrazia “alternativa” a quella democratico-parlamentare. La democrazia parlamentare che si era affermata negli ultimi decenni dell’Ottocento si era del resto dimostrata ben presto molto al di sotto delle sue stesse promesse, specie in Italia all’epoca della Sinistra storica e poi del giolittismo. Ma il giudizio critico gramsciano è più generale: in una lettera alla cognata Tania del  maggio  G. richiama en passant l’esperienza del «disastro della democrazia politica» fatta nei primi lustri del secolo XX da «noi occidentali» (LC ). Che la «democrazia politica» sia un «disastro» è del resto ciò che pensa buona parte della cultura nella quale si era formato il giovane G. – l’elitismo di Mosca e Pareto in primo luogo, ma anche Croce, Prezzolini e tanti altri. Negli scritti del carcere G. mo-

DEMOCRAZIA

stra di aver fatto tesoro delle critiche fondamentali dell’elitismo riguardo ai limiti della democrazia parlamentare, ma di non rinunciare alla ricerca di un diverso e più soddisfacente rapporto tra governati e governanti, ovvero di una forma più alta e più piena di democrazia, poiché certo vi sono «forme “democratiche” più sostanziali del corrente “democratismo” formale» (Q , , ). La qual cosa ha una ricaduta ricca di implicazioni anche sul piano dell’organizzazione pedagogica: «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure “astrattamente” nelle condizioni generali di poterlo diventare: la “democrazia politica” tende a far coincidere governanti e governati, assicurando a ogni governato l’apprendimento più o meno gratuito della preparazione “tecnica” generale necessaria. Ma nella realtà, il tipo di scuola praticamente imperante, mostra che si tratta di un’illusione verbale» (Q , , -). Il problema è proprio come far diventare concreto (e non solo sul piano scolastico) quell’“astratto” diritto all’autogoverno. La democrazia è divenuta il terreno specifico della lotta di classe in Occidente: «La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l’arte politica come le “trincee” e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo “parziale” l’elemento del movimento che prima era “tutta” la guerra ecc.» (Q , , ). «L’esercizio “normale” dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano» (Q , , ). G. smonta la concezione della «sovranità popolare [...] esercitata una volta ogni -- anni, [poiché, ndr] basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per - anni, anche se, passata l’emozione, la massa elettorale si stacca dalla sua espressione legale» (Q , , ). Tale artificiale



orientamento dell’opinione pubblica è conseguito – vede già allora il comunista sardo – tramite i mass media e i “persuasori occulti”, a quel tempo rappresentati dalla radio e dalla stampa popolare (ibid.). Nella nota intitolata Egemonia e democrazia G. scrive: «Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente» (Q , , ). Della democrazia viene quindi data una definizione di “ricambio organico” del gruppo dirigente, al più di proficua attività di “direzione” dei gruppi sociali alleati. Non trova spazio alcuna definizione formalistico-procedurale, ma si conferma l’attenzione per i rapporti reali fra dirigenti e diretti. In definitiva si può affermare che G. resta diffidente verso la democrazia liberale e parlamentare. Il suo maggior apporto a una rivisitazione democratica dell’ideologia comunistica nei Q va ricercato in quelle definizioni del concetto di egemonia che mettono l’accento sulla ricerca del consenso e sul concetto di società regolata come futuro, possibile superamento della distinzione governati-governanti. Da qui e dalle riflessioni – non affidate a documenti scritti, per ovvie ragioni legate alla prigionia – sulla «Costituente» come fase politica “democratica” che avrebbe dovuto far seguito alla caduta del fascismo nasceranno gli ulteriori sviluppi del comunismo italiano che segneranno la specifica identità del PCI soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Ma G., morto il  aprile , non poté dare il proprio contributo alla nuova fase che pure tanto nutrimento trasse dal suo pensiero. GUIDO LIGUORI V. «direzione», «dirigenti-diretti», «egemonia», «elezioni», «élite, elitismo», «governati-governanti», «parlamento», «pedagogia», «Risorgimento», «Rivoluzione francese», «Rousseau», «società regolata», «suffragio universale».



DESTRA

destra: v. sinistra-destra. determinismo G. affianca, nel suo rifiuto, il determinismo all’«economismo» e al materialismo volgare, anch’esso «una forma di ferreo determinismo economistico, con l’aggravante che gli effetti ne erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio: perciò era un vero e proprio misticismo storico, l’aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa» (Q , , ). «Non si tratta di “scoprire” una legge metafisica di “determinismo”, e neppure di stabilire una legge “generale” di causalità. Si tratta di vedere come nello sviluppo generale si costituiscono delle forze relativamente “permanenti”» (Q , , ). Valido è infatti il compito di «isolare e studiare delle leggi di regolarità necessarie, cioè delle leggi di tendenza», il che significa cercare «leggi non in senso naturalistico o del determinismo speculativo, ma in senso “storicistico” in quanto cioè si verifica il “mercato determinato”» (Q  II, , ). «Ma cos’è il “mercato determinato” e da che cosa appunto è determinato? Sarà determinato dalla struttura fondamentale della società in quistione e allora occorrerà analizzare questa struttura e identificarne quegli elementi che, [relativamente] costanti, determinano il mercato ecc., e quegli altri “variabili e in isviluppo” che determinano le crisi congiunturali fino a quando anche gli elementi [relativamente] costanti ne vengono modificati e si ha la crisi organica» (Q , , ). Ma talvolta il determinismo ha una funzione positiva, se «giustificata dal carattere “subalterno” di determinati strati sociali». Quando «non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente» (Q , , ), nel senso che, da parte degli strati subalterni, si è portati a ragionare così: «“Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare”» (ibid.). G. inoltre mette l’accento sul particolare determinismo proprio della «pre-

destinazione calvinistica», dalla quale «sorge uno dei maggiori impulsi all’iniziativa pratica che si sia avuto nella storia mondiale» (Q  II, , ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «economismo», «fatalismo», «materialismo e materialismo volgare», «meccanicismo», «mercato determinato», «teleologia», «volontà collettiva».

dialettica Una definizione ancora quasi eraclitea era stata proposta negli anni torinesi: «la storia è un perpetuo divenire [...], un processo dialettico indefinito» (Il problema delle commissioni interne. Postilla,  agosto , in ON ). Si evocava il trapassare dell’eraclitismo nell’hegelismo in un resoconto delle attività didattiche tra i carcerati: «abbiamo dato nel corso allo studio della dialettica il posto che meritava. Abbiamo perciò fatto leva su Empedocle ed Eraclito (di cui abbiamo i frammenti e di cui Hegel ha potuto dire che non vi era parte della sua filosofia ch’egli non avesse incluso nella sua logica)» (LC , G. Berti a G.,  giugno ). E si richiamava (genericamente) all’hegelismo la lettera a Tania del  marzo : qui la dialettica è «la forma del pensiero storicamente concreto» (LC ). Il richiamo a Hegel diviene più esplicito nella lettera del  maggio : nella filosofia della praxis «la legge di causalità delle scienze naturali è stata depurata del suo meccanicismo e si è sinteticamente identificata col ragionamento dialettico dell’hegelismo» (LC , a Tania,  maggio ). Ma nei Q la polemica contro il meccanicismo si alterna alla critica della dialettica crociana e di quella gentiliana, nelle quali si compie una «riforma “reazionaria”» di Hegel (Q  II, .X, ). Nelle concezioni tradizionali, «da un lato si ha l’eccesso di “economismo”, dall’altro l’eccesso di “ideologismo”; da una parte si sopravalutano le cause meccaniche, dall’altra l’elemento “volontario” e individuale. Il nesso dialettico tra i due ordini di ricerche non viene stabilito esattamente» (Q , , ). La filosofia della prassi, invece, «supera (e superando, ne include in sé gli elementi vitali) e l’idealismo

DIALETTICA

e il materialismo tradizionali» (Q , , ). Marx, infatti, «non adopera mai la formula “dialettica materialistica” ma “razionale” in contrapposto a “mistica”» (Q , , ). Nel ripensare al Risorgimento, in specie alla differenza tra i moderati e il Partito d’Azione, G. accoglie un concetto che ha le sue origini in Hegel: la libertà si fa consapevole di sé e insieme del suo opposto o, meglio, si fa consapevole di sé in quanto consapevole anche del suo opposto. Nondimeno, poiché G. considera «il concetto di “libertà” identico a storia e a processo dialettico, e quindi presente sempre in ogni storia» (Q , , ), si pone il problema se in futuro non vi «sarà l’inizio di una fase storica in cui necessità-libertà essendosi compenetrate organicamente, nel tessuto sociale, non ci sarà altra dialettica che quella ideale» (Q , , ). Infatti, se Engels aveva riproposto la (hegeliana) dialettica di quantità-qualità, G. tende a sostituirla con quella tra necessità e libertà, accogliendo, per designare la società del futuro, il concetto marxiano di un “regno della libertà”. G. sostiene che la «dialettica è anche una tecnica», come la logica formale, «ma è anche un nuovo pensiero, una nuova filosofia. Si può staccare il fatto tecnico dal fatto filosofico?» (Q , , ). In un altro passo: «il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la logica formale come espressione» (Q , , ). La dialettica è «dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica» (ibid.). Il che non significa che si possa applicare il metodo dialettico, in quanto filosofico, a ogni avvenimento storico (o politico): ciò che «non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante [...] e contingente» (Q , , ). Il significato gramsciano della dialettica come “nuova filosofia” si fa più chiaro in relazione al concetto di rivoluzione passiva. Questa è, nell’opposizione tra il vecchio e il nuovo, una tentata sintesi conservatrice, che accoglie «una qualche parte delle esigenze dal basso» per salvare il vecchio (Q  II, .XIV, ). È dunque il tentativo di «incorporare una parte dell’antitesi». Ma è qui im-



plicita una regola di reciprocità? Anche l’antitesi potrebbe, dopo aver portato a termine la sua lotta intransigente, persino con intenti “distruttivi”, «sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte» della tesi? (Q , , ) Potrebbe cioè anche l’antitesi tentare una propria sintesi, a sua volta alternativa alla sintesi conservatrice? In altre osservazioni quasi contestuali, la tendenza a “distruggere” caratterizza soltanto, nell’antitesi, una prima fase più acuta: «la passione economica-politica è distruttiva quando è esteriore, imposta con la forza» (Q  II, .X, ); non lo è più «quando il processo è normale, non violento, quando tra struttura e superstrutture c’è omogeneità e lo Stato ha superato la sua fase economico-corporativa» (ibid.). La volontà “distruttiva” si riferisce dunque a una fase (preliminare), più visibile nella «guerra manovrata» (a sua volta «imposta con la forza» dall’avversario); la guerra di posizione consiste invece in un “reciproco assedio” (Q , , ), nel quale la direzione (del processo storico in quanto anche azione egemonica) cambia se «è l’elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale» (Q , , ). Le nozioni di passato e presente (o futuro) relativizzano ancor più la tendenza distruttiva insita nell’antitesi: la forza innovatrice «non può non essere in un certo senso essa stessa il passato, un elemento del passato, ciò che del passato è vivo e in isviluppo, è essa stessa conservazione-innovazione, contiene in sé l’intero passato, degno di svolgersi e perpetuarsi» (Q  II, .XIV, -). Nel sistema hegeliano la sintesi è una ed è l’unica risoluzione necessitata della contraddizione, i cui momenti sono entrambi conservati sul versante della “tesi”, più che superati. Per G., gli opposti possono non risolversi in alcuna sintesi e anzi neutralizzarsi «in modo catastrofico, cioè [...] in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca» (Q , , : e qui risuona l’eco del Manifesto del partito comunista); ma possono dar luogo, a seconda delle condizioni storiche, a due opposte sintesi: alla sintesi conservatrice o alla sintesi innovatrice; ed è sintesi positiva proprio quella che si produce a partire dal negativo.



DIALETTICA

G. sottopone a vaglio critico la dicotomia struttura-sovrastruttura. Dapprima la espone nei termini tradizionali, confrontandola con la dialettica crociana, ma poco dopo propone una sua revisione che ravvisa nella superstruttura non un epifenomeno quasi obbligato a riflettere passivamente – o distorcere intenzionalmente – la struttura, ma un opposto dialettico vincolato alla struttura da un rapporto simbiotico di correlazione attiva e non necessariamente conflittuale: «Il concetto del valore concreto (storico) delle superstrutture nella filosofia della praxis deve essere approfondito accostandolo al soreliano concetto di “blocco storico”. Se gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale e dei loro compiti nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstruttura esiste un nesso necessario e vitale» (Q  II, .XII, ). G. vede nella struttura una «“causazione” dialettica, non meccanica, delle superstrutture» (Q , , ). Dal canto suo, «la superstruttura reagisce dialetticamente sulla struttura e la modifica» (Q , , ). Dunque, il distacco tra struttura e superstrutture è «posto in senso dialettico, come tra tesi ed antitesi» (ibid.). Ma tra le due non vi è lotta: vi è una «reciprocità che è appunto il processo dialettico reale» (Q , , ). Di «reciprocità necessaria tra struttura e superstrutture (reciprocità che è appunto processo dialettico reale)» discorre il Q , , . Perciò G. non ha difficoltà a recuperare dalla terminologia crociana lemmi riconducibili alla dialettica tra necessità e libertà. Tra i quali il lemma “catarsi”: nelle superstrutture «il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico» (Q  II, , ). «Catarsi», egli scrive, può «indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoisticopassionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura», e può indicare il «passaggio dall’“oggettivo al soggettivo” e dalla “necessità alla libertà”» (ibid.). Per G. struttura e superstruttura sono, in un significato quasi crociano, termini distinti, ma non opposti? Sono distinti soltanto se la distinzione è concepita come una modalità dell’opposizione nella quale ciascun opposto, pur non lottan-

do contro l’altro, è in un rapporto di tensione (dialettica) con l’altro. La dialettica dei distinti diviene per G., dopo un iniziale rifiuto, un’espressione imperfetta per indicare quella tensione-coesione organica. Egli si domanda: «Ma si può parlare di dialettica dei distinti? Concetto di blocco storico, cioè di unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e di distinti» (Q , , ). E precisa: «introdurre nel “blocco storico” una attività dialettica e un processo di distinzione non significa negarne l’unità reale» (Q , , ). Il nesso dialettico (ma organico) tra struttura e superstrutture rinvia al (e, in un certo senso, ricomprende il) ricambio organico, sotto forma di attività produttiva, tra la natura e la storia umana. Riguarda pertanto «l’attività pratica, che è la mediazione dialettica tra l’uomo e la natura» (Q , , ). Scrive poi G.: «Unità negli elementi costitutivi del marxismo. L’unità è data dallo sviluppo dialettico delle contraddizioni tra l’uomo e la materia (natura-forze materiali di produzione) [...] Nella filosofia – la prassi – cioè rapporto tra la volontà umana (superstruttura) e la struttura economica. Nella politica – rapporto tra lo Stato e la società civile – cioè intervento dello Stato (volontà centralizzata) per educare l’educatore, l’ambiente sociale in genere» (Q , , ). Nel rapporto dialettico tra struttura e superstruttura, una categoria cruciale, originalmente rivisitata da G., è quella di società civile. Quando G. tematizza una tale «elaborazione superiore della struttura in superstruttura» (Q  II, , ), delinea una dialettica dei distinti nella quale la superstruttura può incorporare una struttura, per così dire, “sovrastrutturalizzata”: ed ecco che la “società economica” (come struttura) si fa Stato o, meglio, lo Stato la sussume trasmutandola in un suo momento interno che, come (superstrutturale) “società civile”, si pone in un rapporto di “identità-distinzione” con lo Stato stesso. L’identità è «organica» o concretamente storica, mentre la distinzione è soltanto «metodica» (Q , , ), ossia è un’astrazione avente valore euristico e tuttavia con fondamento reale: qui forse G. è memore anche della definizione crociana della filosofia come “metodologia della storia”. Sono sintomatiche le modifiche che in Q , , -, del mag-

DIALETTICA

gio  o poco dopo, sono apportate al testo di prima stesura (Q , , ), del novembre . Nel Testo A società civile e Stato sono «due tipi di organizzazione sociale», ma nel Testo C sono «due grandi “piani” superstrutturali». Nel Testo A la distinzione è tra «organizzazioni private della società» e «Stato», ma nel Testo C è tra «organismi volgarmente detti “privati”» e «comando che si esprime nello Stato e nel governo “giuridico”». Nel Testo A lo Stato è, semplicemente, «apparato di coercizione», ma nel Testo C diviene «apparato di coercizione [...] che assicura “legalmente” la disciplina». G. si interroga: «cosa significa Stato? Solo l’apparato statale o tutta la società civile organizzata? O l’unità dialettica tra il potere governativo e la società civile?» (Q , , ). Ma il potere governativo non è soltanto coercizione. Dovrà esser anche, e forse soprattutto, educatore: «lo Stato deve gratuitamente tenere informati i cittadini di tutta la sua attività, deve cioè educarli: argomento democratico che si trasforma in giustificazione dell’attività oligarchica. L’argomento però non è senza pregio: esso può essere “democratico” solo nelle società in cui la unità storica di società civile e società politica è intesa dialetticamente (nella dialettica reale e non solo concettuale)» (Q , , ). Un rapporto comparabile con quello tra Stato e società civile può essere (o divenire) quello tra cultura “alta” e cultura popolare. «Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova “ampiezza” e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura» (Q , , ). «Il materialismo storico è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, nella sua dialettica cultura popolare-alta cultura» (Q , , ). G. non ignora la complessità e la durata di un tale processo, in specie quando scrive: «il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco attraverso i diversi ceti intellettuali può essere dissolto per addivenire a una nuova formazione [...] solo se si fa forza in due direzioni: sui conta-

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dini di base accettandone le rivendicazioni e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo e sugli intellettuali insistendo sui motivi che più li possono interessare. Il rapporto tra queste due azioni è dialettico: se i contadini si muovono, gli intellettuali incominciano a oscillare e reciprocamente se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base, essi finiscono col trasportare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarli in forti organizzazioni, che conviene iniziare il lavoro politico dagli intellettuali, ma in generale è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente» (Q , , ). Infine, così come si dà una lotta tra egemonie contrapposte, oltre che nella vita sociale, in quella di ciascun individuo, così si determinano tensioni dialettiche anche nell’esistenza individuale: «La personalità e la volontà sono prodotti dialettici, di una lotta interiore che può e deve essere esteriorizzata, quando internamente l’antagonista è soffocato per un processo morboso; l’importante sarebbe che quel “tormentare” non sia un astratto tormentare, ma un concreto pungolo della coscienza mosso e vibrato razionalmente» (LC , a Iulca,  dicembre ). E «si può trovare una serenità anche nello scatenarsi delle più assurde contraddizioni e sotto la pressione della più implacabile necessità, se si riesce a pensare “storicamente”, dialetticamente, e a identificare con sobrietà intellettuale il proprio compito o un proprio compito ben definito e limitato» (LC , a Tania,  marzo ). B IBLIOGRAFIA : B OBBIO a; C RI STOFOLINI ; D EL N OCE ; F INOC CHIARO ; MARTELLI , -; PETTERLINI ; P RESTIPINO ; S HOWSTACK SASSOON . GIUSEPPE PRESTIPINO V. «alta cultura», «blocco storico», «catarsi», «cultura popolare», «Engels», «Hegel», «libertà», «logica», «materialismo storico», «necessità», «quantità-qualità», «Risorgimento», «rivoluzione passiva», «società civile», «superstruttura, superstrutture», «Stato», «struttura».



DIALETTO

dialetto La lettera del  marzo  alla sorella Teresina (LC -) è il primo testo del periodo carcerario contenente, seppur indirettamente, delle affermazioni rilevanti sul dialetto. G. raccomanda di lasciar parlare in sardo suo nipote Franco, di due anni, ricordando che egli stesso avrebbe voluto insegnare (nel ) un canto popolare in sardo al figlio Delio: questo perché «è bene che i bambini imparino più lingue». G. aggiunge infatti che «il sardo non è un dialetto» ma una lingua, anche se privo di «una grande letteratura». Tuttavia, aveva definito il sardo un «dialetto» in alcuni testi precarcerari (La Brigata «Sassari»,  aprile , in NM -) e lo indicherà di nuovo come tale in due lettere alla cognata Tania (LC -,  marzo  [] e LC -,  luglio ). Quanto al criterio distintivo, una precisazione è ricavabile dalla lettera alla cognata Tatiana del  novembre : nella storia della cultura italiana, è «dialettale», o «popolare», la lingua che si distingue da quella «dotta [...] degli intellettuali e delle classi colte» (LC ). Nei Q la nozione di dialetto è affrontata in modo più approfondito, a partire dai primi mesi del . In Q , , - G. scrive che in Italia «la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la classe colta parla la lingua in certi momenti e il dialetto nella parlata famigliare, cioè in quella più viva e più aderente alla realtà immediata. Così la lingua è sempre un po’ fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare, si frange in tanti riflessi dialettali». Tale giudizio è in sintonia con il ragionamento svolto nella lettera a Teresina, dove l’italiano che un bambino poteva imparare in una famiglia del tempo, residente in un paese della Sardegna, è considerato «una lingua povera, monca» (LC ,  marzo ). Inoltre, la valutazione relativamente positiva del dialetto riecheggia quella espressa dal giovane G. in qualità di critico teatrale (L’Italia che scrive,  aprile , in CF -; Musco,  marzo , in CF -); infatti, un ragionamento e

un giudizio affini tornano, poco tempo dopo, in una riflessione sul teatro italiano (Capuana e Pirandello): «La lingua non ha “storicità” di massa, non è un fatto nazionale. Liolà in italiano non vale nulla sebbene Il fu Mattia Pascal da cui è tratta sia abbastanza interessante». Un autore ha difficoltà a mettersi «all’unisono col pubblico» perché «in Italia ci sono due lingue: l’italiano e il dialetto regionale e nella vita famigliare si adopera il dialetto», mentre l’italiano non è che «una lingua parziale» (Q , , ; v. anche Q , , , sulla possibilità di studiare gli «elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca siciliana [che, ndr] il Pirandello introduce o può introdurre nella lingua italiana letteraria»). Le note di questo periodo contengono anche altre riflessioni sul dialetto. In esse la distinzione tra dialetto e lingua è articolata con evidente consapevolezza dell’inaccettabilità, alla luce dei moderni studi linguistici, di quella rigidità gerarchico-classificatoria che invece sembra comparire, almeno a livello espositivo, nella lettera a Teresina. G. è attento ai processi storici che ridefiniscono lo status e il valore simbolico di un idioma (v. anche la lettera citata del  novembre ). «Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini» e, da uno di questi, emerge il «volgare illustre»: nuova «lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione» (Q , , -), che per gli intellettuali rappresenterà, più tardi, un elemento fondativo della civiltà italiana. Ma «il volgare, per gli umanisti, era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale» (Q , , ). Nata dialettale, quella civiltà si unificò con la «fioritura del  [toscano]», ma «fino a un certo punto» (Q , , ). Infatti «la lingua [...] in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste (eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti» (Q , , ). Sempre in questi anni (-) la distinzione tra lingua e dialetto viene da G. problematizzata anche per altra via. La storia degli idiomi, come prodotti sociali e culturali collettivi, mostra come non sussistano legami assoluti, permanentemente necessari, tra un certo dialetto (o una lingua) e un tipo particolare di visione del mondo: nel Cinquecento un filone culturale «veramente na-

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DIO

zionale-popolare» si espresse «nei dialetti, ma anche in latino» (Q , , ); a Roma, nel - «il dialetto è arma dei liberali, dopo il  dei clericali» (Q , , ). Nemmeno il rapporto che il dialetto ha con la cultura folklorica (v. Q ,  e Q , ) va inteso meccanicamente: quando si guarda alle rispettive modificazioni storiche, il «folclore» risulta «più mobile e fluttuante della lingua e dei dialetti» (Q , , ). Nel quadro costituito da questa prima fase di considerazioni sul dialetto – alcune delle quali sono riprese, nel , in Q , , Q ,  e Q ,  – si inserisce la riflessione di G. sui limiti della dialettofonia e sul valore progressivo dell’unificazione linguistica (una riflessione ricollegabile anch’essa ad alcuni articoli giovanili: v. Analfabetismo,  febbraio , in CF -; Il socialismo e l’Italia,  settembre , in CF -; Contro un pregiudizio,  gennaio , in CF -; La lingua unica e l’esperanto,  febbraio , in CF -; Cronache di cultura,  giugno , in ON ). La nota che segna un importante punto di avvio in tal senso, proviene dal già citato Q  (e risale probabilmente agli inizi del ). G. introduce qui (Q , ) un’osservazione sul differente «contenuto storico-sociale» dei dialetti rispetto alla lingua: «tra il dialetto e la lingua nazionale-letteraria qualcosa è mutato: precisamente l’ambiente culturale, politicomorale-sentimentale. La storia delle lingue è storia delle innovazioni linguistiche [...] di un’intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura, che ha “progredito” storicamente» (ivi, ). Questa differenziazione si preciserà quando G. parlerà di «lingua comune nazionale, la cui non esistenza determina attriti specialmente nelle masse popolari» (Q , , ). Si arriva così alla prima metà del , a quel Q ,  e ,  dove, tuttavia, non è abbandonata la concezione dei dialetti come prodotti storici non puramente residuali né assolutamente separati dalla «lingua unitaria» in fieri. E infatti G. inserisce, tra i «Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali», anche «i dialetti»: quelli «più localizzati» e quelli «che abbracciano complessi regionali più o meno vasti» (ivi, ).

