Disaggregazioni. Forme e spazi di governance
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Zitiervorschau

ETEROTOPIE N. 221 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna comitato scientifico

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

DISAGGREGAZIONI Forme e spazi di governance a cura di Antonio Tucci

MIMESIS Eterotopie

Il volume è pubblicato con i fondi PRIN 2008.

© 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Isbn 9788857520643 Collana Eterotopie, n. 221 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

Premessa

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Antonio Tucci (Dis)aggregazioni

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PARTE PRIMA Laura Bazzicalupo Le mobili linee di confine nella normatività

sociale e la indeterminatezza delle procedure 29

Marianna Esposito Capitalismo e teologia economica: dal capitale vivente del Welfare al capitale umano 47 Giuseppe Micciarelli Emergenza ed eccezione nel diritto contemporaneo 57 Valeria Giordano Le costruzioni della scienza giuridica

fra ragion pratica e spazio della politica 69

Francesco Mancuso Il “costituzionalismo” di JPMorgan 81 Antonio Martone Modernità vuota. Mediazioni e immediatezze 91 Gian Paolo Trifone Pluralismo e fattualità. Il contributo di Paolo Grossi 109 Filippo Murino La lex mercatoria come modalità giuridica della globalizzazione: il caso della Direttiva Collateral 121 Emma Russo Normatività ed effettività nelle pratiche di soft law 133

Diana Sica L’autorappresentazione del diritto fra valori morali e ragioni escludenti 141 PARTE SECONDA Geminello Preterossi La sfida dell’immediatezza. Una riflessione meta-giuridica sulla crisi del diritto internazionale 151 Stefano Pietropaoli Caesar dominus et supra grammaticam. Il problema della definizione giuridica della guerra 169 Sandro Luce Dagli spazi della politica allo spazio dell’economia 181 Antonio Tucci Cittadinanza e identità. Pratiche e forme della soggettivazione politica 195 Anna Cavaliere La questione del crocifisso: il paradosso liberale e la pratica della laicità 209 Dante Valitutti Dinamiche di esclusione. Il “diritto penale del nemico” 217 Giovanni Bisogni Un “significante” troppo “vuoto”? I beni comuni secondo 225 Ugo Mattei Nicola Capone Proprietà e società nella prospettiva dei beni comuni 239 Sergio Messina Democrazia ecologica ed expertise ambientale: razionalità in contrapposizione? 249 Note biografiche degli autori 259

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PREMESSA

Nelle nuove forme e negli spazi inediti della governance i concetti e le categorie tradizionali, pur persistendo sul piano dell’enunciazione e della citazione, vengono ripensati e rielaborati dentro nuove logiche che rifiutano il carattere unitario, ricompositivo e universalistico della progettualità moderna. Sfuma il nucleo normativo e ordinamentale entro il quale sovranità, cittadinanza, diritti e soggetti venivano pensati come universali giuridico-politici, per emergere e definirsi in modo contingente e immanente nelle pratiche effettive di concrete relazioni di potere. La disaggregazione – come ciò che disarticola gli assetti costituiti, per ricomporli ogni volta in modo più o meno stabile – delle forme e degli spazi può essere una chiave di lettura utile per comprendere questi processi che segnano una distanza rispetto al passato. Si tratta, però, di assumere tutta la complessità e duttilità delle categorie che sopravvivono ai contesti stessi che le avevano generate. Questo volume nasce da un confronto costante, scaturito dalle attività del Laboratorio Kelsen. In esso ognuno ha fornito un contributo che, muovendo da specifiche prospettive e interessi di ricerca, ha scandagliato le pieghe teoriche e fattuali che assumono oggi le trasformazioni dello scenario politico-giuridico globale. Nella prima parte si tratta delle forme, che nella rappresentazione moderna rinviano al tema dell’ordine, dell’unità, della prevedibilità e della sicurezza: forme, delimitate e coerenti, che trascendevano la realtà empirica, si fanno oggi più flessibili e aderenti ai contesti concreti dai quali emergono e ai quali si adattano. Questo implica in primo luogo nel quadro della governamentalità neoliberale – che assurge, per il suo carattere di inclusività e compatibilità delle eterogenee forme di vita, a criterio di lettura delle dinamiche plurali e spesso di segno opposto della governance (Bazzicalupo, Tucci) – uno slittamento della norma rispetto alla sua connotazione nei termini della Legge; la Norma, pertanto, si fa più flessibile e adeguata alla promozione e protezione della vita di gruppi e di popolazioni, dal momento che la governamentalità è insieme

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promozione e incremento delle vite e garanzia della sicurezza e gestione del rischio (ancora Bazzicalupo). L’ambivalenza si manifesta tutta nei sistemi di welfare state, in cui agiscono dispositivi biopolitici di presa in carico e protezione della vita (Esposito), d’altra parte il processo di immanentizzazione della normatività trasfigura la stessa eccezione da limite e fondamento dell’ordine a tecnica governamentale di inclusione e produzione di soggettività, svelando modalità altre del diritto, piuttosto che la sua stessa sospensione (Micciarelli). Dalla prospettiva del teorico del diritto la crisi dell’ordinamento e della neutralità della scienza giuridica pone in rilievo la constatazione fattuale di contraddizioni – irriducibili – intrinseche alla stessa autorappresentazione moderna (Giordano). Contraddizioni persistenti, ma riconducibili a forme di ricomposizione nell’auspicio di un costituzionalismo moderato: un costituzionalismo in grado di porre al proprio centro il recupero di un’idea di persona, fondata sull’eguaglianza e su una connotazione forte della democrazia (Mancuso). Centra da una prospettiva differente sul tema dell’eguaglianza il saggio di Martone: l’eguaglianza, pur rappresentando il presupposto della modernità stessa, rischierebbe di tradursi oggi, nei dispositivi di controllo e normalizzazione, nel suo esatto opposto. Alla crisi delle teorie ordinamentali, cui si accennava sopra, si contrappone, inoltre, nella teoria giuridica una ripresa del momento istituzionalistico e organizzazionale del diritto che relativizza la centralità dello Stato (Trifone) e vede l’affermarsi di nuove forme della produzione giuridica, lex mercatoria e soft law che implicano una problematizzazione della normatività giuridica (Murino, Russo), a questo conseguentemente si associa un ripensamento del concetto di autorità come criterio esclusivo di legittimazione (Sica). Nella seconda parte, di fronte alle metamorfosi degli spazi – che nel saggio di Luce sono lette come conseguenza dell’influenza del capitale globale sulla spazialità politica locale e come la riprova che la governance sia nettamente segnata dalla razionalità economico-governamentale – si affrontano, in primo luogo questioni legate al ruolo che possono ancora svolgere le istituzioni del diritto internazionale. In questo senso Preterossi si interroga intorno alla possibilità di pensare un diritto internazionale, in grado di non cedere al rischio di una normatività senza effettività e avulsa dalle concrete e conflittuali relazioni politiche; e tra le questioni cruciali del diritto internazionale c’è, senza dubbio, quella della guerra, che si ridefinisce oggi in conseguenza della rispazializzazione globale e che resta, in ogni caso, la “soluzione” alla quale le istituzioni del diritto internazionale ricorrono più frequentemente, benché si ostinino a non chiamarla con

Premessa

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il proprio nome, dimostrando la propria incapacità al mantenimento della pace e della sicurezza (Pietropaoli). I flussi globali che ridisegnano la spazialità politico-giuridica, mettendo in discussione il sistema tradizionale del confine, come limite di esclusione ed inclusione, implicano un ripensamento dei processi della soggettivazione politica, a partire dalla disaggregazione della categorie di cittadinanza e identità, operata innanzitutto in ambito postcoloniale (Tucci); esse pongono questioni di non poco conto alle politiche multiculturaliste (Cavaliere) e, pur nella logica di una tendenziale e progressiva inclusività di tutti, mostrano in particolare nell’ambito del diritto penale dispositivi di esclusione sempre più improntati alla repressione (Valitutti). Un ulteriore punto di approfondimento è rinvenibile, infine, nell’emergenza di attori politici e sociali, non istituzionalmente definiti, che rivendicano spazi di esercizio di diritti e prerogative giuridicamente non riconosciuti, questo implica in primo luogo una necessaria problematizzazione della categoria dei beni comuni (Bisogni, Capone) e della questione ecologica e ambientale (Messina). A.T.

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Antonio Tucci

(DIS)AGGREGAZIONI

Nel saggio sulle Conseguenze della modernità Anthony Giddens, come è noto, ha individuato nel concetto di disaggregazione uno dei criteri di distinzione della modernità rispetto al mondo tradizionale, intendendo per disaggregazione «l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi attraverso archi di spazio-tempo indefiniti»1. Ciò che immediatamente colpisce dell’argomentazione del sociologo britannico è lo scarto tra una dimensione, per così dire, statica, uniforme, compatta – quale era quella delle società premoderne – e una dimensione processuale e dinamica, che rappresenterebbe una costante e una caratteristica invariata del lungo processo della modernità fino alla sua radicalizzazione estrema nelle forme politiche e sociali contemporanee. Naturalmente non è nello spazio di questo saggio che possiamo affrontare la critica avanzata da Giddens nei confronti delle teorie postmoderniste o tardomoderniste, che dir si voglia: non è questo il luogo in cui indagare se la contemporaneità segni un salto, un mutamento di rotta rispetto alla modernità o se si tratti di considerarla come un continuum, una radicalizzazione dei tratti salienti presenti già nella prima modernità. In verità, come dovrebbe emergere nel corso di questo saggio, la questione non si pone nei termini appena descritti: nel quadro della neogovernamentalità liberale ciò che risalta agli occhi di chi indaga è la compresenza, la compatibilità di logiche e di razionalità di governo tradizionali e nuove, che non significa sovrapposizione, appiattimento di dispositivi e strategie, ma coesistenza e inclusività di quei dispositivi e di quelle strategie che si piegano ad accogliere elementi eterogenei. L’approccio adeguato a questa inedita compatibilità degli eterogenei – così diversa dal valore della coerenza perseguito dagli ordinamenti giuridici moderni – tende piuttosto a sottolineare ambiti di persistenza, residui di categorie e concetti, sui 1

A. Giddens, Le conseguenze della modernità (1990), tr. it. il Mulino, Bologna 1994, p. 32. Gli altri due criteri, è noto, sono individuabili nella separazione del tempo dallo spazio e nella riflessività dei rapporti sociali.

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quali nella logica moderna sovranista era stato centrato il discorso politico e giuridico, residui che assumono un significato diverso in contesti che hanno perso la loro organizzazione originaria. Di Giddens, qui si vuole semplicemente prendere, per così dire, a prestito la nozione di disaggregazione con l’obiettivo di saggiarne la tenuta semantica ed ermeneutica di fronte alle trasformazioni che coinvolgono gli assetti giuridici e politici contemporanei, dal momento che il termine ritorna e si impone sempre più e da più parti. Di “disaggregazione della sovranità” parla Saskia Sassen per indicare «l’assemblaggio di specifici componenti nazionali e globali in nuovi tipi di entità istituzionalizzate che non sono né nazionali né globali e manifestano una varietà di caratteristiche spazio temporali […] in questo modo la spazialità/temporalità della globalizzazione stessa contiene dinamiche di mobilità e fissità. Benché, nella prospettiva delle categorie tradizionali, mobilità e fissità possano facilmente essere classificate come due tipi di dinamiche reciprocamente esclusivi, essi non sono necessariamente tali»2, si tratta infatti di assemblaggi, che in una dialettica incessante, priva di sintesi, presuppongono e allo stesso tempo implicano ulteriori disassemblaggi, mediante una serie di interazioni “specifiche” e allo stesso tempo “complesse”. Questo movimento di oscillazione delle disaggregazioni rimette, in primo luogo, in questione il tema dei limiti territoriali della spazialità moderna in direzione di una «concreta ed euristica disaggregazione del confine»3. Non a caso sulla necessaria ridefinizione del concetto di confine, parametro chiave del diritto e della politica moderni, si concentrano oggi studi di grande interesse, che scardinano la sua tradizionale coincidenza con l’immagine del muro e dell’esclusione (correlativa all’inclusione nazionale), per offrirne una immagine di possibile connessione e di intersecazione, al di là dei limiti geopolitici tracciati dal diritto internazionale e dalle istituzioni ad esso connesse4. Seyla Benhabib, d’altro canto da una prospettiva diversa che piega in senso concreto le concezioni deliberativo/discorsive della politica, e dunque con esiti e obiettivi differenti, ci parla di “disaggregazioni della cit2 3 4

S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale (2006), tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 480 e 486. S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione (2007), tr. it. Einaudi, Torino 2008, p. 210. Cfr. gli studi sul paradigma classico del confine D. Newman, The lines that continue to separate us: borders in our borderless world, in “Progress in Human Geography” 2, 2006, pp. 186-207 e in modo innovativo F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009.

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tadinanza”, intese come gli «sviluppi istituzionali che scorporano le tre dimensioni costitutive della cittadinanza, cioè l’identità collettiva, i privilegi dell’appartenenza politica e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi [questo però] non vuol dire che la sua influenza sulla nostra immaginazione politica o la sua forza normativa nel guidare le nostre istituzioni siano diventate obsolete. Significa che dobbiamo essere pronti ad immaginare forme di azione e soggettività politica in grado di anticipare nuove modalità di cittadinanza politica»5. Infine anche Aihwa Ong parla di dinamiche di “(dis)articolazione della sovranità” e della cittadinanza, con particolare attenzione alle trasformazioni in atto nei paesi del Sud est asiatico postcoloniale. Per Ong lo spazio nazionale marcato dalla sovranità, lungi da ogni sua definitiva messa in mora, si riarticola a più livelli che si intrecciano in modo non piramidale né gerarchico: uno stesso spazio sovrano risulta diviso in speciali zone (in base a specifiche tecnologie di governo, di zoning)6 che ridefiniscono i propri confini lasciandoli porosi, flessibili, ma pur separati e regolati diversamente, con la conseguenza di disegnare una modalità inedita della stessa sovranità e cittadinanza. Le logiche che ridisegnano le diverse zone sono molteplici, da quella dell’etnia a quella del genere a quella, il più delle volte dominante, del profitto: l’accesso al mercato del lavoro, i regimi di tassazione, gli standard di salute e sicurezza, le relazioni industriali, le politiche dell’ambiente, variano adattandosi ai contesti, trainate dalla logica di mercato. La coordinazione delle politiche e degli interventi regolativi con gli interessi organizzati volta a volta diversi, favorisce la frammentazione dello spazio nazionale in zone non-contigue, promuovendo regolamentazioni differenziate delle popolazioni. L’effetto che questi assemblaggi producono localmente si riverberano a livello globale: le sovranità graduate infatti non rispettano i confini, ma possono arbitrariamente erigerne di nuovi o attraversare i vecchi, dando luogo a reti transnazionali. Un ripensamento, dunque, della sovranità, a partire dall’affermazione di pratiche di “riterritorializzazione” e di tecniche eterogenee di governo: «La sovranità 5

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S. Benhabib, Cittadini globali (2006), tr. it. il Mulino, Bologna 2008, pp. 59 e 63. Cfr. R.W. Glover, Radically Rethinking Citizenship: Disaggregation, Agonistic Pluralism and the Politics of Immigration in the United States, in “Political Studies”, 2, 2011, pp. 209-229. A. Ong, Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione (2006), tr. it. La Casa Usher, Firenze-Lucca 2013, cap. IV (Tecnologie di zoning in Asia orientale), pp. 132-354. Ma cfr. anche Ead., Flexible Citizenship: the Cultural Logic of Transnationality, Duke University Press, Durham-London 1999, dove già si parla di “graduated sovereignty”.

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graduata è – infatti per Ong – un effetto prodotto dagli Stati, che passano dalla condizione di amministratori di un’entità “a tenuta stagna” a regolatori di spazi e popolazioni diverse collegate con i mercati globali»7. Un punto, dunque, ci pare particolarmente rilevante in questi fenomeni di (dis)aggregazione e (dis)articolazione: pratiche materiali e inedite si strutturano attorno a concetti vecchi e gloriosi della modernità occidentale – in primo luogo, quello di sovranità, ma anche di cittadinanza, diritti, universalismo –, questi però persistono, come vedremo, sul piano della citazione ed enunciazione, per essere rielaborati dentro una logica governamentale, che rinvia a strategie di governo e “autogoverno” delle vite, strategie e tecniche che si rivelano prevalentemente, se non integralmente, economiche. Non a caso il concetto di eccezione, che nella teoria schmittiana svolgeva un ruolo fondativo ed appunto di limite eccezionale rispetto all’ordinamento giuridico, viene dispiegato sia in direzione dell’inclusività che dell’esclusione. In sintesi, questi processi, che contengono al loro interno – in una dialettica incessante e mai risolta – fenomeni di disaggregazioni e al contempo di riaggregazioni continue, evidentemente non hanno il portato tendenzialmente, unitario, ricompositivo, universalistico dello Stato nelle forme in cui ci è stato tramandato dalla tradizione giuridico-politica, si tratta, piuttosto di ricomposizioni, riarticolazioni e stabilizzazioni, che si presentano in forme precarie, locali e instabili. Ciò che era unito (sovranità, cittadinanza, soggetto) viene disaggregato e disarticolato, per essere di nuovo riaggregato e riarticolato. Proprio secondo la logica della compatibilità che segna l’attuale fase della governamentalità neoliberale8. A questo punto sembra possibile affermare che nei processi di governance globale gli universali giuridico-politici si collocano in una sorta di continuità/discontinuità rispetto agli assetti precedenti. Gli universali diventano per così dire concreti, abbandonano lo status del trascendimento e della enunciazione logica, per emergere e definirsi nelle pratiche effettive delle relazioni di potere. Essi subiscono pertanto una torsione semantica di non poco conto, dal momento che sopravvivono, assumendo nuovi abiti, ai contesti stessi che li avevano prodotti e, conseguentemente, richiedono un ripensamento delle forme, degli spazi e dei soggetti/poteri. Si marca, così, una distanza rispetto al passato. Una distanza che, però, in nessun caso può essere ridotta ad un puro e semplice ribaltamento, piut-

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A. Ong, Neoliberalismo come eccezione, cit., p. 112. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, RomaBari 2006.

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tosto ad una complessificazione e duttilità delle categorie: residui del passato vengono riletti e riutilizzati in forme profondamente diverse. 1. Sovranità, istituzioni, norme Il tema delle forme coinvolge in primo luogo quello della sovranità, e delle istituzioni e dei poteri ad essa connesse, chiamando in causa l’autorappresentazione gerarchica e unitaria del diritto e della politica finalizzata, nella tradizione moderna, alla ricomposizione e neutralizzazione della pluralità e dei conflitti9. La forma, perciò, che evoca l’ordine, l’unità, la prevedibilità e la sicurezza, oggi viene messa a dura prova, dal momento che quell’autorappresentazione perde il suo solido ancoraggio – incarnato in primo luogo dallo Stato nazione e dalle sue prerogative, Legge, sanzione, forza – e si dissolve in una serie di rappresentazioni, che generano dalle mille sfaccettature attraverso cui si manifesta la rete difficilmente districabile della governance globale. Una serie di rappresentazioni che si sovrappongono e allo stesso tempo non si escludono a vicenda: non si tratta in definitiva di sostituire un modello con un altro, si tratta, invece di rilevare la concorrenza di più modelli, svelando così l’impossibilità di rappresentare esclusivamente mediante forme precostituite una realtà complessa e articolata. Si richiede pertanto un mutamento di prospettiva che spinge a ripensare in primo luogo il concetto stesso di forma e la relazione legge/norma, normatività/ normalizzazione. La forma che il costruttivismo moderno rappresentava come definita e coerente, ma soprattutto trascendente la realtà empirica che era destinata a ordinare, assume la mobilità della forma-di-vita, e si fa flessibile e aderente ai contesti dai quali emerge e ai quali si adatta, regolandoli e adattandoli a sua volta. È sulla scia delle tesi foucaultiane, che oggi è possibile rilevare il compimento del lungo processo di “governamentalizzazione dello Stato”10. Le pratiche e la logica governamentali si dispiegano in modalità “interne ed esterne allo Stato”: una forma di potere che dunque attraversa, occupa e anche travalica l’istituzione statale inserendola in una rete di relazioni e alleanze, mediazioni che investono a loro volta poteri e autorità, coinvolti 9

Sulla crisi della neutralizzazione giuridica moderna, cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma in età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 3-20. 10 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 89.

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nella gestione di processi economici e sociali plurali, rispetto alle quali lo Stato viene a svolgere un compito di “governo a distanza”, di organizzatore e di polo di deliberazioni e di policies delle quali non è più l’unico mittente, ma uno dei partner della governance. Queste relazioni, che evidenziano la natura relazionale e discorsiva della costituzione dei soggetti e la concorrenza nei processi decisionali di vettori eterogenei di potere, governano la vita e i comportamenti individuali. Questi ultimi non vengono orientati prevalentemente attraverso obblighi e forme di costrizione – sintetizzabili nell’uso legittimo della forza da parte dello Stato – degli individui: al contrario, è il carattere specifico della governamentalità che questi a loro volta sono sollecitati ad intersecare, partecipando attivamente ai processi decisionali e affermando così la propria autonomia. Come è stato più volte rilevato, senza alcun dubbio oggi viene meno la centralità della legge – generale ed astratta, strutturata sulla normatività trascendente del comando sovrano – a vantaggio di una forma normativa che si fa immanente, particolare, concreta. La legge cede il passo alla norma, intesa come modalità con cui le questioni particolari trovano una loro autoregolazione immanente emergente dalla particolarità e dunque non estensibile alla generalità: adeguata al caso, valida per la sua soluzione e implicita nella sua specificità. La distanza dalla forma ipotetica della legge tradizionale non potrebbe essere maggiore e denuncia una logica diversa da quella definitoria di quella forma normativa, una logica economica. A quella norma immanente si riferiscono le autorità oggi emergenti e dominanti, per sganciarsi dalla dipendenza dall’autorità formale gerarchicamente legittimata, o per eluderla o per concorrere con essa. Una norma dunque che tanto i soggetti che le fattispecie problematiche rinvengono nella propria differenzialità, rovesciando la neutralizzazione delle differenze della modernità giuridica e politica. Al contrario qui ci troviamo di fronte ad una forma che accompagna la differenza e nella propria differenzialità raccoglie gruppi di popolazioni o di individui accomunati da una particolare problematica o potenzialità, una particolare eccezione che chiede di essere governata. Ci troviamo, così, di fronte ad un radicale ripensamento della norma, nell’ambito di una logica immanentistica e insieme normativa. La vita – che qui va intesa come la concreta ed eterogenea realtà sociale solo astrattamente riducibile all’omogeneo – produce norme nel suo continuo adattarsi e prodursi in forme diverse. La razionalità governamentale agisce aderendo massimamente a questa regola delle cose, emergente da esse stesse: lascia fare. La marcatura ideologica (e naturalizzata) del neoliberalismo è evidente in questa enfasi di fondo sulla spontaneità dell’autoregolazione del vivente. Certo è che gli spazi di azione del raggio dei poteri si dilata-

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no e si integrano a vicenda a diversi livelli e secondo traiettorie plurali, pur sempre però dentro un quadro di gestione e di governo, meno diretto, meno esplicito, ma più efficace e pervasivo: «la norma non ha per funzione quella di escludere, di respingere – afferma Foucault – al contrario, essa è sempre legata a una tecnica positiva di intervento e trasformazione»11. Potremmo dire, per sintetizzare, che nella governance, in cui le pratiche coincidono con le forme, normatività e normalizzazione si sovrappongono, senza soluzione alcuna. La dimensione descrittiva, effettuale della norma si confonde con quella prescrittiva e, conseguentemente, la norma non si configura come esteriore al suo campo di applicazione, ma è essa stessa a produrlo e «si produce essa stessa nel produrlo»12. D’altronde soprattutto se si allarga lo sguardo alla realtà globale (ma non troppo diversamente nello stesso Occidente), diventa difficile un approccio che presuma un mondo ordinato tramite una pienezza giuridica e una divisione certa e trasparente dei confini giurisdizionali, come sarebbe inadeguato rappresentarsi quel mondo come sospeso ad un permanente anomico stato di eccezione. Come suggerisce Teubner, possiamo parlare piuttosto di una frammentazione della normatività, dove in plurime e intersecanti “costituzioni civili” le norme giuridiche istituzionalizzate si annodano a ordini normativi emergenti nazionali e transnazionali13. Questa complicazione delle forme spinge la teoria politico-giuridica a interrogarsi sull’immanentizzazione dei processi decisionali, rispetto a pretese formalistiche di certezza, prevedibilità, ordine, essa, infatti, è sempre più alle prese con la pluralizzazione e l’eterogeneità dei centri di potere e con il problema dell’ordine e della sicurezza vissuto in modo sempre più drammatizzato, e conseguentemente con il problema dell’uso della forza: temi che si possono riassumere in una evidente emergenza del momento fattuale e pratico del diritto. A questo punto un dato da cui partire è la presa d’atto del fatto che il paradigma classico della sovranità, nella sua connotazione in relazione allo Stato, appare inadeguato oggi a rappresentare lo scenario attuale, dal momento che allo Sato nella pluralizzazione dei soggetti e dei poteri della governance, si affiancano (e si sovrappongono) poteri interni ed esterni che trascinano quel nodo decisionale che chiamavamo sovrano in una pratica 11 M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-75) (1999), tr. it. Feltrinelli, Milano 2002, p. 53. 12 P. Macherey, Pour une histoire naturelle des normes, in AA.VV., Michel Foucault philosophe, Seuil, Paris 1989. 13 G. Teubner, Nuovi conflitti costituzionali. Norme fondamentali dei regimi transnazionali (2012), tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2012.

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di governamentalità dove esso ancora esplica la sua azione, ma in un modo profondamente trasformato. Sarà importante che la teoria si interroghi su come la governamentalizzazione dei poteri intersechi la trasformazione che investe la sovranità. Innanzitutto la storia del diritto evidenzia che a dispetto dell’auto-rappresentazione della scienza giuridica, che formalizza la sovranità statuale, lo Stato, come istituzione concreta, è stato sempre investito in pratiche concrete e contingenti con altri poteri: l’analisi dei dispositivi di gestione e le tecnologie di potere che lo Stato ha volta per volta fatto proprie, evidenziano costantemente a partire dalla modernità, ma con sicure ascendenze pre-moderne, quella piega governamentale individuata da Foucault nel processo di “governamentalizzazione dello Stato”. A fronte della sua identificazione esclusiva con la sovranità, lo Stato regolamenta gestisce e amministra in modo governamentale. Molteplici gli esempi concreti di questo lungo processo nei rapporti di distribuzione e gestione di poteri, che da sempre lo Stato ha intrattenuto con altri soggetti – dai ceti alle associazioni volontarie e ai corpi intermedi – che hanno posto ostacoli alla concentrazione del potere e alla realizzazione delle prerogative sovrane che svelano una attitudine alla negoziazione e alla mediazione14. E nella governance questa attitudine governamentale con tutta la sua ambivalenza e opacità – che significa indeterminatezza delle decisioni, poteri concorrenti e differentemente legittimati – si fa sempre più evidente assumendo forme più radicali. Sarebbe, però, troppo facile e irenica una visione di un mondo governato da una rete di relazioni senza confini e senza scontri ultimativi, è importante riconoscere che la capacità governamentale di attraversare confini e crearne di nuovi, che disarticolano quella vocazione all’unificazione di popolo, territorio e diritto che contrassegnava la sovranità moderna, trova punti di contestazione e di blocco; di conflitto concreto, dove è innegabile la presenza di poteri sovrani che esercitano coercizione su flussi di migrazione impedendone il movimento, o al contrario permettendo che il conflitto stesso sia risolto legalmente. Viene meno piuttosto quella pretesa concettuale della sovranità di considerare l’unità politica come condizione di possibilità della legge: la governamentalità produce attraverso la propria azione zone mobili di unità e di coerenza, in grado di generare regole, ma in una negoziazione materiale e concreta, nonché temporanea, delle forze. Il carattere de-nazionalizzato e transnazionale dell’economia, della cultura, della politica e dunque dei poteri sociali, ha inciso certo sulla sovranità 14 Cfr. P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003 e Id., L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007.

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legata storicamente allo stato-nazione, ma se Foucault individuava una cesura temporale tra sovranità e affermazione dei dispositivi governamentali, ci sembra che è esattamente il regime di coesistenza dei due paradigmi e di intreccio che caratterizza l’attuale situazione, nella quale permangono fenomeni che solo lo schema sovrano permette di identificare: non dunque il tramonto dell’uno e lo sviluppo dell’altro, ma la coesistenza e la reciproca modificazione in casi e situazioni specifiche. Le due nozioni di sovranità e governamentalità, pur risalendo a logiche diverse, l’una identitaria e legittimante, l’altra strategica ed economica, non sono antinomiche o incompatibili; esse intersecano a diversi livelli decisioni sovrane e negoziazioni governamentali, creando un campo disordinato, spesso incoerente, ma certamente più reale e concreto di ogni rappresentazione formale e astratta15. Una sovrapposizione dunque – un circolo di “sovranità-disciplina-governo” – che, come abbiamo accennato, spinge Aihwa Ong in un’opera di decostruzione critica della sovranità, a usare quello che sarebbe nel lessico tradizionale un ossimoro: “sovranità graduate”. Sotto l’impulso del capitalismo globale, seguendo vettori che originano da istanze esterne allo Stato ma con esso compromessi, le diverse zone in cui si disaggrega la sovranità nazionale sono sottoposte a regimi giuridici e a razionalità di potere – che vanno dalla disciplina al potere pastorale – diversi e apparentemente incompatibili. «La ragione neoliberale – afferma infatti Ong – ha condotto la razionalità economica in una direzione altamente flessibile, che non considera il territorio nazionale come la cornice superiore di riferimento per le decisioni politiche. Piuttosto, l’enfasi neoliberale su un’economia senza confini ha indotto alla creazione di molteplici spazi e tecniche di politiche per governi differenziati dentro il territorio nazionale. Specialmente in contesti emergenti e postcoloniali, tecniche diverse di governo si basano sul controllo e la regolazione di popolazioni in relazione a spazi differenziati di governance, con effetti di gradazione della sovranità e della cittadinanza»16. Dunque controllo e regolazione che rinviano alle pratiche e alle tecniche governamentali – dove, come vedremo più avanti, non mancano strategie di resistenza e controcondotta, a conferma del carattere inclusivo/selettivo della razionalità governamentale. Una logica che ovviamente si evidenzia, meglio che in Occidente, nelle complesse articolazione di costellazioni politico-giuridiche dei paesi del 15 A.L. Stoler, On Degrees of Imperial Sovereignty, in “Public Culture”, 1, 2006, pp. 125-146. 16 A. Ong, cit., p. 111.

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Sud-est asiatico, dove il neoliberismo si presenta sotto le spoglie dell’eccezione e della deroga: una logica d’altronde che si attaglia bene anche agli interventi sempre più particolari e parziali, mirati, concreti e non più generali ed astratti, dei paesi occidentali. Qui «i controlli amministrativi, la cittadinanza e la territorialità – un tempo unite nello Stato sovrano – vengono smembrate […] ed emergono vere e proprie sovranità per intersezione»17. Assistiamo dunque alla disaggregazione della sovranità, che pur mantenendosi formalmente in capo allo Stato, si riaggrega in altre forme e ambiti diversi, perché il neoliberalismo «disarticola ciò che era unito, articolandolo nuovamente»18. Questo può, nel lessico della teoria giuridica del Novecento essere tradotto nei termini della crisi del positivismo giuridico formale, delle concezioni normative-ordinamentali, con la conseguente affermazione di concezioni istituzionalistiche organizzazionali, governamentali, che minano il costrutto teorico che aveva sostenuto le teorie istituzionalistiche classiche: la semplificazione formalistica e sovrana infatti, a questo punto ci pare di poterlo affermare senza dubbio, non è esaustiva dei fenomeni che ci troviamo di fronte: questi si affermano in una continua dialettica tra momento riduttivo teso all’unità e alla concentrazione e momento centrifugo, pluralistico e complessificante di partecipazione e gestione del potere. La forma istituzione stessa, densa di positività e concretezza, perde quella connotazione anche etimologica che l’aveva caratterizzata come dispositivo normativo capace di regolare stabilmente le relazioni sociali mediante un complesso, sedimentato nel tempo e spesso altamente inconsapevole (lo ius involuntarium di romaniana memoria) di norme, valori, consuetudini stabili e irriflessive. L’istituzione oggi – pur mantenendo la positività concreta dei dispositivi complessi che incamerano dimensioni culturali, etiche, ma anche pratiche architettoniche, funzionali – assume, assecondando il ritmo del cambiamento epocale, un’inedita flessibilità ed elasticità. Conseguentemente le istituzioni stesse si trovano a cedere gran parte della propria forza normativa e coattiva, «diventano insomma sempre più “fattuali”: ossia, invece di essere modelli per imporre un ordine al corso degli eventi, vengono esse stesse plasmate anche in funzione di un certo corso dei fatti»19. Questo indebolimento normativo peraltro, da un 17 Ivi, p. 49. 18 M. Spanò, Negoziare. Sulla governamentalità neoliberale, in A. Ong, Neoliberalismo come eccezione, cit., p. 19. 19 M.R. Ferrarese, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, il Mulino, Bologna 2002, pp. 56-57. Sul tema mi permetto di rinviare a A. Tucci,

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punto di vista più strettamente giuridico, rinvia alla questione non semplice e mai definitivamente risolvibile, della proliferazione e pluralizzazione degli ordinamenti giuridici e dunque alla loro coesistenza e compatibilità. Una cosa è certa: istituzioni siffatte decretano l’impossibilità di mantenere l’analisi all’interno del nesso ordine/ordinamento e, tanto meno, della sua connotazione tradizionale gerarchica-piramidale. La normatività è tanto tecnica e formale che fattuale e immanente e chiama in causa ancora una volta quell’attitudine governamentale biopolitica all’autoregolazione che originariamente si è confrontata criticamente col governo astratto e sovrano, contrapponendo ad esso l’esigenza di “essere governati di meno” e che oggi col neoliberalismo accampa la naturalità ed efficacia dei meccanismi spontanei di regolazione del mercato e del sociale. La governamentalità non è infatti governo sulle vite, ma delle vite, e dunque risponde ad una logica incrementativa, produttiva, che coesiste con il carattere repressivo/ sanzionatorio del diritto moderno solo subordinandolo ai propri obiettivi di sicurezza. Di questa, che possiamo definire una svolta cruciale per la riflessione giuridico-politica contemporanea, è testimonianza l’affermazione sempre più evidente della lex mercatoria e della prassi che consolidano il soft law. La lex mercatoria che Galgano ha definito «doppiamente extrastatuale»20 – proprio perché del paradigma statualistico mette in discussione due dei suoi cardini fondamentali, cioè quelli della territorialità e della positività del diritto – si innesta, in quanto diritto transnazionale e consuetudinario, sulla crisi dell’autorità sovrana dello stato-nazione. Allo stesso modo il soft law: esso dal punto di vista tecnico giuridico rinvia ad una serie di fonti che, pur producendo effetti, trovano con molta difficoltà una integrazione nel sistema, essendo ormai lontane le caratteristiche della legge generale, astratta, rigida. Fonti, che in definitiva mirano piuttosto a consolidarsi nella prassi, che non a codificarsi21. Si tratta, dunque, di modalità del diritto che funzionano proprio in nome di quella normatività immanente e fattuale, orizzontale, che abbiaImmagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012. 20 F. Galgano, Lex mercatoria, V ed., il Mulino, Bologna 2010, p. 284. 21 «Una forma di diritto che implica alcuni impegni o obblighi, ma li accomuna con sanzioni e che nonostante questo, o forse proprio per questo, mira al raggiungimento di effetti pratici», M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna 2010, p. 36. Cfr. A. Somma (a cura di), Soft law and hard law nelle società post-moderne, Giappichelli, Torino 2009, in particolare i saggi di M.R Ferrarese e B. Pastore. Nello stesso volume per una posizione particolarmente critica nei confronti dell’enfasi posta sulle norme di soft law si veda R. Bin, Soft law, no law, pp. 35 e ss.

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mo richiamato in precedenza e mettono, perciò, a fuoco la connotazione delle norme stesse in termini di potere e di prassi, piuttosto che in termini di obblighi e sanzioni, nei quali il discrimine tra lecito e illecito risulta ben marcato. Si configurano perciò forme del diritto, per così dire, partecipative, in cui risaltano forme di agency, sganciate dalla normatività in senso stretto e piegate verso processi di costruzione e formazione delle decisioni dal basso. Conseguentemente si ridimensiona e si ricolloca il ruolo della forza dentro e attraverso la complessità delle trame giuridiche: le pratiche coercitive pur persistendo nei punti nodali dove la stessa sovranità si muove a controllare spazi e confini in nome della sicurezza interna e esterna, cedono il passo alla mediazione e alla negoziazione. Questo slittamento dell’accento generale del sistema, non implica che vengano meno pratiche di resistenza che sono in qualche modo sollecitate dalla forma di autogoverno e autoregolazione implicata dalla libertà neoliberale: difficilmente però le resistenze si manifestano nella forma classico-moderna dell’antagonismo, con il conseguente portato di reazioni di tipo sanzionatorio e coercitivo e la più precisa identificazione dei contendenti in conflitto. Piuttosto si affermano pratiche che interpretano la resistenza come sottrazione ai dispositivi di governo, come spostamento negli interstizi lasciati liberi dalla regolamentazione molare, come elusione dalla presa del diritto. E non è quanto accade tra l’altro ai cittadini, reclusi oppure liberati, nelle zone speciali della sovranità graduata di Ong? 2. Confini, poteri, soggetti La metamorfosi delle forme si accompagna a quella che già da qualche decennio viene connotata come la crisi della spazialità politico-giuridica – la deformazione delle geometrie spaziali moderne22 – sotto gli impulsi della globalizzazione, in primo luogo, economica. Abbiamo già visto come la sovranità abbia subìto sconfinamenti e decostruzioni e questo mette in discussione in primo luogo il criterio di definizione della nazionalità stessa: il confine, appunto costruito secondo le geometria perfette dalle grandi potenze nazionali. Tutto questo, come è evidente, oggi viene meno, ma i confini non scompaiono, si assiste anzi 22 Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna 2001, pp. 131-172. Cfr. anche J. Painter, Cartographic Anxiety and the Search for Regionality, in “Environment and Planning ”, 2, 2008, pp. 342-361.

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ad una loro proliferazione – sia in termini materiali che simbolici – in un’ambivalenza ermeneutica che vede i confini stessi come istituzione che separa e allo stesso tempo come luogo “strutturato di relazioni sociali”, dal momento che essi «riproducono situazioni di tensione e di conflitto, di divisione e di connessione, di attraversamento e di sbarramento, di vita e di morte»23. Del resto Wendy Brown, nel suo fortunato libro sugli Stati murati, muove proprio da questo doppio binario in cui si districano i fenomeni globali «tra aperture e barricate, fusioni e partizioni, cancellazioni e reiscrizioni»24, in cui i muri, confermando la logica tipica della governance, si connotano come dispostivi di garanzia, insieme di libertà e sicurezza nelle politiche sicuritarie di gestione del rischio, che spesso si traducono anche in forme di protezionismo nazionale e identitario, a conferma di una sovranità statuale che in ogni caso resiste alle trasformazioni. Anzi è proprio attraverso la costruzione di muri, alla definizione marcata di confini, che lo Stato «può apparire una ipersovranità, ma in realtà spesso sta compensando una perdita di sovranità»25. Questa ambivalenza dei confini – che va oltre l’interpretazione degli stessi come dispositivi di sicurezza, mediante i quali si costruiscono tecniche e strategie politiche e architettoniche, geografiche, di esclusione26 – è stata ampiamente argomentata all’interno dei Border studies, che rilevano come nella contemporaneità si assiste a “processi di de-bordering”, che tuttavia non implicano «una semplice erosione del confine, ma una sua complessa riorganizzazione attorno a differenti priorità di controllo»27. Un rafforzamento dei confini, una delimitazione degli spazi, che in modo apparentemente paradossale si sovrappone alla loro stessa crisi: proprio nella logica della (dis)aggregazione, che fa tutt’uno a nostro avviso con l’inclusività, selettiva e differenziale, della governamentalità biopolitica. È particolarmente interessante notare qui come nel ripensamento della spazialità giuridico-politica contemporanea Saskia Sassen ponga il con23 S. Mezzadra, B. Neilson, Confine come metodo, in http://eipcp.net/ 24 W. Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2013, p. 4. 25 Ivi, p. 63. 26 Cfr. P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997. Cfr. tra i lavori ormai classici di M. Davis, almeno, Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles (1990), tr. it. Manifestolibri, Roma 1999 e Id., Geografie della paura. Los Angeles: l’immaginario collettivo del disastro (1998), tr. it. Feltrinelli, Milano 1999. 27 G. Campesi, Migrazioni, sicurezza, confini nella teoria sociale contemporanea, in “Studi sulla questione criminale”, 2, 2012, p. 8.

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fine come luogo produttivo di senso, segnale mediante il quale si delineano processi di localizzazione e delocalizzazione delle nuove dinamiche globali, quando ad esempio afferma che «assistiamo alla creazione di “confini” specifici per contenere e disciplinare flussi emergenti, spesso strategici, che “violano” i confini nazionali tradizionali»28; come accade nel caso dei nuovi regimi del NAFTA e del GATT che favoriscono la circolazione di professionisti altamente specializzati, i cui spostamenti sono regolati da una legislazione che esula i regimi migratori specifici degli Stati, o ancora nel caso della collocazione di un sito economico in una rete globale di “confini”, per cui l’economia globale appare come «costituita da una serie di circuiti specializzati o parziali e di spazi economici molteplici e spesso sovrapposti»29, dove appunto le linee di demarcazione si fanno mobili, ambivalenti, ma non scompaiono sotto le spinte della governance. Come in quello della forma normativa anche nel caso del confine – uno dei pilastri sui quali era stato edificato il costrutto teorico della modernità giuridica e politica, il confine appunto, la frontiera, il limite di validità ed efficacia dell’ordinamento che organizzava il suo senso – si può affermare che solo apparentemente si svuota e tramonta. La realtà e la concretezza dello spazio, nazionale e internazionale e transnazionale che disegna confini che attraversano le vecchie e comunque esistenti frontiere, rimane una dimensione portante della governamentalità e in qualche modo si accentua nella portata globale e apparentemente illimitata del suo riferimento30. Declina certo il mito e l’ideologia che intorno al territorio nazionale e alla frontiera erano stati costruiti mediante il concetto di sovranità, esclusiva e escludente, mappatura artificiale e politica che, pur persistendo, non esaurisce evidentemente il senso delle relazioni di potere nelle nuove forme di ‘zonaggio’ e nei nuovi criteri di separazione e delimitazione delle popolazioni. La stessa Sassen assume ancora il criterio della territorialità – insieme all’autorità e ai diritti – come un tratto costitutivo della definizione del politico e del giuridico. Diritto e politica, evidentemente, negli assemblaggi globali assumono nuove configurazioni al cospetto di una incalco28 S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, cit., p. 213. 29 Ivi, p. 214. 30 Cfr. J. Ferguson, A. Gupta, Spatialing States: Toward an Etnography of Neoliberal Governmentality, in J.X. Inda (ed.), Anthropology of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, Blackwell Publishing, Oxford 2005, in cui gli autori sviluppano l’idea di “governamentalità transnazionale” in relazione alle nuove tecniche di governo che si affermano su scala globale.

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labile – e pertanto irriducibile a sistema – «varietà di caratteristiche spazio-temporali»31. Le categorie centrali della tradizione giuridico-politica, piuttosto che essere liquidate, sono messe in mora nella accezione piena dei loro significati e vengono ricollocate in in-formali sintesi di continuità e interruzioni tra nazionale e globale, universale e particolare, tra mobilità e stabilità. Il concetto chiave di denazionalizzazione utilizzato da Sassen apre infatti alla dinamicità delle relazioni tra nazionale e globale, evidenziando forme incompiute e imperfette, provvisorie, rivedibili e ricomponibili di spazi circoscritti e differenziati, non coincidenti o raramente coincidenti con l’antica partizione geopolitica. Gli assemblaggi globali sembrano confermare la razionalità dominante: il territorio, lo spazio giuridico, non più organizzato in modo piramidale, è inserito in una organizzazione di tipo reticolare – e tendenzialmente orizzontale anche se pervicacemente diseguale e asimmetrica – confermando il principio della compatibilità. Di conseguenza queste indagini sociologico-giuridiche, pur non volendo negare i mutamenti epocali anche radicali, mettono in discussione la possibilità di parlare di un ritrarsi dello Stato. La persistenza dello Stato è ad esempio evidente nelle affermazioni del giurista Francesco Galgano: «È vero che l’iniziativa politica degli Stati ha dato vita alle ben note organizzazioni di governo mondiale dell’economia, quali il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Gruppo della Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale della sanità ed altra ancora. Per il tramite di queste entità, secondo una formula ricorrente, gli Stati cessano di essere sovrani uti singuli, per restare sovrani uti soci. Ma è altrettanto vero che queste organizzazioni, le cosiddette Governmental Organizations, non sono in grado di operare come vere e proprie organizzazioni sovranazionali e che si sono di fatto rivelate, piuttosto, quali strumenti di attuazione, di politiche di volta in volta centrate dagli Stati»32. L’organizzazione reticolare in cui viene coinvolto lo stesso Stato nazionale coinvolge, peraltro, tutto il sistema delle fonti: una nebulosa di fonti concorrenti e alternative, interne ed esterne allo Stato. Tutta una serie di fonti, che in coesistenza tra loro, confermano le disaggregazioni della so31 S. Sassen, Territorio, autorità, diritti, cit., p. 480. 32 F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, il Mulino, Bologna 2005, p. 85. Cfr. di M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna 2010 e da ultimo con particolare attenzione “al passaggio dal government alla governance” sotto la spinta del neoliberalismo La crisi finanziaria tra stati e mercati e il “mondo 3” dell’economia globale, in “Democrazia e diritto”, 3/4, 2012, pp. 13-38.

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vranità e degli spazi politico-giuridici. Manifestano un processo che agisce da un lato destrutturando i confini certi della spazialità nazionale – ma allo stesso tempo al e dal loro interno – confermando quell’ambivalenza del confine, del limite, tra dispositivi di esclusione e dispositivi mobili di potenziamento, che si esercitano in pratiche inedite di contrattazione e mediazione. Geometrie necessariamente nuove e variabili si disegnano, dunque, tra i tre elementi dell’assemblaggio sasseniano trasformando assetti istituzionali tradizionalmente solidi e generando nuovi soggetti destinati a produrre il nuovo assemblaggio e a dissolversi con il successivo dis-assemblamento, seguendo processi di riaggregazione parziale e momentanea. Questi processi, evidentemente, trovano la loro sur-determinazione nel predominio culturale e pratico che il mercato ha assunto mostrandosi in grado di flettere le coordinate dell’esperienza e della vita nel suo complesso. È importante, infatti, sottolineare la trasformazione antropologica che è sottesa a queste pratiche che operano esattamente sulle vite e sulle soggettivazioni: la priorità della libertà che viene mobilitata e che è sempre di nuovo catturata dalle tecniche governamentali che su di essa e a partire da essa esercitano la loro gestione33. Questo produce, conseguentemente, un ripensamento delle categorie stesse di identità e cittadinanza, che pur mantenendo l’originaria valenza semantica, perdono gran parte del loro peso normativo, a favore di una relativizzazione e una immanentizzazione delle pratiche di riconoscimento e acquisizione dei diritti oltre la loro veicolazione in termini sovrani e nazionali, ma anche oltre ogni pretesa, cosmopolitica formale che si afferma a partire dalla presunzione di un “tempo-spazio vuoto e omogeneo della modernità”, contro il “tempo-spazio-eterogeneo della governamentalità”34 e perciò plurale e differenziale, ambivalente e contraddittorio, ma non in modo inconciliabile.

33 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite, cit., e da ultimo Ead., Governamentalità: pratiche e concetti, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2, 2013. 34 P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati (2004), tr. it. Meltemi, Roma 2006, pp. 22-24.

PARTE PRIMA

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Laura Bazzicalupo

LE MOBILI LINEE DI CONFINE NELLA NORMATIVITÀ SOCIALE E LA INDETERMINATEZZA DELLE PROCEDURE

1. Quando cambia la norma. La naturalizzazione dell’umano La razionalità politica occidentale neoliberale, implicata nel governo del vivente e che dal vivente deve trarre la sua specificità, genera un mix di incrementazione, potenziamento della produttività degli individui e delle popolazioni, sollecitazione delle eccedenze creative, ma anche garanzie della sicurezza, normalizzazione delle stesse eccedenze, gestione del rischio che lo stesso potenziamento genera. Questa destinazione ambigua dei suoi dispositivi si riverbera in una ambiguità strutturale della loro opera performativa che – diversamente dal paradigma sovrano che ha retto l’autocomprensione politica della modernità tramite una inclusione escludente – genera esclusioni e inclusività parallele e coesistenti, non necessariamente, come prima, l’uno rovescio dell’altra. Come è possibile che una tecnica di governo si muova normativamente tra così profonde contraddizioni, accettandole come compatibili? Vorremmo interrogarci su questa modalità di governo che genera soggettivazioni diverse da quella che il modus classico della politica e del diritto moderno produceva e più precisamente sul mutamento del modus normativo. Questo obiettivo implica l’analisi dei successivi slittamenti del concetto di norma che rivelano una progressiva, radicale metamorfosi la quale a sua volta rinvia ad una ontologia sociale diversa da quella rappresentata dal moderno. Il primo passo è la Legge, rispetto alla quale, come è già stato più volte evidenziato, la norma di gestione del vivente si fa flessibile e adeguata alla promozione e protezione della vita di gruppi e di popolazioni. Questo primo slittamento introduce già nel governo delle vite una logica diversa e in parte concorrente con quella sovrana e giuridica, legata al trascendentalismo e al regime di rappresentazione identitaria. La trasformazione dello statuto ontologico della società e della norma in questo passaggio epocale, porta infatti con sé quello slittamento dal giudizio alla

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valutazione e all’autovalutazione, che è il focus di questo saggio. Slittamento che implica non una sostituzione, ma una compresenza dell’eterogeneo. Compresenza e compatibilità non sono infatti un dato accessorio, ma strutturale e svolgono una funzione portante nel sistema, così come il dato della coerenza era cruciale nel paradigma dell’ordinamento sovrano e generava lo status di eccezione come limite e senso dell’ordine stesso. Così la incoerenza e la compatibilità all’interno del nuovo sistema sollevano un dubbio radicale sull’ontologia politica e giuridica dell’ordinamento e su legge e giudizio. Ha un ruolo intermedio in questo percorso di metamorfosi la teoria dell’istituzionalismo, nel quale si iscrivono modi di pensare la norma profondamente diversi rispetto allo schema deduttivo e artificiale, formale e giuridico del diritto cosiddetto moderno1. Delle molteplici forme di pensiero istituzionalista, il paradigma governamentale cui qui faccio riferimento offre una modalità che rinvia alle capacità autoregolative del vivente come definita dalla epistemologia di Canguilhem, capacità autoregolative che diventano un riferimento normativo ‘immanente’ nelle policies sociali caratteristiche degli interventi biopolitici moderni. Quando la governamentalità biopolitica si radicalizza, nella fase neoliberista, legando la scelta libera dei viventi alla norma di autogoverno di ciascuno, adatta alla sua differente produttività e alla sua pulsione desiderante, come avviene oggi, ci accorgiamo che la sedimentata regolazione sociale evocata dall’istituzionalismo, diventa labile. Il diritto e le pratiche regolative cedono a forme di contrattazione; contrattazione che si ritiene legittima e compatibile anche in casi tradizionalmente risolti nella coerente cornice dell’ordinamento giuridico pubblico ed esclusi dalla transazione privata 2. 1

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Impossibile nell’arco di questo saggio confrontarsi con le teorie istituzionalistiche: una rapida ma intelligente ricognizione del tema in M. Croce, Che cos’è l’istituzione, Carocci, Roma 2010; un’analisi puntuale dell’ambiguità dell’istituzionalismo in A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012. Le resistenze all’esecuzione della sentenza di condanna dell’ex-premier Berlusconi, assolutamente inaudite da un punto di vista giuridico, trovano qui un ambiente plausibile di contrattazione e opportunità, che paradossalmente, a fronte dell’irrigidimento legalitario, si rovescia in una esasperata caccia alla formalità giuridica che permetta una via di scampo: a riprova della compresenza incoerente delle due logiche. Sulle trasformazioni profonde che investono il paradigma giuridico moderno, cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008; sulla tematica la recente pubblicazione F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le metamorfosi del diritto. Studi in memoria di Alfonso Catania, Mimesis, Milano 2013.

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Il giuridico che separava nettamente Legge e Politica se non nel vertice ipotetico della Norma Base, e che già aveva subito un colpo decisivo nella forma del neocostituzionalismo (che sbilanciava sul giudizio di contenuto e di valore le conflittualità del sistema), diventa sempre di più uno strumento dei gruppi per regolare la relativa prevedibilità di scelte di natura economica tramite una giurisdizionalità che sembra più valutativa che giudicante offrendo quindi alla analisi proprio questo segmento normativo tra i poli del giudizio (escludente) e la valutazione inclusiva di opportunità. Dobbiamo chiederci dunque come cambia ancora la norma governamentale nel passaggio dai dispositivi disciplinari alla inedita modalità liberogena e liberticida, radicalmente nuova della bioeconomia neoliberale, che Foucault chiama propriamente biopolitica. Se governare significa selezionare gruppi e popolazione sulla base della loro specifica dotazione psicofisica e biologica per controllarne le condotte, prevederne i comportamenti differenziali e stimolarne la produttività e il benessere a vantaggio personale o della classe dirigente o del collettivo – qui non rileva – diventa necessario mantenere un ancoraggio costante della norma non alle verità trascendenti e morali, ma al livello biologico, naturale e scientificamente oggettivabile dell’umano. In questo senso ci troviamo – nonostante l’opera di governo abbia ascendenti molto nobili in pratiche premoderne religiose – di fronte ad una realtà schiettamente moderna, incardinata nella svolta scientifica della modernità e nella naturalizzazione e biologizzazione dell’umano3. Mi soffermo su questo dato abbastanza ovvio e banale, perché non si può afferrare la pervasività della tecnica di governo biopolitica se si sottovaluta il regime di verità indiscusso, quello della scienza ‘naturale’ tanto biologica che economica, che la modernità ha posto al centro della conoscenza, anche e soprattutto conoscenza dell’umano vivente. L’esplosione della governamentalità biopolitica è strettamente connessa con lo sviluppo delle scienze della vita e delle scienze sociali positiviste che sul modello della natura delineano nel secolo XIXesimo il proprio statuto. Il programma di scientifizzazione dell’intero universo antropologico è un’impresa per qualche verso titanica, che viene a patti in più punti – senza dichiararlo – col versante cui si oppone, l’umanesimo cristiano e neoplatonico, i suoi valori, le sue sacralità. Un programma che dobbiamo immaginare articolato su due livelli: quello delle scienze che forniscono ipotesi e proposizioni per una conoscenza oggettiva e matematizzabile (tramite la 3

Rinvio, per una ricognizione bibliografica analitica, a L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010.

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statistica) dei viventi umani, e quello della doxa che costruisce con quei saperi normazioni del quotidiano sottratte alla discussione e in-disponibili al cambiamento politico. Parlare di comportamenti, di significati in termini di regolarità che li rendono prevedibili implica – al di là della complessità che non è qui in discussione e una volta che si voglia sfuggire alla idealizzazione, binaria e generica, dell’Umano della rappresentazione umanistica – un certo riduzionismo, ma non assoluto. Piuttosto la necessità di classificazioni che aggreghino la fenomenologia dispersiva dei dati. Classificazioni che fanno perno non sull’identità, ma sulla differenza; sul differenziale, cioè sullo scarto del significato, che non esclude alcun termine, ma lo sottopone ad una tassonomia inclusiva. Laddove la Legge sembra modellarsi sulla eterna forma del sacro trascendente, del bene e del giusto o dell’ordine, sia pure secolarizzandolo e laddove la Legge, di conseguenza, dà luogo all’effetto di esclusione e inclusione universalista, tipico del giudizio, la classificazione naturalistica collaziona le somiglianze e le associazioni per formare gruppi riconoscibili di differenze che esigeranno differenti management. È, ripeto, necessario soffermarsi su questo punto perché nei dispositivi governamentali, per quanto possano trasformarsi nel tempo, resta costante il ruolo strutturante del regime di verità. È quest’ultimo ad essere chiamato ad autorizzare un sapere esperto, tecnico, sottratto all’arbitrio della decisione sovrana e artificiale. Un sapere tale da garantire non solo l’efficacia dell’azione, ma anche tale da ottenere il consenso e la collaborazione dei governati come può avvenire solo in una dimensione di oggettività, di naturalità della regolamentazione. La potenza normativa della ‘natura’, intesa in senso lato ed estesa all’intera realtà, è filtrata attraverso le sue leggi, la sua oggettivazione scientifica e matematizzabile che non può non applicarsi alle stesse scienze politiche, sociali e giuridiche fino ad allora agganciate alla metafisica: con l’obiettivo di ottenere il massimo rendimento e la massima adeguatezza ai bisogni stessi dei viventi. Solo un sapere adeguato rivela la norma specifica della vita o la norma differenziale delle vite in questione, la potenzialità o la fragilità della loro natura. Ovviamente, ed è superfluo sottolinearlo, questo sapere scientifico della naturalità antropologica, politica ed economica – dalla biologia darwiniana alle nascenti scienze umane – oggettiverà il vivente esattamente in vista della sua governabilità, sottolineando quelle caratteristiche o quelle potenzialità che hanno o possono avere ricadute nel progetto gestionale e incrementativo. Se è vero che questa centralità della norma, intesa come regola del vivente stesso, coincide a volte con una forma di istituzionalismo e con la sua valorizzazione dei poteri sociali immanenti che, nel tempo, sono stati capaci di autogoverno e di regolazione spontanea e consuetudinaria della società

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(soprattutto nel dominio strettamente economico), in realtà le affinità con le teorie istituzionali classiche non sono maggiori rispetto alle differenze, perché lo spirito della governamentalità biopolitica non è sostanzialmente conservativo e antistatuale, come sembra essere l’istituzionalismo. Prevale una programmazione progressista, migliorativa e incrementativa che dispone le sue policies al di sopra della consuetudine normativa, in nome di una scientificità tecnica che ne supera le inefficienze e le distorsioni. La governamentalità, almeno nella sua facies prevalente, è normativa, nel senso di non essere puramente fattualista, nonostante il conclamato immanentismo antimetafisico. Si inserisce dunque in un disegno politico e si manifesta come una tecnica specifica di esercizio del potere: tecnica di controllo e di orientamento. Seppure agisce a distanza prudenziale dal giuridico formale che procede per assiomi, deduzioni e sussunzioni, come il diritto e come la politica sovrana, seppure si inserisce negli spazi di eccezione e di emergenza di quel diritto, allargandoli fino a farli coincidere con la normalità, ha essa stessa un progetto orientativo, una normatività. Una normatività di nuovo genere, in quanto si presenta come un trascendimento immanente, una norma che emerge da un sapere adeguato della natura e della vita stessa. La fase ultima, quella che stiamo vivendo, caratterizzata da un ulteriore cambiamento normativo, modica in parte questo livello dualistico di norma, ma non per questo ne è priva. Ma procediamo con ordine: raccontiamo una storia. 2. Governamentalità neoliberale e compatibilità dell’eterogeneo Oggi, nei dispositivi di sicurezza, nel sistema di rischio e assicurazione che orienta le scelte di policy, manca la premessa normativa, il dover essere, il modello. Un modello era invece presente nella sociobiologia – costruita sulla doxa darwiniana – che funge da paradigma otto-novecentesco del governo biopolitico moderno. In che senso usiamo il termine modello? Il governo biopolitico, per Foucault, non mira alla conformità ad un modello preesistente e trascendente, ma ad una fitness, un comportamento adeguato che si ricava dalle regolarità dell’esistente. Il termine fitness che ha avuto, in tutta evidenza, una fortuna popolare assai al di là del suo significato scientifico, indica una condotta ‘adatta’ adeguata alla sopravvivenza e al potenziamento della vitalità di un organismo in un ambiente dato. Si tratta di un criterio regolativo, piuttosto che di un eidos, idea o modello: orienta il governo ad adattare, tramite disciplinamento, i comportamenti di un numero statisticamente significativo

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di viventi relativamente omogenei a nuove norme di vita, meno dispersive e svantaggiose relativamente alle esigenze ambientali. L’adattamento avviene non per motivazioni o esigenze estrinseche, ma semplicemente articolando, secondo i dettami dell’evoluzionismo biologico, uno spazio di regolazione e di scambio con l’ambiente – la fitness non essendo altro che la relazione del vivente con l’ambiente. L’ambiente, il milieu dei dati materiali che insieme agli eventi aleatori, influiscono sul bios delle popolazioni è lo spazio dell’azione indiretta del loro governo. Da un punto di vista teorico, il carattere indiretto di questa azione sembra aggirare la tentazione eugenetica di definire un modello naturale e eventualmente razziale, superiore e di stabilire così una norma per “cambiare la specie umana”4. Nonostante opportunamente molti studi di biopolitica abbiano sottolineato il versante razzista escludente e addirittura tanatologico, implicito in ogni classificazione biologica, nella governamentalità il ruolo della fitness risulta orientato alla gestione ambientale al fine di creare condizionamenti favorevoli allo sviluppo biologico. L’eugenetica, che senza dubbio pertiene alla biopolitica e che oggi si pratica nella sua versione preventiva-negativa senza particolari traumi morali nei paesi di tradizione liberal-democratica, non esaurisce il significato della norma sul quale vorremmo ragionare. In essa infatti la separazione dell’adatto alla vita dal non adatto è segnata dal confine oppositivo estremo della morte e della uccidibilità5. È fondamentale a mio avviso, nella considerazione sulla nuova normatività, coglierne appieno la natura di classificazione inclusiva e adattiva, tenendone ferma e non rimossa l’ombra tanatologica, raramente esplicita che accompagna proprio queste pratiche di inclusività e di potenziamento. Entro, ma anche al di là delle esperienze eugenetiche (nell’esempio del nazismo, ma anche e contemporaneamente di paesi “democratici” come California e Scandinavia) dove può sembrare che la uccidibilità del non adatto sia una questione circoscrivibile ad un evento tragico e concluso della nostra storia. Tutt’altro. Il criterio della fitness si focalizza prevalentemente sul polo ambientale della relazione biopolitica – polo storico, artificiale, modificabile – ma resta implicita l’idea di una superiorità, non misurabile a priori ma a posteriori e statisticamente, di chi meglio si adatta, con la conseguenza di relegare a funzioni inferiori, marginali, quelli meno 4 5

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collége de France (1977-1978) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 31. Esemplare l’interpretazione di G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995; la tensione tra polo biopolitico affermativo e tanatologico in R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

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adatti. Come crudamente si esprime Foucault nella sua famosa sentenza di presentazione della biopolitica: essa fa vivere e lascia morire. Che senso ha, per la governamentalità biopolitica, la norma? Con quali procedure la evince e poi la impone come condotta naturale e adatta? Nel quadro biopolitico, la norma è a posteriori: emerge dal comportamento globale di una popolazione. Si controllano i comportamenti, racconta Foucault, inoculando – in senso proprio nelle vaccinazioni e in senso metaforico nella medicina sociale – procedure e norme di vita dietologiche, urbanistiche, territoriali, in grado di avere una ricaduta positiva sul soggetto che ne viene formato. La norma sociale si rivela organizzabile in due grandi categorie gestionali, diverse a seconda del contesto disciplinare o sicuritario. Nel primo, normale è ciò che è capace di conformarsi ad una norma posta come mezzo per certi fini laddove l’anormale non ne è capace. «La disciplina concentra, fissa, rinchiude […] regola tutto, non tralascia nulla [mira a] determinare esattamente ciò che è vietato e ciò che è permesso, o piuttosto, obbligatorio […] stabilisce le sequenze e le coordinate ottimali […] fissa i procedimenti di addestramento progressivo»6. Evidente la prescrizione di un comportamento ‘ottimale’ dove, dice Foucault, ciò che è normale precede la norma stessa: «la norma è dedotta, si fissa e diviene operativa in seguito a questo studio della normalità»7. Il dispositivo sicuritario è invece indefinito, tende ad integrare sempre nuovi elementi eterogenei: psicologici, morali, economici, commerciali e produttivi, che hanno origine esterna rispetto alla azione biopolitica di governo, la quale piuttosto li coordina, li finalizza, ne recupera la effettività: senza giudicare, operando sotto il segno del realismo. La norma qui “è un gioco all’interno di normalità differenziali”, che mette in relazione differenti distribuzioni di normalità. La differenza acquisisce dunque un ruolo cruciale rispetto alla somiglianza delle fattispecie, per decidere i comportamenti. La divaricazione dalla legge generale tendenzialmente universale è totale. Non ci si comporta allo stesso modo con due delinquenti diversi, con due evasori fiscali diversi. Il meccanismo disciplinare si rovescia evidenziando forme di autonormatività del sociale. Foucault (e molti con lui) elabora in questo percorso la tesi della continuità tra normale e anormale dell’epistemologo francese Canguilhem per il quale la separazione netta tra patologico e normale è fuorviante e astratta, che nella prima parte de Il normale e il patologico, sostiene che «i fenomeni patologici non sono negli organismi viventi niente più che delle 6 7

M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 45-50. Ivi, pp. 55-56.

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variazioni quantitative, secondo il più o il meno, dei fenomeni fisiologici corrispondenti»8. Variazioni quantitative che escludono dunque la purezza degli estremi e mettono in luce un segmento continuo di piccole variazioni. Che fanno pensare alle petites variationes di Leibniz, il filosofo della differenza che indica nel Δ differenziale il luogo della individuazione. Il dispositivo sicuritario per il trattamento del vaiolo cancellerà la divisione tra normale e anormale e assumerà l’insieme della popolazione, “a rischio”, malati e non malati, senza discontinuità, esattamente in quanto esposti al rischio e perciò alla profilassi. Il profilo significativo non è mai quello individuale ma la differenzialità dei gruppi a rischio, più o meno devianti dalla media generale, che il dispositivo deve far rientrare nei margini di una normalità statistica. Le scienze del processo di naturalizzazione non sono dunque astratte; il loro ragionamento empirico si muove lungo un segmento che va dalla somiglianza/identità verso la differenza e la sua definizione teorica. Se la somiglianza permette la identificazione di gruppi di individui accomunati da un problema simile, la differenza diventa il cardine di scienze umane che si legittimano in base agli effetti o in base a cause individuate in frammenti di realtà che hanno proprietà specifiche particolari. La differenza disgiunge in particolare quelle realtà che dipendono dallo scambio e dalla comunicazione nelle quali possiamo includere l’economia, fatta di cose simili che si possono confrontare e cose dissimili che si possono scambiare9. L’economia, dunque, ma in verità anche tutta la cultura che è il regno dello scambio, cui oggi si estende la logica economica. E il processo di differenziazione non può che incidere sul carattere stabile della norma. È importante dunque sottolineare che la riconduzione della biopolitica alla governamentalità comporta una ridefinizione incessante del concetto di norma. Non l’esteriorità, la trascendenza della forma e del criterio che si calano sul fenomeno per misurarlo e giudicarlo: la norma è immanente alla vita stessa. La forma stessa empirica della indagine foucaultiana non può portare che a questo, sia pure, talvolta, in modo aporetico. Il riferimento è, come si è detto, l’epistemologo e storico delle scienze della vita, Canguilhem: «Per normativo si intende in filosofia ogni giudizio che consideri o qualifichi un fatto in relazione ad una norma, ma questo tipo di giudizio è in fondo subordinato a quello che istituisce le norme. È normativo in 8 9

G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 18. Le teorie dell’informazione come percezione di una differenza (G. Bateson) e della comunicazione come trasmissione differenziale (teoria matematica della comunicazione di Shannon e Weaver) fanno perno sulla differenza subendo continui arricchimenti e complicazioni in tal senso.

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senso stretto, ciò che istituisce delle norme. Ed è in questo senso che noi proponiamo di parlare di una normatività biologica»10. Il vivente – la vita si dà sempre come individuata – è dunque autonormativo, autoregolativo e la biopolitica neoliberale tenderà sempre di più a valorizzare questa capacità autoregolativa degli individui e dei gruppi, che divengono responsabili del proprio maggiore o minore adattamento ambientale. Non dunque una introitazione delle norme sociali per manipolazione – come pure soprattutto negli anni postbellici si credeva, presupponendo una esternità essenziale dei poli della relazione in sé definiti a priori – ma una stimolazione della “libertà” che gestisce se stessa e si autogoverna nel modo adeguato all’ambiente concorrenziale. Tutto questo comporta una sorprendente obsolescenza della impostazione moderna del problema condizionamento normativo/libertà, che non si presentano più semplicemente come opposti ma come due momenti simultanei, compresenti nello stesso campo di azione. L’antinomia kantiana tra natura e libertà si riscrive nel segmento di autoregolazione secondo natura. E la libertà, per quanto nel neoliberalismo sia pensata in capo al soggetto individuale, non è facoltà o arbitrio di un soggetto, ma una relazione del Sé alla propria vita e al mondo. Le proprietà e le capacitazioni individuali che il liberalismo tradizionalmente attribuiva al soggetto autonomo, diventano materialisticamente potenzialità che lo assimilano ad una classe di individui (lo classificano nel suo segmento di rischio e di capacità!) e lo diversificano da altre classi, nell’aspettativa della attuazione responsabile di ciascuno (questa la governabilità neoliberale del capitale umano e dell’uomo imprenditore di se stesso!), che sarà possibilmente favorita da condizioni ambientali che non la ostacolino. Le appartenenze e le esclusioni che caratterizzavano normativamente la identità del soggetto politico moderno non hanno corso, in quanto le differenze risultano variabili e potenziali. Diventa così possibile aggirare la normatività trascendentale, anche quella che assume le verità della biologia per applicarle al sociale. Norma è il modus in cui si organizza e diviene il vivente: modus di autogoverno delle forze vive sociali e modus del quale un efficace governo dei viventi tiene conto. 3. Giudizio e valutazione: esclusione/inclusione e inclusività selettiva Se analizziamo, come abbiamo tentato di fare brevemente, la razionalità politica governamentale “dal lato della norma”, emerge dunque una doppia 10 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, cit., p. 96, (corsivo mio).