Si configura, complessivamente, una riflessione sulla dialettofonia che integra l’auspicio (e la proposta d’intervento a favore) dell’unificazione linguistica nazionale con la constatazione dei vantaggi funzionali che, in certi contesti d’uso, il dialetto era ancor lungi dal perdere e la lingua dall’assumere. G. non asserì la necessità né l’inevitabilità della scomparsa dei dialetti; ciò che egli ritenne inadeguato fu il monolinguismo, il monolinguismo dialettale in particolare. Questa condanna è espressa risolutamente in una nota che spicca per la centralità della sua collocazione teorico-argomentativa (nel cuore delle riflessioni filosofiche dei Q) e cronologica (): «Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi o economistici, non universali. Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa» (Q , , ). ALESSANDRO CARLUCCI V. «cultura popolare», «folclore, folklore», «latino», «latino e greco», «lingua», «linguaggio», «linguistica», «Pirandello», «traduzione».

Dio G. affronta l’argomento seguendo un’analisi storica e una riflessione filosofica. L’analisi storica parte da un articolo di Filippo Burzio che esamina le diverse tappe della «crisi» dell’Occidente e la conseguente graduale riduzione di un «“apparato di governo” spirituale» (Q , , ) e quindi del ruolo di Dio. Crisi che annulla la necessità “popolare” di una religione: «Se l’antica religione sembri esausta, non rimane che ringiova-



DIO ASCOSO

nirla. Universalità, interiorità, magicità. Se Dio si cela, resta il demiurgo» (ibid.). La riflessione filosofica è più complessa e riguarda la doppia oggettività della conoscenza: quella del senso comune e quella del materialismo storico. La differenza è enorme: «il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto questa oggettività è stata creata da Dio», ma esso «cade nei più grossolani errori»; per il materialismo storico «ciò che più importa non è dunque l’oggettività del reale come tale ma l’uomo che elabora questi metodi» (Q , , ). La conclusione è che «cercare la realtà fuori dell’uomo appare quindi un paradosso, così come per la religione è un paradosso [peccato] cercarla fuori di Dio» (ibid.). I quasi cento riferimenti al lemma nei Q approfondiscono tali concetti. L’obiettività della conoscenza, e quindi della «“realtà oggettiva del mondo esterno”» (Q , , ), è di origine religiosa e tutte le religioni insegnano che Dio ha creato il mondo prima dell’uomo. Il materialismo storico affida all’uomo la progressiva conoscenza del mondo esterno e il conseguente pieno dominio. Per spiegare poi l’espressione marxiana della religione come «“oppio del popolo”» G., dopo aver ricordato che l’espressione fu mutuata da Balzac che parlò del gioco del lotto come «“oppio della miseria”» (Q , , ), riprendendo un passo di Pascal, secondo il quale non si perde nulla a credere che Dio esista (Q , , ) e che vivendo «cristianamente si rischia infinitamente poco», presenta la religione come una scommessa (Q , , ). A proposito del materialismo storico e della tesi di Feuerbach, G. afferma che il concetto di natura umana «cercata in Dio», e di conseguenza il concetto che gli uomini siano figli di Dio, è «la maggior utopia». Ma una tale utopia è stata espressione «di complessi movimenti rivoluzionari», ha trasformato il mondo classico e ha «posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico» (Q , , ). Il concetto di Dio dallo storicismo non è giudicato «mostruoso», ma caduco, cioè valido storicamente (Q ,  e ). G. accenna anche a qualche considerazione sul concetto di Dio come viene affrontato nel buddismo (Q , ), nell’islamismo (Q , ), nell’induismo (Q , ). Ma la domanda fi-

nale che traspare dall’intero problema pare essere: ma dov’è Dio? È scomparso dal mondo? E la risposta G. la trova nella “Ecclesiastical Review”, secondo la quale nelle scuole statali degli Stati Uniti «non si ode mai una parola su Dio, sui doveri verso il Creatore e neppure sull’esistenza di un’anima immortale» (Q , , ). E conclude: «Appare quindi che il numero dei cattolici [negli Stati Uniti] è solo un numero statistico, da censimenti [...] Più ipocrisia, insomma» (ivi, ). VINCENZO ROBLES V. «Chiesa cattolica», «Feuerbach», «islamismo», «materialismo storico», «oggettività», «oppio», «Pascal», «religione», «uomo».

dio ascoso L’espressione figura in alcuni passi nei quali G. replica alla critica crociana del materialismo storico: «Il Croce è giunto fino ad affermare che la sua ulteriore e recente critica della filosofia della praxis è appunto connessa a questa sua preoccupazione antimetafisica e antiteologica, in quanto la filosofia della praxis sarebbe teologizzante e il concetto di “struttura” non sarebbe che la ripresentazione ingenua del concetto di un “dio ascoso”» (Q  I , , ). Oppure: «Gherminella polemica del Croce che “oggi” dà un significato [metafisico, trascendente] speculativo ai termini della filosofia della praxis, quindi l’“identificazione” della “struttura” con un “dio ascoso”» (Q  I, p. ). Oppure: «Il Croce è così immerso nel suo metodo e nel suo linguaggio speculativo che non può giudicare che secondo essi; quando egli scrive che nella filosofia della praxis la struttura è come un dio ascoso, ciò sarebbe vero se la filosofia della praxis fosse una filosofia speculativa e non uno storicismo assoluto, liberato davvero e non solo a parole, da ogni residuo trascendentale e teologico» (LC , a Tania,  maggio ). E ancora: «Come sarà da intendere la struttura: come nel fatto economico si potrà distinguere l’“elemento” tecnica, scienza, lavoro, classe ecc., intesi “storicamente” e non “metafisicamente”. Critica della posizione del Croce per cui, polemicamente, la struttura diventa un “dio ascoso”,

DIREZIONE



un “noumeno”, in contrapposizione alle “apparenze” superstrutturali. “Apparenze” in senso metaforico e in senso positivo. Perché furono “storicamente” chiamate “apparenze”: proprio il Croce ha estratto, da questa concezione generale, la sua particolare dottrina dell’errore e della origine pratica dell’errore» (Q , , ).

del genere però, nota G., non può essere applicato all’Italia post-unitaria, di cui Crispi fu leader, la quale, priva di autonomia internazionale, si trovò nelle condizioni in cui «la diplomazia fosse concretamente superiore alla politica creativa, fosse la “sola politica creativa”» (ibid.).

GIUSEPPE PRESTIPINO

V. «Crispi», «Croce», «Guicciardini», «Machiavelli», «politica».

V. «Croce», «filosofia della praxis», «storicismo assoluto», «struttura».

diplomazia In una nota del Q , criticando Croce e riferendosi al fatto che non è detto che una lotta politica debba evolvere in direzione di scontri sanguinosi, G. scrive: «La diplomazia è [...] quella forma di lotta politica internazionale (e non è detto che non esista una diplomazia anche per le lotte nazionali fra partiti) che influisce per ottenere vittorie (che non sono sempre di poco momento) senza spargimento di sangue, senza guerra» (Q  II, .V, ). Ciò non vuol dire che politica e diplomazia siano la stessa cosa: nella prima gioca un’importanza centrale «l’elemento volitivo», mentre la seconda «sanziona e tende a conservare le situazioni create dall’urto delle politiche statali; è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica [...] Perciò il diplomatico, per lo stesso abito professionale, è portato allo scetticismo e alla grettezza conservatrice» (Q , , -). La differenza fra politica e diplomazia è esemplificata da Machiavelli e Guicciardini. Quest’ultimo fu diplomatico di professione e, per questo, più scettico, in quanto, essendo «la diplomazia divenuta necessariamente una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli» (ivi, ). G. presenta ulteriori esempi storici a sostegno della tesi che la diplomazia, come affermava Crispi, «è [...] attività subalterna e subordinata» alla politica in quanto «non crea nuovi nessi storici, ma lavora a far sanzionare quelli che il politico ha creato» (Q , , ); per questo Talleyrand e Napoleone non possono essere paragonati. Un discorso

LELIO LA PORTA

diretti: v. dirigenti-diretti. direzione G. usa il lemma «direzione» sempre in forma aggettivata: essa può essere «charismatica» (Q , , -) o «castale e sacerdotale» (Q , , ), «intellettuale e morale» (Q , , ) o «culturale e morale» (Q  I, , ), «consapevole» (Q , , ) o «sociale e statale» (Q , , ). Queste diverse forme assunte dalla direzione rimandano tutte al suo carattere politico e identificano una vera e propria funzione del sistema di potere che si esplica in ambiti diversi. Si può quindi dire che al centro dell’interesse di G. stia precisamente la «funzione di direzione politica» (Q  II, , ). Il significato della direzione politica viene precisato in Q , , dove G. esplicita quello che sarà uno snodo centrale della sua scienza politica: «il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè “dirigente” e “dominante”. È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie» (ivi, ). La direzione è quell’attributo specifico della forma di potere moderna che non si presenta come meccanicamente forzoso, ma come forma consensuale del potere stesso; per questo secondo G. «una classe già prima di andare al potere può essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche “dirigente”» (ibid.). L’espressione “direzione politica” sembra diventare, in questo caso, un sinonimo di “egemonia”: «ci può e ci deve essere una “egemonia politica” anche prima della andata al Governo e non bisogna contare so-



DIREZIONE

lo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica» (ibid.). L’uso equivalente di entrambe le espressioni è presente anche nell’analisi dei partiti, «la funzione egemonica o di direzione politica [...] può essere valutata dallo svolgersi della vita interna dei partiti stessi» (Q , , ), o della storia etico-politica, che «è una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’egemonia, della direzione politica, del consenso» (Q  I, , ). La direzione politica è quindi per G. quell’«aspetto del dominio» (Q , , ) che abbraccia la sfera del consenso e dell’egemonia. In questa accezione la direzione deve esercitarsi nello Stato – «“Stato” significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali» (Q , , ) – e nel partito – «posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione» (Q , , ). G. sviluppa storicamente il concetto di direzione politica in Q ,  (un Testo C frutto dell’accorpamento di alcune note del Q ), analizzandone i nessi con la mera «direzione militare». La nota ha per titolo Direzione politico-militare del moto nazionale italiano e si apre con questa precisazione: «per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico [...] deve intendersi invece in senso molto più largo e più aderente alla direzione politica vera e propria» (ivi, ). Questo perché le guerre risorgimentali non potevano essere combattute solamente dal punto di vista militare, «il problema militare era questo: come riuscire a mobilitare una forza insurrezionale che fosse in grado di espellere dalla penisola l’esercito austriaco non solo, ma anche di impedire che esso potesse ritornare con una controffensiva» (ivi, -). «La direzione militare – quindi – era una quistione più vasta della direzione dell’esercito e della determinazione del piano strategico che l’esercito doveva eseguire; essa comprendeva in più la mobilitazione politico-insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del nemico» (ivi, ). La direzione politico-militare del moto avrebbe dovuto avere nella

«politica popolare» il suo fulcro; al contrario, questa «non fu fatta neanche dopo il » (ibid.). G. conclude con un giudizio severo sulla «politica della destra nel », che «ritardò l’unificazione della penisola di alcuni decenni» (ibid.). Questi giudizi sui moti risorgimentali si inseriscono all’interno di un ragionamento più generale sulle forme moderne del conflitto che in G. esprime la particolarità della direzione politica come egemonia: «la quistione diventa ancora più complessa e difficile nelle guerre di posizione, fatte da masse enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un’abilissima direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei sentimenti più profondi delle masse umane, ne impedisce la disgregazione e lo sfacelo» (ivi, ). Un’accurata direzione politica è quindi indispensabile nei moderni conflitti che si svolgono come “guerre di posizione”, in quella soglia che G. descrive come il «Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico» (Q , , ), in cui «è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia» (ivi, ). Ma «direzione» non ha sempre avuto come sua caratteristica principale questo timbro vicino a «egemonia»: G. accenna infatti ad altri due tipi di direzione che si sono storicamente realizzati e che sembrano richiamare le diverse forme weberiane di legittimità del potere. Innanzitutto «la direzione charismatica», che «porta in sé un dinamismo politico vigorosissimo» (Q , , -) e che permette di rispondere in modo affermativo alla domanda se «nel passato esisteva o no l’uomo-collettivo»: esso «esisteva sotto forma della direzione carismatica» (Q , , ). Vi è poi «un tipo di direzione castale e sacerdotale» che fa riferimento alla «concezione del centralismo organico», nel quale «l’elemento costitutivo di un organismo è posto in un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato» (Q , , ). Ma entrambe queste forme di direzione sono destinate a svolgere un ruolo sempre minore, alla luce del mutamento introdotto nelle forme del conflitto.

DIRIGENTI - DIRETTI

Per la «direzione carismatica» in special modo G. scrive: «se il capo è di origine “charismatica”, deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità» (Q , , ). La direzione diventa un attributo fondamentale della «classe “per sé”» (Q , , ) e G. si pone il problema della sua presenza nella politica dei gruppi subalterni in una nota dal titolo Spontaneità e direzione consapevole. Posto che «non esiste nella storia la “pura” spontaneità», G. rileva come «nel movimento “più spontaneo” gli elementi di “direzione consapevole” sono semplicemente incontrollabili, non hanno lasciato documento accertabile. Si può dire che l’elemento della spontaneità è perciò caratteristico della “storia delle classi subalterne”» (ibid.). «Esiste dunque una “molteplicità” di elementi di “direzione consapevole” in questi movimenti, ma nessuno di essi è predominante» (ibid.), per cui una politica per le classi subalterne deve essere in grado di far coesistere, secondo G., un certo grado di spontaneità con elementi di «direzione consapevole», così da riferirsi a «uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici» (ivi, ), e dare allo stesso tempo una «direzione non [...] “astratta”». «Questa unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della “disciplina” è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa». Esempio storico di questa virtuosa unità fu «il movimento torinese» dell’occupazione delle fabbriche durante il “biennio rosso”, nel quale «questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna» (ibid.). MICHELE FILIPPINI V. «capo carismatico», «centralismo», «consenso», «dirigenti-diretti», «dominio», «egemonia», «guerra di posizione», «Ordine Nuovo (L’)», «Risorgimento», «spontaneità», «subalterno, subalterni», «Stato».



dirigenti-diretti La riflessione di G. sul problema del rapporto tra dirigenti e diretti si articola in almeno tre fasi distinte, corrispondenti ad altrettante tappe dello sviluppo dell’analisi dei Q su una serie di questioni correlate di carattere storico-politico. In un primo momento, nell’ambito di un approfondimento (auto)critico delle ragioni della sconfitta della propria parte, oltre che personale, G. concentra la sua attenzione sul problema del Distacco tra dirigenti e diretti, come recita il titolo di Q , . Questo fenomeno «assume aspetti diversi a seconda delle circostanze e delle condizioni generali. Diffidenza reciproca: il dirigente dubita che il “diretto” lo inganni, esagerando i dati positivi e favorevoli all’azione e perciò nei suoi calcoli deve tener conto di questa incognita che complica l’equazione. Il “diretto” dubita dell’energia e dello spirito di risolutezza del dirigente e perciò è tratto anche inconsciamente a esagerare i dati positivi e a nascondere o sminuire i dati negativi. C’è un inganno reciproco, origine di nuove esitazioni, di diffidenze, di quistioni personali ecc. Quando ciò avviene, significa che: ) c’è crisi di comando; ) l’organizzazione, il blocco sociale del gruppo in parola, non ha ancora avuto il tempo di saldarsi, creando l’affiatamento reciproco, la reciproca lealtà; ) ma c’è un terzo elemento: l’incapacità del “diretto” a svolgere il suo compito che significa poi incapacità del “dirigente” a scegliere, a controllare, a dirigere il suo personale» (ivi, ). Gli «esempi pratici» sono riferiti come in molte altre circostanze analoghe alle vicende storiche della Rivoluzione francese e, soprattutto, del Risorgimento italiano, ma non è impossibile cogliere un’eco delle discussioni tenute da G. nello stesso periodo (autunno ) con i compagni del carcere, in cui denunciava l’involuzione burocratica della direzione del movimento comunista internazionale, a partire dalla sua centrale sovietica. In una nota coeva (Q , , -) G. inserisce peraltro il problema nell’ambito della questione più generale del distacco tra intellettuali e popolo, che ha caratterizzato e caratterizza innanzitutto la vita politica italiana:



DIRIGENTI - DIRETTI

«l’elemento popolare “sente”, ma non comprende né sa; l’elemento intellettuale “sa” ma non comprende e specialmente non sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra [...] L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa esser tale se distinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole [e giustificandole] nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione del mondo, scientificamente elaborata, il “sapere”. Se l’intellettuale non comprende e non sente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramente burocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo organico): se il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il “blocco storico”». Nel Testo C di Q , , , oltre ad alcune varianti di carattere formale, l’espressione «centralismo organico» è preceduta da «così detto» poiché, contrariamente a quanto accaduto in precedenza, G. non lo identifica più con la concezione bordighiana della direzione del partito, per la quale preferisce impiegare la formula «centralismo burocratico», bensì con la propria, altrove definita come «centralismo democratico»: come affermato esplicitamente in Q , , -, per quello che Bordiga intendeva come centralismo organico «il nome più esatto è quello di centralismo burocratico: l’organicità non può essere che del centralismo democratico, il quale appunto è un “centralismo in movimento”, per così dire, cioè una continua adeguazione dell’or-

ganizzazione al movimento storico reale ed è organico appunto perché tiene conto [...] di qualcosa di relativamente stabile e permanente o per lo meno che si muove in una direzione facile a prevedersi» e che, da un punto di vista generale, «si incarna nello sviluppo organico del gruppo sociale egemone», ma in particolare «nei partiti rappresentanti gruppi socialmente subalterni [...] rappresenta la necessità organica di assicurare l’egemonia non a gruppi privilegiati: ma alle forze sociali progressive» e questo «richiede una organica unità [...] tra strati intellettuali e massa, tra governanti e governati». Nel frattempo si può dire che la riflessione gramsciana della questione sia passata dal momento critico a quello ri-costruttivo, consistente innanzitutto nell’istituire un nesso esplicito tra «Egemonia e democrazia. Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente» (Q , , ). Oltre che ai movimenti e alle organizzazioni statuali di tipo collettivistico, il ragionamento si può applicare anche alle società capitalistiche avanzate, per le quali, con linguaggio crociano, si può dire che «la combinazione in cui l’elemento egemonico etico-politico si presenta nella vita statale e nazionale è il “patriottismo” e il “nazionalismo” che è la “religione popolare”, cioè il nesso per cui si verifica l’unità tra dirigenti e diretti» (Q , , ). Tale nesso non appare tuttavia mai automatico, ma va costruito in modo attivo da parte dei gruppi dirigenti (o che aspirano a diventare tali), i quali devono istituire con le masse un rapporto che G. definisce «pedagogico», intendendo con questo termine non solo i «rapporti specificatamente “scolastici”, per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari “maturando” e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la so-

DIRIGENTI - DIRETTI

cietà nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di “egemonia” è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali» (Q  II, , -): è qui evidente un riferimento al movimento comunista internazionale e alla sua direzione moscovita. Un’ulteriore fase della riflessione di G. sulla questione tende a problematizzarla nuovamente: muovendo dal dato di fatto innegabile «che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo più precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d’altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l’obbedienza dei diretti o governati. Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose così come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo “tecnica”, necessità “tecnica” ecc. per non proporsi il problema fondamentale» (Q , , ). Queste ultime affermazioni paiono correggere alcune note precedenti in cui G. riprendeva acriticamente la celebre e suggestiva – ma mai approfondita teoricamente – metafora marxiana del direttore d’orchestra co-



me modello di dirigente nella futura società senza classi e quindi in quello che egli identifica come una sorta di suo precorrimento, il partito politico, in cui è già avvenuto «il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà» (Q , ,  e passim): «se non c’è differenza di classe la quistione diventa puramente tecnica – l’orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico – di divisione del lavoro e di educazione» (Q , , ). Questo modello viene riproposto ancora in Q , , -, in contrapposizione al «comandare proprio del caporalismo. L’attendere passivamente gli ordini. Nell’obbedienza c’è un elemento di comando e nel comando un elemento di obbedienza (autocomando e autoobbedienza) [...] Si obbedisce in questo senso, volentieri, cioè liberamente, quando si comprende che si tratta di forza maggiore: ma perché si sia convinti della forza maggiore occorre che esista collaborazione effettiva quando la forza maggiore non esiste. Comandare per comandare è il caporalismo». Ancora una volta il modello alternativo era rappresentato dal «comando del direttore d’orchestra: accordo preventivo raggiunto, collaborazione, il comando è una funzione distinta, non gerarchicamente imposta». In realtà, come sostiene G. nel seguito della già citata nota di Q , , , «dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre fissare alcuni principii inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli “errori” più gravi, che cioè si manifestano le incapacità più criminali, ma più difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio dallo stesso gruppo, l’obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di “necessità” e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa e, ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l’obbedienza “verrà” senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Così è difficile estirpare dai dirigenti il “cadornismo”, cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, “la colpa” viene riversata su chi “avrebbe dovuto” ecc. Così è difficile estirpare la abitudine criminale di tra-

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DIRIGENTI - DIRETTI

scurare di evitare i sacrifizi inutili [...] per cui sempre, dopo ogni rovescio, occorre prima di tutto ricercare le responsabilità dei dirigenti [...] Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione». Queste considerazioni inducono G. ad approfondire ulteriormente l’analisi del partito come «moderno Principe» di Machiavelli, a partire da una nota di poco successiva, Q , , -: «la verità teorica che ogni classe ha un solo partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che aggruppamenti varii, ognuno dei quali si presentava come partito “indipendente”, si riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità esistente prima era solo di carattere “riformistico”, cioè riguardava questioni parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico (utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l’altra, tanto che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le quistioni principali sono state messe in gioco, l’unità si è formata, il blocco si è verificato. Da ciò la conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un carattere “monolitico” e non su quistioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro “vero partito” le masse rimangono in tronco, inerti e senza efficacia». Rimane indiscusso in ogni caso il carattere tutt’altro che necessario e meccanico del legame tra dirigenti e diretti, che non è assicurato dalla semplice omogeneità di classe ma richiede la volontà fattiva delle élite economico-politiche di divenire dirigenti, oltre che dominanti, vale a dire egemoni nel senso più pieno del termine: lo si comprende dalle osservazioni del Q , , -, dedicate esplicitamente alle vicende risorgimentali (dalle quali peraltro aveva preso le mosse la riflessione gramsciana sull’intera questione), ma che possono essere interpretate in senso più generale dal momento che «la funzione del Piemonte nel Risorgimento italiano è quella di una “classe dirigente”. In realtà non si tratta del fatto che in tutto il territorio della penisola esistessero nuclei di

classe dirigente omogenea la cui irresistibile tendenza a unificarsi abbia determinato la formazione del nuovo Stato nazionale italiano. Questi nuclei esistevano, indubbiamente, ma la loro tendenza a unirsi era molto problematica, e ciò che più conta, essi, ognuno nel suo ambito, non erano “dirigenti”. Il dirigente presuppone il “diretto”, e chi era diretto da questi nuclei? Questi nuclei non volevano “dirigere” nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi ed aspirazioni di altri gruppi. Volevano “dominare” non “dirigere”, e ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse l’arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte e quindi la funzione della monarchia. Il Piemonte ebbe pertanto una funzione che può, per certi aspetti, essere paragonata a quella del partito, cioè del personale dirigente di un gruppo sociale (e si parlò sempre infatti di “partito piemontese”); con la determinazione che si trattava di uno Stato, con un esercito, una diplomazia ecc. Questo fatto è della massima importanza per il concetto di “rivoluzione passiva”: che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato come potenza, sia il “dirigente” del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politico-diplomatica [...] È uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di “dirigenza” in questi gruppi: dittatura senza egemonia. L’egemonia sarà di una parte del gruppo sociale sull’intiero gruppo, non di questo su altre forze per potenziare il movimento, radicalizzarlo ecc. sul modello “giacobino”». BIBLIOGRAFIA: COSPITO ; DE FELICE ; MANGONI ; PAGGI ; VACCA ; VOZA . GIUSEPPE COSPITO V. «Bordiga», «caporalismo», «centralismo», «democrazia», «direzione», «egemonia», «governati-governanti», «intellettuali», «intellettuali italiani», «moderno Principe», «Piemonte», «rappresentati-rappresentanti», «Risorgimento», «rivoluzione passiva».