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caratteristica: la immanenza della regola al vivente, regola che si presume sia conoscibile attraverso regimi di sapere che considerano pertinenti e rilevanti i soli tratti del vivente che lo rendano governabile (da sé o dagli altri: qui non rileva) – e lo sfondamento del sistema verso la illimitatezza, in quanto la norma immanente non coincide con un limite definito, una chiusura includente/escludente del campo di azione, ma è applicabile a variabili infinite e si esercita proprio nella infinita differenziazione. Illimitatezza sistemica, differenzialità variabile sono caratteri che rendono strutturalmente inadeguata la logica moderna della politica e del diritto, pensati entrambi in un’ottica ordinamentale o statuale coerente e conclusa (e perciò includente/ escludente). La logica della governamentalità, che, ripeto, è anch’essa una forma di razionalità politica, è economica e mira ad estendere alla politica (e al diritto, e alla vita sociale tutta) i suoi caratteri, rivoluzionando la prospettiva e l’ontologia e costringendo a evidenti tensioni le vecchie strutture istituzionali11. Logica economica significa logica modale, strategica, che sviluppa attorno a quel tipo di norma immanente, i cui profili abbiamo abbozzato, pratiche e dispositivi che applichino il suo principio portante: l’ottimizzazione delle scelte in relazione a fini o a obiettivi da raggiungere in una situazione di scarsità di risorse. Inutile sottolineare che in quel principio c’è tutto il portato metafisico e ideologico del capitalismo liberale: non è questo il nostro tema. Vorrei sottolineare invece gli effetti del mutamento normativo sulle procedure di governo delle vite. Non gli effetti sulle vite che, implicando uno sguardo psico-sociologico, sarebbe troppo, ma gli effetti sulle procedure. Si ha un passaggio dal costrutto deduttivo e sintetico del giudizio, alla struttura aperta e indeterminata della valutazione; passaggio che – giusto il carattere principale di eterogeneità simultanea della nuova razionalità governamentale – non implica esclusione ma coesistenza e compatibilità con il paradigma precedente, che era la procedura tipica della logica rappresentativa (e trascendente) e della Legge tendenzialmente generale e astratta. La compatibilità degli eterogenei in una strutturale incoerenza, che genera continui micro e macro-conflitti e scontri indecidibili (scontri tra diritti e scelte di opportunità, per esempio), è un elemento cruciale. E si evidenzia già nello spazio di insorgenza della governamentalità quando essa affianca il paradigma sovrano per poi progressivamente prendere il sopravvento su di esso, senza mai escluderlo del tutto. Il luogo di insorgenza cui mi riferi11 Cfr. L. Bazzicalupo, Governamentalità: concetti e pratiche, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2, 2013 e Ead., Economia come logica di governo, in “Spazio filosofico”, 7, 2013.

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sco sono le condizioni di eccezione e di emergenza. Sovranità e eccezione – lo sappiamo bene – sono la coppia che Schmitt, ma anche Agamben, pongono a fondamento del politico12. L’eccezione sospende l’ordinamento, ma è necessariamente prevista come fondamento dallo stesso ordine che nega. È quindi prevista, anzi necessaria ma come fondamento dileguante viene cancellata dall’ordinamento, dove – in quanto decisione sovrana indeducibile da esso – svolge un ruolo di pilastro portante spettrale. Questo spazio luciferino della sospensione della norma generale – che è il fantasma dell’ordinamento politico moderno – si allarga moltissimo nelle tecnologie di gestione concreta e storica delle popolazioni, assumendo il volto della quotidianità banale, della gestione normale delle eccezioni. Le pratiche governamentali, in origine specificamente amministrative, poliziesche, sono infatti pratiche problem solving, che affrontano, definiscono e risolvono emergenze, casi eccezionali o specifici, non estensibili alla generalità del “popolo”. Definiscono appunto, all’interno di esso, gruppi e “popolazioni” a rischio o pericolose. Evidentemente individuabili tramite norme differenziali che si ricavano statisticamente e contingentemente dalla stessa realtà sociale. Acquistano un significato pregnante le parole di Benjamin: “lo stato di emergenza è la regola”. Una ontologia sociale che si frantuma in infinite variazioni e ripetizioni, somiglianze e differenze a seconda del problema cui si cerca una soluzione di governo, non offre che continue emergenze e eccezioni. Il turbocapitalismo a sua volta, che ne organizza la realtà spingendo i poteri sociali e le forze immanenti ad un parossismo produttivo di continue eccedenze e che di queste eccedenze fa la sua leva strutturale, offre l’arena per queste differenze in competizione, un’arena che va al di là del mercato tradizionale o finanziario e espande la logica economica a tutte le Lebensformen. La norma, o meglio il criterio, che abbiamo visto, sposta il suo baricentro sull’autoregolazione e autoresponsabilizzazione di queste relazioni di potere immanenti, non rinvia ad un centro decisionale eteronomo, ma si aggancia ad un mercato privo di input sovraordinato. Nel mercato, dove si incrociano – cieche per ciascuno ma prodotte dalla interrelazione di tutti – le scelte (e le libertà e i poteri), 12 C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 27-86; G. Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Sterminata la letteratura schmittiana, nella quale occorre segnalare, C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 2010; M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990. Una ottima ricostruzione analitica nel recentissimo S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci, Roma 2012.

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il criterio è per definizione indecidibile: varia al variare della contingenza e del problema. La valutazione è la procedura inclusiva e gerarchizzante che consegue ad un siffatto criterio. Priva com’è e come dovrebbe essere di coloritura morale13, non esclude per principio nessuno, ma pone ciascuno, anche gli appartenenti alla “razza padrona”, in una situazione di instabilità permanente, di possibile marginalizzazione e declassamento. Le procedure di valutazione non richiedono un ordine di valori stabili: non può dirsi a priori se sia bene risparmiare o spendere. Piuttosto si presuppone una condivisione degli obiettivi, che si presentano in genere nella forma di problemi da risolvere e rispetto ai quali la decisione riguardo la strada da percorrere appare ‘scientificamente’ e tecnicamente segnata. Modalità e criteri di verifica del percorso fatto comportano, come è proprio di ogni pratica governamentale – la cui impronta è segnata dal pastorato – una expertise scientifica, una autorevolezza tecnica che garantisca le competenze necessarie. Laddove il giudizio si orienta alla corretta applicazione di una norma pre-data, l’esperto delimita il campo di applicazione della valutazione: non giudica gli individui, le cosiddette persone ponendo in campo visioni complessive, generali e generiche sul soggetto e su quanto dovrebbe fare, ma si limita a stabilire sotto determinati parametri e in un dato momento, quale è la posizione preferibile rispetto ad una meta da raggiungere. La valutazione è contestualizzata e contingente: non marca in via definitiva le identità né separa, né esclude. È una dimensione in cui tutti sono sempre dentro, coinvolti: chi eroga e chi riceve perché coinvolge l’insieme, differenziandolo al suo interno in vista dell’obiettivo. Il giudizio – che Artaud e Deleuze ci dicono, è sempre “giudizio di Dio” – giudica, emette sentenze apodittiche, definitive e inappellabili su fattispecie, che vengono sussunte sotto la Legge, in quanto dati di fatto e considerate come tali compiute e “giudicabili”: proprio perché compiute, concluse, le si può giudicare considerandole così come sono, in sé stesse. Nella valutazione non è in questione la complessità identitaria che emerge dai fatti, ma una potenzialità o un rischio che la accomuna o la distingue dalle altre, ponendole in bilico. Ma non lasciamoci ingannare da una descrizione teorica di una procedura pratica, che a sua volta perda di vista gli effetti di potere. Ogni procedura valutativa è inclusiva nello stesso tempo in cui è gerarchizzante e poten13 L’uso del termine Pigs (maiali) per indicare gli stati (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) che non hanno saputo tenere un comportamento economicamente corretto e il cui debito esorbita, mostra infatti come la valutazione, che dovrebbe essere priva di connotazioni morali, si pieghi a una coloritura di disapprovazione se non di evidente disprezzo.

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zialmente escludente sia pure in modo provvisorio e mirato; si attaglia ad una governance negoziale e competitiva che si concentra sulla produzione di processi di soggettivazione differenziali, imprevedibili e inediti che non possono essere strutturati sulla categoria formale di cittadinanza portatrice, a seguito di lotte egualitarie, di diritti definiti: piuttosto sono processi che si strutturano su una integrazione funzionale, tecnocratica, governata dal criterio di efficiente ed efficace governo di quell’acefalo, ma profondamente diseguale, luogo di scambi che è il mercato. Mercato che, come fonte principale di veridizione, emette, a posteriori rispetto ai comportamenti e alle scelte, lo standard volta a volta decisivo che determina il grado di inclusività funzionale14. Il peso della responsabilità di ciascuno di adeguarsi alla norma-standard, che caratterizza la fase neoliberale della governamentalità, innesca processi di auto-valutazione e auto-governo dei singoli e delle corporazioni, che adottano, non a caso, strumenti organizzativi e migliorativi mutuati dalla scienza di governo delle imprese. La norma standard delinea i prerequisiti della competizione (difficilmente mostrandosi in grado di captare innovazioni veramente profonde e dunque esterne allo standard) segnando il confine tra inclusione nel processo o esclusione sia pur provvisoria: un confine che si modula sempre daccapo sulla base di scelte funzionali e informali che emergono dalla combinazione (micro e macroeconomica)15 che chiamiamo mercato. In questo campo dai confini porosi e di indeterminatezza strutturale si svolgono processi negoziali continui nei quali, poiché si devono concentrare e articolare gli interessi in uno spazio e tempo definiti, sono favoriti i corpi collettivi, le lobbies, organizzate attorno ad obbiettivi particolaristici e dotate di strumenti legali (agenzie commerciali, studi legali) più esperte nella negoziazione delle parti. Le norme che abbiamo visto emergere dal contesto biologico e di scambi produttivi naturalizzato si subordinano ad una logica economica che sembra strutturarle oggettivamente. La regola del gioco, così profondamente diversa da quella posta in essere, con tutta consapevolezza della sua origine artificiale e politica, dalla politica moderna, è cambiata. Non si tratta della economicizzazione della politica, né della gloriosa economia politica nella quale la politica e la strutturazione della società tramite il modo di produzione cercavano una sintesi orientata alla regolazione del 14 La Banca mondiale nel ‘90 stabilisce gli standard di accesso al credito da parte delle nazioni, determinando sulla media delle passate posizioni, le (im)possibilità di sviluppo di intere parti del globo: cfr. A. Arienzo, Emergenze democratiche in A. Arienzo, G. Borrelli, Emergenze democratiche. Ragion di stato, governance, gouvernamentalité, Giannini, Napoli 2011, p. 120. 15 Ivi, p. 123.

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mercato. Qui piuttosto si intrecciano istanze soggettive, microeconomiche – sollecitate ideologicamente, che rinviano alla norma della scelta razionale degli individui in vista del soddisfacimento dei, sempre presunti naturali, bisogni, desideri e spinte alla auto-realizzazione – con gli effetti collettivi di equilibrio instabile che i comportamenti adeguati e economicamente corretti producono a livello mondiale: producendo appunto di volta in volta standard di valutazione e gerarchizzazione. Il processo di autovalutazione che piega ciascuno a essere legge a se stesso per soddisfare il proprio desiderio di valere, evidenzia d’altronde, (come Bateson e Deleuze hanno evidenziato con maggiore o minore dose polemica) la schizofrenia del suo imperativo, che regola in modo immanente le scelte e le condotte e che governa, governando paradossalmente (come Foucault aveva intuito) i desideri. Valutazione e auto-valutazione si applicano ovviamente ai risultati della produttività: valutano, come è più volte emerso nel nostro discorso, ex-post legittimando o de-legittimando i processi di lavoro che oggi, nella prevalenza del capitalismo cognitivo e nell’esplosione del terziario dei servizi, esigono la messa in opera, la messa al lavoro, del bios inteso come creatività, socialità, capacità affettive e relazionali16. Schizoide la personalità che emerge da una ingiunzione al godimento, alla libertà, alla realizzazione del proprio sé: così come sottolinea Lacan, nell’epoca della “evaporazione del padre” e del radicale tramonto del suo Nome, insieme all’interdetto edipico (imperativo cui si può obbedire solo dis-obbedendo o disobbedire solo obbedendo, origine appunto di ogni disagio schizofrenico)17. Quando lavoratori dipendenti sono impegnati ad essere creativi ai fini dell’impresa come se si trattasse di attività creativa spontanea e soddisfacente il desiderio di auto-realizzazione, si determinano contraddizioni insanabili a livello della psiche cui si chiede di essere qualcosa e il suo contrario contemporaneamente, determinando peraltro un riflesso paralizzante sulla stessa creatività18. 16 Cfr. F. Chicchi, Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012. 17 «Il nostro tempo – spiega Recalcati sulla scia di Lacan – è il tempo nel quale l’imperativo sadiano al godimento illimitato (la “desublimazione repressiva” della pulsione, nel linguaggio di Marcuse) è divenuto un comandamento sociale inedito, installandosi nel luogo della Legge», M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Cortina, Milano 2010, p. 10. 18 ���������������������������������������������������������������������������������� Vedi per il rovesciamento schizoide dell’obbligo alla creatività nel lavoro cognitivo D. Liebert, C. Vercellone, Il ruolo della conoscenza nella dinamica di lungo periodo del capitalismo cognitivo, in C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo, Manifestolibri, Roma 2006, p. 32.

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Inoltre l’adeguamento alla valutazione orientata dal contingente criterio o standard fornito dal mercato, comporta un processo di differenziazione spinto e il potenziamento di capacità ed expertise molto specializzate e specifiche che hanno come controeffetto una sempre crescente dipendenza dalla situazione congiunturale, per definizione mobile e temporanea e una esposizione maggiore ad effetti di saturazione in un campo competitivo. Il governo-autogoverno, sotto il segno della auto-valutazione, che pure innegabilmente allarga gli spazi di soggettivazione e di partecipazione più ampia e diretta delle parti sociali – come è stato più volte notato – nell’indebolirsi delle gabbie identitarie e della cittadinanza (centrate entrambe sulle appartenenze collettive egualitarie), apre la breccia alla instabilità ed incertezza strutturali che erodono libertà, autogoverno e potenza progettativa, forse in modo irrimediabile. L’eteronomia complessiva, il senso soffocante di una dipendenza totale che avvolge le vite in una nebbia non diradabile, che accompagna questa difficoltà di individuare il potere responsabile politico e o giuridico dello status, dipende largamente dalla incertezza estrema della condizione. Eppure l’esclusione, la marginalizzazione, l’incertezza destabilizzante, coesistono comunque con la inclusività. Una situazione ambivalente che – entro la paradossale eteronomia a-cefala, irresponsabile, contro la quale viene frustrata ogni posizione antagonista – lascia margini di soggettivazione anomale e alternative. 4. Esiti problematici Si apre così una prospettiva teorica nuova, solo parzialmente utilizzata da Foucault, sulle ambivalenze della biopolitica governamentale, e ripresa da alcuni settori di studi biopolitici post-foucaultiani. Il vivente come tale, nella sua immanenza, è irrappresentabile, ma ne va preservata questa condizione di limite della rappresentazione, proprio perché la rappresentazione biologica lo oggettiva e ne tradisce inevitabilmente la immanenza, orientando la sua potenza. Tematica spinosa: da una parte la specificità della norma vitale è la chiave d’accesso all’autogoverno come al governo eteronomo delle vite, al circolo ricorsivo del ‘governo di sé, governo degli altri’, nel quale si riflettono necessariamente i saperi sulla vita e sugli scambi economici che sappiamo orientati esattamente alla gestione pratica del proprio oggetto; dall’altro rivela forse, ma non rappresenta mai, una potenza delle norme nel vivente stesso creativa, generativa, non determinata, ‘potenza’ della singolarità che fa scarto sulle forme che assume.

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Per quanto riguarda Foucault, egli tiene la barra del suo pensiero sulla vita in modo che sia irriducibile all’idea di un modello di natura umana19 da applicare e sviluppare (che è il senso della socio-biologia): pensa la vita in divenire che esprime la propria normatività adattandosi – attraverso errori, deviazioni, creazioni – al contesto in cui è immessa. La vita è sempre normata – in questo senso la vita è sempre un discorso sulla vita con effetti di potere – ma è anche potere autonormante, un movimento ricorsivo piegato dall’interazione ambientale. Il postulato biologico della storicità del vivente fa sì che la vita non funga, per Foucault, da fondamento, ma da limite ontologico, che dissolve incessantemente le forme organizzate, istituite. Non c’è nessuna antropologia, tanto meno vitalistica, ma piuttosto una continua problematizzazione del trascendentale normativo che determina la soggettivazione. In alcune interpretazioni postfoucaultiane, questa determinazione diventerà il biopotere, contrapposto alla potenza biopolitica, generativa di vita. Si ripropone così un dualismo mascherato che tradisce l’esigenza di ripensamento radicale della ontologia che pure evoca20. Foucault si era fermato sulla soglia di questa ipotetica potenza creatrice di norme, lavorando piuttosto sulla variazione infinita delle differenze che il potere dei singoli imprime alla forma ricevuta e alla norma trasmessa: l’affermatività della vita, produttrice di norme, sarà sviluppata dopo Foucault da Deleuze e dalla biopolitica neo spinozista. Si potrebbe ripartire invece dalle correzioni di rotta molto importanti per il ripensamento critico della biopolitica, che lo stesso Foucault ricavava dall’epistemologia biologica: innanzitutto l’apertura su una logica immanentistica e, ciò nonostante, normativa: la vita produce norme nel suo adattarsi incessante. Quando poi dal livello biologico ci muoviamo – come è indispensabile trattando di società e politica – verso i processi di soggettivazione, è interessante osservare come Foucault individui l’area della trasformazione, tra trasgressione e innovazione, in una zona grigia, di non trasparenza, intermedia tra i dispositivi biopolitici che strutturano la soggettività e la reattività attiva ad essi: un campo d’azione opaco, più confuso di quanto vorrebbe il riduzionismo teorico e che gli studi empirici rivelano significativamente ricco di nuove soggettivazioni sperimentali, empiriche, non previste e forse non prevedibili, non classificabili comunque attraver19 N. Chomsky, M. Foucault, Sulla natura umana. Invariante biologico e potere politico (1971), tr. it. DeriveApprodi, Roma 2005. 20 Cfr. L. Bazzicalupo, Capitalismo e macchina desiderante tra linee di fuga e dualismo, in R. Ronchi (a cura di), Lacan e Deleuze (in corso di stampa).

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so i canoni del biopotere costituito. È il campo di una trasgressione non frontale, possibile proprio per l’allentarsi delle linee nette della legge e del giudizio formale e per l’affermarsi di confini porosi propri della indeterminabile valutazione economica. «Una cultura – dice Foucault – scostandosi insensibilmente dagli ordini empirici che i suoi codici fondamentali prescrivono, instaurando una distanza iniziale nei loro confronti, li priva della loro trasparenza originaria, cessa di lasciarsi da essi passivamente traversare, si distacca dai loro poteri immediati e invisibili, si libera sufficientemente per constatare che tali ordini non sono forse i soli possibili o i migliori [...] esistono cose ordinabili a loro volta, pertinenti ad un certo ordine muto […] l’essere grezzo dell’ordine. È nel nome di tale ordine che i codici del linguaggio della percezione, della pratica vengono criticati e resi parzialmente invalidi»21. La realtà per trasformarsi si mette in contatto con il suo ordine/norma muto, poco o affatto ‘rappresentato’ dal sistema simbolico e, come personalmente suggerirei, rilevabile solo nello scarto e nella non coincidenza con quello. Da una prospettiva istituzionalistica, l’ordine come autoregolazione è un fatto costante della realtà che si modifica incessantemente in uno spazio che non è quello del modello normativo, ma quello opaco delle prassi, formalizzate sì, ma con margini di opacità entro i quali si trasformano. Lontanissimi dal contrasto frontale rivoluzionario in nome di un ordine nuovo e giusto, qui le differenze sopravvivono e sono destinate a sopravvivere, si moltiplicano, si eludono reciprocamente, coniugano le possibilità di libertà con i condizionamenti di poteri più forti. Nessuna palingenesi emancipativa. Questo significa che la critica e la resistenza sono sempre interne e determinano un potenziamento del potere stesso, non essendovi un fuori, ma piuttosto un piegamento che complessivamente rafforza la relazione di potere. Si pone così la questione principe dell’interpretazione della biopolitica foucaultiana, dal momento che la soggettività è, a livello di esistenza, eccedenza, condizionata però dalle condizioni di possibilità (concrete, situate, non universali come in Kant, ma quasi-trascendentali) del processo di soggettivazione. C’è un piegamento del potere o dell’influenza normalizzante subìta, che, assoggettando, attiva la recettività attiva del governato: questo movimento produce la soggettivazione, lo scarto della soggettività rispetto al fattuale. Pratiche non soggettive governano le istituzioni in una forma di governo acefalo delle vite, che normalizza e assoggetta soggettivizzando, in una forma che è irriducibile al soggetto di diritto, autonomo e volontario. 21 M. Foucault, Le parole e le cose (1966), Rizzoli, Milano 1998, p. 10-11.

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È lo spazio muto dell’istituzionalismo, intermedio tra forme e legittimazioni, che governa, controlla, sostiene orientando le vite, i bisogni, le passioni. Questa la rete biopolitica sulla quale diventa difficile imporre le classiche e liberali questioni di giustizia. A reggere questa rete la ratio utilitaristica, economica, dominata in modo implicito e esplicito dal concetto di valore. Valore, che orienta le scelte, valore che valuta le condotte, valore che – e torniamo alla specificità del sapere biologico – è sotteso alla fitness, al continuo adattamento della vita stessa. Sul presupposto del valore della sopravvivenza, del desiderio di tutti e di ciascuno di incrementare la potenza vitale. E se questo presupposto fosse fallace?

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Marianna Esposito

CAPITALISMO E TEOLOGIA ECONOMICA: DAL CAPITALE VIVENTE DEL WELFARE AL CAPITALE UMANO

1. La governamentalità biopolitica: l’État Providence Un motivo di fondo ci spinge a prendere in esame la questione del Welfare State e a riflettere sulla sua genesi e sul suo sviluppo proprio nel momento storico del suo smantellamento, determinato dalla svolta neoliberista degli ultimi trenta anni e portato a compimento dalla crisi economica in corso. Non si tratta solo di un motivo di ordine politico, dato il fallimento del modello sociale europeo e la pressante richiesta di un nuovo modello di convivenza civile da parte di soggetti piegati alla logica inclusiva e marginalizzante del capitalismo bioeconomico contemporaneo. Ciò che spinge oggi a ripensare il Welfare, e ad assumerlo come luogo privilegiato di analisi è, oltre che politico, un motivo di ordine filosofico, critico, epistemico, riconducibile alla logica economica del discorso su cui si basa l’attuale regime capitalista. Non solo, infatti, esso installa compiutamente il paradigma governa mentale nella politica, introducendo il modus biopolitico di esercizio del potere, mediante la presa in carico delle vite da parte dello Stato e l’economicizzazione delle relazioni di cura1. Ma, mobilitando i dispositivi assicurativi basati sulla prevenzione del rischio e l’assunzione di responsabilità come nuova forma di rapporto sociale2, presenta in nuce la logica imprenditoriale e bioeconomica dispiegata dal neo-liberalismo in epoca postfordista, una volta disgregata l’idea di comunità nazionale e delegittimato il postulato di solidarietà collettiva alla base dello Stato sociale3. È su questo 1 Cfr. L. Bazzicalupo, L’immaginario della crisi e lo spettro del cambiamento, in L. Bazzicalupo, A. Tucci (cura di), Il grande crollo. È possibile un governo della crisi economica?, Quaderni del Laboratorio “Hans Kelsen”, Mimesis, Milano 2010. 2 Cfr. F. Ewald, L’État Providence, Éditions Grasset, Paris 1986, pp. 180 e ss. 3 Cfr. P. Rosanvallon, La crise de l’État-Providence, Éditions du Seuil, Paris 1981.

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salto epistemico che si vuole indagare, tenendo conto, allo stesso tempo, del filo rosso che unisce questi due modelli governa mentali affermatisi nella storia come razionalità politica. Per affrontare le sfide del presente, e capire a fondo le ragioni della crisi strutturale in cui versano le politiche sociali oggi in Europa, riteniamo, quindi, sia necessario svolgere una riflessione critica sulle categorie messe in campo dal modello fordista alla luce del paradigma della governamentalità neoliberale. Seguendo un filo conduttore, che la presente ricerca individua nel rapporto tra capitalismo e teologia economica, compiremo perciò un’analisi teoretica e categoriale del Welfare State in quanto dispositivo capitalista finalizzato a gestire le dicotomie ‘rischio/sicurezza’, ‘sacrificio/ cura’, ‘autonomia/solidarietà’, ‘debito/credito’, oggi al centro del dibattito per la costituzione di un nuovo modello di coesione sociale e perla riforma del sistema redistributivo in Europa4. La prima tappa del nostro saggio comporta l’analisi del modello storico–politico da cui ha origine la forma giuridica dello Stato sociale in Europa: l’État-Providence. Nato negli ultimi due decenni del XIX secolo in Germania, Francia, Italia, Inghilterra, lo ‘Stato – provvidenza’ è infatti il dispositivo di governo messo in campo dal liberalismo in risposta alla crisi dello Stato di diritto e ai problemi di povertà e diseguaglianza posti all’ordine del giorno dalla questione sociale5. Mediante l’istituzione delle assicurazioni obbligatorie, introdotte contro il rischio di interruzione del reddito a carico dei lavoratori6, l’État-Providence mette all’opera in ambito pubblico la specifica razionalità di potere individuata da Foucault nelle sue ricerche sul pastorato cristiano7: la governamentalità. Ciò che la identifica 4

Cfr. L. Pennacchi, La moralità del Welfare. Contro il neoliberismo populista, Donzelli, Roma 2008. 5 Cfr. G. Procacci, Governare la povertà: la società liberale e la nascita della questione sociale, Il Mulino, Bologna 1998; cfr. F. Girotti, Il Welfare State. Storia, modelli e critica, Carocci, Roma 1998, pp. 147–182. 6 Cfr. F. Girotti, Welfare State, cit., pp. 93–119. 7 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 143: «I Greci, i padri greci, e in particolare Gregorio di Nazianzo, avevano dato un nome preciso a quell’insieme di tecniche e di procedure che caratterizza il pastorato. (Gregorio) lo chiamava oikonomia psuchôn, economia delle anime. La nozione greca di economia, che si trovava in Aristotele e che designava all’epoca la gestione della famiglia, dei suoi beni, delle sue ricchezze, le gestione, la direzione degli schiavi, della moglie, dei figli, e occasionalmente la gestione – il management, potremmo dire – della clientela, questa nozione di economia acquista con il pastorato una dimensione del tutto diversa e un altro campo di riferimenti. Infatti, rispetto a questa economia dei greci fondamentalmente familiare – in cui l’oikos è l’habitat – (l’economia delle

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è una logica economica, finalizzata all’esercizio di un potere che prende a oggetto la vita per garantirne non solo la conservazione – come nel paradigma hobbesiano della sovranità – mala salvezza, come nel paradigma teologico-economico elaborato dai Padri della Chiesa: il che significa, nel lessico secolarizzato della filosofia politica moderna, il benessere, la salute, la sicurezza. Sta qui il discrimine tra teologia politica e teologia economica8 – trascendenza sovrana e immanenza biopolitica, sovranità e governa mentalità – che pure nell’esperienza storica dell’État-Providence si sovrappongono. Se l’oggetto del potere rimane la vita, cambia il modo specifico con cui il potere si applica e cambiano i suoi effetti sulla politica: il potere sovrano, infatti, prende a oggetto la vita per conservarla attraverso una modalità repressiva che garantisce in negativo la libertà dei soggetti9, mediante l’azione sovrana della legge, il biopotere prende a oggetto la vita per potenziarla attraverso una modalità produttiva che crea, piuttosto, le libertà dei soggetti mediante la diffusione capillare di verità, condotte, soggettivazioni10. Si apre così un campo discorsivo di pratiche, norme e saperi, implicante «un rapporto immanente della società con se stessa»11 che si sovrappone a quello sovrano dello Stato di diritto, fondato sul regime giuridico della responsabilità civile. Da qui occorre partire – dalla definizione foucaultiana di governamentalità e dai suoi effetti operativi sulla politica liberale12 – per far luce sul anime) assume ora le dimensioni se non dell’umanità intera, perlomeno di tutta la cristianità». 8 Sulla teologia economica come paradigma di governo e razionalità politica, cfr. M. J. Mondzain, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo (1996), Jaca Book, Milano 2006. Cfr. G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Milano 2007. Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite, Laterza, Roma-Bari 2006. Cfr. R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013. 9 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978. 10 Cfr. L. Bazzicalupo, Biopolitica, Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010. 11 Cfr. F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 19. 12 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88: «Con la parola “governamentalità” intendo tre cose. L’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Secondo, per “governamentalità” intendo la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di questo tipo di potere che chiamiamo “governo” su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una

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punto iniziale del nostro discorso circa l’introduzione delle assicurazioni obbligatorie in Europa a fine Ottocento. Ecco come François Ewald definisce l’oggetto della sua ricerca, relativa alla trasformazione della società liberale in società assicurativa e solidarista13. «Oggetto del lavoro: cogliere, attraverso la problematizzazione dell’incidente in questi in ultimi due secoli, la proliferazione degli istituti assicurativi e la nascita della Sicurezza sociale, la comparsa dello Stato-provvidenza, uno dei processi di socializzazione che caratterizza la storia contemporanea delle nostre società: la socializzazione delle responsabilità. Studiare il modo in cui si è passati, in materia di sicurezza, da una problematica della responsabilità a una di solidarietà. Più in generale, con la trasformazione dei rapporti di obbligazione, il passaggio dal diritto civile al diritto sociale, seguirebbe la formazione di questo nuovo contratto sociale che le nostre società propongono ai cittadini e che ne farebbe delle società assicurative»14. Dopo Hobbes, Locke, Rousseau, siamo, dunque, alle prese con un nuovo contratto sociale, fondativo di nuovo modo di concepire i rapporti giuridici tra i soggetti. La ‘socializzazione delle responsabilità’ a cui fa riferimento Ewald per descrivere la nuova razionalità di potere introdotta dalle politiche assicurative a tutela dei lavoratori – a copertura dei rischi di infortunio, malattia, vecchiaia, invalidità – indica, infatti, la rivoluzione epistemica compiutasi agli inizi del secolo scorso, con lo sviluppo del capitalismo industriale, la nascita della questione sociale, l’intervento gestionale nell’esercizio del potere politico e la conseguente ibridazione del confine tra pubblico e privato15. Predisposta dal liberalismo per neutralizzare il conflitto tra capitale e lavoro, la socializzazione comporta l’essere in relazione non più in funzione del divieto hobbesiano di uccidere, a garanzia della sopravvivenza, ma dell’assicurazione preventiva del rischio16, a garanzia del benessere. Da repressivo-giuridica, la modalità del potere si fa dunque economica: il suo oggetto diventa la popolazione – insieme di esseri viventi misurati e governati nell’esercizio delle funzioni biologiche – e il serie di apparati specifici di governo, e, [dall’altro,] di una serie di saperi. Infine, per “governamentalità” bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante il quale lo Stato di giustizia del Medioevo, divenuto Stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente “governamentalizzato”». 13 Y.M. Morisette, Une épistémologie du droit: ‘L’État providence’ de François Ewald, “Cahiers de droit”, Volume 28, 2, 1987, pp. 407-420. 14 Cfr. F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 16. 15 Cfr. H. Arendt, Vita activa (1958), Bompiani, Milano 2000. 16 ��������������������������������������������������������������������������������� F. Ewald definisce il rischio il «modo moderno del rapporto con l’altro […] principio sociale di identificazione e forma generale di valutazione delle condotte morali». Cfr. F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 19.

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suo fine diviene la salvezza – nel lessico secolarizzato della scienza sociale, la sicurezza – perseguita mediante l’intervento strategico sul ‘corpo-specie’ della popolazione17. Con l’istituzione del dispositivo assicurativo, tradotto dal regime privato a quello pubblico, e con l’avvio dei programmi di tutela previdenziale, la governamentalità assunta dallo Stato si traduce in razionalità politica. Crea, infatti, legame sociale e interdipendenza proprio a partire dall’obbligo comunitario di tipo economico18 che impegna gli individui nei confronti della società, oggettivata a sua volta come un bene comune19. La dinamica assicurativa, connessa alla prevenzione del rischio e all’assunzione di responsabilità, diventa, perciò, la forma stessa del rapporto sociale: la solidarietà assume una forma sodale, esprimendosi come obbligo comune di ripartire gli oneri della spesa collettiva connessi alla tutela previdenziale del lavoratore. L’insicurezza della società liberale è dunque oggettivata in ‘infortunio’, mediante la responsabilizzazione sociale del rischio da cui intende difendersi. Pertanto, nell’antropologia liberale del rischio, la vita umana è intesa come un capitale da assicurare in virtù della sua potenza produttiva mediante tecniche di credito elargite dallo Stato. Infatti, l’essere sociale di cui parla Ewald è l’essere vivente, preso di mira nella sua natura biologica, come potenza incrementativa della ricchezza comune e, proprio in virtù della sua potenza bio-economica, assume competenza giuridica20. In tale orizzonte discorsivo, la previdenza diventa la virtù morale intorno a cui si esercita il potere dello Stato governamentalizzato, e la libertà del soggetto si produce in funzione dell’economia di sicurezza21 a cui si conforma. Attraverso la presa in carico delle vite, lo Stato persegue perciò una normalizzazione biopolitica delle condotte, fondata sulla logica securitaria dell’infortunio, finalizzata a conservare lo stato di equilibrio vitale maturato dagli individui nel loro ambiente22, sulla scorta del nuovo strumento giuridico predisposto dal liberalismo – il diritto sociale – la cui «linea di confine non

17 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 263-269. 18 F. Ewald, L’État Providence, cit., pp. 18 e ss. 19 Su questo argomento mi permetto di rinviare a M. Esposito, Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss, Mimesis, Milano 2011. 20 Cfr. F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 25: «Il soggetto assume competenza giuridica per il solo fatto di essere un essere vivente». 21 Cfr. ivi, p. 266. 22 Cfr. ivi, p. 25. Cfr. É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), Edizioni di Comunità, Milano 1928.

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passa più tra il libero e il non libero, ma tra il morto e il vivente, tra la vita e ciò che la minaccia»23. Si tratta, perciò, di una libertà di matrice giuridico-economica, derivante dall’assicurazione della vita professionale, dalla gestione preventiva dei rischi, implicante l’assunzione di costi per l’ottenimento di benefici24. L’obbligazione giuridica diventa, così, l’esito di un contratto, il risultato di una negoziazione che trasforma la natura indisponibile della legge e modifica il rapporto gerarchico tra i cittadini e lo Stato in una modalità di socializzazione che avviene per selezione e segregazione25. Nell’ambito del discorso sulla genesi delle politiche sociali in Europa, occorre fare però una precisazione importante, relativa alla specificità dell’esperienza storica francese26. Se, infatti, le prime leggi a tutela dei lavoratori nascono nella Germania di Bismarck, tra il 1883 e il 1889, con le assicurazioni sociali obbligatorie27, e se l’Inghilterra è il primo paese industrializzato in cui si costituisce il movimento sindacale28, è in Francia che si assiste all’avvio di quel vasto processo storico, politico ed economico a cui Ewald dà il nome di État-Providence. Rispetto agli altri paesi europei che a fine Ottocento adottano dispositivi assicurativi, il modello francese di protezione sociale si distingue, infatti, per l’ambizioso progetto culturale che pone in atto a partire dalla Rivoluzione: «La principale caratteristica dello Stato francese dopo il 1789 non è in tal senso né economica (il livello di interventismo) né solo politica (le forme della sovranità): risiede anzitutto nel compito inedito di ordine sociologico e culturale che si dà di produrre la nazione, di colmare il vuoto provocato dal crollo delle strutture corporative e di trovare un sostituto all’antica ‘concordia’ del corpo politico tradizionale»29. Così Pierre Rosanvallon evidenzia come la ‘nazione’ sia in realtà l’esito di un lavoro culturale e sociologico inaugurato dallo Stato francese dopo il 178930,per legittimare le nuove forme di consenso introdotte dal paradigma economico del governo accanto a quello sovrano della legge – per legittimare il livello di interventismo e le forme della so23 F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 25. 24 Cfr. ivi, p. 60: «La libertà appare piuttosto come il correlato di una buona gestione della costrizione giuridica». 25 Cfr. ivi, p. 213, «L’assicurazione sociale fa della legge non più uno strumento di costrizione, ma un contratto: essa trasforma la natura della legge e il rapporto della società e dello Stato». 26 Cfr. P. Rosanvallon, L’État en France. De 1789 à nos jours, Seuil, Paris 1990. 27 Cfr. G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari, pp. 61 e ss. 28 Cfr. ivi, pp. 57 e ss. 29 Cfr. P. Rosanvallon, L’État en France. De 1789 à nos jours, cit., p. 99. 30 Cfr. G. Procacci, Governare la povertà, cit., p. 65.

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vranità – in sostituzione alle forme corporative di consenso abolite dalla Rivoluzione. Ideato da Rousseau e messo a punto dai fondatori della scienza sociale31, il concetto di nazione tiene insieme governo economico e rappresentativo, sovranità e governamentalità, solidarietà e responsabilità, e in virtù di tale sintesi, produce il senso di appartenenza dei membri a un’unità indivisibile. Depositaria simbolica dell’interesse generale della comunità, la nazione legittima il discorso dell’economia pubblica adottato alla fine del XIX secolo dai Paesi dell’Europa occidentale32 e si costituisce come dispositivo di governo interno al paradigma sovrano33, garantendo un’eguaglianza politica coincidente con l’utilità del corpo sociale34. 2. Il capitale vivente del Welfare State Questo il nesso teoretico che, lungo il XIX secolo, il liberalismo intreccia con il paradigma teologico-economico per legittimare il nuovo esercizio del potere in risposta alla questione sociale. Prendendo in carico le vite dei soggetti per il loro benessere, lo Stato di diritto si fa Provvidenza: recepisce, cioè, nel lessico secolarizzato della sociologia novecentesca, la finalità salvifica dell’oikonomia trinitaria elaborata dai Padri per la gestione provvidenziale del mondo, mettendo in campo un piano di governo finalizzato a garantire il benessere pubblico mediante la prevenzione dei rischi e l’incremento delle forze produttive. Con la socializzazione della vita economica, si indebolisce perciò il confine tradizionale istituito dal liberalismo classico tra pubblico e privato e, dunque, tra cittadino e individuo35. La posta in gioco del potere diventa la potenza incrementativa della vita biologica che il lavoratore assicura allo Stato come un capitale vivente36. Da questo lento processo di mutamento 31 Cfr. É. Durkheim, Il socialismo. Definizioni, origini, La dottrina saint – simoniana, con Introduzione di M. Mauss, Il posto della storia del socialismo nell’opera di Durkheim (1928), Franco Angeli, Milano 1981. Cfr. Id., I fondamenti di un’antropologia storica (2004), tr. it. a cura di R. Di Donato, Einaudi, Torino 1998. 32 Cfr. J.J. Rousseau, Discorso sull’economia politica, in Id., Scritti politici (1755), vol. 1, a cura di E. Garin, Laterza, Roma–Bari 1997, p. 277. 33 Cfr. M. Esposito, Il governo della felicità. Un percorso genealogico e critico sul concetto di benessere, in “Filosofia Politica”, 1, 2013, pp. 27–40. 34 Cfr. G. Procacci, Governare la povertà, cit., p. 66. 35 F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 326. 36 Cfr. ivi, p. 180.

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istituzionale, che investe la razionalità dello Stato e il suo regime discorsivo, nasce nel secondo dopoguerra il Welfare State in Europa e negli Stati Uniti. Ciò che eredita dal precedente modello governa mentale è la tecnologia assicurativa per lo sviluppo delle politiche previdenziali a tutela dei lavoratori e l’idea di nazione per la legittimazione del progetto universalistico di inclusione sociale fondato sulla cittadinanza. Proprio l’appartenenza dei cittadini allo Stato-nazione è il perno del discorso su cui si fonda la governa mentalità biopolitica del Welfare nel Novecento. Radicata nel sostrato naturale del bios e nella capacità acquisitiva di un soggetto «definito dall’insieme dei suoi bisogni e dalle sue utilità naturali»37, la cittadinanza è, infatti, la nozione che rende pensabile l’eguaglianza di status in una società di mercato, in quanto veicolo di socializzazione dei diritti naturali di cui i soggetti sono titolari in quanto membri dello Stato38. Non a caso, il piano Beveridge, pubblicato nel 1942 dal governo britannico di Attlee, con il titolo Social Insurances and Allied Services39 e considerato al New Deal rooseveltiano, l’atto fondativo dello Stato sociale in Europa dopo il crollo dei regimi totalitari, fa coincidere il diritto di cittadinanza con l’erogazione di beni e servizi da parte dello Stato mediante l’estensione generalizzata dell’assicurazione obbligatoria: un programma sociale di attacco al bisogno40, realizzato con misure nazionali di intervento economico contro la povertà, la malattia, l’ignoranza, la disoccupazione41. Nel contesto sociale post-bellico, segnato dal fordismo e dall’ascesa del capitalismo industriale, assume, quindi, un’importanza decisiva il concetto di lavoro in relazione a quello di cittadinanza. La titolarità di diritti sociali – alla pensione, all’assistenza, alla sanità, all’istruzione – viene a dipendere, infatti, dall’integrazione di tutti i cittadini nell’apparato di produzione capitalistica gestito dallo Stato e dall’inclusione di ogni individuo nel processo di valorizzazione. Il lavoratore salariato diventa così il “soggetto sociale

37 Cfr. D. Zolo, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. XII. 38 Cfr. G. Procacci, Governare la povertà, cit., p. 67. 39 W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services, Macmillan, London 1942. Cfr. F. Girotti, Welfare State, cit., p. 229. 40 G.H. Ritter, Storia dello Stato sociale, cit., p. 143. 41 Cfr. ivi, p. 145.

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universale”42 e la cittadinanza assume una “determinazione sacrificale”43 nell’ambito del sistema produttivo istituito dal Welfare. Si tratta, infatti, di “lavorare duramente”44 – come afferma Marshall – per ottenere in cambio il benessere che lo Stato sociale assicura in accordo con la finalità salvifica del suo progetto universalistico. In ciò si coglie l’ambivalenza del Welfare State in quanto dispositivo biopolitico: da un lato, garantisce la qualità della vita mediante la redistribuzione del reddito e l’erogazione di diritti sociali, ma, dall’altro, proprio in virtù della razionalità economica che adotta in quanto gestore della cosa pubblica, spoliticizza la dimensione pubblica della vita in comune, depotenzia l’azione partecipativa dei soggetti e stigmatizza la dipendenza dei non-salariati dal suo apparato burocratico-gestionale45. Da qui il salto ad oggi, al regime neoliberale e ai suoi dispositivi bioeconomici di autogoverno, autoimprenditorialità, agency individuale. Alla luce di quanto esposto, si tratta di cogliere, quindi, la portata effettiva del salto epistemico prodotto dal neoliberalismo in rapporto alla tecnologia pastorale messa in campo dal Welfare State. Si tratta di capire, cioè, se lo slittamento di governa mentalità predisposto negli anni ‘80 dalla scuola americana di Chicago46, pur rovesciandola logica creditizia del Welfare nella logica imprenditoriale di mercato che informa i poteri della società e dello Stato47, non porti a compimento, in realtà, la tecnologia assicurativa fondata sul rischio in cui quella stessa logica oblativa si dispone. E ciò proprio in ragione del carattere ancipite che la governamentalità48 ha assunto sin dalla sua origine pastorale, strutturata in tecniche implicanti il governo 42 Cfr. N. Fraser, L. Gordon, A Genealogy of ‘Dependency’: Tracing a Keyword of the US. Welfare State: welfare dependency, in “Signs”, 19(21), 1994, pp. 309-336. Cfr. N. Frazer, Talking about needs: Interpretative Contests as political Conflicts in Welfare-State Societies, in C. Sustein (a cura di), Feminism and Political Theory, Chicago University Press, Chicago 1989. 43 Cfr. S. Mezzadra, Diritti di cittadinanza e Welfare State. Citizenship and Social Class di Tom Marshall cinquant’anni dopo, in T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, tr. it. a cura di S. Mezzadra, Laterza, Roma–Bari 2002, pp. 179198. 44 Ivi, p. 182. 45 Cfr. L. Bazzicalupo, Senza scopo di lucro: pratiche di cura tra biopolitica e trasformazione dell’economia, in “Filosofia e questioni pubbliche”, Vol. 11, 1, 2006, p. 19. 46 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica (2004), Feltrinelli, Milano 2005, pp. 108 e ss. 47 Cfr. ivi, p. 109. 48 Cfr. L. Bazzicalupo, Economia e dispositivi governamentali, in “Filosofia Politica”, 1, 2006.

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di sé e tecniche di potere implicanti il governo degli altri49. La continuità trai due divergenti modelli di governo – quello liberale del Welfare e quello attuale neoliberale – va dunque pensata alla luce della genealogia teologica che fa della governa mentalità una razionalità politica capace di produrre soggettivazioni ambivalenti, orientate all’autogoverno e al governo degli altri. Se, come scrive Ewald a proposito dell’État–Providence, l’assicurazione è la tecnologia politica e morale «implicante il fatto di condurre una vita come una impresa»50, è proprio questa soggettivazione bioeconomica – annunciata dalle politiche previdenziali dello Stato sociale – che si compie con l’avvento del neo-liberalismo: il capitale umano assume, infatti, su di sé la responsabilità delle proprie potenzialità produttive, senza demandare allo Stato il compito salvifico del benessere, ma facendosene carico. Ora che con la crisi economica globale si è passati a una fase ulteriore di capitalismo bioeconomico, e dallo Stato sociale del credito di metà Novecento si è passati allo Stato sociale del debito51, la domanda filosofica e politica circa una nuova riformulazione del Welfare si è fatta urgente. Essa andrebbe pensata senza trascurare ciò che in passato questo modello ha prodotto in termini di esclusioni/inclusioni, dipendenze, stigmatizzazioni, tenendo conto dell’ambivalente logica economica che ne ha strutturato l’azione di governo e che non smette di informare i processi di soggettivazione nel regime neoliberale contemporaneo52.

49 M. Foucault, Dits et écrits II, in “Les techniques de soi” 1976-1988, Gallimard, Paris 2001, p. 1604. 50 F. Ewald, L’État Providence, cit., p. 180. 51 M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (2011), Deriveapprodi, Roma 2012. 52 Cfr. A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012.

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Giuseppe Micciarelli

EMERGENZA ED ECCEZIONE NEL DIRITTO CONTEMPORANEO

1. La persistenza del diritto nello stato di eccezione Il problema della «trasformazione del potere in diritto»1 attraversa la zona grigia in cui si manifesta la decisione sullo stato di eccezione, in questo spazio pare assumere corporeità. Riconoscere quali siano gli istituti giuridici tipici della sua instaurazione, ed aggiungerei la stessa possibilità di individuarne uno soltanto, è controversa: dittatura romana, stato di assedio, poteri dell’Assemblea costituente, iustitium, sono alcune delle ipotesi autorevolmente sostenute2. Negli ordinamenti positivi contemporanei si assiste ad una moltiplicazione di ulteriori dispositivi normativi; anch’essi scaturiscono dalla categoria dell’emergenza, intesa qui come un «fatto eccezionale [che] da origine ad una disciplina straordinaria (lo stato di eccezione)»3 e cioè «una sospensione a vario titolo del normale funzionamento delle garanzie costituzionali vigenti all’interno dello Stato»4. 1

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H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello stato (1945), tr. it. Etas, Milano 2009, p. 444, com’è noto l’A. colloca il problema in una dimensione appartenente alla realtà storico-politica che viene qualificata, e resa pertanto conoscibile nella sua normatività ed unitarietà, attraverso l’ipotesi scientifica della norma fondamentale. Mi riferisco in particolare a C. Schmitt, La dittatura (1921), tr. it. a cura di A. Caracciolo, Settimo sigillo, Roma 2006 e G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Per una diversa e più recente ricostruzione cfr. A. Pastuglia, Immunità, segreto, stato di eccezione. Prospettive sistemico-normative, Einaudi, Torino 2012. G. Marazzita, L’emergenza costituzionale, Giuffrè, Milano 2003, p. 154. È questo lo spazio in cui si interseca il rapporto tra necessità e diritto, com’è noto fondamentale nella teoria di Santi Romano, su cui non posso articolare in questa sede un ragionamento, sul punto cfr. però A. Catania, Formalismo e realismo nella metodologia giuridica. Riflessioni sul pensiero di Santi Romano, ora in Id., Teoria e filosofia del diritto. Temi, problemi, figure, Giappichelli, Torino 2006, pp. 111-118. L. Zagato, Tra emergenza permanente e costruzione del c.d. diritto collettivo alla sicurezza: prove di rilancio del dualismo giuridico, consultabile su http://www.

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Il ricorso sempre più frequente ai poteri di emergenza sembrerebbe esaltare la tesi decisionista dell’indeducibilità dell’ordinamento da una norma per cui «l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto»5. Eppure, questi sono poteri normativi previsti da e nell’ordinamento e, come tali, almeno in via di principio, vincolati al rispetto dei suoi limiti. Quindi, da un altro punto di vista, l’aumento di simili poteri allontanerebbe la prospettiva dell’apertura di un autentico stato di eccezione, quello riconducile ad uno dei nuclei teorici del pensiero giuridico di Carl Schmitt secondo cui, nella potenziale attivazione dello stato di eccezione oltre le previsioni normativamente codificate, permarrebbe quell’ineliminabile cifra del politico che il diritto non riuscirebbe a neutralizzare: malgrado i tentativi di proceduralizzazione, la sua possibile “custodia”; non ne comprenderebbe la bonifica6. Tale forza, secondo Schmitt “pura volontà”, è posta in uno stato di quiescenza in cui la possibilità della sua riattivazione non è rimuovibile, «in quanto emergenza perenne essa diventa il perno della politica»7. Altro elemento contradditorio si può scorgere nel fatto che, nella guerra al terrorismo – o in quella preventiva, o punitiva, contro il regime che si sospetti detenga armi distruzione di massa – sembra inverarsi l’inconfutabilità dell’essenza del politico, quell’«estremo grado di intensità di un’unione o una separazione» che discrimina tra amico e nemico8; eppure dietro questo schema aleggia uno scenario meno drammatizzato ed oramai più consueto: si diffonde un sistema di governo dell’emergenza che sembra un’efficace opera di neutralizzazione del politico, in cui si «tende a spogliare le amministrazioni locali delle loro funzioni determinando, 5

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estig.ipbeja.pt/~ac_direito/Zagato1.pdf. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1934), in Id., Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1972, p. 40. Nella vasta letteratura su Carl Schmitt cfr. C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna 1996; M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 2002; G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Laterza, Roma-Bari 1996. Per un’introduzione critica allo studio cfr. S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci, Roma 2012. «Con stato d’eccezione va inteso un concetto generale della dottrina dello Stato, e non qualsiasi ordinanza d’emergenza o stato di assedio», C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 33. C. Galli, Eccezione come contingenza, in V. Dini (a cura di), Eccezione, Dante e Descartes, Napoli 2006, p. 115. C. Schmitt, Il concetto di politico, in Id., Le categorie del politico, cit., p. 109. Sul complesso rapporto tra guerra, sovranità e diritto cfr. F. Mancuso, Le ‘verità’ del diritto. Pluralismo dei valori e legittimità, Giappichelli, Torino 2013.

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alla lunga, un’alterazione del sistema costituzionale e di allocazione delle competenze»9. Altra apparente aporia: se nella teoria di Schmitt la decisione sullo stato di eccezione avrebbe lo scopo di dare ordine al caos, al quale altrimenti non sarebbe applicabile alcune norma10, gli “stati di eccezione” odierni non solo si protraggono ben oltre la parentesi della temporaneità, ma sembrano strutturalmente lontani dall’assumere una “natura ordinatrice”, abdicando all’obiettivo ultimo «di rendere se stesso non più necessario»11. L’attivazione della paura collegata all’emergenza non è evocata allo scopo della sua neutralizzazione, come nel paradigma hobbesiano, ma per produrre una drammatizzazione della minaccia da «trasformare nell’unica risorsa di senso costantemente attingibile, allo stesso tempo mobilitante e passivizzante»12. «La creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente, […] è divenuta una delle pratiche essenziali degli stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici»13; questa evidenza parrebbe rendere meno chiara la dicotomia tra uno stato di eccezione autentico, quello in cui si fa spazio la “dittatura sovrana” come manifestazione archetipica ed ontologica del politico, e le altre forme di manifestazione eccezionale di poteri di governo, rette ancora da un’architettura normativa. L’importanza che sta assumendo questo stabile governo dell’eccezione ci impone di interrogarci sulla sua natura perché in esso, credo, vanno ricercati se non i più pericolosi, certamente tra i più diffusi segni della slabbratura dei limiti della legge e dei precari equilibri delle democrazie contemporanee: «contraddizioni, difficoltà di funzionamento, smagliature non possono far sottovalutare la creazione di un modello di governo della 9

A. Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Il Mulino, Bologna 2008, p. 220. Sulla normalizzazione del modello eccezionale come strumento di ordinaria amministrazione dell’emergenza vedi: F. Salvia, Il diritto amministrativo e l’emergenza derivante da cause e fattori interni all’Amministrazione, in Il diritto amministrativo dell’emergenza, AIPDA Annuario 2005, Milano 2006; D. Chiaviello, L’amministrazione ordinaria dell’emergenza, in “Federalismi”, giugno 2010. 10 ������������������������������������������������������������������������������� «Bisogna creare una situazione normale e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero», C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 39. 11 G. Marazzita, L’emergenza costituzionale, cit., p. 224. Il caso della gestione commissariale per l’emergenza rifiuti in Campania, perdurata dal 1994 a 2010, può definirsi esemplare. 12 G. Preterossi, L’eccezione quotidiana. Verso la fine dell’età dei diritti?, in A. Amendola, L. Bazzicalupo (a cura di), Dopo il nomos del moderno, ESI, Napoli 2006, p. 235. 13 G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Milano 2003, p. 11.

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società che ha tutti i tratti di una democrazia autoritaria: accentramento dei poteri, abbattimento delle garanzie, restrizione della libertà e dei diritti, sostegno plebiscitario […]. Qui è la vera riforma istituzionale, qui il rischio di uno strisciante cambiamento di regime»14. Il chiaro momento di separazione tra un’emergenza interna all’ordinamento e l’epifania di un diverso ordine costituito, completamente indifferente ai principi di derivazione normativa posti dal precedente, tra il dentro ed il fuori del diritto, appare sempre più sottile. Posto che la «la dittatura è sempre qualcosa di abnorme, perché in essa la delimitazione dei poteri tipica dello stato di diritto dipende dalla situazione di fatto»15, a me pare che una rideterminazione tra diritto e fatto, tra norma e scopo, si imponga carsicamente, seppure in modo apparentemente meno autoritario e di certo meno totalizzante, anche attraverso l’emanazione di provvedimenti eccezionali di diversa natura. Se nella sospensione dell’ordinamento si apre lo squarcio in cui la sovranità mostra l’inesauribile presenza della sua infondatezza ed origine abissale, in cui la contaminazione tra politica e diritto fuoriesce dai bordi stabiliti dalla regolarità, oggi l’emergenza permanente appare fonte costante di legittimazione per l’iniziativa latu sensu legislativa e l’adozione di provvedimenti eccezionali e speciali caratterizzano il quadro normativo in diversi ambiti disciplinari16. Pertanto l’atto della sua instaurazione diventa sempre più informale e sempre meno drammatico, eppure allo stesso tempo sempre più frequente, inglobato in una miriade di possibilità normative che allontanano l’orizzonte di una rottura forte con l’ordinamento, ma aprono il percorso, credo, ad una sempre maggiore libertà di movimento della politica nelle maglie sempre più deboli del principio di legalità dello stato di diritto. «Questa terra di nessuno fra il diritto pubblico e il fatto politico, e fra l’ordine giuridico e la vita»17 credo possa essere indagata non solo attraverso un determinato istituto, quanto dalla prospettiva degli effetti 14 S. Rodotà, Leggi speciali, in “la Repubblica” del 27 maggio 2008, ora in AA. VV., Campania chiama Europa, La scuola di Pitagora, Napoli 2012, p. 119. 15 C. Schmitt, La dittatura, cit., p. 278. Per una recente ricostruzione problematica cfr. U. Pomarici, Dittatura è democrazia? Carl Schmitt e “l’elemento politico nella costituzione moderna”, in A. Argenio (a cura di), Totalitarismo e democrazia, Editoriale Scientifica, Napoli 2012, pp. 225-264. 16 «L’emergenza e l’eccezionalità, d’altra parte, non rappresentano più, come nella rappresentazione schmittiana la sfida all’esistenza del vecchio e l’evento che origina il nuovo ordine», Cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 150. Sul confine, e gli sconfinamenti, tra norme speciali ed eccezionali, ovviamente diverse le une dalle altre, cfr. già N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano 1999, pp. 53 e ss. 17 G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 10.

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della sua emersione concreta: essi comportano sempre un’alterazione degli equilibri istituzionali ed un’attenuazione del principio di separazione dei poteri18. Quindi, oltre l’interpretazione agambeniana, vorrei interrogarmi sulla possibilità che sia proprio una qualche forma di persistenza del diritto, e non la sua sospensione, a permetterci di percorrere questo sentiero. Se «lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia»19, mi chiedo cosa si celi dietro l’artificio che lo rende “onnipotente”, cioè quell’effetto di sospendere l’ordinamento così come l’intervento divino interrompe il corso delle leggi fisiche e naturali. Mi pare che il tratto sovrannaturale del miracolo risieda anche nella sua natura di reggere e governare un determinato fenomeno con un ordine di regole altro ed inspiegabile. Se l’analogia si fonda anche su questo aspetto, credo sia cruciale riflettere, nei casi sempre più frequenti in cui la forza sospensiva è comunque normativamente prevista, su quel sistema di regole altro che qualifica, attraverso la sua emanazione ed applicazione, la situazione concreta come “eccezionale”. Tralasciando, momentaneamente, il problema del chi decide, vorrei allora interrogarmi su che cosa emani da questa decisione, quando esce dal soliloquio psicologistico del sovrano per produrre senso nel mondo dei comportamenti: qui essa deve assumere una struttura normativa. Il problema di questo tipo di normatività è particolarmente complesso, perché posto che «una norma è […] una proposizione normativa che tende a riconoscere e stabilire un comportamento normale»20, le norme eccezionali, e più in generale quelle che scaturiscono dall’emergenza, hanno un contenuto precario e un effetto non normalizzante, producendo conseguentemente incertezza nel duplice verso del profilo ermeneutico applicativo e di quello della gerarchia delle fonti. Ciò malgrado «questa stessa struttura normativa va presupposta nella decisione sovrana»21 perché, come ha scritto Alfon18 «Ces moyens, qui favorisent le renforcement du pouvoir et la concentration de son exercice, sont de deux ordres: restriction ou suspension des libertés publiques et de certains garanties constitutionnels, d’un part; transgression plus au moins étendue du principe de séparation des pouvoirs au benéfice de l’exécutif, d’autre part, celle-ci pouvant aller jusqu’au transfert à l’autorité militaire des pouvoirs ordinaires de police, voire de compétences juridictionnelle», J.F. Kervégan, État d’exception, in P. Reyanoud, S. Rials (a cura di), Dictionnaire de philosophie politique, PUF, Paris 1996, p. 231. 19 C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61. 20 N. Bobbio, Norma giuridica, in Id., Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, Torino 1994, p. 215. 21 A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, cit., p. 142.

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so Catania, norma e decisione si comprendono sempre l’una nell’altra, la prima come schema di comprensione logica della seconda, «senza la quale essa rimane muta»22. Ciò significa l’eccezione si manifesta necessariamente all’esterno attraverso una struttura normativa, cosa ancora più rilevante nell’ipotesi in cui essa assume un particolare stato di “permanenza”, che caratterizza appunto il momento attuale. Parrebbe allora che gli strumenti di governo del caso di eccezione si caratterizzino sempre più spesso per una funzione generativa di adeguamento dell’ordinamento. Oggi cioè l’eccezione è più raramente assoluta, nel senso di instaurare chiaramente un diverso ordine costituzionale, valido per la generalità dei consociati23; sempre meno è “relativa”, perché non mira a ristabilire le condizioni di possibilità per la riattivazione delle regole sospese o derogate, ma al contrario a dimostrarne l’inefficacia e la conseguente opportunità di modifica o di necessaria elusione24; l’eccezione è sempre più permanente nel senso che è occasione di surrettizio cambiamento istituzionale ovvero forma di una diversa modalità di adattamento normativo. Prima di approfondire questo aspetto però si deve ribadire che l’eccezione, al di là della sua dimensione genetica di provenienza, nel momento in cui si manifesta è sempre interna a quello iato necessario con cui decisione e norma pronunciano il diritto25, il che comporta una critica all’ipotesi che in questi casi si incontri uno stato di disattivazione del giuridico. 2. Un salto oltre il vacuum Agamben coglie l’intima natura repressivo-tanatologica del diritto, che è a sé connaturata e che il caso di eccezione si limita solo a rendere più visibile, mostrando in questo passaggio l’influenza profonda con l’impo-

22 L’icastica espressione è di S. Pietropaoli, Il momento della decisione. Sul normativismo ben temperato di Alfonso Catania, in F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le Metamorfosi del diritto, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 111. 23 Mi riferisco chiaramente al contesto delle cd. democrazie occidentali. 24 Sulla differenza tra sospensione e deroga cfr. G. Marazzita, L’emergenza costituzionale, cit., pp. 215 e ss., in particolare le indicazioni bibliografiche nelle note sub. 116 e 123. Sul concetto di eccezione relativa cfr. P. Pinna, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano, Giuffrè, Milano 1988, pp. 77 e ss. 25 Cfr. A. Catania, Decisione e norma, Jovene, Napoli 1979, p. 85. Cfr. anche A. Catania, Che cos’è la decisione, ora in Id., Effettività e modelli normativi, a cura di V. Giordano, Giappichelli, Torino 2013, p. 80.

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stazione di Benjamin26. Agamben in “Stato di eccezione” ricorre ad una figura “minore” del diritto pubblico romano, quella del Iustitium27. Nella sua ricostruzione, l’istituto rappresenterebbe l’epifania di «un vuoto giuridico, gli atti commessi durante il iustitium sono radicalmente sottratti a ogni determinazione giuridica»28. Egli descrive le azioni compiute nella sua vigenza come meri fatti: «chi agisce durante uno iustitium – se si volesse dare un nome alle azioni umane commesse in uno stato di anomia – non esegue né trasgredisce, ma inesegue il diritto»29. Quella che chiama, non a caso, “eccezione sovrana”, è sempre “relazione di eccezione”, cioè «non è un concetto esclusivamente politico né un solo concetto: è la forma attraverso cui il diritto sin dall’origine si riferisce alla vita» discriminando tra zoé e bios30. Mi chiedo se questa tesi non lasci scoperto il lato passivo del rapporto, cioè quello del soggetto che subisce la violenza, resa possibile da quella che potremmo effettivamente definire come un’anomia soggettiva, rectius una diminutio tendente all’anomia soggettiva: la nuda vita è resa tale attraverso la sottrazione dal soggetto di qualcosa, precisamente la rideterminazione di uno status. Ma per quanto uno stato di pura uccidibilità possa rinviare logicamente ad una situazione di svuotamento del giuridico, a ben guardare la presenza di una forma di potere nei confronti dell’homo sacer, nel momento in cui si configura come pretesa di obbedienza, svela proprio la sua profonda giuridicità: il diritto è presente e non rinuncia ad esercitare poteri nominando la vita31. Il detenuto, il clandestino, il nemico combatten26 Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921), in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995, in particolare pp. 17 e ss. 27 Per un’interpretazione che confuta la ricostruzione del iustitium come istituto che instaura la sospensione dell’ordinamento giuridico cfr. L. Garofoli, Biopolitica e diritto romano, Jovene, Napoli 2009, in particolare pp. 117-142. 28 G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 65. 29 Ibidem. 30 L. Bazzicalupo, Biopolitica, una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, p. 84. Tale elaborazione è rintracciabile sin da G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995. 31 «Il tema dello stato di eccezione alla luce insieme del diritto internazionale e di quello interno consente in definitiva di metterne in luce il carattere giuridico, in entrambi gli ordinamenti, a differenza di quanto sostenuto da Agamben», L. Zagato, A proposito dello stato di eccezione. Contributo critico di un internazionalista intorno alla monografia di Agamben, in “Deportate, esuli, profughe”, 7, 2007, pp. 269-281; ed ancora: «Sembra invece a me che nei riguardi dell’homo sacer il diritto […] sia sempre operante nella forma della piena operatività: che cioè non lo abbandoni mai, neppure quando ne permette l’uccisione, qualificandola come lecita», L. Garofoli, Biopolitica e diritto romano, cit., pp. 63-64.

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te, sono qualificazioni giuridiche determinate e differenti. Il paradosso della sovranità, di essere «fuori dall’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartene[re] ad esso» riguarda il sovrano, ma non investe allo stesso modo i soggetti che con quel “paradosso” entrano in contatto. Attraverso questa prospettiva potremmo interpretare anche la situazione di diversa normatività nel caso paradigmatico del campo: quello di Guantanamo e dei centri di detenzione temporanea, ad esempio, sono accumunati non dalla sospensione del diritto, ma da una rideterminazione dello status dei soggetti in essi reclusi: i “nemici combattenti” sono definiti in questo modo al fine di sospendere i diritti che gli dovrebbero essere riconosciuti come prigionieri di guerra32; l’immigrato assume, con la qualifica di “clandestino”, uno status di per sé così intriso di normatività da essere già in sé penalmente rilevante33. Infatti, come ha sottolineato Mitchell Dean «Guantanamo bay does not exist in a domain of the evacuation of law, nor in the materialization of a state of exeception, but one that is densely overlaid with law, administrative procedure and review mechanism»34. Ciò premesso possiamo avvalerci della ricostruzione agambeniana del “campo”, per leggere in esso la dimensione in cui si manifestano residui di sovranità. Si tratta però di interrogarsi sul giuridico che ivi si spande, in cui l’eccezione assume un significato in larga misura rimodellato ad una funzione servente di una pluralità di poteri emergenti. 3. Dall’eccezione sovrana alle eccezioni differenziali nella governamentalità neoliberale Per Schmitt ed Agamben l’eccezione rappresenta un limite dell’ordine, per uno forza scaturente ed inesauribile per l’altro sua essenza negativa e mortifera, ma entrambi lo radicano all’interno di un modello teologico, sovranista o economico. Sovranità ed eccezione hanno incrociato i loro percorsi per tutto l’arco dello Stato moderno, servendo l’uno come momento di svelamento, o elemento di produzione teorica, dell’altro. Credo che questo rapporto sia tuttora determinante per leggere le scie dei vettori di potere che si muovono dietro le molteplici manifestazioni del giuridico; però la “metamorfosi del diritto” e della sovranità mi inducono a dubi32 Cfr. J. Fleurs, Guantanámo bay and the annihilation of exception, in “The European Journal of International Law”, 4, 2005. 33 Cfr. l. n. 94 del 15 luglio 2009. 34 M. Dean, Governing Societies: Political Perspective on Domestic and International Rule, Open University Press, Maidenhead 2007, p. 181.

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tare dell’ipotesi di poterne rintracciare un’origine dall’impronta autoriale. Che la questione sia difficilmente comprensibile solo all’interno di un paradigma gerarchico-piramidale può mostrare i primi segni di evidenza nel fatto che il fenomeno dell’emergenza, pur nelle sue specifiche forme e diversità, assume particolare rilievo in dimensioni spiccatamente metastatuali: le crisi finanziarie ed economiche, il controllo dei flussi migratori, lo sfruttamento delle risorse energetiche, i cambiamenti climatici, i disastri ambientali, il terrorismo globale35. Questa dimensione riverbera delle profonde incongruenze anche nel paradigma teorico teologico-politico. Eppure, se da un parte sembra scomparire l’orizzonte, ed il mito, di un potere unitario e coerente, che muove razionalmente le leve ordinanti del giuridico, dall’altra nella prassi normativa vengono potenziate figure di vecchie e nuove autorità, capaci quantomeno di “attivare il ricordo” dell’ordine collegato alla sovranità36: si pensi ai commissari straordinari, ai vertici della protezione civile, fino al commander in chief nell’enduring war al terrorismo. La prospettiva di Schmitt svela quindi ancora molto del tratto opaco del politico, ma, evidentemente condizionata dal tempo in cui è stata pensata e scritta, sconta il limite per cui «il problema della sovranità si identifica con l’individuazione del suo soggetto»37. Oggi sembrerebbe affiorare «più che assenza di sovranità un eccesso di atti a vario titolo sovrani e a vario titolo eccezionali»38. Questo comporta, appunto, se non la negazione di certo la rideterminazione di che cosa intendiamo per sovranità. Lasciati dunque sullo sfondo i contorni difficilmente definibili di un potere che possa dirsi supremo, la crisi della coincidenza Stato/sovranità muta i soggetti ed i paradigmi conoscitivi, ma non l’essenza della questione39: l’epifania di un potere, o di una sua tecnica, si rende visibile nel momento letterale della 35 Per una panoramica dei dispositivi che a livello globale operano nell’ambito di gestione delle emergenze prodotte dai processi di globalizzazione e mondializzazioni cfr. A. Arienzo, Il governo delle emergenze e la conservazione politica: ragion di stato democratica e security governance, in V. Dini (a cura di), Eccezione, cit., pp. 93-108. 36 C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Il Mulino, Bologna 2008, p. 56. 37 N. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, cit., p. 187. 38 M. Guareschi, F. Rahola, Chi decide. Critica della ragione eccezionalista, ombre corte, Verona 2011, p. 64. 39 Sulla natura teorica del concetto di sovranità, come strumento di razionalizzazione di una forma di organizzazione del potere da parte della scienza giuridica, cfr. A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica ed agency, Giappichelli, Torino 2012, in particolare pp. 71 e ss.