DIRITTO



diritti e doveri

diritto

Per G. «l’ordine sociale» è l’«insieme dei diritti e doveri» (Q , , -; v. anche Q , , : l’insegnamento nella scuola elementare di diritti e doveri è l’insegnamento delle «prime nozioni sullo Stato e la società»). I due momenti sono reciproci e la loro reciprocità è ciò che costituisce il fondamento dello Stato moderno come Stato di diritto. Tale modello appartiene al progetto storico della borghesia: «la rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato)» (Q , , ). Non trova però dovunque una realizzazione adeguata. Così, «un’opinione diffusa è questa: che mentre per i cittadini l’osservanza delle leggi è un obbligo giuridico, per lo “Stato” l’osservanza è solo un obbligo morale, cioè un obbligo senza sanzioni punitive per l’evasione [...] non si finisce mai di constatare quanta gente crede di non avere obblighi “giuridici” e di godere dell’immunità e dell’impunità. Questo “stato d’animo” è legato a un costume o ha creato un costume? L’una cosa e l’altra sono vere. Cioè lo Stato, in quanto legge scritta permanente, non è stato mai concepito (e fatto concepire) come un obbligo oggettivo e universale. Questo modo di pensare è legato alla curiosa concezione del “dovere civico” indipendente dai “diritti”, come se esistessero doveri senza diritti e viceversa: questa concezione è legata appunto all’altra della non obbligatorietà giuridica delle leggi per lo Stato, cioè per i funzionari e agenti statali i quali pare abbiano troppo da fare per obbligare gli altri perché rimanga loro tempo di obbligare se stessi» (Q , , ). Un esempio di diritti senza doveri è l’identificazione di “prerogativa” e “privilegio”: «la prerogativa non può non essere “strettamente” legata alla funzione sociale e all’esplicazione di determinati doveri. Perciò è da vedere se i “privilegi” non sono che “prerogative” degenerate, cioè involucri senza contenuto sociale e funzionale» (Q , , ).

La riflessione gramsciana sul diritto comprende due aspetti distinti, che contengono però una sostanziale continuità di giudizio: da una parte vi è l’attenzione all’«ordinamento giuridico» (Q , , ) nel suo significato “sociologico”, interrogabile come «“problema giuridico”» (Q , , ) alla luce della «funzione del diritto nello Stato e nella società» (ibid.); dall’altra una ricostruzione storica delle forme che il diritto ha assunto dal Medioevo fino al «“costituzionalismo”» (Q , , ). La ricostruzione storica delle forme del diritto prende avvio già dal Q , in una lunga nota intitolata Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell’alto Medioevo (Q , , -), nella quale G., prendendo spunto da un articolo di Francesco Brandileone, I “due diritti” e il loro odierno insegnamento in Italia, ricostruisce la «caduta del diritto romano dopo le invasioni barbariche» e la «sua riduzione a diritto personale e consuetudinario» (ivi, ), contestuale all’«emersione del diritto canonico che da diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale» (ibid.). Il diritto romano ritrova una sua centralità solamente «dopo il mille» (ivi, ), ma non come fonte primaria dell’ordinamento, «perché il diritto romano “puro” non può dare assetto ai nuovi complessi rapporti» (Q , , ), ma piuttosto come matrice fissa di giurisprudenza, «come codice ossificato e permanente» (Q , , ). Il diritto romano viene quindi trasformato «da un “metodo” a un “codice”» (ibid.): la «codificazione bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con l’affiorare di un gruppo sociale che vuole una “legislazione” permanente, superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel “costituzionalismo”)» (ibid.). Entra così nelle riflessioni gramsciane sul diritto il soggetto storico borghese con le sue necessità giuridiche, che «solo in un quadro permanente di “concordia discorde”, di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell’arbitrio individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica» (ibid.). Questo emergente gruppo sociale riprende quindi il diritto romano, svuotando-

FABIO FROSINI V. «conformismo», «Stato».

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DIRITTO NATURALE

lo però di ogni suo principio, ma mantenendo quella casistica che permette di regolare i nuovi rapporti di scambio: «attraverso la casistica dei glossatori e dei post-glossatori si formano delle giurisprudenze locali, in cui ha ragione il più forte (o il nobile o il borghese) e che è l’“unico diritto” esistente: i principi del diritto romano vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c’era nulla, altro che il principio puro e semplice di proprietà» (Q , , ). Il diritto moderno è quindi garante della forza di classe che si esprime nel principio di proprietà, ma è anche, e qui si inizia a scoprire la seconda faccia della riflessione gramsciana, lo strumento con il quale questa classe ricerca la «conformazione» e l’«educazione» (Q , , ) dell’intera società. Per G., infatti, «la rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato)» (Q , , ): «attraverso il “diritto” lo Stato rende “omogeneo” il gruppo dominante e tende a creare un conformismo sociale che sia utile alla linea di sviluppo del gruppo dirigente» (Q , , ). Il diritto così inteso deve però estendere la sua valenza concettuale, «comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di “indifferente giuridico” e che sono di dominio della società civile che opera senza “sanzioni” e senza “obbligazioni” tassative» (Q , , ). La funzione del diritto diventa allora quella «di presupporre che tutti i cittadini devono accettare liberamente il conformismo segnato dal diritto, in quanto tutti possono diventare elementi della classe dirigente» (Q , , ). Questa «utopia democratica del secolo XVIII» (ibid.) si infrange quando avviene «un arresto e si ritorn[a, ndr] alla concezione dello Stato come pura forza [...] La classe borghese [...] non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa» (Q , , ). L’utopia si rivela come tale nell’incapacità della classe borghese di assimilare a sé tutta la società, e

G. ne esplicita chiaramente il motivo: «in questa seconda fase, pur affermando che il conformismo deve essere libero e spontaneo, si tratta di ben altro: si tratta di reprimere e soffocare un diritto nascente e non di conformare» (Q , , ). Il diritto è infatti sempre il frutto di un conflitto e «ha domandato sempre una lotta per affermarsi» (ibid.). Il diritto nascente che deve essere soffocato è evidentemente quello espresso dalla classe avversaria, in grado, essa sì, di «assimilare tutta la società [...] tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile» (Q , , ). Il percorso verso questo esito deve però fare i conti con «l’argomento [...] più generale della diversa posizione che hanno avuto le classi subalterne prima di diventare dominanti. Certe classi subalterne devono avere un lungo periodo di intervento giuridico rigoroso e poi attenuato, a differenza di altre» (Q , , -). Il «“problema giuridico”, cioè il problema di assimilare alla frazione più avanzata del raggruppamento tutto il raggruppamento» (Q , , ), è il problema con cui G. si confronta in carcere, proprio «dal punto di vista del centro organizzativo di un raggruppamento» (ivi, -). Abbiamo solamente un’indicazione preliminare che G. si sente di raccomandare in questo caso, e che richiama direttamente le prime riflessioni svolte: «la continuità “giuridica” del centro organizzativo non deve essere di tipo bizantino-napoleonico, cioè secondo un codice concepito come perpetuo, ma romano-anglosassone, cioè la cui caratteristica essenziale consiste nel metodo, realistico, sempre aderente alla concreta vita in perpetuo sviluppo» (ivi, ). MICHELE FILIPPINI V. «conformismo», «educazione», «società civile», «Stato», «Stato etico».

diritto naturale Già all’inizio dei Q (, , ) G. lega la teoria del diritto naturale al cattolicesimo e ricorda che, per «la dottrina della Chiesa

DISCIPLINA

Cattolica [...], la proprietà privata, specialmente quella “fondiaria”, è un “diritto naturale”». Poco dopo egli scrive che «gli attuali polemisti contro il diritto naturale si guardano bene dal ricordare che esso è parte integrante del cattolicismo e della sua dottrina» (Q , , ). Nel rispettivo Testo C si ribadisce che «il concetto di “diritto naturale” [è, ndr] essenziale ed integrante della dottrina sociale e politica cattolica» (Q , , ). G. sostiene perfino che l’affermazione del diritto naturale da parte di molti teorici e protagonisti della Rivoluzione francese rivela «lo stretto rapporto che esiste tra la religione cattolica, così come è stata intesa sempre dalle grandi masse e gli “immortali principii dell’” [...] Per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta» (ibid.). Questi «principii superiori» sono evidentemente quelli formulati dalla filosofia della prassi. In un Testo B (Q , , ) G. definisce il ruolo storico del diritto naturale: si tratta di «un elemento della storia», che «indica un “senso comune politico e sociale” e come tale è un “fermento” di operosità», ossia un’ideologia in senso gramsciano. Questa concezione del diritto naturale riappare nel Testo C già citato (Q , , -), intitolato «Diritto naturale» e folclore. Qui G. torna a riconoscere all’ideologia del diritto naturale una dimensione laica: «Diventano “diritto naturale”, per contaminazioni le più svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermati dallo “storicismo”. Esiste dunque una massa di opinioni “giuridiche” popolari, che assumono la forma del “diritto naturale” e sono il “folclore” giuridico”» (ivi, ). CARLOS NELSON COUTINHO V. «Chiesa cattolica», «filosofia della praxis», «folclore, folklore», «ideologia», «religione», «Rivoluzione francese», «senso comune», «storicismo».

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disciplina Una delle prime, se non la prima occorrenza del lemma “disciplina” negli scritti gramsciani è rintracciabile in un articolo del  gennaio  intitolato Socialismo e cultura, pubblicato sul “Grido del Popolo”, nel quale G. polemizzava contro i sostenitori della cultura come fatto enciclopedico, sostenendo che essa «è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri»; e, qualche riga dopo, ricordando che per il socialismo la cultura si fonda sulla critica della società capitalista, la quale critica, a sua volta, ha origine da una conoscenza assoluta che l’individuo deve possedere delle proprie capacità, aggiunge: «Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale» (CT -). Il riferimento alla disciplina interiore come fatto obbligatoriamente basilare nel processo di costruzione della volontà collettiva è riproposto in una nota carceraria in cui si legge: «La collettività deve essere intesa come prodotto di una elaborazione di volontà e pensiero collettivo raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto, e non per un processo estraneo ai singoli: quindi obbligo della disciplina interiore e non solo di quella esterna e meccanica» (Q , , ). Trasferendo il discorso dal terreno etico a quello più propriamente politico G., nelle vesti di compilatore del numero unico della rivista “La Città Futura”, pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese l’ febbraio , ricorda che un giovane che si iscriva al movimento giovanile socialista compie un atto di indipendenza e liberazione: «Disciplina è rendersi indipendenti e liberi. Chi non segue una disciplina politica è [...] materia allo stato gassoso, o materia bruttata da elementi estranei: pertanto inutile e dannosa. La disciplina politica fa precipita-

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DISCIPLINA

re queste lordure, e dà allo spirito il suo metallo migliore, alla vita uno scopo, senza del quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta» (Disciplina e libertà, in CF ). In un altro articolo, intitolato La disciplina, contenuto nello stesso numero unico, G. precisa meglio cosa intenda con l’espressione “disciplina politica”. La sua argomentazione si sviluppa a partire dalla comparazione fra disciplina borghese e disciplina socialista: la prima è «meccanica ed autoritaria», la seconda è «autonoma e spontanea» (CF -). Chi accetta la disciplina socialista vuol dire o che è già socialista oppure che vuole diventarlo. In un caso come nell’altro non si ubbidisce, così come richiesto dalla disciplina borghese, ma si comanda a se stessi, si impone a se stessi una regola di vita alla quale non si può mai venir meno. Infatti il carattere delle discipline autonome consiste nel fatto che esse stesse sono la vita e il pensiero di chi le mette in pratica: «La disciplina che lo stato borghese impone ai cittadini fa di questi dei sudditi, che si illudono di influire sullo svolgersi degli avvenimenti. La disciplina del partito socialista fa del suddito un cittadino: cittadino ora ribelle, perché avendo acquistato coscienza della sua personalità, sente che questa è impastoiata e non può liberamente affermarsi nel mondo» (ibid.). Il  marzo  dalle colonne dell’“Ordine Nuovo”, in un articolo ancora intitolato Disciplina, G. invita la Confederazione generale del lavoro, o meglio «i socialisti che sono alla direzione confederale in nome e per conto del Partito socialista», in quanto «Stato degli operai in regime borghese», a seguire la disciplina del Partito socialista. Il movimento sindacale deve essere «strettamente disciplinato» e questa disciplina sindacale «sottintende programma d’azione, sottintende una concezione generale del momento che si attraversa, sottintende una previsione dello svolgersi dei fatti» (SF -). Il tema della disciplina nella vita interna del PCD’I è il cuore della risposta che G., dalle pagine dell’“Unità”, fornisce a Bordiga in un articolo del  luglio del  (G. era segretario del partito da un anno). Bordiga aveva scritto una lettera al Comitato esecuti-

vo giustificando la sua mancata partecipazione agli organi centrali del partito come un atto di disciplina con quanto deliberato dal V Congresso dell’Internazionale. «Specioso formalismo», definisce G. la disciplina cui si richiamava Bordiga, il quale dimenticava che proprio la commissione italiana all’interno del V Congresso non aveva posto alcuna questione di disciplina sulla partecipazione di Bordiga agli organi centrali del partito. Quindi la giustificazione di Bordiga in realtà metteva in ulteriore evidenza «la sua opera frazionistica. Egli dimostra con ciò che altre concessioni non devono più farsi al suo atteggiamento» (Disciplina formale e disciplina rivoluzionaria, in CPC -). Ancora, alla disciplina e all’unità del partito dell’URSS G. si richiama nella parte conclusiva della lettera da lui scritta nell’ottobre del  per conto dell’Ufficio politico del partito italiano al Comitato centrale del Partito comunista sovietico: «Solo una ferma unità e una ferma disciplina nel partito che governa lo Stato operaio può assicurare l’egemonia proletaria in regime di Nuova politica economica [...] Ma l’unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato o assediato che pensa all’evasione e alla sortita di sorpresa» (CPC ). Il tema della disciplina interna del partito viene riproposto da G. in una nota dei Q in cui si sottolinea come la capacità di direzione politica di un partito dipenda «dallo svolgersi della vita interna» (Q , , ) del partito stesso. Se lo Stato con il suo apparato giuridico rappresenta la forza coercitiva, il partito, in quanto rappresentativo di un’adesione spontanea a tale apparato considerato «come tipo di convivenza collettiva a cui tutta la massa deve essere educata» (ivi, ), deve mostrare di aver assimilato nella sua vita interna «come principi di condotta morale quelle regole che nello Stato sono obbligazioni legali» (ibid.). Essendo, nel partito politico, la necessità già divenuta libertà, «da ciò nasce il grandissimo valore politico (cioè di direzione politica) della disciplina interna di un partito, e quindi il valore di criterio di tal disciplina per valutare

DISCIPLINA

la forza di espansività dei diversi partiti» (ibid.). D’altronde, ricorda G., uno degli elementi su cui si fonda un partito politico è, insieme alla fedeltà, la disciplina di «uomini comuni, medi» (Q , , ), i quali a loro volta, per raggiungere un alto livello di organizzazione, sono disciplinati da un elemento coesivo principale «che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più» (ibid.). Negli scritti carcerari la disciplina trova un suo ulteriore ambito di sviluppo in rapporto con la libertà. Meglio ancora, afferma G., «al concetto di libertà si dovrebbe accompagnare quello di responsabilità che genera la disciplina» (Q , , ) la quale, in questa accezione, non va intesa come un qualcosa di imposto dall’esterno, come una limitazione della libertà. D’altronde la responsabilità si contrappone all’arbitrio individuale per cui, in questo modo, la libertà è responsabile e universale; si configura «come aspetto individuale di una “libertà” collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge» (ibid.). Questa libertà collettiva, per la quale la responsabilità che genera la disciplina è fondamentale, richiama molto da presso il concetto di volontà collettiva come disciplinata realizzazione del «rapporto continuato e permanente tra governanti e governati» (Q , , ). In questa ottica chi è governato non si limita a una pedissequa accettazione ed esecuzione di ordini «(ciò che però sarà pure necessario in determinate occasioni, come per esempio nel mezzo di un’azione già decisa e iniziata)» (ibid.), ma assimila la direttiva da realizzare con consapevolezza e lucidità. Così la disciplina non si presenta come annullamento della personalità ma come limitazione dell’arbitrio e di quell’impulsività che è conseguenza diretta dell’irresponsabilità, «per non parlare della fatua vanità di emergere» (ibid.). Come esempio G. propone il concetto di predestinazione, la quale non annulla il libero arbitrio nel cattolicesimo in quanto l’individuo accetta “volente” la volontà di Dio, alla quale, «è vero, non potrebbe contrastare, ma a cui collabora o me-

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no con tutte le sue forze morali» (ibid.). Pertanto la disciplina non annulla la personalità e la libertà, le quali si pongono non in rapporto alla disciplina bensì in rapporto al potere che implica tale disciplina. Secondo G., se questa origine è democratica, ossia «se [...] l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un “arbitrio” o una imposizione estrinseca ed esteriore» (ivi, ), allora la disciplina si pone necessariamente come un elemento indispensabile della democrazia e, quindi, della libertà. G. precisa che «funzione tecnica specializzata sarà da dire quando l’autorità si esercita in un gruppo omogeneo socialmente (o nazionalmente)» (ibid.); nel caso in cui l’autorità sia esercitata da un gruppo su un altro, «la disciplina sarà autonoma e libera per il primo, ma non per il secondo» (ibid.). Nella parte finale della nota G. esplica quanto aveva sostenuto collocandolo fra parentesi, all’inizio della nota stessa, a proposito della necessità, in determinate circostanze, «come per esempio nel mezzo di un’azione già decisa e iniziata» (ivi, ), che una consegna o un ordine siano eseguiti in modo meccanico. Quando un’azione è già decisa e iniziata e non esiste la possibilità di rimettere in discussione la decisione, allora «la disciplina può anche apparire estrinseca e autoritaria» (ivi, ); ma in questo caso ci sono elementi che giustificano l’applicazione della disciplina. Per esemplificare, può essere molto meno dannosa una decisione parzialmente sbagliata invece di una disubbidienza che, seppure giustificata da ragioni generali, può produrre effetti catastrofici in quanto «ai danni parziali dell’indirizzo parzialmente sbagliato si cumulano gli altri danni della disubbidienza e del duplicarsi degli indirizzi» (ibid.). «Un tipo di disciplina per la formazione intellettuale» (Q , , ) che potrebbe essere attuato in campi molto diversi è quello universitario. Citando un testo del cardinale Newman, ricavato da un articolo pubblicato sui numeri  e  di “Gerarchia” del , G. sottolinea che la disciplina universitaria è costituita da un metodo finalizzato alla formazione dell’intelletto, ossia alla costruzione di un sistema nel quale ogni



DISGREGATO , DISGREGAZIONE

nuova conoscenza viene ricondotta a quelle già possedute per «aggiustarle insieme» (ivi, ); inoltre la disciplina universitaria conduce all’accettazione e all’uso di certi principi «come centro di pensiero» (ibid.). Tutto ciò, preso nel suo insieme, costituisce la facoltà critica la quale, fortemente innervata di disciplina, consente di studiare il passato come «elemento del presente e del futuro» (Q , , ) e non come qualcosa di ozioso; proprio la disciplina con cui si affronta lo studio del passato consente di pervenire alla conclusione che esso è necessario, è «elemento di “uniformità” necessaria» (ibid.). Il tema della disciplina è centrale nelle questioni legate all’educazione dei giovani, in particolare quelli cui G. è affettivamente più legato. Il  luglio del , scrivendo alla madre, che gli aveva fatto pervenire dal fratello Gennaro due foto, G. notava come Mea, ossia proprio la figlia di Gennaro, non mostrasse un particolare sviluppo intellettuale per la sua età, mettendo in evidenza una scarsa vita interiore e ambizioni finalizzate esclusivamente a «belle figure apparenti». A G. sembra che ciò sia il frutto di un’educazione priva di disciplina e piena di vizi e aggiunge: «È vero che anch’io o Nannaro o gli altri, non siamo stati costretti a disciplinarci, ma l’abbiamo fatto da noi stessi» (LC ), il che vuol dire attraverso quella disciplina interiore di cui G. scriveva nel  (v. Socialismo e cultura,  gennaio , in CT -). Ancora: «Io ricordo che all’età di Mea sarei morto di vergogna se avessi fatto tanti errori di ortografia; ti ricordi quanto leggevo fino a tarda ora e a quanti sotterfugi ricorrevo per procurarmi dei libri». Invece a G. pare che la nipote abbia letto soltanto libri di scuola, mentre bisognerebbe «abituarla a lavorare con disciplina e restringere un po’ la sua vita “mondana”: meno successi di vanità e più serietà di sostanza» (LC -, alla madre,  luglio ). Anche nei confronti dei figli il richiamo di G. alla disciplina, intesa come un fatto di autoresponsabilità e di educazione del proprio io interiore, è spesso esplicito. Ad esempio, scrivendo a Giuliano, il quale manifestava dubbi circa la sua possibilità di pervenire a quei risultati, nella scuola e nella vita, che il padre attendeva da lui, G. lo invitava ad au-

todisciplinarsi (LC , s.d.) assumendosi la totale responsabilità delle proprie azioni. B IBLIOGRAFIA : B ODEI ; B URGIO ; MANACORDA ; NATTA  e ; TORTORELLA . LELIO LA PORTA V. «Bordiga», «educazione», «partito», «Partito comunista», «personalità», «volontà collettiva».

disgregato, disgregazione «Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale»: così si esprimeva nel  il G. di Alcuni temi della quistione meridionale (in CPC ). Nei Q il termine ha, rare volte, valenza non patologica quando si riferisce al «processo dialettico per cui la spinta molecolare progressiva porta a un risultato tendenzialmente catastrofico nell’insieme sociale, risultato da cui partono altre spinte singole progressive in un processo di continuo superamento che [...] si disgrega in un numero molto grande di fasi intermedie» (Q  II, , ). Allora, «una vecchia concezione si disgrega e un’altra nasce», ma la vecchia «tenta di mantenersi coercitivamente» (Q , , ; v. anche , , ). Ha significato regressivo, invece, nel riferirsi alla «prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell’unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova» (Q , , ). Anche il cosmopolitismo della Chiesa era «elemento di disgregazione» (Q , , ). Atti «perturbatori e disgregatori» erano nella «politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia» (Q , , ). Per contro, «i diversi ordini religiosi rappresentano la reazione della chiesa [...] contro la disgregazione» della stessa (Q , , ). Anche «le Chiese protestanti tendono a frenare il movimento disgregatore nelle loro file» per il formarsi di nuove sette (Q , , ). La funzione «cosmopolita dei suoi intellettuali [...] è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane» l’Italia. Diversa dalla cultura francese, «quella italiana [...] non refluisce sulla base nazionale» (Q , , ). Dunque, «una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di “spiriti eletti”» non aderenti alla «nazione-popolo» (Q , , ), perché non toccavano «l’attività prati-

DISGREGATO , DISGREGAZIONE

ca effettiva, la quale viceversa era disgregata» (Q , , ). Anche l’idealismo crociano «non ha toccato masse notevoli e si è disgregato alla prima controoffensiva» (Q , , ), dopo aver avversato l’espandersi del marxismo, che a sua volta era «penetrato nella concezione del mondo tradizionale, disgregandola» (Q  II, , ). «Croce ritorce contro il materialismo storico l’accusa di disgregazione del processo del reale che i Gentiliani hanno rivolto allo stesso Croce» (Q , ,  e Q  II, .I, ). L’oppressione straniera, in generale, è «inspiegabile senza lo stato di disgregazione sociale del popolo oppresso» (Q , , ). Il nazionalismo italiano è particolarmente significativo: invece di «aiutare la disgregazione dell’Impero austriaco, con la sua inerzia ottenne che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca» (Q , ,  e Q , , ). La destra cercò di «disgregare ideologicamente la democrazia» e in effetti il «Partito d’azione fu disgregato» (Q , ,  e Q , , ). Il connubio Cavour-Rattazzi – si chiede G. – fu «il primo passo della disgregazione democratica?» (Q , , ). Ma il liberalismo riuscì «a creare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia in se stesso)» (Q , , ). In seguito fu più difficile «ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra» (Q , , ). «La classe borghese è “saturata”: non solo non si diffonde, ma si disgrega» (Q , , ). «La vecchia volontà collettiva si disgrega» (Q , , ); per «la disgregazione parlamentare, i partiti» vengono meno al loro compito (Q , , ). «Lo Stato-governo [...] ha infatti operato come un “partito”, si è posto al disopra dei partiti [...] per disgregarli» (Q , , ); anche «i gruppi intellettuali sono disgregati» (Q , , ). G. opera distinzioni tra gli Stati europei e non solo europei. Come l’Italia, anche la Germania ha dato intellettuali «alla cosmopoli medioevale, depauperando le proprie



energie nazionali, che hanno mantenuto a lungo la disgregazione territoriale» (Q , , ). «Gli Stati moderni tendono al massimo di accentramento, mentre si sviluppano, per reazione, le tendenze federative e localistiche, sì che lo Stato oscilla tra il dispotismo centrale e la completa disgregazione» (Q , , ). In Francia i molti partiti «erano un segno di forza [...] o di disgregazione?». Ma quello «francese dal  al : era un meccanismo di selezione di personalità politiche capaci di dirigere, più che una disgregazione». «Il fenomeno di disgregazione interna nazionale (cioè di disgregazione dell’egemonia politica del terzo stato) era molto più avanzato nella Germania del  che nella Francia del » (Q , , -). Fattori di disgregazione per l’Impero britannico: «la potenza degli Stati Uniti [...] che esercitano un influsso su certi dominions, e i movimenti nazionali e nazionalistici» (Q , , ). Negli Stati Uniti tra i diversi gruppi nazionali vi è disgregazione (alla quale cercano sovrapporre una rete di organizzazioni guidate da loro, Q , , ), mentre gli industriali tendono a disgregare i sindacati operai (Q , , ). Anche in paesi industriali, per «il disgregarsi dei partiti medi, gli agrari» hanno «il sopravvento “parlamentare”» (Q , , ). L’uso più originale del termine è nel G. che tratta di dirigenti e subalterni o di cultura alta e/o popolare. I subalterni «non possono unificarsi finché non possono diventare “Stato”: la loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una funzione “disgregata” e discontinua della storia della società civile» (Q , , ; v. anche Q , ,  e Q , , ). Se una contraddizione dell’«intero corpo sociale» si riflette negli individui singoli, nei «gruppi subalterni, per l’assenza di autonomia nell’iniziativa storica, la disgregazione è più grave» (Q , , ). In essi il «senso comune non è una concezione unica» ma «disgregata» (Q , , ; v. anche Q , ,  e Q , , ). È un «“pensare” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale» (Q , , ). G. ritiene che la religione, pur non coincidendo con il senso comune, «sia un elemento del disgregato senso comune» (Q , , ). Ma il feno-

DISINTERESSE , DISINTERESSATO



meno non è irreversibile: se «ogni cultura ha il suo momento speculativo o religioso, che [...] coincide proprio col momento in cui l’egemonia reale si disgrega» (Q , , ; v. anche Q , , ), alcuni strati, la cui cultura è «disgregata e ingenua [...] sono tuttavia avanzatissimi praticamente, cioè come funzione economica e politica» (Q , , ). In essi «la disgregazione è più grave [ma] è più forte la lotta per liberarsi» (Q , , ); e poiché il politico realista sa che non è facile rifare l’unità dopo che si è disgregata (Q , , ), nelle guerre di posizione «solo con un’abilissima direzione politica [...] si impedisce la disgregazione e lo sfacelo» (Q , , ; v. anche Q , ,  e Q , , ), suscitando «una unità “culturale-sociale” per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine» (Q  II, , ). I termini «disgregato» e «disgregazione» possono essere parzialmente accostati all’uso gramsciano del termine «disorganico». Ma quest’ultimo, nell’ordine sociale o culturale, ha solitamente valore di metafora tratta dalle disfunzioni biologiche, per un impoverimento nella complessità delle dotazioni vitali, mentre la disgregazione allude quasi a un disfacimento più elementare o al ricadere in uno stato di non-vita. Negli ultimi anni della sua reclusione e della sua sofferenza, accennando al peggiorare delle proprie condizioni esistenziali, scrive ad esempio: «sento anche un disgregamento delle forze intellettuali in sé» (LC , a Tania,  febbraio ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «disorganico», «intellettuali italiani», «Mezzogiorno», «senso comune», «società civile», «subalterno, subalterni».

disinteresse, disinteressato In G. il lemma assume, in forma sostantivale o aggettivale, una sua peculiare e complessa significazione: non si tratta della rivendicazione di un’astratta neutralità o indifferenza alla ricerca né di quel compiacimento “disinteressato” che portava secondo Kant al giudizio di gusto, ma di un approc-

cio “scientifico”, libero e non vincolato al contingente. Una riflessione teorico-politica generale da affrontare «disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell’attualità» (Per un’associazione di coltura,  dicembre , in CF ), della tattica politica immediata, e protesa invece alla comprensione di «tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario» (ibid.), è appunto il proposito che il “prigioniero” G. tenterà di realizzare nella stesura dei Q. In una lettera del  marzo , consapevole della non breve durata della sua condizione carceraria, egli scrive a Tania: «Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa “für ewig” [...] vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi [...] di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore» (LC -). La lettera prosegue con la individuazione di quattro “soggetti” da studiare: a) una ricerca sullo spirito pubblico italiano; b) uno studio di linguistica comparata; c) uno studio sul teatro di Pirandello; d) un saggio sul romanzo d’appendice. Argomenti che, secondo G., devono essere affrontati «da un punto di vista “disinteressato”, “für ewig”» appunto (ivi, ). È interessante rilevare come G. avvicini e, anzi, renda quasi sinonimi, il concetto del «für ewig» – ripreso da Goethe – a quello di “disinteressato”: essi vengono accostati nella comune espressione di una funzione della riflessione e della scrittura non immediatistica, bensì “per l’eternità”, di uno studio cioè affrontato, sia pur nelle ristrettezze determinate dalla vita carceraria, con la radicalità necessaria per intendere il presente. I due concetti sembrerebbero convergere in un’altra lettera a Tania, del  dicembre , laddove G., riflettendo sul volume crociano Teoria e storia della storiografia, nota che esso «contiene, oltre che una sintesi dell’intero sistema filosofico crociano, anche una vera e propria revisione dello stesso sistema, e può dar luogo a lunghe meditazioni» (LC ). In queste «lunghe meditazioni» carcerarie si potrebbero rintracciare le stesse prerogative che sono alla base della ricerca disinteressata e «für ewig» della let-

DISINTERESSE , DISINTERESSATO

tera del marzo . A questo proposito è emblematica la scelta di una “lunga meditazione” su questo volume di Croce, sia perché il titolo Teoria e storia della storiografia richiama evidentemente il secondo dei tre argomenti di studio presentati in una lettera del , «La teoria della storia e della storiografia» (LC , a Tania,  marzo ), sia per le implicazioni teorico-politiche presenti in questo volume: il concetto di «storia etico-politica» intesa dal Croce come «“cavallo di battaglia” contro il materialismo storico e i suoi derivati» (Q , , ; v. Q, AC, ). È assai importante rilevare che G., in una nota intitolata Lo «storicismo» di Croce, afferma che «stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa» proprio “spogliarlo” di quella «grandezza brillante» che viene attribuita a Croce come di una «manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una contemplazione disinteressata dell’eterno divenire della storia umana» (Q , , ). D’altro canto G. si chiede quanto «sia l’elemento pratico immediato» a spingere Croce alla sua attuale posizione «“liquidazionista”» nei confronti della filosofia della praxis, in altri termini quanto possano aver inciso «gli amichevoli avvertimenti di L. Einaudi» a proposito dell’atteggiamento crociano «di critico “disinteressato” della filosofia della praxis» (Q  II, , ). In stretta connessione con l’accezione etica di disinteresse si presenta un emblematico e non scontato giudizio di G. sul leale e “disinteressato” contributo di Engels alla pubblicazione delle opere di Marx dopo la sua morte, anche se precisa che «naturalmente non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non bisogna neanche identificare Engels con Marx [...] Engels ha dato la prova di un disinteresse e di un’assenza di vanità personale unica nella storia della letteratura: non è menomamente da porre in dubbio la sua assoluta lealtà personale. Ma il fatto è che Engels non è Marx e che se si vuole conoscere Marx bisogna specialmente cercarlo» nelle opere pubblicate sotto la sua diretta responsabilità (Q , , ).



Se la questione di un approccio “disinteressato” alle «quistioni» affrontate dalla riflessione carceraria era già presente in alcuni articoli giovanili (Merce,  giugno , in NM ; Letture,  novembre , in CF -; Individualismo e collettivismo,  marzo , in CF -), è nell’ambito delle riflessioni sulla scuola che il lemma assume una sua valenza teorica. In un articolo del  G. polemizza con una proposta avanzata dal ministro dell’Istruzione Ruffini di impiegare gli studenti delle scuole medie nell’industria bellica. Nonostante infatti G. sostenga che in Italia si sia «data troppa importanza alla scuola del sapere disinteressato, mentre si è trascurata la scuola del lavoro» (La scuola all’officina,  settembre , in CT ), egli ritiene che “innestare” l’istituzione scolastica con l’officina «così come si sta facendo», ricalcando in maniera falsata il sistema scolastico inglese, sia «una delle tante aberrazioni pedagogiche che hanno impedito sempre alla scuola in Italia di essere una cosa seria», poiché soltanto facendo sì che «la scuola sia veramente scuola, e l’officina non sia un ergastolo», si potrà sperare in «una generazione di uomini utili; utili, perché faranno opera proficua nelle arti liberali, e perché daranno all’officina ciò che le manca: la dignità, il riconoscimento della sua funzione indispensabile» (ibid.) all’interno del processo produttivo. Dopo pochi mesi G. rivendica la necessità per il proletariato di «una scuola disinteressata. Una scuola in cui sia data al fanciullo la possibilità di formarsi, di diventare uomo, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere». Anche attraverso «la scuola professionale [...] può farsi scaturire, dal fanciullo, l’uomo», purché essa rappresenti una «cultura educativa e non solo informativa, o non solo pratica manuale» (Uomini o macchine?,  dicembre , in CT ). Non a caso la “questione scolastica” verrà affrontata ampiamente nei Q, soprattutto in riferimento alla formazione della personalità del bambino e all’interno della riflessione più generale sulla questione degli intellettuali. In un Testo A del Q , ripreso con alcune varianti in Q , , G. osserva che «la crisi scolastica che oggi imperversa [...] è in



DISOCCUPAZIONE

gran parte una complicazione della crisi più generale [...] oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola “disinteressata” (cioè non immediatamente interessata) e “formativa” o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di ricchi e di signorine che non devono pensare a prepararsi un avvenire e di diffondere sempre più le scuole specializzate professionali in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati». G. propone, quindi, una soluzione a questa crisi nella prospettiva di una «scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, con giusto contemperamento dello sviluppo della potenza di operare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e della potenza di pensare, di operare intellettualmente» (Q , , ), in cui «lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se “istruttivo”, cioè ricco di nozioni concrete» (Q , , ). «Da questo tipo di scuola unica [alla quale potranno accedere anche i figli degli «operai e contadini», ndr], attraverso l’orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate professionali (in senso largo) ecc.» (Q , , ). Ma tale soluzione, avverte G., «intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure “astrattamente” nelle condizioni generali di poterlo diventare» (Q , , ). VALERIA LEO V. «Croce», «Engels», «filosofia della praxis», «für ewig», «scuola», «studio».

disoccupazione Particolarmente grave è, secondo G., il problema della disoccupazione intellettuale, che da un lato «assume carattere aspro per i più giovani» (Q , , ), dall’altro provoca «tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione politica e morale, con riflessi economici non trascurabili» (Q , , ) che intaccano lo stesso apparato statale. Anche la disoccupazione “produttiva”

provoca conseguenze nefaste come l’«“inflazione” di servizi (moltiplicazione del piccolo commercio)» (Q , , ). Osservando i comportamenti di Inghilterra e Germania di fronte alla crisi del , G. ne analizza l’approccio alla questione della disoccupazione: «Si può dire che la disoccupazione inglese, pur essendo inferiore numericamente a quella tedesca, indica che il coefficiente “crisi organica” è maggiore in Inghilterra che in Germania, dove invece il coefficiente “crisi ciclica” è più importante. Cioè nell’ipotesi di una ripresa “ciclica” l’assorbimento della disoccupazione sarebbe più facile in Germania che in Inghilterra» (Q , , ). Un’ultima occorrenza del lemma è in rapporto all’emigrazione come dato costante della struttura economica italiana: «L’emigrazione [...] deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati» (Q , , ). LELIO LA PORTA V. «crisi», «emigrazione», «intellettuali».

disorganico Il lemma denota ovviamente mancanza di organicità. Associato alla nozione di crisi, l’aggettivo «organica» vuol significare proprio “crisi di organicità” ed equivale, appunto, a incombente “disorganicità”. La disorganicità può essere talvolta intenzionalmente provocata dai dominanti nei dominati: in una fase di crisi economica, «il monopolio degli organi dell’opinione pubblica» può far sì «che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discordi in un pulviscolo individuale e disorganico» (Q , , ). Viceversa, la disorganicità dei subalterni può facilitare una violenta «reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari» (Q , , ). Il ricorso alla forza può aver luogo anche per una «crisi di egemonia della classe

DITTATURA

dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse [...] pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione» (Q , , ). La disorganicità può designare inoltre un rapporto geopolitico, nel quale il dominio è esercitato dalla classe egemone di una regione sui gruppi subalterni di un’altra regione. G. studia «lo stato informe e disorganico in cui le diverse parti d’Italia vennero a trovarsi dal punto di vista economico» (Q , , ). È questo il tema della «quistione meridionale». Un riflesso dell’arretratezza (in specie meridionale) è infine in «alcuni aspetti deteriori e bizzarri della mentalità di un gruppo di intellettuali italiani e quindi della cultura nazionale (disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell’attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale, mollezza e indulgenza etica» (Q , p. ). GIUSEPPE PRESTIPINO V. «crisi», «crisi organica», «dirigenti-diretti», «intellettuali italiani», «organico», «quistione meridionale», «sovversivismo», «subalterno, subalterni».

distruzione-creazione G. parla di «distruzione» e «creazione» in riferimento a due temi in particolare: nascita d’un nuovo mondo storico e di una nuova concezione del mondo. In Q , ,  G. scrive che entro l’equilibrio storico vi sono molteplici tappe nello sviluppo dei rapporti di forza che conducono alle rotture rivoluzionarie: ma se ne mancasse alcuna, vi sarebbe o «la vittoria della vecchia società che si assicura un periodo di “respiro” distruggendo fisicamente l’élite avversaria [...] oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto» (ibid.). G. critica le posizioni “bakuniane” dei contadini nullatenenti che mitizzano la «“pandistruzione”» creatrice (Q , , ) e le tendenze economiciste per cui «l’intervento della volontà è utile per la distruzione, non per la ricostruzione»



(Q , , ). G. polemizza con il concetto romantico e metafisico dell’innovatore inteso come «chi vuol distruggere tutto l’esistente, senza curarsi di ciò che avverrà poi» (Q , , ): la distruzione è in tal senso concepita «meccanicamente» e «non come distruzione-ricostruzione» (ibid.). Per altro verso, è sempre più diffusa e banalizzata l’affermazione per cui «“non si può distruggere, senza creare”» (Q , , ): in realtà, distruggere è tanto difficile quanto creare poiché «si tratta di distruggere “rapporti” invisibili, impalpabili, anche se si nascondono nelle cose materiali. È distruttore-creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, fare affiorare il nuovo che è divenuto “necessario” e urge implacabilmente al limitare della storia» (ibid.). G. ricorda che la «grande politica» è connessa «con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economicosociali» (Q , , ). Secondo G. un centro omogeneo di cultura deve svolgere un lavoro educativo su «una determinata base storica», tanto attraverso «la distruzione del vecchio» quanto con la dimostrazione positiva (Q , , ). Egli afferma che «non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso “metafisico”, ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito» (Q , , ). In Q , ,  G. scrive che ciò che importa è la confutazione dell’insieme di opinioni che sono divenute forza sociale: con ciò non si sarà «“distrutto” l’elemento e la forza sociale corrispondente», ma si sarà «contribuito: ) a mantenere nella propria parte lo spirito di scissione e di distinzione; ) a creare il terreno perché la propria parte assorba e vivifichi una propria dottrina originale, corrispondente alle proprie condizioni di vita». MANUELA AUSILIO V. «concezione del mondo», «dialettica», «spirito di scissione».

dittatura Il lemma compare già nella riflessione precarceraria e assume un significato di notevole importanza dal punto di vista politico



DITTATURA

soprattutto in rapporto agli eventi che seguirono la conquista del potere da parte dei bolscevichi. Commentando sul “Grido del Popolo” lo scioglimento dell’Assemblea costituente deciso dal Comitato centrale esecutivo dei soviet il  gennaio , G. sottolineava come tale decisione non si configurasse come «un episodio di violenza giacobina», in quanto la Costituente rappresentava tendenze ancora poco chiare delle forze rivoluzionarie operanti prima dell’Ottobre. Al contrario, le forze veramente rivoluzionarie dopo l’Ottobre «stanno elaborando spontaneamente, liberamente, secondo la loro natura intrinseca, le forme rappresentative attraverso le quali la sovranità del proletariato dovrà esercitarsi». Tali forme erano i soviet, non la Costituente, che si presentava con i caratteri di un parlamento «eletto secondo i sistemi delle democrazie occidentali». Quindi lo scioglimento della Costituente poteva essere inteso come atto violento, giacobino, soltanto dalle forze borghesi. Invece «una minoranza che è sicura di diventare maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità». Per cui, concludeva G., nonostante le forme esteriori, lo scioglimento della Costituente andava considerato come un «episodio di libertà» (Costituente e Soviety, in CF -). Dittatura, quindi, come momento di transizione verso un ordine superiore, un ordine nuovo; a questa dittatura si contrappone, invece, la “dittatura perpetua”, ossia un regime nel quale una minoranza assume il dominio sulla maggioranza esercitandolo anche, e soprattutto, con lo strumento della forza (è per G. il caso delle dittature borghesi). Nei Q il lemma «dittatura» compare in stretta connessione con il concetto di egemonia, soprattutto nei luoghi in cui G. definisce lo Stato. Descrivendo «una funzione tipo “Piemonte” nelle rivoluzioni passive» (Q ,

, ), G. fa presente che in quel caso uno Stato si è sostituito «ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di rinnovamento» (ibid.). Ciò ha determinato, all’interno di tali gruppi sociali, l’applicazione di una funzione di «“dominio”» e non di «direzione» (qui G. scrive «dirigenza»): «dittatura senza egemonia» (ibid.). Era mancata la capacità di direzione di un gruppo sociale sulle altre forze potenziali alleate, con le quali si doveva mirare a potenziare l’intero movimento di rinnovamento, radicalizzandolo sulla base del modello giacobino. È impropria, partendo da questo esempio storico, secondo G., una definizione dello Stato che non tenga conto della decisiva distinzione «tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia» (Q  II, , ), tra dominio e direzione. Machiavelli per primo aveva compreso che le questioni della «grande politica», ossia della creazione e del mantenimento di nuovi Stati, passano attraverso l’analisi del nesso fra dittatura ed egemonia. Infatti nel Principe affronta il concetto di dittatura, «momento dell’autorità e dell’individuo» (Q , , ), mentre nei Discorsi «quello dell’egemonia (momento dell’universale e della libertà)» (ibid.). Ma anche nel Principe vi sono accenni all’egemonia «o consenso», insieme alle osservazioni sull’autorità e sulla forza, ossia sulla dittatura. Per cui le forme di Stato ipotizzate da Machiavelli, il principato e la repubblica, non si presentano come una coppia di opposti quanto piuttosto come realizzazioni concrete dei due momenti dell’autorità, o individualità, o dittatura, da un lato, e della libertà, o universalità, o egemonia, dall’altro. D’altronde, secondo G., per Machiavelli il principato è «il periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato» (Q , , ). Ma in ogni tipo di Stato al momento della dittatura è associato quello del funzionamento ideologico ed economico; lo Stato, fa presente G., va compreso nella sua interezza: «Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia)» (Q , , -). Questa «inesatta comprensione» ha avuto spazio anche all’interno del marxismo, specialmente da parte di Trockij

DITTATURA

e della sua insistenza sul concetto di rivoluzione permanente (ibid.). L’inefficacia dell’applicazione di questa «cosa astratta, da gabinetto scientifico» (Q , , ), si manifestò sia nel  sia in seguito; nel medesimo errore non incorsero, invece, coloro che la impiegarono «nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo» (ibid.), intuendo che bisognava trasformarla in «alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana» (ibid.). G. puntualizza ancor di più nel Testo C (v. anche per un ulteriore chiarimento Q , , -), in cui scrive che proprio lo sviluppo del concetto di egemonia conduce a sostanziali cambiamenti nell’azione dei partiti politici, cambiamenti che hanno origine dalla «lotta contro la teoria della così detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democratico-rivoluzionaria» (Q , , ). Per tornare allo Stato “integrale”, va notato che grazie ad esso G. si sottrae all’alternativa fra liberalismo e fascismo, all’alternativa, cioè, fra Croce e Gentile. A Croce, che propone il mantenimento della distinzione organica fra società politica e società civile, fra dittatura ed egemonia, affidando agli intellettuali, ovviamente quelli appartenenti al blocco urbano-rurale in grado di esercitare la loro «dittatura di ferro» (Q , , ) nel contesto di un regime liberaldemocratico, l’esercizio dell’egemonia e quindi la ricerca del consenso, G. oppone un netto rifiuto, proprio perché l’ottica crociana non prevede l’utilizzazione, da parte della classe che vuol porsi come dirigente sulla società, di tutti quegli strumenti che si acquisiscono anche per mezzo di compromessi, che salvaguardino il potere politico di tale classe soprattutto nei momenti di crisi. A Gentile, che identifica società politica e società civile, nel senso che «egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro» (Q , , ), G. fa notare che tale indistinzionismo ha come esito ultimo uno Stato tutt’altro che “integrale”, il quale abbisogna di una ricca articolazione delle sovrastrutture, e rigetta ogni riduzione di queste ultime al governo-forza e alla dittatura. Quello che propone Gentile è uno Stato nel



quale i partiti, i sindacati, le associazioni di cultura sono incorporati nell’attività statale, essendo state abolite legalmente; si tratta della forma contemporanea, sostiene G., della dittatura, in cui «l’accentramento legale di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante diventa “totalitario”» (Q , , ). In Q , ,  si incontra una definizione ancora più puntuale di dittatura, «cioè un potere non limitato da leggi fisse e scritte». La definizione è usata da G. a proposito delle Costituzioni approvate durante la Rivoluzione francese, la più radicale delle quali, quella del , non fu applicata in attesa del superamento della fase dell’emergenza dovuta alla guerra. Ciò avvenne, secondo G., affinché i nemici della rivoluzione non sfruttassero la Costituzione in chiave controrivoluzionaria, e per questo fu necessaria la dittatura. Anche in questo caso, come in quello dello scioglimento della Costituente nel , si tratta di dittature temporanee e transitorie aventi come obiettivo la difesa delle conquiste rivoluzionarie. In entrambe le circostanze è il fatto della guerra esterna a determinare le scelte dittatoriali. A questi esempi di dittatura temporanea esercitata da gruppi progressivi anche se in minoranza G. fa seguire, nell’ambito della discussione del concetto di capo carismatico elaborato da Michels, quello della dittatura di una sola persona, prendendo spunto dalle parole pronunciate da Lassalle agli operai renani: «noi dobbiamo [...] di tutte le nostre volontà disperse foggiare un martello e metterlo nelle mani di un uomo la cui intelligenza, il carattere e l’attaccamento ci siano una garanzia che colpisca energicamente [...] Era il martello del dittatore» (Q , , ). Questa figura, però, non veniva incontro alle esigenze di democrazia (neanche «un simulacro di democrazia») richieste dalle masse e fu soppiantata dal capo carismatico incarnato da Jaurès e Bebel. A G. sembra che, in ogni caso, il più fulgido esempio di capo carismatico sia Mussolini, che facendo divenire materia storicamente attiva l’assioma «il partito sono io» ridusse nella sua persona sia il ruolo di «capo universale di un grande partito» sia quello di «capo unico di un grande Stato»



DITTATURA

(ivi, -): in questo caso, quindi, capo carismatico più dittatore danno vita alla dittatura di una sola persona. Altri esempi di dittature su cui G. si sofferma sono quelle militari. Nella situazione di un regime parlamentare-borghese, in presenza dell’azione di un partito che vuol conquistare il potere senza averne le capacità egemoniche (scarse forze intellettuali da attivare nella costruzione del consenso), a tale partito si offre come soluzione una dittatura militare. Una dittatura di tal genere poggia su un lavoro di costruzione di un partito che abbia come proprio nucleo «cellule attive fra gli ufficiali dell’esercito» (Q , , ). Poiché il discorso gramsciano su questo aspetto della dittatura militare è riferito alla Francia, G. stesso ne indica come alternativa storicamente verificata «lo sviluppo del giacobinismo» che «ha trovato il suo “perfezionamento” giuridico-costituzionale nel regime parlamentare» (ibid.), pur tenendo presente che proprio i limiti di classe della politica dei giacobini scateneranno quelle forze elementari «che solo una dittatura militare sarebbe riuscita a contenere» (Q , , ). Un esempio analogo a quello della Francia del  è proposto dal dissidio Pisacane-Garibaldi all’interno del Partito d’Azione agli inizi del Risorgimento. Già in un Testo A (Q , , ) G. aveva avuto modo di fare riferimento, seppure di passaggio, agli «errori militari gravissimi» (definiti «errori politici e militari irreparabili» nel Testo C in Q , , ) commessi da Pisacane «come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana». Articolando compiutamente il ragionamento (Q , , -), G. nota come gli atteggiamenti pratici di Pisacane fossero condizionati dal «concetto strategico della guerra d’insurrezione nazionale». Questo condizionamento si manifestò pienamente con «l’avversione di Pisacane a Garibaldi durante la Repubblica Romana». Le ipotesi formulate da G. nel tentativo di comprendere i motivi dell’avversione di Pisacane sono diverse: sicuramente un’avversione di principio alla dittatura militare, ma anche un’avversione nel merito a quella specifica dittatura militare che, secondo Pisacane, avrebbe avuto vaghi caratteri nazionali ma neanche

un minimo di quel contenuto sociale che egli avrebbe voluto dare alla sua guerra d’insurrezione nazionale. Comunque, per G. Pisacane sbagliò perché la dittatura militare di Garibaldi «in regime di Repubblica già instaurata, con un governo mazziniano in funzione», non era né vaga né indeterminata, avendo le caratteristiche di «un governo di salute pubblica, di carattere più strettamente militare». Al dunque, secondo G., l’avversione era determinata dai pregiudizi ideologici di Pisacane nei confronti della Rivoluzione francese, che non gli consentirono di cogliere la specificità della dittatura militare di Garibaldi, che aveva gli stessi obiettivi di difesa delle conquiste repubblicane perseguiti dai giacobini nel . Oltre alla dittatura militare G. analizza la dittatura di un partito avvalendosi dell’esempio fornito dall’Inghilterra. Qui, traendo spunto dalla lettura di un articolo del  sul sistema di governo inglese, G. nota che «non si può parlare di regime parlamentare», ma di «dittatura di partito» (Q , , ) in quanto il parlamento non esercita alcun tipo di controllo sull’esecutivo e sulla burocrazia; inoltre non si tratta neanche di una dittatura di partito organica bensì inorganica in quanto, essendo due i partiti ad agire, «il potere oscilla tra partiti estremi» (ibid.). Ciò determina uno scontro fra il partito di governo, che fa promesse agli elettori per accaparrarsene i voti a ogni tornata elettorale, e il partito d’opposizione, che di fatto persegue lo stesso obiettivo, ma «screditando il governo» (ibid.). Secondo l’autore dell’articolo che G. sta commentando, l’origine di tale dittatura di partito va rinvenuta «nel sistema elettorale senza ballottaggio e specialmente senza proporzionale» (ivi, ). A questa causa G. ne aggiunge un’altra, ossia l’esistenza nel governo di un gruppo ristretto che esercita una funzione di dominio sull’intero gabinetto con, in più, «una personalità che esercita una funzione bonapartista» (ibid.); in uno dei sistemi parlamentari apparentemente più affidabili, come quello inglese, si è dunque potenzialmente in presenza di una situazione di dittatura senza egemonia che rappresenta l’anticamera di uno sconfinamento possibile nel bonaparti-



DIVISIONE DEI POTERI

smo, una delle varianti della dittatura di una sola persona. B IBLIOGRAFIA : B OBBIO ; B UCI GLUCKSMANN ; LIGUORI ; PAGGI .

nella storia; in questo senso, «è giusta l’affermazione dello stesso Croce [...] che la filosofia della praxis “è storia fatta o in fieri”» (Q  II, .XII, ).