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sua “emergenza”, che è appunto quello in cui l’azione oltrepassa la regola ridefinendola e il potere si impone attraverso nuove determinazioni deontiche. In questo senso appare interessante la prospettiva di Wendy Brown che sostiene che «alcune caratteristiche fondamentali della sovranità stanno migrando dallo Stato-nazione nella dominazione oppressiva del capitale e nella violenza politica autorizzata per via divina»40. Il nostro problema è appunto quello di collocare l’«intima fecondità dell’eccezione»41 nella trasformazione spaziale e politica colta da Agamben, partendo però da un’idea profondamente diversa della normatività giuridica e provando a cogliere il rapporto tra eccezione ed il diverso paradigma della governamentalità, attraversando però la sua natura ambivalente42. Nel contesto di quelli che Saskia Sassen definisce “assemblaggi territoriali”, Aihwa Ong afferma che «l’eccezione neoliberale come pratica di governo istituisce spazi politici che sono diversamente regolati e collegati ai circuiti globali»43. Nel testo ora citato si mostra come la geografia neoliberale sia frammentata in “zone” in cui si determinano status, però in modo non definitivo come nei confini politici degli stati nazione, ma ricreati e rimodellati di volta in volta in base a specifici obiettivi. Un terreno spaziale compatibile e sovrapponibile con quello statuale, dove la tecnica di governo neoliberale sostiene la creazione di ambienti giuridici speciali, funzionali alla messa a lavoro, che è anche una “messa in forma”, della produttività capitalista44. Ad esempio il campo, come luogo di cittadinanza negativa, è la condizione di possibilità spaziale per una diversa normatività. Questo non dovrebbe però esigere la svalutazione dell’aspetto generativo ed incrementativo del potere biopolitico governamentale. Il punto è colto da Dean, che sottolinea come il paradigma del campo non sia univocamente declinabile nella sola dimensione tanatologica del lager: «the camp in this sense has no essential form»45. Esso, inteso in senso più ampio come pratica di zoning, può essere anche uno strumento di territorializzazione completamente diverso, in cui 40 W. Brown, Stati murati (2010), Laterza, Roma-Bari 2013, p. 11. 41 N. Irti, L’età della decodificazione, cit., p. 178. 42 Sul concetto di governamentalità cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Course au Collège de France, (1977-1978) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 88. 43 A. Ong, Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione (2006), La casa di Usher, Firenze-Lucca 2013, p. 38. 44 Cfr. in particolare L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006. 45 M. Dean, Governing Societies, cit., p. 178.

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la rideterminazione spaziale sia funzionale, ad esempio, a costruire ambiti in cui assecondare aspirazioni o indirizzare alla realizzazione di molteplici obiettivi, cosa che mi pare caratterizzi «un potere la cui funzione più importante non è forse più di uccidere ma d’investire interamente la vita»46. È questo uno schema aderente ad una persistenza in trasformazione del «fenomeno giuridico che non può essere ridotto ai termini di un discorso giuridico formalistico/normativistico, ma che di questo discorso, al contempo, non può fare a meno, perché rischierebbe di perdersi dentro gli infiniti rivoli della frammentazione in atto»47. In queste sovrapposizione tra nuove forme di normatività e quelle vecchie, ed ancora predominanti, si forma un attrito, che sempre più spesso si risolve, appunto, con l’eccezione. C’è quindi una differenza, che però si badi è anche una compresenza, tra l’eccezione che include escludendo l’altro e regna dentro il confine così tracciato, e l’eccezione nella tecnica governamentale, che incentiva e produce soggettivazione ed assoggettamento attraverso il governo di sé e degli altri48. Se nel paradigma sovranista il caos e la reminiscenza delle guerre di religione sono il forcluso che conduce all’ossessione dell’ordine, nella fase attuale di governamentalità neoliberale il conflitto è invece la dimensione idonea da conservare ed incentivare, pur entro i macro limiti della competitività e della concorrenza49. L’impossibilità di risolvere definitivamente il 46 M. Foucault, La volontà di sapere (1976), tr. it. Feltrinelli, Milano 1988, p. 123. 47 A. Tucci, Trasformazioni del diritto e soggettivazioni eterogenee, in S. Marcenò, S. Vaccaro (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, duepunti, Palermo 2011, pp. 169-186. 48 Mi limito, in questa sede, ad evocare alcuni esempi: da una parte la l. n. 123 del 14 luglio 2008 sullo “Stato di emergenza rifiuti in Campania” che qualifica i siti, le aree e gli impianti connessi all’attività di gestione dei rifiuti quali “aree di interesse strategico nazionale”. Dall’altra parte appaiono coerenti ad una forma di negoziazione normativa puntuale ed “eccezionale” – nel senso lato di regolazione particolareggiata e situata degli interessi, orientata dalla logica della compatibilità, tipica della governamentalità, piuttosto che a quella ordinativa della tradizionale legge generale ed astratta – ad esempio: la (re)introduzione, al fine di agire in giudizio, della mediazione civile obbligatoria; la lenta erosione della funzione della contrattazione collettiva nazionale a favore di quella decentrata dei contratti collettivi aziendali e territoriali, investiti di un’innovativa forza derogatoria delle disposizioni legislative e dei CCNL, ex art. 8 comma 1 del d. l. 138/2011 convertito con l. 148/2011. 49 Un conflitto evidentemente diverso da quello governato dal discrimine amico/ nemico della logica politica. In questo senso: «quando eccezione ed emergenza si presentano così di frequente cessando di rappresentare per la convivenza civile il baratro e, piuttosto, la abituano a conviverci», A. Catania, Metamorfosi del diritto, cit., p. 151.

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disordine non è quindi solo frutto dell’impotenza della sua neutralizzazione entro i confini statuali, quanto piuttosto l’esaltazione di uno stato ideale in cui possano dispiegarsi le forze di un mercato capitalistico sempre in movimento, dove è prioritario «distribuire ciò che è vivente in un dominio di valore e di utilità. Un tale potere deve qualificare, misurare, apprezzare, gerarchizzare»50. La norma ipotetica, generale e astratta, è coerente ad una progettualità universalistica e risulta meno adeguata per la regolazione degli interessi improntati sempre più al calcolo costi/benefici. La chiara linea di confine tra specialità ed eccezionalità si affievolisce in una modalità di intervento di politica del diritto in cui il ricorso all’ «emergenza ha determinato, prevalentemente, interventi economici, interventi singoli, non regolazione»51. Questa tipologia di ricorso a misure eccezionali esce fuori dai modelli ricostruttivi in cui è determinante il confine, fragile, del fine perseguito: conservativo o evolutivo dell’ordinamento vigente52. L’eccezione nel contesto attuale appare piuttosto una risorsa che, sospendendo e derogando, costruisce l’abito regolativo adeguato, in ambiti spaziali rideterminabili, per raggiungere gli scopi formati nelle contingenze e nelle strategie episodiche formatesi nell’incontro tra poteri privati e pubblici. Risulta evidente che questo orizzonte sia tutt’altro che irenico, riflettendosi in esso il peso degli squilibri e della differenza tra le parti che negoziano e che posso eccepire solo se adeguatamente istruite dei mezzi di conoscenza e tecnica necessari per farlo, un’altra traccia evidente del nesso sapere-potere che caratterizza le traiettorie di potere governamentale. In questo senso c’è sempre meno lo spazio di una decisione sull’eccezione che risolva il conflitto e che ponga l’ordine, piuttosto la fortuna dell’emergenza, e con essa dell’eccezione, è nella loro valorizzazione come strumento normativo capace di adattarsi all’ «opacità e la incertezza mai definitivamente escludenti della negoziazione, cuore di una realtà pensata sotto il profilo della necessaria governabilità piuttosto che sotto il profilo della giustizia»53.

50 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 128. 51 E. M. Marenghi, Il diritto ai tempi della crisi: la regolazione possibile, in “Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, 1, 2010, p. 149. 52 Cfr. G. Marazzita, L’emergenza costituzionale, cit., pp. 143 e ss. 53 L. Bazzicalupo, Governamentalità: pratiche e concetti, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 2, 2013.

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Valeria Giordano

LE COSTRUZIONI DELLA SCIENZA GIURIDICA FRA RAGION PRATICA E SPAZIO DELLA POLITICA

1. «La dottrina pura del diritto è una teoria del diritto positivo. Del diritto positivo semplicemente, non di un particolare ordinamento giuridico. È teoria generale del diritto, non interpretazione di norme giuridiche particolari, statali o internazionali. Essa, come teoria, vuol conoscere esclusivamente il suo oggetto. Essa cerca di rispondere alla domanda: che cosa e come è il diritto, non però alla domanda: come esso deve essere o deve essere costituito. Essa è scienza del diritto, non già politica del diritto. Se viene indicata come dottrina pura del diritto, ciò accade perché vorrebbe assicurare una conoscenza rivolta soltanto al diritto, e perché vorrebbe eliminare da tale conoscenza tutto ciò che non appartiene al suo oggetto esattamente determinato come diritto. Essa vuole liberare cioè la scienza del diritto da tutti gli elementi che le sono estranei»1. La lettura kelseniana coglie nella neutralità del metodo giuridico il carattere anti-ideologico della Scienza giuridica, che appare così, scientificamente aperta nella demistificazione dei processi dinamico-volontaristici di produzione normativa e libera da ipoteche sostanzialistiche e da dogmi orientati in senso giusnaturalistico. Se ogni ideologia ha le sue radici nel volere, non nel conoscere, è indispensabile preservare da parte della scienza quella tendenza immanente a scoprire il suo oggetto, a costruire il diritto, rinunciando a giustificarlo o a condannarlo, pena la legittimazione ideologica del suo contenuto e l’occultamento delle dinamiche di potere sottese alla decisione giuridica. La radicale eliminazione di qualsiasi residuo sociologico e naturalistico, introdotto nella conoscenza giuridica, risponde perciò all’esigenza di disvelamento anti-ideologico della dottrina pura, sulla quale fondare l’autonomia della scienza giuridica rispetto alle scienze causali e sociologiche e le dottrine giusnaturalistiche: la dissoluzione di qualsiasi immagine na1

H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), tr. it. Einaudi, Torino, 1952, p. 47.

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turalistica, causalistica del diritto infrange, in questo modo, il tradizionale sostanzialismo dei concetti giuridici, dissolvendoli nella struttura della qualificazione giuridica. La riflessione teorica di Hans Kelsen evidenzia, in questo modo, uno strappo mai riducibile fra un dualismo idealista – che deriva la sfera giuridica da un ordine trascendente ma indisponibile alla conoscenza normativa – e un monismo realista e anti-ideologico, che riconosce giuridicamente soltanto la razionalità formale del costrutto artificialistico. Tale lezione, innervata di neokantismo nella costruzione formale delle categorie giuridiche, scompone nel dualismo essere/dover essere, attraverso cui Kant aveva fondato l’autonomia della ragione pratica rispetto alla ragione teoretica, l’esigenza di purezza metodologica della scienza giuridica, che affonda così, le sue radici in uno scarto mai neutralizzabile fra conoscenza e volontà. Questa antitesi, tradotta nella divaricazione fra interpretazione scientifica ed interpretazione autentica, se per un verso cala la neutralità weberiana nel modello normativo di scienza giuridica, per l’altro, mette a nudo l’elemento decisionale del diritto, l’essenza irriducibilmente politica di ogni atto volontaristico-dinamico e la non disponibilità di un’etica condivisa. Dinanzi all’impossibilità di una fondazione oggettiva dei valori, che frammenti l’idea regolativa in una serie di concezioni plurime e discordanti riproduttive di una tendenza conservatrice del diritto, la neutralità kelseniana comporta la rinuncia da parte della scienza giuridica ad esprimere un’opzione etico-politica e l’imprescindibilità dello sguardo avalutativo che disveli la trazione conflittuale fra valori opposti. È certamente un modello, quello kelseniano, che nel riconoscimento della politicità intrinseca nella nomodinamica dissolve la neutralizzazione giuridica nella strutturazione autoritativa del dispositivo giuridico, all’interno del quale il nesso decisione-norma si scompone tutto nell’autoreferenzialità dell’ordinamento. Ne deriva la negazione di qualsiasi contraddizione logica all’interno del sistema giuridico, in cui la nullità risulta rappresentabile soltanto come il massimo grado dell’annullabilità2, e la dissoluzione nell’unità formale del diritto di qualsiasi conflitto normativo. Le costruzioni teoriche della scienza giuridica, impegnate nella semplice descrizione di tutti i possibili significati attribuibili agli enunciati normativi, preservano, pertanto, l’ideale di una conoscenza non contrad2

«A questo riguardo il diritto è come re Mida: come tutto ciò che questi toccava si tramutava in oro, così tutto ciò cui il diritto si riferisce assume carattere giuridico. Nell’ordinamento, la nullità è soltanto il massimo grado di annullabilità» H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), tr. it. Einaudi, Torino 1966, pp. 309-310.

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dittoria della razionalità artificiale ma al tempo stesso proprio nel tentativo di selezionare il cono semantico del linguaggio giuridico sembrano inevitabilmente derubricare la pretesa di neutralità, una neutralità oggi ancora più affannosamente rincorribile rispetto al problema della collisione dei diritti, e pagata al prezzo della rinuncia a qualsiasi controllo sulla sintesi giuridica. L’antitesi, fra conoscenza e volontà, fra scienza e politica del diritto, è oggi messa radicalmente in crisi da nuove forme di costituzionalismo teorico che infrangono l’immagine autoreferenziale della rappresentazione moderna. Esse, attraverso l’elaborazione di modelli di controllo della razionalità del diritto, frantumano le costruzioni tradizionali della scienza giuridica, orientandole in chiave etico-giustificativa. Due, in particolare, i poli concettuali, tendenti a riprodurre l’antico divario fra trascendenza e artificialismo, che sembrano ridurre la forbice fra identificazione del diritto e sua accettazione etico-politica: quella esigenza che la metodologia kelseniana, pur dentro la pretesa di una avalutatività affannosamente perseguibile, sembrava preservare. Certo, dinanzi alle profonde trasformazioni delle società contemporanee, sembra in declino l’immagine irenica del giuridico come luogo di neutralizzazione dei conflitti, ma forse rimane ancora spazio a quella pretesa tutta interna al pensiero kelseniano di una demitizzazione del diritto, che lo liberi da fisionomie sacrali avulse dal reale. Rimane indubitabile, del resto, l’affermazione di pratiche giuridiche che evidenziano la rigidità e l’astrazione eccessiva del metodo scientifico kelseniano, mostrando la sua difficoltà a confrontarsi con la liquidità dei confini del diritto e che fondano il gioco normativizzante su forme di razionalità argomentativa. 2. Il primo polo concettuale del costituzionalismo contemporaneo reinterpreta in chiave etico-discorsiva il ruolo della jurisprudence. La possibilità di delimitare i conflitti pratici diventa concepibile in questa teoria attraverso un sostegno al giurista e al giudice di tipo analiticonormativo, che dall’esame degli argomenti effettivamente ricorrenti nelle discussioni giuridiche fornisca criteri di razionalità del diritto, che costituiscono, al tempo stesso, strumenti per criticare quelle motivazioni sganciate da una loro fondabilità discorsiva. In questa impostazione, pertanto, il carattere scientifico della giurisprudenza pratica risulta intimamente collegato all’elaborazione di criteri della razionalità del discorso normativo basati sulla struttura logica delle sue giustificazioni.

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Si tratta, in realtà, di un modello normativo, fortemente orientato, che mira a restringere attraverso procedure discorsive universali, lo spazio logicamente lasciato disponibile, dalla ponderazione costituzionale, alle valutazioni morali. L’idea di fondo di questa prospettiva è che nel contesto complessivo di un ordinamento giuridico sia sempre possibile rintracciare delle valutazioni divergenti rispetto al caso concreto, ma che proprio l’orizzonte fattuale di contrasti reali su questioni pratiche, chieda, dal punto di vista metodologico, la giustificabilità stessa delle valutazioni. Questo aspetto, che lega la giustificazione discorsiva del diritto al criterio di correttezza delle proposizioni normative al punto da definire come “giusta” la prescrizione che soddisfi i criteri determinati da queste regole, coglie nell’individuazione di un ideale da perseguire, di questo «codice della ragion pratica», la svolta teorica di fondo di una giurisprudenza normativamente orientata. Si tratta, in altre parole, di un procedimento decisionale che se, da un lato, propone regole talmente deboli da aver un minimo contenuto normativo da poter essere approvate da persone con idee normative completamente differenti, dall’altro le considera talmente forti che una discussione condotta conformemente ad esse possa essere definita razionale.3 Questo aspetto, che lega la giustificazione discorsiva del diritto al criterio di correttezza delle proposizioni normative al punto da definire come “giusta” la prescrizione che soddisfi i criteri determinati da queste regole, coglie nell’individuazione di un ideale da perseguire, di questo “codice della ragion pratica”, la svolta teoria di fondo di una giurisprudenza normativamente orientata. Tale linea teorica, che istituisce un legame indissolubile fra il concetto di giustificazione, su cui risulta fondarsi la pretesa di correttezza avanzata dal diritto4, e quello di coerenza5, costituisce, in realtà, il fulcro concettuale di molteplici versioni argomentative del diritto che, a partire da una fondazione discorsiva del diritto in cui la pretesa di universalizzazione rimanda ad un’esigenza di coerenza delle pratiche interpretative, “contengono” i conflitti giuridici attraverso la costruzione di canoni argomentativi assunti a “ragioni” definitive di orientamento pratico. 3 4 5

R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica. La teoria del discorso razionale come teoria della motivazione giuridica (1978), tr. it. Giuffrè, Milano 1998, p. 19. R. Alexy, Concetto e validità del diritto (1992), tr. it. Einaudi, Torino 1997. Su questi temi, cfr. R. Alexy, Coherence and Argumentation or the Genuine Twin Criterialess Super Criterion, in A. Aarnio, R. Alexy, A. Peczenik, W. Rabinowicz, J. Wolenski, On Coherence Theory of Law, Juristförlaget, Lund 1998, p. 43.

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L’attenzione al mondo giudiziario e al tempo stesso l’esigenza universalistica del paradigma discorsivo supera, in questi approcci, la dicotomia fra descrizione e prescrizione del diritto, ed offre in alcune versioni una terza via di accesso alla validità giuridica che, nella scelta fra concezione realistica del diritto improntata all’assegnazione di una funzione predittiva alla scienza giuridica e purezza metodologica di stampo kelseniano basata sulla descrizione dei significati attribuibili alle norme, la intenda quale concetto teoricamente connesso con la certezza giuridica, e con quello, con esso confinante, di accettabilità razionale. In quest’ottica, però, nella derivazione della categoria dell’accettabilità razionale dal concetto di efficacia sociale6, si evidenzia una complessità teorica di fondo, dovuta alla circolarità in cui è avvolto il concetto di coherence, che appare generativo di un legame indissolubile con la morale positiva della società, oggettivata nell’opera di sistematizzazione della dommatica giuridica. Emerge, in questo modo, un modello normativo di Jurisprudence che, nel superamento del metodo avalutativo, tende a ridurre la forbice fra l’esercizio di una discrezionalità piena à la Kelsen e la compressione in chiave etico-comprensiva dello spazio giuridico, che come vedremo rappresenta l’elemento chiave dell’altro polo del costituzionalismo contemporaneo, sfociando in una prospettiva basata sull’equivalenza fra l’accettabilità razionale del diritto e la sua costruzione effettiva in termini di ragionevolezza da parte degli operatori giuridici che radicalizza l’esigenza di prevedibilità e certezza del diritto, attraverso un’eccessiva formalizzazione dei valori morali. La prevedibilità della vita giuridica richiede, infatti, una razionalizzazione sistematica dei valori da ridurre a congruenza, sublimandoli all’interno di un uditorio ideale: questa tendenza ordinativa, però, nella stessa circolarità in cui avvolge il concetto di validità giuridica, in un senso ideale, e al tempo stesso coincidente con le scelte pratiche di fondo operate dalla giurisprudenza, rischia di escludere dalla sfera giuridica forme decisionali in conflitto rispetto al senso etico dominante nella società, facendo prevalere, in questa stessa operazione finalizzata alla controllabilità delle decisioni, gerarchie fra valori etici, staticamente intese, determinate una volta per tutte, in qualche modo “definitive”. Si registra, inoltre, in alcune versioni argomentative, come lo sradicamento dalla fondazione etico-contenutistica e l’appello ad una pragmatica minimale, dissolta, quindi, in una serie di regole formali, nell’unità di una 6

A. Aarnio, The Rational as Reasonable: A Treatise on Legal Justification, Reidel, Dordrecht-Boston-Lancaster-Tokio 1987, specie p. 192.

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ragione interamente proceduralizzata, tenda, in realtà, a stringere il cerchio argomentativo in una trazione oppositiva fra istanze formalistiche e pretese sostantive di oggettivazione della morale7, traducendosi in una tendenza riproduttiva di quell’istanza formale e ordinatrice tutta interna alla razionalità moderna, attraverso l’affidamento su una correlazione indissolubile fra adozione di una procedura e assunzione di una metaetica neutrale. In questa chiave di lettura, in cui si esporta il nucleo concettuale dell’argomentazione morale all’interno della giustificazione giuridica, la razionalità del costrutto artificiale si coniuga con un ideale trascendentale: ma questa tensione fra trascendenza e artificialismo comporta si il superamento della avalutatività della scienza, ma al tempo stesso nella rinuncia ad un modello etico-sostantivo, la riproduzione di quelle ragioni soggettive, evidenziate da Kelsen, che sfuggono da criteri generali ed ultimi e che non riescono a rimanere soffocate in una composizione del dilemma che si affidi ad una qualche strategia procedurale. In definitiva, il percorso argomentativo mette in luce, l’imprenscindibilità di uno sguardo sul giuridico che superi la pretesa kelseniana di una neutralizzazione del carattere antinomico del diritto nella mera strutturazione autoritativa del dispositivo giuridico, capovolgendo quella visione interna all’autorappresentazione dello Stufenbau, che il ragionamento giuridico sia lo schermo logico dentro il quale nascondere la volontà eticopolitica dell’interprete, d’altro canto, sembra esporre la jurisprudence al rischio di una ricostruzione razionale del diritto tendente ad adombrare i vettori di potere che attraversano lo scenario giuridico, oscurandoli nella neutralità del proceduralismo. 3. L’altro polo concettuale del costituzionalismo contemporaneo che affonda le sue radici nel modello lockiano sfronda la distinzione benthamiana fra espository jurisprudence e censorial jurisprudence8 fatta propria dalla metodologia kelseniana, cogliendo le debolezze e le ambiguità del metodo avalutativo in una riduzione dei disaccordi giuridici a conflitti meramente apparenti. 7

8

È la strategia di svuotamento dalla fondazione razionalistica habermasiana nella direzione della logica formale tracciata da Hare, operata da Robert Alexy. Per una lettura critica su questi nodi concettuali, mi permetto di rinviare al mio Le teorie del ragionamento giuridico. Divaricazioni, ambivalenze, dilemmi, in “Ars Interpretandi”, 1, 2012, pp. 103-121. J. Bentham, The Principles of Morals and Legislation, Prometheus Books, Buffalo, New York 1988, specie p. 324.

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Una distorsione quella giuspositivistica, che nel riconoscimento di una discrezionalità piena ai giudici, di quell’auctoritatis interpositio riconosciuta con Kelsen in ogni livello dello Stufenbau, finirebbe per sterilizzare la portata di qualsiasi controllo sul ragionamento giuridico e per rendere una sorta di non sense gran parte delle discussioni che impegnano dottrina e giurisprudenza. Da questo punto di vista, infatti, la negazione di qualsiasi conflitto normativo, operata dalla dottrina pura del diritto e determinata dalla considerazione del carattere autenticamente politico di ogni grado di produzione normativa, appare effettivamente un modo troppo ristretto di inquadrare la questione che rischia di paralizzare sul nascere qualsiasi tentativo di discriminare fra soluzioni corrette e decisioni arbitrarie. Finendo, inevitabilmente, per esportare dai confini del diritto l’irriducibilità di ogni scelta etico-politica. Un’esigenza del modello kelseniano di conoscenza normativa che non tollera nessuna contraddizione logica che annulli l’unità del sistema normativo, rendendo in questo modo impossibile il perseguimento di quell’ideale di purezza metodologica e che reinterpreta gli stessi vizi materiali del diritto, come vizi del procedimento9, dissolvendoli nell’autoreferenzialità della razionalità formale. Ciò non toglie, però, che il modello dworkiniano finisca per provare troppo. Per essere, a sua volta incapace di rendere conto dell’esistenza di spazi di effettiva scelta, di vera e propria produzione del diritto da parte dei giudici. La versione di Dworkin, fondata su una forma di cognitivismo etico, pur non sottovalutando la carica conflittuale dei diritti, la scioglie, infatti, in un modello etico-fondativo basato sui principi di equità, giustizia e procedural due process10, assunti a patrimonio della tradizione liberale espressa nella Costituzione. In questa prospettiva, la giustificazione morale dei principi e l’adozione di «un’unica teoria politico-morale», il diritto come integrità, comportano una totale materializzazione dello spazio giuridico, al prezzo, però, di sottovalutare la politicità della Costituzione stessa. È, infatti, nel modello dworkiniano, non la presenza dei principi, la cui conflittualità sembrerebbe lasciare campo libero a quelle nicchie discrezionali rivendicate dalla metodologia kelseniana, ma la loro natura sostantiva e la giustificazione morale che essi richiedono a chiudere lo spazio giuridico, il 9

H. Kelsen, La garanzia giurisdizionale della Costituzione (La giustizia costituzionale) (1928), tr. it. a cura di C. Geraci, in Id., La giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano 1981, specie p. 154. 10 R. Dworkin, L’impero del diritto (1986), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1989, specie pp. 197 e ss.

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che significa che l’esclusione della discrezionalità deriva non dal solo rifiuto del modello ristretto di diritto offerto dal positivismo giuridico ma piuttosto dalla positiva affermazione di un nesso necessario tra diritto e morale. È solo sulla base dell’assunto della necessaria implicazione tra diritto e morale che il riconoscimento della discrezionalità giudiziaria rende impossibile il rendere conto dell’esistenza di disaccordi autentici: un positivista, però, non avrebbe difficoltà a dire che ciò che avviene in uno spazio giuridico di discrezionalità è il più delle volte una questione morale che suscita autentici e serissimi dissensi. In definitiva, resta significativo un punto rispetto al secondo polo concettuale del costituzionalismo: un conto è, infatti, la difficoltà kelseniana di riconoscere l’autenticità del disaccordo giuridico, rinunciando a sfumarlo in chiave etico-politica, un altro è la pretesa dworkiniana di assorbirlo completamente in un modello etico-fondativo. Si tratta, in altre parole, con Dworkin, di ripensare il ruolo della jurisprudence alla luce delle intuizioni morali di una determinata comunità politica, accettare l’impossibile neutralità di tutte le teorie interpretative del diritto, dal momento che la definizione dei concetti politici e giuridici non può mai prescindere dalla formulazione di una tesi morale11, frantumare la disgiunzione analitica fra linguaggio descrittivo e linguaggio prescrittivo, disconoscere l’autonomia del metodo giuridico rispetto alla riflessione filosofico-politica. In questa chiave di lettura, nella quale la jurisprudence risulta ben lontana dal progetto kelseniano, il dilemma giuridico scompare tutto nell’orizzonte etico-giustificativo degli interpreti, assorbito com’è nell’immagine in un’etica condivisa. Un ethos condiviso, presupposto e idealmente assunto a filtro dei processi interpretativi, capace di infrangere le costruzioni teoriche della scienza giuridica tradizionale e di riaggregarle dentro un modello normativo filosofico-politico che garantisca la migliore giustificazione della prassi giuridica. Il rischio di una lettura aconflittuale e omogenea, veicolata da un ethos condiviso, è però dietro l’angolo. Un angolo dal quale non si scorge la tensione fra i poteri diffusi nel sociale, fra visioni del mondo antitetiche, fra diritti ed interessi economici, fra moral point of view fra loro irriducibili. E, allora, forse, occorrerebbe riabilitare per alcuni versi il metodo kelseniano. Quella tensione tutta interna al suo modello normativi stico che non 11 R. Dworkin, La giustizia in toga (2006), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 158 e ss.

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dimentica il peso dell’effettività dei diritti e lo spazio indiscutibile della politica. 4. Il tempo kelseniano fu il tempo dello smascheramento e del disincanto12. La rivoluzione copernicana compiuta da Kelsen rispetto alla scienza giuridica ottocentesca attraverso la dissoluzione dell’ideale della certezza del diritto nel riconoscimento del carattere costitutivo delle decisioni giuridiche, traspone il tradizionale sostanzialismo dei concetti giuridici nella razionalità artificialistica dello Stufenbau. La svolta kelseniana che ridefinisce in chiave ipotetico-conoscitiva il fondamento del diritto e con esso inevitabilmente lo stesso lessico giuridico, tenta non di trattenere ma di decifrare, disvelare, la politicità del diritto, contro il rischio implicito nel giusnaturalismo, di cristallizzarlo in un ordine armonico e trascendente. D’altro canto, l’autoreferenzialità dell’ordinamento giuridico che contiene al suo interno qualsiasi giudizio di valore etico-politico, ricomponendolo nella correttezza osservanza del principio di delegazione, radicalizza l’istanza formalistica di neutralizzazione dei conflitti, tutta interna al paradigma politico-giuridico moderno. Occorrerebbe, però, pur dinanzi all’indebolimento di quel progetto moderno, recuperare alcune chiavi di lettura del modello kelseniano: preservare quell’istanza conoscitiva, quello sguardo disincantato che non può trascurare il «politeismo» weberiano, la conflittualità crescente e indecidibile dei diritti, che rischia nei sentieri del neocostituzionalismo di essere occultata nell’immagine rassicurante di un ethos condiviso. Se la prospettiva dei due poli concettuali del neocostituzionalismo finisce, in un modo o in un altro, per sottovalutare il conflitto etico-politico che origina dal pluralismo morale, velando l’origine politica del diritto, è possibile afferrare le tensioni interne alle nostre società contemporanee proprio attraverso quella prospettiva conoscitiva che disvela la matrice dinamica dei dispositivi di potere. Contro il rischio di una sintesi dei diritti in qualche misura definitiva, la sfida quotidiana da ingaggiare con Kelsen è la rivendicazione della radice umana, culturale, pluralista dei diritti, che declina la pretesa di irrigidirli in un ordine armonico e trascendente, denudando, al contrario, le scelte sottese nei luoghi di produzione del giuridico, le dinamiche di potere inter-

12 In questo senso, A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 22.

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ne alle costruzioni normative, che rispecchiano spesso interessi divergenti, prospettive etico-politiche conflittuali, da regolare e condurre a forma. Ma stabilizzare attraverso la mediazione giuridica un contesto enigmatico, in cui contro la pretesa dworkiniana dell’irriducibilità fra diritti e politiche il linguaggio dei diritti risulta non sempre differenziabile dal linguaggio degli interessi, significa inevitabilmente riflettere le lotte fra piani di vita conflittuali, interessi economici, obiettivi politici e visioni etiche spesso in antitesi, in un gioco normativizzante, che risulta impensabile senza l’adesione a quella prospettiva conoscitiva capace con Kelsen di squarciare i veli13. Dinanzi all’impossibile neutralità di qualsiasi teoria interpretativa del diritto, reclamata da Dworkin, privilegiare l’istanza metodologica conoscitiva significa aprire alla pluralità complessa del diritto, svelarne le traiettorie di potere, mettere a nudo il tema della scelta e della responsabilità che avvolge la decisione giuridica, leggere in chiave tensionistica la stessa pretesa di normatività, una normatività non avvolta a doppio filo a una matrice etico-giustificativa utopisticamente perseguibile. Ma squarciare i veli può vuol dire anche rinunciare a quella forte pretesa di scientificità del metodo kelseniano. Riconoscere oggi, dinanzi alla frammentazione del giuridico e alla proliferazione dei centri di potere globale, la problematicità di una netta, recisa delimitazione del suo oggetto da parte della Jurisprudence. Un oggetto, quello costruito dalla Jurisprudence di difficile rappresentazione in un quadro frammentato come quello odierno, che restituisce tutto il peso della dissoluzione della dicotomia pubblico/privato e dell’indebolimento del progetto moderno di disciplinamento e controllo, traducendosi in una proliferazione incessante di forme disomogenee di produzione normativa, che rendono insidiosamente più complessa la qualificazione del diritto. E allora l’opzione anti-ideologica kelseniana rimane imprescindibile contro i rischi di una mistificazione del diritto che adombri la sua natura politica. Come è stato detto14, infatti, un’eccedenza di formalizzazione del portato assiologico e sostanziale del diritto, ad opera di una jurisprudence valutativamente compromessa, tende a sviluppare il rapporto diritto-politica in senso statico-orizzontale, attribuendo, in questo modo, al discorso giuridi13 «La conoscenza tornerà sempre a squarciare i veli con cui la volontà avvolge le cose». H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 60. 14 A. Catania, Formalizzazione del diritto e disordine della politica, in L. Baccelli (a cura di), More geometrico. La teoria assiomatizzata del diritto e la filosofia della democrazia di Luigi Ferrajoli, Giappichelli, Torino 2012, pp. 21-22.

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co un carattere di dover essere logicamente e atemporalmente cogente. E, al tempo stesso, l’appello ad una qualche forma di razionalità illuminista, sembra generare il rischio di un’opacizzazione dell’ attività interpretativa degli attori giuridici, che quotidianamente politicizzano la propria azionedecisione, fissando, di volta in volta e provvisoriamente, il proprio sostegno politico, celando, in questo modo, la matrice dinamica dell’argomentazione/giustificazione del dispositivo giuridico. In questa prospettiva, allora, l’idea di una jurisprudence impegnata a contenere scientificamente la collisione fra valori costituzionali15 formulando una serie di eccezioni implicite che determinino la prevalenza di uno dei due diritti sull’altro, appare una strategia di controllo, di razionalizzazione degli esiti della ponderazione costituzionale, di complessa traduzione pratica. Da un lato, infatti, la mappatura delle condizioni empiriche rilevanti nel caso concreto non risultando astrattamente prevedibili, impegnerebbe, in definitiva, l’interprete ad una continua revisione di quel modello normativo idealmente rappresentabile, dall’altro, la riconduzione dello schema del bilanciamento costituzionale ad una qualche forma di razionalità sussuntiva, determinerebbe un’eccedenza di formalizzazione giuridica poco incline al riconoscimento di nuove istanze morali, incapaci di leggere le tensioni fra il diritto e molteplici punti di vista etici presenti nella nostre frammentate società. Un esito dal quale si potrebbe fuggire soltanto attraverso la rinuncia ad un universal moral point of view trascendentalmente fondato.

15 Nel senso indicato da R. Alexy, Elementi fondamentali di una teoria della duplice natura del diritto, in “Ars Interpretandi”, XV, 2010, p. 35; Id., On Balancing and Subsumption. A structural comparison, in “Ratio Juris”, 16, 2003, pp. 439 e ss.

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Francesco Mancuso

IL ‘COSTITUZIONALISMO’ DI JPMORGAN

Il 28 maggio 2013 è apparso uno studio della banca d’affari JPMorgan intitolato The Euro area adjustment: about half way there1. In sedici pagine, tanto è lungo il paper, viene sviluppato un tentativo di interpretazione delle radici della attuale crisi economica e monetaria dell’Europa, in particolare nei paesi dell’area sud. La pubblicazione non sarebbe in alcun modo degna di menzione, né per l’analisi del contesto della crisi (che omette di individuare nella turbofinanza d’azzardo, nell’impazzimento del mercato dei derivati e nel conflitto di interessi epidemico il suo innesco. L’omissione è peraltro comprensibile, giacché la banca presso la quale lavorano i due autori, David Mackie e Malcolm Barr, non è stata esente da pesanti coinvolgimenti in spericolate operazioni finanziarie e scandali: vedi il recente caso c.d. London Whale, pesantemente sanzionato dalle autorità di controllo inglesi e statunitensi), né per i generici appelli alla necessità delle ‘riforme strutturali’, fiscali ed economiche, né per i riferimenti alle concause politiche dell’attuale stagnazione economica dei paesi dell’area Euro sud (la quale, peraltro, ma di ciò non si fa menzione nel testo, non è la sola zona ad aver sofferto l’onda lunga e devastante della destabilizzazione speculativa e della finanziarizzazione e immaterializzazione dell’impresa, che trasforma l’imprenditore in un rent seeker), i cui governi sarebbero impediti a conseguire successi pieni in non ben specificate ‘riforme fiscali ed economiche’ a causa di «costituzioni (Portogallo), regioni sviluppate e potenti (Spagna), emersione di partiti populisti (Italia e Grecia)». Su quest’ultimo punto, assai confuso ma dai chiarissimi obiettivi polemici e politici, ci si ritornerà a brevissimo. Per ora, si noti che il semplicismo con il quale sono indicati nello studio obiettivi generici e riempibili di qualsiasi contenuto, quali le cosiddette “necessarie riforme”, è, purtroppo, piuttosto consueto: difatti, anche (e soprattutto) dai livelli più alti delle 1

Documento consultabile (insieme ad alcune critiche pertinenti scritte dall’economista belga Paul Jorion) presso il seguente URL: http://www.pauljorion.com/blog_en/?p=1155.

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istituzioni governative nazionali ed europee si elevano periodicamente mantra poco dissimili, tanto vuoti di contenuto quanto privi di prospettiva politica, fosse pure di medio termine: come se l’unità europea si riducesse a mera questione contabile, cui sacrificare la stessa tenuta democratica delle istituzioni politiche nazionali. D’altronde, se è vero, come pare, che quella attuale è l’età del culmine della «teologia economica»2, non sorprende che la scienza economica non presenti altri quadri di verità che non siano quelli – stolidamente riproposti anche in circostanze assai differenziate – della frantumazione neoliberista delle istanze tipicamente moderne, sociali e progressiste consolidatesi in occidente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Istanze che, individuando nella diseguaglianza acuta un attentato non solo alla democrazia e alla libertà, ma anche un freno serrato alla crescita e allo sviluppo3, mediante la tassazione progressiva, i servizi sociali, i sussidi e le tutele miravano ad attenuare «gli eccessi di ricchezza e di povertà»4. La portata inconsapevolmente epifanica del documento di JPMorgan emerge proprio nell’individuazione nel compromesso sociale e democratico del secondo dopoguerra, nelle sue ridotte, il nemico da combattere senza quartiere, il limite alla crescita, un insostenibile ostacolo al pil e alla crescita senza regole (senza «lacci e lacciuoli», senza diritto). Ed è questa, la si ripeta ancora, l’esclusiva ragione per cui lo si cita qui. Lo studio, in tal senso, è un perfetto esempio di un certo tipo di analisi che – a un primo e benevolo sguardo – potrebbero apparire semplici letture superficiali; più al fondo, rivelano una diversa sostanza: esse cioè non sono affatto tentativi di comprensione, più o meno riusciti, bensì proclami politici, sforzo di creare 2 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Carocci, Roma 2013, p. 26. Scrive M.R. Ferrarese (in La crisi finanziaria tra stati e mercati e il “mondo 3” dell’economia globale, “Democrazia e diritto”, 3-4, 2012, p. 16): «Il mercato, capace com’è di accordare il massimo spazio a libertà e concorrenza, è diventato l’istituzione di riferimento, e non solo nella sfera economica. Esso si è affermato come un format generale e di successo, “un modello totale“, che può essere adottato anche nella sfera politica e istituzionale, con il risultato di trasformare l’istituzione in impresa, con conseguente deistituzionalizzazione del suo vocabolario e prevalenza dei mezzi sui fini. L’aspetto più insidioso della “narrazione” sta tuttavia in un risvolto collaterale e meno visibile: ossia nella convinzione che il mercato sia non solo un meccanismo formale di risoluzione della complessità, ma che sia dotato altresì di una propria intrinseca validità e persino di una “verità”, e che ciascuno possa contribuire a costruire un pezzo di quella “verità”». 3 J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, tr. it. Einaudi, Torino 2013. 4 T. Judt, Guasto è il mondo, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2012, p. 11.

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un senso comune, agitazione di «cheerleaders ideologiche»5, contributi ad un movimento che non può non apparire come un regresso e una decivilizzazione senza rimedio: cosa significa l’affermazione ‘la Costituzione portoghese è un freno alle riforme’? Nel senso che essa prevede limiti al potere, come tutte le costituzioni degne di essere chiamate tali? O piuttosto perché la Carta prevede l’esistenza di una Corte costituzionale la quale, tra l’altro, ha abrogato, con sentenza tanto coraggiosa quanto perlopiù ignorata, le misure di austerity lacrime-e-sangue imposte dall’UE? Gli autori non specificano oltre. In questo senso (e ciò è oltremodo preoccupante), il loro paper è un esempio perfetto della vulgata dell’attuale credo economico finanziario, catafratto a molti segnali che dovrebbero orientare profonde correzioni di rotta, nonché indurre a qualche resipiscenza. Esso rivela con chiarezza quella che giustamente è stata definita la “rottura di un tabù” da Barbara Spinelli6. La Spinelli scrive: «una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti». Leggiamo quindi con attenzione il passo, che vale la pena di riportare per intero e non tradotto: «At the start of the crisis, it was generally assumed that the national legacy problems were economic in nature. But, as the crisis has evolved, it has become apparent that there are deep seated political problems in the periphery, which, in our view, need to change if EMU is going to function properly in the long run. The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that leftwing parties gained after the defeat of fascism. Political systems around the periphery typically display several of the following features: weak executives; weak central states relative to regions; constitutional protection of labor rights; consensus building systems which foster political clientalism; and the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo. The short comings of this political legacy have been revealed by the crisis»7.

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Ivi, p. 7. B. Spinelli, Il giudizio universale di JP Morgan, “la Repubblica”, 26/6/2013. D. Mackie-M. Barr, The Euro area adjustment: about half way there, cit., pp. 12-13.

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Il brano appena citato condensa una tale quantità di inesattezze e grossolanità che dovrebbe soltanto condannare lo scritto al sarcasmo più facile, se non al silenzio indifferente, appena si abbia un minimo di cognizione della storia europea del ‘900. Come se la Costituzione italiana, e ancor più quella spagnola, fossero state scritte con la preponderante influenza di forze politiche socialiste (laddove esse hanno anche visto l’apporto di tali forze, ma non esclusivo né decisivo). Per non parlare del Grundgesetz, che prevede (come del resto il costituzionalismo non solo continentale prevede, altrimenti costituzionalismo non è): limitazioni del potere dell’esecutivo, in alcuni casi federalismo e/o sussidiarietà, forti tutele del diritto di sciopero, orientamento sociale (che non equivale certamente a socialista, come invece ritengono gli autori del paper). Certo, è difficile pretendere consapevolezza storica, politica e giuridicocostituzionale da due analisti economici. E tuttavia il rovesciamento di senso per cui la crisi e le difficoltà politico-costituzionali, nazionali ed europee avrebbero provocato la crisi finanziaria, e non viceversa, non può – anche oggi, età di relativismo «sempliciotto»8 e corrivo – non suscitare scalpore, tanto più se è attuato e dichiarato in modo così netto. Riformuliamo brevemente la tesi centrale di Mackie e Barr. Gli headwinds contrari alla fuoriuscita dalla crisi sono chiari e hanno una natura eminentemente politico-costituzionale. Consisterebbero, secondo gli autori, non già nel fatto che le democrazie odierne stanno tramutandosi in meri organi di ratifica di decisioni prese in altro luogo, magari privo di legittimazione democratica (con l’effetto distorsivo e collaterale di indebolire fortemente le capacità limitatrici e regolatrici dei poteri proprie delle costituzioni, di cui è stata messa in luce, con scoramento, la progressiva «impotenza»)9, ma proprio ed esattamente nella permanente vigenza di un ordine politico, legittimo e giuridico, dove ci sia una tensione ineliminabile al rule of law, e in cui ci si ostina ad inseguire un’idea di diritto non del tutto separata da una tendenza alla legalità, alla giustizia e all’eguaglianza. Un’eguaglianza non cieca e livellante, bensì quell’eguaglianza di cui ha parlato (in un volume che dovrebbe figurare il primo posto tra i riferimenti attuali di una sinistra liberale oggi smarrita, se non ancora in preda alle malie della postmodernità) Pierre Rosanvallon10: eguaglianza di cittadini, non di meri consumatori; eguaglianza di reciprocità e interazione, in vista 8 9

M.P. Lynch, La verità e i suoi nemici, tr. it. Cortina, Milano 2007, p. 37. G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 32. 10 P. Rosanvallon, La Société des égaux, Seuil, Paris 2011.

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di una comunità di individui, non di un mero e instabile aggregato di caste e corporazioni; infine, ma non meno importante, eguaglianza intesa come pari opportunità giuridicamente tutelate (e sul ruolo del diritto si dirà più avanti, in conclusione). Ora, che lo stato di salute delle democrazie nazionali europee e della costruzione unitaria sia tutt’altro che perfetto, è noto. Ma non per le ragioni addotte dagli analisti di JPMorgan, novelli politologi e costituzionalisti. Si pensi all’Europa, all’idea di Europa che comincia a diffondersi presso larghi strati di popolazione del continente, stretta nel pendolo tra tecnocrazia ottusa e rozzo populismo reazionario e primitivistico. D’altronde, se si analizza la copiosissima letteratura prodotta più o meno 13 anni fa (anno 2000, Carta dei diritti fondamentali di Nizza; apertura ai paesi dell’est Europa), non si può fare a meno di considerare la distanza – non in termini di anni, ma di speranze e fiducia –, con il presente, il mutamento delle condizioni che rende gran parte di questa letteratura, anche quella più avveduta, inevitabilmente invecchiata e dissonante con la condizione attuale, di grande disillusione. La via particolare della costruzione europea faceva presagire una riformulazione – che non c’è stata – dell’intero lessico concettuale della moderna statualità: la teoria costituzionalistica più avveduta si sforzò infatti di pensare il nuovo status istituzionale dell’Europa in affrancamento dalle tradizionali ipoteche del modello statualistico continentale (sebbene non in termini radicalmente anti sovranistici): l’idea, tanto ardita quanto rivoluzionaria, di una sovranità temperata di un tipo di unità (politica) di ‘parti’ distinte, dove però il centro (l’Europa e i suoi complicati meccanismi) fosse «primazia senza essere però supremazia»11. Dove però ci fossero intrinseci limiti costituzionalistici anche in assenza di costituzione. Ma questa rinnovata e auspicata consociazione di popoli e Stati, plurale ma unitaria, nella quale non sarebbe stata l’unità a dare senso alle parti – come nel modello rappresentativo hobbesiano – ma le parti a comporre l’unità, per poter non solo funzionare ma anche avere ‘senso’ avrebbe necessitato della piena legittimazione democratica. E inoltre, riesce difficile, se non impossibile, pensare ad un costituzionalismo senza costituzione. Senza cioè quella che è stata definita una istituzione normativa e sociale che è fattore di legittimazione dell’intero ordinamento: in assenza di costituzione può aversi solo un «ordine politico legittimato e limitato da rapporti di 11 L’espressione è di M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari, 2007 p. 147. L’autore definisce una «minaccia» la reductio ad unum. Diventa però molto difficile distinguere quest’ultima da quella che lo stesso A. ritiene essere necessaria configurazione della forma politica, ovvero l’unità politica strutturata costituzionalmente.

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forza sociali, ma non giuridici, in ogni caso estranei alla ratio del diritto costituzionale moderno»12. La domanda è tuttavia se quella derivante dal mero fatto di potenze, di prevalenza di forze, legittimazione a-giuridica se non antigiuridica, sia capace di durare, cioè di essere continuativamente effettiva. Giova richiamare a tal proposito l’avvertenza di Alfonso Catania: «la Costituzione è il punto delicatissimo di intreccio tra politica e diritto e, per quanto possa valere in paesi a struttura liberaldemocratica la tesi proceduralista, dinamica, aperta alla pluralità dei valori, non va dimenticata l’esigenza, appunto schiettamente politica, di legittimazione e fondazione assiologica dell’ordinamento stesso»13. Tuttavia, è proprio questa saldatura tra democrazia e costituzionalismo che è, oggi, andata in crisi, su ambo i versanti, quello della democrazia e quello del costituzionalismo. Brevemente: la democrazia sconta una dissecazione delle sue radici sociali e dei gruppi intermedi che agivano da fattori di aggregazione e trasmissione delle istanze della società (crisi dei partiti, crisi della rappresentanza): come ha scritto con lucidità e finezza Biagio de Giovanni, in un’età di quell’individualismo biopolitico che già fu presagito da Tocqueville, soffrono «le potenze che hanno reso possibile la dialettica fra Stato di diritto e Stato sociale, ovvero ciò che ha costituito il grande terreno della mediazione democratica secondo-novecentesca». Così, prosegue de Giovanni, «ogni volta che la massa si presenta sul proscenio povera di mediazioni politico-istituzionali, la democrazia esalta la propria radicalità e mette in discussione le articolazioni possibili, e da qui sgorga la nuova razionalità populistica»14. Emerge cioè quel fantasma della sovranità giacobina che non può essere mai esorcizzato del tutto, ma solo contenuto e limitato costituzionalisticamente: solo tale mediazione può rendere il sim-bolo della volontà generale un fattore di unità e comunità e non di divisione e conflitto. Si spezza la relazione democrazia/società; si spezza contemporaneamente la relazione tra legge e diritto, con una mutazione del 12 G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, cit., p. 33. 13 A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 71. Sul pensiero di Catania vedi da ultimo F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le metamorfosi del diritto. Studi in memoria di Alfonso Catania, Mimesis, Milano-Udine 2013. Uno studio acuto e sensibile su quello che Sabino Cassese chiamerebbe “il mondo nuovo del diritto” è in A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012. 14 B. de Giovanni, Alle origini della democrazia di massa. I filosofi e i giuristi, Editoriale Scientifica, Napoli, 2013, p. 389. Vedi anche G. Preterossi, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 2011.

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sistema giuridico tale da renderlo una struttura di fissazione e protezione delle dissimmetrie (con conseguente perdita di legittimità generale)15: il market egalitarianism è stato un fattore potente non solo di concreta diseguaglianza, ma di alterazione della logica del diritto. Come scrive uno dei più lucidi interpreti del conflitto di interessi epidemico, Guido Rossi, l’aver posto il mercato nella posizione apicale tra le istituzioni, teorizzandone l’eguaglianza dei partecipanti, ha scardinato la stessa idea di eguaglianza degli uomini. Per Rossi nel mercato, che – come notava Tony Judt – «a lungo andare è il peggior nemico di se stesso»16, «l’eguaglianza non è dell’uomo, ma è solo quella di ogni moneta nel sistema. Chi perciò ha più monete ha un vantaggio competitivo rispetto agli altri, sicché il mercato opera esattamente in senso contrario a quel che si pretende e si auspica. Infatti, stimola e premia solo la diseguaglianza fra gli attori del sistema stesso»17. Il veleno introdotto nei gangli del sistema politico-giuridico dalla acritica centralità del mercato è il venir meno del senso del limite giuridico; è l’idea, oggi accettata senza indignazione, quasi come se fosse un evento naturale, che il diritto sia solo fissazione e protezione del potere del più forte, dal diritto penale al diritto finanziario e societario (si pensi solo all’aggiramento delle regole fiscali nazionali da parte delle multinazionali, digitali e informatiche perlopiù, ma non solo, che optano per regimi fiscali favorevoli à la carte, eludendo la tassazione nei paesi dove accumulano enormi profitti). Oggi c’è più riconoscimento delle dissimmetrie ineluttabili che il ‘riconoscersi’ in una vita comune, sociale (salvo reazioni regressive dove il comune è l’omogeneo chiuso alla pluralità)18. 15 Su questi temi mi permetto di rinviare al cap. III di F. Mancuso, Le ‘verità’ del diritto. Pluralismo dei valori e legittimità, Giappichelli, Torino 2013. 16 T. Judt, Guasto è il mondo, cit., p. 146. 17 G. Rossi, La rivoluzione finanziaria e il furto, in G. Rossi-P. Prodi, Non rubare, il Mulino, Bologna 2010, p. 116. Sulle tematiche del conflitto di interessi a lungo analizzate da Rossi e per un approfondimento del problema della relazione tra democrazia e diritto, vedi F. Mancuso, “Il diritto conta”: conflitti di interessi, crisi finanziaria, mutazioni del diritto e della democrazia, in L. Bazzicalupo, A. Tucci (a cura di), Il grande crollo. È possibile un governo della crisi economica?, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 35-47. Vedi anche V.E. Parsi, La fine dell’uguaglianza, Mondadori, Milano 2012. 18 Invece, è stato scritto opportunamente, «perché esista diritto costituzionale […] è necessario che siano reciprocamente de-limitate le pretese soggettive. Affinché la reciprocità divenisse reale, la pari dignità sociale di ognuno è riuscita a imporsi nella sfera del normativo, e con essa è divenuto irrinunciabile che le pretese soggettive fossero ugualmente esercitabili da ogni individuo. Questa delimitazione reciproca impone un’accezione della libertà di agire non illimitata, ma retta da saldi limiti che solo la Costituzione, quale atto normativo fondativo e fondamen-

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Questo movimento centrifugo agisce come un poderoso e preoccupante fattore di delegittimazione politica, e al tempo stesso come un perfetto terreno di coltura di ogni forma di autoritarismo/privatismo mascherato da riferimenti solo verbali e semplicistici alla democrazia che è il populismo. Che il grumo dei problemi, nazionali ed europei, sia oggi costituito dalla crisi della legittimità, lo rivela anche una ormai risalente (1994-95) discussione tra Habermas e Grimm. La tesi di Grimm era la seguente (simile in ciò ad una famosa sentenza del tribunale costituzionale federale tedesco sul trattato di Maastricht): la costituzione, elemento fondamentale della legittimità di un ordinamento, necessita di un popolo, o meglio, di un atto attribuibile ad un popolo; necessita di un soggetto (sebbene, contro Schmitt, non di un soggetto compattamente unitario e omogeneo: non di un mitico demos ma della civitas e della societas). Le democrazia insomma necessita di un tessuto connettivo di gruppi, partiti, strutture intermedie le quali, da un lato, sono in crisi negli stati nazionali europei, dall’altro non esistono proprio come sistema europeo19; né esiste un sistema europeo dei media e neppure una lingua comune. Per Grimm, una costituzione prodotta dai “signori” dei Trattati, dagli esecutivi nazionali, sarebbe una costituzione più debole e meno legittima. La risposta di Habermas mirava ad individuare nella legittimazione non un presupposto, ma un esito (non assicurato ma auspicabile e attendibile) del processo di costituzionalizzazione. Il deficit strutturale dell’Unione era così individuato da entrambi gli autori nella carente democraticità delle istituzioni europee, strutturale per Grimm, riformabile per Habermas. La crisi economico-finanziaria del 2008 ha mostrato quanto le preoccupazioni dei due autori fossero non astratte disquisizioni tra intellettuali ma problemi assai cogenti, resi ancora più forti dal fatto che non si può pensare, rispetto al processo europeo, a passi di gambero: questi sarebbero, in un quadro dove i problemi sono globali, nemmeno continentali, non solo catastrofici ma antistorici. tale, può porre. Il limite per eccellenza, quello dell’uguaglianza nella libertà che comporta un intervento normativo per rimuovere ostacoli a chi nei fatti è impedito di godere appieno delle libertà e porre limiti a chi di fatto non ne incontri». Così L. Ronchetti nell’eccellente Il Nomos infranto: globalizzazione e costituzioni, Jovene, Napoli 2007, p. 241. 19 Vedi i saggi tradotti in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther, Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996. La citazione di Grimm è a p. 358. Essenziale ai fini di un più corretto inquadramento dei problemi e meritevole di studio approfondito è il saggio, complesso, anche tormentato, di J. Habermas tradotto col titolo Questa Europa è in crisi, Laterza, Roma-Bari 2012.

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Mai come adesso c’è necessità di più unità europea. Ma di quale Europa? La sua norma costitutiva sino a oggi è stata la pressoché esclusiva riduzione delle politiche nazionali a esecutrici di obblighi di riduzione del deficit e contenimento del debito. Sulla base del modello di Monnet, l’Unione si è strutturata funzionalisticamente orientata al mercato, ritenuto precondizione di sviluppo, di benessere, di pace e democrazia; oggi però il mercato, non comunitario ma globale, privo di regole (o con regole aggirabili) attenta le condizioni materiali del patto costituzionale negli stati europei; e a queste sfide le risposte date sono state palesemente insufficienti, salvo gli interventi di un’istituzione (non direttamente legittimata democraticamente) come la Banca centrale europea. Ma, in assenza di un’armonizzazione delle politiche economiche e fiscali europee (ossia, un processo federalistico di formazione di un’entità sovrana e legittima), anche la risposta della BCE alla crisi dei debiti sovrani non è stata, né avrebbe potuto, essere risolutiva. Né, d’altra parte, si può pensare che il riferimento alla volontà costituente di un mitizzato demos europeo possa costituire l’avvio di un processo di unificazione federale: si pensi alle colossali semplificazioni (la direttiva Bolkenstein e le false paure – idraulici polacchi e altri personaggi più o meno minacciosi – da essa innescate) al tempo dei referendum europei, non a caso falliti, in Francia e Paesi Bassi, oppure alle attuali derive populistiche contro la moneta comune e l’Europa. Da ciò emerge come la soluzione non stia nei complicati meccanismi barocchi di un’Unione tecnocratica e non legittimata democraticamente; né, tanto meno, nel primitivismo politico non adeguatamente contrastato, alle volte solleticato dalle classi politiche, a volte timide, a volte così ferocemente attaccate al potere da preferire il soldino della demagogia alle risorse del progetto politico di lunga distanza (e a proposito di demagogia, gli esempi possono essere tanti: si pensi all’Ungheria di Orban dove, nel silenzio pressoché generale, è in atto un sovversivismo politico e costituzionale fortemente in contrasto con i principi della Carta di Nizza). Gli studi di Giandomenico Majone – reperibili con facilità in rete – sono fondamentali nell’analizzare la crisi di effettività delle istituzioni europee provocata dalla loro pallida legittimità democratica. Un costituzionalista sensibile come Roberto Bin ha spesso messo in guardia sul fatto che rispondere alla richiesta di democratizzazione con più governance è perseguire nell’errore, essendo la governance il modello di soft law conformato sugli obiettivi mercatisti globali pienamente assorbiti dall’UE. E tuttavia la risposta non sta semplicemente e genericamente – come sarebbe auspicabile – in più democrazia, ma anche in più solidarietà, in più doveri, in un accrescimento

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dell’educazione e del pensiero critico (quest’ultimo ostacolato dalla pervicace destrutturazione di scuola e università pubbliche, veri e propri organi costituzionali). Un grande italiano ed europeo come Giuseppe Mazzini articolava la logica dei diritti attraverso la necessità dei doveri, anche di conoscenza. La democrazia non è irriflessività e istinti: essa ha bisogno di tempi lunghi e di pubblica opinione consapevole20. Oggi si creano convenzioni sulla costituzione, ma dovrebbero più utilmente nascere convenzioni per la democrazia: non vi è più democrazia se questa è solleticamento demagogico degli istinti; se la democrazia è il mero e irriflesso like, oppure l’unlike, se è il non-pensiero contratto e non articolato dei social network. La democrazia e il costituzionalismo non hanno, insieme, alcuna chance se sono assenti i loro essenziali presupposti di senso: cultura, formazione civile, solidarietà sociale. Tra la pseudodemocrazia dell’ignoranza rozza e populistica, acclamatoria, e la tecnocrazia che tutela interessi privati, entrambe miranti a riprodurre rinnovati, ma non più civili, stati di natura, c’è una strada intermedia, necessaria e ancora tutta da percorrere: quella della conoscenza e della centralità della persona (non semplicemente individuo o consumatore), della partecipazione consapevole anche al di là dell’esercizio del diritto di voto, della tutela e del ‘rispetto’ «delle lotte di ognuno per la crescita personale, che tratti ogni persona come fine, capace di agire e degna di rispetto a pieno titolo»21. Esattamente il contrario di ciò che suggerisce lo studio di JPMorgan, che adesso, molto volentieri, riconsegniamo al meritato oblio.

20 Ma si tenga anche conto di uno dei tanti paradossi della democrazia, così come individuato da C. Lefort (La questione della democrazia, tr. it. in Id., Saggi sul politico. XIX e XX secolo, il Ponte, Bologna 2007, p. 29): «È proprio quando si ritiene che si manifesti la sovranità popolare e il popolo si attualizzi esprimendo la sua volontà, che le solidarietà sociali si dissolvono, il cittadino si trova isolato da tutte le reti entro cui si svolge la vita sociale per essere convertito in unità di conto. Il numero si sostituisce alla sostanza». Sulla precomprensione e i presupposti della democrazia vedi l’importante saggio di M. La Torre, Futuro e metamorfosi della democrazia, in F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le metamorfosi del diritto, cit., pp. 251-266. 21 M.C. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, tr. it. il Mulino, Bologna 2001, p. 89.

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Antonio Martone

MODERNITÀ VUOTA. MEDIAZIONI E IMMEDIATEZZE Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni. W. Benjamin, Capitalismo come religione Non avrai altro jeans all’infuori di me. Campagna pubblicitaria Jesus Jeans; Oliviero Toscani e Emanuele Pirella, 1973

1. Gli uguali La struttura antropologico-politica dell’uomo moderno non conosce altro limite alla propria libertà/potenza che non sia quello costituito dall’inevitabile opposizione delle potenze altrui. Schopenhauer è il filosofo che meglio di tutti ha affermato che il desiderio dell’uomo – di tutti gli uomini – è illimitato per essenza e limitato soltanto dai contenuti. Lo ha fatto in maniera dirompente, elevando la potenza/volontà a principio metafisico universale. Per il grande pensatore tedesco – come è noto – l’essenza stessa della vita è una volontà anonima e indomabile che impone all’uomo di vivere in quanto potenza rappresentazionale e acquisitiva. Non c’è limite alla volontà – non si può in alcun modo soddisfare il proprio desiderio di potenza una volta per tutte, così come non si può fermare il corso dell’universo. Il destino della soddisfazione del desiderio è la delusione, mentre la volontà spinge verso nuovi traguardi: anch’essi del resto insoddisfacenti quanto ineludibili. Proprio avendo in Schopenhauer il grande precursore1, Nietzsche potrà sviluppare – mutatis mutandis – le sue ben note tesi sulla volontà di potenza. 1

«[…] in Schopenhauer la mancanza è ontologica e costitutiva dei soggetti e si manifesta come «fame» di eudaimonia, come desiderio di felicità, necessario e insieme impossibile da soddisfare. Questo desiderio struttura i corpi, le soggettività,

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Lasciando tuttavia da parte l’orizzonte metafisico nel quale s’inquadra la filosofia dell’autore de Il mondo come volontà e rappresentazione, nell’ottica del mio discorso è importante sottolineare che per quest’ultimo, ormai, la volontà – proprio in quanto principio metafisico universale – è appannaggio di tutti gli uomini, al di là di qualsiasi gerarchia possibile. La prospettiva di Schopenhauer, ovviamente, si radica all’interno di un contesto storico che va ben al di là del riferimento immediato al kantismo romantico. La questione della volontà/potenza infatti viene da lontano ed è implicata direttamente con la nascente democrazia moderna che, al tempo di Schopenhauer, aveva già almeno un paio di secoli alle spalle. La trascendenza religiosa che, in ambito premoderno, creava un limite alla potenza dell’uomo incanalandola/strutturandola verso una natura che presupponeva una gerarchia naturale, dall’undicesimo al sedicesimo secolo, era stata infatti lentamente ma inesorabilmente erosa. L’uguaglianza della volontà umana, la traduzione di essa nel diritto naturale di tutti ad appropriarsi delle cose del mondo può dunque essere visualizzata come una marcia inarrestabile che trova nel diciassettesimo secolo le sue formulazioni più compiute. È in uno spazio temporale di lungo periodo, pertanto, quello in cui si assiste ad una progressiva disgregazione della trascendenza religiosa – ciò che rendeva sacralizzata la realtà politica e gerarchicamente diversi, per rango e per funzione, tutti i suoi membri. L’esito di questa prospettiva storica (la trasformazione dell’uomo gerarchico in uomo uguale, la naturalizzazione cioè dell’uguaglianza), giunge alla sua prima cristallizzazione paradigmatica nei testi di Hobbes. Il pensatore inglese è il primo filosofo che, in maniera esplicita, definisca la libertà/potenza in quanto limitata soltanto dall’opposizione di altre libertà/potenze. Nella presente riflessione, pertanto, il presupposto primo da cui partire è che la modernità trasferisce le funzioni che nei secoli precedenti erano state affidate alla sacralità teologica sulle istituzioni politiche. La mediazione non viene più offerta da un anello “sacro” che costituiva, nello stesso tempo, il punto più alto della gerarchia terrestre e il punto più basso della divinità – una sorta di “incarnazione” la cui complessità è impossibile articolare in questa sede. L’investitura grazia Dei del sovrano consentiva infatti di tendere una linea di indissolubile continuità fra il mondo politico la cui natura è esattamente e solamente Volontà di adempiere il desiderio di felicità. Schopenhauer opera la radicalizzazione del lascito dualistico di Kant: fenomeno e noumeno non si sintetizzano», L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, prefazione di R. Esposito, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 79.

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e la divinità. Quando questo modello, come detto, viene progressivamente consumato dai processi di immanentizzazione del potere – che trovano alleati preziosi nelle scoperte geografiche e nelle nuove scienze sperimentali che daranno vita ad una tecnica destinata ad imporsi su scala planetaria – alla figura tutta teologica dell’incarnazione viene sostituita quella integralmente laica del contratto. Ma la teologia non smette di essere influente. Solo che viene trasferita in ambito socio-politico. Hobbes non pensa contro la teologia, ma nel suo rovescio. In questo senso, non deve stupire se gli uguali – questa nuova figura della storia politica dell’Occidente – possa nascere e nasca di fatto in un ambiente monarchico. La stessa sovranità hobbesiana, infatti, notoriamente assoluta e preferibilmente monarchica, non ricevendo più la sua legittimazione da Dio ma da un contratto stipulato dagli uomini, crea in fondo la piattaforma teorica da cui si svilupperà progressivamente l’idea e la pratica della democrazia moderna2. 2. Il vuoto e la salvezza Se il potere politico pre-moderno si fondava su una struttura di tipo ontoteologico, e dunque tendeva una linea di sostanziale continuità aggregativa fra i membri su cui si esercitava, la sovranità nazionale che nasce sul piano teorico nei testi di Hobbes e sul piano politico con la pace di Münster e di Osnabrück (1648), invece, svolgendosi sul piano meramente orizzontale dell’uguaglianza individualistica, non può fare a meno di strutturarsi su un vero e proprio vuoto costitutivo. L’uguaglianza moderna, e con essa la democrazia che le si connette, infatti, non soltanto appare fondata sul nulla ma, ancora più essenzialmente, è proprio da quel nulla che trae la linfa vitale per il proprio sviluppo. In altre parole, mentre nei secoli caratterizzati dal potere consacrato da Dio, il limite fra gli uomini appariva sostanzialmente predeterminato, con la modernità non vi è alcun limite possibile alla potenza/libertà degli uomini. Tra i grandi analisti della modernità, è stato Tocqueville il pensatore che ha meglio e prima di tutti posto in rilievo gli aspetti più dirompenti – i pericoli e le possibilità che la marcia verso l’uguaglianza democratica comportava. Il punto centrale da cui si irradia l’essenza antropologica e 2

Il punto è chiaro in M. Gauchet: «Non bisogna ingannarsi: è all’interno del potere monarchico che ha potuto prendere corpo la figura del potere democratico. Questo sotto l’effetto di quella rivoluzione religiosa della modernità che ha trasmutato insensibilmente dall’interno l’antica figura del potere sacro», M. Gauchet, Dalla teocrazia alla democrazia, in “Micromega”, 3, 1992, p. 121.

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la visione del mondo dell’uomo moderno – come appunto Tocqueville ci insegnava già nei primi decenni del diciannovesimo secolo – consiste nel fatto che quest’ultima trasferisce le possibilità di salvezza dell’uomo dalla trascendenza all’immanenza. Una spinta al possesso materialistico del mondo, senza precedenti storici e senza limite, sembra possedere l’animo dell’homo democraticus. La morte stessa, da sempre e per sempre limite costitutivo e incancellabile del mondo degli uomini, viene sganciata dal piano escatologico della salvezza ultraterrena e affidata a quello interamente umano della parcellizzazione specialistica e dunque del controllo tecnico. Con ottime ragioni, lo stesso Baumann parla di «decostruzione moderna della mortalità»3. Insomma, l’uomo moderno non sopporta il vuoto che esso stesso ha costruito e si sforza incessantemente di ricoprirlo, di aggirarlo, e ancora più spesso di rimuoverlo. Ma si tratta di una guerra persa in anticipo: l’onnipotenza sperata, la detronizzazione di Dio, la lotta incessante “umana troppo umana” nei confronti del nichilismo non tarda a mostrare la sua inesorabile illusorietà4. L’uguaglianza medesima, nel corso dei secoli della modernità, pur essendo di quest’ultima il presupposto di partenza, in maniera morfologicamente diversa, ma similmente negli esiti, si è capovolta talvolta nel suo contrario diventando disuguaglianza estrema5. Tutto ciò è accaduto perché quella stessa uguaglianza – ripeto – essendo fondata su un vuoto costitutivo, risultava esposta a possibilità importanti certo – si pensi all’emancipazione di masse enormi di uomini e donne – ma anche a pericoli estremi che hanno preso il volto terribile del terrore rivoluzionario, dei totalitarismi genocidi o, per ultimo, della produzione di un potere biopolitico capace di penetrare nella vita di ciascuno, modellandola – oggi – in maniera funzionale al “discorso del capitalista”. A questo tema, di scottante attualità, dedicherò l’ultima parte della mia riflessione. Ora però mi preme riflettere su alcuni aspetti legati al problema strutturalmente moderno dell’infondatezza del potere.

3 4

5

Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, Bologna 2012. «Essendo un tentativo di esaurire l’inesauribile, tentativo condannato fin dall’inizio e quindi costretto a reprimere la consapevolezza della propria impossibilità solo per poter andare avanti, questa decostruzione può sospendere l’ansia solo temporaneamente affogandola per qualche tempo nel frastuono che accompagna le folate di assalti a bersagli effimeri e sfuggenti», Ivi, p. 201. Su questo tema, mi permetto di rinviare al mio Le radici della disuguaglianza, Mimesis, Milano 2011.

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3. Mediazioni Il vuoto su cui è fondata la potenza degli uguali – ciò che, in altre parole ammette l’illimitatezza della libertà umana, ha richiesto imperiosamente delle mediazioni. Già in Hobbes, del resto, l’uguaglianza democratica era stata evocata per essere immediatamente cancellata dalla presenza assoluta della sovranità. L’uguaglianza naturale, una volta emersa, sarebbe inevitabilmente degenerata nel conflitto, in assenza di un’autorità (lo Stato) capace di tenere tutti in soggezione6. La prima mediazione pertanto può essere senz’altro identificata da quella statuale, espressa dai codici del diritto. Ai fini del mio discorso, può essere indifferente la distinzione, pur importante, fra i vari modelli (assolutistico, liberale o democratico) in cui tale sovranità si è strutturata. Più interessante mi sembra invece riflettere su un altro tipo di mediazione. Essa è in larga misura estrinseca alla sfera del diritto anche se naturalmente è da quello che ha ricevuto la sua regolamentazione e la sua legittimazione. Mi riferisco a una mediazione nota a tutte le civiltà ma che nella modernità occidentale si è affermata in maniera particolarissima e – vedremo – assoluta. La commutazione e la valutazione astratta del valore si sono imposte come una mediazione eccellente, trovando nel denaro l’adeguato criterio di misura. Attraverso il denaro e grazie alla sua funzione oggettivante, l’individuo moderno ha potuto sganciarsi definitivamente dall’economia di gruppo, fondata sulla rapina, sul dono o sullo scambio – ciò che presupponeva evidentemente un importante elemento personale –, per liberarsi all’interno di una libertà impersonale e astratta. È chiaro che l’economia monetaria ha reso possibile, oltre all’allargamento senza limiti della sfera delle relazioni fra gli uomini – ormai ben al di là del gruppo o del ceto di appartenenza ben circoscritto e predeterminato –, l’affrancamento dalle dipendenze personali. La modernità, infatti, ha seguito in maniera imperiosa la tendenza a sganciare gli individui da qualsiasi rapporto diretto fra gli uomini. In ambito moderno, il denaro si è frapposto in qualsiasi relazione interumana, costituendo inoltre il minimo comun denominare 6

L’uguaglianza naturale è la radice del conflitto pre-politico anche nell’analisi di Petrucciani: «[...] si può forse affermare che la radice più profonda del conflitto, al di là di tutte le deduzioni presentate da Hobbes, sta proprio nella fondamentale eguaglianza tra gli uomini che della teoria hobbesiana costituisce il saldo e moderno punto di partenza: poiché gli uomini sono uguali, nessuno accetterà “naturalmente” di sottomettersi a un altro», S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, p. 82.

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della prassi (non solo) economica. Esso ha istituito, inoltre, quello spazio interstiziale, quel vuoto costitutivo capace di attribuire senso all’intero orizzonte sociale, quella pausa capace di conferire il suo proprio ritmo all’intero sistema. Il denaro ottiene un duplice e soltanto apparentemente opposto obiettivo. L’economia monetaria avvicina uomini che non avrebbero mai avuto la possibilità di entrare all’interno di una relazione comune, ma nello stesso tempo li allontana poiché elargisce a questi ultimi una libertà individuale, “toccata” soltanto nella misura in cui e negli ambiti nei quali agisce il denaro. Tutti gli altri ambienti di vita rimangono integralmente liberi. In un’opera che risale al 1900, all’alba dunque del secolo della tecnica e delle mondializzazioni, un grande autore come Simmel aveva già posto la questione decisiva. Il denaro: «Infatti, crea rapporti fra gli uomini, ma lascia gli uomini al di fuori di essi, è l’equivalente esatto delle prestazioni oggettive; ma è un equivalente molto inadeguato per ciò che vi è di individuale e di personale in esse. L’angustia dei rapporti di dipendenza di carattere oggettivo, che esso provoca, è lo sfondo della coscienza delle differenze, dal quale si elevano nettamente la personalità e la libertà come elementi differenziati dei rapporti di dipendenza»7. L’economia monetaria, pertanto, può essere ben definito un elemento di tale importanza da caratterizzare una modernità già impostata, nella propria struttura più intima, nel senso dell’oggettività e della razionalizzazione individualistica. In un mondo di eguali, insieme al diritto, che cosa meglio del denaro può assicurare l’autonomia dei soggetti e la loro immunizzazione dal contatto personale con l’altro8? Non che l’altro ovviamente sia escluso. Tutt’altro. Mai come nei secoli della modernità l’uomo ha allargato sempre più la cerchia dei propri rapporti, fino a farne la sede, fitta e inquieta, della propria prassi di vita. A condizione però 7

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G. Simmel, Filosofia del denaro (1900), tr. it. a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Unione Tipografica Editrice Torinese, Torino 1984, p. 436. Sul pensiero di Simmel, si veda almeno L. Bertelli, Georg Simmel, in M. Protti, S. Franzese (a cura di), Percorsi Sociologici. Per una storia della sociologia contemporanea, Mondadori Università, Milano 2010; A. Bianco, Sovra-ordinazione e subordinazione nella Soziologie di Georg Simmel, Aracne, Roma 2009; D. D’Alessandro, Tra Simmel e Bauman. Le ambivalenti metamorfosi del moderno, Morlacchi, Perugia 2011; M.C. Federici, M. Picchio (a cura di), Pensare Georg Simmel: eredità e prospettive, Morlacchi Editore, Perugia 2012. Uso l’espressione “immunizzazione” nel senso in cui tale termine è stato introdotto nel lessico filosofico-politico da R. Esposito; si veda R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.

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che tutto questo avvenga nei termini e nei modi dell’indifferenza e della sostituibilità. L’economia monetaria, nella sua astrattezza e volatilità, si è mostrata capace cioè di “transennare” le relazioni tra gli individui, limitandole alle sole transazioni operazionali. Su questo punto, ancora Simmel: «Mentre l’uomo delle precedenti epoche storiche doveva pagare la scarsità dei rapporti di dipendenza con l’angustia dei rapporti personali, spesso con la sua personale insostituibilità, noi veniamo risarciti delle nostre dipendenze dall’indifferenza nei confronti delle persone implicate e dalla libertà di sostituzione delle stesse»9. Il connotato dell’indifferenza diviene pertanto tutt’uno con quello della cancellazione della prossimità fra gli uomini, all’interno del più completo appiattimento. I valori qualitativi divengono sempre meno importanti a vantaggio di quelli quantitativi mentre i meccanismi mimetici del conformismo – necessariamente – dilagano. Ma non si tratta di un conformismo che si propaghi attraverso il tradizionale contagio fisico di massa. Si tratta piuttosto di forme mimetiche che riducono e quasi azzerano la distanza individuo-massa, producendo flussi e “ondate” che si “eventuano” in maniera convulsa e, in larga misura, imprevedibile. Tali flussi però sono statisticamente rilevabili e dunque manipolabili: i cosiddetti sondaggi di opinione politica o di marketing, o anche il controllo delle varie forme di comunicazione sociale espongono inesorabilmente le scelte personali dei singoli alle attenzioni indiscrete dei potenti. Il denaro nel suo immenso potere di astrazione, pertanto, si presta ad assumere tutte le forme e a servire tutti i padroni. Tutto può essere tradotto e misurato dal denaro. Di contro, nulla si mostra in grado di conferire ad esso la sua propria misura. Se si volesse operare una significativa perifrasi in termini moderni di un detto antico della saggezza greca, potrei affermare che il denaro è la misura di tutte le cose. La razionalità, l’individualismo, l’uguaglianza astratta, il soggettivismo su cui è fondata la modernità – che pure si voleva laicizzata e demitizzata – hanno trovato ancora una volta un Assoluto. Non può che essere Assoluto infatti ciò che non può trovare al di fuori di sé una misura di confronto in grado di relativizzarlo.

9 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 429.

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4. Immediatezze Nessuna espressione come quella di “denaro liquido” potrebbe meglio rappresentare i connotati della modernità e più ancora quelli della cosiddetta seconda modernità. Dal punto di vista socio-esistenziale – che si porta appresso ovviamente una lunga serie di risvolti politico-istituzionali –, alla liquidità non può che legarsi un dinamismo ansioso votato, più o meno consapevolmente, all’effimero. Non può che essere decisamente inquieto quel soggetto (se lo si può ancora definire tale) che “sente” la propria “identità” non ancorabile a nulla di solido e di duraturo – ancorabile – appunto – soltanto al nulla: «Credo che questa inquietudine segreta, questo impulso irresoluto sotto la soglia della coscienza, che incalza l’uomo moderno spingendolo dal socialismo a Nietzsche, da Böcklin all’Espressionismo, da Hegel a Schopenhauer, e poi di nuovo in senso inverso, non derivi soltanto dalla fretta esteriore e dal grado di eccitazione della vita moderna, ma che viceversa questa sia l’espressione, la manifestazione, lo sfogo di quello stato più intimo»10. Il denaro, e il potere che esso consente, è un farmaco che promette di non far sentire l’angoscia del nulla. Pur essendo nient’altro che vuoto di sostanza – in fondo un nulla anch’esso – il denaro promette la salvezza. Ma anche questa è un’illusione. L’ennesima illusione. In questo modo, infatti, la malattia si approfondisce e peggiora. Lo si vede senza alcun dubbio nelle telecamere poste fuori dalle case, dalla segregazione dei quartieri delle città, dal proliferare incessante dell’uso di narcotici o di psicofarmaci, dal cosiddetto digital stress, dalla violenza erratica non più traducibile in conflitto politico democratico, dalla condizione di isolamento che contraddistingue i membri delle società e spesso i componenti di una stessa famiglia. Insomma, si tratta di una situazione storico-esistenziale nella quale il senso di colpa e di debito, reale e/o simbolico, dell’uomo verso se stesso e verso l’altro sembra non poter essere più né rimosso né tantomeno cancellato11. Un altro potente indicatore inoltre va nella medesima direzione. 10 Ivi, p. 681. 11 Forse è in questo senso che andrebbe interpretato un passaggio importante di un fulminante saggio di Benjamin. Tra l’enigmatico e il chiaroveggente, infatti, a proposito del capitalismo, dopo averne isolato le caratteristiche dell’assenza di dogmatica teologica e della continuità ininterrotta del culto, Benjamin lo descrive in questo modo: «L’essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all’ultima e completa colpevolizzazione/ indebitamento di Dio, fino al raggiungimento di una condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera. Qui sta ciò che nel capitalismo è senza

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È impossibile non vedere infatti l’influsso, sempre più decisivo, che va assumendo il debito pubblico – ribattezzato “debito sovrano” – sulle politiche nazionali e internazionali. In fondo, di che cosa si tratta se non di un debito generalizzato, di una sorta di peccato originale dal quale risulta affetto chiunque nasca12? Un topos famoso dell’Etica a Nicomaco di Aristotele segnala il fatto che il denaro – la cui importanza per il filosofo greco non è affatto trascurabile – sia un mezzo di cui la vita non può fare a meno. Nello stesso luogo tuttavia, Aristotele afferma che esso non è altro che – appunto – un mezzo. Nell’ottica greca, rappresentata in questo luogo da uno dei suoi maestri più grandi, l’accumulazione della ricchezza intesa come fine sarebbe stata una perversione intollerabile che rasenta la follia. Eppure è esattamente ciò che il denaro ha costituito nel corso della modernità fino alla sua onnipervasiva affermazione – sotto forma di un sistema economico anonimo e generalizzato – tipica della nostra attualità. L’economia basata sul capitale ha costruito un muro fra l’uomo e se stesso. Insieme alla tecnica – e come componente inseparabile di essa – ha precedenti: che la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua completa rovina», W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il melangolo, Genova 2013, p. 43. 12 Roberto Esposito, già in un testo del 2007, tendeva a legare il concetto di colpa al dispositivo della “persona”. In altre parole, piuttosto che garantire diritti, il concetto di persona contribuisce per Esposito a determinare discriminazioni nette fra ciò che nell’uomo (o fra gli uomini) va difeso e ciò che va portato alla morte o lasciato morire. È per questo che, nella sua prospettiva, occorrerebbe rilanciare un pensiero dell’“impersonale”. Cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007. In un testo recente, sulla base dei medesimi presupposti, il pensatore italiano allarga il campo di analisi all’istituzione giuridica del nexum tipico del diritto romano. Quanto al debito sovrano, tuttavia, egli afferma una evidente differenza formale non solo fra la storia antica e la nostra attualità ma perfino fra la prima e la seconda modernità. Ci sarebbe stata, in altre parole, una alterazione interna subita dallo stesso dispositivo della persona. Scrive appunto Esposito: «Anziché, come nella civiltà moderna, essere la parte forte a includere nei propri confini quella debole, oggi è la parte debole che risucchia nel proprio vuoto di risorse quella forte. Che tutti gli Stati, divisi al proprio interno da una netta ineguaglianza di risorse, risultino adesso indebitati nei confronti di un’entità inafferrabile come la finanza globale fa sì che forse per la prima volta il mondo sperimenti una condizione di comune sofferenza […] Gli uomini sono uniti da un indebitamento che li separa anche da se stessi, sospendendoli ad un modello di sviluppo che produce perdita», Id., Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, pp. 226-227.

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reso possibili importantissime acquisizioni. Certo! Tutto ciò è innegabile. Ma ha anche, inevitabilmente, anestetizzato quanto di più personale e unico vi è nel singolo sull’altare della traducibilità universale in un valore unico e nello stesso tempo non deteriorabile, e dunque cumulabile. Ancora Simmel: «Il denaro si trova, da un lato, insieme a tutti i mezzi e a tutti gli strumenti della civiltà che si antepongono agli scopi ultimi e interiori e finiscono per soffocarli e rimuoverli. In esso, sia per la passione con cui è desiderato, sia per la sua vuotezza e per il suo carattere meramente transitorio, si accentuano nel modo più vistoso l’insensatezza e le conseguenze di quello spostamento teleologico; nella misura in cui è soltanto il grado più alto di tutti quei fenomeni, esercita la funzione di distanziarci dai nostri scopi in modo più puro e completo delle altre istanze tecniche intermedie, ma, in linea di principio, in modo non diverso; anche qui, non si mostra isolato, ma soltanto come l’espressione più completa di tendenze sotterranee che si presentano in un’ampia gamma di fenomeni»13. In questo orizzonte, uno spazio particolarmente importante è gestito dalla pubblicità14. Non è possibile interrogarsi sul discorso del capitale contemporaneo senza porre adeguata attenzione al tentativo operato dai pubblicitari di inoculare nella mente dei cittadini/consumatori immagini, sovrabbondanti e onnipresenti, impossibili da visualizzare con serenità critica, di prodotti che promettono di riempire il vuoto di senso all’interno del quale si agita l’individuo contemporaneo. Il mito delle sirene, presente nel XII canto dell’Odissea, è esemplare – forse nessun altro mito è tanto appropriato nell’esprimere il rapporto perverso che la pubblicità intrattiene oggi con la nostra mente. Gli uomini contemporanei, infatti, soggettivati all’interno di un desiderio eteronomo (e dunque oggettivati), espongono la loro identità al bisogno incessante di identificazione con un desiderio che “le sirene” collocano oltre l’Io cosciente. Il loro canto è irresistibile, poiché coincide con il proprio desiderio più intimo – esso mette in scena un’immagine di sé senza futuro15. Che si tratti di messaggi politici o commerciali, il

13 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 681-682. 14 Uno sguardo lucido e ironico sulla realtà del pubblicitario, si può attingere da un romanzo contemporaneo: F. Beigbeder, Lire 26.900, Feltrinelli, Milano 2011. 15 Un noto politologo italiano segnala l’emergenza di un nuovo potere: «Impalpabile, invisibile, astratto e impersonale, ma tuttavia feroce». Vorrei applicare ciò che egli dice di questo potere alla forza della pubblicità: «È il canto dell’intimità come totalità, in cui l’Io è talmente “intimo” con il sé che è stato, da non riuscire più a distinguersene, in un’identità che azzera il tempo (l’“andar oltre”, l’oltrepassare il sé che si fu)»; M. Revelli, I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 38.

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risultato non cambia16. IN questo senso, a rigore, non si dovrebbe neppure parlare di desiderio. Il desiderio infatti è segnato strutturalmente da un vincolo verso l’altro. Quand’esso, invece, è vissuto in maniera ultraindividualistica cessa di essere tale per diventare delirio di onnipotenza e patologia17. La vita dell’Occidente contemporaneo mi sembra oscillare pertanto fra due dimensioni opposte: una velocizzazione senza precedenti dell’esperienza pubblica che si contrappone ad una dimensione privatissima di tipo estatico – direi perfino ipnotico. L’esperienza cioè non è più strutturata in modo da creare elementi relazionali mediati dal linguaggio o dalla condivisione razionale. Essa è viceversa costruita quotidianamente (senza che la potenza d’intervento del singolo possa agire più di tanto) sulla base di un inaridimento progressivo dello spazio pubblico, vissuto sempre più in maniera convulsa e meramente strumentale, a cui si contrappone un’altra dimensione nella quale il senso reale è l’assoluta mancanza del senso. Tale mancanza si concretizza nell’esigenza di emozioni estreme – il desiderio insegue la propria soddisfazione piena, la propria impossibile saturazione integrale. Entrano all’interno di tale orizzonte esperienze che hanno a che fare con la perdita della coscienza espressa a tutti i livelli. Del resto, soltanto nello “sballo” – che ha molto a che fare con ciò che la psicoanalisi definisce pulsione di morte – è possibile soddisfare desideri iperindividualistici che non presuppongono il (rischio di) contatto con l’altro. Non c’è più limite e dunque non c’è più alcuna autentica struttura desiderante. Ed ecco allora l’uso di narcotici e di alcool, le “terapie” auto-prescritte basate sullo shopping, la pratica di esperienza sessuali virtualizzate che hanno rinunciato alla dimensione dell’erotismo relazionale, per inoltrarsi all’interno di una sfera attraverso la quale le immagini dei corpi fanno tutt’uno con lo zapping che ne amplifica orgiasticamente la forza. Ma vi è un‘altra ragione per la quale il denaro assume una importanza oggi fondamentale. Tale ragione riguarda il rapporto diretto con la politica. 16

Ancora Revelli: «Si materializzano […] nel nostro spazio domestico […] bucando tutte le nostre barriere attraverso i mille orifizi dei canali multimediali, dall’antiquato schermo televisivo al più recente web, senza più neppur dover utilizzare come grimaldello la fascinazione sirenica, l’eco della nostra intimità, perché attingono a un’immagine standard dell’intimità serializzata e stereotipata, a un repertorio di sentimenti e di emozioni tecnicamente testati, ripresentandosi, per questa via, come la riscrittura automatica della «vita» che viene a occupare lo spazio deserto di una domesticità svuotata», ivi, p. 69. 17 È la tesi di un noto psicanalista contemporaneo, molto sensibile alle tematiche politiche, si veda M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

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Dopo l’89, quando la realtà storica aveva mostrato la crisi irreversibile, nello stesso tempo, sia della filosofia della storia sia dell’idea di progresso, una nuova forma di temporalizzazione – già annunciata nell’essenza stessa della modernità – si era imposta risolutivamente nel cuore dell’Occidente e, al suo seguito, aveva impresso il proprio marchio sulla nascente mondializzazione. L’hic et nunc dell’esperienza immediata, era divenuto appannaggio della cultura di massa a partire già dal ’6818, e ha trovato la sua piena espressione negli anni ’80, soprattutto con la fine del mondo bipolare. Nel periodo che stiamo vivendo, infine, esso si è realizzato integralmente19. È in questi decenni che il qui ed ora ha preso definitivamente il posto della memoria e dell’attesa – ciò che in fondo aveva ancora contraddistinto certi ambiti del moderno20. Autori che vanno da Freud a Weber, per non parlare di Marx, infatti avevano comunque inteso la temporalità in quanto storica e “infuturante”. La seconda modernità, a mio parere, fa la sua irruzione, invece, quando queste forme di inibizione delle pulsioni legate al “disagio della civiltà”, o all’ascesi “intramondana”, o più in generale alle filosofie della storia, vengono aggredite e polverizzate da una smania di presentificazione che – ecco il punto decisivo – trova piuttosto nel denaro che nelle 18 Del resto, un grande scrittore “visionario” come Pasolini, nei primi anni ’70 del secolo scorso, aveva ben compreso ciò che andava diventando l’Occidente e in modo particolare l’Italia. Aveva compreso, altresì che la società dei consumi, con l’ausilio determinante della televisione, stava realizzando ciò che non era riuscito al fascismo: lo sradicamento dell’antichità del mondo contadino e la marcia verso un conformismo che cancella le classi e i linguaggi, rappresentando così una forma integrale di “totalitarismo”. Per Pasolini, lo sviluppo neo-borghese impone una vera e propria mutazione socio-antropologica del carattere degli italiani, della loro prassi esistenziale e delle loro aspirazioni culturali. Si vedano le riflessioni presenti in Scritti corsari, prefazione di A. Berardinelli, Garzanti, Milano 2001. In modo particolare pp. 12-16; 17-25; 51-55; 175-178. 19 «Fine del lavoro e della famiglia, descolarizzazione, distruzione dell’università, deregolamentazione della sessualità, contro-cultura, discredito delle competenze mediche e crollo delle strutture sanitarie, ostilità nei confronti delle istituzioni giudiziarie considerate come repressive, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione massmediatica, oblio della storia e presentismo spontaneistico, tutto ciò è ormai diventato realtà. Con Berlusconi, si chiude un periodo storico iniziato negli anni sessanta, nel quale le basi logiche del pensare e dell’agire sono state sostituite da un sentire collettivo manipolato e delirante, lunatico e stravagante», M. Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis, Milano 2011, p. 11. 20 Peraltro alla presentificazione temporale che oblitera il passato e il futuro, si unisce la cancellazione degli spazi vissuti in quanto luoghi della memoria e dell’attesa. Si vedano M. Augé, Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, elèuthera, Milano 1993; Id., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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istituzioni politiche il proprio terreno privilegiato. Non è infatti un caso che, proprio nei decenni di cui sto parlando, abbiano cominciato ad imporsi le nuove idee ispirate al neoliberalismo economico – estremizzando un poco la tesi, si può affermare che, con l’imporsi del neoliberismo, si registra una sorta di dimissione della politica da se stessa. Ma a parte gli aspetti stricto sensu economici, e strettamente legati ad essi, è interessante soffermarsi sugli influssi che l’hic et nunc ha determinato da un punto di vista morale. E questo non soltanto perché ha prodotto masse di consumatori che hanno tagliato radici secolari con il proprio passato, guardando al futuro piuttosto con preoccupazione che con speranza, ma anche perché ha fatto perdere alla classe dirigente quel connotato imprescindibile che già Max Weber indicava come fondamentale del politico. Mi riferisco alla lungimiranza21. Quando si cerca il consenso e lo si chiede ad un elettorato preoccupato soltanto del presente, essere lungimiranti rappresenta un suicidio politico. La gran parte dei politici ha preso alla lettera questo assioma! La radice del populismo mondializzato credo sia esattamente qui. In mancanza di un classe politica – o di una élite come dir si voglia – la già fragile identità dell’individuo-massa è sprofondata sempre di più nel vuoto politico inseguendo chimere (o sirene) agitate da chi aveva interesse ad agitarle. L’apertura dei mercati, inoltre, le deregulation e le delocalizzazioni, hanno richiesto e perfino imposto l’erosione di parti cospicue delle sovranità statali, rendendo sempre più difficile per la politica continuare ad esercitare il suo ruolo di mediazione22. Come è ormai evidente a tutti, infatti, la stessa politica presenta ormai un ruolo chiaramente subalterno rispetto alla potenza del denaro. Di conseguenza – come negarlo? – il denaro costituisce oggi la legge del mondo – una legge che non ha niente a che fare con i connotati tradizionali che hanno sempre contraddistinto la legge. Il denaro, in quanto legge, infatti non vieta nulla; al contrario, esso include, permette a tutti l’ingresso nella dimensione del bene, della civiltà e più in generale della vita. Esso esclude soltanto chi non lo eleva a propria divinità. Soltanto costoro subiscono infatti l’interdetto. Con qualche concessione al lessico teologico, potrei dire che il denaro è un Dio geloso: chi non riconosce la 21 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, nota introduttiva di Delio Cantimori, Einaudi, Torino 1948. Sulla questione della lungimiranza p. 103. 22 Sulle mutazioni attraversate dal diritto statualistico nel tempo della globalizzazione, cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008; A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012.

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sua legge rimane in uno stato minoritario di mera eteronomia – lontano dall’emancipazione e dalla soggettivazione (di massa) che il denaro invece permette. Assistiamo qui ad un bizzarro paradosso. Il denaro, mentre esalta al massimo grado le logiche del capitalismo attraverso spinte incessanti al godimento immediato in tutte le forme, costituisce nello stesso tempo una legge superegoica identica a quella tradizionale del padre edipico che si vorrebbe definitivamente superata nella fase ipermoderna23. Esso si comporta come un padre dispotico che inibisce qualsiasi altro desiderio che non sia quello a lui funzionale, proprio mentre promette lo scatenamento pulsionale senza limiti. Il denaro rappresenta la legge dell’assenza di ogni legge. Si comprende allora come l’economia monetaria – considerata all’interno dei contesti di marketing generalizzato – non miri affatto all’emancipazione degli uomini (a farli diventare cioè autonomi nella loro uguaglianza e uguali nella loro autonomia), ma punti viceversa a imprigionarli in uno stato di costante minorità. L’allentamento dei freni regolamentari della politica ha prodotto infatti l’ennesima inversione dei presupposti teorici della modernità. Mentre quest’ultima, come detto, era partita dal riconoscimento dell’uguaglianza, in seguito ai processi di finanziarizzazione dell’economia – che solo con grande fatica, e spesso senza molte idee, trova qualche freno nella politica –, e con l’aiuto di una ideologia neoliberale sempre attiva, si è giunti all’ennesimo capovolgimento del presupposto egualitario. Nella nostra contemporaneità, infatti, niente appare più evidente dell’allargamento progressivo della forbice disegualitaria24. Ciò peraltro non riguarda il semplice rapporto fra cittadini all’interno di uno Stato. Il denaro, del resto – sempre più spesso sottratto agli investimenti produttivi e consegnato alla pura speculazione –, consente una accumulazione praticamente 23 In questo la mia lettura si distanzia da quella, pur interessante, presente in M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011. Dello stesso autore si veda anche Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, a cura di Christian Raimo, minimum fax, Roma 2013. 24 «La “deregolazione” delle banche e del movimento dei capitali permette ai ricchi di muoversi liberamente, di cercare e trovare i migliori terreni di sfruttamento e quelli più capaci di generare profitti e così diventare più ricchi, mentre la “de regolazione” del mercato del lavoro rende i poveri incapaci di star dietro agli exploit, e li mette ancor meno in grado di arrestare o almeno rallentare le peregrinazioni dei possessori di capitale (rinominati “investitori” nel gergo della Borsa), e quindi alla fine non può che renderli più poveri», Z. Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” (Falso!), Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 42-43.

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illimitata25. La forbice della disuguaglianza cioè non si allarga soltanto fra uomini singoli, ma attiene perfino al rapporto fra Stati ricchi e Stati poveri – e questo all’interno della stessa comunità europea che si vorrebbe invece unita per ragioni storiche, culturali ed economiche26. Da tutto ciò, si può concludere allora che soltanto uno dei presupposti del moderno è conservato. Quello più profondo. Esso anzi è portato al suo massimo punto di tensione pratica: non c’è alcun limite alla libertà/potenza e il destino del politico sembra quello di costruire incessantemente delle élites antidemocratiche27. Una volta affievolito il limite costituito dalla politica, sembra che il denaro abbia davanti a sé un campo totalmente libero. Libero di creare un inedito – ma non per questo più rassicurante – sistema di esclusione e di esposizione di masse enormi di donne e di uomini al loro destino28. Lo dico perifrasando i termini biopolitici di Foucault: il biopotere basato sull’economia monetaria non dà la morte o lascia vivere, ma fa vivere o lascia morire. Diversamente dal passato, tuttavia, tutto ciò può essere compiuto oggi in maniera apparentemente innocente e con buona coscienza. In fondo, ciò che il capitale contemporaneo afferma di voler costruire non è certamente la miseria o la frustrazione, quanto piuttosto la felicità29. 25 Le difficoltà della democrazia contemporanea (e dunque del suo soggiacente presupposto egualitario) sono elencate in maniera molto chiara da un autore che pure si mostra fiducioso che le capacità di apertura tipiche della democrazia possano essere sfruttate per traghettare verso un nuovo positivo orizzonte: «Fra le nuove condizioni inospitali, che spingono verso una de-democratizzazione delle società democratiche, possiamo sicuramente includere la finanziarizzazione dell’economia capitalistica, che la rende ancora meno politicamente indirizzabile, l’accelerazione del tempo su scala societaria, la spinta all’aggregazione sovranazionale che viene dalla globalizzazione, la trasformazione della sfera pubblica per indebolimento dei media tradizionali, l’utilizzo su ampia scala dei sondaggi di opinione e il loro riflesso sulla legittimità degli esecutivi», A. Ferrara, Democrazia e apertura, Bruno Mondadori, Milano 2011, p. 13. 26 Il punto è notato felicemente da N. Urbinati, La mutazione antiegualitaria. Intervista sullo stato della democrazia, a cura di A. Zampaglione, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 72. 27 Si veda J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007. Su Rancière e più in generale sui temi della “democrazia radicale”, cfr. il recente L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Carocci, Roma 2013, in part. pp. 205-245. 28 Cfr. Z. Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Edizioni Erickson, Torino 2007. 29 «Non è un caso certo se la stessa complessità della psiche umana (e dunque delle sue fantasmatiche motivazioni) diventa oggetto di indagini positiviste […] nella relazione cognitivista che, tramite il conscio, ritiene di poter condizionare l’in-

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5. Per concludere Che fare? Quale può essere la parola della filosofia all’interno di un orizzonte quale quello delineato? Che cosa si può dire in un tempo dominato da linguaggi banalizzanti, incisi in profondità dal discorso del capitalista – linguaggi piatti, privi di chiaroscuri, senza pause e sforniti di quel silenzio indispensabile per dare senso al mondo? Sono domande importanti e difficili. Impossibile in ogni caso, cercare di impostare in questa sede una qualche risposta. Cerco allora di fornire soltanto qualche spunto. Intanto, andrebbe decostruito quel tratto di astrattezza della soggettività moderna che vede l’uomo come un ente sconnesso, irrelato rispetto alla propria contestualizzazione storico-esistenziale. Il presupposto dell’uguaglianza – orgoglio della modernità e principio in virtù del quale è stata possibile l’emancipazione di masse enormi di uomini – va conservato a condizione che ci si renda disponibili a concepirlo postulando il rapporto fra uguaglianza, verità singolare dell’uomo e spazio di appartenenza. Insomma, c’è bisogno di un nuovo radicamento – la veridicità dovrebbe essere attinta da una soggettività concreta capace di valorizzare i limiti ontologici consustanziali all’essere dell’uomo. La filosofia è ricerca della verità e non può esservi per la filosofia verità più importante dell’affermazione del limite che caratterizza l’umano. La mortalità, la malattia, il bisogno – è questa l’autenticità dell’uomo par excellence. Senza questo tipo di verità, e la ricerca degli strumenti pratici per poterla valorizzare, non potrà esservi alcuna giustizia. A ciò si lega strettamente anche un altro tema. Se – come ho cercato di dire – il denaro e la sua legge rappresentano l’Assoluto del nostro tempo, è urgente la necessità di qualcosa che si mostri capace di relativizzarlo. E che cosa può farlo se non un desiderio ritrovato di senso? Soltanto un desiderio non saturabile dalla proliferazione della merce o dalla logica dello sballo può permettersi, proprio per la sua irriducibilità a bene di consumo, di segnare paradossalmente un nuovo limite alla potenza incontestata dell’economia monetaria e speculativa. Ma dove può trovarsi – appunto – un desiderio simile se non nel singolo e nella coscienza della propria costitutiva finitezza? E che cosa fare di tale coscienza se non motivo di ripensamento del tempo e dello spazio dell’abitare in-comune? È chiaro che tutto questo conscio e dunque programmare concretamente ‘emozioni positive’, ‘pensieri positivi’, atteggiamenti e comportamenti ‘attivi’ e costruttivi in relazione al proprio essere ‘impresa’, in relazione a se stessi e ai propri piani di vita», L. Bazzicalupo, Editoriale. Programmare la felicità, in “Filosofia politica”, 1, 2013, pp. 5-6.

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richiederebbe una sorta di “utopia dell’educazione”. È altrettanto ovvio infatti che la disuguaglianza di cui ho parlato non implica affatto soltanto quella economica, ma coinvolge soprattutto la diseguaglianza di formazione culturale. Il nostro è un periodo storico che, dopo aver distrutto le culture tradizionali, non ha affatto concesso a tutti la facoltà di accedere alle lingue “colte”. Mai come ora si assiste ad un crescente distacco fra gli innumerevoli specialismi e le sottoculture di massa abbandonate ai messaggi onnipervasivi del capitale30. Ciò che emerge pertanto è il bisogno di “attivare” una nuova immaginazione che – si auspica – possa imporsi in quanto politica. Occorrerebbe un’immaginazione, cioè, non intesa come uno stanco residuo del ’68: “l’immaginazione al potere”. Al contrario, l’immaginazione di cui si sente la necessità oggi – io credo – fa tutt’uno con la capacità di scorgere (e di proporre) emozioni, speranze, momenti di condivisione che sappiano ben oltrepassare il dispotismo del denaro globalizzato. In altre parole, diventa fondamentale una riassunzione di responsabilità da parte delle élites. Non è semplice, ma bisogna sperarci31. In questa dimensione si potrebbe verificare che cosa sia in realtà – fuori dalla retorica politica – una uguaglianza effettiva fra gli uomini. L’uguaglianza davanti ai limiti della potenza e la coscienza della condivisione di un mondo comune sono le uniche certezze in un tempo estremamente ambiguo quale il nostro – a me sembra che costituiscano altresì il solo appiglio per cercare di forzare la logica onnipervasiva e cripto-totalitaria32 che occupa l’intero scenario contemporaneo.

30 Su questo punto, si vedano M. Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, elèuthera, Milano 2009, in particolare, pp. 105-110; Id., Perché viviamo, Biblioteca Meltemi, Roma 2004. 31 Quanto alle élites «Infatti, i loro membri sono sì orientati al successo, ma anche alla lungimiranza, alla disciplina al differimento dell’utile, al merito, al decoro, all’efficienza; non per amore della virtù, ma per legittimare le proprie pretese», C. Galli, I riluttanti, Le élites italiane di fronte alla responsabilità, Laterza, RomaBari 2012, pp. 76-77. 32 M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

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PLURALISMO E FATTUALITÀ. IL CONTRIBUTO DI PAOLO GROSSI

Secondo Paolo Grossi1, il diritto «è più applicazione che norma»2. Esso si fonda sull’esperienza, che proviene dal basso, si produce spontaneamente, è inevitabilmente relativa, nell’accezione letterale per cui si sostanzia in una pluralità di relazioni che, nella lunga durata, si dispongono spontaneamente ad ordine. In tal senso il diritto possiede una sua costante vocazione a storicizzarsi, ossia a ‘vivere’3 manifestandosi adeguatamente al tempo e allo spazio. Fattualità, relatività, storicità e, sopra tutto, organizzazione. Dal medioevo alla contemporaneità, l’insigne giurista fiorentino ha ripercorso una storia del diritto che solo in un suo periodo circoscritto ha visto i valori della socialità soppiantati dal dogmatismo statalistico; la dimensione empirica farsi teorica, sulla scorta di principi filosofici inneggianti alla eguaglianza formale; ripudianti un diritto complesso, multiforme, in nome della legge generale ed astratta. Il diritto – scrive Grossi in un libretto diventato ormai un classico – «non è necessariamente collegato ad una entità […] politicamente autorevole, non ha per referente necessario quel formidabile apparato di potere che è lo Stato moderno»4. Affermazione spiazzante, eppure il diritto non 1 ����������������������������������������������������������������������������������� Non c’è chi non conosca lo storico, il giurista, il giudice costituzionale, il Maestro. Superfluo, dunque, aggiungere note biografiche, per le quali rimando a P. Grossi, Uno storico alla ricerca di sé stesso, Il Mulino, Bologna 2008, nonché a L. Capograssi Colognesi, Paolo Grossi: una storia accademica e un percorso scientifico, in “Rivista di diritto civile”, 3, 2012, pp. 389–407. 2 P. Grossi, Oltre le mitologia giuridiche della modernità, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, per la collana Maestri del diritto, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 130. 3 In forza della consuetudine, «un fatto che si manifesta nel momento in cui una collettività lo vive». E prima: «è così che nasce il diritto nei primordi della storia umana: non da un testo scritto, frutto di rivelazione divina o di sapienza di dotti, bensì da un fatto che si ripete», P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, RomaBari 2003, rispett. pp. 103 e 100. 4 Ivi, p. 15.

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esaurisce la sua valenza ordinante in un testo di legge; «il referente necessario del diritto è soltanto la società»5, di cui esso è espressione. In altri termini, mentre la legge dello Stato rispecchia una dimensione giuridica soggettiva, qual è quella del potere costituito, il diritto, nel suo senso più autentico, è dimensione oggettiva: «nell’atto di ordinare opera un benefico spostamento dal soggetto produttore (o preteso tale) all’oggetto bisognoso di organizzazione»6. Nella funzione ordinamentale, il diritto trova la sua «dimensione esistenziale»; e pertiene la coesistenza delle componenti la comunità, sia pure, come detto, a discapito di una concezione rigorosa del principio di eguaglianza formale: l’organizzazione, infatti «può anche concretarsi in sovra ordinazioni e subordinazioni, ma la posizione di superiore e di inferiore viene ricompresa ed assorbita in un coordinamento collettivo che de-personalizza e, di conseguenza, attenua parecchio l’eventuale scansione in gradini»7. La validità del diritto consiste nella sua osservanza, che non va intesa quale obbedienza pedissequa al comando autoritario, segno del positivismo giuridico8. Osservanza implica accettazione, convincimento della intrinseca bontà della regola che è effettiva perché fa capo ad un valore riconosciuto in seno alla collettività9. Lo spazio della società è da Grossi definito «immateriale», in ragione dell’attitudine dei consociati ad organizzarsi a prescindere da un contesto geografico, dal momento che «suo oggetto necessario è il vario e complesso assestarsi del tessuto di relazioni fra gli uomini»10. All’opposto, il diritto di un apparato di potere può fare a meno del riconoscimento sociale e tradursi in un semplicissimo – perché livellatore

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Ibidem. Ivi, p. 16. Ivi, p. 17. Che Grossi definisce così: «il diritto posto (ius positum) e imposto da un’autorità formalmente legittimata a esercitare su un certo territorio poteri sovrani; un diritto positivo che – ci si perdoni il bisticcio – è stato inteso positivisticamente nel mondo moderno come l’unico possibile, esaurendo in sé ogni forma di giuridicità e venendosi a identificare con quello statuale. Un diritto preteso per buono purché venisse dall’autorità sovrana, senza un controllo sui contenuti ma con l’unica verifica sul soggetto di provenienza e sui procedimenti formali con cui si consolidava la norma» (ivi, pp. 81-82). 9 Cfr. P. Grossi, Giustizia come legge o legge come giustizia?, in Id., Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2007, pp. 15 e ss. 10 P. Grossi, Prima lezione di diritto, cit., p. 74.

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delle complessità – atto sovrano «ferreamente potestativo»11. Ciò vale per lo Stato (assoluto12, prima; di diritto13, poi) dell’Europa continentale, ossia la forma istituzionale dei Paesi di civil law. Esso tende ad anteporre la sua dimensione unilaterale e imperativa neutralizzando la dimensione plurale ordinamentale comunitaria. Il quadro, come accennato, si semplifica: su un territorio definito, di cui il potere politico ha bisogno ove proiettare la propria sovranità, creatore del diritto è il solo legislatore, espressione della sovrana volontà generale, che ad una visione realistica risulta un artificio teorico; la legge che piove dall’alto determina un rigido bipolarismo: da una parte lo Stato, supremo regolatore – dall’altra il cittadino indistinto, mero destinatario, nei limiti di un sistema governamentale compatto. Quale ruolo assumeva in passato l’operatore del diritto e quale egli viene assumendo nel presente? Nel Medioevo senza Stato14 i rapporti erano regolati in base agli usi e il riconoscimento della loro giuridicità era affida11 Ivi, p. 25. 12 Per Grossi, lo Stato assoluto è «un ente semplice […] e compatto. […] Il nuovo reggitore vorrà produrre (e produrrà) diritto cogliendo in questo l’essenza del proprio potere sovrano. Il Principe moderno sarà legislatore, e in misura crescente. E il diritto, inteso per quel che veramente può essere, il cemento dell’isola politica, rientrerà nell’oggetto immediato del suo controllo. E contribuirà a meglio definire l’insularità del nuovo edificio statuale», P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato: fra Medioevo ed Età moderna, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., p. 106. 13 Lo Stato di diritto, nella definizione di Grossi, è «uno Stato sovrano, cioè munito di ogni latitudine potestativa che la sovranità conferisce; è uno Stato parlamentare, che assume il Parlamento come organo centrale e caratterizzante, giacché ciò gli consente un ammantamento democratico, anche se la rappresentanza popolare – rappresentanza di pochi, di pochissimi – si risolve in un’arrogante finzione; è uno Stato in cui il Parlamento, in grazia di questa finzione, si propone come onnisciente e onnipotente, e perciò insindacabile; è uno Stato che, col supporto del principio della divisione dei poteri, stabilisce il monopolio parlamentare della produzione del diritto e si esprime giuridicamente con la voce del Parlamento, cioè con la legge, fonte la più democratica possibile perché pretesa manifestazione della volontà generale; è, quindi, uno Stato legalitario, perché in esso ha un assoluto primato la legge concepita come norma impersonale, generale, astratta, uguale per tutti e di fronte alla quale tutti sono formalmente uguali, e perché spetta alla legge di orientare e disciplinare e anche ridurre la complessità della società; è uno Stato che protegge i diritti individuali di libertà con la propria auto-limitazione nell’esercizio della sovranità», P. Grossi, Prima lezione di diritto, cit., pp. 93-94. 14 Grossi parla di «incompiutezza del potere politico» in questi termini: «nel mondo postdioclezianeo resta soltanto uno Stato crisalide […]. Quel vuoto non sarà che parzialmente colmato per tutto l’arco della vita storica del medioevo […]. Non avremo mai la presenza d’un organismo totalitario, naturalmente teso a controllare, regolare, assorbire ogni rapporto intersoggettivo che si verifichi entro il suo

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to al notaio, al magister, al giudice15. Il Trecento è il secolo della svolta: il paesaggio giuridico assume sempre nuove articolazioni; il diritto continua a rispettare la consuetudine, ma tende a forme più precise, in ragione delle esigenze sociali, ma soprattutto politiche di autonomizzazione del potere regio in antitesi a quello universalistico, imperiale e canonico16. Fino al momento che il giusnaturalismo, sulle spalle dell’umanesimo, teorizza i principi funzionali alle razionalizzazioni dell’illuminismo giuridico – eguaglianza dei diritti dell’individuo (per definizione isolato), divisione dei poteri e primato del legislativo – sui quali fortificare l’impianto degli Stati assoluti. Dopo la Rivoluzione francese, la sublimazione del fenomeno consiste nella codificazione napoleonica, produttiva di testi unici immobilizzanti il diritto per lo Stato monoclasse, e determinante una volta e per sempre (almeno nella sua aspirazione) la primazia della volontà generale incarnata nel legislatore. Il ruolo del giurista – e in particolare del giudice – cambia radicalmente: da interprete, qual era stato in tutto il corso dell’antico regime, a mero esegeta, applicatore della legge sovrana17. Tale impianto assolutistico permane in tutto il corso dell’Ottocento, sebbene negli ultimi decenni del secolo affiorino esigenze di integrazione dei codici. Ciò che, ad ogni modo, rimane inviolato, è il principio per cui il diritto si ‘risolve’ nel testo legislativo18. Questa lunga premessa è stata necessaria per affrontare il tema del Novecento giuridico italiano come «postmoderno» tempo di crisi della legolatria statalistica, ma anche di recupero di un diritto plurale e fattuale dopo il periodo dell’assolutismo giuridico19. Non che l’età della codificazione sia definitivamente trascorsa. Tutt’altro: il codice, come Grossi avverte, «può

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definito oggetto territoriale», P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 43-44. Cfr. ivi, pp. 60 e ss. Cfr. P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato: fra Medioevo ed Età moderna, cit., pp. 99 e ss. P. Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 83 e ss. Cfr. P. Grossi, Il diritto tra potere e ordinamento, in Id., Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Giuffrè, Milano 2006, pp. 168 e ss. «Postmoderno come tempo in cui entrano in crisi i valori portanti dell’edificio politico-giuridico accuratamente progettato, definito, costruito dalla modernità», P. Grossi, La legalità costituzionale nella storia della legalità moderna e postmoderna, in P. Caretti, M.C. Grisolia (a cura di), Lo Stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale. Scritti in onore di Enzo Cheli, Il Mulino, Bologna 2010, p. 40.

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legittimamente assurgere a simbolo della mentalità giuridica moderna»20. E tutta la prima fase della codificazione è «all’insegna di un soggettivismo esasperato voluto e pervicacemente attuato dalla borghesia vittoriosa». Il binomio Stato/cittadino esclude ogni tutela dei non abbienti. Uguaglianza di diritto, ma non di fatto: «il diritto è voluto in alto, pensato in alto, confezionato in alto, e dall’alto si proietta sulla massa inerte della società»21. Il principio del nuovo corso è segnato dalla rivoluzione industriale. Le masse escono dal cono d’ombra ove le aveva confinate la politica dei notabili e fanno sentire le loro pretese collettive. Si tratta di un primo recupero della complessità che non può evitare di essere giuridico, oltre che economico e sociale. La società si riorganizza attraverso le corporazioni. A tal proposito, Grossi non manca mai di fare riferimento ad un giurista a lui molto caro, Santi Romano, che, prima nel 1909, con la famosa prolusione pisana22, poi nel 1918, con un testo diventato fondamentale per la teoria del diritto pubblico23, rilascia coraggiose affermazioni. L’esigenza, che era stata anche del suo Maestro24, di costruire un impianto formalistico solidissimo a difesa dello Stato di diritto, cambia quando Romano non può fare a meno di giudicare lo Stato come «volontà di potere […] con la pesante conseguenza di ridurre l’universo giuridico a una somma di espressioni volitive, di leggi». Il che conduce direttamente alla visione storicistica, che mette il giurista a confronto con le emergenti realtà istituzionali, oltre le barriere del formalismo giuridico. Lo Stato moderno, attraverso la compattazione del soggetto pubblico, era stato la risposta al particolarismo medievale; quel tempo era trascorso: oramai la eclissi dello Stato liberale è provocata dalla fioritura di molteplici movimenti, associazioni e corporazioni che hanno in comune il raggrupparsi attorno a particolari interessi. Sottoponendo a critica le assolutizzazioni di «Stato, legge, Codice» in quanto «prodotti storici», la denuncia di Romano era già stata per il «falso domma della onnipotenza parlamentare»25, una «delega all’eserci20 P. Grossi, Novecento giuridico, un secolo pos-moderno, in Id., Introduzione al Novecento giuridico, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 5. 21 Ivi, pp. 8-9. 22 S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi (1909), ora in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di storia costituzionale, Giuffrè, Milano 1969. 23 S. Romano, L’ordinamento giuridico (1918), II ed. Sansoni, Firenze 1951. 24 Mi riferisco a Vittorio Emanuele Orlando ed all’indirizzo giusformalistico. La bibliografia sul tema è vastissima. Mi permetto di citare il mio Il diritto al cospetto della politica. Miceli, Rossi, Siotto Pintòr e la crisi della rappresentanza liberale, ESI, Napoli 2010, cap. I. 25 S. Romano, Saggio di una teoria sulle leggi di approvazione (1898), ora in Id., Scritti minori, a cura di G. Zanobini, vol. I, Giuffrè, Milano 1950, p. 88.

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zio del potere politico con la vanificazione di un carattere autenticamente rappresentativo»26. Di conseguenza, lo Stato risulta incapace di garantire un ordine socio-economico che non sia «repressivamente imposto». Il diritto, ridotto a una serie di ingiunzioni sulla comunità, deve riacquistare la sua vocazione spontanea e farsi ordinamento. Occorre che lo Stato recuperi a sé la società, diventando finalmente – Grossi usa le parole del giurista palermitano – una «organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi»27. Romano non è l’unico a sfatare il ‘mito’ del monismo giuridico. È di fine Ottocento la esperienza del diritto commerciale, per sua natura consuetudinario e lontano dagli schemi imbriglianti del diritto privato: «il diritto civile generale non può mai innalzarsi a quella libertà e mobilità e a quella applicabilità universale che un diritto adeguato ai bisogni del commercio necessariamente richiede»28. Dalla Germania, il nuovo diritto commerciale arriva in Italia, con la «natura dei fatti» tra le sue fonti29. E dagli anni ottanta del XIX secolo cominciano ad affermarsi anche alcuni diritti speciali. Il diritto del lavoro ne è un classico esempio. Esso è il frutto delle lotte sindacali e delle relazioni industriali. Il contratto collettivo di lavoro – a partire dai concordati di tariffa30 –scalza la locazione di opere del Codice Pisanelli. E un ruolo edificatorio spetta alle magistrature di equità31. Ponendo l’accento sul «diritto che tramonta e il diritto che nasce», il giurista «vigila lo svolgersi progressivo dei principii»32. Il modernismo giuridico (Freirechtsbewegung) viene entusiasticamente recepito in Italia da chi ritiene che il giurista abbia l’obbligo di relativizzare 26 P. Grossi, «Lo Stato moderno e la sua crisi» (a cento anni dalla prolusione pisana di Santi Romano), in Id., Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 49. 27 S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, cit., p. 324. Sul punto, anche P. Grossi, Santi Romano: un messaggio da ripensare nella odierna crisi delle fonti, in Id., Società, diritto, Stato, cit., pp. 143 e ss. 28 Parole di L. Goldschmidt, Storia universale del diritto commerciale (1891), Bocca, Torino 1913, pp. 12-13. Cfr. P. Grossi, Universalismo e particolarismo nel diritto, in Id., Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 83. 29 Il riferimento è a C. Vivante, Trattato di diritto commerciale (1893), vol. I, cit. in P. Grossi, Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 84. 30 G. Messina, I concordati di tariffa nell’ordinamento giuridico del lavoro (1904), cit. in P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Giuffrè, Milano 2002, pp. 47-48. 31 ���������������������������������������������������������������������������������� I collegi probivirali del 1893, formati non da togati ma da imprenditori e lavoratori, favorevoli alla conciliazione delle controversie. Cfr. P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., pp. 22-23. 32 Sono espressioni di Francesco Carnelutti, nell’introduzione al suo Infortuni sul lavoro del 1913, citate da Grossi in La cultura del civilista italiano, cit., p. 51.

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il testo del legislatore in riguardo delle esigenze della vita33. Ormai, «l’itinerario novecentesco – afferma Paolo Grossi – è tutto una riscoperta dei fatti strutturali, economici, sociali». La prima guerra mondiale è l’evento che segna la cesura: «i bisogni eccezionali degli Stati belligeranti esigono leggi eccezionali […], leggi cariche di grezzi contenuti fattuali perché finalizzate a conseguire risultati concreti e particolari». Ed è proprio il diritto civile, baluardo intangibile della codificazione borghese, a scricchiolare, con le alterazioni del principio della proprietà: dall’assoluta ed esclusiva disponibilità del soggetto sul bene si passa alla moltiplicazione delle proprietà a seconda della «diversità strutturale dei beni e dei diversi bisogni emergenti dalla natura specifica del bene»34. Al diritto soggettivo cominciano a corrispondere doveri35. Negli anni trenta, al termine ‘proprietà’ si associa quello di funzione: concetto di matrice giuspubblicistica, «la funzione impediva di pensare il proprietario quale entità insulare e lo inseriva invece cogentemente all’interno di un contesto sociale e ambientale»36. Contemporaneamente, anche la teoria del negozio giuridico viene rivisitata alla luce degli ideali solidaristici37. In questo paesaggio giuridico rinnovato, i giusliberisti38 tendono a riconoscere all’interprete il ruolo di mediatore fra norma e fatti sociali. I giuristi neoterici rilevano la «storicità del diritto»39 espressa dall’equità 33 W. Cesarini Sforza, Il modernismo giuridico (1912), ora in Id., Vecchie e nuove pagine di filosofia, storia e diritto, vol. I, Filosofia e teoria generale (1967), cit. in P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., p. 15. 34 P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., p. 21. 35 Grossi cita Enrico Finzi, Filippo Vassalli, Salvatore Pugliatti. Cfr. P. Grossi, Scienza giuridica italiana, cit., pp. 234 e ss. e Id., La cultura del civilista italiano, cit., pp. 61 e ss. 36 P. Grossi, La proprietà e le proprietà, oggi, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., p. 179. 37 E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico (1960), cit. in P. Grossi, Scienza giuridica italiana, cit., pp. 236 e ss. 38 «Per giusliberismo o scuola del diritto libero (traduzione pedissequa del tedesco Freirechtsschule) si intende un grande movimento di pensiero giuridico – seguito da teorici e pratici – che […] ha al fondo un’idea centrale: insofferenza verso lo statalismo giuridico, verso un diritto immedesimato in un complesso di leggi, rivalutazione del giudice e del dottrinario quali fonti capaci di meglio esprimere la complessità e ricchezza dell’ordine giuridico. Il manifesto giusliberistico più compiuto è nel libretto pubblicato nel 1906 dal giurista tedesco Hermann Kantorowicz [La lotta per la scienza del diritto]», P. Grossi, La cultura del civilista italiano, cit., pp. 43-44. 39 G. Maggiore, L’equità e il suo valore nel diritto, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, III, 1923, p. 262.

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e la possibilità, in seguito all’applicazione ripetuta, dell’affermazione di principi giuridici nuovi40. L’interpretazione viene liberata dalle maglie dell’esegesi per sopperire alle carenze di un sistema legale definito provocatoriamente «sistema di lacune»41. Negli anni venti, anche il diritto agrario si arricchisce di nuove forme. Le mutate esigenze sociali impongono la trasformazione di coltivazione e produzione, con rinnovata attenzione per la consuetudine42. Il recupero della struttura sociale passa attraverso il riconoscimento di «tutta una serie di “situazioni pubbliche”», tra cui sindacati, partiti, corporazioni. Ed è basata su di una scelta corporativistica la legislazione fascista del lavoro43, sebbene il corporativismo ne uscisse infine svisato. Il codice civile del 1942, nonostante il clima in cui nasce, ignora le società intermedie. Bisognerà che siano i membri della Costituente ad attribuir loro il riconoscimento dovuto44, il cui carattere di «autentiche formazioni sociali» sarebbe stato messo in rilievo da uno dei più brillanti civilisti italiani45. È del 1945 la teoria della costituzione materiale, come espressione dell’indirizzo politico che la società si dà da sé46. Dopo la seconda guerra mondiale e la fine della dittatura, lo Stato, divenuto pluriclasse, ha bisogno di una norma giuridica fondamentale. La Costituzione del 1948, afferma Grossi, ha in comune solo il nome con le carte dei diritti del secolo XVIII. Mentre queste ultime erano tutte adeguate ai principi giusnaturalistici e improntate al «culto dell’astrattezza»47, la 40 Cfr. T. Ascarelli, L’idea di codice nel diritto privato e la funzione dell’interpretazione (1945), ora in Id., Saggi giuridici, Giuffrè, Milano 1949, p. 63. 41 Da M. Ascoli, L’interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto (1928), Giuffrè, Milano 1991, p. 35. 42 Giangastone Bolla è il pioniere del nuovo diritto agrario, nonché il fondatore della “Rivista di Diritto agrario” e dello “Archivio Vittorio Scialoja per le consuetudini giuridiche agrarie e le tradizioni popolari italiane”. Cfr. P. Grossi, La cultura del civilista italiano, cit., pp. 239-241. 43 In particolare sulla l. 3 aprile 1926 cfr. P. Grossi, Il diritto nella storia dell’Italia unita, Relazione tenuta presso l’Accademia dei Lincei http://www.lincei.it/files/ convegni/840_allegatouno.pdf, par. 13 (ora pubblicato per Editoriale Scientifica, Napoli 2012). 44 Specificatamente Mortati e Dossetti, cit. in P. Grossi, Oltre le mitologie, cit., p. 122. 45 Il riferimento è a P. Rescigno, Persona e comunità. Saggi di diritto privato (1987), cit. in P. Grossi, Oltre le mitologie, cit., p. 124. 46 La teoria si deve a C. Mortati, La Costituzione in senso materiale (1940), Giuffrè, Milano 1998; P. Grossi, Il diritto nella storia dell’Italia unita, cit., par. 13. 47 Cfr. P. Grossi, La legalità costituzionale, cit., pp. 40 e ss.

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Costituzione italiana, come prima quella di Weimar, del 1919, è «percorsa dai valori giuridici orientatori per la intiera comunità italiana»; i suoi 139 articoli non sono imperativi normativi, ma «regole giuridiche». Un testo pluralista, contro il riduttivismo del vecchio Statuto48. È il caso di leggere lo Storico: «il paesaggio socio-giuridico che essa [Costituzione] disegna non è più ridotto a Stato e individui; lo Stato è avvertito più quale comunità di comunità che quale apparato; il singolo è identificato più come persona che come individuo, ossia come creatura relazionale in rapporto con gli altri, ben immerso nel tessuto sociale dove è titolare di una ricca gamma di diritti e di doveri, immerso in quel tessuto soprattutto dai precisi doveri che gli competono; è per questo che le formazioni sociali, così spregiate durante la modernità, ridiventano l’articolazione normale e insopprimibile di una umana consociazione, assumendo nell’articolo 2 il carattere di pilastro essenziale accanto alla persona e in favore della persona»49. Insomma: non più ordine compatto, ma ordinamento composito50. Ad ogni modo, se nel secondo dopoguerra, e per i decenni a venire, si ripetono le denunce di una crisi del positivismo, è perché esso continua a resistere51. Del resto Grossi è consapevole che il diritto «non può abdicare alla sua dimensione formale». Purché si tratti però di categorie ordinanti una realtà pulsante, in continuo, e rapidissimo, divenire. Occorre che si 48 Lo Statuto albertino, la carta ottriata in vigore in Italia dal 1848 al 1948. 49 P. Grossi, Ordine/compattezza/complessità/, in Id., Introduzione al Novecento giuridico, cit., p. 112. Cfr. anche Id., Novecento giuridico, un secolo pos-moderno, cit., pp. 23 e ss. 50 Cfr. P. Grossi, La legalità costituzionale, cit., p. 45. 51 Giuseppe Capograssi, Francesco Carnelutti, Salvatore Pugliatti sono tra coloro che parlano espressamente di crisi. Domenico Barbero torna sul diritto naturale e Gino Gorla si occupa di common law, in veste di comparatista, seguito da Rodolfo Sacco. Angelo Falzea avvia una osservazione assiologia: i ‘fatti’ sono al centro delle sue indagini. Ugo Natoli valorizza la dimensione costituzionale. Rosario Niccolò, riferendosi all’impresa, dimostra l’insufficienza delle categorie romanistiche. Luigi Menghoni si confronta con la prassi del diritto del lavoro, con la sociologia di Luhmann, con l’ermeneutica di Gadamer e Esser. Michele Giorgianni, di fronte al pesante intervento dello Stato nell’economia, invita a rivedere i concetti tradizionali del diritto civile. Pietro Trimarchi elabora il concetto di responsabilità oggettiva per rischio d’impresa attraverso le letture del diritto tedesco e del common law. Stefano Rodotà configura una “legislazione per principii” connotata di elasticità, laddove il giudice e l’interprete hanno un’importante funzione. Nicolò Lipari sostiene l’insufficienza delle fonti e la prospettiva sociologica per la comprensione dei fenomeni giuridici. Pietro Perlingieri tiene fermo l’imperativo della legalità costituzionale, diffidando dell’approccio categorizzante (cfr. P. Grossi, La cultura del civilista, cit., pp. 121 e ss.).

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osservino due piani di legalità: quello codicistico e quello costituzionale, laddove il secondo «esprime la società nei suoi valori portanti»52. Il legislatore non è l’unico produttore di diritto, tanto più in tempi di ipertrofia legalistica. «Togliere alla legge quel ruolo totalizzante» non significa rinnegare la fonte legislativa, ma piuttosto far sì che essa non diventi presto lettera morta53. Pertanto è ai giuristi e ai giudici che – a detta di Grossi – spetta la funzione «costruttiva» di interpretare le norme per tradurle in diritto vivente, poiché «l’interpretazione è la garanzia della storicità del diritto», che è per necessità relativo, ossia plastico, suscettibile di adattamento. L’esegesi non basta più, dal momento che «l’asse portante si è spostato dal Codice alle leggi speciali senza preoccuparsi di vedere i piani differenti su cui si collocava il primo e su cui si collocano le seconde»54. Del resto, in una realtà insulare quale quella anglosassone, che non ha conosciuto cesure brusche dal Medioevo all’Età contemporanea, il common law consiste nell’applicazione da parte dei giudici di un complesso di usi, secondo una operazione di conservazione del patrimonio storico e culturale di un popolo. Affidare ai giudici la regolamentazione della prassi – secondo Grossi – non ha a che fare con alcuna pretesa legittimazione democratica, intesa nel senso di una traslazione di potere dal piano legislativo a quello giurisdizionale55. Se di rappresentatività delle magistrature si può in qualche modo parlare, essa concerne l’espressione della società civile «nella sua complessità». Il che è storicamente appannaggio della scienza del diritto, che ha il compito di filtrare le istanze della comunità e di armonizzarle. È ciò che fa la Corte costituzionale, dal momento che salvaguarda il rispetto dei principi e dei valori della società verificando la corrispondenza, ad essi, degli atti legislativi56. 52 P. Grossi, Oltre le mitologie, cit., pp.133-134. 53 L’art. 12 delle Disposizioni preliminari al Codice Civile è, a giudizio di Grossi, una «reliquia del ‘mondo di ieri’ in un mondo diverso», P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, cit., p. 33. 54 Sul tema, N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano 1979 e Id., La proposta della neo-esegesi (a modo di prefazione) del 1982, cit. in P. Grossi, Epicedio per l’assolutismo giuridico, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., pp. 146 e ss. 55 �������������������������������������������������������������������������������� «Anche in questo caso siamo portatori di un plagio illuministico che sembra inamovibile, consistente nell’indiscusso principio che riserva al potere legislativo, in forza della cosiddetta rappresentanza politica, di esprimere la volontà generale», P. Grossi, Il diritto civile tra le rigidità di ieri e le mobilità di oggi, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., p. 236). 56 Cfr. P. Grossi, Il diritto nella storia, cit., par. 18.

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Il modello di civil law mostra segni di obsolescenza tanto più al cospetto della globalizzazione, che implica «deterritorializzazione», lì dove la prassi economica produce un diritto pluralistico57, connotato di effettività e flessibilità, informale rispetto alle normative stataliste ed alle rispettive politiche, con giudici privati ed arbitri scelti a livello internazionale58. È evidente che tale diritto abbia molto più a che fare con le forme agili e pratiche del common law. Tutto ciò non può non suscitare anche perplessità: «il rischio sta nell’arroganza del potere economico, che non è minore di quella paventata del potere politico. Il rischio è la strumentalizzazione della dimensione giuridica al soddisfacimento di interessi economici»59. Per quanto concerne la Comunità europea, dimensione non solo territoriale ed economica, ma realtà politica e giuridica, il Trattato di Maastricht ha cercato di rispettare i principi ordinamentali delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri60. «Tradizioni e principii», come piace sottolineare a Grossi, tutelati dalla Corte di giustizia, vera artefice di un diritto comune europeo con al centro la “Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo”61. Si tratta del più evidente esempio del ruolo di «supplenza» da parte dei giudici per un diritto sovra-nazionale62. E in Italia, la Corte 57 Che, ad ogni buon conto, occorre recuperare (cfr. P. Grossi, Unità giuridica europea: un medioevo prossimo futuro? in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico”, 31, 2002, p. 55). 58 La globalizzazione economica, che si serve della rete telematica, mette in crisi la gerarchia delle fonti del diritto statale: «lo spazio virtuale è inadatto alla politica». E di rete si parla a proposito del sistema di regole «non posta l’una sopra o sotto l’altra, bensì sullo stesso piano, legate l’una all’altra da un rapporto di reciproca interconnessione», P. Grossi, Aspetti giuridici della globalizzazione economica, in Id., Società, diritto, Stato, cit., pp. 301 e ss. 59 «Più che una prassi fatta da un popolo minuto di homines oeconomici, si tratta di una realtà determinata da […] le transnational corporations, le grandi imprese multinazionali», P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., p. 208. 60 Cfr. art. 6 del Trattato del 1992, cit. in P. Grossi, Il diritto civile, cit., pp. 223 e ss. 61 Cfr. P. Grossi, Un impegno per il giurista di oggi: ripensare le fonti del diritto, in G. Alpa (a cura di), Paolo Grossi, cit., pp. 31 e ss. 62 Tendenza confermata dal Parlamento Europeo che, il 7 settembre 2006, invitava la Commissione alla progettazione di un “Quadro comune di riferimento per il diritto europeo dei contratti” (cfr. P. Grossi, Il diritto civile, cit., p. 225). Grossi è invece scettico sul valore della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000. Il documento sembra allo storico appartenere alla vecchia categoria delle carte dei diritti; un catalogo di impronta individualistica: «esiguo è lo spazio riservato ai diritti sociali ed esigua è la dimensione collettiva del soggetto». È assente il momento relazionale, che accanto ai diritti implica anche doveri. In altri termini, manca la

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di cassazione è portatrice da decenni di una «visione tanto pluralistica da essere pluri-ordinamentale»63. In conclusione, «se i giuristi, all’insegna di un’etica della responsabilità, sapranno ordinare il nuovo pluralismo, forse stiamo procedendo sul cammino più spedito per una maggiore armonizzazione fra diritto e giustizia»64. Grossi, da storico, registra il fenomeno che è sotto gli occhi di tutti o, almeno, di chi è disposto a vedere.

dimensione costituzionale, il che significa «dare valore al momento enunciativo e sottovalutare il momento dell’esercizio» (Id., L’ultima carta dei diritti, in Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni costituzionali. Scritti in memoria di Angelo Barile, CEDAM, Padova 2003, pp. 473-474. Si veda anche Id., Mitologie giuridiche, cit., pp. 141 e ss.). 63 Ivi, p. 232. Non è questa la sede per dilungarsi sull’argomento (in merito, mi permetto di citare il mio La Cassazione nella storia, in V. Carbone, a cura di, La Corte di Cassazione. Dalle origini ai giorni nostri, Gangemi, Roma 2010, pp. 154 e ss.). Basti riportare la citazione fatta dallo stesso Grossi della pronuncia della Cassazione risalente al 1994 relativa alla distinzione tra disposizione – «considerata parte di un testo non ancora confortato dal lavorio interpretativo» – e norma – quale «testo già sottoposto ad elaborazione interpretativa rilevante», per mettere in risalto l’«operazione interpretativa» per la formazione di un «diritto vivente» (Cass. Civ. Un. 2 agosto 1994, n. 7194, rel. Carbone, in P. Grossi, Prima lezione, cit., p. 111). 64 P. Grossi, Mitologie giuridiche, cit., p. 238.

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Filippo Murino

LA LEX MERCATORIA COME MODALITÀ GIURIDICA DELLA GLOBALIZZAZIONE: IL CASO DELLA DIRETTIVA COLLATERAL

1. La Direttiva Collateral1 – chiaramente ispirata ai modelli normativi di common law (specialmente l’art. 9 dello Uniform Commercial Code) prima ancora che alle prassi contrattuali elaborate in seno a quegli stessi sistemi giuridici – vede un ritorno ad antichi schemi di escussione in autotutela (art. 4 della Direttiva e art. 4 del D.Lgs. n. 170/2004) la quale, pur fiorita nell’esperienza storica nella forma del diritto di ritenzione, venne fortemente ridimensionata dalla codificazione napoleonica in nome dell’egualitarismo dei creditori e del divieto del patto commissorio2. Più precisamente, se in epoche remote si era passati «dal sistema che consente al creditore la facoltà di vendere il pegno privatamente e senza indugio, come nell’antico diritto romano e germanico, all’altro sistema che lo costringe a ricorrere al giudice perché ordini e sorvegli la vendita»3, con la disciplina sulle garanzie finanziarie vi è un ritorno a forme di escussione primordiali con una maggiore propensione ed apertura, da parte del legislatore, verso l’autotutela non solo unilaterale ma anche consensuale4; 1

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Si tratta della Direttiva 2002/47/CE (in G.U.C.E., 27 giugno 2002, L168) come modificata dalla Direttiva 2009/44/CE (in G.U.C.E., 10 giugno 2009, L 146) recepita in Italia dal D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170 (in G.U. 15 luglio 2004, n. 164, serie generale), attuativo della Legge, 3 febbraio 2003, n. 14 - legge comunitaria 2002. Per una ricostruzione storica del diritto di ritenzione, v. A. Barba, Ritenzione (dir. priv.), in “Enc. dir.”, XL, Giuffrè, Milano 1989, p. 1378; M. Fortunati, Il diritto di fiera tra lex mercatoria e ius mercatorum, in G. Costa (a cura di), Tra diritto e storia. Studi in onore di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari, I, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 1186. L’esigenza di una revisione del diritto di ritenzione è stata avvertita in occasione della riforma francese sulle garanzie sfociata nell’ordonnance n. 2006-346 del 23 marzo 2006 (in tema v. F. Fiorentini, La riforma francese delle garanzie nella prospettiva comparatistica, in “Europa e diritto privato”, 2006, pp. 1160 e 1168). C. Vivante, Trattato di diritto commerciale, IV, Vallardi, Milano 1906, p. 325. La distinzione tra autotutela unilaterale e consensuale si deve a E. Betti, Autotutela (diritto privato), in “Enc. dir.”, IV, Giuffrè, Milano 1959, pp. 530 e ss.

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e questo in un settore giuridico in continua evoluzione quale è quello dei mercati finanziari ove forte è sentita l’esigenza della «rapida liquidazione degli affari»5 per evitare il c.d. rischio sistemico6 e gli effetti del contagio. Si passa, in particolare, da un sistema improntato su un controllo necessario ex ante ad un sistema improntato su un controllo eventuale ex post7 in cui, a presidio degli interessi del debitore e dei terzi, viene introdotto il criterio della «ragionevolezza commerciale» alla stregua del quale l’autorità giudiziaria è chiamata a valutare se l’escussione in autotutela sia stata o meno pregiudizievole8. Tale standard traduce pedissequamente e si identifica con la previsione, propria degli ordinamenti di common law, secondo cui a tutela del debitore e dei terzi che potrebbero essere lesi il creditore deve agire «in a commercially reasonable manner»; previsione rinveniente, prima ancora che nei master agreement relativi ai contratti di repurchase, securities lending e derivati9, 5 6 7 8

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La materia sottende vecchi dibattiti risolti diversamente nel corso del tempo «secondo che predomina nel pensiero legislativo la sollecitudine per la sorte del debitore o per la rapida liquidazione degli affari», ibidem. Per un espresso riferimento al c.d. rischio sistemico, v. il III considerando della Direttiva. V. art. 4, paragrafo 4, della Direttiva. Sul raffronto tra tale impostazione e quella degli ordinamenti europei di civil law, v. T. Keijser, Financial Collateral Arrangements, Kluwer, Amsterdam 2006, p. 79. L’esigenza di contemperare l’efficienza delle procedure con la tutela del soggetto debitore o datore della garanzia e dei terzi è espressamente proclamata nel XVII considerando della Direttiva. Per un’analisi dello standard v. A.V. Guccione, I contratti di garanzia finanziaria, Giuffrè, Milano 2008, pp. 165 e ss.; sia, inoltre, consentito il rinvio a F. Murino, L’autotutela nell’escussione della garanzia finanziaria pignoratizia, Giuffrè, Milano 2010, pp. 83 e ss. ove ulteriori riferimenti e Id., Considerazioni sull’escussione della garanzia finanziaria pignoratizia mediante appropriazione o vendita alla luce di una recente pronuncia del Privy Council (nota a United Kingdom Judicial Committee of the Privy Council, 5 maggio 2009, n. 5 – Cukurova Finance International limited v. Alfa Telecom Turkey Limited), in “Banca, borsa e titoli di credito”, 2010, 5, II, pp. 531 e ss. In tema v. pure T. Di Marcello, Escussione del pegno di strumenti finanziari e fallimento (nota a Trib. Milano, 6 maggio 2009), in “Banca, borsa e titoli di credito”, 2011, 4, II, pp. 528 e ss. Si ricordano al riguardo quelli dell’International Swap and Derivative Association (ISDA), dell’International Securities Lenders Association (ISLA), del Global Master Securities Lending Agreement (GMSLA) e del Global Master Repurchase Agreement (GMRA); nonché, a livello di uniformazione europea, quello dell’European Master Agreement (EMA). Per un’analisi dei master agreements, anche di quelli elaborati a livello nazionale, v. T. Keijser, Financial Collateral Arrangements, cit., pp. 20 e ss. e E.M. Mastropaolo, Garanzie finanziarie (mercati finanziari), in “Dig., disc. Priv.”, sez. commerciale, Agg. 4, UTET, Torino 2008, pp. 311 e ss.