LELIO LA PORTA

V. «Bucharin», «Croce», «filosofia della praxis», «oggettività», «progresso», «senso comune».

V. «bonapartismo», «capo carismatico», «consenso», «Croce», «direzione», «dominio», «egemonia», «Gentile», «giacobinismo», «grande politica, piccola politica», «partito», «Partito d’Azione», «Stato», «totalitarismo».

divenire G. distingue «divenire» da «progresso»: «Il progresso è una ideologia, il divenire [...] è un concetto filosofico, da cui può essere assente il “progresso”» (Q  II, , ). Proprio nel significato tecnico di divenire storico, questo concetto si inserisce nelle discussioni sulla teoria della storia e sul marxismo, portando G. a sottoporre a critica Bucharin, cui «sfuggono i concetti di movimento storico, di divenire e quindi della stessa dialettica» (Q , , -), e Croce, che eccede nel «fissare dei concetti» nel «perenne fluire degli avvenimenti», approdando a «una storia formale» (Q  II, , ). G. descrive come un divenire il senso comune, la conoscenza, l’oggettività e la realtà stessa; inoltre «anche l’unità di teoria e pratica non è un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico» (Q , , ). L’uso del concetto di divenire conduce G. a considerare «la “natura umana” [...] il “complesso dei rapporti sociali”» (Q , , ) e a individuare nell’«insieme delle forze materiali di produzione [...] l’elemento meno variabile nello sviluppo storico», accertabile e misurabile con esattezza matematica; esso «può dar luogo [...] alla ricostruzione di un robusto scheletro del divenire storico» (Q , , ). Cogliere la realtà nel suo divenire è qualità precipua del politico, per il quale «ogni immagine “fissata” a priori è reazionaria: il politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L’artista deve invece avere immagini “fissate” e colate nella loro forma definitiva» (Q , , ). Per G. il marxismo si distingue dalle altre filosofie soprattutto nel modo di considerare il proprio posto

LUDOVICO DE LUTIIS

Divina Commedia: v. Dante. divisione dei poteri Il tema liberale della divisione dei poteri, se si eccettua una fugace menzione in riferimento al mutare del diritto processuale in Q , , , compare una sola volta nei Q ed è messo in relazione al rapporto fra società civile e società politica: «La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra [la] società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi» (Q , , ). La lotta di cui parla G. è quella che le classi emergenti combattono contro gli intellettuali ancora legati «alle vecchie classi dominanti», cioè quegli strati intellettuali più direttamente posti al diretto servizio dello Stato, «specialmente [la, ndr] burocrazia civile e militare» (ibid.). In questa nota, la divisione dei poteri rappresenta un compromesso temporaneo fra istanze emergenti e strati intellettuali conservativo-burocratici, ma G. prosegue nell’analisi e riconosce l’«importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo politico ed economico», sostenendo che «tutta l’ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri» (ivi, ). Da qui G. formula un giudizio molto preciso, rilevando quello che secondo lui è il limite costitutivo del liberalismo: si tratta appunto della «burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta». Il liberalismo ha quindi per G. una debolezza costitutiva, quella di non fare i conti con il fenomeno burocratico, «onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le

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DIVULGAZIONE

cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione» (ibid.).

culturale» (Q , , ), perché si è capaci di «adattare ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni culturali» (Q , , ).

MICHELE FILIPPINI

ROCCO LACORTE

V. «burocrazia», «legislativo-esecutivo», «liberali, liberalismo», «parlamento».

V. «giornalismo», «intellettuali», «intellettuali italiani», «lingua», «linguaggio», «traducibilità», «traduzione».

divulgazione Il termine rinvia a un aspetto particolare del “problema degli intellettuali” e dell’organizzazione della cultura, a sua volta aspetto particolare della questione politica dell’egemonia. Considerando che per G. «in ogni regione, specialmente in Italia, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici propri» (Q , , ); «che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto meno egualitario»; che «tutta la “classe colta”, con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione» (Q , , ); che infine ogni strato sociale e ogni corrente culturale elabora «la sua coscienza e la sua cultura» con metodi e linguaggi diversi (Q , ,  e Q , , ); la divulgazione assume indispensabile rilievo, rispetto sia all’elevazione culturale della massa popolare (suscitare nuove intellettualità, un nuovo pubblico e diffondere una nuova cultura), sia rispetto all’elaborazione di un «modo di pensare e operare omogeneo» (Q , , ). La divulgazione si realizza mediante giornali, riviste e periodici di vario genere, istituzioni e circoli culturali, conferenze, «conversazioni e dibattiti a voce che si ripetono infinite volte» (Q , , ). Come ogni attività intellettuale, essa domanda una propria «“tecnica”», e «se non esiste occorre crearla» (Q , , ), per cui è necessario «riallacciarsi a esigenze realmente sentite» e adeguarsi «per la forma dell’esposizione» «alla media dei lettori» (Q , , ; Testo C di Q , ). La divulgazione consiste nel saper tradurre correttamente ciò che viene scoperto «dai “creatori” delle varie scienze, della filosofia, della poesia ecc.» (Q , , ) «nei linguaggi delle situazioni concrete particolari» (Q , , ), dunque nel saper «tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo

domenicani Nell’analizzare le correnti e gli orientamenti del mondo cattolico, G. tiene sempre presente la complessità e la trasversalità delle posizioni; tuttavia tende a considerare nella terna concettuale Cattolici integrali, gesuiti, modernisti – che titola molti paragrafi e un quaderno speciale – i domenicani come appartenenti al primo gruppo: «Gli “integrali” sono forti nel complesso di qualche ordine religioso rivale dei gesuiti (domenicani, francescani)» (Q , , ). L’unica eccezione espressamente ricordata nei Q riguarda «gli ambienti torinesi dei giovani ecclesiastici, anche domenicani, prima della guerra, e le loro deviazioni che andavano fino ad accogliere benevolmente le tendenze modernizzanti dell’islamismo e del buddismo e a concepire la religione come un sincretismo mondiale di tutte le religioni superiori» (ivi, ). I domenicani sono citati prevalentemente in valutazioni sulle correnti interne alla Chiesa cattolica, delle quali G. dà il seguente giudizio: «ciò che importa qui notare è che sia il modernismo, sia il gesuitismo, sia l’integralismo hanno significati più vasti che non siano quelli strettamente religiosi: sono “partiti” nell’“impero assoluto internazionale” che è la Chiesa Romana ed essi non possono evitare di porre in forma religiosa problemi che spesso sono puramente mondani, di “dominio”» (Q , , ). In questo senso, G. cita i domenicani sia ricordando il loro scontro in Spagna con i gesuiti, sia trattando la figura di Umberto Benigni, personaggio di spicco delle gerarchie ecclesiastiche durante il papato di Pio X e definito da G. «il capo degli integrali» (Q , , ). LUDOVICO DE LUTIIS V. «Chiesa cattolica», «francescani», «gesuiti, gesuitismo», «integralisti», «modernismo».

DOMINIO

dominio Il lemma «dominio» nei Q occupa un ruolo centrale, in coppia con «direzione». Esso indica uno dei due modi in cui si esercita il potere, prerogativa – nell’ambito dello «Stato integrale» che caratterizza per G. il Novecento – dell’apparato coercitivo. Nei «due grandi “piani” superstrutturali» di cui parla G., alla società politica o Stato corrisponde infatti la funzione di «“dominio diretto” o di comando che si esprime nello Stato e nel governo “giuridico”» (Q , , -). Nel Testo A (Q , , ) G. era stato ancora più esplicito, scrivendo che «gli intellettuali hanno la funzione di organizzare l’egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale, cioè il consenso dato dal prestigio della funzione nel mondo produttivo e l’apparato di coercizione per quei gruppi che non “consentono” né attivamente né passivamente o per quei momenti di crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi» (ibid.). Per G. un gruppo sociale può manifestare la sua supremazia in due modi: come «dominio» o come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale domina i gruppi avversari anche con l’uso della forza, ma «è dirigente dei gruppi affini e alleati». Inoltre, ancor prima di conquistare il potere, «un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente [...]; dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche “dirigente”» (Q , , -). La stessa definizione di Stato che troviamo in Q , una delle ultime e più elaborate dei Q, ripropone la coppia dominio-consenso come fondamentale per spiegarne le dinamiche: «Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati» (Q , , ). La storia del Risorgimento italiano fornisce l’esempio di come sia tuttavia possibile esercitare una funzione di dominio senza riuscire a esplicare quella di direzione. Si tratta della funzione svolta dal Piemonte, ossia da uno Stato che si è sostituito «ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di rin-



novamento», esercitando «la funzione di “dominio” e non di “dirigenza” in questi gruppi: dittatura senza egemonia» (Q , , ). Proseguendo la sua riflessione intorno al Risorgimento, e in modo specifico alle sue origini, G. usa il termine «dominio» (ed «egemonia») riferito al livello della politica internazionale o interstatuale: «C’è un periodo di dominio straniero in Italia, per un certo tempo dominio diretto, posteriormente di carattere egemonico (o misto, di dominio diretto e di egemonia)» (Q , , ). All’epoca di esplicita dominazione straniera in Italia fa seguito un periodo di indebolimento dell’equilibrio Austria-Francia che determina la nascita di una terza potenza, la Prussia, e fornisce le basi per il moto risorgimentale. È da notare, aggiunge G., come proprio intorno alla «posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero» (Q , , ) si aggreghi un insieme di forze progressive, anche meridionali. In questo quadro è interessante il ruolo del papato come potenza europea in fase di indebolimento a partire dall’età della Controriforma. Infatti, «mentre il Bellarmino elaborava la sua teoria del domino indiretto della Chiesa, la Chiesa, con la sua concreta attività, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio, anche indiretto, staccandosi dalle masse popolari» (Q , , ). Nell’ambito dell’analisi del Risorgimento va ricondotto Q , , dedicato al trasformismo. Affrontando il tema del passaggio di singoli rappresentanti politici dell’opposizione alla compagine conservatrice-moderata verificatosi negli ultimi decenni dell’Ottocento, G. ricorda come quest’ultima fosse «caratterizzata dall’avversione ad ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse un’“egemonia” al crudo “dominio” dittatoriale» (ivi, ). A proposito della Germania, in riferimento al processo storico attraverso il quale la borghesia tedesca prese il potere, G. fa proprio il punto di vista di Labriola, il quale notava come, pur in presenza di un grande sviluppo capitalistico, gli Junker permanessero al potere. Chiosa G.: «il rapporto di classi creato dallo sviluppo industriale col

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DONNA

raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e il rovesciamento delle posizioni delle classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciarne sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale» (Q , , ). Infine, va ricordato che nei Q il lemma “dominio” è usato a volte anche in un significato mutuato dalla lingua francese, come “ambito” (Q , , ; Q , , ; Q , , ). LELIO LA PORTA V. «coercizione», «consenso», «dittatura», «egemonia», «Stato», «trasformismo».

donna «Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di più che non siano i pezzi d’umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale» (La morale e il costume,  marzo , in CF -). La mancanza di autonomia delle donne nel tempo della società di massa e dell’industrializzazione è presente a G. fin dagli anni Dieci. E fin da allora l’idea di G. è che il mutamento di tale condizione sia legato indissolubilmente al sorgere della società nuova, in cui le donne siano partecipi pienamente del processo produttivo, ossia del lavoro industriale. Il connubio tra lotta di classe ed emancipazione femminile era stato anche alla base del supporto offerto da G. alle comuniste organizzatrici della prima conferenza femminile nel . Per questa ragione G. imposta fin dall’inizio il problema nei Q mettendo al centro il modo in cui le donne partecipano al processo produttivo e alla dimensione pubblica. La loro «scarsa occupazione [...] nei lavori produttivi» è stata uno dei fattori che ha contribuito a rendere «la composizione della popolazione italiana “malsana”» (Q , , ), e la loro seppure marginale partecipazione alla causa risorgimentale è vista da G. come un indicatore positivo di progresso, perché «ogni movimento storico innovatore è maturo solo in quanto vi parteci-

pano non solo i vecchi ma i giovani e i maturi e le donne, cosicché esso ha perfino un riflesso nella fanciullezza» (Q , , ). Ma superficialità, vanità e frivolezza sono per G. caratteristiche proprie delle donne, almeno storicamente parlando. E tali caratteristiche condizionano sia nei ceti più ricchi che nelle classi lavoratrici la possibilità del reale raggiungimento di una società nuova, fondata sul lavoro e liberata da forme di disordine sessuale e di libertinismo: per quanto riguarda il ceto capitalista, in particolare americano, «l’uomo-industriale continua a lavorare anche se miliardario», ma sua moglie e le sue figlie diventano sempre più «“mammiferi di lusso” [...] Le donne, oziose, viaggiano, attraversano continuamente l’oceano» (Q , , ). Per ciò che concerne la classe operaia, G. sostiene che la crisi di libertinismo che regolarmente segue le fasi storiche di compressione «non tocca altro che superficialmente le masse lavoratrici o le tocca indirettamente perché deprava le loro donne» (Q , , ). Consegue da queste considerazioni, che inscrivono l’intero ragionamento sulla condizione delle donne nell’orizzonte di Americanismo e fordismo, la necessità di un superamento dell’«ideale “estetico» della donna che «oscilla tra la concezione di “fattrice” e di “ninnolo”» (Q , , ). «La quistione etico-civile più importante legata alla quistione sessuale è quella della formazione di una nuova personalità femminile: finché la donna non avrà raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la quistione sessuale rimarrà ricca di caratteri morbosi e occorrerà esser cauti in ogni innovazione legislativa» (ivi, -). L’invito alla cautela legislativa si colloca in una situazione in cui le donne, pur esercitando una certa influenza in alcuni aspetti della diffusione culturale popolare, ad esempio l’acquisto di riviste e giornali per la famiglia, a partire dal loro interesse per i romanzi d’appendice (Q , , ), restano tuttavia per G. una «parte inorganizzabile dell’opinione pubblica» (Q , , ). Tale circostanza solleva in G. perplessità rispetto alla legislazione anglosassone che non solo concede il voto alle don-

DOPOGUERRA

ne, ma è loro favorevole in «tutta una serie di conflitti “sentimentali” o pseudo sentimentali» (Q , , ). La donna nuova, infatti, per G. sarà proprio quella che avrà superato tanto inutile «romanticismo deteriore» (LC , a Tania,  aprile ) in un processo di autoeducazione che l’avrà condotta a uno stile sobrio, come si richiede a un modello produttivo razionale, e che avrà superato il bigottismo di una religiosità superstiziosa che all’oggi ne fa ancora uno dei soggetti frenanti del processo storico (Q , , ). Per G. la storia delle donne, pur avendo talune specificità, non può e non deve essere collocata al di fuori o in conflitto con la storia della classe lavoratrice, in particolare non può essere pensata con obiettivi diversi. «La quistione dell’importanza delle donne nella storia romana è simile a quella dei gruppi subalterni, ma fino a un certo punto; il “maschilismo” può solo in un certo senso essere paragonato a un dominio di classe, esso ha quindi più importanza per la storia dei costumi che per la storia politica e sociale» (Q , , ). G. nota a questo proposito anche la contraddizione nel Cinquecento fra «il modo di concepire la donna in generale [...] e il modo di trattar la donna in particolare, cioè la donna del popolo» (Q , , ). Tuttavia, nonostante le osservazioni contro i luoghi comuni nei confronti delle donne, che ravvisa anche nella tradizione letteraria più autorevole (Manzoni, ma non, ad esempio, Machiavelli), G. non opera una reale cesura rispetto a tale tradizione. Il lemma è presente in vario modo nelle LC. Le occorrenze sono qui relative all’ambito biografico e affettivo, ma non manca una generalizzazione astratta della donna e delle donne che fa riferimento con toni accesamente paternalistici a caratteri tipici, che G. riscontra di volta in volta nelle interlocutrici epistolari o in persone nominate nelle lettere. Fragilità di nervi, debolezza nel mantenimento dei propositi, mancanza di saldezza della volontà, vanità, superficialità si confermano le caratteristiche che più frequentemente G. attribuisce alle donne. Ma alle donne G. riconosce anche un genere di forza, che si incarna soprattutto nella madre Peppina, quasi sempre nominata accanto a



parole come «forte», «forza»: si tratta però di una forza ancestrale, che lambisce l’istintualità animale. Pur rimarcando una differenza tra le donne arcaiche della Sardegna («brutte e ventrute») e quelle dell’universo familiare moscovita («intellettuali», «ipersensibili»), G. opera forme di generalizzazione e tipizzazione universali; scrive così alla cognata Tania: «tu, come tutte le donne in generale, hai molta immaginazione e poca fantasia e ancora, l’immaginazione in te (come nelle donne in generale) lavora in un solo senso, nel senso che io chiamerei (ti vedo fare un salto)... protettore degli animali, vegetariano, infermieristico: le donne sono liriche (per elevarci un po’) ma non sono drammatiche. Immaginano la vita degli altri (anche dei figli) dal solo punto di vista del dolore animale, ma non sanno ricreare con la fantasia tutta un’altra vita altrui, nel suo complesso, in tutti i suoi aspetti» (LC ,  aprile ). E a Giulia: «Ho letto con interesse le tue osservazioni sullo specchio e su Julik che ama guardarsi, ma il mio interesse fu cagionato da ciò che il tuo ragionamento è ingenuamente e candidamente “donnesco”. Proprio la quintessenza della femminilità. Perché vedere nello specchio solo un mezzo di narcisismo è solo proprio delle donne» (LC ,  novembre ). LEA DURANTE V. «famiglia», «femminismo», «Giulia», «letteratura d’appendice», «libertinismo», «quistione sessuale», «subalterno, subalterni», «Tatiana».

dopoguerra «Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro» (Q , , -). La lapidarietà di questa definizione di per sé indica la centralità – nell’analisi di G., volta a ricostruire i passaggi salienti che hanno portato alla sconfitta storica patita dal movimento operaio in Occidente – del dopoguerra nel discorso dei Q. La crisi data già da prima – «Per alcuni (e forse non a torto) la guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili»



DOPOGUERRA

(ivi, ) – e andrà intensificandosi «nel  in modo quasi catastrofico» (Q , , ): G. non potrà vedere come la fine della crisi, e anche del dopoguerra, in fondo, sarà raggiunta solo grazie allo scoppio di un’altra e più vasta guerra mondiale, ma coglie lucidamente come il processo resti aperto e anzi vada approfondendosi e incancrenendosi (come anche l’andata al potere dell’«hitlerismo» presto dimostrerà). La crisi messa a fuoco da G. come elemento caratterizzante il periodo che segue la Grande guerra è una crisi di egemonia: «Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile» (Q , , ) o – nel relativo Testo C – «permanentemente difficile e aleatorio» (Q , , ). È «una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti [...] quella che si è verificata nel dopoguerra», che difficilmente «può essere “guarita” col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi» (Q , , ). La guerra ha lasciato in eredità equilibri instabili, destinati ad avere drammatiche conseguenze. Sullo sfondo della situazione internazionale l’imperialismo inglese, pur vincitore, e la supremazia finanziaria di Londra corrono il rischio di essere definitivamente ridimensionati: G. annota che la «funzione mondiale di Londra [...] nel dopoguerra» ha «trovato concorrenti [...] tentativi di New York e di Parigi per soppiantare Londra» (Q , , -). Anche la «quistione italiana» è parte della «quistione mondiale», che perdura ancora negli anni Trenta, e che il ministro degli Esteri fascista Dino Grandi abilmente mostra come sia «da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l’espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel  in modo quasi catastrofico, e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici» (Q , , ). Sul piano interno la situazione è attraversata da fenomeni nuovi: «dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente “vagabondi”, disancorati, avidi di sensazio-

ni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte a se stessi» (Q , , ). A ciò si aggiunge presto la disillusione di molti che cadono – come esemplificato da Alfredo Galletti – «in uno stato d’animo [...] proprio di chi ha avuto “gli ideali infranti”; i suoi scritti sono riboccanti di recriminazioni, di digrignar di denti in sordina» (Q , , ). Sul piano sociale lo sbandamento è consistente, anche per l’intrecciarsi del contraccolpo liberatorio e le necessità nuove della ripresa della produzione che esce dal conflitto modernizzata e con nuove esigenze: «Nel dopoguerra si è verificata una crisi dei costumi di estensione e profondità inaudite, ma si è verificata contro una forma di coercizione che non era stata imposta per creare le abitudini conformi a una nuova forma di lavoro, ma per le necessità, già concepite come transitorie, della vita di guerra e di trincea. Questa pressione ha represso specialmente gli istinti sessuali, anche normali, in grandi masse di giovani e la crisi che si è scatenata al momento del ritorno della vita normale è stata resa ancor più violenta dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio permanente nel rapporto numerico tra gli individui dei due sessi. Le istituzioni legate alla vita sessuale hanno ricevuto una forte scossa e nella quistione sessuale si sono sviluppate nuove forme di utopia illuministica. La crisi è stata (ed è ancora) resa più violenta dal fatto che ha toccato tutti gli strati della popolazione ed è entrata in conflitto con le necessità dei nuovi metodi di lavoro che intanto si sono venuti imponendo (taylorismo e razionalizzazione in generale). Questi nuovi metodi domandano una rigida disciplina degli istinti sessuali (del sistema nervoso), cioè un rafforzamento della “famiglia” in senso largo» (Q , , ). La stessa «psicanalisi (sua enorme diffusione nel dopoguerra)» si spiega «come espressione dell’aumentata coercizione morale esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui e delle crisi morbose che tale coercizione determina» (Q , , ). Ma attenzione a non spiegare tutto il sommovimento del dopoguerra alla luce di un certo «libertinismo», di una rilassatezza

DRAMMA



dei costumi, che del resto per G. non ha colpito che molto parzialmente le masse lavoratrici. Ad esempio nella vecchia Europa è la mutata composizione di classe a costituire il cancro profondo che impedisce alla crisi di chiudersi: «nel dopoguerra la categoria degli improduttivi parassitari in senso assoluto e relativo è cresciuta enormemente ed è essa che divora il risparmio. Nei paesi europei essa è ancora superiore che in America, ecc. Le cause della crisi non sono quindi “morali” (godimenti, ecc.) né politiche, ma economico-sociali, cioè della stessa natura della crisi stessa» (Q , , ). L’egemonia ha – è non può non avere – anche un preciso contenuto economico e la sua crisi è anche crisi delle sue basi economico-sociali. Come tutto il dopoguerra dimostrerà.

spostare gli equilibri, dopo aver opportunamente conosciuto e analizzato quelli attuali. Il dover essere è quindi concretezza, «è la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia e filosofia in atto, sola politica». Il realismo gramsciano nasce dalla consapevolezza che la politica è l’attività umana centrale, al di fuori della quale non può esistere salvezza o riconciliazione, nemmeno come superamento della politica stessa, né tanto meno come esito di una rivoluzione compiuta. Sta proprio nell’affermazione che la politica è l’unico campo dell’agire umano, non esiste alcun oltre, nemmeno quello del compimento rivoluzionario, e il dover essere non è quindi aspirazione all’oltre, ma mutamento dei rapporti di forza esistenti.