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all’interno dello U.C.C., oltre che nei Progetti di convenzione internazionale elaborati dall’UNIDROIT10. Anche in considerazione del fatto che, per i title transfer financial collaterals il D.Lgs. n. 170/2004 prevede l’inapplicabilità dell’art. 2744 c.c. in tema di divieto del patto commissorio (art. 6, co. 2), l’impatto della Direttiva nell’ordinamento interno è stato definito «sismico»11 e foriero di una «rivoluzione silenziosa» in tema di garanzie reali12; il che, da un lato, ha rievocato il tradizionale dibattito sulla separazione fra diritto civile e diritto commerciale13 in considerazione delle ripercussioni che tale esperienza di particolarismo giuridico può avere sul diritto comune; dall’altro, ha fatto sì che la vicenda non potesse non inserirsi nell’altro dibattito relativo alla c.d. nuova lex mercatoria. 2. Sotto il primo profilo va ricordato come, nonostante originariamente la disciplina comunitaria fosse stata concepita limitatamente al wholesale financial market ed ai tipi di contratti che più spesso ricorrono in tale set10 Preliminary Draft UNIDROIT Convention on International Interest in Mobile Equipment e Preliminary Draft UNIDROIT Convention on Substantive Rules regarding Intermediated Securities; UNIDROIT Convention on Substantive Rules for Intermediated Securities; lo standard è stato, invece, recentemente messo in discussione dall’UNIDROIT Study Group on principles and rules on the netting of financial instruments. Da ultimo, per un’analisi anche in chiave comparatistica, v. L.M. Franciosi, Commercial Reasonableness in Financial Collateral Contracts: a Comparative Overview, in “Uniform Law Review – Revue de droit uniforme”, XVII, 2012, pp. 483 e ss. e M. Graziadei, Financial Collateral Arrangements: Directive 2002/47/E and the Many Faces of Reasonableness, pp. 497 e ss. 11 P. Carrière, La nuova normativa sui contratti di garanzia finanziaria, in “Banca, borsa e titoli di credito”, 2, I, 2005, p. 186; A. Candian, Le garanzie finanziarie dopo il d.lg. 170/2004, in P. Perlingieri (a cura di), Temi e problemi della civilistica contemporanea. Venticinque anni della Rassegna di diritto civile, ESI, Napoli 2005, p. 39; F. Sartori, I contratti di garanzia finanziaria nel D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170: prime riflessioni, in “www.dirittobancario.it”. 12 F. Annunziata, Verso una disciplina comune delle garanzie finanziarie. Dalla Convenzione dell’Aja alla Collateral Directive (Direttiva 2002/47/CE), in “Banca, borsa e titoli di credito”, 2, I, 2003, p. 168. 13 F. Macario, I contratti di garanzia finanziaria, in M. Lamandini, C. Motti (a cura di), Scambi su merci e derivati su commodities, Giuffrè, Milano 2006, p. 768; E. Gabrielli, Contratti di garanzia finanziaria, stabilità del mercato e procedure concorsuali, in “Rivista di diritto privato”, 2005, 3, p. 509. Sui rapporti tra diritto commerciale e diritto privato dell’impresa, v. G. Visentini, Principi di diritto commerciale, CEDAM, Padova 2006, pp. 8 e ss.; G. B. Portale, Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo, in “Riv. soc.”, 2008, pp. 1 e ss., spec. pp. 12-13.

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tore del mercato finanziario (specialmente quello interbancario), in forza di un’evoluzione definita «bizzarra» essa ha finito per riguardare anche il mercato retail e, dunque, tutte le garanzie reali del credito in cui l’oggetto della garanzia sia rappresentato da attività finanziarie14 e che intercorrano tra «persone diverse dalle persone fisiche» e controparte ente finanziario o assicurativo [art. 1, co. 1, lett. d) n. 5 del Decreto di recepimento]15. Addirittura, anche in sede di recepimento, si è dubitato che il legislatore italiano sia potuto incorrere in un eccesso di delega travalicando i limiti imposti dall’art. 31 della Legge, 3 febbraio 2003, n. 14 (legge comunitaria 2002)16. Per una sorta di eterogenesi dei fini, infatti, la Direttiva Collateral da disciplina di settore è divenuta normativa a carattere generale, cosicché le motivazioni dell’adozione della nuova regolamentazione non vanno più ricercate nel solo obiettivo di ridurre il rischio sistemico e di rafforzare la libera circolazione dei capitali e la libera prestazione dei servizi bancari e finanziari all’ingrosso – secondo quanto previsto dal III considerando – ma anche nell’agevolazione dell’accesso delle imprese al denaro e quindi del mercato al dettaglio17. Peraltro, tale evoluzione (o, per alcuni, involuzione) può apparire meno «scandalosa» se solo si considera l’importanza che la c.d. «col lateralizzazione» ha assunto quale tecnica di attenuazione del rischio di credito (credit risk mitigation) nell’ambito dell’Accordo di Basilea II sui requisiti patrimoniali delle banche18, pure al fine di rimuovere le gravi inefficienze che caratteriz14 A. Candian. Le garanzie finanziarie dopo il d.lg. 170/2004, cit., pp. 29 e ss. cui si rinvia per la storia legislativa della disciplina soprattutto per quanto riguarda l’ampliamento soggettivo dell’applicazione della Direttiva; v. pure gli accenti critici di P. Carrière, La nuova normativa sui contratti di garanzia finanziaria, cit., pp. 184 e ss. Sempre per la storia legislativa della Direttiva v. pure T. Keijser, Financial Collateral Arrangements, cit., pp. 48 e ss. 15 A. Candian, Le garanzie finanziarie dopo il d.lg. 170/2004, cit., p. 39. In tal modo la disciplina è destinata ad avere una applicazione «vastissima»: G. Sardo, La disciplina del contratto di garanzia finanziaria: appunti sul D.Lgs. 21 maggio 2004, n. 170, in “I Contratti”, 2005, p. 620. 16 P. Carrière, La nuova normativa sui contratti di garanzia finanziaria, cit., p. 195. 17 A. Gardella, Le garanzie finanziarie nel diritto internazionale privato, Giuffrè, Milano 2007, p. 168, la quale osserva come sia legittimo chiedersi in che misura la Direttiva è stata motivata da oggettive ragioni di interesse generale, volte a creare le condizioni per la stabilità finanziaria, e quanto invece da interessi privati (p. 169); sull’influenza delle banche e delle imprese di investimento sull’elaborazione della Direttiva, v. G. Ferrarini, P. Giudici, Le garanzie su strumenti finanziari nel diritto comunitario: orientamenti e prospettive, in “Il Fallimento e le altre procedure concorsuali”, 9, 2002, p. 1003. 18 D. Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Il Mulino, Bologna 2006, p. 288.

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zano i rapporti di finanziamento banca-cliente19 soprattutto in sede di esecuzione forzata; le quali, già da tempo, almeno nell’esperienza nostrana, hanno fatto auspicare una maggiore apertura verso forme di autotutela esecutiva20. Ulteriore elemento di attenuazione della portata scandalosa della Direttiva deriva dalla circostanza che in Europa, già a livello di legislazione nazionale e di diritto privato generale, si è assistito ad una progressiva e rapida erosione del divieto del patto commissorio21. L’evento di maggiore rilievo, sotto tale profilo, è dato dal fatto che proprio il Code Napoléon – che del divieto aveva costituito il referente legislativo del codificatore italiano22-, ha recentemente subito in occasione del bicentenario dalla sua promulgazione un’importante riforma del titolo secondo del Libro IV relativo alle garanzie, anche mobiliari23: infatti, l’ordonnance n. 2006-346 del 23 marzo 200624 ha ammesso la validità del patto commissorio salvo che in materia di credito al consumo, di pegno su stock e di ipoteca su residenza principale del costituente. Tale ultima riforma e la Direttiva Collateral – che potrebbe aver influenzato la prima la quale, a sua volta, potrebbe essere foriera di nuove evoluzioni25 – hanno rivestito un’importante ruolo nel processo di codificazione europea in corso26 ai fini dell’individuazione del quadro comune di riferimento (common frame of reference): alle garanzie reali su beni mobili è dedicato il libro IX del Draft Common Frame of Reference - DCFR27. 19 G. Boccuzzi, Rischi e garanzie nella regolazione finanziaria, Cacucci, Bari 2006, p. 194. 20 G. Bongiorno, Profili sistematici e prospettive dell’esecuzione forzata in autotutela, in S. Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Jovene, Napoli 1989, pp. 741 e ss.; C. M. Bianca, Autotutela, in “Enc. dir.”, Agg. IV, Giuffrè, Milano 2000, pp. 130 e ss. 21 A. Candian, Le garanzie finanziarie dopo il d.lg. 170/2004, cit., p. 40. 22 M. Bussani, Il problema del patto commissorio, Giappichelli, Torino 2000, pp. 6 e ss. e pp. 97 e ss. 23 Su tale riforma, F. Briolini, La riforma del diritto delle garanzie in Francia, in “Banca, borsa e titoli di credito”, 2007, II, pp. 226 e ss.; F. Fiorentini, La riforma francese delle garanzie nella prospettiva comparatistica, cit., p. 1155. 24 Loi pour la confiance et la modernisation de l’économie, in Journal officiel, 24 marzo 2006 e, in traduzione italiana, in “Europa e diritto privato”, 2006, 1123, attuativa della delega parlamentare di cui alla Legge n. 2005-842 del 26 luglio 2005. 25 A. Gardella Le garanzie finanziarie nel diritto internazionale privato, cit., p. 262. 26 Su tale processo v. C. Castronovo, in C. Castronovo, S. Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, I, Fonti Persone Famiglia, Giuffrè, Milano 2007, pp. 171 e ss. alla cui definizione di lex mercatoria (p. 8), si ispira il titolo del presente articolo. 27 Dei lavori dello Study Group on a European civil code va ricordato soprattutto il libro IX-7:103 – Extra-judicial and judicial enforcement e IX -7:212 – Commer-

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È noto come il tema della c.d. nuova lex mercatoria quale modalità giuridica della globalizzazione abbia interessato, anche in Italia, studiosi di varie discipline che comprendono tanto sociologi e filosofi del diritto28 quanto cultori di diritto positivo, in primis, del diritto commerciale29. Anche il concepimento della Direttiva Collateral ha visto l’imporsi prepotente sulle codificazioni di civil law delle prassi internazionali di ascendenza angloamericana30. Il XIV considerando della Direttiva prevede infatti la valorizzazione delle «sane pratiche di gestione del rischio utilizzate comunemente nei mercati finanziari»31.

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cially reasonable price. In tema, A. Veneziano, A Secured Transactions’ Regime for Europe: Treatment of Acquisition Finance Devices and Creditor’s Enforcement Rights, in “Juridica Internationalˮ, XIV, 2008, pp. 89 e ss. reperibile su www. juridica.ee. M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 76 e ss.; Ead., Prima lezione di diritto globale, Laterza, Roma-Bari 2012, passim. Oltre a F. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino, Bologna 2001 e Id., La globalizzazione nello specchio del diritto, Il Mulino, Bologna 2005; V. Buonocore, Problemi di diritto commerciale europeo, in “Giurisprudenza commerciale”, 1, I, 2008, pp. 7 e ss.; G.B. Portale, Il diritto commerciale italiano alle soglie del XXI secolo, in “Rivista delle Società”, 2008, pp. 1 e ss.; M. Rescigno, Lex mercatoria, in Treccani.it - XXI secolo (2009); nonchè, più di recente, C. Angelici, La lex mercatoria e il problema dei codici di commercio, in “Giurisprudenza commerciale”, 3, I, 2010, pp. 361 e ss.; P. Montalenti, Il diritto commerciale dalla separazione dei codici alla globalizzazione, in “Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile”, 2, 2012, pp. 379 e ss. Individua nella lex mercatoria e negli studi di Galgano una vera e propria «linea di pensiero, che attraversa la dottrina giuscommercialistica dell’ultimo quarto di secolo» M. Libertini, Diritto civile e diritto commerciale. Il metodo del diritto commerciale in Italia, in “Rivista delle Società”, 2013, pp. 37 e ss. Tra gli studiosi di diritto del commercio internazionale si ricorda F. Marrella, La lex mercatoria, Atti notarili nel diritto comunitario e internazionale, in Trattato notarile, vol. 4, t. 1, UTET, Torino 2011, pp. 169 e ss. Infine v. pure G. Alpa, M. Andenas, Fondamenti del diritto privato europeo, in G. Iudica, P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Giuffrè, Milano 2005, p. 571 e ss., anche in riferimento all’opera di R. Goode , Commercial Law in the Next Millennium, Sweet & Maxwell, London 1998. Sull’importanza della «standardizzazione» nei contratti derivati, v. M. Foschini, Il diritto del mercato finanziario, Giuffrè, Milano 2008, p. 141 e F. Capriglione, I prodotti derivati: strumenti per la copertura dei rischi o per nuove forme di speculazione finanziaria?, in “Banca, borsa e titoli di credito”, I, 1, 1995, p. 359. Sul ruolo crescente che ha assunto nel campo della regolamentazione finanziaria a livello internazionale la fissazione di standards operativi, di engagements, di guidelines, di best practices, di principi ordinatori uniformi per l’esercizio delle funzioni di supervisione creditizia, v. F. Capriglione, in Id. (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, t. 1, CEDAM, Padova 2005, p. 36.

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Per l’inquadramento in tale cornice della vicenda inerente alla Direttiva Collateral, pare tuttavia maggiormente utile muovere dagli studi storici in materia al fine di ben individuare il tertium comparationis cui raffrontare l’odierno fenomeno32 e verificare se lo stesso non debba piuttosto essere pur sempre inquadrato in una prospettiva di indirizzo giuspositivistico caratterizzata, più semplicemente, dalla «cattura» dei regolatori da parte dei regolati. Ci si riferisce in particolare a due recenti studi che, riprendendo la distinzione di Malynes33 hanno suggerito cautela nell’uso come sinonimi delle locuzioni lex mercatoria e ius mercatorum34 al fine di segnare «la distanza da quella “mitica”, o “romanzata”, lex mercatoria, che dovrebbe dare base storica al moderno diritto commerciale internazionale»35. In effetti, la vicenda della Direttiva Collateral sembra dare ragione a chi ha affermato che «appare ben poco fondato spiegare e motivare le tendenze attuali verso una “moderna” lex mercatoria attraverso la realtà giuridica medievale, o addirittura quella antica. È infatti improprio omologare situazioni tanto distanti tra loro, e tanto più se ciò è compiuto al fine di “rigettare” su (supposta) base storica – come sostenitori del diritto “anazionale” – il “positivismo legalista e statalista” (ricorrendo magari alle griglie interpretative di Santi Romano)»36. 32 Invero tale esigenza, rimarcata dagli storici del diritto, traspare da tempo come dimostra la lettura di U. Santarelli, Recensione a Francesco Galgano, Lex mercatoria - Storia del diritto commerciale, in A. Landi (a cura di), Ubi societas ibi ius. Scritti di storia del diritto, t. II, Giappichelli, Torino 2010, pp. 707 e ss. 33 G. Malynes, Consuetudo vel Lex Mercatoria or the Ancient Law-Merchant, Adam Islip, London 1622. 34 M. Fortunati, Il diritto di fiera tra lex mercatoria e ius mercatorum, cit., pp. 1159 e ss.; R. Ferrante, Codificazione e lex mercatoria: il diritto marittimo del secondo libro del Code de commerce (1808), in Tra diritto e storia. Studi in onore di Luigi Berlinguer, cit., pp. 1095 e ss. Per un cenno a tale distinzione v. pure C. Angelici, La lex mercatoria e il problema dei codici di commercio, cit., p. 363. 35 R. Ferrante, Codificazione e lex mercatoria: il diritto marittimo del secondo libro del Code de commerce (1808), cit., pp. 1097-1098; M. Fortunati, Il diritto di fiera tra lex mercatoria e ius mercatorum, cit., p. 1159, in riferimento all’opera di J. Marquard, Tractatus politico-juridicus de jure mercatorum et commerciorum singulari, Francfort, Thomae Matthiae Gotzii 1662 il quale, modificando notevolmente la prospettiva della precedente scienza commercialistica, «costruisce intorno al concetto di ius singulare mercatorum un sistema che incardina la specialità degli usi e della giustizia mercantile nella sfera – tutta giuridica – dei privilegi legali» (così, citando F. Migliorino, Mysteria concursus. Itinerari premoderni del diritto commerciale, Giuffrè, Milano 1999, p. 37). 36 R. Ferrante, Codificazione e lex mercatoria: il diritto marittimo del secondo libro del Code de commerce (1808), cit., pp. 1121-1122.

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Pertanto, anche per i financial collateral arrangements la vicenda pare potersi inquadrare nel fenomeno «del recepimento formalizzato di regole di origine privata da parte degli ordinamenti ufficiali»37. Sotto tale precipuo punto di vista ed anche in forza dell’espresso riferimento alla «prassi internazionale» contenuto nell’art. 8 del Decreto, il recepimento della Direttiva Collateral, almeno limitatamente al sistema italiano, può essere letto in un’ottica di «rivincita» della nuova lex mercatoria – per una sorta di nemesi storica – sulla codificazione napoleonica in ordine allo specifico punto dei rapporti tra autonomia privata e forme di autotutela del creditore (anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione). Tuttavia, come già anticipato, il fenomeno in tal caso può essere inquadrato in «un atteggiamento “servente” degli ordinamenti ufficiali (la celebre “cattura” dei regolatori da parte dei regolati)»38. Guardata la Direttiva Collateral sotto tale lente, l’impressione allora è che la c.d. nuova lex mercatoria si articoli in un fenomeno polifonico (fatto di prassi contrattuali, di codici di fattura dottrinale, di influenze comparatistiche, ecc.) che in maniera a volte entropica e caotica, pur lasciando intatto l’impianto giuspositivistico, influenza i legislatori (nazionali e comunitari)39; fino al punto di stravolgere – almeno nell’esperienza di civil law – alcuni dogmi del diritto civile considerati in passato dei veri e propri tabù e che, invero, spesso già avevano subito un processo di revisione interna ad opera della dottrina più avvertita.

37 M. Libertini, Le fonti private del diritto commerciale. Appunti per una discussione, in “Rivista del Diritto Commerciale e del Diritto Generale delle Obbligazioni”, I, 2008, pp. 610-611, cui si rinvia. 38 M. Libertini, Le fonti private del diritto commerciale, cit., p. 611, il quale aggiunge che «l’esistenza di un tale procedimento non può essere ridotta a puro orpello formale: in realtà esso impone sempre una certa dialettica politica e l’espressione di un giudizio di valore sulle soluzioni recepite. Che questa fase necessaria di assunzione di responsabilità politica venga poi bene o male utilizzata, è problema squisitamente politico, che non intacca la razionalità del modello e la compatibilità dello stesso con un sistema rigido di fonti» (riconduce anche la vicenda della Direttiva Collateral a tale fenomeno di cattura R. Natoli, I contratti di garanzia finanziaria: normativa di settore o normativa di sistema?, in Scritti in onore di Marco Comporti, II, Giuffrè, Milano 2008, pp. 1911-1912). 39 P. De Biasi, I contratti standard e il limite dell’ordine pubblico, in M. Lamandini, C. Motti (a cura di), Scambi su merci e derivati su commodities, Giuffrè, Milano 2006, pp. 670-671.

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Ci si muove, inoltre, sempre all’interno del fenomeno della commercializzazione del diritto privato40; processo che, enfatizzato con la codificazione, non è stato certo estraneo ad epoche anteriori alle codificazioni come dimostra l’indagine storica sulla giustizia di fiera41. 3. Come anticipato, nel perseguire le esigenze di rapidità nella realizzazione della garanzia, a tutela del debitore e dei terzi, l’escussione viene assoggettata al controllo eventuale ex post da effettuarsi alla luce del parametro della «ragionevolezza commerciale»: l’art. 8, co. 1, del D.Lgs. n. 170/2004 stabilisce, infatti, che «le condizioni di realizzo delle attività finanziarie ed i criteri di valutazione delle stesse e delle obbligazioni finanziarie garantite devono essere ragionevoli sotto il profilo commerciale». La disposizione in discorso rappresenta uno degli ormai numerosissimi casi con cui nel nostro ordinamento privatistico si è affacciato il criterio della «ragionevolezza», per tradizione appartenente agli ordinamenti di common law42. Il commercially reasonable ha tradizionalmente rivestito negli ordinamenti di common law il criterio con cui si controllano gli usi commerciali: il giudice ha il potere di disapplicare un uso non reasonable43. Al di là delle differenze culturali tra gli ordinamenti, i più recenti studi condotti in Italia sul tema della ragionevolezza nel diritto privato evidenziano, da un lato, che la stessa è generalmente intesa come criterio di valutazione piuttosto che come un principio o una regola in sé compiuta, fonte di diritti e di obblighi; dall’altro, che la quintessenza del criterio debba essere di massima individuata nel bilanciamento complessivo degli interessi in relazione alle circostanze concrete44. Ripudiando le tesi che ascrivono la 40 Su tale fenomeno e sui rapporti tra diritto civile e diritto commerciale v., V. Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, ESI, Napoli 2006, pp. 22 e ss. e pp. 238 e ss.; da ultimo, S. Delle Monache, «Commercializzazione» del diritto civile (e viceversa), in “Rivista di diritto civile”, 4, I, 2012, pp. 489 e ss; M. Libertini, Diritto civile e diritto commerciale, cit., pp. 1 e ss. e P. Spada, Codice civile e diritto commerciale, in “Rivista di diritto civile”, 2, I, 2013, pp. 331 e ss. 41 M. Fortunati, Il diritto di fiera tra lex mercatoria e ius mercatorum, cit., pp. 1177 e ss. 42 In tema, da ultimo, v. S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, in “Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile”, I, 2012, p. 13. 43 La problematica del controllo ad opera del giudice della ragionevolezza degli usi commerciali risulta essere stata affrontata nel nostro ordinamento da C. Vivante, nota a Cass. Roma, 2 aprile 1891, in “Il Foro italiano”, I, 1891, p. 530. Denuncia l’ampiezza del controllo cui è chiamato il giudice V. Agnese, I contratti di garanzia finanziaria nel diritto civile, Giappichelli, Torino 2009, pp. 245 e ss. 44 S. Troiano, La «ragionevolezza» nel diritto dei contratti, CEDAM, Padova 2005, p. 160.

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ragionevolezza ad una clausola generale la dottrina considera la stessa «un criterio o canone di valutazione»45 nell’ottica di un «equilibrato accordo contrattuale»46; a tale esito interpretativo si perviene anche in riferimento alla ragionevolezza commerciale, intesa come «uno strumento di controllo sugli eventuali abusi da parte del creditore garantito sul debitore»47. La disciplina sui contratti di garanzia finanziaria non chiarisce, tuttavia, cosa debba intendersi per ragionevolezza commerciale e pertanto, in assenza di riferimenti, utili possono essere i richiami alle guidelines per la determinazione della commercial resonableness previste per l’escussione della garanzia nello U.C.C. – nella versione successiva alla riforma del 2001 – mediante disposition del collateral48. Nello specifico, volendo individuare un addentellato normativo49, rileva in particolare il § 9-610 subsec. B) U.C.C. il quale stabilisce che «every aspect of a disposition of collateral, including the method, manner, time, place, and other terms, must be commercially reasonable» (come è stato ricordato, anche nel DCFR una delle definizioni di ragionevolezza vuole che «ciò che è “reasonable” deve essere accertato oggettivamente, avendo riguardo a ciò che deve essere fatto, alle circostanze del caso e a tutti gli usi e prassi rilevanti»50). 45 S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, cit., pp. 12-13; E. del Prato, Ragionevolezza e bilanciamento, in “Riv. dir. civ.”, 23, 2010. Per una simile conclusione, v. già Castronovo C., Un contratto per l’Europa, prefazione a Commissione per il diritto europeo dei contratti – Pres. Ole Lando, Principi di diritto europeo dei contratti, Parte I e II, vers. it. a cura di C. Castronovo, Giuffrè, Milano 2001, pp. XLIII e ss.; Nivarra L., Ragionevolezza e diritto privato, in “Ars interpretandi”, 7, 2002, Ragionevolezza e interpretazione, 381; Di Majo A., L’osservanza della buona fede nei Principi Unidroit sui contratti commerciali internazionali, in J. Bonell, F. Bonelli (a cura di), Contratti commerciali internazionali e Principi Unidroit, Giuffrè, Milano 1997, p. 157; F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in “Rivista di diritto civile”, I, 555, 2001. 46 S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, cit., p. 3. 47 R. Marino, La disciplina delle garanzie finanziarie. Profili innovativi, ESI, Napoli 2005, p. 210. V. pure M. Bartolomei, E.M. Mastropaolo, I contratti di garanzia finanziaria, in Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, I contratti di garanzia, F. Mastropaolo (a cura di), t. 2, UTET, Torino 2006, pp. 1538-1539. 48 Il § 610 U.C.C. prevede che, dopo il verificarsi di un evento di default, «a secured party may sell, lease, license or otherwise dispose of any or all of its collateral in its present condition or following any commercially reasonable preparation or processing». 49 ������������������������������������������������������������������������������ Sul problema del riconoscimento al diritto comparato anche del compito di colmare lacune, v. G.B. Portale, Il diritto societario tra diritto comparato e diritto straniero, in “Rivista delle Società”, 2-3, 2013, pp. 326 e ss. 50 S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, cit., p. 18.

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Da questo punto di vista l’accertamento dell’osservanza dello standard di ragionevolezza commerciale pare avvicinarsi alla prima delle fasi che caratterizzano il giudizio equitativo51 ed in particolare all’accertamento della c.d. natura delle cose52; nozione che proprio lo standard in discorso potrebbe rinverdire (non, tuttavia, nella prospettiva della teoria delle fonti del diritto53), anche in considerazione di un espresso avvicinamento della stessa alla tematica della ragionevolezza54. Sulla premessa che il giudizio di equità può essere definito come «a) la regolamentazione di un caso concreto; b) stabilita in base a norme o a valori diversi da quelli del diritto positivo; c) tenendo conto di tutte le circostanze e gli aspetti peculiari che il caso presenta»55, viene osservato che il punto c) individuato «generalmente non viene messo nella debita luce, in quanto la nozione di regolamentazione per il caso concreto viene intesa nel senso banale di regolamentazione dettata per il singolo caso, e non nel senso, molto più pregnante, di regolamentazione dettata tenendo conto del

51 Aspetti in comune con l’equità sono stati individuati anche dalla dottrina che si è occupata in generale della ragionevolezza nel diritto privato (S. Troiano, La «ragionevolezza» nel diritto dei contratti, cit., p. 513; su un piano storico, G. Diurni, Il ragionevole giuridico nella storia, Giappichelli, Torino 2008, p. 78). 52 Su cui, per tutti, v. le approfondite e analitiche ricostruzioni di N. Bobbio, La natura delle cose e La natura delle cose nella dottrina italiana, entrambi in Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1988, rispettivamente pp. 197 e ss. e pp. 227 e ss.; N. Morra, Natura delle cose, in “Noviss. Dig. It.”, XI, UTET, Torino 1965, pp. 35 e ss. Il tema è stato ripreso, di recente, anche da M. Libertini, Le fonti private del diritto commerciale, cit., p. 605 e Id., Diritto civile e diritto commerciale, cit., pp. 3 e ss. inquadrandolo nella nota disputa della natura delle cose come fonte del diritto. 53 N. Bobbio, La natura delle cose, cit., pp. 208 e ss. Dell’opinione che l’introduzione per via legislativa dello standard della ragionevolezza abbia comportato «uno spostamento di potere normativo dal legislatore al giudice» è S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, cit., p. 20; in tale prospettiva, v. pure le considerazioni sulla lex mercatoria di A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 76. 54 La dottrina civilistica che da ultimo si è occupata della ragionevolezza ricorda proprio come venga «privilegiato il modo di argomentare non dogmatico, basato sulla ragionevolezza, cioè il riferimento a soluzioni immediatamente evidenti sulla base della “natura della cosa” e, nel contempo, sulla inadeguatezza, universalmente riconosciuta, di una diversa soluzione»: S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, cit., p. 3. In una prospettiva storica, v. specialmente M. Fortunati, Il diritto di fiera tra lex mercatoria e ius mercatorum, cit., p. 1175. 55 N. Morra, Natura delle cose, cit., p. 44.

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caso concreto, cioè di tutte le circostanze, gli aspetti, gli elementi peculiari che il caso presenta»56. Anche la valutazione della ragionevolezza commerciale pare basarsi sulla natura delle cose: la valutazione dell’osservanza dello standard secondo i criteri dettati dall’U.C.C. pare corrispondere a tale prima fase «empirico-conoscitiva, nella quale il giudice esamina accuratamente la situazione che deve regolare»57 in cui si articola il giudizio equitativo. Su tale linea sembra essersi orientata la prima giurisprudenza europea imbattutasi nell’analisi dello standard introdotto dalla Direttiva58. L’impressione finale è che la commercial reasonableness – oggi mutuata dagli ordinamenti di common law – sia alla base dello stesso sviluppo della c.d. lex mercatoria, «quando furono i bisogni economici e le savie intuizioni di ragionevolezza pratica emersi nelle piazze mercantili di tutta Europa a provocarla e consolidarla»59.

56 Ibidem. 57 Ivi, p. 45. 58 Tribunal d’Arrondissement de Luxembourg siégeant en matière commerciale, 20 mai 2010, in “Giurisprudenza commerciale”, 4, II, 2012, pp. 812 e ss., con nota di F. Murino, Escussione della garanzia finanziaria pignoratizia e tutele del collateral provider. 59 P. Grossi, Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Giuffrè, Milano 2006, p. 195.

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Emma Russo

NORMATIVITÀ ED EFFETTIVITÀ NELLE PRATICHE DI SOFT LAW

1. «Sebbene il Parlamento ne abbia autorizzato la ratifica con la Legge 28 marzo 2001 n. 145, la Convenzione di Oviedo non è stata a tutt’oggi ratificata dallo Stato italiano. Ma da ciò non consegue che la Convenzione sia priva di alcun effetto nel nostro ordinamento. Difatti, all’accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito all’interno dello Stato, può assegnarsi – tanto più dopo la legge parlamentare di autorizzazione alla ratifica – una funzione ausiliari sul piano interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme interne al fine di dare queste una lettura il più possibile ad esso conforme»1. Di fronte all’ennesima accusa di sconfinamento del potere giudiziario in quello legislativo, dovuto ad una presunta assenza di regolamentazione giuridica rispetto alla fattispecie concreta e particolarmente delicata del fine vita, la Corte di Cassazione si difendeva evidenziando quel pieno normativo sulla base del quale, allo stato, fosse possibile fornire una risposta a tali istanze, fondata su un’argomentazione pur sempre giuridica. La decisione assunta con il “caso Englaro” rappresenta, tra molti altri, un esempio di esercizio, da parte di un organo giurisdizionale, di atti di soft law in un ordinamento, come quello italiano, tradizionalmente permeato da livelli quasi esclusivi di hard law, di norme ad alta vincolatività. L’apertura a queste nuove forme di regolamentazione, che coinvolge evidentemente la teoria giuridica tradizionale, rappresenta una risposta del diritto alla crisi della rappresentazione unitaria tramandata dal quadro politico istituzionale moderno. Una messa in discussione del tratto ordinamentale e della neutralizzazione giuridica che, inoltre, è conseguenza della sempre crescente discussione sulle categorie giuridiche tradizionali, alla luce di fenomeni di globalizzazione in atto, oltreché in ragione dell’insorgenza di ordinamenti di diverso livello e flussi multilaterali di governance. 1

Cass. Civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.

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La pretesa di esaustività della legge, che passa attraverso la costruzione formale giuridica della normatività, si traduce, in ultima analisi, in modalità di intervento nella società sempre rigide e incapaci di seguire percorsi più articolati e complessi, laddove, oramai, al diritto si richiede un approccio più aperto, orientato secondo una logica della possibilità e dell’opportunità, piuttosto che del vincolo e della sanzione2. Eppure dall’indebolimento della capacità regolativa della legislazione non pare possa riscontrarsi l’assoluta incapacità del diritto di fornire delle risposte accettabili e giuridicamente fondate, in virtù di una contaminazione della fonte legislativa da nuove forme giuridiche “che si lasciano alle spalle valenze strettamente precettive”3. Alternativamente alla crisi di un diritto per molti versi inadeguato ai nuovi processi, sembra essersi affermata una relativizzazione del principio di tipicità delle forme e della forza normativa e, dunque, una varietà crescente delle regole giuridiche4. Ad un notevole tasso di complessità della dimensione giuridica i tratti fondamentali del soft law sembrano fornire una risposta – più adeguata –, volta a segnare una trasformazione della giuridicità e delle modalità di regolamentazione delle relazioni sociali tra agenti di diversa natura, estrazione e interessi, operate ancora per mezzo del diritto. In mancanza di una definizione unitaria del soft law, essa viene parzialmente abbozzata e mutuata dal diritto internazionale nel quale ha mosso i primi passi5, ambito nel quale trova una più datata tradizione soprattutto nella regolamentazione dei rapporti tra gli Stati nazionali, sostenendo che il 2 3 4

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A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, passim. M.R. Ferrarese, Il diritto al presente, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 136 e ss. «[…] l’apertura a istanze organizzazionali e neogovernamentali può essere utile per evidenziare appunto una continua dialettica tra momento riduttivo, teso all’unità e alla concentrazione e momento centrifugo, pluralistico e complessificante di partecipazione al potere», A. Tucci, Percorsi discontinui dello Stato: “Dalla piramide alla rete”, in V. Giordano, A. Tucci, Razionalità del diritto e poteri emergenti, Giappichelli, Torino 2013, p. 120. Il termine soft law è tipico del diritto internazionale, nel cui contesto sorge a partire dagli anni ’70, pur trovando un’ampia affermazione negli anni ’80, sviluppandosi come una sorta di fonte alternativa rispetto ai trattati internazionali, utilizzata quando per i più disparati motivi, non è possibile ricorrere a questi ultimi. In questa particolare accezione, comunque, il concetto di soft law trova numerosi oppositori tra gli studiosi del diritto internazionale, i quali sottolineano come tali strumenti, essendo rimessi totalmente alla volontà delle parti, e non essendo soggetti né alle regole della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, né al principio “pacta sunt servanda”, sarebbero circondati da minori garanzie rispetto alle fonti classiche di diritto internazionale pubblico.

E. Russo - Normatività ed effettività nelle pratiche di soft law

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soft law comunitario «riguarda quelle regole di condotta che, pur non contenendo diritti ed obblighi per i loro destinatari, hanno una efficacia giuridica di intensità variabile, dipendente dalla intenzione espressa dai suoi estensori, ma tale comunque da produrre l’effetto, attraverso il medium costituito dall’ordinamento comunitario nel suo complesso, di influenzare la condotta degli Stati membri, istituzioni, imprese e individui, senza tuttavia creare diritti o obblighi giuridici»6. In ambito nazionale, esso si presenta, oggi, come una integrazione al diritto ordinamentale. Non cogente è il termine che più spesso viene accostato al soft law, per segnalare la natura non vincolante, oltre che il carattere informale di detti strumenti: attività che vanno dagli atti e codici di autoregolamentazione di singole imprese, ai codici di associazioni professionali e di categoria, alle raccolte di principi e regole spontaneamente sorte o create da determinati organismi allo scopo di introdurre discipline uniformi in determinati ambiti; laddove vincolatività e coercibilità si pongono come connotati tipici del diritto, siffatte regole insistono sulla persuasione piuttosto che sulla cogenza, eppure trovano applicazione fino a diventare, sfruttando molteplici canali, anche istituzionali, assumendo un certo grado di effettività. Certamente le norme di soft law più che imporre un comportamento, lo raccomandano, elaborano un programma da seguire, stabilendo una direzione destinata ad incidere, a vario titolo, sulla produzione normativa: si ritiene che esso presenti alcuni tratti tipici individuati nella tendenza a regolare per principi, in luogo della formulazione di puntuali diritti ed obblighi; nella creazione di procedure stabili e reiterate nel tempo, nel coinvolgimento di molteplici attori operanti in ambiti e livelli diversi; nella circostanza che l’effettività è fatta dipendere, non tanto dall’elemento sanzionatorio, ma da meccanismi partecipativi in grado di favorire la persuasione7. Esso sembra rappresentare, comunque, un fenomeno normativo, nella misura in cui, ha un’efficacia paragonabile alle leggi in senso formale, poiché in grado di incidere sulla volontà e libertà dei destinatari (restringendola), senza tuttavia determinare l’insorgenza di una vera e propria obbligazione giuridica. In questo senso già a Bobbio va riconosciuto il merito di aver intuito questa capacità del diritto di adeguarsi ai modi in cui si strutturano le dinamiche sociali, nella misura in cui, spostando l’attenzione dell’analisi del teorico

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K.C. Wellens, B.M. Borchardt (1989), Soft Law in European Community Law, ELR, p. 267. Cfr. F. Bano, Diritto del Lavoro e nuove tecniche di regolazione: il soft law, in “Lavoro e Diritto”, 2003, p. 53.

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generale dalla Struttura alla funzione del diritto8, coglie la forza nell’allora nuova tipologia di norme di incentivazione, destinate a piegare, orientare per via non repressivo sanzionatoria, «l’andamento spontaneo delle scelte, perché si presenta come un vantaggio e diventa forma di vita»9. Si assestano accanto alle parti più resistenti della struttura normativa (Carta costituzionale, regole procedurali, sentenze giudiziarie) norme più elastiche, convivenza che segna una nuova composizione dell’ordinamento giuridico, caratterizzata da livelli di cosiddetto hard law, ad alta vincolatività e livelli di soft law, dotati di maggiore flessibilità in ragione della contingenza e mutevolezza delle esigenze sottostanti10. D’altro canto, poi, la stessa formulazione di atti di soft law ha indotto molti studiosi, non a torto, a ritenere che, da un punto di vista della struttura sintattica, essi rientrerebbero nell’alveo delle norme che non presentano una formulazione condizionale, senza perciò stesso rinunciare alla funzione di regolamentazione del comportamento umano: il riferimento è, in particolare, ai principi, in virtù della mancanza, nella loro formulazione, della previsione di una conseguenza imputata11. Dunque il soft law sembra far parte già del corpus normativo entrando appieno nel processo di positivizzazione, quale fonte del diritto12, in gra8

N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione del diritto. Nuovi studi di teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007. 9 «La forma di controllo sociale che si profila attraverso le norme di incentivazione […] opera più sottilmente attraverso processi di condivisione, coinvolgimento e dunque interiorizzazione, in cui i dispositivi che vengono imposti sono considerati convenienti da parte dei soggetti coinvolti e quindi, seppure non è possibile parlare di interiorizzazione, almeno non sembra avvertibile il senso di obbligatorietà», A. Catania, Metamorfosi del diritto, cit., p. 104, nonché A. Tucci, Permanenze della forza e diritto partecipativo, in V. Giordano, A. Tucci, Razionalità del diritto e poteri emergenti, cit., p. 133. 10 Cfr. V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 320 e ss. 11 R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano 1998, pp. 279, pp. 281 e ss. 12 La coniugazione tra scarsa autoritatività e variabilità della effettività che giustifica certa rilevanza giuridica ha indotto taluni a negare l’accesso del soft law alla fonti del diritto, trattandosi di un diritto a obbligatorietà debole e giuridicità ambigua. Tali impostazioni si baserebbero, in ultima analisi sul fatto della volontarietà della ottemperanza alle regole, laddove il diritto per funzionare necessita di vincolatività e coercibilità. Tali regole, invece, appaiono solo efficaci, trovando così applicazione. Sul punto, tra gli altri R. Bin, Soft law, no law, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Giappichelli, Torino 2009, pp. 36–37, per il quale «fonte del diritto può essere esclusivamente l’atto previsto come tale da una norma di riconoscimento. […] il soft law, per definizione, non c’entra

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do di stimolare la creazione o comunque fungere da riferimento di regole giuridiche. Indipendentemente dalla tipologia le fonti, volte ad offrire all’interprete ora una norma valida, ora semplicemente un indirizzo da cui trarre le norme, in questo modo, sorrette proprio dall’attività di riconoscimento normativo, possono fungere da ragioni che sostengono le soluzioni giuridiche. In questo senso, ad esempio, la stessa decisione relativa al caso Englaro evidenzia come oggi nella prospettiva del pluralismo normativo i risultati interpretativi siano condizionati, non più soltanto secondo la procedura formalmente valida, ma anche sulla base di norme non ottenute, né ottenibili secondo tale procedura. Cresce il numero dei sistemi in cui i giudici non hanno limiti quanto alle norme che possono usare nelle loro decisioni: una spiegazione della strategia decisionale giudiziale potrà e dovrà essere pur sempre giuspositivista da un punto di vista concettuale, laddove, tuttavia, più confusa, dal punto di vista del giudice, diventa la distinzione tra contributi alla decisione giudiziale legittimamente giuridici da contributi di altro tipo13. Così «arbitri, giudici, agenzie amministrative, legislatori, e gli altri attori del ‘gioco’ trasformano variamente, con l’uso e il riconoscimento, alla luce delle esigenze pratiche e delle peculiarità dei comportamenti da disciplinare, criteri non cogenti in norme definite»14. 2. Da quanto finora argomentato non si può non cogliere che gli strumenti di soft law si esprimono e trovano ingresso negli odierni sistemi giuridici per mezzo di una attività interpretativa finalizzata all’individuazione delle pratiche effettive del diritto, pratiche che però, in ultima analisi trovano la loro legittimità normativa nell’attività riconoscimentale15. Una effettività, quella del soft law, contingente, capace di adattarsi ad un universo giuridico variegato nel quale la dissoluzione della dicotomia pubblico/privato e la proliferazione di molteplici vettori di potere testimoniano l’imprescindibilità di un filtro normativo-riconoscimentale: la trasformazione categoriale dell’effettività in normatività non può prescindere con le ‘fonti del diritto’, ossia con l’hard law. Può invece entrare nel processo di interpretazione per profili diversi». 13 Cfr. F. Schauer, Le regole del gioco, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 308–309. 14 B. Pastore, Il soft law nella teoria delle fonti, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, cit., p. 123. 15 L’idea della costitutività delle pratiche sociali come è noto risale ad Herbert Hart che individua nell’idea di convenzione sociale la fonte di legittimità della normatività giuridica. Cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), tr. it. a cura di M.A. Cattaneo, Einaudi, Torino 2002.

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anche qui da un uso attivo del diritto, da quella attitudine critico-riflessiva, di cui parlava Hart, sciogliendo in chiave riconoscimentale la lettura della normatività giuridica. In questo, infatti «La natura logico-conoscitiva dell’operazione di riconoscimento permette di individuare i criteri pubblici di identificazione della normatività degli atti. Questa normatività è da intendersi come pretesa di questi atti di valere effettivamente (e dunque riferirsi a poteri reali, anche di diversissima natura, economica, politico-locale oltre che istituzionalestatale) e, da parte dei soggetti coinvolti di credenza o aspettativa che quella implementazione avrà luogo»16. Dunque proprio in ragione dell’uso e del riconoscimento di simili strumenti di soft law, esercitati ad ogni livello (giudice, legislatore, consociato), si misura il grado della normatività di un enunciato, che non è per questo, più o meno giuridico, quanto, piuttosto, più o meno effettivo. Il riconoscimento diviene oggi misura dell’effettività17, che non rappresenta più soltanto una risposta di conformità o obbedienza alle norme da parte dei destinatari, ma un’attività giuridica che ha una rilevanza in sé, legata alla sua capacità di produrre comunque un effetto pratico, bypassando totalmente l’antico problema kelseniano della sua preliminare esistenza/ validità18. La categoria dell’effettività giuridica viene declinata, questa volta, in termini di successo della pratica di soft law, adottata proprio in virtù di una autobbligazione tutta proiettata sulla realizzazione dell’interesse che muove l’impegno assunto, di fronte al quale si annulla del tutto il ruolo della sanzione tradizionalmente intesa. Nel soft law l’essere non sembra più trovare un senso nel dover esser del comportamento sancito dalla norma e, al tempo stesso l’effettività non rileva più come realizzazione dell’ordinamento, come banco di prova della normatività: qui conta l’effetto pratico, che la regola, autoimposta, è in grado di produrre. In altri termini l’efficacia giuridica, tradizionalmente chiamata a verificare la realizzazione della 16 A. Catania, Metamorfosi del diritto, cit., p. 101. 17 «[…] il riconoscimento fa da filtro, dunque, all’accesso dei consociati ad un sistema giuridico, che non è necessariamente quello istituzionale statuale, anche se quest’ultimo resta comunque il più importante». Ivi, p. 105. 18 Cfr. M.R. Ferrarese, Soft Law: funzioni e definizioni, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, cit., pp. 71–72; il soft law è quella «forma di diritto che implica alcuni obblighi o impegni, ma non li accomuna con sanzioni, e che, nonostante questo, o forse proprio per questo, mira al raggiungimento di effetti pratici», Ead., La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna 2010, p. 36.

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funzione del diritto di orientamento del comportamento dei consociati, nel soft law diventa realizzazione pratica dell’interesse sottostante, motivante l’azione del soggetto. Da questo punto di vista, tuttavia, per un verso diventa particolarmente difficile distinguere tra ciò che è diritto e ciò che non lo è e, per altro verso, il diritto stesso sembra sciogliersi all’interno delle trattative che intercorrono tra agenti sociali chiamati, di volta in volta, a rappresentare quel particolare interesse. Piuttosto che spingersi a cercare punti più avanzati di mediazione con posizioni configgenti, queste nuove organizzazioni sociali si muovono sul piano del lobbing19: in questo senso, la crisi della mediazione politica, del circuito democratico, radicalizza spazi rappresentativi nei quali ogni attività è compiuta a partire dalla non negoziabilità degli interessi condivisi. Se da un lato, infatti, la crescente complessità del diritto contemporaneo mostra, dunque, una dislocazione normativa originata da molteplici traiettorie di potere, nelle quali la trazione fra normatività e pratiche effettive risulta sempre più sbilanciata a favore di queste ultime, dall’altro, il ricorso alle nuove pratiche di soft law mostra, in taluni casi, forme di normatività debole che sembrano riprodurre le tappe asimmetriche della logica globale. La flessibilità e la dinamicità del soft law, permette una notevole differenziazione dello strumento giuridico, capace di adattarsi a modalità normative più variegate rispetto all’hard law; questa stessa duttilità, dà origine, dunque, a forme di normatività debole: naturalmente si paga il prezzo della prevedibilità e della certezza, categorie cruciali della razionalità moderna, di cui diventano sempre più opache la capacità del diritto di fungere da terzo garante e la stessa funzione di neutralizzazione dei conflitti. Dinanzi alla crisi dell’autoreferenzialità del sistema giuridico e all’affermazione di pratiche che colgono una realtà frammentata e disomogenea da regolare, lo strumento del soft law sembra talvolta enfatizzare una risposta partecipativa alla produzione normativa, nella stessa rinuncia alla forma hard di regolazione giuridica. Occorre, tuttavia, considerare che il deficit della rappresentanza giuridico-politica rivendica una pluralità di soluzioni attraverso le quali sciogliere il potenziale conflitto: un conflitto a cui, di volta in volta, la tecnica giuridica deve offrire risposta, sintetizzando valori conflittuali, poteri plurimi, interessi confliggenti. E l’equilibrio della sintesi giuridica, fra soft e hard 19 Cfr. R. Bin, Soft law, no law, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, cit., p. 39.

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law, non può non dipendere, proprio da quell’attività riconoscimentale del diritto, intesa anche quale strumento di critica e dissenso, rispetto alla pluralità e alla duttilità degli strumenti normativi. In tale prospettiva, l’uso della pratica di soft law non sembra poter prescindere comunque da forme di stabilizzazione normativa, nelle quali sembra irrinunciabile il ruolo della mediazione giuridica.

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Diana Sica

L’AUTORAPPRESENTAZIONE DEL DIRITTO FRA VALORI MORALI E RAGIONI ESCLUDENTI

«Assumo che il diritto – ogni sistema giuridico che è vigente da qualche parte – esercita necessariamente un’autorità de facto. Ciò comporta che il diritto avanzi la pretesa di essere un’autorità legittima o di essere considerato un’autorità legittima o ambedue le cose»1. Questo passo di Joseph Raz ha il merito di evidenziare come il diritto, nell’ambito di una concezione filosofica liberale, sia dotato di autoreferenzialità ed autorappresentatività, al punto da poter fornire dispositivi normativi capaci di orientare il comportamento umano, evitando di coinvolgere aspetti etici e ideologici. Le argomentazioni morali, i riferimenti a principi e valori, per l’autore, devono restare fuori dall’identificazione del diritto, pena l’incertezza e l’indeterminatezza dei suoi enunciati. In Pratical Reason and Norms Raz descrive le direttive emanate da un’autorità normativa come «ragioni escludenti»2, «ragioni per non agire sulla base di specifiche ragioni soggettive»3, ragioni di secondo livello idonee a sostituire le motivazioni personali che avrebbero orientato l’agire individuale in assenza di un intervento legislativo dell’autorità. Se la validità del diritto venisse rimessa a valutazioni morali, oltre che a criteri oggettivi, essendo la morale, nella concezione raziana, data per intrinsecamente controversa e suscettibile di essere diversamente interpretata, il diritto perderebbe la sua capacità pratica, la sua pretesa di porsi come un modello idoneo ad orientare la condotta dei membri di una comunità. La dottrina raziana, nel momento in cui esclude la compenetrazione del ragionamento morale nei confini del giuridico e attribuisce al diritto un intrinseco carattere autoritativo, finisce col collocarsi entro il solco della razionalità moderna. Così come per Raz 1 2 3

J. Raz, Authority, Law and Morality, in Id., Ethics in the Public Domain. Essays in the Morality of Law and Politics (Revised Edition), Oxford University Press, Oxford 1995, p. 215. J. Raz, Pratical Reason and Norms (with a new postscript), Oxford University Press, Oxford 1990, p. 183. Ibidem.

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gli aspetti valutativi non possono concorrere all’identificazione del diritto, allo stesso modo nel sistema hobbesiano la validità della legge non deriva da un contenuto sostanziale, ma dipende dal fatto che viene emanata dal sovrano: per Hobbes «la legge non è un consiglio, ma un comando»4. La sua validità giuridica non riposa su un contenuto di verità sostanziale, ma sull’autorità del potere costituito da cui promana. Autorità che ha il suo portato di ambivalenza e può essere leggibile in più direzioni. Carl Schmitt ha enfatizzato l’aspetto della decisione al punto da focalizzare le sue riflessioni teoriche sulla figura del sovrano, che erge a «esempio classico di pensiero decisionistico»5, dal momento che in Hobbes «tutto il diritto, tutte le norme e le leggi, tutte le interpretazioni di legge, tutti gli ordinamenti sono sostanzialmente […] decisioni del sovrano e sovrano non è un monarca legittimo o un’istanza competente, ma esattamente colui che decide da sovrano»6. Con questo si ha l’impressione che il filosofo di Plettenberg, volendo flettere il pensiero di Hobbes sulla sua concezione decisionista, finisca con l’opacizzare alcuni aspetti nodali della concezione hobbesiana, come il ruolo dei consociati, l’obbedienza, la razionalità individualistica che si dissolve nella razionalità condivisa. Certamente il Leviatano ha il monopolio della decisione, della produzione giuridica, dell’idea stessa di giustizia, ma il suo potere supremo resta pur sempre ancorato ad «un’auctoritas autorizzante individualistica»7. L’ordine moderno si irradia dall’alto, ma è legittimato dal basso. E pare che questa prospettiva da cui guardare l’autorità sia stata velata ingiustificatamente. D’altronde l’enfasi del momento decisionista trova una sua ulteriore compressione anche nel tipo di obbedienza richiesto dal sovrano: in un momento storico dilaniato dalla guerra civile e dai conflitti religiosi sembra che Hobbes incentri la sua concezione del potere non tanto sulla figura del sovrano, quanto sul contenuto della sovranità8. Alla fine del capitolo XXXVII del Leviatano, quando affronta l’argomento dei “Miracoli e del loro uso”, sostiene che è il sovrano a stabilire la veridicità o meno di un miracolo, ma 4 5

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T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di A. Pacchi e con la collaborazione di A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 219. C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, tr. it., parziale, in Id., Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, pp. 263-264. Per una ricostruzione critica del pensiero di Schmitt si rinvia a S. Pietropaoli, Schmitt, Carocci, Roma 2012. C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, cit., p. 264. Cfr. G. Preterossi, Autorità, il Mulino, Bologna 2002, p. 56. Cfr. A. Catania, Lo Stato moderno. Sovranità e giuridicità, Giappichelli, Torino 1996, pp. 59-64.

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il suddito nel suo foro interno può riservarsi di crederci o non crederci9. Non potendo rintracciare un ordine di verità o di giustizia univoco fra le diverse forze antagoniste, il sovrano non può pretendere un’obbedienza totale, né far valere un contenuto come diritto. Nel momento in cui Hobbes respinge l’obbedienza integrale dei sudditi e separa la coscienza interna dall’azione esterna fa del diritto una ragione escludente capace di neutralizzare il conflitto sociale. Anche nella concezione kelseniana la valutazione politico-morale dei contenuti del diritto è scissa dal riconoscimento della giuridicità: una norma è valida non in virtù di un contenuto di verità e giustizia, ma per la sua appartenenza legittimo-formale al sistema. Com’è noto, nella visione gradualistica kelseniana gli atti giuridici sono rappresentati attraverso l’immagine spaziale di un ordinamento che si sviluppa per piani di diverso livello e la determinazione della validità di una norma discende da un’analisi di tipo formale volta a stabilire se la sua produzione è avvenuta nelle forme e nei limiti prescritti dalla norma superiore10. In tal senso il modello nomodinamico si esplica nel fenomeno dell’autoproduzione del diritto che postula l’autoreferenzialità e la completezza dell’ordinamento giuridico. Il diritto è considerato capace di fornire sempre delle risposte conclusive anche quando una norma giuridica viene posta in essere in modo difforme dalle prescrizioni formali della norma di grado superiore oppure esulando dai limiti contenutistici da essa fissati11. Per Kelsen il contrasto fra atti giuridici di grado diverso è relativo e apparente. Relativo perché attiene al profilo procedurale. Apparente perché non è da intendersi nel senso di una contraddizione logica fra norme di livello diverso. La validità di una norma giuridica non conforme alla norma superiore è giustificata dalla stessa norma regolante che anziché sancire, essa stessa, l’inesistenza di una simile norma, collega a quell’eventualità l’instaurazione di un procedimento volto ad annullare la norma viziata12. È il diritto stesso che risolve il conflitto fra norme di grado diverso. Il problema del contenu9

T. Hobbes, Leviatano (1651), cit., p. 362: «Un privato ha sempre la libertà (dal momento che il pensiero è libero) di credere o di non credere in cuor suo alle azioni presentate come miracoli, considerando il beneficio che può derivare dalla credenza degli uomini […]. Ma quando si viene alla pubblica dichiarazione di quella fede, la ragione privata deve sottomettersi a quella pubblica, cioè al luogotenente di Dio». 10 Cfr. H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), Einaudi, Torino 2000, pp. 95-116. 11 Ivi, pp. 112-116. 12 Per una ricostruzione critica del concetto di validità giuridica in Hans Kelsen si rinvia a A. Catania, La validità giuridica. Normativismo e Realismo nel secolo ventesimo: Kelsen, Hart, Ross e Olivecrona, Gentile, Salerno 1994, pp. 21-58.

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to è risolto attraverso la procedura. Ciò nonostante la dinamicità dell’ordinamento impedisce di vedere nel sistema normativo kelseniano un ordinamento giuridico autoreferenziale in senso forte13. La struttura dinamico-autoritativa dello Stufenbau fa trasparire comunque la politicità del diritto, l’elemento decisionale, l’intervento innovativo dell’uomo. Ben lontano dal rappresentare «un cieco formalismo»14, come vorrebbe Carl Schmitt, l’ordinamento giuridico kelseniano non configura affatto un meccanismo puramente normativo perché la norma inferiore non è mai una mera applicazione della norma superiore, nel senso che pur essendo posta in essere secondo le modalità stabilite dalla norma regolante, presenta sempre un surplus innovativo. La creazione di una norma concreta comporta sempre un’azione, una scelta, un comportamento dell’uomo. In questo modo Kelsen congiunge l’autoproduzione del diritto alla sua effettualizzazione. Certamente a livello prassiologico è proprio questo ciò che si verifica: gli operatori giuridici devono adattare la fattispecie legislativa al caso concreto e in questo processo di sussunzione l’elemento della discrezionalità viene inoculato nel diritto. Tuttavia questo comprime inevitabilmente la capacità pratica del giuridico. Al contrario la lettura raziana della validità del diritto, distinguendo l’applicabilità dall’appartenenza, almeno nei suoi presupposti teorici, fa salva la pretesa di autorità del giuridico. Nel saggio The Nature of Legal Positivism Raz osserva che «una teoria generale del diritto è accettabile soltanto se i criteri da essa adottati per identificare il contenuto del diritto e verificare la sua esistenza dipendono esclusivamente da fatti relativi al comportamento umano, capaci di essere descritti mediante termini non valutativi e applicati senza fare ricorso ad argomentazioni morali»15. Come pure in Authority, Law and Morality l’autore mette in luce che «tutto il diritto deriva da una fonte»16 e che «il diritto deriva da una fonte se la sua esistenza e il suo contenuto possono essere identificati soltanto attraverso il riferimento a fatti sociali, senza ricorrere ad alcun argomento sostanziale»17. Per Raz dunque gli aspetti valutativi non possono rappresentare una condizione di validità del diritto: quando accade che alcune norme autorizzano i giudici ad appellarsi ai principi morali, non li 13 Cfr. A. Catania, Manuale di teoria generale del diritto, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 49-50. 14 C. Schmitt, Il custode della costituzione (1931), tr. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981, p. 67. 15 J. Raz, The Nature of Law and natural Law, in Id., The Authority of Law. Essays on Law and Morality, Claredon Press, Oxford 1979, pp. 39-40. 16 J. Raz, Authority, Law and Morality, cit., pp. 210. 17 Ivi p. 211.

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rendono con ciò giuridicamente validi, né li rendono condizioni di validità di altre norme, ma semplicemente li rendono applicabili e vincolanti nella risoluzione di una particolare controversia. Le norme giuridiche vincolano i funzionari, ma non tutto ciò che orienta i funzionari è giuridicamente valido, nel senso che appartiene al diritto di quella comunità. Il rinvio del diritto ad argomenti valutativi, di per sé inevitabile nella pratica giurisprudenziale, sarebbe un rinvio esterno, in sostanza, un rinvio ad un altro sistema, quello della morale, con cui il diritto avrebbe contingentemente delle relazioni18, così come accade nei rapporti con gli ordinamenti giuridici stranieri19. La distinzione fra validità come appartenenza e validità come applicabilità20 permette a Raz, da un lato di giustificare l’ampio ricorso da parte dei giudici ad argomenti valutativi, dall’altro di non compromettere l’originaria ratio funzionalista della norma di riconoscimento, dal momento che i valori morali sostanziali, intrinsecamente incerti e mutevoli, restano fuori dai criteri identificativi del diritto. Come è noto, negli intenti di Herbert Hart la norma di riconoscimento viene introdotta nel sistema normativo perché assolve la funzione cardine di rimediare all’incertezza circa il giuridico che si presenta nel passaggio da una società semplice, ove l’individuazione del diritto non presenta problematicità, ad una società via via 18 Cfr. V. Giordano, Il positivismo e la sfida dei principi, ESI, Napoli 2004, p. 198. 19 A differenza del rinvio al diritto straniero, che obbliga gli operatori giuridici ad applicare determinate normative, il rinvio alla sfera morale lascerebbe al potere decisionale del giudice ampi margini di discrezionalità nell’individuazione della norma da applicare al caso concreto. In questo iato si colloca la critica di Juan Moreso, il quale sottolinea l’inadeguatezza della distinzione raziana tra appartenenza ed applicabilità rispetto al ragionamento morale: se il sistema morale, nella ricostruzione raziana, viene concepito alla stregua del diritto straniero o del sistema metrico decimale, per l’autore la porta della discrezionalità non dovrebbe restare aperta soltanto nell’individuazione degli standard morali. Cfr. J. Moreso, In Defence of Inclusive Legal Positivism, in P. Chiassoni (a cura di), The Legal Ought, (Atti del Congresso IV Mid-Term, Genova, 19-20 luglio, 2000), Giappichelli, Torino 2001, pp. 37-63. Esiste una traduzione italiana a cura di E. Pariotti, in “Ars Interpretandi”, 6, 2001, pp. 335-365. 20 L’origine di questa distinzione nel percorso dell’autore risale a J. Raz, The Identity of Legal Systems, in Id., The Authority of Law. Essays on Law and Morality, cit., pp. 101-102 e pp. 119-120. Per una letteratura critica di riferimento si rinvia principalmente a J. Coleman, Incorporationism, Conventionality, and the Pratical Difference Thesis, in Id. (a cura di), Hart’s Postscript. Essay on the Postscript to the concept of Law, Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 404-405; E. Bulygin, Tempo e Validità, in Id., Norme, Validità, Sistemi normativi (1982), tr. it. a cura di R. Guastini, Giappichelli, Torino 1995, pp. 65-88; J. Moreso, In Defence of Inclusive Legal Positivism, cit., pp. 340-342; V. Giordano, Il positivismo e la sfida dei principi, cit., pp. 197-199.

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più complessa21. Certamente Hart nel poscritto osserva che non ha mai posto tra gli scopi della norma fondamentale l’esclusione di ogni incertezza e che, al contrario, ha sempre sostenuto la possibilità di tollerare un margine di indeterminatezza, al fine di rendere maggiormente consapevole l’emissione di alcune decisioni giudiziarie22. Tuttavia, argomentando in questo modo, sembra finire inevitabilmente per opacizzare la capacità di giustificazione pratica del diritto: nel momento in cui ammette che in alcuni ordinamenti giuridici, come ad esempio gli Stati Uniti, la norma fondamentale, oltre a riconoscere criteri fattuali, esercita pressioni sostanziali sul tenore della legislazione, selezionando in base al contenuto oltre che al pedigree23, annoda a doppio filo il criterio dell’identificazione della validità giuridica a valutazioni, morali, soggettive e controverse. Insomma, condizionando l’identificazione del diritto alle argomentazioni valutative dei giudici, finisce con l’incorporare nel giuridico proprio quel soggettivismo che il diritto stesso avrebbe dovuto regolamentare, «rendendo impraticabile, in questo modo, anche una concezione minimale dell’autorità pratica del diritto»24. D’altro canto anche l’approccio esclusivista finisce col prestare il fianco all’inevitabile discrezionalità dei processi interpretativi dei giudici dal momento che una direttiva non può mai essere linguisticamente determinata25. Il linguaggio giuridico, alla stregua di qualsiasi altro canale 21 H.L.A. Hart, Il concetto di diritto. Nuova edizione con un poscritto dell’autore (1961), tr. it. a cura di M.A. Cattaneo, Einaudi, Torino 2002, p. 112: «La forma più semplice di rimedio per l’incertezza del sistema di norme primarie è l’introduzione di quella che chiameremo “una norma di riconoscimento”. Questa specifica alcune caratteristiche, il cui possesso da parte di una certa norma è considerato come un’indicazione affermativa e decisiva circa la sua qualificazione come una norma del gruppo che deve essere sostenuta dalla pressione sociale esercitata da questo». 22 Ivi, pp. 322-323: «È certamente vero che una funzione importante della norma di riconoscimento consiste nel favorire la certezza con cui il diritto può essere riconosciuto. Questo non si potrebbe ottenere se i criteri introdotti per il diritto non soltanto facessero sorgere questioni controverse in qualche caso, ma le facessero sorgere anche in tutti o in molti casi. Ma l’esclusione di ogni incertezza a qualsiasi costo in altri valori non è una mèta che io abbia contemplato per la norma di riconoscimento». 23 Ibidem. 24 V. Giordano, A. Tucci, Razionalità del diritto e poteri emergenti, Giappichelli, Torino 2013, p. 62. 25 Riguardo al problema della vaghezza del linguaggio giuridico cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., pp. 146-159. In particolare l’autore osserva: «Anche quando si usano norme generali formulate verbalmente possono saltare fuori in particolari casi concreti delle incertezze relative al tipo di comportamento da queste richiesto. Le situazioni di fatto generali non ci attendono già distinte l’una

D. Sica - L’autorappresentazione del diritto fra valori morali e ragioni escludenti 147

linguistico, ha una struttura irriducibilmente aperta. Contendendo termini generali non può che essere polisenso, indeterminato, riconducibile a diversi risultati esegetici. Certamente il conflitto etico rende ben più soggettivo il momento interpretativo del diritto rispetto a quanto scaturisce dall’indeterminatezza semantica, perché il bilanciamento dei valori richiede il ricorso al ragionamento morale e l’adozione di argomentazioni sostanziali, ma è anche vero che la razionalità metodica esclusivista, implicando un’operazione artificiale di continua separazione degli aspetti formali da quelli contenutistici, mostra il limite di una rigidità costruttiva eccessiva rispetto alla concretizzazione del diritto: se la pratica giudiziaria include criteri morali, una corretta metodologia dovrebbe darne atto. D’altra parte, fino a che punto il ricorso al ragionamento morale è veramente capace di contenere, di arginare la discrezionalità interpretativa, nel senso rivendicato dagli inclusivisti? Se gli operatori giuridici interpretano il diritto facendo riferimento ai valori e ai principi che pervadono l’ordinamento, dall’altra, e contrassegnate come esempi della norma generale, la cui applicazione è in questione: né la norma stessa può farsi avanti reclamando i propri esempi. In tutti i campi dell’esperienza, non soltanto in quello delle norme, vi è un limite, insito nella natura del linguaggio, alla guida che il linguaggio in termini generali può offrire» (p. 148). Raz prova a difendere la capacità pratica del diritto adducendo che «una ragione escludente può escludere tutte o soltanto una determinata classe di ragioni di primo livello. L’ambito di applicazione di una ragione escludente coincide con la classe di ragioni che essa esclude. Proprio come ogni ragione ha una forza intrinseca […] così ogni ragione di secondo livello, oltre ad una forza specifica, ha un ambito di applicazione intrinseco su cui possono influire ragioni in grado di influenzare tale ambito di applicazione. Cfr. J. Raz, Pratical Reason and Norms (with a new postscript), cit., pp. 151-153. Una ricostruzione critica della replica raziana si rinviene in a A. Schiavello, Il positivismo giuridico dopo H.L.A. Hart. Un’introduzione critica, Giappichelli, Torino 2004, pp. 132134 dove l’autore osserva che l’argomentazione raziana non è del tutto chiara e può essere interpretata in almeno due modi differenti. Secondo una prima interpretazione le ragioni di secondo grado non rimpiazzerebbero necessariamente tutte le ragioni di primo livello, ma soltanto quelle che ricadono nel loro ambito di applicazione. Per l’autore se è questo il significato da attribuire alla linea difensiva raziana allora essa potrebbe essere efficace soltanto qualora fosse possibile determinare apriori l’ambito di applicazione di una direttiva e non dovesse, invece, essere precisato e circoscritto di volta in volta in relazione al verificarsi di nuove situazioni concrete. Una seconda chiave di lettura potrebbe essere la seguente: il fatto che una ragione escluda determinate ragioni di primo livello non implica che il suo ambito di applicazione sia predeterminato in quanto potrebbero sussistere ulteriori ragioni di primo grado che ne restringono la portata. Per l’autore, se Raz intende sostenere questa tesi, allora deve riconoscere che una ragione può essere escludente soltanto prima facie perché si presta ad essere sempre bilanciata con le ragioni di primo livello.

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allora, la società rischia di essere considerata statica e perfettamente giuridicizzata: non c’è differenza tra ciò che si vorrebbe ottenere attraverso il diritto e ciò che già si fa26. Ma il sistema sociale non è sempre omogeneo. In ogni comunità le persone, nella loro irripetibile individualità, rappresentano il cuore pulsante della vita, dei valori, delle scelte, dei bisogni sociali. Entrano in gioco con l’altruità, l’estraneità, l’esistenza di società diverse e in questo processo di azioni e reazioni a catena costruiscono e decostruiscono la loro identità valoriale.

26 Cfr. A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 30.

PARTE SECONDA

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Geminello Preterossi

LA SFIDA DELL’IMMEDIATEZZA. UNA RIFLESSIONE META-GIURIDICA SULLA CRISI DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

Affronterò alcuni aspetti del rapporto tra norma e violenza nella dimensione giuspolitica globale sulla base di una constatazione: c’è un deficit di teoria critica all’interno del paradigma disciplinare del diritto internazionale, nonostante sia la disciplina dallo statuto più problematico e che meno può ripararsi in una dimensione puramente tecnica del diritto. Mi concentrerò su quei (pochi) approcci che, pur nella loro radicale differenza di impostazione, non hanno paura di riconoscere le implicazioni politiche e simboliche implicite nell’uso del diritto nelle relazioni internazionali, al di là di ogni riparo formalista. Muoverò dalla sfida aspra del ‘pluriverso politico’ schmittiano, per svolgere poi alcune brevi considerazioni sul compromesso post-moderno tra universalismo e realismo prospettato nella ricostruzione storico-modellistica del diritto internazionale di Martti Koskenniemi e sulla revisione delle possibilità di un costituzionalismo mondiale operata di recente da Habermas. Se ci si sottrae alla presa dell’ideologia globalista mainstream (nelle sue varie declinazioni) e si prende sul serio la crisi globale che stiamo vivendo, non si può non constatare l’impasse nel quale anche il diritto internazionale contemporaneo si trova, caricato di aspettative universalistiche che strutturalmente fatica ad adempiere, piegato spesso a forzature e applicazioni di parte. Così, ci troviamo di fronte a un ‘doppio movimento’: da un lato, dobbiamo constatare l’impossibilità di espungere un punto di vista normativo anche da un approccio realistico e demistificante al diritto e alle relazioni internazionali, che non voglia ridursi alla passiva registrazione/legittimazione di ciò che accade. Dall’altro, l’astrattezza autoreferenziale e le ambiguità di un normativismo cosmopolitico che prescinda costitutivamente dalla questione dell’effettività e delle garanzie del diritto internazionale e dalla dimensione agonistica, politica, dei diritti, rischia di delegittimare del tutto il diritto e le istituzioni internazionali ‘possibili’.