GUIDO LIGUORI

CLAUDIO BAZZOCCHI

V. «apparato egemonico», «crisi», «crisi d’autorità», «egemonia», «famiglia», «Grande guerra», «hitlerismo», «libertinismo», «Oriente-Occidente», «quistione sessuale», «taylorismo».

V. «Guicciardini», «Kant», «Machiavelli», «politica», «scienza della politica».

dover essere

Il dramma appare spesso nei Q nella sua accezione più tecnica, come un genere della letteratura teatrale: è la rappresentazione di un conflitto in atto, il cui scioglimento provoca una catarsi. In Q , , , commentando l’affermazione di Ugo Ojetti, di matrice aristotelica, secondo cui caratteristica del dramma sarebbe il «progrediente contrasto d’anime», G. accenna alla possibilità di raffigurare artisticamente l’emigrazione italiana in chiave drammatica, come rappresentazione del «contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d’immigrazione». Sull’azione drammatica considerata nell’ambito della letteratura teatrale G. ritorna in altre circostanze, come a proposito del teatro di Pirandello. In Q , ,  si legge che la peculiarità del Pirandello drammaturgo è quella di «osservare le contraddizioni nelle personalità degli altri e poi addirittura di vedere il dramma della vita come il dramma di queste contraddizioni». La prospettiva gramsciana è però più ampia, estendendo il fenomeno del dramma ad altri contesti. Anzitutto a quello letterario, ma non propriamente teatrale (la poesia della Commedia, ad esempio, è definita in Q , , 

In Q , , - (è la ripresa di un Testo A: Q , , -) si trova la riflessione sul «dover essere», a partire dal confronto fra Guicciardini e Machiavelli, come era stata proposta da Paolo Treves, il quale aveva commesso l’errore – secondo G. – di non distinguere chiaramente fra politica e diplomazia. Nella politica la volontà ha infatti maggior peso che nella diplomazia. La diplomazia tende a conservare l’equilibrio che si è venuto a creare a seguito dello scontro fra le politiche di differenti Stati; non è creativa, tende alla conservazione dei rapporti di forza esistenti. Il politico – e Machiavelli è un politico e non un mero scienziato – invece vuole creare nuovi rapporti di forza ed è quindi portato a occuparsi del dover essere, anche se non in senso moralistico. Ciò vuol dire che non nascerà dai propri desideri o dalla pura testimonianza morale, ma dalla realtà effettuale intesa come rapporto di forze non statico, bensì in continuo movimento. Allora la realtà non sarà qualcosa di immodificabile, ma il campo di forze realmente esistenti e operanti, sulle quali far leva per

dramma



DUE MONDI

«dramma in atto» (Q , , ) e la vicenda di Cavalcante rappresenta, secondo il Q , , , «in atto il tormento del dannato»), così come a quello politico (nel machiavelliano Principe «gli elementi passionali, mitici, contenuti nell’intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell’invocazione di un principe, “realmente esistente”»: Q , , ) e, infine, a quello filosofico. Infatti, con un vocabolo preso in prestito dalla teoria del dramma, alla quale G. ricorrerà direttamente nel definire il teatro di idee di Ibsen «catarsi “progressiva”» (Q , , ), lo svolgimento dialettico e le sue sintesi vengono indicati in Q  II, ,  proprio con il sinonimo di «“catarsi”». YURI BRUNELLO V. «catarsi», «Dante», «emigrazione», «Machiavelli», «Pirandello», «teatro».

due mondi L’espressione ricorre nei Q con accezioni ora di tipo geografico, ora storico-culturale. In Q ,  G. allude al confronto tra l’Europa e l’America, facilmente minato da luoghi comuni quali quelli contenuti in Fra i due mondi (pubblicato da Treves nel ) di Guglielmo Ferrero, definito nel più sarcastico Testo C «la bibbia di una serie di banalità delle più trite e volgari» (Q , , ). «Repertorio delle banalità più marchiane» sull’americanismo è poi secondo G. un articolo del ° aprile  di Étienne Fournol (L’America nella letteratura francese del , pubblicato sulla “Nuova Antologia”), che fa riferimento, tra gli altri, a due libri a disposizione dall’autore durante la detenzione a Turi, Qui sera le Maître, Europe ou Amérique? di Lucien Romier (del ), già citato nell’analisi della «razionalizzazione della popolazione» in America e dei diversi elementi sociali della «“tradizione” europea» in Q , , e Les États-Unis d’aujourd’hui di André Siegfried (uscito nel ), indicato come contraddittorio sostenitore del menzognero cliché europeo propagandistico di un collettivismo americano «voluto dalle classi elette» (Q , , ) che avrebbe messo fine alla lotta di classe. In Q ,  i due

mondi su cui G. si concentra sono invece quello del latino e del neolatino: per il mediolatinista Filippo Ermini tra le due fasi della storia della lingua non si sarebbe interrotta l’influenza della tradizione classica. Tale continuità per G. non può indicare invece un comune carattere «popolare-nazionale» delle due lingue: il latino letterario si sarebbe cristallizzato nel mediolatino dei dotti, che aveva come destinatari esclusivi gli intellettuali della «Cosmopoli medioevale» (ivi, ) per poi dare vita all’italiano, rivelatosi nuovamente lingua scritta di una casta. Uno spartiacque tra «due mondi della storia» per G. sarebbe rappresentato poi dall’affermazione del metodo sperimentale nella scienza, che avrebbe fondato le basi del pensiero moderno, «il cui coronamento è nella filosofia della praxis», come recita il Testo C in Q , , . G. spiega che il pensare dello scienziato-sperimentatore è «continuamente controllato dalla pratica e viceversa, finché si forma l’unità perfetta di teoria e pratica» (ibid.). Nelle LC invece G. discute con la cognata Tania di una presunta estraneità degli ebrei nella società occidentale, che farebbe pensare a due mondi distinti. La discussione prende spunto dalle considerazioni di Tania a seguito della visione della pellicola Due Mondi, diretta dal regista tedesco Ewald André Dupont nel  (LC ,  settembre ): la locuzione tornerà, con le iniziali maiuscole, anche quando (LC , a Tania,  febbraio ), citando una lettera di Piero Sraffa riportata da Tania, G. ironizzerà sul sapore garibaldino e «romantico ottocentesco» del termine. Egli tenderà a dimostrare l’assenza di un antisemitismo diffuso al livello popolare in Italia e sottolineerà come l’ideologia che presuppone «“due mondi” impenetrabili» (LC , a Tania,  ottobre ) contribuisca a preparare il terreno a episodi violenti, come i pogrom fomentati dai Centoneri nella Russia di inizio secolo. G. d’altronde discute a monte la stessa possibilità di circoscrivere due realtà distinte, dinnanzi alla potenziale infinità dei mondi individuabili e soprattutto al «processo storico generale che tende a unificare continuamente tutto il genere umano» (ibid.). L’articolato dibattito

DUMPING

epistolare porta G. soprattutto a condannare i luoghi comuni che gravano su questi presunti «due mondi», come su tutte le nazionalità e le razze, e postulano l’esistenza di «un uomo “in generale” che non credo si trovi in nessun museo antropologico o sociologico» (LC , a Tania,  ottobre ). L’appartenenza a una nazione è ritenuta da G. il dato di fondo più rilevante: «un ebreo italiano [...] si differenzia molto di più da un ebreo polacco o galiziano della stessa classe» (LC , a Tatiana,  settembre ), piuttosto che da un italiano non ebreo della stessa classe. G., d’altronde, benché di padre di origine albanese (come rivela il suo cognome), di nonna di ascendenza italo-spagnola e di madre sarda, afferma che nel suo periodo torinese non si era «mai accorto di essere dilaniato tra due mondi» (LC ), a Tania,  ottobre ); negando di appartenere a una «razza» specifica, egli conclude: «la mia cultura è italiana fondamentalmente e questo è il mio mondo». JOLE SILVIA IMBORNONE V. «americanismo», «ebrei», «individuo», «latino e greco».

dumping Della pratica del dumping – cioè della vendita di beni o servizi all’estero a prezzi inferiori a quelli di vendita, se non di produzione, dei medesimi sul mercato di origine – G. si occupa per la prima volta in due articoli, La paura del «dumping» e Il «dumping» germanico (quest’ultimo in risposta polemica al pamphlet di Camillo Olivetti Politica doganale), pubblicati sulle colonne del “Grido del Popolo” rispettivamente il  e il  maggio . In questi scritti G. – dietro lo



pseudonimo di Argiropulo, con cui solitamente firma gli articoli economici rientranti nella campagna antiproibizionistica del periodico – denuncia le mistificazioni della verità fabbricate ad arte dalla grande stampa nella sua propaganda a sostegno delle misure protezionistiche e delle barriere doganali, necessarie all’industria italiana per sostenere una guerra economica contro la Germania. In particolare, l’accusa fasulla di dumping contestata allo Stato tedesco («mai fantasia più atrocemente grottesca è stata partorita dalla mente umana»: CT -) è lo “spauracchio” agitato dai giornali per creare un clima di odio politico finalizzato a interessi economici, diffondendo, peraltro, l’idea immorale che i comportamenti sleali diano sempre degli ottimi frutti. Tornando, sia pur brevemente, a riflettere nei Q su questa pratica sleale, G. conclude che essa è la dimostrazione di un fatto: «in certi paesi di capitalismo arretrato e di composizione economica in cui si equilibrano la grande industria moderna, l’artigianato, la piccola e media cultura agricola e il latifondismo, le masse operaie e contadine non sono considerate come un “mercato”». Quest’ultimo è pensato per l’estero, soprattutto per quei paesi «dove sia più possibile la penetrazione politica per la creazione di colonie e di zone d’influenza». Nel mercato interno invece le politiche protezionistiche, accompagnate dai bassi salari, determinano prezzi più alti e bloccati, con l’esclusione delle masse dal consumo e il mancato sviluppo di una «situazione “nazionale-popolare”» (Q , , ). VITO SANTORO V. «protezionismo», «salario».

E

ebrei Numerosi sono gli accenni alla questione ebraica negli scritti di G., sia nei Q che nelle lettere alla cognata Tatiana, benché non si tratti mai di analisi sistematiche. Gli spunti da cui nascono queste riflessioni sono molteplici, tratti ora dalla stampa quotidiana ora da avvenimenti internazionali, ma la materia di riflessione del pensatore sardo rimane la storia d’Italia, in un’epoca che precede la svolta antisemita del fascismo (G. muore un anno prima della promulgazione delle leggi razziali del ). All’Italia egli si riferisce anche quando scrive alla moglie o alla cognata, russe di origine ebraica, che del problema avevano indubbiamente una percezione diversa. I soggiorni del dirigente comunista italiano a Vienna e a Mosca lo avevano certo messo a contatto con l’antisemitismo dell’Europa centrale e orientale, ma non al punto da modificare il suo approccio al problema. In una lettera del  G. sottolinea le figure antinomiche che in Sardegna designavano tradizionalmente l’ebreo, ora il giudeu assassino di Cristo ora il «pietoso Niccodemo» che conforta Maria sotto la croce, ma «al contrario dei cosacchi – scrive G. –, i sardi [...] non distinguono gli ebrei dagli altri uomini» (LC , a Tania,  ottobre ). È rivisitando la storia italiana, anziché riformulando gli scritti canonici del marxismo classico sulla questione ebraica (dal celebre saggio giovanile di Marx ai testi posteriori di Kautsky e dei socialdemocratici russi), che G. si era forgiato una visione del passato e dell’avvenire degli ebrei. Già nel , in un polemico articolo dell’“Avanti!” contro uno dei

portavoce della Lega antitedesca, l’avvocato torinese Cesare Foà, G. respingeva con forza il nazionalismo e la visione della storia in chiave razziale, chiarendo la posizione socialista in materia di antisemitismo: «Noi siamo tutt’altro che antisemiti. Carlo Marx era semita: molti nostri compagni, e fra essi alcuni dei più attivi ed intelligenti, sono semiti. Ma il socialismo ha superato la questione delle razze e dei sangui» (Stenterello risponde,  marzo , in CF ). Nei Q l’assenza di riferimenti di rilievo all’antisemitismo cattolico appare come una sorta di corollario implicito alle ampie riflessioni del filosofo sulla matrice cosmopolita della tradizione cattolica italiana. Alcune manifestazioni eclatanti di pregiudizio antisemita di tipo religioso sono semplicemente ricondotte da G., in perfetta sintonia con la letteratura socialista dell’epoca, alle loro radici socio-economiche: l’ostilità nei confronti di un ceto commerciale che, in talune regioni, è il solo a praticare l’usura. Nel Casalese, nella Lomellina e nell’Alessandrino era diffuso l’antisemitismo perché «gli ebrei sono mercanti di terra e appaiono sempre quando in una famiglia succede una “disgrazia” e occorre vendere o svendere», ma questo tipo di pregiudizio sarebbe esistito anche a Napoli – aggiungeva G. – se gli uffici popolari di pegno fossero stati gestiti da ebrei anziché da fedeli di San Gennaro. In Georgia la stessa furia popolare si dirigeva contro gli armeni, una minoranza che in quella parte dell’Impero zarista svolgeva la stessa funzione degli ebrei in Piemonte o in Europa centrale. Per questo, a suo avviso, gli armeni erano «gli “ebrei” della Georgia» (LC , a Tania,  marzo ).



EBREI

In sintonia con la visione marxista classica della storia, G. vede nell’assimilazione l’inevitabile destino degli ebrei. L’antisemitismo è ai suoi occhi un pregiudizio antico che maschera un arcaismo sociale senza futuro nel mondo moderno. Nei Q il problema dell’assimilazione è affrontato attraverso il commento a un saggio del giovane Arnaldo Momigliano, in realtà una recensione degli Ebrei a Venezia dello storico americano Cecil Roth, la cui traduzione italiana era apparsa a Roma nel . Momigliano notava che il processo di assimilazione degli ebrei italiani era affatto contemporaneo a quello delle diverse popolazioni regionali del paese, dai piemontesi ai siciliani. Vedeva quindi l’assimilazione ebraica come parte della formazione di una coscienza nazionale italiana e non come prodotto dell’integrazione degli ebrei in seno a una comunità nazionale preesistente. Questo fatto, legato al ritardo dell’unificazione nazionale, distingueva l’ebraismo italiano da quello della maggior parte dei paesi europei, in cui gli ebrei erano stati accolti, grazie alle leggi di emancipazione, in seno a nazioni già formate. G. condivideva pienamente questa analisi – del resto coincidente con la sua visione del cosmopolitismo come elemento caratterizzante di tutto il processo di unificazione nazionale italiana –, cogliendovi la spiegazione fondamentale dell’assenza di un forte antisemitismo nella penisola (almeno comparativamente ad altri grandi paesi dell’Europa continentale). Aggiungeva che in Italia la coscienza nazionale era nata dal superamento delle forme specifiche in cui si era manifestato il feudalesimo: «il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico». L’affermazione di uno spirito laico e la lotta contro il cattolicesimo avevano contribuito a nazionalizzare gli ebrei, e ciò significava inevitabilmente il loro «disebreizzarsi» (Q , , ). All’inizio degli anni Trenta questo processo era ormai compiuto. In una lettera a Tatiana del  G. scriveva infatti che «in Italia da parecchio non esiste più antisemitismo» (LC ,  settembre ). Si trattava a suo avviso di una semplice constatazione facile da comprovare. Da un lato la caduta delle mura dei ghetti aveva messo fine all’en-

dogamia ebraica, e i matrimoni con i cristiani erano numerosi non solo fra i ceti popolari ma anche tra gli intellettuali e i membri dell’aristocrazia. Dall’altro gli ebrei italiani avevano raggiunto posizioni di altissimo livello in seno all’apparato statale, al punto che ormai nessuno si stupiva di fronte alla nomina di un generale o di un ministro (e perfino di un capo del governo) di ascendenza israelitica. «In che cosa un ebreo italiano (eccettuata una piccola minoranza di rabbini e di vecchie barbe tradizionaliste) si differenzia da un altro italiano della stessa classe?», si chiedeva G. in forma retorica, dando una risposta ineccepibile sul piano sociologico e culturale: «Si differenzia molto di più da un ebreo polacco o galiziano della stessa classe» (ibid.). Se ancora esistevano alcuni tratti distintivi dell’ebraismo, essi non andavano ricondotti a una supposta essenza “razziale” ma a un lungo passato di oppressione e segregazione, perdurato fino al XIX secolo, quando la Rivoluzione francese e poi le sollevazioni del  avevano generalizzato le leggi emancipatrici. Una volta sfuggito al pregiudizio circostante, l’ebreo aveva rapidamente abbandonato il giudaismo, passando «al deismo puro e semplice o all’ateismo» (LC , a Tania,  ottobre ). Detto in altri termini, l’avvento della modernità coincideva con l’emancipazione e l’assimilazione; gli ebrei non erano portatori di una cultura propria, suscettibile di adattarsi alle condizioni della società moderna, ancor meno di plasmarla o arricchirla, ma potevano sopravvivere soltanto come riflesso dell’arcaismo antisemita. Questa visione dell’ebreo definito esclusivamente attraverso lo sguardo ostile dell’antisemita prefigura la tesi centrale di un noto saggio sartriano del . In buona sostanza, nonostante l’originalità del suo approccio, G. condivideva la tendenza del marxismo dei suoi tempi a vedere nell’antisemitismo soltanto un residuo oscurantista e non una faccia della modernità, come il nazismo e, a partire dal , il fascismo, avrebbero rivelato agli occhi del mondo. ENZO TRAVERSO V. «cosmopolitismo», «due mondi», «fascismo», «razzismo».

ECONOMIA

economia Nei Q, in una prima fase di lavoro, come del resto anche negli anni precedenti, la prima preoccupazione di G. riguarda l’economia non in quanto scienza, ma in quanto sinonimo di struttura economica nel suo rapporto con le superstrutture, con l’obiettivo di contrastare le interpretazioni economicistiche del marxismo, diffuse tanto in ambiente socialista, negli anni torinesi di G., nelle varie combinazioni di marxismo e positivismo, quanto in ambiente comunista, negli anni della prigionia di G., nella forma del condendo marxismo sovietico, di cui la Teoria del materialismo storico di Bucharin offre un esemplare incunabolo. Di fatto, il primo fugace accenno a una riflessione sulla scienza economica in quanto tale compare nei Q solamente nell’ottobre , ovvero più di un anno e mezzo dopo l’inizio del lavoro. Alla fine di un impegnativo testo dedicato proprio ai Rapporti tra struttura e superstrutture (titolo di Q , ), G. osserva che le riflessioni che va facendo sul nesso gnoseologico e non meramente psicologico, tra economia e ideologia, spingono a pensare che «l’apporto massimo di Iliíc [Lenin, ndr] alla filosofia marxista, al materialismo storico, apporto originale e creatore», non sia da considerarsi come meramente politico. Se è vero che vi è un nesso organico tra i vari momenti, allora «Iliíc avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia (cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe fatto progredire anche la filosofia)» (ivi, -). Questo spunto, rivolto prioritariamente alla filosofia, viene ripreso in forma più distesa nel testo seguente. Qui, criticando l’impostazione che Bucharin ha dato alla questione, G. scrive: «Una trattazione sistematica del materialismo storico non può trascurare nessuna delle parti costitutive del marxismo. Ma in che senso ciò deve essere inteso? Essa deve trattare tutta la parte generale filosofica e in più deve essere: una teoria della storia, una teoria della politica, una teoria dell’economia [...] Si dirà, ma il materialismo storico non è specificamente una teoria della storia? È giusto, ma dalla storia appunto non

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possono staccarsi la politica e l’economia, anche nelle fasi specializzate di scienza-arte della politica e di scienza-economica. Cioè: dopo avere 〈svolto il compito principale〉 nella parte filosofica generale, che è il vero e proprio materialismo storico, in cui i concetti generali della storia, della politica e dell’economia si annodano in unità organica, è utile, in un saggio popolare, dare le nozioni generali di ogni parte costitutiva in quanto scienza indipendente e distinta. Ciò vorrebbe dire che dopo aver studiato la filosofia generale [cioè il nesso organico di storia-politica-economica] si studia: come la storia e la politica si riflettano nell’economia, come l’economia e la politica si riflettano nella storia, come la storia e l’economia si riflettano nella politica» (Q , , ). L’origine leniniana di questo spunto viene esplicitata nella seconda stesura del testo, che apertamente si riferisce alla concezione da Lenin esposta nello scritto Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (). Qui G. prende le distanze da questa «concezione molto diffusa» (Q , , ) e intende invece quello tra politica, economia e filosofia come un rapporto di traducibilità reciproca, dove nessuno dei tre momenti ha una superiorità o priorità sugli altri (ma va detto che altrove G. attribuisce questo approccio anche al Lenin inventore della teoria-pratica dell’egemonia: Q , ). La riflessione sull’economia si annuncia dunque nei Q come un’indagine di tipo “filosofico”, volta cioè a conferire un’articolazione reale all’idea di un nuovo e originale marxismo. Questo intreccio tra considerazione di una “scienza” e funzionalità (mediante la traduzione reciproca) all’elaborazione del concetto del marxismo viene confermato da un testo di poco successivo, Q ,  (ottobre-novembre ): «Filosofia-politica-economia. Se si tratta di elementi costitutivi di una stessa concezione del mondo, necessariamente ci deve essere, nei principii teorici, convertibilità da uno all’altro, traduzione reciproca nel proprio specifico linguaggio di ogni parte costitutiva: un elemento è implicito nell’altro e tutti insieme formano un circolo omogeneo» (ivi, ). Infine, nel novembre-dicembre  G. torna un’ultima volta su questo circolo di tradu-