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1. La produttività politica dell’inimicizia Quella di ‘violenza’ è una nozione politicamente rilevante quando si manifesta a vario titolo quale violenza pubblica e non privata, ovvero come conflitto collettivo per il potere che almeno potenzialmente metta in gioco l’esistenza e l’identità di un gruppo umano determinato. Esiste un nesso tra violenza, potere politico e forma giuridica: il potere ‘legittimo’ è violenza tenuta a freno, farmaco e malattia. Ciò significa che il ‘politico’, anche se istituzionalizzato e normativizzato (per quanto possibile), ha sempre in sé un potenziale di sfrenamento, e che il diritto quale principale ‘freno’ è sempre minacciato dalla forza di cui pure necessita ed esposto alla strumentalizzazione1. Il presupposto – spesso occultato – di questo circolo è la produttività politica dell’inimicizia (in senso funzionale, non normativo). Nella dimensione internazionale, il carattere elementare e allo stesso tempo vincolante di questa ‘sfida dell’immediatezza’ – che condiziona l’effettività e la credibilità di regole giuridiche e principi – emerge con particolare evidenza. Infatti, il fenomeno dell’ostilità fa emergere i presupposti politici più aspri del diritto, che ne smentiscono la presunta proprietà auto-generativa e le immagini troppo rassicuranti. È vero che – come insegnava Bobbio – il diritto ha, quale suo compito principale e imprescindibile, quello di assicurare la pace (intesa innanzitutto come ‘sicurezza’), risolvere i conflitti che la minacciano. Ma ciò non significa affatto – come Bobbio stesso ha messo in luce – che esso sia aproblematicamente ‘pacifico’, neutrale, sconnesso dalla forza2. Il diritto ordina il caos e limita la violenza, se riesce a commisurarsi a questa, assumendone all’interno del proprio dispositivo la sfida. L’ostilità è da un lato l’altro del diritto in quanto ‘ordinamento della sopravvivenza’, situazione normale. Ma dall’altro è anche la sua matrice genetica, il suo ‘problema’, non trattabile attraverso astrazioni o procedure che già presuppongono la soluzione, ovvero una pacificazione condotta con successo e di misura adeguata. L’ostilità spiega per tanti aspetti la fun1

2

Sull’eccedenza del ‘politico’ rispetto alle forme normative e le possibili conseguenze paradossali in termini di ri-teologizzazione del diritto insite nel rapporto contraddittorio – ma tutto interno alla modernità – tra sovranità, sovranazionalità e diritti umani, cfr. J.F. Kervégan, Souveraineté, État de droit, supra-nationalité: un rapport contradictoire?, in P. Brunet, V. Campeil-Desplats, D. De Béchillon, E. Millard, L’architecture du droit: Mélanges en l’honneur de Michel Troper, Economica, Paris 2006, pp. 553 e ss. Cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1996, pp. 478 e ss., pp. 520 e ss.

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zione del diritto. Ciò non significa che il diritto promuova l’ostilità, perché al contrario la sua vocazione è l’ordine, ma proprio la centralità della ‘sicurezza’ e della preservazione della vita impongono alla forma giuridica di sporgersi sul crinale del conflitto estremo, attrezzandosi ad esso, introiettandone la ‘lezione’. A Carl Schmitt va riconosciuto il merito teorico di aver fissato come pochi altri lo sguardo sul ‘volto di Gorgone’ del potere e del conflitto ‘estremi’. Questo riconoscimento non implica affatto necessariamente ‘adesione’ ai suoi assunti ideologici e a determinate opzioni di ‘politica del diritto’. Ma implica sapere, andando ‘oltre Schmitt’, che se non si vuol subire la nemesi di Gorgone, occorre conoscere il suo volto e farsene carico. Sul piano internazionale, implica mettere in discussione constantemente l’autonarrazione ideologica dell’Occidente. Il criterio del ‘politico’ serve in Schmitt a ‘salvare’ la nozione di unità politica, sottraendosi alla tenaglia tra Stato continentale europeo (in crisi) e ipotetico ‘ordine mondiale’ (sintomo e mezzo di un’impostazione ideologica che produce la crisi). L’universalismo spoliticizzato si riduce a un’utopia spontaneistica, che lungi dall’abolirli occulta i reali rapporti di potere: «È però facile chiedersi a quali uomini toccherebbe il potere che è legato ad una centralizzazione economica e tecnica estesa a tutto il mondo. Non si può certo rispondere a questa domanda sollevando la speranza che in tal caso tutto ‘andrebbe da sé’, che le cose ‘si amministrerebbero da sé’ e che sarebbe superfluo un governo di uomini sopra altri uomini, poiché allora gli uomini sarebbero assolutamente ‘liberi’: infatti ciò che ci si chiede è proprio per che cosa essi diventano liberi»3. Lo Stato mondiale – o, più propriamente, un ordinamento omogeneo del globo, alla Kojéve – per Schmitt������������������������������������������������������������������� è volontà di potenza senza soggettività, senza possibilità di rapporto con l’Altro. Per quanto già nel Concetto di ‘politico’ Schmitt abbia colto lucidamente i prodromi della crisi dello jus publicum europaeum e della politicizzazione dell’umanità, è solo con il saggio sul passaggio al ‘concetto discriminatorio di guerra’ del 19384 e poi, più sistematicamente, con il Nomos della Terra5, che le conseguenze per il diritto internazionale classico dell’avvento 3 4 5

C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Id., Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1970, p. 143. Cfr. C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, tr. it. e cura di S. Pietropaoli, Prefazione di D. Zolo, Laterza, Roma-Bari 2008. Sulla teoria giusinternazionalistica di Schmitt, anche nell’ottica delle sue possibili applicazioni alla politica globale e al diritto internazionale contemporaneo, cfr.: K.J. Shapiro, Carl Schmitt and the intensification of politics, Rowman and Little-

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delle nuove guerre novecentesche – e della loro paradossale ideologia antibellica – vengono colte in tutta la loro portata. Nel Nomos della Terra Schmitt chiarisce esemplarmente il ruolo giocato dallo Stato moderno quale forza portante (per quanto non esclusiva e in concorrenza con altre, ma in definitiva dotata di spinta propulsiva prevalente) nella definizione di un nuovo modello di diritto internazionale di natura ‘interstatale’.Si trattava di un diritto ‘europeo-moderno’, che si affrancava ‘concettualmente’ dal paradigma della ‘guerra giusta’, di eredità medievale, così come dalla tradizione romanistica. Tale mutamento di paradigma fu possibile sulla base di un assetto territoriale che consentì un ordinamento spaziale concreto, basato sull’equilibrio tra gli Stati in Europa, avendo sullo sfondo gli immensi spazi liberi del Nuovo Mondo, aperti alla conquista e allo sfruttamento perché collocati al di fuori delle regolarità interne dello jus publicum europaeum.6 Esso rappresentò certamente un significativo esempio di ‘razionalizzazione possibile’ – cioè una forma di effettiva limitazione della violenza – ma sulla base di una netta asimmetria tra spazi europei ed extra-europei. Uguaglianza e diseguaglianza si intrecciano e presuppongono anche nel diritto moderno, poiché vincolate a un doppio livello di inclusione/esclusione, interno/esterno: quello tra gli Stati, e quello che definisce una linea divisoria tra spazi europei e noneuropei, al fine di preservare l’eurocentrismo e di consentirne, per certi aspetti contraddittoriamente, almeno per i suoi effetti ‘detronizzanti’ sul lungo periodo, la proiezione ‘oceanica’. Tale doppio livello dello jus publicum europaeum, terrestre e marittimo, politico-territoriale e commerciale, era implicito nel rapporto – problematico ma costituivo – tra sovranità continentali e potenza insulare inglese. Nell’ambito di quella che Schmitt non esita a chiamare la ‘famiglia’ degli Stati europei, il passaggio dalla guerra ‘giusta’ al nemico ‘giusto’ (ovvero quello legittimo, statuale, incardinato a uno spazio pubblico esclu-

6

field, Lanham 2008; L. Odysseos, F. Petito (a cura di), The International Political Thought of Carl Schmitt, Routledge, London-New York 2007; H. Kleinschmidt, Carl Schmitt als Theoretiker der internationalen Beziehungen, Studien zur internationalen Politik, Heft 2, “Institut für internationale Politik”, Hamburg 2004; M. Koskenniemi, The gentle civilizer of nations, Cambridge University Press, Cambridge 2002 (in particolare, pp. 415-437, 453-454, 459-465). Sul concetto di nomos, cfr. anche P.P. Pattloch, Recht als Einheit von Ordnung und Ortung, Pattloch, Aschaffenburg 1961 e P.P. Portinaro, Appropriazione, distribuzione, produzione, Franco Angeli, Milano 1983; sulla dottrina dei ‘grandi spazi’, cfr. R. Voigt, Grossraum-Denken, Steiner, Stuttgart 2008. Cfr. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, tr. it a cura di E. Castrucci e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, p. 163.

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sivo) si accompagna alla deteologizzazione dei conflitti e alla loro ‘messa in forma’. Schmitt ricorda come già nel Medioevo, pur in presenza di un’autorità spirituale comune e universalmente riconosciuta, si palesasse la possibile connessione tra guerra ‘giusta’ e guerra ‘totale’: il Concilio Lateranense del 1139, che aveva vietato l’uso di armi distruttive (per l’epoca) quali frecce e macchine a lunga gittata tra principi e popoli cristiani, tentando apparentemente una limitazione della violenza, venne contraddetto nella sua interpretazione applicativa, che prevedeva una deroga nel caso di ‘guerra giusta’ (cioè nel caso che una ‘parte’ si ritenesse e accreditasse nel ‘giusto’)7. Le guerre confessionali dei secoli XVI e XVII porteranno alle estreme conseguenze tali germi, trasformando la guerra giusta, inevitabilmente soggetta a dinamica di assolutizzazione, in guerra civile. Naturalmente, la guerra tra Stati non era priva di violenza e di potenzialità di distruzione. Tuttavia, il fatto che essa fosse vincolata ad un’unica soggettività agente, a eserciti identificabili, a chiare distinzioni territoriali, a un monopolio della politicizzazione che escludeva mobilitazioni indirette in nome della verità, cioè collocate al di fuori del circuito della responsabilità politica diretta sintetizzata dal criterio ‘protego ergo obligo’, ne ridimensionava la carica polemica, mantenendola a quel livello di bassa tensione permanente che, come sappiamo, nell’ottica schmittiana non può né deve essere considerata eliminabile. Solo l’unità (costruita) che nega le parti ‘totali’, assumendosi l’onere di disarmarle materialmente e ideologicamente, può costituire un ‘freno’. La nozione di guerra che Schmitt difende è una sorta di ‘resto’ – in qualche modo funzionale a uno sfogo ‘misurato’ dell’ostilità – che non è qualificabile né come guerra di religione e di fazione, né come guerra coloniale, anzi è reso possibile e acquisisce il suo senso ‘giuridico’ proprio dalla loro esclusione. Escludendo dall’orizzonte del ‘politico messo in forma’ le discriminazioni totalizzanti (i nemici come ‘criminali’, ‘pirati’, i popoli indigeni come ‘selvaggi’), si crea in Europa lo spazio concreto e simbolico per un concetto di nemico «capace di assumere una forma giuridica»8. Sviluppando un’analogia perlomeno singolare, anche se suggestiva, tra guerra moderna e duello (classico prodotto della civiltà tradizionale dell’onore), Schmitt intende sottolineare come la ‘personalità fittizia’ degli Stati, il loro essere incardinati in persone fisiche (i sovrani) che rappresentano ‘persone pubblico-morali’, consente un confronto e un conflitto tra ‘partner’ che non implica la demonizzazione del ‘nemico’: «Là dove il duello viene ricono7 8

Ivi, pp. 164-165. Ivi, p. 166.

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sciuto come istituzione, la giustizia di un duello consiste proprio nella netta separazione della justa causa dalla forma, dell’astratta norma di giustizia dall’ordo concreto. Un duello, in altre parole, non è giusto per il fatto che in esso vince sempre la giusta causa, ma perché nella tutela della forma sono assicurate determinate garanzie»9. La giustizia delle guerra non è più inquadrabile nell’ottica teologico-morale della colpa, non è un problema di ‘contenuti’. Le uniche guerre ‘giuste’ sono quelle condotte da nemici ‘giusti’, cioè ‘legittimi’ titolari dello ius belli, nell’ambito di un sistema complessivo ed egualitario di reciprocità, non derogabile né delegittimabile unilateralmente. I soggetti del diritto internazionale hanno nello jus publicum europaeum la qualità ‘istituzionale’ e ‘strutturale’ di ‘entità politiche’, che ne consente la connessione agli altri attori ‘analoghi’ del diritto internazionale, fornendo un realistico vincolo minimale, escludendo la qualificazione del conflitto bellico in termini di tradimento e criminalizzazione. Tale ‘evidenza pubblica’ delle soggettività politiche internazionali è per Schmitt un’esigenza strutturante ineludibile, da adempiere nuovamente anche dopo la crisi del diritto eurocentrico, nelle forme possibili. Schmitt non si limita a cogliere il dato ‘formale’ insito nel concetto di sovranità e la ‘geometria’ che consente, ma li problematizza in chiave spaziale. Quello dell’auto-obbligazione e dei trattati è un filo sottile, di per sé non sufficiente a spiegare il funzionamento effettivo dell’ordinamento internazionale europeo-moderno. Come nello ‘stato di eccezione’ interno sussiste ancora un minimum di Recht, di ordinamento, sebbene il diritto in senso normativistico (Gesetz) sia sospeso, così lo stato di natura interstatale infraeuropeo è anarchico (nel senso che non c’è un’autorità terza e superiore), ma non privo di diritto10. Schmitt adotta la stessa logica tutte le volte in cui si concentra sulle situazioni-limite: tende il filo della giuridicità fino all’estremo, ma senza spezzarlo (o almeno tale è la sua rivendicazione). Ciò consente di guadagnare non solo un altro sguardo sui meccanismi interni al giuridico, smontandoli, ma proprio un altro ‘concetto di diritto’, intrinsecamente ‘politico’. Tale politicità è connessa a una determinazione per ‘confini’ precisi di uno spazio relativamente omogeneo, «sullo sfondo di immensi spazi aperti dotati di un particolare tipo di libertà»11 (ovvero, di una libertà diversa da quella possibile entro lo spazio europeo, una libertà ‘naturale’ espressiva di un’energia che di fatto può dispiegarsi senza vincoli). La ‘forza vincolante’ è propria dell’ordinamento spaziale eurocentrico, 9 Ivi, p. 167. 10 Ivi, p. 173. 11 Ivi, p. 175.

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e i sovrani sono compresi all’interno di esso: lo spazio europeo concretamente ordinato – e asimmetrico rispetto al suolo non europeo – funge da ‘presupposto’ del diritto interstatale. Addirittura, Schmitt si spinge a sottolineare, non senza contraddizioni, dopo aver ripetutamente insistito sulla tabula rasa dell’ordine pre-moderno determinatasi con le guerre di religione e la crisi della Respublica christiana, come sussistessero ancora, nel sostrato dello jus publicum europaeum, forti vincoli tradizionali (di natura ecclesiastica, sociale ed economica)12, alleggerendo la portata volontaristica implicita nel modello dell’auto-obbligazione incardinato sulla sovranità (o di una sua lettura puramente formale). La scoperta della funzione radicante dello spazio per i raggruppamenti umani, la consapevolezza della necessità realistica di ‘linee di amicizia’ che governino l’ostilità, hanno consentito a Schmitt di cogliere con profetica acutezza, per contrasto, la crisi del mondo globale che stiamo vivendo, o perlomeno la sua logica tendenziale: «Se le armi sono in modo evidente impari, allora cade il concetto di guerra reciproca, le cui parti si situano sullo stesso piano. È infatti proprio di tale tipo di guerra il fatto che si dia una certa determinata chance, un minimo di possibilità di vittoria. Se questa viene meno, l’avversario diventa soltanto oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente il contrasto tra le parti in lotta. Chi è in stato di inferiorità sposterà la distinzione tra potere e diritto negli spazi del bellum intestinum. Chi è superiore vedrà invece nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis non è più realizzabile»13. Le conseguenze del potenziamento dei mezzi di annientamento e dello sradicamento spaziale della guerra, gli effetti della combinazione tecnica-finanza-industria bellica, l’ascesa concomitante di un’ideologia opacamente discriminatoria, hanno aperto lo scenario di una inusitata e per ora non ordinabile distruttività. Il vero rischio per l’umanità contemporanea è rappresentato dalla combinazione, che corrisponde a una logica ineluttabile, tra distruttività assoluta e assoluta delegittimazione, perché una forma politicamente realistica e quindi in qualche modo delimitata di ostilità non è in grado di sostenere le implicazioni ‘spirituali’ – in termini di mentalità e auto-rappresentazione – determinate dalla potenza delle nuove tecnologie militari: «(…) armi extraconvenzionali presuppongono uomini extraconvenzionali (…). L’estremo pericolo non risiede perciò neppure nell’esistenza dei mezzi di annientamento o in una premeditata malvagità 12 Ivi, p. 174. 13 Ivi, p. 430.

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dell’uomo. Risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini – cioè le loro vittime e i loro oggetti – anche moralmente. Devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un disvalore assoluto. Altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri (…). L’inimicizia diventa così terribile che forse non è più nemmeno lecito parlare di nemico e inimicizia; entrambi questi concetti sono addirittura condannati e banditi formalmente prima che possa cominciare l’opera di annientamento (...) Solo la sconfessione della vera inimicizia spiana la strada all’opera di annientamento di una inimicizia assoluta»14. Si delinea così la figura conturbante di un nuovo nemico ‘oltre l’inimicizia politica’, ‘oltre il politico passibile di messa in forma’: una sorta di Altro assoluto e post-politico, de-soggettivato in quanto mero ‘oggetto’ meritevole di annichilimento etico-tecnologico, condannato necessariamente a soccombere, ad essere inerme di fronte a chi ha i mezzi per distruggere sottraendosi alla qualificazione di ‘parte in causa’, di attore (con e come gli altri) di un conflitto a cui si appartiene. Nel mondo contemporaneo i nemici sono contemporaneamente interni/esterni; la distinzione tra criminale e nemico è divenuta labile; le guerre si sono fatte ‘asimmetriche’, sia nel senso della disparità abissale di forza tecnologica ed economica tra le parti, sia nel senso di una qualificazione ‘moralistica’ priva di reciprocità che distingue, il più delle volte strumentalmente, tra guerre (quelle degli altri) e operazioni di polizia (quelle delle grandi potenze mondiali); i civili – come già annunciato dalle due guerre mondiali – sono sempre più gli ‘oggetti reali’ delle forme attuali della violenza bellica, i cui effetti sui ‘non militari’ non sono residuali o collaterali, ma strutturali (l’arte della guerra non è oggi concettualizzabile se non come produzione del ‘terrore’ in quanto tale)15. In una prospettiva schmittiana ‘critica’, per arrestare tale deriva occorrerebbe ricostruire le condizioni materiali e politiche della reciprocità politica (intesa non in senso idealistico, ma come articolazione concreta e bilanciamento di grandi ordinamenti spaziali). Schmitt chiude il Nomos della Terra riprendendo l’esempio eloquente, cui abbiamo già fatto riferimento, del divieto delle armi a distanza varato dal secondo Concilio Lateranense. L’interpretazione della Glossa che ne tradisce l’istanza di limitazione della violenza, in nome del diritto della parte che si ritiene nel giusto a usare ogni 14 C. Schmitt, Teoria del partigiano, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2005, pp. 130-131. 15 Cfr. A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007.

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mezzo efficace contro la parte ‘ingiusta’, sembra, dice Schmitt, «di fatto inconfutabile e fa riconoscere un nesso essenziale»16. Con questa sintetica notazione, Schmitt vuole ancora una volta mettere in guardia dallo scivolamento sul piano inclinato della de-territorializzazione e moralizzazione dell’ostilità. Non è possibile alcuna dimostrazione incontrovertibile, alcun vincolo argomentativo quando le ‘ragioni etico-polemiche’ definiscono l’identità di una ‘parte assoluta’. Tale violenza senza radicamento spaziale, tale ostilità senza diritto perché pretende di averne troppo, serba una tendenza esponenziale e inarginabile. L’unico modo per fermarla è romperne la logica, delegittimarla complessivamente, reagire all’omologazione della Terra. Schmitt ci mostra, sgradevolmente ma con validi motivi, che non si può rimuovere l’ipoteca dell’ostilità, né essere amici di tutti. Tuttavia, la sfida per un pensiero democratico né astratto né irresponsabile è quella di provare a immaginare – al di là delle ossessioni schmittiane – un’amicizia politica che guardi in faccia i conflitti, accetti l’irriducibile pluralità del mondo, ma non trovi la sua unica ragione di esistenza nel ‘nemico’. 2. Tra universalismo e realismo, utopia e apologia Martti Koskenniemi chiude la sua importante opera sul pensiero giusinternazionalistico moderno, The Gentle Civilizer of Nations, con un’osservazione che mi sento di sottoscrivere in pieno, e che esprime la contraddizione principale in cui ci troviamo: «L’universalità sembra ancora una parte essenziale del pensiero progressivo – ma implica anche una logica imperiale dell’identità: io ti accetto, ma solo alla condizione che possa pensare di te ciò che penso di me stesso. Ma il riconoscimento della particolarità può essere un atto di condiscendenza, e al peggio un preludio di rigetto»17. Ma è possibile una via alternativa tra l’arroganza dell’universalità e l’indifferenza della particolarità? Se c’è, non può che essere una via politico-culturale, critica e autoriflessiva, non puramente tecnica. La ‘forma’ del diritto – anche di quello internazionale – serve, è necessaria, ma non basta a se stessa. Il rischio del corto-circuito tra apologia e utopia – della strumentalizzazione a fini apologetici dell’utopia, e del travestimento utopistico, mistificatorio della realtà concreta dei rapporti di forza – è oggi 16 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, cit., p. 431. 17 M. Koskenniemi, The Gentle Civilizer of Nations. The Rise and the Fall of International Law 1870-1960, Cambridge University Press, New York 2001, p. 515 (l’edizione italiana dell’opera, a cura di G. Gozzi, L. Gradoni e P. Turrini, è stata pubblicata nel 2012 presso Laterza).

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strutturale. E tuttavia, è insensato pensare di sottrarsi a questa ‘tenaglia’ con un salto nel formalismo, o volgendo lo sguardo altrove. Koskenniemi dedica non a caso uno spazio significativo nella sua ricostruzione alle prestazioni teoriche di Schmitt e Morgenthau. Ciò gli consente di cogliere lucidamente alcuni nodi sgradevoli e oggi spesso rimossi, andando oltre le narrazioni rassicuranti. Innanzitutto, il fatto che l’imperialismo americano sia un mix di internazionalismo e dottrina Monroe, free trade e rivendicazione di una sorta di supersovranità sull’emisfero occidentale (l’altro Occidente – oceanico – rispetto all’Europa continentale, detronizzata). In questo senso, il ‘moralismo’ costituisce un aspetto essenziale del nomos americano. Non si tratta certamente solo di una cinica copertura di interessi strategici, perché esprime anche – almeno nei suoi momenti più alti (le due guerre mondiali, l’impegno per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948) una visione liberal e cooperativa, funzionale a una versione non solo militare dell’egemonia americana. Di fatto, però, il mix di eccezionalismo e purezza, potenza e eticizzazione che segna, con combinazioni di vario grado, il ‘secolo americano’18, si è rivelato funzionale a destrutturare tutte quelle soggettività geopolitiche che, sufficientemente forti, autonome e refrattarie, si sono opposte all’inglobamento nel processo di occidentalizzazione/americanizzazione del mondo. Il meccanismo della squalificazione morale di tutte le ‘resistenze’ geopolitiche (bollate come reazionarie, antiliberali, antiumanitarie) è stato un fattore decisivo nell’affermazione ideologica del nuovo nomos. In molti casi magari è un bene che sia andata così, però questo dispositivo di moralizzazione asimmetrica della potenza indubbiamente non è stato senza conseguenze, né si è mantenuto innocente, dal punto di vista della dislocazione del potere globale. Inoltre, le strumentalizzazioni e le distorsioni cui viene sottoposto l’universalismo ‘preso sul serio’ (giuridico, filosofico ecc.) – frutto della tradizione del pensiero critico-razionalista moderno – non sono banali. Perché determinano una vera e propria auto-contraddizione che, squalificando la credibilità politica dell’Occidente, rischia di coinvolgere anche l’eredità normativa della modernità tout court, affossandola (Stato di diritto, libertà soggettive, diritti, cosmopolitismo ecc.)19. Specularmente, le impostazioni iper-realistiche e il modello anarchico delle relazioni internazionali20 concedono ben poco anche a un 18 Cfr. G. Alvi, Il secolo americano, Adelphi, Milano 1996. 19 Sul punto, mi permetto di rinviare al mio saggio L’occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari 2004. 20 Classico il riferimento a H. Bull, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, Columbia University Press, New York 1995; Cfr. anche D. Zolo,

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eventuale universalismo ‘preso sul serio’, tendendo a liquidarlo come impraticabile e ingenuo. Ma la non autosufficienza del ‘giuridico’ – che le relazioni internazionali rendono evidente – non impedisce una limitazione perlomeno relativa della violenza e dei poteri e una progettualità normativa volta ad alimentare lotte per il riconoscimento (di diritti, di relazione di potere meno inique ecc.). Il diritto in generale – e quello internazionale in particolare, come ha mostrato Koskenniemi – è un campo di tensione costante tra effettività e validità, che è sì sempre esposto al duplice rischio della legittimazione del diritto del più forte e della fuga moralistica dalla realtà, ma che offre anche un contesto e degli strumenti per agire conflitti rivendicativi e smascherare pubblicamente gli arbitri del potere . Del resto, ad avviso di Koskenniemi, l’umanitarismo giuridico contemporaneo non implica realmente il recupero di un fondamento sostanziale e oggettivo – etico-religioso – del diritto: come egli nota acutamente, la nuova ‘guerra giusta’ esiste in un ambiente del tutto secolare. La giustizia della guerra è riferita solo ai ‘valori’ dei partecipanti, quindi alla loro soggettività, alla loro capacità di auto-valorizzazione. In effetti, la stessa nozione schmittiana di ‘discriminazione inumano-umanitaria’ è una nozione polemica, non generalizzabile a ogni prassi umanitaria; urbanizzandola e contestualizzandola, può essere intesa come un’utile avvertenza in chiave autocritica rispetto alle dinamiche di autolegittimazione e quale ‘freno’ ai guasti dell’ideologia occidentale. Ma non elimina le sfide oggettive che genocidi e stermini pongono alla coscienza collettiva, né preclude definitivamente la possibilità di lavorare con prudenza a una forma credibile di diritto umanitario ‘minimo’ . Analizzando la teoria schmittiana dei ‘grandi spazi’, Koskenniemi coglie alcuni punti che costituiscono, a mio avviso, un viatico prezioso anche per la discussione attuale. Innanzitutto sottolinea come il contenuto della dottrina del Grossraum sia indipendente da quella dello spazio vitale: non ha fondamenti razziali, è la generalizzazione di un modello storico di egemonia regionale21. Il suo merito sta nella comprensione realistica della forza dinamica di determinati assetti di potere ‘egemonici’, al di là di confini e vincoli formali. Inoltre, aiuta a porci un interrogativo che è diventato di peculiare, decisiva attualità: l’Europa può essere intesa come un ‘grande spazio politico’? Certamente in astratto potrebbe esserlo, anzi molte ragioni di contesto ne mostrerebbero l’urgenza. Ma il punto decisivo è che non è più possibile – anche da europeisti – aggirare la questione che Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 2002. 21 M. Koskenniemi, The Gentle Civilizer of Nations, cit., p. 421.

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lo scetticismo schmittiano pone: il tentativo di realizzare l’Europa politica per mezzo di neutralizzazioni (la cosiddetta ‘integrazione’) è coerente e concretamente praticabile? A mio avviso occorre riconoscere che l’illusione di aggirare il ‘politico’ (la costruzione di una comune autorità politica legittima, l’attivazione di un processo costituente che coinvolga democraticamente i popoli europei) per via ‘tecnica’ è patogena. Come è diventato evidente con il paradosso dell’euro: la creazione di una moneta unica (in teoria un elemento di forza) senza ciò cui sempre alla sovranità monetaria si è accompagnato (istituzioni politiche che la garantiscano e che possano decidere tempestivamente, rispondendo ai cittadini) ha generato una crisi strutturale di fiducia che apre la strada ai populismi reazionari e al rifiuto dell’ Europa medesima, vista come distante ed elitaria, fonte di vincoli e incapace di suscitare identificazioni collettive. Si tratta di sintomi da non sottovalutare, perché offrono pseudo-risposte compensative che, in cerca di capri espiatori e di semplificazioni, sdoganano la violenza verso il diverso. L’accantonamento dell’Europa come progetto politico mobilitante, la strenua difesa di un suo profilo tecnocratico e mercatista non solo lascia irrisolti e impensati nodi sociali che sono destinati a riproporsi in modo continuo e virulento, ma rischia di mettere a repentaglio le stesse precondizioni della vita democratica. Tuttavia, si potrebbe sostenere che, come Schmitt non ha capito il successo del compromesso costituzionale del secondo dopoguerra (lo Stato sociale di diritto ‘pluriclasse’) e la sua efficacia integrativa e modernizzatrice, così sia stato (come molti euro-scettici) troppo ingeneroso e parziale rispetto alle potenzialità positive della nuova Europa post-bellica. Questo è senz’altro vero, almeno parzialmente. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che l’Europa ha espresso una spinta propulsiva finché c’è stato un ‘nemico’ – il blocco sovietico – che assegnava il senso di una missione anche politico-culturale. Se non vogliamo essere destinati a trovarci per forza un nemico, allora sarà bene, anche con uno sforzo di immaginazione politica, che si apra una discussione vera sull’identità e il compito dell’Europa oggi, che coinvolga i popoli europei22. È una partita ancora aperta. Anche se viviamo un paradosso: l’Europa in parte c’è (su certi temi secondari anche troppo…), ma allo stesso tempo dovrebbe essere molto diversa da quello che è. Il modo in cui finora è stata costruita, la sua impronta genetica, quindi ciò che la fa essere oggi qualcosa di realistico, e non una mera utopia, 22 Sul tema, cfr. E.W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, tr. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 171 e ss.

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è in contraddizione con l’Europa di cui ci sarebbe bisogno, non solo per tentare di superare la crisi dello Stato nazione europeo e quindi delle nostre democrazie, ma anche quale fattore di equilibrio e punto di riferimento geopolitico, ad esempio nel Mediterraneo. 3. Per un costituzionalismo mondiale critico Oggi siamo di fronte per fortuna all’emergere di una certa consapevolezza critica delle aporie del costituzionalismo mondiale, all’interno dello stesso paradigma dell’universalismo giuridico, quindi in una chiave non pregiudizialmente anti-normativista o anti-moderna. Ad esempio Habermas, nel suo volume L’Occidente diviso, ha colto i rischi insiti nella pretesa di ‘eticizzazione’ delle relazioni internazionali che serpeggia nella politica estera occidentale (soprattutto, ma non esclusivamente, in quella americana di impostazione neo-conservatrice), proponendo una difesa rigorosa dell’argine rappresentato dalla ‘legalizzazione’23. Ciò lo porta a rivedere parzialmente le sue posizioni precedenti, abbandonando un eccesso di fiducia nel globalismo ‘occidentalista’ (evidente nel sostegno, seppur con alcune cautele e avvertenze, rispetto alla prima guerra del Golfo e all’intervento Nato in Kosovo). Tale revisione implica una riconsiderazione dell’ipotesi cosmopolitica in chiave più realistica. Le possibilità di difendere la costituzionalizzazione del diritto internazionale – evitando la sua strumentalizzazione contradditoria in chiave moralistico-egemonica (che tradisce le garanzie offerte dal primato della giuridicità e dalla distinzione moderna diritto-morale, auctoritas-veritas) – passano attraverso il riconoscimento di alcuni nodi fondamentali. Innanzitutto, la constatazione che il modello dell’analogia domestica è ‘fuorviante’, perché i soggetti di un ipotetico contratto mondiale (cittadini, popoli ecc.) sono già politicamente qualificati: «Diversamente dagli individui nello stato di natura, i cittadini degli Stati naturalmente concorrenti fra loro godono già di uno status che garantisce loro diritti e libertà (per quanto si voglia limitati). L’errata analogia è motivata dal fatto che i cittadini di uno Stato hanno già alle spalle un lungo processo di formazione politica»24. Inoltre la logica per cui il potere politico, che originariamente è forza decisionistica irrazionale, nella misura in cui non può non operare attraverso il diritto legalizzandosi (almeno 23 Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, tr. it. a cura di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 108-109. 24 Ivi, p. 123.

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nel paradigma del diritto moderno che conduce allo Stato di diritto e poi allo Stato costituzionale), rivela al suo interno un germe di razionalizzazione, non consente una mera estensione di tale modello a livello internazionale. Manca infatti (ed è un dato connesso alla presenza degli Stati, quindi proprio agli esiti del contratto sociale) quel ‘potere terzo’25 in grado di far valere il diritto e neutralizzare i conflitti, che assicurerebbe al contempo l’effettività dell’ordinamento giuridico globale e il processo di addomesticamento dell’autorità sovranazionale, che da ‘naturale’ la trasformerebbe in ‘razionale’: «La costituzionalizzazione del diritto internazionale non si può intendere come logica continuazione dell’addomesticamento costituzionale di un’autorità statale che opera naturalmente. Il punto di partenza di una legalizzazione pacificatrice delle relazioni internazionali è rappresentato da un diritto dei popoli che presenta nella sua forma classica una distorsione speculare del rapporto tra Stato e costituzione. Qui infatti il diritto internazionale non manca di offrire un’analogia con una costituzione che fonda un’associazione di compartecipi nel diritto liberi ed eguali. Quel che invece manca è un potere sovranazionale che travalichi gli Stati rivali tra loro e procuri alla comunità di Stati costituita secondo il diritto internazionale le possibilità di sanzione e le capacità di azione indispensabili per imporre le proprie regole»26. Il passaggio dal diritto internazionale classico a una condizione cosmopolitica comporta dunque non una sequenzialità analogica ma una complementarietà tra costituzionalizzazione mondiale e appartenenze politiche statuali. Infatti, le prestazioni fondamentali degli ordinamenti giuspolitici (sicurezza, giustizia, politiche pubbliche ecc.) sono inevitabilmente rimesse agli Stati, così come i flussi di legittimazione democratica – di cui quella costituzionalizzazione non può fare a meno, almeno indirettamente – passano ancora fondamentalmente dagli Stati democratici di diritto. Ora, il nuovo modello che Habermas cerca di giustificare si basa su una premessa essenziale, per nulla ovvia: la possibilità di scindere dimensione costituzionale e dimensione statale; ciò che consentirebbe da un lato di sostenere che la costituzionalizzazione del diritto internazionale non implichi la creazione (oggi prematura) di uno Stato globale, e dall’altro di evitare di aderire alle pretese egemoniche di una superpotenza che si autolegittimi ideologicamente sulla base di un presunto primato politico-morale, sacrifi25 Cfr. N. Bobbio, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e la guerra, Sonda, Torino 1989; J. Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto. Materiali per una teoria del politico, tr. it. a cura di A. Campi, Giuffrè, Milano 1995; P.P. Portinaro, Il terzo. Una figura del politico, Franco Angeli, Milano 1986. 26 J. Habermas, L’Occidente diviso, cit., pp. 126-127.

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cando autonomia, credibilità e funzione razionalizzatrice del diritto internazionale. L’obbiettivo oggi praticabile e meno affetto da aporie sarebbe per Habermas quello di una «società mondiale politicamente costituita», sulla cui scena operino attori individuali e collettivi, concettualmente differente rispetto a un «ordine giuridico mondiale totalmente strutturato in senso individualistico di una repubblica mondiale federale»27. Il governo delle questioni globali sarebbe quindi rimesso agli Stati, tenuti ad agire di concerto entro la cornice della Carta dell’ONU. La ‘costituzione politica’ (espressione forse fin troppo ambiziosa) della società mondiale decentrata, basata realisticamente su strutture particolari già esistenti, si articolerebbe in un ‘sistema multilivello’, che assicuri un coordinamento efficace sulle principali questioni, da quelle politiche a quelle economiche ed ecologiche. Perché queste negoziazioni transnazionali possano esplicarsi con successo, portando in modo ordinato a decisioni tempestive, occorrerebbero però soggetti continentali, che organizzino gli Stati su scala macro-regionale (come un’Unione Europea capace di agire in politica estera)28. Mentre il conseguimento degli obiettivi di pace e protezione dei diritti umani, previsto dalla carta dell’ONU, soprattutto in presenza di pericoli gravi per la pace e la sicurezza e di emergenze umanitarie, dovrebbe essere rimesso al livello sovranazionale (per quanto senza assumere la forma statale di una repubblica mondiale). Ma qui si aprono interrogativi rilevanti: tale livello potrebbe adempiere a questi compiti in modo efficace e non selettivo, senza costituire in qualche modo un ‘governo mondiale della sicurezza’, o in alternativa senza affidarsi al particolare interesse geopolitico di potenze egemoni? E in che senso ‘un’organizzazione globale in grado di imporre la pace e l’attuazione dei diritti umani’ con la necessaria continuità (una ONU profondamente riformata?) non costituirebbe un ‘governo mondiale’29 (perlomeno essenziale), cioè una forma di monopolio della forza legittima, almeno nelle questioni vitali della sopravvivenza e della protezione dalla violenza delle popolazioni su vasta scala? E da dove dovrebbe essere estratta questa forza? È credibile che soggetti politici forti come le potenze egemoni mettano a disposizione le loro risorse politico-militari, senza pretendere in contropartita un controllo sul loro utilizzo? Se si realizzasse questa cessione di quote di sovranità a titolo definitivo, ciò non significherebbe di fatto il passaggio a una comunità politica mondiale fornita di almeno alcune caratteristiche della statualità? E ancora, a proposito del sistema 27 Ivi, p. 130. 28 Ivi, pp. 130-131. 29 Ivi, p. 131.

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multilivello: gli spazi continentali di coordinamento e integrazione tra Stati quali tassi di omogeneizzazione e di soggettività politica dovrebbero raggiungere, per essere attori legittimati e credibili, sia rispetto alle opinioni pubbliche interne, sia sulla scena internazionale? Siamo così sicuri, infine, che il confronto tra grandi spazi di integrazione continentale, che potrebbe condurre tanto all’accordo quanto alla frizione, rappresenti una forma di ‘politica interna mondiale’? E che tale dimensione ‘interna’ non presupponga invece quello che si vuole evitare (la centralizzazione assicurata da uno Stato globale, che neutralizzerebbe i conflitti politici riconducendoli a questioni interne, producendo le condizioni di una cooperazione garantita e stabile)? Certo, forse con la formula della ‘politica interna mondiale’ Habermas sottintende ed auspica altro: un piano discorsivo che accompagni la civilizzazione della società mondiale, aprendo spazi di progressiva razionalizzazione giuridica. Ma una ‘politica interna mondiale’ così intesa non implica prioritariamente un dibattito pubblico aperto, che coinvolga popoli, comunità, movimenti collettivi transnazionali, consentendo una vera condivisione delle grandi sfide che trascendono i confini nazionali? Non presuppone un cospicuo riequilibrio dei rapporti di forza tra finanza e politica, mercato e democrazia, che permetta il controllo delle opinioni pubbliche su decisioni che investono i ‘beni comuni’30 dell’umanità, la possibilità di forme di pressione concreta sulle istituzioni che, prive di legittimazione democratica, governano l’economia globale, fino a metterne in crisi i criteri di funzionamento? E questi processi non si realizzano innanzitutto con l’attivazione di nuove soggettività politiche dal basso, incarnate, che provino ad alimentare una sfera pubblica mondiale connettendo lotte e rivendicazioni diverse, imponendo mutamenti d’agenda, sottraendosi alla logica della sterilizzazione del conflitto e del pensiero unico? Il ‘sistema multilivello globale’ così come appare realisticamente oggi (si pensi a quello che dovrebbe esserne uno dei soggetti cardine, l’Unione europea, così condizionata dall’ideologia neoliberista e timorosa della partecipazione democratica), ammesso che funzioni e che garantisca quell’effetto ordinatore che Habermas auspica, può essere credibilmente identificato, o comunque compatibile, con il costituzionalismo ‘preso sul serio’? È in grado di promuovere un modello di convivenza sociale fondato, ad esempio, sulla dignità del lavoro e sui diritti delle persone, sul riconoscimento del primato della sfera pubblica? Il rischio nell’immaginare, magari generosamente come fa Habermas, una costruzione giuridico-istituzionale senza 30 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 105 e ss.

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corpo politico, che avrebbe bisogno della legittimazione democratica ma la affida a un livello – quello statale-nazionale – che viene costantemente indebolito dall’impatto della globalizzazione, è quello di fare affidamento su megastrutture dai piedi d’argilla, spoliticizzate e allo stesso tempo ‘naturalmente’ gerarchiche, produttrici di disuguaglianza e di esclusione sociale, perché facilmente egemonizzabili dall’ipercapitalismo contemporaneo. Forme di cosiddetta ‘governance’ ben poco permeabili alle istanze del costituzionalismo dei diritti, opache e in perenne conflitto di interessi, distanti e vessatorie, che preparano inconsapevolmente il terreno ai populismi reattivi e discriminatori. Occorrerebbe invece una ripoliticizzazione forte in senso agonistico e partecipativo del costituzionalismo, in grado di incidere sull’uso del diritto su scala globale, soprattutto in ambito economico, al fine di contrastare quella regressione a una sorta di Antico Regime globalizzato nella quale siamo impigliati. La lotta (politica) per i diritti e i principi del costituzionalismo su vasta scala può essere un antidoto tanto alla moralizzazione della violenza insita in uno pseudo-universalismo strumentale ed etnocentrico, che traveste il mercato di democrazia, quanto all’essenzializzazione del ‘politico’. La condizione fondamentale perché questa via alternativa possa essere praticata è però che si ricostruiscano ‘spazi pubblici’ contro le fiction populiste, si affermino contesti di azione collettiva in grado di guardare oltre le appartenenze nazionali (o, peggio, tribali) e di connettersi reciprocamente. Sono l’ideologia dell’élite globale e il blocco di interessi che copre a dover essere prioritariamente scalfiti, per rilanciare una prospettiva emancipativa e coerentemente universalista per il diritto pubblico (internazionale come interno), che altrimenti sarà sempre uno strumento docile e sempre più delegittimato nelle mani di poteri indiretti e selvaggi31 incapaci di fare ordine nel caso globale e pronti a scaricarne il costo non solo sugli ‘esclusi’, ma sulla collettività intera. Gli ‘scarti’ della globalizzazione32 non sono più rottamabili.

31 Cfr. L. Ferrajoli, Principia iuris. 2: Teoria della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 232 e ss. 32 Cfr. Z. Bauman, Vite di scarto, tr. it. a cura di M. Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2011.

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Stefano Pietropaoli

CAESAR DOMINUS ET SUPRA GRAMMATICAM. IL PROBLEMA DELLA DEFINIZIONE GIURIDICA DELLA GUERRA Chiamare le cose con il loro nome è il primo vero atto rivoluzionario Rosa Luxemburg

Nonostante gli imponenti tentativi di una sua ‘neutralizzazione’, se non addirittura di una sua sostanziale rimozione dal dibattito pubblico, il problema della guerra è ancora oggi il banco di prova della legittimità di ogni ordinamento giuridico e del diritto internazionale in particolare. La guerra non è scomparsa. Ha cambiato vesti. Termini come «uso della forza», peace-building, «intervento umanitario», war on terror, «operazioni di pace» e altre ancora sono sterili esorcismi, oppure ipocriti camuffamenti di un fenomeno che coinvolge le vite di milioni di persone. Non deve ingannare la circostanza che l’espressione più semplice e intuitiva che indica il ricorso collettivo alla violenza — la «guerra», appunto — viene ormai bandita dal lessico giuridico e politico contemporaneo1. Le conseguenze di questa rimozione sono evidenti. La possibilità di non usare apertamente il termine «guerra» è una formidabile risorsa per chi è in grado di servirsi della guerra stessa. Se nessuno ‘dichiara’ più la guerra è perché ricorrere ad essa è illecito sul piano giuridico e sempre meno giustificabile davanti all’opinione pubblica. Fino al 1919 il dichiarare guerra aveva il senso di ‘mettere in chiaro’ sul piano giuridico il progetto conflittuale che si stava elaborando. La formalizzazione dello «stato di guerra» comportava che i rapporti tra i belligeranti venissero regolati in termini diversi rispetto ai periodi di pace. E questo significava anche assumersi determinate responsabilità, anzitutto connesse all’osservanza delle norme che disciplinavano l’attività bellica. Se la guerra non viene più formalmente dichiarata, la situazione bellica è sempre meno definibile sul piano giuridico, sempre più caotica e prossima 1

Paradossale (o forse no) è che nella Carta delle Nazioni Unite il termine «guerra» ricorra una sola volta, e per di più nel preambolo.

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allo stato di eccezione permanente. E le regole della guerra sono destinate a non essere minimamente applicate2. Tutto questo ha rilievo sia al livello del diritto internazionale, sia al livello delle norme nazionali. Relativamente a quest’ultimo aspetto basta pensare alla disinvoltura con cui diversi governi italiani hanno risolto i problemi di compatibilità tra la partecipazione a missioni militari all’estero — che non sono mai state considerate «guerre» — e l’articolo 11 della Costituzione italiana: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Altrettanto si può dire della tacita abrogazione dell’art. 78 della Carta costituzionale, che assicurerebbe un controllo democratico sul ricorso all’uso della forza: «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari». Non chiamare più la guerra col suo nome ha comportato un radicale ridimensionamento del ruolo del diritto nella limitazione della conflittualità bellica. Per mettere meglio a fuoco questo tema è indispensabile una breve riflessione circa l’evoluzione storica del rapporto tra guerra e diritto. Già in epoca romana si era cercato di dare risposta al problema della conflittualità bellica attraverso l’elaborazione di una sua disciplina specificamente giuridica. In questo senso può essere sufficiente ricordare come al collegio romano dei feziali possa essere attribuita l’elaborazione teorica di alcuni istituti che sarebbero diventati veri e propri capisaldi del diritto internazionale moderno. Penso, ad esempio, al tentativo di conciliazione che i membri del collegio feziale erano incaricati di esperire nei confronti del popolo con cui era sorta una controversia, al fine di evitare l’immediato ricorso alle armi; oppure al termine temporale che veniva concesso alla parte avversa prima di aprire le ostilità; come anche all’obbligo di dichiarare formalmente l’inizio della fase propriamente bellica del conflitto3. In riferimento all’esperienza giuridica romana si possono formulare due considerazioni sul rapporto tra guerra e diritto. In primo luogo, si deve osservare che il diritto bellico romano aveva come oggetto esclusivo i prodromi della guerra (e in questo senso va interpretata la celebre gnome ciceroniana silent inter arma leges). In secondo luogo, nella prospettiva del formalismo giuridico-religioso di cui il collegio feziale era espressione, la ‘giustizia’ della guerra era determinata dalla conformità delle procedure che disciplinavano la indictio belli al rituale definito dalla tradizione e preservato dal collegio 2 3

Sul punto ha scritto pagine fondamentali J.L. Kunz, del quale segnalo almeno l’articolo Plus de lois de la guerre?, in “Revue générale de droit international public”, 41, 1934, pp. 22-57. Sul tema cfr. A. Calore (a cura di), «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, Giuffrè, Milano 2003.

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stesso. Questa prospettiva formalistica, una volta spogliata dei suoi arcaismi religiosi, divenne la base di quella che possiamo considerare il primo tentativo di disciplinare giuridicamente la guerra. In questo senso, la cultura giuridica romana ha affrontato la questione del rapporto tra guerra e diritto nella prospettiva della «legittimità formale» della conflittualità bellica. Se si accoglie questa interpretazione, è evidente come tra il concetto romano di bellum justum e la dottrina cristiana della «guerra giusta», vi sia una assoluta discontinuità. E se è probabilmente errato considerare la dottrina della «guerra giusta» come un monolite teorico destinato a durare per oltre un millennio, tuttavia è possibile individuare nelle sue diverse formulazioni — che vanno dalla patristica e in particolare dalla teologia di Agostino alla Summa di Tommaso, fino ad arrivare alla seconda scolastica spagnola — una costante: l’assoluta centralità del discorso sulle «giuste cause» della guerra. In altre parole, se il concetto di guerra a Roma era stato interpretato nella prospettiva della «legittimità formale», la dottrina medievale della «guerra giusta» ha invece spostato l’attenzione sulla valutazione etica delle justae causae belli come requisito essenziale della ‘giustizia’ della guerra. In questo senso, le dottrine medievali della «guerra giusta» hanno adottato la prospettiva della «legittimità sostanziale» della conflittualità bellica. Il paradigma della dottrina della «guerra giusta» è stato messo in discussione e poi messo in crisi soltanto a partire dal Cinquecento. È nel contesto segnato dall’umanesimo, dalla scoperta delle Americhe, dalla secolarizzazione, dalla Riforma e dall’elaborazione teorica dello Stato moderno, che vennero creati i presupposti per una nuova interpretazione del rapporto tra guerra e diritto. Una nuova interpretazione che avrebbe trovato le sue prime coerenti formulazioni poco più tardi — tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento — nelle teorie di autori come Alberico Gentili e Ugo Grozio. Nell’ambito di quello che viene ormai comunemente chiamato jus publicum europaeum, i giuristi rivendicarono una propria competenza, alternativa a quella dei teologi, in merito al problema della guerra. Si verificò così una riemersione della prospettiva della «legittimità formale» della guerra, che non coincise però con la mera riscoperta del diritto bellico romano. Lo jus publicum europaeum risolse alla radice la questione delle «giuste cause» di guerra, riconoscendo agli Stati — i protagonisti assoluti del nuovo ordine europeo — un vero e proprio «diritto di fare la guerra» (comunemente indicato con l’espressione jus ad bellum)4. 4

I concetti di jus ad bellum e jus in bello, nell’accezione generalmente accettata, a dispetto della loro formulazione in lingua latina e della diffusa opinione per la

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Questo risultato, che potrebbe sembrare quantomeno ambiguo sul piano morale, si rivelò invece determinante per l’elaborazione del diritto internazionale moderno. Fu, infatti, grazie al riconoscimento agli Stati sovrani del monopolio dell’uso legittimo della forza nei confronti degli altri membri della comunità internazionale, che la dottrina della «guerra giusta» venne superata e lasciò il posto a una riflessione giuridica che aveva quale proprio obiettivo fondamentale una effettiva limitazione della conflittualità bellica. Il nemico non era più un soggetto che combatteva senza giusta causa, e quindi necessariamente un «nemico ingiusto» che doveva essere annientato, ma — per riprendere una celebre espressione di Carl Schmitt — era un nemico che poteva anche ‘avere ragione’, e dunque era un «nemico giusto» cui dovevano essere garantiti determinati diritti5. Basti pensare, in questo senso, alla distinzione tra combattenti e non combattenti, al divieto di usare certe armi, o alle disposizioni sul trattamento dei prigionieri, che proprio a partire dalla fine del Cinquecento trovarono sempre più frequentemente spazio nelle opere dedicate dai giuristi al «diritto delle genti». È dunque possibile sostenere che il diritto internazionale moderno ha ripreso l’approccio romanistico della «legittimità formale» della guerra, integrandolo però con una nuova prospettiva che teneva conto non più soltanto della fase che precedeva l’apertura delle ostilità ma anche della successiva condotta delle operazioni belliche. Una prospettiva, questa, che potremmo chiamare della «legalità» della conflittualità bellica. È in questo senso che tra Cinquecento e Seicento va individuato il momento generativo di quello che è stato denominato prima jus in bello, poi «diritto internazionale dei conflitti armati», e più recentemente «diritto internazionale umanitario». La limitazione della guerra assicurata dal diritto internazionale tra Seicento e Novecento ha avuto sicuramente una efficacia limitata. Del resto, la disciplina giuridica della guerra si riferiva esclusivamente ai conflitti terrestri combattuti da eserciti regolari sul suolo europeo. Le guerre coloniali, gli scontri navali, persino le battaglie terrestri combattute tra Stati europei su continenti diversi dall’Europa non erano ricompresi nella sua portata normativa. Ciononostante, e nonostante le infrazioni anche notevoli — basti pensare alle guerre napoleoniche — alle regole di condotta

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quale sarebbero categorie medievali, sono estremamente recenti. Sul punto mi permetto di rinviare al mio Jus ad bellum e jus in bello. Genealogia di una grande dicotomia del diritto internazionale, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 38, 2009, pp. 1169-1213. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum (1950), Adelphi, Milano 1991.

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della guerra che esso stabiliva, il diritto internazionale moderno è riuscito comunque a conseguire importanti risultati, il più notevole dei quali può essere considerato la drastica riduzione dell’uccisione di civili nei conflitti combattuti sul suolo europeo6. È possibile affermare che questa limitazione giuridica della guerra abbia raggiunto il suo punto più alto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ma il suo successo, celebrato ufficialmente con le conferenze dell’Aja del 1899 e del 1907, fu immediatamente seguito da una crisi irreversibile. Sia l’impianto teorico sia l’efficacia pratica dello jus publicum europaeum non sopravvissero al primo conflitto mondiale7. Alla vigilia della ‘grande Guerra’ erano in molti a pensare che il conflitto che stava per esplodere sarebbe stato «la guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre». Il corollario di questo orientamento era l’idea di una «pace perpetua», secondo l’espressione kantiana. Nelle parole di uno dei padri spirituali della Società delle Nazioni – Léon Bourgeois – questa pace sarebbe stata «una pace diversa da tutte quelle del passato, vale a dire una pace incerta e instabile, ma, al contrario, la pace, la vera pace, la pace definitiva»8. Queste ireniche profezie si sarebbero presto rivelate inattendibili. Ciononostante, da un particolare punto di vista, la prima Guerra mondiale può essere davvero essere considerata «l’ultima delle guerre». È stata l’ultima guerra disciplinata dal diritto internazionale classico (jus publicum europaeum), o, più precisamente, ebbe inizio come una guerra regolata dal diritto pubblico europeo che poi si è conclusa all’insegna di un ordinamento internazionale del tutto nuovo: un ordinamento nato a Parigi, dove il 18 gennaio del 1919 erano iniziati i lavori della Conferenza di Pace e il 28 giugno dello stesso anno era stato siglato il Trattato di Versailles. Il rapporto tra la guerra e il diritto si è così sviluppato in una nuova fase evolutiva9. Se fino agli inizi del Novecento la decisione di ricorrere 6 7

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I pochi dati che abbiamo a disposizione avvalorano questa ipotesi: cfr. D. SingerM. Small, The Wages of War. A statistical Handbook, New York, Wiley, 1972. Per una ricostruzione storica del diritto internazionale tra Otto e Novecento, il punto di riferimento è M. Koskenniemi, Il mite civilizzatore delle nazioni. Ascesa e caduta del diritto internazionale 1870-1960 (2001), Laterza, Roma-Bari 2012. Per quanto riguarda la letteratura in lingua italiana, fondamentali sono S. Mannoni, Potenza e ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell’equilibrio europeo 1870-1914, Giuffrè, Milano 1999, e più recentemente G. Gozzi, Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna 2010. L. Bourgeois, Le Traité de Paix de Versailles, Alcan, Paris 1919, p. 1. Per un inquadramento generale del tema, imprescindibile il volume di A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, il Mulino, Bologna 2006.

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alla guerra era stata considerata un «diritto naturale» di cui ogni Stato era titolare, a partire dal 1919 si era fatta sempre più forte un’idea opposta, secondo la quale l’uso della forza doveva essere considerato un’infrazione del diritto internazionale. A livello normativo questo cambiamento di rotta era stato recepito — seppure in modo ancora approssimativo — nello statuto della Società delle Nazioni. Successivamente, nel Patto di Parigi (Patto Kellogg-Briand) del 1928, quasi tutti gli Stati del mondo avevano espresso una condanna della guerra come mezzo di risoluzione delle divergenze internazionali e si erano impegnati a rinunciare alla guerra come strumento di politica nazionale. La tragedia del secondo conflitto mondiale, che pure aveva dimostrato l’assoluta erroneità delle precedenti previsioni, non ha arrestato l’ulteriore sviluppo di questa concezione antibellica, che fu ripresa e sancita dalla Carta delle Nazioni Unite. Com’è noto, la Carta delle Nazioni Unite stabilisce che i suoi membri devono risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici, astenendosi dalla minaccia o dall’uso della forza (art. 2), e conferisce al Consiglio di Sicurezza la responsabilità del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (art. 24), sia attraverso misure che non richiedano l’impiego della forza (art. 41), sia attraverso azioni che implichino il ricorso all’uso di forze aeree, navali o terrestri (art. 42). In altre parole la Carta ha stabilito il divieto per ogni Stato di ricorrere autonomamente alla guerra, con la sola — ma fondamentale — eccezione della legittima difesa, espressamente riconosciuta come «diritto naturale di autotutela individuale o collettiva», che ogni membro può esercitare «nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale» (art. 51). Inoltre, l’istituzione delle Nazioni Unite ha inciso sul rapporto tra guerra e diritto sul piano del cosiddetto jus in bello, attraverso un’ampia opera di codificazione delle regole di condotta delle operazioni belliche, i cui risultati più importanti sono stati le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i relativi Protocolli aggiuntivi dell’Aja del 1977. Se si accetta questa ricostruzione, è possibile sostenere che a partire dal primo dopoguerra l’uso delle armi è stato considerato un fenomeno disciplinabile dal punto di vista giuridico, ma nel contempo la guerra è diventata un illecito internazionale con due sole ‘eccezioni fondanti’: la guerra come sanzione adottata dal Consiglio di Sicurezza; la guerra come mezzo di legittima difesa di uno Stato d fronte a un’aggressione in atto. Si può affermare che sul piano normativo il rapporto tra la guerra e il diritto è ancora oggi quello determinato dalle Nazioni Unite e dal conferi-

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mento al Consiglio di Sicurezza del ruolo di arbitro della guerra e della pace a livello internazionale. Ovviamente, questo non significa che la struttura dell’ordinamento internazionale sia rimasta immutata, ma significa che le pur straordinarie trasformazioni che hanno segnato il mondo dal 1945 ad oggi non hanno prodotto un ripensamento del concetto giuridico di guerra. Siamo dunque di fronte ad un’impasse normativa. A causa della scelta di attribuire un potere di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, il meccanismo che disciplina l’uso della forza a livello internazionale si è dimostrato sostanzialmente inadeguato o inefficace, in quanto nessuna guerra intrapresa da paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Cina o la Russia può essere considerata un illecito internazionale. Ancora oggi le cinque potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale detengono il potere di decretare la legittimità di un intervento bellico, e non sono ovviamente intenzionate a rinunciare al privilegio loro assicurato dalla Carta, rendendo di fatto irriformabili le Nazioni Unite10. Le conseguenze di questa situazione sono evidenti. Le considerazioni più importanti sul piano teorico sono essenzialmente due. Da un lato, per quanto riguarda la legittima difesa, non si è mai arrivati ad una definizione condivisa del concetto di «aggressione»11. Il Consiglio di Sicurezza è rimasto così l’unico arbitro della legittimità del ricorso alla guerra da parte degli Stati che ritengano di essere oggetto di un atto di aggressione, mantenendo saldamente nelle proprie mani il potere di interpretare le disposizioni dell’articolo 51 in maniera estremamente restrittiva o al contrario assolutamente elastica, secondo le convenienze politiche e strategiche dei cinque membri permanenti. Da un altro lato, per quanto riguarda il ricorso a misure adeguate a tutelare la pace e la sicurezza internazionale, il Consiglio di Sicurezza — in particolare a causa dei veti incrociati di USA e URSS — si è trovato a lungo in una situazione di stallo, che si è conclusa soltanto con la fine della Guerra fredda. È infatti a partire dall’ultimo decennio del Novecento che il Consiglio di Sicurezza ha iniziato a fare largo uso degli strumenti 10 Sul punto cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 196-98. 11 E questo nonostante i tentativi di varie commissioni, come la Permanent Advisory Commission, lo Special Committee of the Temporary Mixed Commission e quelle istituite dall’Assemblea Generale con le risoluzioni 378/B (V) del 1950, 688 (VII) del 1952, 859 (IX) del 1954 e 1181 (XII) del 1957). La risoluzione dell’Assemblea Generale 3314 (XXIX) del 1974, che pure tenta una approssimativa definizione del concetto di aggressione, ha lasciato del tutto intatte le prerogative del Consiglio di Sicurezza in materia ex articolo 51, non risolvendo dunque la questione.

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previsti dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. In alcuni casi si è trattato di misure non esplicitamente implicanti l’uso della forza, volte ad assicurare il rispetto di sanzioni già stabilite dalle Nazioni Unite. In altri casi il Consiglio di Sicurezza ha invece autorizzato un uso limitato della forza nel contesto delle cosiddette operazioni di peace-keeping. In altri casi ancora il Consiglio è arrivato ad autorizzare l’uso «di tutti i mezzi e di tutte le misure necessari» per tutelare la pace. Ed è fondamentale, a questo proposito, rilevare che, a causa della mancata istituzione di una forza internazionale guidata dalle Nazioni Unite (vedi capo VII, artt. 43-47 della Carta), sono state autorizzate a ricorrere alla guerra delle organizzazioni militari regionali, in primis la NATO. Ma ancor più significativo è che in molti casi il Consiglio di Sicurezza non ha autorizzato il ricorso all’uso della guerra, e ciononostante sono state condotte operazioni militari che non soltanto non sono state considerate illecite, ma che sono state giustificate moralmente (e in alcuni casi anche giuridicamente) in nome della «dottrina dei diritti dell’uomo». Negli ultimi anni la tensione tra due dei principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite è stata risolta sempre più spesso nel senso della prevalenza della tutela dei diritti umani rispetto al principio della integrità territoriale di uno Stato sovrano. A molti questo risultato è sembrato un successo, ma è il caso di notare che esso è stato ottenuto sempre più frequentemente nella totale inosservanza delle regole stabilite dal diritto internazionale sull’uso della forza. Peraltro, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (e gli USA in particolare), se da una parte hanno rivendicato il diritto di intervenire in difesa dei diritti umani anche a costo di violare la sovranità di altri paesi sovrani, dall’altra hanno costantemente rivendicato la propria intangibilità di fronte alle possibili accuse di essere loro stessi a violare tali diritti. Non sembra quindi eccessivo parlare di una sostanziale «iper-sovranità» di questi attori della scena internazionale. È questo il contesto in cui la guerra — indipendentemente dal nome con cui la si voglia chiamare — negli ultimi vent’anni è diventata una «guerra globale»: globale perché despazializzata in senso geopolitico e indefinita a livello temporale (Infinite Justice era il nome originale dell’operazione Enduring Freedom, messa in atto dopo la tragedia dell’11 settembre 2001), ma globale anche perché illimitata sul piano giuridico12. Contrariamente a quanto viene sostenuto dalla dottrina prevalente, è lecito sostenere che l’evento che ha sancito questa svolta non è stato l’at12 Sul tema si veda C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari 2002.

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tentato terroristico dell’11 settembre, ma è stata invece la guerra del Golfo del 1991. L’intervento militare in difesa del Kuwait, certo, è stato autorizzato dal Consiglio di Sicurezza e quindi la guerra è stata giustificata come strumento di tutela della pace e della sicurezza internazionale contro uno Stato responsabile di un grave illecito internazionale. Tuttavia non è questa la sua caratteristica primaria. L’elemento più rilevante è che la guerra del Golfo è stata una guerra non inquadrabile nel classico schema della guerra fra Stati sovrani. Si è trattato quindi di una guerra di nuovo tipo sotto diversi aspetti. In primo luogo, la guerra contro l’Iraq è stata condotta senza alcun rispetto delle regole dello jus in bello. Basti pensare, in questo senso, al sacrificio della popolazione civile (sottoposta sia a bombardamenti sia a misure di embargo particolarmente pesanti), all’impiego di armi quali i proiettili all’uranio impoverito, le cluster bombs e i fuel-air explosives, all’annientamento di infrastrutture civili nonché alla gravissima compromissione delle condizioni ambientali del territorio iracheno. Inoltre, la guerra del Golfo del 1991 è stata una «guerra asimmetrica», caratterizzata da un eccezionale divario militare e tecnologico e dalla conseguente sproporzione tra le perdite umane delle parti in conflitto. Si è trattato quindi di una guerra illimitata che ha causato pesantissime ripercussioni sulla popolazione civile. In secondo luogo, l’intervento è stato condotto sul campo non da una forza internazionale diretta sul piano strategico dal Comitato di Stato Maggiore delle Nazioni Unite previsto dalla Carta, ma da un contingente militare formato da truppe di ventisette diversi paesi sotto la guida de facto delle forze armate statunitensi. Con l’intervento in Iraq nel 1991 gli Stati Uniti hanno superato definitivamente l’impasse della Guerra Fredda, e si sono presentati come il lonely superpower legittimato a difendere i valori della democrazia e della libertà su scala globale. In questo senso, la guerra del Golfo può essere interpretata come il primo tassello di un’ampia strategia egemonica, volta a instaurare il controllo diretto delle aree del mondo ritenute nevralgiche per gli interessi statunitensi. È in questa prospettiva che si deve sottolineare come il conflitto del 1991 si è concluso non con la semplice restaurazione dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di uno Stato sovrano aggredito, né con una occupazione bellica in senso proprio, ma con l’insediamento nell’area del conflitto di contingenti stabili delle forze armate statunitensi. La guerra del Golfo può dunque essere considerata la prima espressione di un tipo di conflittualità bellica che negli ultimi venti anni ha attraversato le zone più calde del globo, dai Balcani all’Africa, al medio Oriente. L’elemento fondamentale di questa escalation del ricorso all’uso della forza a

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livello internazionale dev’essere individuato nella costante erosione della capacità delle Nazioni Unite di disciplinare questo fenomeno. Il largo ricorso alla guerra si è infatti progressivamente allontanato dal quadro normativo stabilito dalla Carta. A partire dai primi anni novanta del Novecento numerosi sono stati i casi in cui le Nazioni Unite hanno rivendicato la propria funzione di tutela o di ripristino della pace e della sicurezza internazionale. In questo senso basti pensare alle operazioni di peace-keeping in senso stretto o di post-conflict peace-building in cui i cosiddetti caschi blu sono intervenuti in aree come il Salvador, la Cambogia, il Mozambico e l’Angola, dietro il mandato del Consiglio di Sicurezza (o in alcuni casi dell’Assemblea Generale), sotto la direzione del Segretario generale e con il consenso dello Stato territoriale interessato dalle operazioni. Se questi interventi erano sicuramente riconducibili al dettato della Carta, alcune perplessità riguardano le cosiddette operazioni di peace-enforcement svoltesi nel 1992 nell’ex Jugoslavia e nel Ruanda oltre che nel 1993 in Somalia, in cui le Nazioni Unite hanno fatto ricorso all’uso della forza per finalità dette ‘umanitarie’ senza il consenso dei paesi interessati. Ma se interventi di questo tipo possono ancora essere fatti rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 42, molto più complesso è individuare il fondamento di legittimità di quelle operazioni che le Nazioni Unite si sono limitate ad autorizzare, affidandone il compito a singoli Stati o a coalizioni di Stati (oppure ad «organizzazioni regionali» nell’inosservanza delle disposizioni di cui al Capitolo VIII della Carta). Si tratta di interventi autorizzati dal Consiglio di Sicurezza, ma che sono stati gestiti senza il controllo diretto delle Nazioni Unite. Si pensi, in questo senso, alle missioni Air Strikes e Deliberate Force condotte dalla NATO nella ex Jugoslavia tra il 1994 e il 1995. Ma non basta. Altri ancora sono i chiari segni della progressiva erosione della capacità delle Nazioni Unite di garantire la pace e la sicurezza internazionale. Si pensi alle guerre che sono state intraprese al di fuori del sistema decisionale delle Nazioni Unite. In alcuni casi si è trattato di interventi in cui l’uso della forza armata è stato giustificato da finalità umanitarie. Il primo e più significativo esempio di queste «guerre umanitarie» è il conflitto del Kosovo del 1999. In altri casi si è trattato invece di interventi bellici giustificati in nome della «guerra al terrore», invocata subito dopo l’11 settembre 2001 da George W. Bush. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq da parte della cosiddetta «coalizione dei volenterosi» sono le più eclatanti espressioni della guerra contro i «paesi-canaglia» che nell’ultimo decennio è stata condotta in assoluta violazione della Carta delle Nazioni Unite.

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Le Nazioni Unite sembrano dunque avere ormai abdicato alla funzione di controllare e ridurre in qualche modo la violenza delle guerre. E si tratta di una capitolazione assoluta almeno nelle aree del pianeta dove più forti sono gli interessi politici ed economici dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. È facile pronosticare che l’ultimo prodotto della retorica umanitaria, la responsibility to protect13, non verrà mai invocata per giustificare un intervento in Palestina, nella Cecenia o nel Tibet, ma sarà soltanto un ulteriore strumento di giustificazione delle prossime guerre ‘umanitarie’. In questo scenario le Nazioni Unite a volte si impongono da sole il silenzio; a volte prendono la parola quando il conflitto è ormai deflagrato, ma senza denunciarne l’illiceità e al contrario in qualche modo legittimandolo ex post; in altri casi ancora alzano la voce, salvo poi essere schernite dagli stessi Stati che agiscono in loro nome. Il recente caso della Libia è esemplare: il Consiglio di Sicurezza aveva autorizzato l’istituzione di una zona d’interdizione aerea e di aree di protezione della popolazione libica, specificando che era in ogni caso esclusa l’occupazione straniera sotto qualsiasi forma e di qualsiasi parte del territorio libico. Ma i risultati concreti sono stati ben altri. Ed anche nel caso del Mali, dopo essersi impegnate a dispiegare una forza internazionale in risposta alla richiesta d’aiuto del governo maliano, le Nazioni Unite hanno affidato le sorti del conflitto all’intervento unilaterale della Francia, i cui palesi interessi nel Sahel hanno risvegliato gli spettri della guerra coloniale. Per quanto, poi, riguarda la gravissima situazione siriana, tutto lascia presagire che se verrà evitato un intervento militare unilaterale da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati sarà soltanto in ragione di logiche che rievocano lo scenario della Guerra fredda, confermando l’impasse prodotta dalla mancata convergenza degli interessi dei titolari della ipersovranità. In conclusione, la politica internazionale contemporanea sembra offrire un menu assai ricco: interventi con o senza l’uso diretto dalla forza, missioni di pace, operazioni umanitarie, legittima difesa preventiva e così proseguendo. Ma dietro a questa apparente varietà, la pietanza che viene offerta è sempre la stessa, e si chiama guerra. Sta alle Nazioni Unite e ai custodi del diritto internazionale tentare di essere qualcosa di diverso dai compiacenti domestici che servono in livrea al banchetto del GrandGuignol globale. 13 Per un inquadramento generale e un’analisi critica del tema, cfr. L. Baiada, La responsabilità di proteggere, in “Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale”, (2010), accessibile all’URL: http://www. juragentium.org/topics/wlgo/it/baiada.htm, e la bibliografia ivi richiamata.

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Sandro Luce

DAGLI SPAZI DELLA POLITICA ALLO SPAZIO DELL’ECONOMIA

1. Lo Stato dopo lo Stato sovrano È oramai da qualche decennio che si parla con insistenza di una nuova fase globale caratterizzata da un’inedita porosità e mobilità dei tradizionali confini territoriali, che delimitavano lo spazio liscio e ordinato all’interno del quale operava il comando universale della sovranità. La nuova figurazione dei confini assume però una complessità tale da renderla inassimilabile a una completa deterritorializzazione: lo spazio globale non è necessariamente liscio, privo di distinzioni tra interno e esterno1, ma comporta spesso co-implicazioni tra dimensioni locali e globali2. Ci troviamo di fronte ad una complessiva ridefinizione degli spazi che, per dirla con Sloterdijk, producono una disorientante perdita della periferia, che rende conto di una transizione non solo politico-geografica, ma anche concettuale3. Nella nuova topologia globale i confini diventano uno straordinario strumento di controllo della circolazione di merci e persone, acquisiscono una nuova ubiquità che li porta sempre più frequentemente a non collocarsi ai margini dei territori, ma al centro di essi con una conseguente profonda alterazione non solo simbolica ma anche pratica e strategica4. Questa riarticolazione dei confini si coniuga con un specifico processo di governamentalizzazione dei dispositivi istituzionali e normativi generalmente denominato governance: concetto che indica, in termini molto generali, il déplacement in atto 1 2

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C. Galli, Spazi Politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001. R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale (1992), tr. it. Asterios, Trieste 1999. Un’analisi sulla produzione di nuove località conseguenti alla nuova realtà globale si trova in A. Appadurai, Modernità in polvere (1996), tr. it. Meltemi, Roma 2001, pp. 231-257. P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale (2005), tr. it. Meltemi, Roma 2006. Su come nell’odierna fase globale il confine abbia assunto un ruolo centrale, non solo spaziale e geografico, ma soprattutto giuridico e politico con una sua specificità sull’attribuzione dello status di cittadino, cfr. E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Meltemi, Roma 2007.

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rispetto alle logiche moderne del government5. Quest’ultimo si basa sul rapporto asimmetrico tra sovrano e cittadini-sudditi, che trova nel meccanismo rappresentativo, realizzato attraverso la procedura dell’autorizzazione e nella fictio contrattualistica della formazione della volontà collettiva, la sua fonte di legittimazione e di operatività. La governance riconfigura il senso dell’obbligazione politica, proiettandola all’interno di un complesso di relazioni che vedono coinvolti una molteplicità di soggetti pubblici e privati, che cooperano secondo uno schema orizzontale e assetti decisionali irriducibili ad un’unicità. Dal ridimensionamento degli atteggiamenti autoritativi, sostituiti da sempre più frequenti tecniche negoziali e concertative, fino alla rimodulazione del ruolo dello Stato, la governance esplicita la trasformazione in corso nei rapporti tra il governo degli uomini e l’odierno ordine del discorso neoliberista. Collocarsi su questo piano descrittivo significa trovarsi di fronte ad una serie di questioni che da esso discendono: l’egemonia di questa nuova logica della politica ha comportato l’eclisse della decisione, nel senso attribuitole da Schmitt, ossia come atto fondativo dell’autorità e del politico? Lo Stato esercita ancora funzioni sovrane? Oppure ci troviamo dinanzi ad un una totale e irrimediabile divaricazione tra il momento formale istituzionale, sempre più vuoto, e quello effettuale legato a pratiche reticolari, differenziate e plurali di esercizio del potere? Quali sono le relazioni tra governance e discorso neoliberista? Questi interrogativi si pongono all’interno di una riflessione più ampia che andrebbe fatta sulla crisi dei paradigmi della modernità, sui compiti teorici che essa impone e sugli scenari di trasformazione politica che essa apre. Wendy Brown, muovendo dalla consapevolezza che non c’è nessuna linearità nella storia e, dunque, nessuna garanzia per un progetto di emancipazione6, costretto a fare i conti con la natura assolutamente contingente dell’azione politica, ritiene che oggi assistiamo ad una disgiunzione della moderna coppia concettuale sovranità-Stato-nazione. La sovranità è, come nella lezione schmittiana, un concetto liminare per eccellenza, che si definisce a partire da una demarcazione territoriale istitutiva e organizzativa degli spazi secondo la dicotomia 5

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Per un’articolazione del concetto di Governance in termini differenziali e oppositivi rispetto al Government, cfr. J.N. Rosenau, E.O. Czempiel (a cura di), Governance without Government: order and change in world politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992; per una lettura che cerca di inquadrare questo slittamento all’interno del concetto foucaultiano di gouvernamentalité cfr. M. Bonnafous, F. Boucher, From Goverment to Governance, in “Etichal Perspective: Journal of the European Ethics Network”, 4, 2005, 521-534. W. Brown, La politica fuori dalla storia (2001), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2012.

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esterno-interno. Il paradosso di fronte al quale ci troviamo oggi sta nella contestualità tra la fase di svuotamento della sovranità statuale e una proliferazione di confini, in genere nella forma di muri, che spesso compaiono al centro stesso degli spazi che dovrebbero delimitare. I muri, proprio per il loro carattere arcaico ed eccessivo, appaiono a Brown il paradossale sigillo di questo vacillare dei confini e della sovranità, per cui, pur mostrandone l’inefficacia rispetto alla funzione per la quale sono legittimati (bloccare i flussi transnazionali: dall’immigrazione illegale, al terrorismo, fino al traffico di droga), essi sono considerati come «una risposta ai desideri del soggetto che sono essi stessi prodotti dal declino della sovranità»7. Vi è un inconscio meccanismo di identificazione tra soggetto e Stato, che subisce un disorientamento proprio a causa del processo di erosione della sovranità politica. I nuovi muri rispondono così all’esigenza di instaurare un meccanismo difensivo, che opera attraverso la restaurazione dell’imago del sovrano e delle sue capacità protettive. La sovranità non scompare, essa migra «nella dominazione oppressiva del capitale»8, per riaffiorare sintomaticamente nell’iconografia, spesso teatrale, dei muri, odierna negazione di qualsiasi ottimistica speranza di un villaggio globale. Viene ribadita la complessità dei processi della globalizzazione che, pur distorcendone e mutandone il senso, sembrano non aver ancora prodotto un completo superamento dei paradigmi del moderno. È quanto sottolinea Saskia Sassen che, rivolgendo la sua attenzione in modo particolare alla realtà statunitense, mostra come la logica della globalizzazione non possa essere considerata un prodotto ex nihilo, ma sia piuttosto l’esito di un complesso processo di riassemblaggio di spazi, autorità e istituzioni in cui lo stato-nazione svolge un ruolo decisivo, per quanto diverso dal passato. In contrasto con le numerose interpretazioni odierne che ne sottolineano l’incipiente o ormai avvenuta decadenza conseguente al trasferimento di gran parte dei poteri ad agenzie private e attori pubblici transnazionali, Sassen ritiene che lo Stato rappresenti «un dominio istituzionale strategico nel quale si compie un lavoro d’importanza fondamentale per lo sviluppo della globalizzazione»9. La transizione da un governo di impronta key7 8 9

W. Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2013, p. 112. Ivi, p. 11, sulla relazione tra Stato e ‘stati mentali’ si sofferma anche Butler in J. Butler, G.C. Spivak, Che fine ha fatto lo Stato-nazione (2007), tr. it. Meltemi, Roma 2009. S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione (2007), tr. it. Einaudi, Torino 2008, p. 44. Sulla persistenza di elementi della Modernità, pur all’interno di un complessivo slittamento verso l’immanenza dettato dagli odierni processi globali,

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nesiana ad uno ispirato ai principi neo-liberali ha prodotto un processo di deregolazione e mercatizzazione di molte funzioni pubbliche, con una conseguente riduzione dell’apparato burocratico soprattutto in quei settori che si erano espansi nella fase welfaristica. Nel contempo si sono venute a rafforzare quelle agenzie governative centrali sia per la gestione dei processi di deregolamentazione che per il funzionamento dei mercati. Lo Stato, dunque, per quanto oggetto di una parziale denazionalizzazione di alcune sue componenti e funzioni, si ripropone come il locus strategico dei nuovi processi poiché è chiamato a costruire l’ambiente istituzionale adatto al funzionamento dell’economia globale. Al contempo la nuova logica organizzatrice realizza un «riallineamento fondamentale all’interno dello Stato, tra lo Stato e il regno del privato»10, che ha come sua principale conseguenza un significativo slittamento di potere verso l’esecutivo e una conseguente perdita di capacità legislative e di partecipazione politica. Viene messo in discussione uno dei discorsi cardine ai quali si appella l’attuale governance, ossia la sua capacità inclusiva e partecipativa: la retorica della compartecipazione e della orizzontalità dei processi decisionali non trova adeguate risposte nelle prassi deliberative, dove prevale una partecipazione generalmente demandata a gruppi di esperti. Tornerò in seguito su questo aspetto, per il momento mi interessa evidenziare come queste analisi mettano in luce la persistenza di uno Stato che, sia pure svuotato di parte della sua sovranità, assume un ruolo strategicamente funzionale al nuovo discorso della governance. Non siamo così distanti da chi, come Foucault, pur provando a costruire un’alternativa concettuale forte rispetto al prevalente pensiero politico statocentrico, afferma «lo Stato è una pratica, e non può essere dissociato dall’insieme delle pratiche di governo che lo hanno fatto divenire effettivamente una maniera di governare, una maniera di fare, e anche di avere a che fare con il governo»11. Come noto, Foucault ha rappresentato un riferimento essenziale per ripensare le pratiche di potere e quelle più specificatamente politiche alla luce di un paradigma che non si limitasse a definire i criteri di legittimazione secondo lo schema tradizionale di tipo gerarchico, ma tenesse presente la “mentalità di governo”, ossia il sistema di pensiero su cui si fondano un insieme di pratiche necessarie alla conduzione di un gruppo di individui. cfr. A. Tucci, Immagini del diritto. Tra fattualità istituzionalistica e agency, Giappichelli, Torino 2012. 10 S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale (2004), tr. it. Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 185. 11 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Corso al Collége de France (1977-1978) (2004), tr. it. a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p. 203.

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Secondo Foucault occorre individuare i differenti modi di governare a partire dalle esigenze intrinseche ai diversi contesti storico-sociali, che hanno dettato l’esigenza di definire, di volta in volta, nuove modalità necessarie a raggiungere determinati obiettivi. La sovranità ha costituito il metadiscorso teorico che, affermatosi con la violenza che ogni discorso capace di imporsi come vero implica, ha legittimato l’ordine di un potere gerarchizzato all’interno di spazi delimitati da confini ben precisi12. La trasformazione del caos in una distribuzione regolata e funzionale su di uno specifico territorio ha così legittimato come unica relazione di potere esistente quella tra sovrano e sudditi, rimuovendo la complessità delle relazioni di potere che attraversano il corpus sociale. È da questa ragione, teorica e metodologica, che nasce l’esigenza di analizzare il governo e la razionalità che ad esso inerisce nei diversi contesti storici, per cogliere la complessità delle funzioni regolative eccedenti il luogo della decisione. Le analisi delle tecniche di esercizio di potere, che implicano la strutturazione di campi di saperi attraverso i quali costruire forme di legittimazione e di giustificazione per la gestione dei governati, sono quindi inestricabilmente connesse alle forme concrete di azione e di intervento del governo. Questo spostamento dell’asse prospettico offre una nuova chiave di lettura non solo per la comprensione degli eventi della Modernità, ma anche per una diversa interpretazione e critica dei fenomeni dell’attualità. In modo particolare consente di non limitare la governance nei termini di una mera dislocazione di poteri da un livello nazionale a uno globale, ma di analizzarla come trasformazione della razionalità di governo, ovvero come l’esito ultimo di quello che Foucault ha definito un lungo processo di «governamentalizzazione dello stato»13. Lo Stato rappresenta il correlato di un certo modo di governare, è strutturato secondo la razionalità politica caratteristica del governo, e la sua costruzione materiale si realizza attraverso pratiche di potere e campi di sapere che lo plasmano e se ne appropriano, oggettivandolo. Lo Stato senza sovranità non significa meno Stato, ma che esso è ordinato a una diversa economia del potere, per questa ragione se possiamo considerare la sovranità in una fase di declino ormai conclamato, allo stesso tempo dobbiamo riconoscere lo Stato come oggetto di una inesauribile metamorfosi. 12 M. Foucault, Bisogna difendere la società (1997), tr. it. a cura di M. Bertani, A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998. 13 M. Foucault, Sicurezza, Territorio, Popolazione, cit., p. 89. Sulla posizione teorica di Foucault nei confronti dello Stato mi permetto di rinviare a S. Luce, Fuori di sé poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009, in particolare pp. 142-154.

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2. Sulla logica economica della governance La governance, termine già in uso nel secolo scorso presso gli economisti a proposito del modo di governo di strutture economiche complesse (corporate governance), è oggi divenuto emblematico della transizione verso un modello di esercizio della decisione politica caratterizzato da forme di cooperazione e da interazione tra soggetti di natura diversa, che utilizzano svariati strumenti per l’elaborazione di policies, che dovrebbero essere caratterizzate da maggiore trasparenza dei processi decisionali proprio in ragione del coinvolgimento di soggetti non istituzionali. Il discorso attraverso il quale l’attuale governance prova a legittimarsi sta nella sua capacità di articolare il rapporto tra efficienza amministrativa, efficacia della scelta politica ed esigenze della società civile in maniera più consona alla nuova complessità del mondo globale. Se da un punto di vista politico l’atto decisionale dell’auctoritas sovrana è stato surrogato con sempre maggiore frequenza dalle procedure negoziali e compartecipative, da un punto di vista giuridico, si è verificato un ampliamento del sistema della cosiddetta soft law, ossia una forma di diritto che, pur implicando obblighi, depotenzia il momento sanzionatorio. Questo modello normativo, sottraendosi alla forma classica e gerarchizzata della legge, punta tutto sulla presunta capacità di produrre risultati e prestazioni senza passare per i classici percorsi istituzionali di natura formale. Il diritto assume così forme inedite per rispondere alle esigenze autoregolative dei mercati, ma anche per riempire quei vuoti di potere creati dal nuovo capitalismo globale. Si tratta di zone grigie, caratterizzate da una legalità precaria e incerta, nelle quali si installano attività giuridiche come lex mercatoria, che ne rappresenta una modalità paradigmatica per la sua capacità di auto-obbligare i contraenti, by-passando il potere legislativo dello Stato e riuscendo a combinare il carattere della specialità con quello dell’universalità14. Siamo dinanzi a prassi che provengono dal diritto commerciale, dunque di natura intimamente privatistica, che occupano spazi tradizionalmente pubblici, condensando tutte le contraddizioni che l’osmosi pubblico-privato può produrre in termini di diseguaglianza a livello di implementazione e garanzia delle parti e più in generale di asimmetrie nei rapporti di forza15. Il giuridico assume 14 Per un inquadramento generale del concetto cfr. A. Galgano, Lex mercatoria, Il Mulino, Bologna 2010; cfr. anche M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000, in particolare pp. 57-99. 15 Rischi sono messi in evidenza da A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 75-85.

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costitutivamente i segni dell’economico in quanto non si limita ad essere funzionalizzato ad esso, sia pure in una posizione autonoma, piuttosto si genera al suo interno e ne viene plasmato. Nel suo complesso la governance si presenta, dunque, come un vero e proprio dispositivo capace di articolare, attraverso continui e reciproci nessi, tecnologie di governo, pratiche e saperi, che coinvolgono anche lo Stato, ma congiuntamente ad una pluralità di attori eterogenei e attraverso meccanismi estremamente duttili16. Se questa descrizione può risultare abbastanza aderente rispetto a quanto accade nel mondo oggi, tuttavia non è sufficiente per rischiarare l’opaco nucleo teorico e ideologico che sostiene la governance i cui limiti appaiono alquanto vaghi, e quindi maggiormente potenti perché arbitrariamente dilatabili nella discrasia tra concetto e pratica. Non possiamo dunque limitarci all’analisi dell’organizzazione e dell’operatività dei sistemi di potere e delle relazioni che si creano tra gli attori politici e le organizzazioni locali e transnazionali, ma, seguendo la lezione foucaultiana, è necessario interrogarsi sulle condizioni di possibilità e di intelligibilità dei modi in cui il governo si prefigge di agire sul comportamento di sé e degli altri al fine di ottenere determinati obiettivi. Spostare l’attenzione verso i meccanismi che sorreggono l’odierna governamentalità non significa che le odierne strategie di governo siano un’inesorabile conseguenza della crisi strutturale dello stato sovrano che, abbiamo visto, conserva un ruolo strategico ancora rilevante. Così come sono quantomeno discutibili gli argomenti utilizzati per giustificare la loro capacità di aprire nuove possibilità di partecipazione per il carattere orizzontale e poliarchico che li caratterizza. Considero invece la governance un dispositivo del tutto funzionale all’odierno discorso neoliberale. La rappresentazione irenica e inclusiva, che si esplicita nei processi di tipo negoziali tra interessi differenti, è sintomatica della sua logica economica che la sorregge, quella dolce del commercio, delle transazioni e degli interessi17. Le relazioni sociali sono 16 S. Vaccaro, Il dispositivo della Governance, in A. Palumbo, S. Vaccaro (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Mimesis, Milano 2006. 17 A.O. Hirschman, Le passioni e gli interessi (1977), Feltrinelli, Milano 1979, questa ricostruzione è emblematica di come il capitalismo, inteso come forza pacificatrice, sia considerato il naturale sbocco di una società fondata sull’interesse, piuttosto che sulle conflittuali e pericolose passioni. Sul mutamento di senso che ha avuto il concetto di interesse, cfr. Id., Il concetto di interesse: dall’eufemismo alla tautologia (1985), in Id., L’economia politica come scienza morale e sociale, Liguori, Napoli 1987, pp. 53-69.

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immesse in un campo discorsivo dominato dall’ideologia di mercato che fa della loro immunizzazione, in nome dell’interesse individuale, il suo tratto distintivo, capovolgendo la prospettiva affettiva e passionale di una politica che non può fare a meno dei processi di identificazioni come dei conflitti18. Uno degli effetti più evidenti del processo di governamentalizzazione si concretizza nell’offuscamento della moderna dicotomia pubblicoprivato, i cui confini sono divenuti decisamente più sfumati fino a sparire del tutto in taluni casi. L’argomento utilizzato per giustificare l’inclusione di attori privati nei processi di decisione pubblica è l’intento di rendere i destinatari di decisioni partecipi delle stesse, non a caso si parla di stakeholders, ossia portatori di interessi, ma molto più spesso queste nuove modalità di cooperazione sono aperte solo alle cosiddette expertise19. Questo allargamento della sfera decisionale si fonda su un duplice presupposto: i soggetti non sono considerati portatori di una ratio esclusivamente egoistica; essi, in quanto depositari di informazioni e di conoscenze specifiche nel settore in cui operano, consentono una riduzione dei costi attraverso un’ottimizzazione dell’allocazione delle risorse20. Il modello antropologico di riferimento attinge all’alveo economico, che considera homo œconomicus colui che risponde al proprio interesse, naturalmente convergente con quello degli altri, e fortemente motivato a massimizzarne la realizzazione, orientato da una qualche forma di calcolo utilitario. Attraverso questa rappresentazione, l’uomo economico è colui che fa da sé, grazie alla sua perfetta razionalità, per cui non va limitato, ma lasciato fare21. La scuola neoclassica ha poi apportato importanti rimodulazioni a questa prospettiva, riprese da Von Mises e dalla Scuola di Chicago, sostenendo che le nostre condotte siano orientate naturalmente verso un’allocazione che si fonda su un’ottimizzazione dei mezzi a disposizione. Questo significa non solo conoscere perfettamente il contesto 18 L. Bazzicalupo, Legame sociale, godimento, mercato in A. Pagliardini (a cura di), Il reale del capitalismo, et al./Edizioni, Milano 2012, pp. 37-40. 19 G. Borrelli, Tra governance e guerre: i dispositivi della modernizzazione politica alla prova della mondializzazione, in Id. (a cura di) Governance, cit., pp. 7-37. 20 M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010, in particolare pp. 56-63. 21 Per una ricostruzione di questo concetto, S. Caruso, Homo œconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze University Press, Firenze 2012, il quale mostra come questo concetto, pur fondandosi su una serie di caratteristiche molto discutibili e spesso criticate all’interno della stesse teorie economiche, abbia fatto breccia anche in economisti avveduti, costruendo una vera e propria ideologia dell’homo œconomicus.

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in cui si opera, ma anche accettare quello che, parafrasando Freud, potremmo chiamare il principio realtà. Si innesta un principio di razionalità strategica che fa dell’individuo un imprenditore di se stesso destinato ad agire in termini di utilità e di incremento delle proprie potenzialità allocative. Il nuovo homo œconomicus finalizza qualsiasi propria condotta ad un’assegnazione ottimale del proprio capitale umano, che non deriva solo da caratteri genetici o biologici, ma è il frutto di un vero e proprio investimento educativo e professionale che produce conoscenza, intesa come fattore di produzione capace di aumentare la produttività dell’individuo. Pertanto il soggetto si costruisce come una sorta di impresa permanente e duttile in grado di interagire con l’ambiente in cui vive. Il milieu umano non è però assimilabile alla fisicità del territorio, ossia lo spazio sul quale stabilire leggi, universali ed astratte, necessarie per garantire le condizioni minime per una pacifica convivenza, piuttosto si presenta come un complesso di relazioni mutevoli e contingenti condizionate da molteplici variabili. Mentre nella teoria classica l’individuo obbedisce esclusivamente al proprio interesse, con le teorie neoliberali la sua azione interagisce con la realtà e tutte le sue imponderabili variabili, rispondendo a tutte le modificazioni. Si realizza un’interdipendenza tra individuo, società e mercato, il cui principale paradosso deriva dalla determinazione di un campo d’immanenza indefinito e mobile in cui l’individuo-impresa è libero, in quanto ha spazi di azione e di iniziativa, ma è al contempo implementato in un complesso di dispositivi finalizzati a governarlo ed esposti, a loro volta, ad eventi e variazioni contingenti che producono effetti accidentali. Insomma si delinea un bizzarro intreccio tra esaltazione del momento attivo e volontario dell’agire e dello scegliere con l’opacità di un sistema, non totalizzabile e pertanto mai del tutto governabile in quanto tale. Le esigenze governamentali di creare meccanismi adeguati a gestire procedure di problem-solving e a soddisfare il bisogno di partecipazione senza limitare le esigenze di efficienza e ottimizzazione, trovano uno straordinario serbatoio ideologico nell’imperante rational choice theory, secondo la quale gli individui sono in grado di acquisire tutte le informazioni di cui hanno bisogno sulle variabili in gioco e ne fanno un uso efficiente in termini previsionali sul comportamento altrui. La nuova logica economica si impone come una teoria del tutto, sottomettendo alla razionalità economica, o ciò che si presume come tale, qualsiasi ambito della vita sociale e politica. Il processo di autorappresentazione dell’economia in un universo di individui autonomi e capaci di fare scelte libere e razionali, come già ci avvertiva Foucault, svela la contestuale attitudine dei soggetti di risponde-

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re alle sollecitazioni dell’ambiente in cui operano, rendendoli pienamente governabili22. L’universalizzazione del discorso economico a principio di intelligibilità e di decifrazione dei rapporti sociali e dei comportamenti individuali è indisgiungibile da due aspetti costitutivi dell’odierno spirito del capitalismo. Innanzitutto emerge il tratto liberogeno del nuovo discorso economico nel quale il soggetto è libero di costruirsi, di farsi agency di se stesso, libero di godere senza costrizioni e senza quelle dilazioni che la weberiana etica protestante imponeva al capitalismo classico. Si tratta però di soggettivazioni ambivalenti in quanto assoggettate ad un discorso che le produce come libere, ma al contempo nega questa libertà che resta sempre al di là delle procedure che le fanno esistere. La libertà non è infatti un valore assoluto e universale garantito dalla nuova governamentalità liberale, piuttosto è il prodotto di relazioni rese possibili da un potere che cresce dentro di esse, riproducendone all’infinito le condizioni di possibilità. Se la libertà è il funzionamento naturale del sociale, il governo è chiamato a una continua attenzione e regolazione di tale funzionamento, difendendolo dai suoi stessi rischi, innescando meccanismi sicuritari che finiscono per distruggerla23. Un secondo aspetto che esplicita l’egemonia della logica economica nell’odierna mentalità governamentale è costituito dal mercato che, a partire dalle teorie ordoliberali, non è stato più definito a partire dallo scambio bensì dalla concorrenza, divenendo una sorta di modello sociale fondato sulla diseguaglianza piuttosto che sull’equivalenza24. Il mercato è dotato di una propria essenza, la concorrenza, che non è il risultato di un semplice gioco degli istinti e dei comportamenti, ma va continuamente sollecitata. Viene così realizzata una fondamentale dissociazione tra economia di mercato e politiche del laissez-faire, dettata dall’esigenza di creare le condizioni per una concorrenza pura. Queste condizioni non sono assicurate dai meccanismi automatici di aggiustamento suggeriti dalla teoria classica, nella quale vige una rigida separazione tra sfera politica, con lo Stato relegato al ruolo di guardiano notturno, e sfera economica. Attingendo al pensiero gestaltico, gli ordoliberali liberano il concetto di concorrenza da qualsiasi obiettivismo, presentandolo come forma logica dell’economia: il mercato è il modo migliore per organizzare l’attività economica, ma neces22 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Corso al Collège de France 1978-1979 (2004), tr. it. a cura di M. Bertani, V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005. 23 Ivi, pp. 65 e ss. 24 M. Lazzarato, Il governo delle diseguaglianze. Critica dell’insicurezza neoliberista (2008), tr. it. ombre corte, Verona 2013.

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sita di essere organizzato giuridicamente dallo Stato, che tuttavia non deve in alcun modo modificarne i risultati spontaneamente scaturiti25. Lo Stato fa dunque da garante attraverso l’istituzione di un principio di formalizzazione, rimanendo però cieco rispetto alle dinamiche economiche. Questa posizione teorica viene superata dal nuovo fondamentalismo di mercato, ispiratore dell’attuale capitalismo finanziario, nel quale si combinano l’obiettivo di una piena deregulation dei mercati, attraverso l’esonero completo dello Stato e delle istituzioni pubbliche dall’esercizio di controlli e di attività di organizzazione, con la trasformazione del processo produttivo, basato sulla compressione degli investimenti nel capitale fisico, ossia ciò che è necessario alla produzione reale, a vantaggio di investimenti parassitari, ossia quelli che trasformano i profitti in rendita26. 3. Conclusioni Nell’odierno capitalismo la produzione, che è stato al lungo il luogo di controllo e di mediazione sociale27, ha lasciato sempre più spazio alla domanda e alla centralità del desiderio e dei consumi, con la conseguente produzione di soggetti liberi, non solo di scegliere l’oggetto per soddisfare senza sosta i propri desideri, ma anche di valorizzarsi, di potenziare se stessi, per essere più competitivi all’interno di un mercato del lavoro dove flessibilità, e di conseguenza precarietà, sono le parole d’ordine. Le nuove modalità di sussunzione fuoriescono dai confini delle fabbriche per mettere a produzione tutte le aree di potenzialità trasformativa della vita di ciascun soggetto, facendo emergere il tratto intrinsecamente bioeconomico della nuova razionalità governamentale che, come evidenzia Bazzicalupo, 25 Cfr. A. Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, ombre corte, Verona 2010, in particolare pp. 67-123. 26 ��������������������������������������������������������������������������������� Sulla transizione verso un regime di accumulazione capitalistica sempre più legata all’immaterialità del lavoro come della finanza, mi limito a citare C. Marazzi, Il posto dei calzini, Casagrande, Bellinzona 1997, G. Colletis, B. Paulré (coordonné par), Les nouveaux Horizons du capitalim: Pouvoirs, Valeurs, Temps, Economica, Paris 2008, C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006. 27 Cfr. R. Castel, La metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato (1995), tr. it. Sellino, Avellino 2007, il quale mostra come lo sbriciolamento della società salariale sia indisgiungibile dal processo di crescente deregulation normativa, che ha depotenziato le istituzioni di rappresentanza collettiva e le logiche negoziale per imporre un’individualizzazione dei rapporti contrattuali.

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«regola le agency e i poteri senza trascenderli, compatibile con altre tecnologie di potere, che essa ri-organizza all’interno di nuove costellazioni e assemblaggi così come regola i soggetti: consumatori, clienti e utenti e insieme liberi agenti e imprenditori di se stessi in una compatibilità inclusiva anche di tecniche diverse e precedenti»28. Logica di governo e logica economica sono oramai indistinguibili e vanno a costituire una sorta di nuova Weltanschauung dominata da un mercato che incarna simbolicamente e ideologicamente un modello di democrazia in grado di offrire a tutti, almeno potenzialmente, l’opportunità di partecipare, di competere, di investire e, possibilmente, di guadagnare29. La subalternità rispetto a questa visione del mondo e la debolezza di contro-discorsi capaci di destabilizzarne le fondamenta ideologiche, rende urgente la questione su quali siano gli spazi per costruire momenti di resistenza e di soggettivazione attiva. Se l’odierno governo economico delle vite non si cala dall’alto del giuridico, ma ne coglie la norma interna del loro svolgersi, ponendosi su un piano di immanenza, è su questo piano che va pensata la possibilità di slittamenti e attriti rispetto alle logiche governamentali. La negoziazione potrebbe rappresentare il concetto che, pur interno allo strumentario concettuale della governance, può sostituire e complicare quello foucaultiano di resistenza, installando possibili controcondotte all’interno dell’opaco spazio dell’infrapolitica. Come sottolinea Chatterjee: «la governamentalità opera sempre su un campo sociale eterogeneo, su gruppi di popolazione molteplici e con strategie composite. Non è certo l’ambito dell’esercizio uguale e uniforme dei diritti di cittadinanza»30, proprio per questo le categorie offerte dalla governamentalità possono essere piegate e rivestite della capacità immaginativa di gruppi e comunità che riescono ad esprimere

28 L. Bazzicalupo, Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo, Carocci, Roma 2013, p. 81. 29 Afferma Gallino: «il neoliberalismo ha attuato con successo, ma a favore del capitalismo, il concetto di egemonia culturale elaborato da un marxista, Antonio Gramsci», L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, p. 26. Su come questo processo di egemonizzazione sia stato reso possibile dall’occupazione di posizioni influenti – nell’istruzione, nei media, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende e nelle istituzioni finanziarie, in strutture chiave dello Stato e nelle istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Organizzazione mondiale per il commercio – dai sostenitori della svolta neoliberista, cfr. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo (2005), tr. it. Il Saggiatore, Milano 2007. 30 P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati (2004), tr. it. a cura di S. Mezzadra, Meltemi, Roma 2006, p. 76.

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rivendicazioni collettive31. È una prospettiva che apre a forme di partecipazione dal basso, che meglio si attagliano al movimento deformalizzante della decisione politico-giuridica e al processo di frammentazione delle tradizionali classi sociali. I processi di identificazione sono necessari, ma deboli, legati a specifiche esigenze, che non implicano alcun irrigidimento su forme di condivisione più ampie e generalizzata legate, ad esempio, alla costruzione di una coscienza di classe che risulta qui dislocata e incoerente32. È indubbio che la logica negoziale sia inclusiva, ma solo fino ad un certo punto, per cui c’è sempre il rischio che ci siano esclusi ed emarginati le cui battaglie non verranno mai combattute perché sempre estromesse, non solo dal conteggio democratico, ma dalla stessa opinione pubblica. Per questa ragione, l’uso della negoziazione, come mezzo di rivendicazione e resistenza, può assumere una valenza politica solo nel momento in cui se ne valorizza il momento strategico e contro-discorsivo, la sua natura evenemenziale, ossia la capacità di articolare differenze al fine di costruire un blocco di potere contro-egemonico, che crei una forma di identificazione simbolica, che dia luogo ad una volontà collettiva antagonista, sia pure transitoria e intrinsecamente eterogenea. Occorre allora appellarsi ad un’idea di politica capace di esprimere la radicalità del dissenso, che riproponga la sua vocazione conflittuale per sfuggire alle logiche neutralizzanti dell’odierna governance economica.

31 F. Chicchi, Soggettività smarrita. Sulle retoriche del capitalismo contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2012, che, nell’analizzare la transizione da una modalità di sussunzione formale e reale ad una biopolitica, sottolinea come la presa del capitale avvenga a livello di immaginario. 32 Sul concetto di negoziazione, cfr. H. Bhabha, I luoghi della cultura (1994), tr. it. Meltemi, Roma, 2001, pp. 36-60.

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Antonio Tucci

CITTADINANZA E IDENTITÀ. PRATICHE E FORME DELLA SOGGETTIVAZIONE POLITICA

I processi di governance in atto e le conseguenti trasformazioni che coinvolgono l’ordine politico e giuridico producono effetti di non poco conto sui nuovi processi di soggettivazione politica, ponendo in discussione in primo luogo la coppia concettuale cittadinanza e identità sulla quale si era tradizionalmente costruito sia il profilo giuridico politico individualistico del soggetto, che quello comunitario dei popoli. Cittadinanza e identità – parametri della politica moderna e multiculturalista – persistono e appaiono capaci ancora di mobilitare e aggregare lotte politiche e rivendicazioni giuridiche, ma sono indeboliti e sottoposti a trazioni potenti che li trasfigurano, ricollocano, disaggregano. Il tema assume una particolare rilevanza, oggi, dietro la spinta ad una sempre maggiore partecipazione e inclusione che deriva in primo luogo dalla politica istituzionale europea, che mediante le cd. best practices della good governance promuove l’incremento delle condizioni di vita, non solo materiali, degli individui a partire dalla garanzia di libertà, uguaglianza e diritti di partecipazione, riproducendo, però, per altre vie il progetto illuministico eurocentrico1. D’altra parte il quadro si mostra molto più complesso e problematico, rispetto alla progettualità politica integrazionistica, in special modo di fronte ai movimenti migranti. Si configura infatti un quadro socio-politico, differentemente e contraddittoriamente, «popolato da attori, pratiche, discorsi […] investito e quotidianamente plasmato da rapporti di dominio e di sfruttamento, oltre che da dispositivi di governo, di regolazione giuridica e simbolica»2. 1

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«Insieme allo Stato moderno, il concetto di popolo e il discorso dei diritti si sono ormai generalizzati nell’ambito dell’idea di nazione. Ma si è anche creata una forte spaccatura tra le avanzate nazioni democratiche e il resto del mondo». P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati (2004), tr. it. Meltemi, Roma 2006, p. 45. S. Mezzadra, M. Ricciardi, Introduzione, in Eid. (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, ombre corte, Verona 2013,

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Ed è proprio rispetto al fenomeno delle migrazioni che lo scenario mostra tutta la sua emergenza e drammaticità, dal momento che le istituzioni del diritto internazionale e comunitario si adoperano a stabilire instancabilmente i criteri per ridefinire le soggettività giuridiche e i confini contro i quali ogni volta, però, si infrangono le vite e le speranze dei più – migranti o profughi. Tutto dentro una serie di continui e incessanti rinvii di competenze e responsabilità: legge nazionale, convenzioni internazionali, fonti europee ecc. La stessa normativa sulle migrazioni – le norme su respingimento e espulsione, il reato di immigrazione clandestina e quello correlativo di favoreggiamento – si riferisce a categorie-dispositivi che hanno tradizionalmente funzionato in base al loro inserimento nel complesso sistema dell’ordinamento, chiamati ad assolvere la titolarità dei diritti e l’appartenenza attraverso dinamiche di inclusione ed esclusione, tipiche della logica sovranista. In questo senso la lettura della governance mediante un approccio che rompe con la tradizionale semantica del governo e che muove dalla prospettiva del paradigma governamentale, può essere utile per ripensare le forme della soggettivazione politica e giuridica. Il paradigma governamentale, infatti, «pensa il potere come produttivo, come transitività generatrice di potere, come relazionalità che attiva la spirale inconclusa di un assoggettamento soggettivizzante, per cui la libertà trova la sua radice nel governo e lo modifica a sua volta […] La governamentalità […] diventa nella fase neoliberale la razionalità specifica di un potere politico, non imperniato sulla Legge inclusiva-escludente, ma su una tecnica di inclusività, differenziazione, compatibilità»3. Le tecniche governamentali, in altri termini, non escludono di principio nessuno, piuttosto includono selettivamente in base alla compatibilità con criteri che variano a seconda degli obiettivi per i quali è messa in opera l’esercizio di governo. L’obbedienza e le condotte conformi sono effetti di processi di soggettivazione che assoggettano soggettivizzando, incanalano e orientano le energie ai fini di un autogoverno conforme. Il discorso dei diritti e quello delle identità si risolve in forme di aggregazione degli individui in gruppi (o popolazioni) accomunate da tratti governabili in modo analogo e potenzialmente capaci di autogoverno. Certo questa dinamica di forme di disciplinamento e controllo con tecniche di sollecitazione e potenziamento generano anche sempre resistenza e dunque definiscono i singoli e i gruppi attraverso le deviazioni e differenze che essi sanno praticare. Il

3

p. 25. L. Bazzicalupo, Il soggetto politico: morte e trasfigurazione, in “Filosofia politica”, 1, 2012, p. 12.

A. Tucci - Cittadinanza e identità. Pratiche e forme della soggettivazione politica 197

permanere delle forme della cittadinanza, ma anche dell’identità, assume dunque un profilo strategico, come se si trattasse di strumenti consolidati per raggiungere fini concreti, strumenti da utilizzare nella negoziazione e nella transazione concreta e specifica. La Norma, l’Ordine, la Legge assumono un deciso carattere tecnico, vengono sottoposte ad un regime di traduzione incessante, di adattamento alle prospettive di autogoverno. La traduzione dei diritti della cittadinanza e dei linguaggi identitari mostra a sua volta i suoi limiti ogni volta che, sotto l’egida retorica dei diritti umani, viene adattata a contesti diversi e, mentre sollecita integrazione non sempre paritaria, urta contro i limiti di incommensurabilità che cooperano alla ricostruzione di confini e di estraneità. Il soggetto, dunque, si definisce piuttosto che formalmente con i residui di modernità dell’identità e della cittadinanza, all’incrocio, nell’intersezione e sovrapposizione, di tecniche di soggettivazione (anche e soprattutto giuridico-formale o etnica-identitaria) e assoggettamento. Nella alternanza, o meglio nella compatibilità, di forme di mediazione e negoziazione, controcondotta e resistenza, i processi di soggettivazione esorbitano e strumentalizzano le categorie in cui tradizionalmente il paradigma sovrano ha incasellato il soggetto (cittadino, individuo autonomo titolare di diritti ecc.), per collocarsi in strategie di governo e di lotta. In esse i soggetti assumono ambivalentemente lo status di soggetti liberi e autonomi e allo stesso tempo assoggettati alle pratiche discorsive dominanti, modificandole e adattandole, però ogni volta, alle proprie particolari forme di vita. Si conferma, così, quella concezione relazionale e processuale, generativa, del potere che, nodo cruciale della riflessione foucaultiana, segna lo spostamento e il dislocamento da una concezione puramente verticistica del potere ad una accezione orizzontale, dal basso, in cui gli individui sono al contempo oggetto e veicolo, tramite, del potere stesso4: «l’apparato disciplinare genera soggetti, ma come conseguenza di tale atto generativo porta nel discorso le condizioni per il sovvertimento dell’apparato stesso»5. 1. Cittadinanze formali La razionalità moderna, che regola ancora molti discorsi politici contemporanei con il suo rinvio a concetti e categorie – cittadinanza, dirit4 5

M. Foucault, La volontà di sapere (1976), tr. it. Feltrinelli, Milano 1988. J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento (1997), tr. it. Meltemi, Roma 2005, p. 94.

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ti, identità – che definiscono frames, recinti normativi formali e insieme, identificazioni rigide, entro i quali vengono ‘formati’ i soggetti e il loro agire, genera tanto l’universalismo dei diritti quanto gli «spettri della razza», contro la quale c’è il rischio che i «discorsi sulle nuove cittadinanze […] rimangono prigionieri di approcci eccessivamente “culturalisti” [e si fanno] veicolo di analisi che non riescono a mettere adeguatamente in luce la dimensione materiale – e radicalmente conflittuale su cui esse si vanno necessariamente costituendo»6. Una razionalità che in ogni caso non arretra di fronte alla «nuova domanda di politica attiva non tradizionale, che esprime istanze e si attiva su temi concreti e trasversali dalla forte valenza simbolica ed emotiva. [Di fronte] all’emergenza di nuove soggettività di massa genericamente democratiche, informali e inventive, che mettono in rete rivendicazione della libertà e bisogni sociali, individualizzazione e impegno collettivo, rivolta contro il potere arbitrario e identità. La cosa interessante è che almeno in parte questo risveglio politico si richiama – talvolta anche con qualche ingenuità, ma certamente con buoni motivi – al nucleo normativo ed emancipativo della soggettività razionalistica moderna (autonomia, autodeterminazione, partecipazione) e al suo corrispettivo istituzionale (diritti, garantismo limitazione del potere, democrazia pluralista, giustizia redistributiva ecc.), che diventano così oggetto di una appropriazione che li rimobilita e muta di segno rispetto alla declinazione “occidentalista”»7. Un esempio concreto di questo processo è rinvenibile nelle teorie improntate al multiculturalismo. Come è noto, è ampia la letteratura che considera come nei più diversi approcci, che disaggregano la soggettività piena della tradizione moderna, quella stessa pienezza si riproponga con altre forme e altre modalità. Tra questi approcci, un’attenzione particolare merita senza dubbio la proposta di Benhabib8: una proposta che – pur riconoscendo l’attuale porosità e duttilità dei concetti di cittadinanza e sovranità, con particolare attenzione ai flussi migratori – si risolve in termini normativi integrazionistici che rinviano, nonostante qualche aggiustamento, alle strategie democratiche deliberative, occidente-centriche, di gestione del conflitto multiculturale. Queste ultime tendono a risolversi mediante 6 7 8

M. Mellino, Migrazioni, razza e cittadinanza postcoloniale, in S. Mezzadra, M. Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, cit., p. 167. G. Preterossi, Ciò che resta del soggetto, in “Filosofia politica”, 3, 2011, p. 357. S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (2002), tr. it. il Mulino, Bologna 2005 e Ead., Cittadini globali (2006), tr. it. il Mulino, Bologna 2008.

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la tradizionale e moderna dicotomia identità/alterità, inclusione/esclusione che ha mostrato di essere inadeguata e impraticabile nella complessificazione dei flussi globali, questo perché nella proposta di Benhabib assume centralità una nozione di cittadinanza e di diritti, performativa di soggettività definite e formalmente identificabili, di soggettività che si formano e agiscono all’interno di uno specifico campo semantico9, delimitato da un uso delle categorie che – se pur duttile e aperto alle nuove istanze – non riesce fino in fondo a misurarsi e rendersi compatibile con un diffuso sottrarsi alla loro rigidità e con la pratica di forme di soggettivazione funzionali alla soluzione di problemi specifici, spesso economici. É vero che nei processi di “iterazione democratica”, «sia le identità coinvolte, sia il senso stesso delle rivendicazioni di diritti sono ripresi, rielaborati e imbevuti di un nuovo e diverso significato. Gli attori politici […] molto spesso entrano in scena con una certa percezione della propria identità e della propria posizione»; ed è altrettanto vero, ad esempio nel caso delle donne musulmane implicate nell’affaire du foulard, che esse da “corpi docili” si trasformano in “soggetti pubblici”, pronte, avverte Benhabib, a rimettere «in discussione anche il significato delle stesse tradizioni islamiche per le quali adesso stanno combattendo»10. In altri termini non può non essere riconosciuta in questa operazione di disaggregazione della cittadinanza la consapevolezza e la presa d’atto che si possano «immaginare forme di azione e soggettività politica in grado di anticipare nuove modalità di cittadinanza politica […] nuove forme di azione politica che mettono in crisi le distinzioni tra cittadini e residenti permanenti, fra chi sta dentro e chi sta fuori»11. Dichiarare la fine del modello tradizionale di cittadinanza, non significa perciò che venga meno la sua “forza normativa”. Una normatività che, però – per Benhabib e per quanti enfatizzano «i benefici ottenuti dai migranti privi di cittadinanza formale»12 – tende in ogni caso a puntare l’accento sul momento istituzionale della democrazia e del diritto cosmopolitico, sorretto «dal potere delle forze democratiche all’interno della società civile globale»13, per la 9

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«Chi agisce […] agisce precisamente nella misura in cui è costituito o costituita come agente e dunque come operante all’interno di un campo linguistico fatto sin dall’inizio di limiti che conferiscono il potere di agire», J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo (1997), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 23. S. Benhabib, Cittadini globali, cit., pp. 112 e 113. Ivi, pp. 62-63. A. Ong, Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione (2006), tr. it. La Casa Usher, Firenze-Lucca 2013, p. 44. S. Benhabib, Cittadini globali, cit., p. 112.

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cui implementazione si auspica qualche forma di costituzionalizzazione del diritto internazionale in riferimento ad una “comunità politica mondiale” non meglio definita. Tutto questo, però, vale la pena ribadirlo, si risolve inevitabilmente nella definizione dell’inclusione come integrazione e assimilazione ad un soggetto formale e astratto: un attore politico democratico secondo i criteri e le regole della tradizione democratica occidentale, dove il conflitto e l’antagonismo viene assorbito dalle procedure democratiche cosmopolitiche. Può essere difficile, di contro, accettare che i capisaldi della nostra cultura democratica e giuridica siano sottoposti a forme di contrattazione, ma è necessario prenderne atto, magari segnalando i rischi che ne emergono. Bisogna, perciò, in primo luogo provare a comprendere come il soggetto, piuttosto che essere e definirsi in modo precostituito rispetto alla politica, si dà, e si identifica – si connota – come soggettività politica, rimanendo immerso nel sociale, mediante forme di agency concrete, particolari, contingenti: non più il soggetto titolare di diritti universali, ma il soggetto che, a partire da sé – arendtianamente coinvolto nelle pratiche politiche e sociali – questi diritti li rivendica, e li usa, in qualche modo. Si tratta di guardare dunque alle pratiche di cittadinanza, nei termini della politica dei governati, secondo la ormai nota definizione di Chatterjee. Bisogna, in altri termini, guardare alle forme concrete – subpolitiche e infragovernamentali – di resistenza e mediazione, di quanti esclusi o assimilati, omologati, segnano percorsi alternativi, ma complementari, rispetto ai discorsi di verità dominanti, nel segno della compatibilità delle razionalità propria della governamentalità neoliberale e conseguentemente della potenziale inclusività di tutti. Un’operazione che è bene evidenziata ad esempio all’interno di un processo di “riformulazione della questione coloniale”14, da parte di quanti proprio alla luce delle tecnologie governamentali sottolineano «l’eterogeneità costitutiva dell’attuale spazio globale […] un’eterogeneità che viene a configurarsi come l’esito sempre instabile di un processo complesso»15, con l’evidente conseguenza dell’emergenza 14 Cfr. D. Scott, Colonial Governmentality, in J.X. Inda (ed.), Anthropology of Modernity. Foucault, Governmentality, and Life Politics, Blackwell Publishing, Oxford 2005, pp. 23-44. 15 M. Mellino, Cittadinanza postcoloniali. ������������������������������������� Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Carocci, Roma 2012, p. 55. Il passo citato così prosegue ad evidenziare l’ambivalenza della costituzione della soggettività all’interno del capitalismo post-fordista: «da una parte sta a indicare una differenza che rivendica la propria autonomia e dall’altra un capitale che cerca di costituirsi mettendo al lavoro quella stessa enunciazione soggettiva, ovvero quella vita che irrompe sulla

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di storie e soggettività altre rispetto alla narrazione omogenea e omologante dello Stato nazione: «La governamentalità – afferma Chatterjee – opera sempre su un campo eterogeneo, su gruppi di popolazione molteplici e con strategie composite. Non è certo l’ambito dell’esercizio uguale e uniforme della cittadinanza»16. 2. Esercizi e pratiche di cittadinanza Una particolare attenzione a questo punto meritano quelli che Aihwa Ong chiama “processi socioculturali di soggettivazione” quando afferma che «i rifugiati e gli immigrati poveri sono soggetti a una serie di codificazioni e regolamentazioni amministrative determinanti che governano le modalità con cui essi dovrebbero venire valutati e trattati, e il modo in cui dovrebbero pensare se stessi e le loro azioni […]. Gli effetti delle tecnologie di governo – nei modi in cui vengono messi in circolo attraverso i programmi e gli esperti sociali che cercano di plasmare le soggettività individuali – possono però essere rifiutati, modificati o trasformati dagli individui, che non sempre finiscono per pensare, agire o cambiare esattamente nei modi previsti dai piani e dai progetti dell’autorità. Così, per quanto le tecnologie di governo abbiano una parte importante nella produzione dei cittadini – assoggettandoli a determinate razionalità, norme e pratiche –, anche gli individui giocano un ruolo nella propria soggettivazione e autoproduzione. L’ambivalenza è un prodotto inevitabile di tutto il processo»17. Ong, come è noto, analizza il processo di acquisizione della cittadinanza, le dinamiche di soggettivazione politica e sociale di persone provenienti da altri paesi, a partire dal caso emblematico dei rifugiati cambogiani in fuga dal regime di Pol Pot, per mostrare i processi di decostruzione delle soggettività identitarie al cui posto appaiono forme di relazione e di pratiche mobili. Ong, seguendo le tesi di Foucault, assume come riferimento il contesto nord-americano proprio perché è quello che illustra meglio la logica governamentale dell’homo oeconomicus, imprenditore di se stesso. La scena cercando di sottrasi alla sussunzione entro l’oggettività spettrale della valorizzazione capitalistica. In sintesi, il postcoloniale […] ci interpella come sintomo di un’eterogeneità che sta a indicare non tanto l’estrinsecazione lineare e pacificata di un processo di assoggettamento oggettivo o autonomo, bensì il carattere aperto e in permanente transizione del capitale globale». 16 P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza, cit., p. 76. 17 A. Ong, Da rifugiati a cittadini. Pratiche di governo nella nuova America (2003), Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 41.

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soggettivazione che si innesta in questo contesto viene regolata su questo standard comportamentale. Eppure è proprio qui, nelle problematiche che emergono da una società multiculturale e transnazionale, che si evidenzia una trascrizione della cittadinanza stessa – nodo concettuale della politica e del diritto moderno – in termini di flessibilità, una trascrizione che inevitabilmente intralcia (disturba, interferisce) i modelli di soggettivazione, classificazione e identificazione. L’espressione cittadinanza flessibile – nozione declinata da Ong a proposito della “diaspora dei manager cinesi” nel sud est asiatico18 – che in un diritto classico sarebbe un ossimoro e una contraddizione in termini, evidenzia infatti l’ambivalenza degli effetti dei dispositivi governamentali: questi oscillano tra l’assunto della presunta e presupposta libertà ed autonomia dei governati, e la concreta fragilità delle pratiche che esplicitano questa libertà e potere, sulle quali si sovrappongono istanze di dipendenza e di eteronomia. Volendo riprendere il caso concreto dei rifugiati, questi trasferendosi in un contesto occidentale (gli Stati Uniti) intraprendono una serie di percorsi per diventare “buoni cittadini” assoggettandosi ad «una rete di uffici di welfare, scuole di formazione professionale, ospedali e luoghi di lavoro»19. È un esempio, potremmo dire, di re-indentificazione, che non può non installarsi in un processo di de-identificazione, almeno parziale, rispetto al codice simbolico e all’immaginario di origine. Queste persone si piegano ad una definizione nuova – in qualche modo si assoggettano ad essa – ma anche, per molti versi, reinventano attivamente la propria identità. La loro soggettivazione viene a formarsi entro un nuovo contesto, ma rispetto ad esso si rivelano capaci di tracciare allo stesso tempo percorsi alternativi, strategie di resistenza. Il nodo concettuale della governamentalità, l’assoggettamento/soggettivazione, trova una esplicitazione particolarmente evidente e interessante. Non si tratta infatti di resistenza frontale: al contrario, nel momento stesso in cui assistiamo all’assunzione consapevole del contesto giuridico di diritti e di obblighi, si mettono in opera pratiche mirate a sottrarsi alle tecniche governamentali di controllo. La differenza culturale e 18 «Io uso il termine cittadinanza flessibile per riferirmi specialmente alle strategie (e ai loro effetti) con cui manager, tecnocrati e professionisti cercano di raggirare i diversi regimi degli stati e nello stesso tempo di trarne beneficio, selezionando luoghi diversi in cui investire, lavorare e risistemare la propria famiglia. Tale ricollocazione in relazione ai mercati globali, tuttavia, non deve indurci a pensare che lo stato-nazione stia perdendo il controllo dei propri confini», A. Ong, La cittadinanza flessibile dei cinesi in diaspora, in “aut aut”, 312, 2002, pp. 117-118. 19 A. Ong, Da rifugiati a cittadini, cit., p. 29.

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la provenienza spazialmente così lontana, permettono dunque una forma di distanza nel processo di assunzione della identificazione, una distanza che non si realizza in discorsi o argomentazioni, ma in pratiche subpolitiche: si tratta di pratiche che, pur interne alla logica della governamentalità – e del diritto finalizzato ad includere quegli individui stessi –, allo stesso tempo la sviano e spesso la aggirano, imprimendo ad essa direzioni alternative e finalità differenti rispetto al progetto di assimilazione messo in atto dal governo americano. La nozione chiave di cittadino – o più modestamente di immigrato o rifugiato legale – viene riconosciuta ed accettata come garanzia e come forza, ma pragmatisticamente viene inserita anche in un processo di (ri)localizzazione e (ri)allineamento di se stessi dove i codici simbolici – lo Stato e il mercato in primo luogo – con i loro regimi di verità volti alla normalizzazione e al controllo, vengono piegati, ibridati e svuotati nel loro obiettivo. I rifugiati, infatti, al loro arrivo in terra americana sono trattati in regime di razzializzazione20. Questo significa che il dispositivo governamentale funziona classificando le popolazioni in base a categorie culturali e sociali, ma anche etnorazziali, con uno scopo non semplicemente repressivo ed escludente. Piuttosto la classificazione etnorazziale ha finalità inclusive differenziali, perché mira a valutare il potenziale occupazionale dei governati. Ovviamente l’obiettivo è il lavoro flessibile e a basso costo: la semplificazione e lo stigma razziale inchiodano la popolazione in oggetto, ad un ruolo subordinato e servile. La conseguenza è che i rifugiati cambogiani, per i quali gli Stati Uniti rappresentano, in ogni caso, la terra della libertà dopo la disperazione e il totalitarismo, assumono in breve tempo la consapevolezza del ruolo cui la nuova identificazione simbolica li destina. Il potere dello stato democratico ha carattere biopolitico: esercita la sua presa sui loro corpi oggettivandoli in vista di un obiettivo di governo specifico, assumendosene la cura, certo, ma al tempo stesso disciplinandoli per un fine preciso. «Non c’è dubbio – afferma ancora Ong – che per i rifugiati cambogiani che sfuggivano dalla regola della morte gli Stati Uniti rappresentassero la terra della libertà assoluta; tuttavia quegli stessi rifugiati avrebbero finito per rendersi conto che anche il potere di uno stato 20 Sulla razza come dispositivo di normalizzazione, M. Foucault, Bisogna difendere la società (1997), tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, pp. 73 e ss. Cfr. S. Forti, Biopolitica delle anime, in “Filosofia politica”, 3, 2003. Ho trattato questo tema in A. Tucci, L’artificio razziale. L’identità tra biologia e cultura, in A. Catania, F. Mancuso, Natura e artificio. Norme, corpi, soggetti tra diritto e politica, Mimesis, Milano 2011, pp. 203-214.

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democratico esercitava una presa sul corpo, una presa benevola certo, ma al tempo stesso disciplinare»21. L’identificazione in un regime liberale è però ambivalente: finalizzata alla produzione e al mercato, avviene in un contesto giuridico, di diritti. I diritti civili e, in una razionalità governamentale ed economica, soprattutto diritti di accesso alle policy sociali (i diritti sociali). Della pluralità di diritti che si articolano attorno al concetto di cittadinanza, evidentemente qui non hanno rilievo i diritti politici, ma l’insieme di diritti di assistenza e di cura che potenziano la produttività e la vita. Nel nostro caso, naturalmente i cambogiani intraprendono il loro percorso di inserimento nella vita sociale e produttiva, assumendo su di sé l’immagine stereotipata costruita ad uso degli operatori sociali, degli insegnanti e dei burocrati destinati al loro percorso di “socializzazione”. L’inclusività governamentale mostra la sua capacità di accoglienza, ma a caro prezzo: essere governati significa rientrare nella casistica, occupandovi una determinata posizione. Allora l’assunzione su di sé di un’identità simbolicamente costruita appare come una necessità cui i governati non possono sottrarsi; eppure nello stesso tempo e nonostante questo, assistiamo a pratiche e tentativi di mettere in gioco una forma di identità strategica, non essenzialistica, che si definisce e si esaurisce entro la rete relazionale di poteri e forze, irriducibile alla dicotomia identità/alterità. Nel percorso di acquisizione di quella che Ong chiama una “buona cittadinanza”, per esempio, il dispositivo medico welfaristico ha ovviamente un notevole peso nella identificazione e classificazione. Così, per quanto medici e operatori sanitari operino in funziona della normalizzazione secondo i suddetti criteri e in conformità alle presunte caratteristiche etnorazziali con le quali quei governati sono stati definiti, gli effetti sono sempre distorti. Questi operatori sanitari, che svolgono la funzione di “agenti di socializzazione”, non riescono a normalizzare i rifugiati nel modo previsto, che consiste nell’obiettivo di costruire soggetti che si sottopongono ad autovalutazione e ad automonitoraggio e di formare cittadini in grado di pianificare la propria esistenza come individui responsabili. Ben consapevoli di quali siano in America i limiti dei loro diritti e della loro sicurezza, i pazienti cambogiani negoziano piuttosto con gli operatori una molteplicità di risorse. Il vocabolario dei diritti viene dunque utilizzato al di fuori di una logica giuridica, in modo economico, come uno strumento per ottenere beni, vantaggi, spazi di manovra. La 21 A. Ong, Da rifugiati a cittadini, cit., pp. 87-88.

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negoziazione inserisce i nuovi arrivati poveri in un insieme di rituali, di pratiche istituzionali, di obblighi routinari che diventano imprescindibili per imparare a ricollocare i termini dell’appartenenza. Le pratiche sostituiscono gli universali giuridici e li traducono in forme di vita. Tutto si svolge ai limiti della legalità e spesso al di là di essa. L’immaginario nel quale le popolazioni di governati si identificano si ibrida: abbiamo forme di re-invenzione della fede che dal buddismo trascolora verso la religione mormonica; imprese a conduzione familiare vengono portate avanti, pur continuando a percepire il sussidio; l’adesione alle gang urbane contemporaneamente a condotte ligie alle policy sociali istituzionali. In questa trama di ibridazioni si intravede il tentativo di stare dentro alle identificazioni governamentali, ma anche di tenderle verso percorsi alternativi rispetto al destino di forza lavoro a basso costo. Per concludere, brevemente su questo punto, si potrebbe affermare che, nel quadro di questa potentissima macchina governamentale apparentemente destinale e inattaccabile, i dispositivi di governo delle soggettivazioni che essa mette in atto e di cui dispone, non sono in grado di effettuare davvero le oggettivazioni e le classificazioni e valutazioni, che sono chiamati a fare: resta disponibile un ambito di resistenza che rinvia ad un margine di de-identificazione che sempre si apre in ogni processo di identificazione simbolica e che risulta più evidente in queste forme di ricostruzione dell’identità. Già nelle pratiche che abbiamo portato ad esempio, si evidenzia la sconnessione, nella razionalità governamentale, dell’istituto della cittadinanza dalle definizioni identitarie e dunque escludenti, che a lungo ne sono state il perno. I termini che definiscono la cittadinanza debbono essere ricavati dall’elaborazione sempre specifica e differenziata che della cittadinanza stessa viene fatta all’interno delle tecnologie di potere governamentale. I processi di identificazione mostrano una faglia sensibile, una sensibile non-coincidenza con le esperienze di chi ne è investito: non si sovrappongono, non coincidono alla perfezione con le esperienze stesse di chi ne è investito. Il rifugiato non aderisce in pieno alla rappresentazione immaginaria costruita dal discorso inclusivista degli americani: non che quell’immaginario non funzioni da supporto al suo inserimento nel contesto sociale; è un immaginario che sollecita un investimento emotivo profondo capace di solcare l’identità originaria del profugo. Ma la distanza rimane ed è visibile e mette in gioco lo scarto. Forse mina pericolosamente la compattezza identitaria del soggetto mettendolo a rischio di scissioni schizofreniche, ma

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gli offre anche nicchie di coesistenza e di compatibilità, spazi di negoziazione e di vivibilità22. Coesistenza e compatibilità connaturate alle tecnologie governamentali, in cui agiscono dispositivi biopolitici incrementativi: il potere prende in carico le vite di uomini presupposti liberi. Questo, in una fase in cui è ormai rubricata la crisi della democrazia, apre appunto a pratiche di agency nuove, pratiche di autogoverno, prevalentemente nelle forme della mediazione e della negoziazione di diritti, ma anche di beni, spazi, vantaggi. È evidente una sostanziale distanza dalle posizioni à la Benhabib: per quanto non vengano messe in discussione le categorie – che in qualche modo vengono calibrate in relazione al mutato scenario dei poteri e delle istituzioni della governance –, in una condizione di eterogeneità delle forme di vita, i soggetti assumono su di sé le rappresentazioni che vengono loro offerte, ma queste vengono assunte per essere rielaborate, negoziate, nelle forme della resistenza e della soggettivazione autonoma, magari attraverso comportamenti che fuoriescono dalla legge senza però trasgredirla frontalmente. Il luogo della rivendicazione come avverte Chatterjee è l’ambito della politica dove è possibile curvare o distendere le regole, che si presentano in base ai contesti più o meno flessibili. Dinamiche che si realizzano evidentemente a scapito del potenziale antagonismo e che pongono, pertanto, un ostacolo di non poco conto alla politicizzazione delle soggettività23, ma che in ogni caso assumono una connotazione essa stessa politica: intervenendo e facendo pressione «nel punto più opportuno della macchina governamentale»24. 22 Cfr. L. Bazzicalupo, Il cerchio della paranoia politica. Possibili linee di frattura, in “Società, mutamento, politica”, 6, 2012, pp. 47-62. 23 C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti (2005), tr. it. Bruno Mondadori, Milano 2007. 24 ������������������������������������������������������������������������������ L’esempio che fa Chatterjee delle rivendicazioni dei contadini del Bengala occidentale rurale e del ruolo di mediazione svolto dai maestri è particolarmente evocativo: «Quando si attivano per rivendicare i servizi dei vari programmi del governo, i poveri delle campagne non assumono le vesti della società civile. Per riuscire ad indirizzare nella propria direzione i servizi e le provvidenze, essi devono riuscire ad applicare la giusta pressione nel punto più opportuno della macchina governamentale. Spesso ciò significa allentare o estenuare le regole, poiché le procedure esistenti hanno storicamente prodotto la loro esclusione o marginalizzazione. Devono dunque riuscire ad attivare gruppi di popolazione per produrre una forma locale di sostegno politico che possa funzionare efficacemente contro la distribuzione del potere nella società più ampia. Ciò avviene grazie alle operazioni della società politica. La fiducia della comunità rurale che permette ai maestri elementari di farsi portavoce delle richieste dei poveri e, al tempo stesso, di assicurare agli amministratori che l’appoggio locale sarà stabile e duraturo,

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Naturalmente qui andrebbe sottolineato come la negoziazione e la mediazione rispetto all’antagonismo e al conflitto aperto facciano meno vittime, ma a loro volta esse stesse producono scarti, esuberanze, eccedenze. Non tutti ce la fanno.

non è una manifestazione della fiducia che si genera tra i membri paritari di una comunità civica. Al contrario, i maestri mediano tra ambiti separati da disuguaglianze di potere profonde e storicamente fondate. Mediano tra chi governa e chi è governato», Oltre la cittadinanza, cit., p. 82.

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Anna Cavaliere

LA QUESTIONE DEL CROCIFISSO: IL PARADOSSO LIBERALE E LA PRATICA DELLA LAICITÀ

Molto clamore ha suscitato, in Italia, la questione se la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche e dei tribunali, fosse, oppure no, legittima. La faccenda si presenta particolarmente complessa in una società che dimostra la propria natura multiculturale e multireligiosa. Non solo i filosofi e i giuristi, ma anche la stampa nazionale se ne è ampiamente occupata a proposito della vicenda Lautsi contro Italia, che ha interessato prima le corti nazionali, e in seguito quelle europee, fino alla sentenza inappellabile della Grande Chambre della CEDU, intervenuta il 18 marzo del 2011. La Corte ha stabilito la legittimità della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, in quanto simbolo non solo religioso ma anche culturale, e presenza passiva, quindi incapace di porre in essere un esercizio di indottrinamento degli studenti. Nel presente saggio, ricorderemo le ragioni storiche che hanno condotto i crocefissi nei luoghi pubblici, per mostrare come quella che sembra una tradizione consolidata e naturale abbia in realtà una genesi piuttosto recente. Passeremo poi a confrontare l’esperienza italiana con ciò che è avvenuto o che avviene in altri paesi europei. Infine, proprio a partire dalla motivazione della sentenza della Grande Chambre, tenteremo di inquadrare la questione del crocifisso nel tema più ampio della laicità, delle pratiche in cui essa può tradursi nello Stato liberale. 1. La restituzione delle croci In Italia, i luoghi in cui il cittadino si forma e quelli in cui è amministrata la giustizia, sono contraddistinti dalla presenza del crocifisso. Essa risale ad un periodo storico ben preciso: quello che gli storici denominano generalmente come il “ventennio fascista”1. Il Regio Decreto n. 965/1924 stabilisce che ogni aula debba avere «la bandiera nazionale, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re». Il Regio Decreto 1297/1928 applica 1

R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2005.

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una normativa simile alle aule delle scuole elementari. Negli stessi anni, la circolare ministeriale 1867/1926 estende l’applicazione della norma alle aule dei tribunali2 . Queste operazioni sono presentate dal nuovo regime come un’opera di ‘restituzione della croce’ al paese, ed appaiono perfettamente inserite in una potente strategia simbolica3, finalizzata a presentare l’instaurazione del nuovo potere come una rivoluzione che segna l’inizio di un’epoca nuova. Questo racconto, che il regime totalitario pone in essere, non può fare a meno dei simboli. In primis si tratta di simboli nuovi, come il fascio littorio, che aprono la strada ad una nuova teologia prima del partito e poi dello Stato stesso, vista la progressiva osmosi tra Stato e partito4, e all’affermazione di una sacralizzazione della politica5. Ma ai nuovi simboli si affiancano quelli della religione tradizionale, che intendono rafforzare la legittimazione del potere fascista, in quanto restauratore dei valori tradizionali della religione cattolica, e presidio sicuro contro l’ agnosticismo e il materialismo. La croce si presenta come il simbolo più efficace dell’ambizioso progetto pedagogico e politico dello Stato fascista, in cui l’adesione all’ideologia diviene una pratica quotidiana di fede, di dedizione religiosa e totale alla volontà del partito, e quindi dello Stato6. Essa diventa il simbolo della nuova religione civile fascista che, per il suo carattere sincretico e totalitario, mira ad assimilare qualsiasi ambito della vita, in primis quella della formazione delle persone e dell’amministrazione della giustizia7. Nonostante la sua presenza sia stata quindi dovuta ad un’azione politica del regime fascista, e sia stata legata così fortemente alla fondazione di quell’esperienza storica, la presenza del crocifisso rimane nell’Italia repubblicana. La necessità di rifondare il paese all’indomani del secondo conflitto mondiale intorno ad un nucleo di valori condiviso, suggerisce l’opportunità politica di lasciare quel simbolo alle pareti delle scuole e dei tribunali.

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P. Farinella, Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale, Gabrielli Editore, Padova 2006. C. Gallini, Il ritorno delle croci, Manifestolibri, Roma 2009. E. Gentile, Fascismo Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 173 e ss. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2003. R.A. Webster, La croce e i Fasci. Cattolici e Fascismo in Italia, tr. it. di G. Are, P. De Mantis, Feltrinelli, Milano 1964. E. Gentile, Fascismo Storia e interpretazione, cit.