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zione: «Unità negli elementi costitutivi del marxismo. L’unità è data dallo sviluppo dialettico delle contraddizioni tra l’uomo e la materia (natura-forze materiali di produzione). Nell’economia il centro unitario è il valore, ossia il rapporto tra il lavoratore e le forze industriali di produzione (i negatori della teoria del valore cadono nel crasso materialismo volgare ponendo le macchine in sé – come capitale costante o tecnico – come produttrici di valore all’infuori dell’uomo che le conduce). Nella filosofia – la prassi – cioè rapporto tra la volontà umana (superstruttura) e la struttura economica. Nella politica – rapporto tra lo Stato e la società civile – cioè intervento dello Stato (volontà centralizzata) per educare l’educatore, l’ambiente sociale in genere. (Da approfondire e porre in termini più esatti)» (Q , , ). L’approfondimento qui auspicato non avrà luogo e il testo rimarrà in stesura unica. Tuttavia, come vedremo, pur non tornando sull’argomento a questo livello di generalità, nelle note sulla scienza economica e sul suo rapporto con la politica e con la filosofia, G. continuerà a presupporre l’impostazione qui sommariamente delineata. Essa consiste di almeno due elementi fondamentali. Anzitutto il fatto, dovuto precisamente al suo inquadramento nel concetto di traducibilità, che il “discorso” scientifico non trova la sua giustificazione nei formalismi interni o nel metodo utilizzato, ma nella capacità di tradurre un medesimo rapporto fondamentale in vari linguaggi. Così, nel testo da ultimo citato, il concetto di valore, quello di prassi e quello di politica articolano o “dicono” diversamente una stessa realtà, contribuendo, ciascuno col proprio linguaggio, a intenderla come insieme di rapporti attivi, evitando ogni dualismo metafisico, come quello tra macchina e lavoro, tra struttura e superstruttura, tra Stato e società civile (la dialettica a cui qui G. fa riferimento non è pertanto un metodo, ma lo svolgimento coerente e organico della traducibilità dei linguaggi). Da ciò segue il secondo elemento fondamentale, a cui G. fa cenno in un testo dello stesso novembre : la «“primitività” o “irriducibilità” del momento politico o pratico» come peculiarità del marxismo,

grazie alla quale esso «“avanza la pretesa” persino di spiegare la “scienza”, cioè di essere più scienza della “scienza”» (Q , , ). Il marxismo spiega anche la scienza non per il proprio grado di scientificità, ma perché sa intendere correttamente (grazie alla traducibilità dei linguaggi) il carattere ideologico, cioè pratico e politico, di ogni scienza; dove appunto «ideologia = ipotesi scientifica di carattere educativo energetico, verificata [e criticata] dallo sviluppo reale della storia, cioè fatta diventare scienza (ipotesi reale), sistematizzata» (ibid.). In Q ,  (ottobre ) un rapido riferimento a Giovanni Vailati serve a legare la traducibilità al rapporto tra linguaggi scientifici. Alcuni mesi dopo (febbraio ) G. affronta direttamente il tema: «Teoria dei costi comparati [e decrescenti]. Da vedere se questa teoria, che occupa tanto posto nell’economia moderna ufficiale con l’altra dell’equilibrio statico e dinamico, non sia perfettamente aderente [o corrispondente in altro linguaggio] alla teoria marxista del valore [e della caduta del saggio del profitto], non ne sia cioè l’equivalente scientifico in linguaggio ufficiale e “puro” (spogliato di ogni energetica politica per le classi produttrici subalterne)» (Q , , ). Il riferimento ai due concetti di costi comparati e di equilibrio (statico e dinamico), che G. riprende probabilmente da un articolo di Luigi Einaudi, torna in un testo del giugno , dove il rapporto tra formalismo concettuale e prospettiva politica dei due approcci contrapposti viene esplicitato compiutamente: «Dove batte specialmente l’accento nelle ricerche scientifiche dell’economia classica e dove invece in quelle dell’economia critica, e per quali ragioni, cioè in vista di quali fini pratici da raggiungere, o in vista di quali determinati problemi teorici e pratici da risolvere?». Mentre l’economia critica parte dal concetto di «“lavoro socialmente necessario”» e giunge a quello di «valore», perché «praticamente si vuole che il lavoro diventi consapevole [...] del fatto che è specialmente un “insieme” e che come “insieme” determina il processo fondamentale del movimento economico», «l’economia classica» si concentra sulla «teoria dei costi comparati», sull’«equilibrio economi-

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co statico e dinamico», perché le interessa comparare il «lavoro “particolare” cristallizzato nelle varie merci» (Q  II, , -). Così, nel momento in cui «il lavoro è diventato esso stesso gestore dell’economia, anch’esso dovrà, per il suo essere cambiato fondamentalmente di posizione, preoccuparsi delle utilità particolari e delle comparazioni fra queste utilità per trarne iniziative di movimento progressivo» (ivi, ). La superiorità della teoria economica marxista non sta pertanto nel mero fatto di riflettere il punto di vista della classe operaia, ma nella sua capacità di cogliere in ogni momento le potenzialità di azione di questa classe come classe egemonica. Il legame di questo approccio con la teoria della traducibilità è confermato da un testo immediatamente anteriore, Q  II, , in cui, riprendendo il riferimento a Vailati, G. ricorda la prefazione di Engels al terzo volume del Capitale, in cui si afferma la «possibilità di giungere, anche partendo dalla concezione marginalista del valore, alle stesse conseguenze (se pure in forma volgare) di quelle a cui giunse l’economia critica». «L’affermazione di Engels – prosegue – va analizzata in tutte le sue conseguenze», compresa quella per la quale l’economia critica si afferma solo se riesce a dimostrare che i «problemi» che tratta sono gli stessi dell’«economia ortodossa [...] in altro linguaggio» (ivi, -). La superiorità della soluzione “critica” degli stessi problemi non sta, come si è detto, in un suo interno formalismo, ma nella capacità di prospettare, grazie al fatto di assumere il punto di vista operaio, una soluzione ai problemi reali che l’organizzazione capitalistica della produzione e della società ha creato. Il confronto tra linguaggi non è dunque «un semplice gioco di “schematismi” generici» (questa è l’obiezione che G. muove al pragmatismo, cfr. Q , , ), ma un confronto tra “ideologie” contrapposte. Q  II,  si apre difatti con il rinvio alla «polemica Einaudi-Spirito sullo Stato» ospitata nel corso del  dalla rivista “Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica”, che, ricorda G., «è da connettere con la polemica Einaudi-Benini» svoltasi nel  sulla “Riforma sociale”. In entrambe era in questione la

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funzione del diritto e dello Stato come agente economico, come «condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, [...] elemento del mercato determinato, se non [...] addirittura lo stesso mercato determinato, poiché è la stessa espressione politico-giuridica del fatto per cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva, paga per tutto il sistema determinato» (ivi, ). La teoria pura dell’economia non può che ignorare questa “premessa”, ed è su questo punto che il confronto tra economia pura ed economia critica propriamente si svolge. Il concetto di mercato determinato, che G. sviluppa a partire dal marzo , riassume a suo avviso l’apporto più fecondo dell’economia classica alla filosofia marxista, indicando l’insieme delle “premesse” storiche (politiche e giuridiche in primo luogo) che devono darsi, affinché possa presentarsi un automatismo studiabile con leggi di tipo scientifico. La riflessione sull’origine della scienza economica in quanto “scienza” (Q  II, ; Q  II, ; Q  II, ) è un’indagine sulla progressiva affermazione di questo automatismo, coincidente con lo «sviluppo della borghesia come classe “concretamente mondiale”» (Q  II, , ) che, con Marx, G. afferma inseparabile dal suo risvolto ideologico, ricordando il passo del Capitale in cui si parla della «“solidità delle credenze popolari” come elemento necessario di una determinata situazione» (Q , , ). La nozione di «mercato determinato», insieme a quella di «homo oeconomicus» (come condensazione dei comportamenti interni all’automatismo del mercato) e a quella di leggi di tendenza, è stata una scoperta (dovuta a David Ricardo) «di valore anche gnoseologico», che perciò implica «una nuova “immanenza”, una nuova concezione della “necessità” e della libertà ecc.» (Q  II, , ; v. anche LC -, a Tania,  maggio ). Anche la teoria del valore è un apporto ricardiano a Marx (Q ,  e Q  II, , ). Questa affermazione, che G. fa quando intende difendere Marx dall’osservazione di Croce relativa al “paragone ellittico”, non si inquadra perfettamente con la lettura della teoria del valore come approccio a partire

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dal punto di vista del lavoro. E infatti, già in Q , ,  G. nota che la teoria del valorelavoro «il valore polemico, pur senza perdere la sua obbiettività, lo acquista col Marx» (la tesi è ribadita nella seconda stesura: Q  II, .VI, ). Il fatto è che G. a volte identifica, a volte differenzia approccio classico e neoclassico. Sviluppando la traccia ricardiana, egli giunge nel Q  a separare nettamente le due scuole, in particolare tornando a più riprese sulla nozione di «homo oeconomicus» e sulla differenza tra astrazione determinata e “generizzazione”. In questo modo giunge anche a definirsi la differenza tra “scienza economica” e sua “critica”, che G. denomina solitamente “economia critica”. La seconda non è propriamente una scienza, che si ha solo una volta che esista una “regolarità”. Essa «parte dal concetto della storicità del “mercato determinato” e del suo “automatismo” mentre gli economisti puri concepiscono questi elementi come “eterni”, “naturali”; la critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all’apparire di nuovi elementi e al loro rafforzarsi e presenta la “caducità” e la “sostituibilità” della scienza criticata; la studia come vita ma anche come morte e trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente, e presenta l’“erede” che sarà presuntivo finché non avrà dato prove manifeste di vitalità ecc.» (Q , , ). Questo esercizio di critica è possibile solo, come si è visto, mostrando a ogni passo che i “problemi” reali a cui economia ed economia critica rispondono sono gli stessi. Ed è proprio questo aspetto che manca in un testo come il Précis d’économie politique di Lapidus e Ostrovitianov, un manuale sovietico di economia rispetto a cui G. manifesta una profonda insoddisfazione (Q  II, ,  e Q , , -). BIBLIOGRAFIA: BADALONI ; CALABI . FABIO FROSINI V. «caduta tendenziale del saggio di profitto», «capitalismo», «Engels», «homo oeconomicus», «leggi di tendenza», «Marx», «mercato determinato», «Ricardo», «struttura», «traducibilità».

economia diretta: v. economia programmatica. economia programmatica L’espressione «economia programmatica» compare nei Q solo nel febbraio . Se ne può però ricostruire la storia anteriore, considerando la serie di espressioni «economia secondo un piano», «economia diretta» ed «economia regolata». Il tratto da tutte condiviso è il fatto di designare dei fenomeni, anche di opposta matrice politica, convergenti nell’esigenza di superare l’economia individualistica dinanzi al contrasto dato dal fatto «che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del “nazionalismo”» (Q , , ). Così, il corporativismo integrale di Ugo Spirito, con la sua «rivendicazione di una “economia secondo un piano” e non solo nel terreno nazionale, ma su scala mondiale, è interessante di per sé [...]; è l’espressione ancora “utopistica” di condizioni in via di sviluppo che, esse, rivendicano l’“economia secondo un piano”» (Q , , ). G. non ritiene ovviamente che il fascismo possa essere gestore di un’economia secondo un piano nel senso di un superamento del «classismo» (Q , , ), ma crede di poter ipotizzare che esso possa essere una «“rivoluzione passiva”», cioè una trasformazione della «struttura economica “riformisticamente” da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta)», con «l’avvento di una “economia media” tra quella individualistica pura e quella secondo un piano in senso integrale [...] Il “corporativismo” potrebbe essere o diventare, sviluppandosi, questa forma economica media di carattere “passivo”» (Q , , ). Questa ipotesi è pienamente ripresa in sede di scrittura del Q : «l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individuali-

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smo economico all’economia programmatica» (Q , , ). FABIO FROSINI V. «americanismo e fordismo», «corporativismo», «fascismo», «individualismo», «liberismo», «rivoluzione passiva», «Spirito».

economia regolata: v. economia programmatica. economia secondo un piano: v. economia programmatica. economicismo: v. economismo. economico-corporativo Sebbene la prima occorrenza sia in Q , , il concetto appare implicito sin dal Q , in una serie di usi dell’aggettivo «“corporativo”», posto tra virgolette a indicarne la peculiarità rispetto sia all’accezione corrente, sia a quella connessa al dibattito sul corporativismo fascista, cui pure nei Q è dedicato ampio spazio. Così, già in Q , ,  si legge che «lo sviluppo degli avvenimenti francesi» nel corso della rivoluzione «mostra lo sviluppo politico» della borghesia, «che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti fisici attuali, i suoi interessi “corporativi” immediati (corporativi in un senso speciale, di immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale) [corsivo mio, a evidenziare una definizione che finisce per coincidere con ciò che in seguito G. dirà «economico-corporativo», ndr] [...] Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri “corporativi” e diventa classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l’attività politica dei giacobini». Il passo mostra già la fondamentale contrapposizione tra quella che successivamente verrà definita «fase economico-corporativa» e la fase egemonica nello sviluppo storico di una classe nonché, con significativo spostamento d’accento rispetto agli scritti precarcerari, la valutazione positiva del movimento giacobino come di quella forza capace di imprimere alla borghesia la spinta necessaria a determinare il passaggio dalla

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prima alla seconda. Analogamente, in Q , , - si legge che la concezione hegeliana «dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello “corporativo” (politica innestata nell’economia)» (corsivo mio, a evidenziare un’altra possibile definizione del concetto). Il passaggio dalla formulazione implicita a quella esplicita del lemma avviene nel cruciale Q , , nota intitolata Rapporti tra struttura e superstrutture, laddove G. esamina i diversi «momenti o gradi» in cui si articola il «“rapporto delle forze”», finendo per identificarne «tre fondamentali: °) c’è un rapporto delle forze sociali strettamente legato alla struttura; [...] °) un momento successivo è il “rapporto delle forze” politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità e di autocoscienza raggiunto dai vari raggruppamenti sociali [...] °) il terzo momento è quello del “rapporto delle forze militari” che è quello immediatamente decisivo volta per volta». Il secondo grado «a sua volta può essere scisso in diversi momenti, che corrispondono ai diversi gradi della coscienza politica, così come si sono finora manifestati nella storia. Il primo momento, il più elementare, è quello economico primitivo [nel Testo C di Q , , : «economico-corporativo», ndr]: un commerciante sente di essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; si sente cioè l’unità omogenea del gruppo professionale, ma non ancora del raggruppamento sociale. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà d’interessi tra tutti i membri del raggruppamento sociale, ma ancora nel campo puramente economico [...] Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i proprii interessi “corporativi”, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia “corporativa”, di raggruppamento economico cioè, e possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente

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“politica” che segna il netto passaggio dalla pura struttura alle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area, determinando oltre che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e morale, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia [...] in cui gli interessi del gruppo fondamentale prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè almeno fino all’egoismo economico-corporativo» (ivi, -). G. pertanto critica il sindacalismo rivoluzionario «in quanto esso si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale con questa teorica si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia», che invece «presuppone che si tenga conto degli interessi e delle tendenze dei raggruppamenti su cui l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio, che cioè il raggruppamento egemone faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo» (ivi, -). E ancora, in Q , , : «alla fase corporativa [nel Testo C di Q , , : «economico-corporativa», ndr], alla fase di egemonia nella società civile (o di lotta per l’egemonia), alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate, che non si possono arbitrariamente improvvisare». Nei quaderni successivi il lemma così delineato viene ampiamente utilizzato in sede sia di ricostruzione storica, sia di analisi politica, conoscendo anche varianti terminologiche come «fase corporativa-economica» (Q , , -) o «fasi “corporativo-economiche”» (Q , , ); in altre occorrenze i due termini dell’espressione vengono disgiunti, come in Q , ,  a proposito del «corporativismo o gretto economismo» dei partiti, senza che questo comporti un significativo scostamento semantico. Per quanto riguarda il primo ambito di applicazione, lo ritroviamo a partire da Q , ,  nell’analisi della storia d’Italia dopo il Mille, in cui «i Comuni non seppero uscire dalla fase corporativa, l’anarchia feudale ebbe il soprav-

vento in forme appropriate alla nuova situazione e ci fu poi la dominazione straniera». Nel successivo Q , ,  G. osserva che «si potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo». In questa accezione l’espressione in questione compare come titolo di rubrica a partire da Q ,  (I comuni medioevali come fase economica-corporativa dello sviluppo moderno), in diverse note del Q  e in alcune della sezione miscellanea del Q , ma in particolare nell’elenco di «saggi principali» che la precede (ivi, p. ). Il prosieguo dell’analisi mostra a G. che si tratta di un fenomeno di lunga durata della storia italiana, tanto che «nel Risorgimento si ebbe l’ultimo riflesso della “tendenza storica” della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del “corporativismo”: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in essi – Gioberti – appare il carattere universalistico-papale degli intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i cavouriani (o economisti-pratici, ma al modo dell’uomo del Guicciardini, cioè rivolti solo al loro “particulare”: da ciò il carattere della monarchia italiana). Ma le tracce dell’universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e determinano il suo fallimento politico» (Q , , -). Anzi «si potrebbe già dire, così all’ingrosso, che già oggi si verifica nel mondo moderno un fenomeno simile a quello del distacco tra “spirituale” e “temporale” nel Medio Evo: fenomeno molto più complesso di quello d’allora, di quanto è diventata più complessa la vita moderna. I raggruppamenti sociali regressivi e conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economica-corporativa, mentre i raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economica-corporativa; gli intellettuali tradizionali,

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staccandosi dal raggruppamento sociale al quale avevano dato finora la forma più alta e comprensiva e quindi la coscienza più vasta e perfetta dello Stato moderno, in realtà compiono un atto di incalcolabile portata storica: segnano e sanzionano la crisi statale nella sua forma decisiva». In tale prospettiva «è da vedere in quanto l’“attualismo” di Gentile corrisponde alla fase statale positiva, a cui invece fa opposizione il Croce», che «vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura; i grandi intellettuali esercitano l’egemonia, che presuppone una certa collaborazione, cioè un consenso attivo e volontario (libero), cioè un regime liberale-democratico. Il Gentile pone la fase corporativo[-economica] come fase etica nell’atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, [...] esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato-governo, ecc.» (Q , , -). In definitiva la sua filosofia è «strettamente legata al momento economico-corporativo», anzi «alla fase dell’espressione tecnica diretta di questo momento» (Q , , ). La conclusione è che «tutta la storia dal  in poi è lo sforzo delle classi tradizionali per non lasciar formare una volontà nazionale, ma per mantenere il potere “economico-corporativo” in un sistema internazionale di equilibrio rimorchiato ecc.» (Q , , ). La questione è a sua volta legata a «quel carattere del popolo italiano che si può chiamare “apoliticismo”. Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire “corporativo”, economico, di categoria» (Q , , -). L’uso del lemma non è tuttavia limitato alla storia politica italiana, ma assume carattere più generale a partire da Q , , , Passato e presente, in cui si legge che, se «le classi dominanti di una nazione non sono riuscite a superare la fase economica-corporativa che le porta a sfruttare le masse popolari fino all’estremo consentito dalle condizioni di forza, cioè a ridurle solo alla vegetatività biologica, è evidente che non si può parlare di potenza dello Stato, ma solo di mascheratura di potenza». In particolare

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il discorso si applica alle altre due fondamentali realtà su cui si concentra l’analisi critica dei Q, vale a dire gli Stati Uniti e l’URSS staliniana. Per quanto riguarda i primi, G. muove dalla considerazione che «l’America non ha ancora superato la fase economica-corporativa, attraversata dagli Europei nel Medio Evo, cioè non ha ancora creato una concezione del mondo e un gruppo di grandi intellettuali che dirigano il popolo nell’ambito della società civile: in questo senso è vero che l’America è sotto l’influsso Europeo, della storia europea» (Q , , ; v. anche Q , ). In Q , ,  ipotizza «che la fase economico-corporativa della storia americana è in crisi e si sta per entrare in una nuova fase: ciò apparirà chiaramente solo se si verifica una crisi dei partiti storici (repubblicano e democratico) e la creazione di qualche potente nuovo partito che organizzi permanentemente la massa dell’Uomo Comune. I germi di tale sviluppo esistevano già (partito progressista), ma la struttura economico-corporativa ha finora sempre reagito efficacemente contro di essi». In Q , ,  sostiene invece che il «regime presidenziale americano (Stati Uniti d’America), con la sua unità tra capo del governo e capo dello Stato [...] è simile al regime delle repubbliche comunali medioevali italiane (fase economico-corporativa dello Stato)». Per quanto riguarda l’URSS, G. osserva in Q , , : «nei nuovi sviluppi del materialismo storico, l’approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: ancora ci sono dei residui di meccanicismo», il che significa che si trova ancora nella «fase economico-corporativa, in cui si trasforma il quadro generale della “struttura”» e, come aggiunge nel Testo C di Q , , , «la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata». Così si legge infatti in Q , , : «Fase economica-corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico-corporativa, se ne deduce che il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di

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Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione. Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi “di piano” ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: la linee della costruzione saranno ancora “grandi linee”, abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione»: è ciò che accade «quando il processo è normale, non violento, quando tra struttura e superstrutture c’è omogeneità e lo Stato ha superato la sua fase economicocorporativa» (Q  II, .X, con innovazione rispetto al Testo A di Q , ). Il concetto viene ulteriormente sviluppato in Q , , , dove a G. preme «mostrare che tra il vecchio assolutismo rovesciato dai regimi costituzionali e il nuovo assolutismo c’è differenza essenziale, per cui non si può parlare di un regresso [...] Teoricamente mi pare si possa spiegare il fenomeno nel concetto di “egemonia”, con un ritorno al “corporativismo”, ma non nel senso “antico regime”, nel senso moderno della parola, quando la “corporazione” non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di “funzione sociale”, senza restrizione ereditaria o d’altro». Il lemma viene applicato da G. anche all’ambito più specificamente culturale, sul presupposto, esplicitato in Q , , -, sviluppando uno spunto del Testo A di Q , , di un’«analogia e connessione collo sviluppo dello Stato, che dalla fase “economico-corporativa” passa alla fase “egemonica” (di consenso [attivo]). Si può dire cioè che ogni cultura ha il suo momento speculativo o religioso, che coincide col periodo di completa egemonia del gruppo sociale che esprime e forse coincide proprio col momento in cui l’egemonia reale si disgrega alla base, molecolarmente, ma il sistema di pensiero, appunto perciò (per reagire alla disgregazione) si perfeziona dogmaticamente», divenendo «raffinato e altamente “speculati-

vo”». Così, in una serie di note dedicate a I nipotini di padre Bresciani, G. osserva che l’«antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha altro significato che di opposizione al movimento popolare-nazionale, cioè è spirito “economico-corporativo”, “privilegiato”, di casta e non di classe, di carattere politico-medioevale e non moderno» (Q , , ). Il problema è a sua volta legato alla questione della lingua, dal momento che «se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo. Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi o economistici, non universali» (Q , , ). BIBLIOGRAFIA: DE GIOVANNI . GIUSEPPE COSPITO V. «americanismo», «brescianesimo», «borghesia comunale», «Comuni medievali», «concezione del mondo», «corporativismo», «egemonia», «etico-politico», «giacobinismo», «Gioberti», «Mazzini», «nazionale-popolare», «Risorgimento», «struttura-superstrutture», «URSS».

economismo La riflessione sull’economismo si svolge nei Q quasi subito su un duplice registro: come sinonimo di sindacalismo, in riferimento al mondo politico francese della fine del secolo XIX, e come tacito riferimento a una serie di aporie pratiche presenti nel movimento comunista e socialista. Nel Q , dopo aver riflettuto sul «giacobinismo a rovescio», cioè meramente verbale, di Charles Maurras e della Action française (Q , ), G. collega questa impostazione al «“centralismo organico”» bordighiano (Q , ), quindi si sofferma sulle analogie con il sindacalismo: «Nella concezione di Maurras ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche for-

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mali di certo sindacalismo o economismo» (Q , , ). Si tratta sempre della «trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale», come accade anche per l’«astensionismo politico in generale, non solo parlamentare» (torna il riferimento tacito a Bordiga). In tutti questi casi il presupposto è che «meccanicamente avverrà il crollo dell’avversario», senza la necessità di un’azione politica organizzata (ibid.): dunque una concezione negativa (sia nel senso morale, sia nel senso logico: privativa) della politica. In Francia, il fenomeno sindacalista è «l’espressione» del fatto che, con la catastrofe della Comune e l’eliminazione fisica dei suoi protagonisti, «Parigi perde la sua unità rivoluzionaria»: «l’astensionismo elettorale e l’economismo puro sono l’apparenza “intransigente” di questa abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono cioè anch’essi piatto opportunismo, il postumo del salasso del » (Q , , ). La diffidenza verso la politica “politicante” è il risvolto dello stato di prostrazione politica delle classi subalterne, classi che il sindacalismo intende rappresentare. Economismo e sindacalismo sono pertanto in questo senso coincidenti. Il discorso si fa più complesso quando, riflettendo sui «Rapporti tra struttura e superstrutture» (titolo di Q , ), G. riformula tutta la questione dell’economismo in riferimento al modo di porre tale rapporto. La via da lui imboccata lo conduce a ripensare il nesso di determinazione della struttura sulle superstrutture come mediazione dialettica tra momenti o aspetti “permanenti” e momenti o aspetti “occasionali” (la ripresa della terminologia machiavelliana è evidente). L’economismo ricompare qui allora come figura di un approccio storiografico: «L’errore in cui si cade spesso nella analisi storica consiste nel non saper trovare il rapporto tra il “permanente” e “l’occasionale”, cadendo così o nell’esposizione di cause remote come se fossero quelle immediate, o nell’affermazione che le cause immediate sono le sole cause efficienti. Da un lato si ha l’eccesso di “economismo”, dall’altro l’eccesso di “ideologismo”; da una parte si so-

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pravalutano le cause meccaniche, dall’altra l’elemento “volontario” e individuale. Il nesso dialettico tra i due ordini di ricerche non viene stabilito esattamente» (ivi, ). Ma subito G. individua il rapporto tra questo piano analitico e l’aspetto politico-strategico, recuperando così anche la precedente accezione di economismo: «Naturalmente se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nella pubblicistica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire» (ibid.). Per opporsi a queste due facce della medesima mancanza di dialettica occorre mostrare in concreto come si debba condurre un’analisi dialettica della storia, e quindi della politica attuale. G. prende le mosse dall’assunto che «la mediazione dialettica tra i due principii del materialismo storico riportati in principio di questa nota è il concetto di rivoluzione permanente» (ivi, -). I due principii sono quelli contenuti nella Prefazione del ’, l’approccio dialettico alla storia e alla politica consiste nello sviluppo della nozione di “rapporti di forze”. Solo dopo aver svolto ampiamente questo concetto (G. ricorda più avanti che esso trae origine dalla Miseria della Filosofia: ivi, -), G. torna a discutere dell’economismo. Questo è ormai una categoria generale, che comprende «tanto il movimento teorico del libero scambio come il sindacalismo teorico». La notevole diversità di significato di «queste due tendenze» (ivi, ) non sta nella loro impostazione teorica, identica, ma nella funzione politica che svolgono. Il liberismo è infatti un’ideologia «di un raggruppamento dominante», il sindacalismo teorico «di un raggruppamento subalterno» (ibid.). La rinuncia a pensare il carattere efficiente della politica e l’unità di economia e politica, il valore dell’organizzazione ecc. significa nel caso del liberismo che esso può al massimo favorire la «rotazione al potere governativo di una frazione invece che di un’altra del raggruppamento dominante», e non invece la «fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile» (ivi, -). Ma, riferendosi a una classe già al potere, non in-

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fluisce negativamente sulla questione della sua capacità di essere «dirigente». Al contrario, il sindacalismo inibisce qualsiasi capacità «di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica» (ivi, ). «Nel caso del sindacalismo teorico [...] la indipendenza e l’autonomia del raggruppamento subalterno che si dice di esprimere, è invece sacrificata all’egemonia intellettuale del raggruppamento dominante, poiché il sindacalismo teorico è un aspetto del liberismo economico giustificato con alcune affermazioni del materialismo storico» (ivi, ). Questa incapacità di pensare «la trasformazione del raggruppamento subordinato in dominante» può nascere o dal fatto che non ci si pone «affatto il problema (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo)», o perché «lo si pone in forma incongrua e inefficiente (socialdemocrazia)», o perché «si afferma il salto immediato dal regime dei raggruppamenti a quello della perfetta eguaglianza (sindacalismo teorico in senso stretto)» (ibid.). La diversità, data dal crescente radicalismo politico, non cambia la sostanza del problema, che sta in una drammatica incapacità di porre la questione della politica nel terreno dell’egemonia. G. prosegue infatti notando che «è per lo meno strano l’atteggiamento dell’economismo verso la volontà, l’azione e l’iniziativa politica, come se esse non fossero espressione dell’economia e anzi l’espressione efficiente dell’economia». Nel Testo C, in modo ancora più forte, scrive: «come se queste non fossero una emanazione organica di necessità economiche e anzi la sola espressione efficiente dell’economia» (Q , , ). Questo giudizio va letto alla luce della riformulazione, avviata in questo stesso testo, dell’analisi storica marxista in termini di “rivoluzione permanente” attraverso il ricorso ai rapporti di forze. Da questa prospettiva, ogni ricorso all’economia come tale è da respingere, essendo questa un’astrazione non dialettica. Concretamente, l’economia esiste nel complesso di rapporti sociali, non solamente economici, che trovano in ogni caso

nell’agire politico il momento dell’efficacia, cioè della produttività storica di nuovi ordinamenti, realizzando concretamente quel passaggio da un modo di produzione a un altro, di cui parla Marx nella Prefazione del ’. Di conseguenza, solo impostando l’analisi sul terreno dell’egemonia, cioè della conquista di una visione nella quale economia e politica sono sempre unite, sarà possibile favorire politicamente l’uscita dei gruppi sociali subalterni dallo stato di prostrazione e mancanza di iniziativa nel quale si trovano di fatto: quindi «è strano che impostare concretamente la quistione dell’egemonia sia interpretato come fatto che subordina il raggruppamento egemone» (Q , , ). A questa altezza, anche il fenomeno Bordiga rientra nella tipologia generale dell’economismo: «appartengono all’economismo tutte le forme di astensionismo elettorale [...] Non sempre l’economismo è contrario all’azione [politica] e al partito politico, che viene però considerato come organismo educativo di tipo sindacale. La così detta “intransigenza” è una forma di economismo: così la “formula tanto peggio tanto meglio” ecc.» (ibid.). A questo punto G. recupera uno spunto annotato con differente intenzione in Q , , , relativo al cosiddetto “economismo storico” patrocinato da Achille Loria. Anche questa dottrina rientra ora nel concetto di economismo, anzi «si può dire che il materialismo storico che io ritengo più diffuso di quanto si creda, è d’interpretazione loriana e non è l’originale marxista» (Q , , ). Con la mediazione dell’economismo storico loriano può finalmente rientrare nell’analisi tutto quel materialismo storico che riduce «lo svolgimento economico [...] ai cangiamenti degli strumenti tecnici» (ibid.), perdendo di vista la straordinaria ricchezza che il concetto di “forze produttive” ha in Marx, che, ricorda G., «parla sempre di “forze materiali di produzione” in generale e in queste forze include anche la “forza fisica” degli uomini» (ibid.) (qui G. sta riprendendo, senza nominarla apertamente, la propria critica al concetto di “strumento tecnico” in Bucharin: v. Q ,  e Q , ). Vi rientra inoltre quel materialismo che riduce

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il mutamento storico ai «mutamenti di un qualche fattore importante della produzione» (Q , , ), cadendo in una forma di causalismo infantile, proprio di chi intende individuare una causa ultima e definitiva, e soprattutto immediata, a una trasformazione complessa e graduale (anche qui il riferimento è a Bucharin: Q , , ). Se dunque l’economismo storico di Loria serve a spiegare una certa corrente deteriore del materialismo storico attuale, per i ragionamenti fatti in precedenza vi sarà un risvolto immediatamente politico di esso, un modo di pensare la politica al di qua dell’egemonia. «Degenerato in economismo storico, il materialismo storico perde una gran parte della sua espansività culturale tra le persone intelligenti, per quanta ne acquista tra gli intellettuali pigri, tra quelli che vogliono apparire sempre furbissimi», in quanto «la politica e quindi tutta la storia» è ridotta a «un gioco di illusionismi [...] Tutta l’attività culturale è ridotta così a “svelare” trucchi» (Q , , ). Il presupposto è che la politica in quanto tale sia illusione e trucco. «Perciò occorre combattere contro l’economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la reazione deve essere condotta sul terreno del concetto di egemonia» (ivi, ). A questo testo, scorporato in seconda stesura in Q ,  e Q ,  (quest’ultimo dedicato ad Alcuni aspetti teorici e pratici dell’economismo), G. consegna l’essenziale della riflessione sul tema. I passaggi successivi o riprendono singoli aspetti con maggiore diffusione, o sviluppano per antitesi la concezione dialettica. Così, in una variante instaurativa G. fa riferimento a una debolezza logica dell’economismo storico: «essendo o presumendo di essere anche l’“economismo” un canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico)» anche per esso dovrebbe valere lo stesso criterio di «ricerca nel senso degli interessi immediati» che viene applicato agli avversari (Q , , ), finendo così il criterio stesso per autoannullarsi. La via d’uscita sta appunto in una diversa comprensione del concetto di “interesse” (e dunque di “politica”). Aggiunge infatti G.: «Si è dimenticato inoltre un’altra pro-

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posizione della filosofia della praxis: quella che le “credenze popolari” o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali» (ibid.). Altrove G. si sofferma sulla tesi per cui «in Italia gran parte di ciò che si chiama materialismo storico non sia altro che lorianismo» (Q , , ) e finisce per ipotizzare che la stessa lettura crociana del materialismo storico come «canone pratico di interpretazione storica» non sia altro che una lettura di tipo “loriano” (Q , , , Testo A, e Q  I, , , Testo C). Il riferimento a Bordiga viene invece esplicitato in Q , , , dove si ricorda la «polemica, prima del , tra Tasca e Amadeo [...] Si dice spesso che l’estremismo “economista” era giustificato dall’opportunismo culturalista [...], ma non si potrebbe anche dire [...] che l’opportunismo culturalista era giustificato dall’estremismo economicistico? In realtà né l’uno né l’altro erano “giustificabili” e sono mai da giustificare. Saranno da “spiegare” realisticamente come i due aspetti della stessa immaturità e dello stesso primitivismo». Il tema è ripreso in Q , , : «Altro elemento da aggiungere al paragrafo sull’economismo è questo: come esemplificazione della così detta intransigenza, l’avversione [rigida] di principio al compromesso con la sua manifestazione subordinata della “paura dei pericoli”. L’avversione al compromesso è strettamente legata all’economismo, in quanto la concezione su cui si basa questa avversione non può essere che un fatale verificarsi di certe situazioni favorevoli senza bisogno di “prepararle” con iniziative volontarie e predisposte secondo un piano; c’è inoltre l’elemento di affidarsi ciecamente e scriteriatamente alla virtù delle armi». Questa critica ricorda, anche se su ben altro livello, quella al «pregiudizio “economistico”» di Rosa Luxemburg: «L’elemento economico immediato (crisi ecc.) è considerato come l’artiglieria campale nella guerra il cui ufficio era quello di aprire un varco nella difesa nemica, sufficiente perché le proprie truppe vi facessero irruzione e ottenessero un successo strategico definitivo o almeno nella linea necessaria del successo definitivo [...] Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l’aggravante

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che gli effetti ne erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio: perciò era un vero e proprio misticismo storico, l’aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa» (Q , , ). L’economismo è ricordato un’ultima volta in Q , , , dedicato a «Filosofia della prassi ed “economismo storico”». Una volta stabilita la radicale diversità, si può tornare a individuare una qualche utilità dell’economismo storico, se si è consapevoli del fatto che le “cause” da esso indicate sono, come si stabilisce già in Q , , dell’ordine dell’“occasionale” e non del “permanente”: «Che un gruppo di finanzieri, che hanno interessi in un paese determinato possano guidare la politica di questo paese, attirarvi la guerra o allontanarla da esso, è indubitabile: ma l’accertamento di questo atto [...] è l’affermazione che “immediatamente”, come “occasione”, i fatti sono stati influenzati da determinati interessi di gruppo ecc.». Il “permanente” può invece essere attinto solo da una filosofia, cioè da un discorso capace di mediare dialetticamente la struttura e gli eventi mutevoli, il concetto e l’individuo: «Si può dire che il fattore economico (inteso nel senso immediato e giudaico dell’economismo storico) non è che uno dei tanti modi con cui si presenta il più profondo processo storico (fattore di razza, religione ecc.) ma è questo più profondo processo che la filosofia della prassi vuole spiegare ed appunto perciò è una filosofia, una “antropologia”, e non un semplice canone di ricerca storica» (ibid.). BIBLIOGRAFIA: HIRSCHFELD ; LOSURDO  e a. FABIO FROSINI V. «Bordiga», «Bucharin», «catastrofe, catastrofico», «determinismo», «liberismo», «libero scambio», «Loria», «Luxemburg», «Prefazione del ’», «sindacalismo teorico».

educazione G. inizia a svolgere la sua riflessione in ordine al problema dell’educazione a partire dai problemi impostati nel Q , ma soprattutto sono le corrispondenze epistolari con i familiari a fornirgli il materiale pedagogico

su cui sviluppare le sue argomentazioni. Le LC spesso contengono il primo spunto e la prima stesura di pensieri che ricompariranno in forma più distesa e meditata nei Q. In esse il ragionamento verte sin dagli inizi sull’utilità o meno della coercizione. Nel  G. scrive alla moglie Giulia, parlando dell’educazione del figlio Delio, di credere che coi bambini «finché la personalità sia giunta a un certo grado di sviluppo, un po’ di pedanteria sia necessaria e indispensabile» (LC -,  luglio ). Nello stesso anno, scrivendo al fratello Carlo dell’educazione della nipote Mea, G. esprime una concezione della vita e dell’educazione – in accordo con le marxiane Tesi su Feuerbach – viste come «lotta per adattarci all’ambiente ma anche e specialmente per dominarlo e non lasciarcene schiacciare»; in conseguenza di ciò, G. pensa che, se nel rapporto educativo si rinuncia a «intervenire [...] usando dell’autorità che viene dall’affetto e dalla convivenza famigliare facendo pressione su di lei in modo affettuoso ed amorevole ma tuttavia rigido e fermo inflessibilmente, avverrà senza alcun dubbio che la formazione spirituale [...] sarà il risultato meccanico dell’influsso casuale di tutti gli stimoli di quest’ambiente» (LC -,  agosto ). La riflessione in merito alla necessità di far uso della direzione si specifica anche tramite la riflessione sul tecnicizzarsi della vita moderna, attraverso la quale G. stabilisce la necessaria complementarità nel rapporto educativo tra formazione umanistica e moderna formazione meccanico-matematica di tipo americano. In una lettera del  aprile  infatti scrive: «il principio del Meccano è certamente ottimo, per i bambini moderni» (LC , a Tania). Se però nella lettera alla moglie del  gennaio  – dove chiedendo informazioni «sul come Delio interpreta il Meccano» G. è ancora indeciso «se il meccano, togliendo al bambino il suo proprio spirito inventivo» possa limitarne la fantasia, come in genere fa la cultura moderna di «tipo americano, della quale il meccano [...] è espressione» (LC ) – si nota ancora una certa oscillazione tra due visioni educative distinte, il macchinismo e il robinsonismo, questa indecisione viene definitivamente ri-

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solta già a partire dal , quando in una lettera alla moglie scrive che il tipo di bambino che anche lui era stato nella Sardegna di inizio secolo, tutto fantasia, non può più esserci nella società industrializzata contemporanea, nella quale ormai «la radio e l’aeroplano hanno distrutto per sempre il Robinsonismo» (LC , ° luglio , a Giulia). Emerge qui la questione dello spontaneismo, da G. avversato; l’accettazione dei presupposti dell’attivismo pedagogico, di derivazione idealistica, fondato sulla rivendicazione dello sviluppo libero e autonomo delle facoltà del fanciullo, considerato giusto quando si rivolge contro il nozionismo e l’autoritarismo, diviene pericoloso quando si traduce nell’“idoleggiamento” della spontaneità del fanciullo; questa posizione corrisponde alla concezione metafisica che G. riscontra nell’impostazione pedagogica di tutta la famiglia della moglie Giulia, che presuppone «che nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, senza coercizioni» (LC , a Giulia,  dicembre ). A questo modo di concepire l’educazione G. oppone una concezione dell’uomo come «formazione storica ottenuta con la coercizione (intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna)»; diversamente si cadrebbe in una forma di «trascendenza o di immanenza» (ibid.). In tal modo egli respinge anche tutta una tradizione educativa di stampo illuminista che considera l’insegnamento un processo teso allo «sgomitolamento» di presunte qualità innate nella coscienza del fanciullo, come sottolinea in una nota del Q , dove scrive: «La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau»; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia «connessa 〈a〉 una serie di regole empiriche». Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono «una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei Gesuiti e in quanto tale rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo-Radice)». La “spontaneità” è

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una di queste involuzioni: «si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo “attuale” alla sua epoca» (Q , , ). Nei Q la questione dell’educazione viene allargata al tema dell’egemonia e al ruolo di mediazione fondamentale svolto dagli intellettuali. La questione pedagogico-educativa appare sin dal Q  come parte del più vasto discorso sulla formazione e il ruolo degli intellettuali nella storia italiana del secolo XIX. In Q ,  G. distingue i due modi in cui una classe attua la sua supremazia: come dominio sui gruppi avversari o come direzione intellettuale e morale sui gruppi affini e alleati; in questo quadro, non esistono intellettuali come classe autonoma e indipendente, ma come ceto che ogni classe fondamentale elabora in quanto suo strumento specifico. Nella storia degli intellettuali italiani nell’Ottocento G. analizza i motivi della supremazia dei moderati sugli altri gruppi e la loro capacità di direzione delle masse popolari e conduce il discorso direttamente sulla questione educativa. Come scrive in Q , , ampliando le considerazioni già svolte nella nota in prima stesura del Q , la questione della scuola, e nel complesso la strategia educativa, risultarono fondamentali per i moderati nel momento di conquistare l’egemonia; di qui l’«attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi, ecc.)». I moderati cioè seppero imporre nel Risorgimento la propria supremazia anche sulle funzioni educative, elaborando il principio pedagogico fondato sull’idea di lasciare libere di svilupparsi le forze psichiche del fanciullo (recuperando così gli elementi della pedagogia di Rousseau) per contrastare l’egemonia gesuitica sull’educazione. «Nei moderati» in questo modo si affermava «il solo movimento pedagogico concreto opposto alla scuola “gesuitica”» e «ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria persona-

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lità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio)» (ivi, ). A questo punto l’analisi sulla funzione degli intellettuali si intreccia con la polemica di G. verso i contenuti pedagogici dell’ideologia liberale: lo spontaneismo e il libertarismo da essa professati vengono giudicati illusori in quanto non esiste alcun rapporto che non contempli il principio della direzione; soprattutto «ogni generazione educa la nuova generazione» e ciò indica una permanenza del rapporto educativo, e qualora vi fosse conflitto o discordia si tratterebbe di «fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento» (Q , , -). In tal modo G. mette in discussione l’assunto della pedagogia idealista che «l’istruzione non sia anche educazione»; infatti «perché l’istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, un “meccanico recipiente” di nozioni astratte, ciò che è assurdo e del resto viene “astrattamente” negato dai sostenitori della pura educatività appunto contro la mera istruzione meccanicistica». La coscienza individuale della stragrande maggioranza dei fanciulli riflette per la maggior parte rapporti civili e culturali «diversi e antagonistici con quelli che sono rappresentati dai programmi scolastici: il “certo” di una cultura progredita, diventa “vero” nei quadri di una cultura fossilizzata e anacronistica, non c’è unità tra scuola e vita, e perciò non c’è unità tra istruzione e educazione» (Q , , -). In sostanza, l’ideologia liberale (libertaria), facendo appello al principio dell’autodidatticismo, secondo il quale «l’educazione è autonomia e non impressione dal di fuori», di fatto mascherava un’ideologia antistorica retriva, che forma «persone “anacronistiche” che pensano con modi antiquati e superati e questi tramandano “vischiosamente”» (Q , , -); in base ad essa si sostiene la non necessità di organizzare luoghi e modi della diffusione culturale, negando di fatto «ai poveri il tempo da dedicare allo studio, unendo allo scorno la beffa, cioè la dimo-

strazione teorica che se non sono dotti la colpa è loro» (ivi, ). Posto invece che ai fini del corretto svolgimento del processo educativo sia «necessario un apparato di cultura, attraverso cui la generazione anziana trasmette alla generazione giovane tutta l’esperienza del passato», la quale permette di acquisire «determinate inclinazioni e abitudini (anche fisiche e tecniche che si assimilano con la ripetizione)» (ibid.), si fa strada l’esigenza di operare un processo di conformazione sociale del processo educativo, esigenza connaturata alla società democratica, in cui si pone il «problema di educazione delle masse [...] secondo le esigenze del fine da raggiungere» (Q , , ). Nella società democratica «la quistione della “personalità e libertà” si pone non per il fatto della disciplina, ma per l’“origine del potere che ordina la disciplina”». Poiché questa origine è «“democratica”», cioè «l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un “arbitrio” o un’imposizione estrinseca ed esteriore», ecco che la disciplina è «un elemento necessario di ordine democratico, di libertà»; se si intende quindi «con questa parola un rapporto continuato e permanente tra governanti e governati che realizza una volontà collettiva» e non certo «passivo e supino accoglimento di ordini», essa non annulla «la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere» (Q , , -). In una società siffatta l’elemento coercitivo-educativo come dimensione ineliminabile del processo educativo si chiarisce nel concetto di educazione come lotta contro gli istinti per dominare la natura. Un simile obiettivo è ciò che deve prefiggersi lo Stato nella sua lotta contro il senso comune diffuso, materiato di elementi premoderni, e contro la legittimazione dell’insegnamento religioso per le classi subalterne propria della pedagogia idealista, ma anche di un certo marxismo meccanicistico. Per quanto riguarda quest’ultimo, G. rintraccia una simile visione del processo educativo anche nelle posizioni di Labriola, il quale, non avendo ben compreso la sostanza dialettica del rapporto educativo impostato da Marx a parti-

EDUCAZIONE

re dalle Tesi su Feuerbach, può affermare che per rendere educabile un papuano bisogna temporaneamente farlo schiavo. Questa posizione per G. «è da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che riguarda l’insegnamento religioso nelle scuole primarie», in quanto si tratta «di un pseudostoricismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più volgare evoluzionismo» (Q , , ). Nella concessione dell’insegnamento della religione nelle scuole G. riscontra l’esempio più lampante della capitolazione dello Stato moderno nei confronti della Chiesa; quest’ultima infatti, essendo un’«organizzazione militante», ha mirato ad assicurarsi «le leggi dello Stato e il controllo dell’educazione» (Q , , ) basando la potenza della sua organizzazione mondiale sul fatto che «la maggioranza della popolazione non è ancora “moderna”, è ancora tolemaica come concezione del mondo e della scienza» (Q , , ). Così di fatto lo Stato ha rinunciato a questa «funzione etica» (Q , , ) e soprattutto al ruolo di agenzia educativa, ritenendo di dover affidare questo compito proprio alla Chiesa: così essa offre una stampella di sostegno come ad un malato (Q , , ). La dimostrazione palese di ciò è l’esito delle stipulazioni concordatarie. Non a caso alla Chiesa «viene lasciata la formazione intellettuale e morale dei giovanissimi (scuole elementari e medie)» e agli intellettuali laici «lo sviluppo ulteriore dei giovani nell’Università». Si tratta di una divisione dei compiti che corrisponde a un’organizzazione della società divisa in classi la cui rappresentazione perspicua è il contenuto della riforma Gentile. Secondo questa impostazione «la scuola elementare e media è la scuola popolare e della piccola borghesia», i cui strati sociali sono «monopolizzati educativamente dalla casta, poiché la maggioranza dei loro elementi non giungono all’Università, cioè non conosceranno l’educazione moderna nella sua fase superiore critico-storica ma solo conosceranno l’educazione dogmatica». L’università è infatti la scuola della classe dirigente ed è «il meccanismo attraverso il quale avviene la selezione degli individui delle altre classi da in-

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corporare nel personale governativo, amministrativo, dirigente» (ivi, ). Alla visione passivizzante del processo educativo, inoltre, si associa – anche se partendo da una concezione opposta, fondata su un’intuizione anticreazionista del reale – la pedagogia idealista, la quale ritiene necessario l’insegnamento della religione in quanto filosofia buona per l’infanzia dell’umanità. G. individua in Gentile la più tipica posizione dell’intellettuale che, pur aderendo a una visione laica della vita, “concede” l’insegnamento religioso al popolo-bambino. G. ha di mira gli esiti della riforma Gentile, secondo i cui nuovi programmi «l’arte e la religione sono assegnate alla sola scuola elementare, e la filosofia 〈è〉 largamente attribuita alle scuole secondarie». In realtà, dietro la convinzione che l’insegnamento della religione nella tenera età sia auspicabile in quanto in linea con lo sviluppo psichico del bambino, secondo quanto postula l’idealismo hegeliano, per il quale «la religione è una filosofia mitologica e inferiore, corrispondente alla mentalità infantile ancora incapace di levarsi alla filosofia pura, nella quale poi la religione deve essere risoluta e assorbita» (Q , , ), si annida un progetto politico preciso: non solo si tende a considerare “infanzia dell’umanità” un intero gruppo sociale, ma aderendo al realismo mitologico-cristiano si rinuncia a modificare il senso comune, lo si assume così com’è, non elevandolo e facendolo partecipare al moto di riforma intellettuale-morale diffusasi agli inizi del Novecento solo tra le classi dirigenti. G. rimprovera alle filosofie immanentistiche di non aver neppure tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell’educazione infantile. La filosofia della praxis invece, aspirando a sostituire l’egemonia cattolica sulle masse, non deve tendere a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva; e «se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse»; al contrario G. pensa a un progetto educativo capace di condurre i semplici verso una concezione superiore della vita, al fine di «costruire un blocco intellettuale-

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EGEMONIA

morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali» (Q , , -). Ciò potrà avvenire solo se il rapporto dialettico intellettuali-masse sarà un rapporto di traduzione delle istanze teoriche di emancipazione nella prassi politica. In definitiva la disciplina, la coerenza, la sobrietà intellettuale, virtù che G. apprezza come elementi costitutivi del processo educativo e che sono smentite dall’“autodidattismo”, dall’ideologia libertaria, dall’assenza di una disciplina critica, egli le vede postulate come un’esigenza oggettiva dall’americanismo. È quest’ultimo che induce a riflettere sul problema della composizione della dialettica tra disciplina e libertà e sulla coercizione, il principio regolatore verso cui G. aveva già optato sul piano molecolare dei rapporti individuali e che può diventare, nelle forme inedite dell’“autocoercizione”, il principio regolatore dei rapporti sociali nel mondo del lavoro. BIBLIOGRAFIA: BROCCOLI ; CAPITANI, VILLA ; FROSINI ; MANACORDA ; RAGAZZINI ; URBANI . CHIARA META V. «americanismo», «bambino», «Concordato», «egemonia», «formazione dell’uomo», «Gentile», «intellettuali», «Labriola», «meccano», «pedagogia», «personalità», «scuo