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Il vasto consenso che esso raccoglie da parte dei diversi schieramenti, per la sua forza evocativa e simbolica, è facilmente desumibile se si pensa che un giurista laico e rigoroso come Pietro Calamandrei, che, in pieno regime fascista, analizzando quell’oscura commistione di governo carismatico, illiberalità e irrazionalità della politica che si stava creando, vi aveva contrapposto la fede nel diritto, ovvero la necessità di un primato della legge8, avesse comunque suggerito di tenere il crocifisso nelle aule dei tribunali, tenendolo non dietro le teste dei giudici, ma davanti, eterno simbolo delle iniquità giudiziarie verso i più deboli9. 2. Il contesto europeo La presenza del crocifisso in spazi pubblici come le scuole o i tribunali non rappresenta certamente un’anomalia del nostro paese. La presenza di tale simbolo religioso negli spazi pubblici costituisce al contrario una tradizione molto diffusa nei paesi a maggioranza cristiana. Solo per fare degli esempi, in Austria la presenza del Crocifisso è stata confermata dopo il Concordato del 1962 nelle aule in cui la maggioranza degli alunni sia di religione cristiana. In Romania, la Decisione 323/2006 del Consiglio Nazionale per la Lotta alla Discriminazione ha stabilito che, perché sia rispettato il carattere secolare dello Stato, ed al contempo sia tutelata l’autonomia della religione, i simboli religiosi possano essere mostrati esclusivamente durante le ore di religione o nelle aree appositamente dedicate all’educazione religiosa. In Francia, invece, la legge vieta espressamente l’esposizione di simboli o emblemi religiosi su monumenti e in spazi pubblici, a eccezione di luoghi di culto, cimiteri, musei. Inoltre, la legge n. 228 del 15 Marzo 2004, comunemente conosciuta come legge anti-velo, ha proibito non solo l’esposizione alle pareti ma anche di indossare, nelle scuole primarie e secondarie, simboli religiosi che ostentino l’appartenenza ad una data fede. Ugualmente In Svizzera, nel 1990, il Tribunale Federale si è pronunciato contro l’esposizione dei crocifissi e a favore della rimozione dalle pareti delle scuole10. 8 9

P. Calamandrei, Fede nel diritto, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 85. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze 1959, p. 319. 10 M. Ruggenini, R. Dreon, S. Galanti Grollo (a cura di), Democrazie e religioni. La sfida degli incompatibili?, Donzelli, Roma 2012.

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3. Compromessi Negli ultimi anni, tuttavia, sempre di più si è presentata la questione di come l’esposizione di tale simbolo religioso possa risultare in qualche modo compatibile con la laicità dello Stato. Le soluzioni di compromesso scelte dai diversi paesi, a cui abbiamo fatto cenno, denunciano la difficoltà di bilanciare in maniera definitiva due principi opposti, quali la laicità dello Stato e una maggiore attenzione da riservare ad una tradizione religiosa rilevante come quella cristiana11. In Italia, in maniera particolare, il Ministero dell’Istruzione, con la direttiva 310/2002, ha ribadito la validità del decreto regio che dispone la presenza del crocifisso alle pareti delle aule scolastiche, in quanto le norme in esso contenute «non sono state né abrogate né modificate dalle disposizioni successive». La questione però ha fatto molto discutere a partire dal caso Lautsi contro Italia, iniziato con il ricorso 30814/06 e conclusosi, dopo alterne vicende, cinque anni dopo, con la pronuncia inappellabile della Grande Chambre della CEDU, la quale, ribaltando la precedente pronunzia della Camera di prima istanza, ha contraddetto il precedente indirizzo giurisprudenziale nella maggior parte dei paesi contraenti, ed ha dichiarato legittima l’ostensione del crocifisso negli ambienti pubblici scolastici. Ciò, secondo la Corte, non lederebbe né il diritto all’istruzione, né la libertà di pensiero, coscienza e religione, poiché il crocifisso, in quanto simbolo sì religioso ma anche e soprattutto culturale, avrebbe una natura sostanzialmente passiva, e, per questo motivo, non potrebbe rappresentare, di per sé, uno strumento di ‘indottrinamento’. Esso, esposto in un contesto, come quello italiano, in cui l’insegnamento della religione cattolica non è obbligatorio e, quando esiste, non può assumere le forme della propaganda, non può ritenersi lesivo del principio di laicità. La sentenza mette in evidenza, inoltre, che il crocefisso è esposto in un contesto in cui la libertà religiosa delle minoranze è garantita, come dimostra la possibilità per le alunne musulmane di presentarsi a scuola con il velo. Tale sentenza chiaramente non ha lasciato indifferente né l’opinione pubblica, né il dibattito filosofico-giuridico. Le due critiche, opposte, che le sono state mosse, possono essere riassunte nel fatto che essa avrebbe avuto un’impostazione riduttiva, rispetto ad un simbolo religioso così significativo per i cristiani, e di cui quindi non può prevalere l’aspetto culturale o nazionale, e quella, opposta, secondo la qua11 J. Luther, La croce della democrazia, in “Quad. dir. pol. eccl.”, 3, 1996, pp. 681 e ss.

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le essa introdurrebbe velatamente un regime di preferenza per la religione cristiana e quindi una violazione del principio di laicità12. Queste critiche appaiono tutte in qualche modo fondate, come le stesse opinioni dei due giudici dissenzienti della Corte hanno per prime rivelato, ma il dato che sembra opportuno sottolineare è che la sentenza abbia spostato la questione dall’ostensione del crocifisso in sé, che è appunto stato degradato a simbolo passivo, ad un problema più ampio, ovvero le dimensioni e le forme che la laicità assume dei singoli Stati. Il problema del crocifisso è, difatti, solo la spia una questione più complessa, di natura politico-culturale: la sua riduzione a vicenda giudiziaria, o meglio alla serie confusa di vicende e di pratiche giurisprudenziali che negli ultimi anni hanno affollato i tribunali, rischia di far perdere di vista la questione nella sua complessità. 4. La pratica della laicità La laicità che è stata invocata non è un concetto univoco. Non esiste un concetto di laicità, ma diversi, ciascuno dei quali ideologicamente orientato. In un’accezione generale, la laicità può essere descritta come un contenitore, il modo di organizzare la vita politica e sociale etsi Deus non daretur. Questo non vuol dire che la religione non possa entrare a far parte del dibattito pubblico, ma semplicemente che, per farlo, essa debba compiere lo sforzo di tradurre le sue prese di posizione in un linguaggio che risulti comprensibile a tutti, anche a coloro che non appartengono ad un dato credo religioso13. Le argomentazioni devono sottoporsi, per avere accesso e credibilità nell’ambito del dibattito pubblico, a quella che John Rawls chiama la «clausola condizionale»14, ovvero devono essere tradotte nel linguaggio comune della politica. Quando la laicità è intesa in un’accezione siffatta, ovvero quando non si trasforma in una strategia ideologica escludente, e dimostra un onesto atteggiamento di apertura nei confronti di tutte le posizioni presenti all’interno della società, questo sforzo di sottoporsi alla clausola condizionale può essere richiesto perfino ai c.d. laici, ovvero è possibile «richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo 12 P. Annicchino, Winning the Battle by Losing the War: The Lautsi Case and the Holy Alliance between American Conservative Evangelicals, the Russian Orthodox Church and the Vatican to Reshape European Identity, in “Religion and Human Rights”, Vol. 6, 3, 2011, pp. 213-219. 13 G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2006. 14 J. Rawls, Un riesame dell’idea di ragione pubblica, in Id., Il diritto dei popoli, tr. it. a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Milano 2001, p. 203.

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sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti»15. Uno Stato laico, allora, non si chiude di fronte alle argomentazioni che hanno una matrice religiosa: una chiusura siffatta rappresenterebbe d’altra parte una forma di impoverimento per l’ethos stesso dello Stato. Questo problema era già stato affrontato dal filosofo e giurista tedesco Böckenförde nel 1967, il quale aveva sottolineato che «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire»16. Ciò significa che esso si fonda su premesse ideologiche, etiche, religiose, e non può farne a meno, in quanto esse sono essenziali per garantire quel minimum di unità politica che consente la sussistenza dello Stato stesso. Quali sono le origini di queste premesse? Certamente lo Stato non può ritenere di poterle produrre con la forza, perché in quel caso esso rinnegherebbe lo statuto della liberalità, e quindi se stesso. L’unica soluzione possibile è consentire che esse provengano dalla società civile, dal confronto tra posizioni contrastanti, perfino tra posizioni conflittuali. E tanto più questo è possibile, quanto più il gioco tra le parti è bilanciato, ovvero tanto più lo Stato non contribuisca a produrre condizioni escludenti rispetto a certe voci. È un meccanismo rischioso, che va posto in essere con estrema cautela, perché lo Stato si trova a fare i conti con i valori sui quali esso stesso si fonda, e sui contenuti della propria etica, ponendoli in gioco, e confrontandosi con le posizioni in conflitto. La politica liberale non può quindi contemplare, tra le soluzioni possibili, quella di considerare il crocifisso il simbolo di un sostrato statale eterno ed immutabile a cui far riferimento, come aveva fatto il fascismo. Nel caso si operasse una scelta di questo tipo, si sceglierebbe inequivocabilmente, piuttosto che lo statuto liberale, quello di una modernità totalitaria17, che risponde alle tensioni e ai conflitti di una società multietnica e multireligiosa arroccandosi dietro scelte di principio fatte una volta per tutte. Questo negherebbe lo statuto liberale, ovvero la presa in carico delle premesse culturali, religiose e non, da parte dello Stato, come una sfida obbligatoria che si pone nell’orizzonte politico18. Questo problema si pone allora, oggi, più che in passato: la difficoltà della decisione e della costruzione dell’ordine politico appare come un dato congenito dell’età moderna, come mette in rilevo già l’ana15 J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, tr. it. a cura di G. Bosetti, Marsilio, Padova 2004, pp. 62-63. 16 E.W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, tr. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007. 17 E. Gentile, Modernità totalitaria, Laterza, Roma-Bari 2008. 18 E.W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, cit.

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lisi hegeliana19, ma questa difficoltà aumenta ed è resa più radicale nell’età contemporanea, quando la forma liberale tenta di realizzare fino in fondo il progetto della modernità20, e corre sempre il rischio di «una modernizzazione aberrante» che «potrebbe rendere molto debole il legame democratico ed esaurire quella particolare forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende»21. L’orizzonte liberale certamente si nutre esso stesso di simboli, ma se essi divengono armi per sottrarre alla discussione certi temi, e alla sfera della politica, ancorandoli ad un nucleo di valori indiscutibile, si rinnega il valore del modello liberale che, appunto, presuppone che, delle questioni rispetto alle quali esiste il conflitto, si debba inevitabilmente discutere. Se poi ciò viene fatto con l’idea di fornire una qualche legittimazione ad una parte politica piuttosto che ad un’altra, si rinnega non solo la capacità della politica di mediare, preservando la sua autonomia22, ma anche quella della religione di essere portatrice di un messaggio originale, senza la necessità di invadere la sfera pubblica sfruttando una condizione di privilegio23. In ultimo, non si rende giustizia neppure al messaggio religioso: prima di essere illiberale, è certamente discorde con la dottrina cristiana la riduzione della vicenda del cristianesimo a fenomeno culturale ristretto ad una data area geografica. Il messaggio cristiano, e la croce che vorrebbe sintetizzarlo, coltivano l’ambizione di avere una portata universalistica24: quando sono state interpretate come le parole d’ordine di una civiltà contro un’altra, hanno rinnegato se stesse, ed hanno contribuito a scrivere le pagine meno nobili della storia dell’Occidente.

19 V. Verra, Letture hegeliane. Idea, Natura e storia, Il Mulino, Bologna 1992. 20 J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986. 21 J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, cit., p. 50. 22 R. Guolo, Chi impugna la Croce, Laterza, Roma-Bari 2011. 23 G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste, Laterza, Roma-Bari 2011. 24 F. Botturi, F. Totaro, Universalismo ed etica pubblica, Vita e Pensiero, Milano 2006.

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DINAMICHE DI ESCLUSIONE. IL “DIRITTO PENALE DEL NEMICO”

1. Negli ultimi anni si è molto dibattuto nella dottrina giuridica sull’uso incessante da parte del legislatore di fattispecie restrittive nel trattamento di tutti coloro che secondo criteri sovente opinabili venivano classificati come diversi, estranei, nemici dell’ordine costituito. Si è parlato a proposito di logiche binarie per giustificare l’introduzione nel sistema penale di un insieme di leggi eccezionali rispetto alla normalità delle disposizioni penali tradizionali, eccezionali poiché tendenti come vedremo alla neutralizzazione invece che alla rieducazione e al reinserimento sociale del soggetto autore di reato. Nella prassi giudiziale è emersa, in relazione a tale spirito di neutralizzazione di parte del diritto penale sostanziale, la tendenza all’abuso nell’uso di misure cautelari reali e personali, intendendo sovente il processo come mezzo di lotta e non come luogo deputato alla realizzazione di una verità giudiziale neutra e imparziale. In linea con tali impostazioni dottrinali e giudiziali si è sviluppata addirittura una scuola interpretativa, di origine tedesca, il cui maggiore esponente è il giurista e filosofo Gunther Jakobs1. Secondo il giuspenalista tedesco all’interno e insieme al diritto penale storico/continentale, o come suole definirsi del cittadino si accompagna un diritto penale di natura diversa, – lontano da modelli di stampo liberaldemocratico e per questo refrattario a classificazioni tradizionali. Tale sistema, definito diritto penale del nemico2, contiene elementi di assoluta novità: tra questi significativo è sicuramente il passaggio da un diritto penale incentrato sulla colpa, e dunque sul principio liberale della responsabilità penale intesa come re1 2

G. Jakobs, Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, in G. Jakobs, M. Cancio Melià, Derecho penal del enemigo, Civitas, Madrid 2003. Sull’argomento si veda anche M. Donini, Il Diritto penale di fronte al «Nemico» in “Cass. pen.”, 2, 2006, p. 735; F. Mantovani, Il diritto penale del Nemico, il diritto penale dell’Amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in “Riv. it. dir. e proc. pen.”, 2-3, 2007, p. 470.

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sponsabilità unicamente personale, ad uno nel quale quello che rileva non è tanto ciò che si è compiuto in relazione ad un vincolo di responsabilità ma ciò che si è come individuo, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione di ordine fattuale. È evidente come il punto teorico decisivo sia dato proprio dall’attenzione della dottrina e della prassi all’autore del reato e non più al fatto del reato, facendo in tal guisa del diritto penale contemporaneo un campo in cui si creano forme sempre nuove e diverse di soggettività sociali. In quest’opera di ri-modellamento il fatto tipico quasi scompare per far posto a nuovi tipi d’autore, i quali sono caratterizzati dall’essere soggetti dall’alto grado di pericolosità sociale, e dunque insensibili al bene comune a causa di una loro limitazione connaturale – per cui tale giudizio fortemente negativo sui soggetti pericolosi e sulla loro inclinazione è dato in base a parametri presuntivi, lontani sicuramente dai modelli probatori di una cultura processuale liberale che minano alle fondamenta ogni pretesa di serena applicazione del principio di legalità. È allora necessario far riferimento all’analisi foucaultiana3 sui concetti di devianza e di pericolosità, per meglio comprendere come certune dinamiche discriminatorie a noi coeve siano in realtà frutto di una tendenza latente al moderno: e nel moderno infatti che il fenomeno criminale diviene centrale nell’opera del potere disciplinare che cerca, anche attraverso istituti di pena quali la prigione, di regolamentare l’anormale, rendendolo funzionale alla struttura epistemologica del sistema penale nel suo complesso. Tutto ciò significa che la penalità produce essa stessa devianza, nel momento in cui avviene una transizione sul piano del significato della pena: dall’essere essa vendetta privata del sovrano che agisce discrezionalmente si passa nella modernità ad una funzione maggiormente pubblicistica, di difesa della società dai suoi nemici interni. Ma tali nemici sono appunto tali per natura, e diventeranno oggetto al termine di un lungo processo di rappresentazione e di studio di quello che per Foucault sarà l’Homo criminalis, vero e proprio campo di conoscenza delle scienze antropologiche, mediche e giuridiche. Sulla questione scriverà il filosofo francese: «il crimine non è più soltanto ciò che viola le leggi civile e religiose, le leggi della natura, adesso il crimine è ciò che ha una natura»4. Tale logica immanente all’apparato punitivo moderno si è dimostrata però altamente 3 4

M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. a cura di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 2005. In proposito fondamentale nell’analisi risulta la categoria di “corpi docili”, sviluppata nella III parte sulla Disciplina. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (1999), tr. it a cura di V. Marchetti, A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2009, p. 86.

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pericolosa: come ci insegnano le esperienze dei regimi totalitari si è giunti, perfino, in un escalation di ghettizzazione dell’altro, a considerare tutto ciò che è diverso da noi come alieno alla dimensione umana e dunque meritevole di una sanzione non più relativa al crimine commesso, ma assoluta rispetto ad una ipotetica natura dis-umana. In tali regimi il diritto penale del nemico fu la regolare conseguenza sul piano giuridico5 di tale disumanizzazione basata su aberranti riflessioni pseudo-scientifiche di chiara matrice ideologica. Ciò che può inquietare è che ancora oggi si fanno strada autorevolmente come vedremo nel dibattito scientifico e nella prassi legale/ giudiziale tesi fortemente restrittive dei diritti dei detenuti e in generale dei soggetti ritenuti minacciosi, sovente arrivando persino a classificarli come non-persone. In merito a quest’ultima considerazione, problematica perché apre il discorso su una categoria liminare tra il diritto, la politica e la speculazione teologico-filosofica, bisogna dire che lo statuto di non persona, secondo parti della dottrina penale di scuola jakobsiana6, equivale non tanto e non solo ad una disumanizzazione dell’altro, diverso da noi, ma alla presa d’atto che alcuni cittadini tradendo il patto associativo con il loro comportamento hanno voluto volontariamente autoescludersi da esso, perdendo così le guarentigie connesse. In tale prospettiva teorica soggetto di diritto e persona insieme stanno, cadendo il primo status si perde anche l’altro. Tale equazione induce a riflettere sul fatto che in modelli giuridici come quello jakobsiano vi è una netta sottovalutazione del ruolo e dell’indipendenza dei diritti inviolabili e della dignità umana quale parametro assoluto e non condizionabile da qualunque che siano le logiche repressive. Intesa come valore assoluto la dignità umana dovrebbe in teoria esistere ed essere tutelata laddove sia presente una vita, indipendentemente da ragioni in ordine alla sua qualificazione o riconoscimento giuridici; ma noi sappiamo che la vita è diventata da semplice strumento ad oggetto principale del potere politico moderno che in essa ri-trova la cagione del suo esistere. La vita, la dignità ad essa connessa, dunque seguono le dinamiche del Potere. Come abbiamo precedentemente scritto riferendoci a Foucault l’esperienza della penalità moderna e del diritto in generale si legano indissolubilmente alla vita, al suo trattamento7, tanto che il diritto della modernità è principal5 6 7

Circa l’esperienza del totalitarismo nazista la dottrina del tempo parlò di tipo normativo d’autore (Tatertyp) intesa come categoria tratta direttamente dal comune sentire del popolo. G. Jakobs, Terroristen als Personen im Recht?, in “Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft”, 2005. In merito al tema della Biopolitica e del Biodiritto la bibliografia è sterminata, tra questi L. Bazzicalupo, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010.

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mente un biodiritto, e nel rapporto tra vita diritto e politica esiste oramai una promiscuità tale da non poter discernere secondo noi una gerarchia ben precisa: chi vede il diritto dipendere dalla vita, e non viceversa, lotta contro il tentativo di invertire tali fattori asservendo la vita alle ragioni sovente interlocutorie del diritto che ricordiamo sono molto spesso le ragioni di una politica miope e impaurita, ponendosi contro, quindi, a esperienze cariche di ambiguità come quelle del diritto penale del nemico. 2. Della tormentata relazione tra le diverse visioni del rapporto tra vita e diritto che la (bio)politica può assumere testimonia la vicenda dell’art. 27 Cost. 3 comma: riflesso normativo di parte della costituente di chiara ispirazione cristiana, l’articolo fu pensato con l’obiettivo del recupero dei condannati, del loro graduale reinserimento nella società e dunque dell’elevazione del valore della vita quale principio guida anche nella fase esecutiva della pena; eppure nonostante tali premesse esso ha subito nella prassi un lento disconoscimento restando in parte disapplicato8. Tale principio costituzionale conosce oggi ulteriori vicissitudini dovute a chi ritiene oramai in crisi il paradigma rieducativo (mutuato dall’art. 27 Cost. 3 comma), e sull’onda di una visione integralista del diritto penale considera solo la funzione general preventiva della pena stessa. Lo scontro dunque è tra chi considera prioritaria la vita e la sua difesa, a garanzia della quale sta il diritto in generale e penale in particolare, sulla scia della tradizione liberale, e chi come Jakobs e altri giudica debbano prevalere invece logiche organicistiche, di difesa dell’ordine costituito da elementi pericolosi perché estranei anticipando così la soglia di tutela per evitare eventuali attacchi. Tutto ciò riverbera ovviamente non solo sul piano del diritto penale sostanziale, ma anche come precedentemente visto sul piano processuale: come ci ricorda Ferrajoli l’inserimento nella dinamica processuale9 della logica dell’amico/nemico sin dall’istante della formulazione delle accuse è destinata a produrre un tipo di processo a carattere fortemente inquisitorio, le cui fasi avranno un profilo autoritario con l’onere della prova che graverà quasi esclusivamente sul imputato e l’uso indiscriminato della carcerazione preventiva. Insomma come ha giustamente osservato un penalista attento come Massimo Donini nel pa8

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Sull’Art. 27 Cost. nel contesto dell’elevazione della vita a principio superiore metagiuridico L. Eusebi, Dinanzi all’«Altro» che ci è problema: l’«incostituzionalità» di ogni configurazione dell’«altro» come nemico, in “Archivio Giuridico”, 4, 2009. L. Ferrajoli, Delitto politico, ragion di Stato e Stato di diritto, in AA. VV., Il delitto politico dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, Sapere 2000, Roma 1984.

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norama contemporaneo si stagliano due tendenze antitetiche: un diritto penale di garanzia, cui ragione del suo essere è la tutela di beni giuridici fondamentali (la vita, il patrimonio pubblico e privato, il corretto funzionamento dell’amministrazione) ed è soprattutto difesa dei consociati dal potere dello Stato, ed all’opposto un diritto penale di lotta, cui obiettivo principale è muovere un attacco costante, attraverso la loro neutralizzazione, a nemici interni ed esterni10. È chiara allora la curvatura semantica e fattuale a cui tale tipo di modello sottopone i rigidi schemi dello Stato di diritto, che nella prospettiva del diritto penale del nemico (o di lotta) è destinato ad essere sempre più uno Stato di potere, in cui il peso delle garanzie viene completamente stravolto a favore del Moloch pubblico e a svantaggio del singolo soggetto privato. 3. Qui sia chiaro non si vuole mettere in discussione l’esiziale contributo che l’inasprimento delle pene ha dato al contenimento di alcune minacce come quelle nate dal pericolo terrorista, ciò che si critica è la piega ossessiva che il diritto penale ha assunto nel trattamento di alcuni fenomeni. Come quello dell’immigrazione per esempio. Ed è proprio nel campo dell’immigrazione che emerge quella facoltà modellatrice del diritto penale odierno in merito alla creazione di nuovi tipi d’autore, che divengono poi vere e proprie ontologie sociali. Come spiegare altrimenti la figura del clandestino, ignota al nostro ordinamento fino a diversi anni fa, cui si collega il reato di immigrazione clandestina11, se non nell’ottica di selezionare figure nemiche per antonomasia in virtù del loro esistere, semplicemente. Mai come in questo caso appare reale, tangibile il parallelo tra l’inimicizia e l’ignoranza dell’altro12: tra hospes e hostis corre infatti una sottile linea che divide il conflitto dalla condivisione, la guerra dall’ospitalità, in cui l’altro da noi può essere tanto amico quanto nemico, e la scelta tra le due opzioni è sempre massimamente politica. È evidente però come il campo sia attraversato da spinte diverse: da un lato l’opera classificatrice dello Stato nei riguardi degli individui ai margini, subalterni, reclusi perché esclusi, dichiarati una volta come clandestini un’ altra come terroristi, dall’altra il tentativo, realizzato solo in parte, degli stessi soggetti vittima di queste 10 Cfr. M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in “Cass. Pen.”, 2, 2006, pp. 694-735. 11 Misura introdotta dalla l. n. 94 del 15 Luglio 2009, facente parte del cosiddetto “Pacchetto Sicurezza”. 12 Sul collegamento tra inimicizia e ignoranza dell’altro, tanto da descrivere l’esperienza dell’inimicizia come ospitalità negata B. Waldenfels, Pensare l’estraneo, in “Iride”, 3, 2010.

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dinamiche di esclusione-reclusione di sottrarsi13 a questa logica soggettivizzante, e nel farlo attivare a loro volta una forma di ri-soggettivazione autonoma e non eterodiretta. Dunque nel discorso sulla costruzione delle identità politiche il diritto penale è uno strumento decisivo nelle mani di chi decide: attraverso esso si identifica un gruppo di individui come nemici e nell’atto di farlo si rafforza il vincolo comunitario sotteso all’ordine giuridico. Ma al tempo stesso l’opera discriminante compiuta dalla messa al bando di intere categorie di soggetti può attivare in essi una resistenza identitaria prima sconosciuta. L’uso massiccio di misure punitive ipertrofiche radicalizza lo scontro tra gli insiders e gli outsiders: qui il diritto penale del nemico non solo sanziona ma vuole stabilire coloro i quali fanno parte dello spazio politico e quelli invece che ne sono allontanati. Tutto ciò sembra rievocare la lezione schmittiana sul criterio fondamentale del politico14: la contrapposizione tra l’amico e il nemico e la decisione sovrana sullo statuto di quest’ultimo. Ma Schmitt ci ha messo anche in guardia circa l’esito perverso che una politica dell’inimicizia assoluta può avere: la discriminazione del nemico conduce alla crisi di ogni messa in forma legale (e razionale) del conflitto e alla sua degenerazione in forme imprevedibili. Se nella storia della legislazione penale italiana in alcuni straordinari momenti è emersa l’esigenza di un inasprimento delle pene – pensiamo al fenomeno del terrorismo brigatista, ma anche ad organizzazioni criminali radicate sul territorio come la Mafia – si trattava comunque di una legislazione d’emergenza, il cui scopo era combattere una guerra per ripristinare la legalità in situazioni di contingenza. Oggi, nell’equivalenza tra straniero criminale e clandestino si realizza a volte una costruzione artificiosa del pericolo, che non è reale come quello mafioso o terrorista, ma funzionale alla macchina del controllo penale. La stessa gestione dei flussi migratori appare complementare alle logiche del mercato15, di cui il diritto penale sembra quasi un appendice. Da ciò si assiste alla formulazione di una normativa restrittiva solo per particolari forme di criminalità e tipi d’autore, incompatibili col sistema economico-sociale, tollerandone invece altre ben inserite oramai nel tessuto produttivo. 13 A. Tucci, Quali forme di soggettivazione politica per la “parte dei senza parte”, in L. Bazzicalupo, A. Tucci (a cura di), Il grande crollo. È possibile un governo della crisi economica?, Mimesis, Milano-Udine 2010. 14 C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, tr. it. a cura di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1998. 15 A. Tucci, Quali forme di soggettivazione politica per la “parte dei senza parte”, cit.

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4. Appare allora inconfutabile la sempre maggiore presenza, nei sistemi penali contemporanei, di schemi normativi tesi alla individuazione di nemici da combattere, piuttosto che il ristabilimento di un equilibrio nella tutela di beni violato dalla condotta delittuosa. Possiamo dunque dire che il cambio di filosofia, il passaggio cioè dalla difesa di beni alla battaglia contro determinati soggetti nasconde scelte di politica criminale e cosa assai importante di politica generale notevolmente diverse. Da un punto di vista istituzionale infatti un diritto penale del nemico determina come visto il rafforzamento dell’esecutivo e del giudiziario, che sulla scia di una legislazione emergenziale possono attribuirsi poteri d’intervento prima sconosciuti. Ciò de-forma gli assetti tradizionali dello Stato liberaldemocratico, realizzando in alcuni casi delle vere e proprie sospensioni nel tessuto legale dello stesso. Risulta chiaro come si sia persa quasi definitivamente l’idea di un diritto penale Magna Charta del delinquente, teso nella sua funzione di tutela del cittadino e di difesa dell’ordine ad arginare qualsiasi tipo di abuso che una politica criminale come quella attuale, ispiratrice di un diritto di lotta, possa compiere. Sebbene vi siano ancora notevoli margini di garanzie, nell’intero sistema penale, la mutazione sembra quindi essere in atto conducendo ad un modello a doppia velocità: una parte tradizionale rivolta ai delitti comuni, di matrice codicistica, inscritta nella storia culturale del paese, un’ altra invece emergenziale, ma sempre più diffusa, prodotta per via della decretazione d’urgenza e legata ad uno stato d’eccezione divenuto sistemico. In tale quadro come già riferito i concetti, le locuzioni paiono perdere il loro significato originario per assumerne un altro: come spiegare altrimenti, ci dice Ferrajoli16, l’inspiegabile fortuna teorica e prasseologica del diritto penale del nemico considerando che esso si fonda su una coppia concettuale ossimorica, come quella formata dal diritto e dalla guerra17. Il diritto penale infatti dovrebbe essere una negazione (o quantomeno una sua limitazione) di ogni moto bellico, non un suo veicolo: e forse proprio su questa perversione semantica e sul superamento dell’asimmetria tra la guerra e il diritto (penale) si basa quell’antropologia negativa che riduce un comune delinquente a nemico da abbattere.

16 L. Ferrajoli, Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale, in “Questione Giustizia”, 4, 2006. 17 Sul rapporto tra diritto e guerra cfr. G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Laterza, Roma-Bari 1996; F. Mancuso, Le ‘verità’ del diritto. Pluralismo dei valori e legittimità, Giappichelli, Torino 2013.

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Giovanni Bisogni

UN «SIGNIFICANTE» TROPPO «VUOTO»? I BENI COMUNI SECONDO UGO MATTEI

Da una decina d’anni a questa parte – è risaputo – tra i giuristi in Italia si fa un gran parlare di beni comuni. Da un certo punto di vista è un fenomeno che può dirsi inevitabile. Lo dimostrano non poche analogie che il dibattito giuridico sui beni comuni o – come pure si dice – sul comune mostra nei confronti di quello che si sviluppò nell’Europa liberale a cavallo fra fine XIX secolo e inizi XX secolo e che aveva ad oggetto la lacunosità del diritto1. È vero che esso in parte aveva un’intensa carica ideologica. A seguito delle trasformazioni sociali ed economiche dovuta alla cd. seconda rivoluzione industriale un buon numero di critiche rivolte alla legislazione e alla dogmatica coeva non avevano a che fare con le capacità di quest’ultime di fornire un ordine ed un ordine efficace ai rapporti sociali, ma si sostanziavano in ultima analisi in un’accusa di ingiustizia nei confronti di questo stesso ordine2. Al tempo stesso, però, non v’è dubbio che il processo di industrializzazione aveva sollevato una messe di questioni regolative che non potevano essere derubricate a falsi problemi dettati solamente dall’urgenza di dare cittadinanza giuridica a interessi – soprattutto quelli della classe operaia – in precedenza poco considerati e poco considerabili. Tali questioni, infatti, 1

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Per questo dibattito si vedano almeno N. Bobbio, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino, 1963, pp. 419 e ss.; R. Guastini, Completezza e analogia. Studi sulla teoria generale del diritto italiana del primo Novecento, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 1976, pp. 513 e ss.; Id., Due studi sulla dottrina dell’interpretazione nei giuristi italiani del primo Novecento, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 1977, pp. 113 e ss.; L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Giuffrè, Milano 1967, pp. 201 e ss.; A. Tanzi, François Geny tra scienza del diritto e giurisprudenza, Giappichelli, Torino 1990; numero monografico dei “Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico” dedicato a F. Geny, 1991 (in particolare il saggio di P. Costa). Si veda, ad es., il cd. Movimento del diritto libero, che invitava i giudici a considerare le leggi lacunose sol perché il loro contenuto non fosse conforme alla nuova sensibilità sociale.

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dimostrarono che in non pochi settori occorrevano soluzioni giuridiche che difficilmente potevano essere scovate nelle legislazioni dell’epoca – in linea di massima, impostate nella prima metà dell’Ottocento –, che, per certi aspetti, erano tutte da inventare e che, infine, rimandavano sovente ad una discussione sui fondamenti (giuridici e non) della convivenza associata3. Altrettanto dicasi per il dibattito sui beni comuni. Si pensi, ad esempio, ad Internet4. Se in relazione ad esso si è parlato di bene comune, non lo si deve (solo) ad una mutata sensibilità culturale, ma soprattutto alle caratteristiche tecniche assolutamente innovative del mezzo, che hanno reso complicata – e in taluni casi persino indesiderata – la trasposizione della logica individualistica e proprietaria delle res materiali. Di qui la consapevolezza che la sua regolamentazione non può essere tratta de plano da una legislazione e da una dogmatica legate in buona parte ad un’età pre-informatica, ma richiede un aggiornamento complessivo della cultura giuridica, allo scopo di dare adeguata considerazione a nuovi interessi (si pensi, ad esempio, alla fruizione della conoscenza e alla possibilità, offerta dalla Rete, di dare accesso liberamente a informazioni che in passato erano disponibili solo a determinati individui e, di regola, previa controprestazione). Come è noto, poi, proporzionalmente alla crescita delle potenzialità comunicative del mezzo il dibattito non si è arrestato all’obbiettivo di fornire una disciplina purchessia ad una realtà che ne era priva, ma si è sviluppato al punto tale da spostarsi sul piano dei cd. massimi sistemi, intravedendo nella Rete addirittura un fenomeno che obbliga a rivedere nientemeno che la nostra concezione della democrazia5. Ed in effetti, analogamente a quanto accaduto poco più di un secolo fa, è difficile negare che il nerbo del dibattito giuridico sui beni comuni sia – absit iniuria verbo – non tecnico, bensì ideologico; e, proseguendo con la medesima analogia storica, le aspirazioni che lo nutrono paiono mostrare non poche assonanze in relazione sia alle caratteristiche comuni di queste aspirazioni sia alle modalità con cui si formò tale comunanza. Invero, come a quell’epoca la denuncia della lacunosità del diritto funse da catalizzatore di un insieme di istanze innovative anche eterogenee, ma tenute 3 ������������������������������������������������������������������������������������ È il caso del nascente diritto del lavoro, con figure giuridiche all’epoca assolutamente innovative come i contratti collettivi di lavoro. 4 Com’è noto, la letteratura su Internet quale bene comune è sterminata: una buona introduzione è rappresentata da U. Pomarici, voce Beni comuni, in Id. (a cura di), Atlante di filosofia del diritto, vol. I, Giappichelli, Torino 2012, in particolare pp. 49 e ss. 5 Anche in tal caso la letteratura è assai estesa: cfr. da ultimo S. Maffettone, Parlamento.net, in “Il Sole 24 Ore” del 1 settembre 2013.

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insieme dalla volontà di rendere gli ordinamenti normativi – d’impronta essenzialmente borghese – più sensibili alla cd. questione sociale, così il dibattito giuridico sui beni comuni è diventato una sorta di crogiuolo atto ad elaborare un nuovo statuto giuridico: esso, per quanto indirizzato a beni molto diversi gli uni dagli altri (a mo’ di elenco, non esaustivo: acqua; internet; formazione universitaria; cultura; ambiente), è espressivo di un segnale di controtendenza rispetto all’egemonia culturale individualistica e mercantilistica – largamente dominante negli ultimi trent’anni a seguito del cd. neoliberismo in economia –, ed è volto a rilanciare termini/concetti piuttosto recessivi in questo lasso di tempo (ad es., eguaglianza, legame sociale, solidarietà) – complice anche la crisi economico-finanziaria che quell’egemonia culturale ha prodotto a partire dal 20086. Ora, proprio perché tale dibattito non vuole rimanere confinato al terreno della technicalities, ma attiva risorse dal così alto contenuto simbolico, è comprensibile la ragione per cui un topos di tutti coloro i quali anche solo vi si soffermano è la notevole indeterminatezza della nozione stessa di “bene comune” e, conseguentemente, degli effetti giuridici che si intendono trarre – quasi una sorta di prezzo da pagare sull’altare del successo che tale formula sta incontrando7. Si tratta di un difetto non di poco momento soprattutto se si tiene presente l’importanza che la precisione del linguaggio ha tradizionalmente presso i giuristi; e per coloro fra questi che siano particolarmente attenti all’analisi del linguaggio una constatazione del genere – lo si ripete: piuttosto condivisa – assurge ad una sorta di hic sunt leones, oltre il quale non varrebbe la pena addentrarsi. Non è questo, però, il punto di vista qui adottato e comunque non lo si considera il più proficuo per esaminare una dibattito che magari potrà dirsi minoritario, ma progressivamente sta acquistando rilevanza persino nell’agenda politico-legislativa8. La prospettiva più feconda consiste, invece, nell’analizzare questo dibattito con gli strumenti elaborati dal filosofo politico argentino Ernesto Laclau per la propria concezione del populi6 7 8

Cfr. un breve profilo storico del dibattito sui beni comuni in S. Nespor, L’irresistibile ascesa dei beni comuni, in “Federalismi.it”, 7, 2013, reperibile al seguente url: www.federalismi.it. Cfr., oltre che ivi, p. 10, M.R. Marella, Per un diritto dei beni comuni, in Id. (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona 2012, p. 17. Il riferimento va, ovviamente, non solo al referendum sull’acqua del 2011, ma anche alla “Commissione sui Beni Pubblici”, istituita dal Ministro di Giustizia nel 2007, e meglio nota come “Commissione Rodotà sui beni comuni”, dal nome del suo presidente, il civilista Stefano Rodotà.

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smo9. In via di estrema sintesi, per Laclau, le società non posseggono una tensione immanente alla realizzazione di una piena omogeneità sostanziale; pertanto, è utopistico pensare che richieste prive di risposta da parte delle istituzioni, nel contrapporsi a quest’ultime, possano armonicamente fondersi dissolvendo le proprie specifiche peculiarità in un’unità compatta e coesa; l’unica chance di riuscita sta, allora, nel costituire un fronte antagonistico unitario capace di bypassare queste eterogeneità, il che, per Laclau, accade a due condizioni (che sono due facce della medesima medaglia): 1. l’emersione di un «significante vuoto»10 – se si vuole, una parola d’ordine che unisca le richieste al di là delle differenze specifiche che le separano e che, conseguentemente, non ha un preciso significato –; 2. l’individuazione di un avversario comune che abbracci tutti i partecipanti del fronte antagonistico, nonostante le loro differenze11. Se si prova a trasporre questa logica al dibattito giuridico sui beni comuni, non è difficile intravedere in quest’ultima formula il tentativo di enucleare un «significante vuoto» capace di rinsaldare i rapporti fra tutti coloro i quali si dichiarano disposti a rinnovare l’attuale cultura giuridica in direzione del comune. Ciò spiega perché il limite di questo dibattito non stia nella indeterminatezza della formula – si ricordi che, per Laclau, la vaghezza è il riflesso della notevole eterogeneità delle richieste12 –; il vero problema che affligge questo dibattito è la mancata individuazione dell’obbiettivo polemico – specificamente giuridico, in tal caso – attorno al quale addensare le proposte dei fautori del comune. Ecco perché lo scopo di questo scritto non consiste nell’esprimere un giudizio di valore sulle varie proposte avanzate dallo schieramento favorevole ai beni comuni, né tantomeno ad arricchirlo con una propria, bensì contribuire indirettamente al suo sviluppo evidenziando quelle strategie discorsive che non aiutano a sbozzare il suo antagonista giuridico. Come ben dimostra uno dei tentativi più ambiziosi messi in campo da questo punto di vista – e che costituirà l’oggetto precipuo di questa indagine – ovvero il volume di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto13. Il progetto di Mattei è senza dubbio ambizioso. Il suo obbiettivo non consiste semplicemente – e comunque non sarebbe da poco – in un rinnovamento incisivo della dogmatica giuridica (civilistica e costituzionalisti9 10 11 12 13

E. Laclau, La ragione populista (2005), Laterza, Roma-Bari 2008. Ivi, p. 65. Ivi, pp. 79 e ss. Ivi, p. 93. Laterza, Roma-Bari 2011.

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ca). Per Mattei, occuparsi del comune equivale ad occuparsi delle basi della convivenza associata, tanto più, poi, che queste basi sono ormai minacciate da forme sempre più gravi di inquinamento ambientale. Alta, pertanto, è la posta in gioco che si cela al di là dei beni comuni ed essa implicherebbe inevitabilmente «uno scontro profondo – epistemologico e anche psicologico – fra due versioni del mondo (quella meccanicistico-tecnologica, fondata su individualismo, dominio e dimensione quantitativa, e quella ecologica, fondata su comunità, olismo e dimensione qualitativa)»14. Data questa impostazione, può ritenersi consequenziale il rifiuto di Mattei di fornire una definizione – e per di più anche giuridica – dei beni comuni15. Anche a non voler condividere il suo approccio, è difficile negare che il tema imponga al giurista di varcare i confini, anche largamente intesi, della propria disciplina; se, poi, si accetta la radicalità del taglio, diventa inevitabile accedere ad una prospettiva che l’autore definisce «“indisciplinata”, rifiutando innanzitutto la separazione “disciplinare” fra giuridico, economico e politico»16. Ciò, peraltro, non lo spinge affatto ad una trattazione dimentica del ruolo del diritto. Ed invero, un merito difficilmente contestabile di questo Manifesto consiste proprio nel ricordare – soprattutto ai non addetti ai lavori – che, se i beni comuni si trovano oggi in una condizione così deplorevole, lo si deve in particolare alla scarsa considerazione che la cultura giuridica riceve quando si considera il nostro rapporto – teorico e pratico – con gli stessi. E per accorgersene, per Mattei, basta por mente alla circostanza per cui oggi le maggiori aggressioni ai beni comuni non sono arrecate illegalmente – si pensi, a titolo esemplificativo, al diffuso traffico illecito di rifiuti –, ma in maniera del tutto conforme al diritto vigente il quale, non riuscendo a concepire un qualcos’altro che non sia “mio” o “tuo”, legittima la privatizzazione e lo sfruttamento commerciale dei beni comuni17. Ciò spiega perché, per Mattei, «il principale bersaglio critico di questo Manifesto per i beni comuni è costituito dall’assetto istituzionale fondamentale del potere globale oggi dominante: la tenaglia fra la proprietà privata, che legittima i comportamenti più brutali della moderna corporation, e la sovranità statuale, che instancabilmente collabora con la prima per 14 Ivi, p. 104. 15 Cfr. ivi, pp. XIII e ss. nonché pp. 52 e ss. 16 Ivi, p. XIII, il che spiega anche perché il Manifesto non abbia un capitolo più importante rispetto agli altri e non possegga una struttura argomentativa rigida, ma risulti essere una sorta di ‘mosaico’ che obbliga a muoversi in tutta la sua estensione per recuperarne i “tasselli”. 17 Cfr. ivi, pp. VI e ss.

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creare sempre nuove occasioni di mercificazione e privatizzazione dei beni comuni»18. In apparenza, quindi, Mattei fornisce al lettore un avversario attorno al quale i sostenitori del comune possano coagulare i propri sforzi indipendentemente dalla declinazione che ciascuno di essi ne offre; ma ad un’attenta analisi ci si accorge di una parziale evanescenza del bersaglio, che lo rende piuttosto inadatto allo scopo e, anzi, espone il dibattito sui beni comuni al rischio – paventato da Mattei stesso – di trasformarsi in un «buzzword»19. Ora, che le corporations e ciò che esse rappresentano – una visione del mondo imperniata solo sull’economia capitalistica – siano additate come principali nemici dei beni comuni non è certo una novità. Negli ultimi anni, grazie anche alla crisi economico-finanziaria del 2008, è andato crescendo il fronte critico nei confronti del predominio culturale esercitato dalla scienza economica e, in particolare, di quella sua versione nota con l’etichetta di neoliberismo, che a partire dagli anni Settanta – dal punto di vista culturale – e dagli anni Ottanta – sotto il profilo politico-istituzionale – non solo è diventata egemone fra gli economisti, ma è addirittura è assurta a vero e proprio modello di vita20. Per Mattei, però, quella al neoliberismo non è una critica ad una data concezione dell’economia che andrebbe sostituita con un’altra, ma si risolve in una contestazione in radice della scienza economica tout court. Più precisamente, se oggi il «saccheggio»21 dei beni comuni costituisce la regola, lo si deve ad una Weltanschaaung – di cui la scienza economica è figlia – che li esclude del tutto dalla nostra considerazione. Per l’autore, infatti, il dramma dei beni comuni non è fenomeno recente, ma parte da lontano: «A partire dalla prima modernità, diritto, tecnica ed economia si sono (…) alleate per costruire l’immaginario dell’antropocene, promuovendo a “scienza” il godere (dissipandole) delle ricchezze contenute nel forziere (carbone, petrolio, gas, acqua dolce profonda), risorse naturali che non possiamo produrre e che non sono naturalmente riproducibili se non in milioni di anni»22. È, quindi, la cultura moderna l’artefice di tale stato di cose: la sua colpa sarebbe quella di aver inaugurato un immaginario in18 Ivi, p. XIII. 19 Ivi, p. XIV. 20 Cfr. per tutti L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011. 21 Per rifarsi al titolo di un’altra significativa opera di Mattei: U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali (2008), Bruno Mondadori, Milano 2010. 22 Cfr. U. Mattei, Beni comuni, cit., p. XVI.

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tenzionalmente ostile ai beni comuni e di aver plasmato la nostra mentalità in modo da non residuare spazio alcuno per la consapevolezza della loro importanza. E così, la modernità sarebbe connotata da una logica dell’avere, del possesso e per di più del possesso esclusivo ed escludente23; con la distinzione soggetto/oggetto avrebbe reso possibile una forma mentis individualistica, immemore di quei vincoli di solidarietà senza i quali non si darebbe sopravvivenza, e del tutto orientata all’accumulo del denaro e del potere24; e l’egoismo di fondo di questo atteggiamento avrebbe ricevuto una piena consacrazione culturale mediante la scienza e la filosofia moderne, con la loro tendenza alla frammentazione, alla separazione e alla specializzazione del sapere, e il loro metodo quantitativo, riduzionistico e oggettivistico25. Scopo di Mattei è, invece, dispiegare «una narrativa e un nuovo sogno»26, che, però, non abbisogna di essere edificata ex nihilo, ma può vantare la fortuna di poter attingere ad un antico serbatoio di riferimenti culturali – finendo per acquistarne molto il sapore. L’idea del ‘comune’ non è un prodotto di questo inizio millennio; anzi, essa risale al Medioevo, che in Mattei assurge quasi ad una sorta di età aurea dei beni comuni. Nel quadro che di essa è tratteggiato nel Manifesto, la vita «sembrava svolgersi in una dimensione che potremmo descrivere, senza alcun romanticismo, come ecologica e qualitativa»27 ed era regolata da una «intelligenza generale, che presiede agli aspetti ecologici della produzione»28; la convivenza si svolgeva secondo un principio cooperativo, in virtù del quale era predominante l’aspetto relazionale – e non quello economico-utilitaristico – del contatto umano e la ragion d’essere del singolo poteva trovarsi solo nella comprensione del tutto, mai in una presunta autosufficienza mentale ed esistenziale29; infine, il rapporto dell’uomo con la natura era essenzialmente simbiotico, volto alla protezione e alla riproduzione di quelle risorse che, 23 Cfr. ivi, pp. 32 e ss. 24 Cfr. ivi, pp. 69 e ss. L’avversione all’individualismo trascina con sé non i diritti fondamentali tout court, ma una loro concezione – appunto – individualistica. Ecco perché Mattei, sebbene con qualche oscillazione, non rinuncia a definire i beni comuni come diritti fondamentali, ma a patto di intenderli in maniera olistica: essi «non sono diritti soggettivi individuali che qualcuno “ha”, anche se sono indispensabili alla soddisfazione di alcuni diritti fondamentali attraverso cui una persona “è” tale» (ivi, p. 58). 25 Cfr. ivi, pp. 39 e ss. 26 Ivi, p. 86. 27 Ivi, p. 28. 28 Ivi, p. 30. 29 Cfr. ivi, pp. 27 e ss.

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se depredate, avrebbero reso impossibile l’esistenza30. Insomma, è al Medioevo che, ad avviso di Mattei, bisogna riandare se si vuole costruire una filosofia del ‘comune’ adeguata alle esigenze della contemporaneità; ed è il Medioevo che ha espresso – ovviamente, in forme congeniali alla sua contingenza storica – la logica «fenomenologica, relazionale, partecipativa, olistica e critica propria del comune»31. Non stupisce, pertanto, che vittima degli strali di Mattei cada, oltre al mercato, anche una manifestazione istituzionale precipua della modernità ovvero lo Stato. Le ragioni sono plurime: lo Stato, al pari dell’individuo proprietario, è contrassegnato dalla vocazione all’appropriazione e all’esclusione – nella misura in cui si pone come sovrano all’interno di un dato territorio e riserva un trattamento giuridico differenziato nei confronti dello straniero32 –; è animato da una intrinseca tendenza alla concentrazione del potere e si è sempre strutturato in maniera gerarchica – quando, invece, il ‘comune’ postula una diffusione del potere e rapporti politici tendenzialmente paritari33 –; avrebbe monopolizzato il diritto – che, per Mattei, è un bene comune solo quando la sua produzione è decentralizzata – secondo una logica dall’alto verso il basso che è del tutto antitetica alla natura intrinsecamente democratica e partecipativa del ‘comune’34; e comunque lo Stato «da sempre presiede alla privatizzazione dei beni comuni adoperandosi per ampliare la sfera della proprietà privata»35. A fronte di questa breve sintesi non poche sono le osservazioni che possono essere formulate, ma, al limitato fine di argomentare la tesi sostenuta nella premessa di questo scritto, ne basta una. Nulla vieta di articolare una proposta giuridico-politica volta alla dissoluzione dello Stato e alla sua sostituzione con altre forme istituzionali, ma lascia perplessi l’idea di giustificarla sulla base di una ricostruzione che dovrebbe essere storicoconcettuale, ma si rivela per essere una filosofia della storia – con tutti i problemi che essa porta con sé36. 30 31 32 33 34 35 36

Ibidem. Ivi, p. 69. Cfr. ivi, pp. 42 e ss. Cfr. ivi, pp. 80 e ss. Cfr. ivi, pp. 59 e ss. Ivi, p. 50. Per giunta, questa ostilità nei confronti dello Stato colpisce non solo perché esso è stato negli ultimi anni – e in parte continua ad essere – bersaglio polemico del neoliberismo, ma anche per una certa sproporzione fra le accuse che Mattei gli muove e le sue effettive responsabilità, se si tiene presente che, per l’autore, «qualche tipo di coerenza fra teoria assolutistica e realtà del diritto fu raggiunta, ancorché soltanto in parte, solo per una frazione molto breve del periodo che ci separa dalla

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Non v’è dubbio che lo Stato nella sua storia spesso e volentieri non sia stato altro che il braccio armato di una borghesia interessata solo ad incrementare il proprio volume di affari a discapito di tutto quanto fosse “comune”; ma si può essere molto scettici sul fatto che esso sia stato solo questo. Lo dimostra la storia istituzionale, ma anche concettuale dello Stato sul continente europeo ove lo stesso – ai suoi primordi – si è affermato come istanza unitaria in territori ove il pluralismo medievale era degenerato in un particolarismo del tutto insensibile a qualcosa di “comune” e, più tardi e forse proprio per questa sua origine, si è tramutato in uno Stato sociale volto a tutelare la fasce meno abbienti della popolazione contro lo strapotere del capitalismo. Si badi: non si tratta di una critica ab aexterno, cui si potrebbe contrapporre tutt’altra storiografia e teoria giuspolitica, perché è Mattei stesso che qua e là mostra consapevolezza di un quadro chiaroscurale che non si presta a scorrevoli semplificazioni. Si ponga mente, ad esempio, alle condizioni in cui versano oggi gli Stati sovrani a fronte della cd. globalizzazione: per Mattei, le odierne multinazionali, sebbene mostrino di aver in taluni casi molto più potere di singoli Stati sovrani, non sono, però, diverse da questi ultimi nell’articolarsi in termini gerarchici; e tuttavia, mentre le prime sono di fatto libere di esercitare questo potere come meglio credono, per i secondi «democratizzazione e separazione dei poteri ne limitano l’arbitrio»37, con la conseguenza che la struttura di una moderna corporation «è simile a quella di un Leviatano assoluto molto più di quanto non lo sia un’organizzazione politica: anche il sovrano descritto da Machiavelli, Bodin e Hobbes deve guardarsi dai nemici interni ed è comunque limitato nel suo arbitrio dall’interesse comune, o se non altro dalla paura del regicidio»38. Nonostante siffatta differenza, Mattei rimane fermo nel sostenere che la percezione dei beni comuni possa avvenire solo a spese dello spazio (istituzionale e concettuale) riservato a Stato e mercato, tanto più oggi «che gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest’ultimo succube della prima (cioè di rendita e profitto)»39. E tuttavia, anche Mattei non può disconoscere che questa asimmetria è maturata nel tardo Novecento anche in risposta ad un senso della statualità che in passapace di Westfalia. Infatti, lo sviluppo giuridico in Europa fu caratterizzato, come del resto ovunque altrove, da fenomeni di profondo pluralismo e policentrismo, e il c.d. ordine giuridico medievale […] restò molto significativo in Europa ben all’interno del XIX secolo» (ivi, p. 10). 37 Ivi, p. 14. 38 Ivi, p. 15 (corsivi aggiunti). 39 Ivi, p. 105.

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to, ben lungi dal contrapporsi al ‘comune’, ne recepiva e ne tutelava molte istanze: «Sebbene, infatti, per qualche decennio anche in Occidente, grazie agli equilibri della Guerra Fredda, alcuni Stati siano riusciti a elaborare un diritto pubblico in grado di limitare la sfrenata pulsione all’accumulo delle classi dominanti (tassazioni progressive, welfare state, tutela dei lavoratori e dei soggetti deboli), quegli equilibri sono ormai saltati»40. Insomma, è fuori discussione che «“un altro mondo è possibile”»41, ma tale possibilità, da qualsiasi punto di vista la si guardi – storico, concettuale, finanche psicologico –, non si dischiude necessariamente a patto di archiviare del tutto l’esperienza storica dello Stato e nulla osta ad immaginare un altro possibile mondo ove lo Stato sia messo al servizio dei beni comuni42. Sono tutte queste incongruenze a gettare una lunga ombra sulla nitidezza del “grido di battaglia” di Mattei e sulla sua capacità di costruire – nei 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 51. 42 Mattei, tuttavia, rilancia sostenendo che, data la grave crisi ambientale, un altro mondo non solo è possibile, ma «un altro mondo è necessario se vogliamo salvare il nostro pianeta» (ivi, p. 52). E in effetti, per Mattei, il comun denominatore di tutti i discorsi sui beni comuni – si potrebbe dire l’autentico loro «significante vuoto» – «ha per scopo la sopravvivenza del pianeta» (ivi, p. 100): il modello di vita ad essi sotteso rappresenterebbe l’unica via d’uscita dall’emergenza ambientale (ivi, p. 104) ed esso, oltre a rivelarsi incompatibile con la statualità moderna (ivi, p. 78), richiede necessariamente una distribuzione eguale delle risorse, giacché «l’individuo solitario e competitivo va denunciato come la mera finzione di un pensiero letale, volto a legittimare la diseguaglianza e l’accumulo di proprietà privata, che va abbandonato con urgenza se si vuole evitare la catastrofe ecologica finale» (ivi, p. 103). Senonché, a parte che la connotazione ecologica dei beni comuni rischia di ridurne il novero ben oltre quanto asserito da Mattei stesso – si può dubitare che, ad es., il lavoro (cfr. ivi, p. 53) o la stampa (cfr. ivi, p. 70) abbiano siffatta natura ecologica –, non si ravvede alcuna connessione necessaria fra la soluzione dell’emergenza ambientale e l’instaurazione di ordine giuridico egualitario: si ricordi che il Medioevo, che pure ha tenuto a battesimo i beni comuni, tutto può dirsi fuorché sia stata un’età di eguaglianza; e per converso, sono ormai noti gli immani disastri ambientali causati – spesso in tutta segretezza – dai paesi del socialismo reale, che avevano l’eguaglianza come principio-guida della propria azione. Non si vuole qui contestare l’entità e la gravità delle condizioni ambientali del nostro pianeta, ma l’uso strumentale di questo fatto per invocare misure del cui stretto nesso con questa situazione si può certamente dubitare. Si ha, allora, l’impressione che l’invocazione di uno stato di necessità ambientale non sia altro che il ricorso – sicuramente più commendevole – ad un espediente argomentativo piuttosto diffuso in quest’ultimo torno di tempo ovvero quello ‘stato d’eccezione permanente’ quale tecnica di governo dell’ordinario (cfr. almeno G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003).

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termini di Laclau – un “popolo” dei beni comuni. Più precisamente, finisce con il non esser chiaro se la lotta per i beni comuni costituisca un lungo filo che è stato spezzato dalla storia moderna – e che si tratta ora di dipanare nuovamente – oppure, invece, sia tutta contemporanea, nasca da problematiche che in passato non esistevano e sia dovuta principalmente allo strapotere culturale e istituzionale che negli ultimi trent’anni ha acquisito (una cerca visione del)l’economia. La differenza non è di poco momento perché condiziona gli obbiettivi pratici di questa lotta. E allora: inoltrarsi sul lungo sentiero di una rivoluzione culturale e politica, al cui termine vi sia l’estinzione dello Stato, la limitazione della proprietà privata e dell’economia e un mondo para-medievale di piena consonanza con la natura e di autentica cooperazione umana? Oppure provare nell’immediato futuro ad approntare garanzie istituzionali che impediscano allo Stato – che a tutt’oggi rimane comunque il più importante gestore di beni comuni – di abbandonarsi alla logica di mercato (come Mattei stesso suggerisce43)? O, senza aspettare riforme più o meno lente, puntare su un’istituzione statale esistente come la giurisdizione per sviluppare «un diritto giudiziario globale “dal sotto in su”»44, capace di tutelare i beni comuni anche al di là dei confini nazionali? Che dire, poi, sul piano specificamente giuridico? Si tratta di aggiornare la dogmatica o semplicemente di reinterpretarla? Più chiaramente: l’obbiettivo è costruire una nuova categoria giuridica – i beni comuni – o, invece, mantener ferme le categorie esistenti funzionalizzandone la lettura al “comune”? Mattei stesso sembra essere incerto sul punto e a tal riguardo è emblematica la sua posizione sull’università, che davvero finisce con il compendiare un po’ tutti i pregi e i limiti di della sua strategia. Per l’autore, l’università è sicuramente un bene comune. Lo è perché fonte di «cultura critica»45 ovvero di quello che può essere a buon diritto considerato il più importante bene comune, giacché, offrendoci le lenti per guardare la realtà in maniera diversa rispetto alla cultura dominante, ci permette di vedere un bene comune laddove in passato vedevamo solo un oggetto da sfruttare. Quali sono, però, le conseguenze giuridiche di questa qualificazione? Vi dovrebbe essere un’università comune accanto ad università pubbliche (rectius: statali) o private oppure questa dicotomia esaurisce le forme orga43 Cfr. U. Mattei, Beni comuni, cit., pp. V e ss., dove assai condivisibilmente si contrappone la messe di garanzie della proprietà privata avverso l’espropriazione statale a fronte della carenza pressoché generalizzata di analoghe garanzie avverso la privatizzazione di importanti beni pubblici ad opera dello Stato. 44 Ivi, p. 85. 45 Ivi, p. 70.

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nizzative del giuridico, basta che l’università produca effetti coerenti con la logica del “comune”? Orbene, visto il favor di Mattei per il Medioevo va da sé che la forma giuridica più adeguata ad esprimere la natura comune dell’università sia quella espressa dall’antico Studium di Bologna ovvero un’associazione paritaria e fondata sul consenso fra studenti e docenti; e non è un caso che nella sua sostanza tale modello sia stato adottato per la fondazione dei primi atenei statunitensi che, pur essendo privati, riuscirono a reiterarne i benefici. Agli estremi antipodi, invece, si collocava, per Mattei, l’università di Stato ove i docenti erano funzionari pubblici e, in quanto tali, soggetti ad una gerarchia, funzionale alla restrizione della libertà di pensiero e di ricerca scientifica e protesa ad instaurare una cultura compiacente con il potere46. Ora, a parte l’osservazione per cui l’esempio dell’università – ma ciò vale, come si vedrà tra poco, anche per la stampa e per tutti i mass media – dimostra che il privato non è sempre sinonimo di rapacità e di esclusione, non bisogna dimenticare non solo – da un punto di vista storico – che sovente le università statali nacquero per sottrarsi all’egemonia di agenzie culturali e formative molto più aggressive e oppressive (leggi: la Chiesa cattolica), ma anche che – dal punto di vista concettuale – la natura statale di un ente giuridico non porta di per sé alla subordinazione dei suoi membri – quasi che Stato equivalga per natura a gerarchia –, né che la natura privata di un soggetto giuridico è garanzia di libertà. E del resto – e ancora una volta –, se ne mostra consapevole Mattei stesso allorquando non solo accenna alle pressioni che la grandi corporations da tempo ormai stanno esercitando sul sistema universitario statunitense e alle politiche di definanziamento attuate sul continente europeo ai danni delle università statali47, ma soprattutto quando esplicitamente dichiara che un’università statale, «come del resto un’università privata, può essere vista come un bene comune, ma può anche non esserlo. Un’università di Stato può, infatti, essere strumento di propaganda nel momento in cui il sapere che vi viene professato non è critico, così come una corporale university, creata da un’azienda per formare i propri quadri o per farsi pubblicità a livello globale, altro non è che uno strumento di marketing»48. La sensazione che trapela, allora, è che potrà risultare paradossale, ma la proposta di Mattei, presentatasi all’inizio come una filosofia giuridica, 46 Cfr. ivi, pp. 70 e ss. 47 Cfr. ivi, pp. 73 e ss. 48 �������������������������������������������������������������������������������� Ivi, p. 71. «Che poi anche i giornali e i media possano svolgere funzione propagandistica o di marketing piuttosto che critica, e che ciò sia del tutto indipendente dalla natura pubblica o privata della loro “proprietà”, è fin troppo ovvio» (ibidem – corsivi aggiunti).

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si rivela nella sua essenza una sorta di teologia morale dei beni comuni. Il discorso sui beni comuni appare come una riedizione – non a caso, a questo punto, di ispirazione medievale – di una Sostanza – si veda l’appellativo («Gaia») con il quale Mattei spesso denomina il pianeta Terra oppure l’auspicio ad «un’idea di legalità, ricca, spessa, olistica, fondata su contenuti etici autentici, funzionale alla qualità della vita di tutti, nell’ambito di una dialettica finalmente democratica che coinvolge ogni voce e non ne esclude alcuna»49 –, una Sostanza, nella quale tutti dovrebbero moralmente riconoscersi se hanno a cuore la propria sopravvivenza e che apporterebbe i propri incalcolabili vantaggi indipendentemente dalla natura privata o pubblica del soggetto che vi si lasci ispirare. È comprensibile, pertanto, che una riflessione sul contributo specifico che le istituzioni potrebbero dare finisca con l’avere un ruolo marginale. «Il comune rifiuta la logica del potere tout court»50 e, se qualche forma di organizzazione è pur sempre necessaria per la gestione dei beni comuni, essa deve essere improntata alla massima diffusione possibile del potere, secondo «un modello collaborativo e partecipativo che non conferisce mai potere ad una parte rispetto ad altri elementi del medesimo tutto, ponendo al centro l’interesse di quest’ultimo, il comune appunto, visto come qualcosa di non riducibile all’aggregato delle parti che lo compongono»51. Certamente, sono solo accenni a strutture di governo tutte ancora da sbozzare, ma le cui chance di una gestione efficace dei beni comuni paiono riposare non su una logica istituzionale loro propria, ma in fin dei conti solo sul loro essere «capaci di attrarre gli amministratori più motivati»52.

49 Ivi, pp. 59-60. 50 Ivi, p. 81. 51 Ibidem. In ciò Mattei, oltre a coltivare una visione del potere che potrebbe dirsi quasi pre-foucaultiana, pare sottovalutare che la ‘diffusione’ del potere, di regola, è propria di società rette da norme consuetudinarie, che notoriamente sono caratterizzate da un’elevatissima pressione sociale e poco tollerano il dissenso: cfr. ivi, p. 42, ove Mattei, nel descrivere il Medioevo dei beni comuni, sostiene che una delle sue condizioni essenziali fosse il policentrismo politico e la staticità del modello di vita, ma ammette che «quando viene meno la stanzialità, condizione tipica di una società fondata sullo status, viene in gran parte meno anche il controllo del gruppo sull’individuo, sicché il suo rispetto delle regole non sarà oggetto di quel controllo diffuso (a volte sentito come opprimente) che caratterizza la società di villaggio» (corsivi aggiunti). 52 Ivi, p. 60.

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Nicola Capone

PROPRIETÀ E SOCIETÀ NELLA PROSPETTIVA DEI BENI COMUNI

L’espressione bene comune rischia di perdere la sua efficacia e il suo carattere paradigmatico per l’uso estremamente lato che se ne fa, riferendosi con essa a tutto ciò che ha carattere valoriale per una determinata comunità. Così tutto diventa bene comune, al punto che per il senso comune questo speciale bene appare un concetto indeterminato. Lo sforzo da fare, allora, potrebbe essere quello di liberare le parole dalla loro traduzione nella neolingua della comunicazione di massa che riduce tutto a slogan, con l’effetto di restringere la sfera d’azione del pensiero. In un recente testo Salvatore Settis delinea i contorni semantici dell’espressione bene comune distinguendo l’uso dell’espressione al singolare da quello al plurale: «Al singolare bene comune è un principio immateriale che appartiene all’universo dei valori e include i diritti fondamentali: salute, lavoro, istruzione, eguaglianza, libertà. Al plurale, i beni comuni possono essere cose tangibili (come l’aria, l’acqua, la terra; ma anche proprietà immobiliari), delle quali la generalità dei cittadini o una specifica comunità può rivendicare la proprietà o l’uso. Teatri storici, edifici monumentali, musei possono essere beni comuni nel senso che essi appartengono al patrimonio dello Stato o di un ente pubblico; oppure (anche quando il proprietario sia privato) perché la marcata funzione pubblica assegna a ciascuno di essi uno statuto particolare, in cui l’interesse della collettività prevale su ogni altro aspetto. […] L’ambito concettuale del bene comune come valore si definisce al meglio facendo ricorso ad una dizione della nostra Costituzione: utilità sociale»1. Questa distinzione permette di svelare il carattere paradigmatico della nozione di bene comune. Come spiega Stefano Rodotà, dinanzi alla logica proprietaria dominante sia nell’economia globale sia nella mentalità delle classi governative dei paesi industrializzati e degli organismi internazionali – la parola d’ordine dell’ultimo trentennio è privatizzare − il bene comune potrebbe rappresentare un radicale cambio di paradigma per una fondazio1

S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino 2012, pp. 61-62.

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ne non proprietaria dei rapporti sociali, «il simbolo che meglio rivela la possibilità di chiudere una parentesi, quella della proprietà privata, che una operazione politica ha costruito come un archetipo al quale non si potrebbe sfuggire, il cuore di quella nuova versione del diritto naturale che fonda la religione del mercato degli ultimi tempi. Ma, più concretamente e più rigorosamente, si deve guardare ai beni comuni in primo luogo come elemento inseparabile da una persona affrancata dalla dipendenza esclusiva della proprietà, in una prospettiva che, seguendo ancora le parole dell’art. 3 della Costituzione, congiunge il “pieno sviluppo della persona umana” e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»2. Il processo di privatizzazione deve la sua forza non solo alla dinamica di lotta fra capitale e lavoro, che vede vittoriosa la logica del capitale, ma anche al prevalere di una cultura incardinata in un paradigma riduzionista per cui la società è un meccanismo composto da individui (dal latino individuus, l’indivisibile, il singolo), gli uni divisi dagli altri, che abitano, loro malgrado, uno spazio vuoto da occupare, conquistare e godere: la Terra. La proprietà – che etimologicamente deriva dal latino privare, togliere ciò che sta innanzi solo – per gli indivisibili appare l’unica forma d’essere. È facendo proprio ciò che sembra abbandonato, disabitato, che gli individui sono qualcosa; è nell’avere il loro essere. È da questa prima occupazione, come efficacemente spiega Carl Schmitt3, che nascerà l’esigenza di segnare un confine tra sé e gli altri. Entro quel limite c’è tutta la potenza della negazione e tutta l’impotenza della separatezza. C’è, dunque, un’assonanza fra le parole individuo e proprietà: entrambe sottendono una visione del mondo in cui le persone e le cose sono pensate nel loro isolamento e le uniche modalità di relazione sono il possesso e il patto che gli individui fanno per garantirsi in esso. Questo patto è detto società, ma una società degli individui è un ossimoro perché i due termini si negano a vicenda avendo la parola società la sua radice nel sostantivo socius, compagno, ovvero, chi mangia dello stesso pane (cum panis). La logica proprietaria non può sostanziare il vivere in comune, è piuttosto una contraddizione viva nel corpo immaturo delle moderne società, attraversate negli ultimi quattro secoli dalla lotta spietata fra proprietari e non pro2 3

S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 120. C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991. «Così la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento», cfr. il paragrafo 1, Il diritto come unità di ordinamento e di localizzazione, pp. 19 e ss.

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prietari, fra espropriatori e espropriati. Tracce di questa lotta si ritrovano fin da quando il diritto alla proprietà fu definito «un diritto inviolabile e sacro» dall’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 29 agosto 1789. Secondo l’art. 16 della seconda Dichiarazione del 24 giugno 1793, ogni cittadino ha il diritto di «godere e di disporre a suo piacimento dei suoi beni, delle sue rendite, frutto del suo lavoro e della sua attività». Contro questa ideologizzazione della proprietà si scagliò da subito Maximilien Roberspierre, con un discorso pronunciato alla Convenzione il 24 aprile 1793: «Nel definire la libertà il primo dei beni dell’uomo, il più sacro tra i diritti che derivano dalla natura, avete detto con ragione che essa aveva per limite i diritti degli altri. E perché mai, allora, non avete applicato questo principio alla proprietà, che è un’istituzione sociale? […] Avete moltiplicato gli articoli per assicurare la più grande libertà nell’esercizio della proprietà, e non avete detto una sola parola per determinarne il carattere legittimo; di modo che la vostra dichiarazione sembrerebbe fatta non già per gli uomini, ma per i ricchi, per gli accaparratori, per gli speculatori e per i tiranni»4. L’autocontraddittorietà dell’istituto della proprietà sta nella sua assolutezza: la proprietà, principio absolutus nel cuore della modernità, intendeva sciogliere ogni legame con l’Antico regime e liberare la persona dalle ingerenze del clero e del Sovrano. L’assolutezza della proprietà si oppone ad un altro assoluto: la proprietà fondiaria feudale che teneva la società nella tenaglia dell’istituto della mano morta, da un lato, e del dominio eminente del Sovrano, dall’altro. Due pilastri del potere medioevale che si scontravano con le esigenze della nuova classe emergente: la borghesia. Questa, dal 1300 al 1700 prima attraverso il commercio di spezie, poi con lo schiavismo, l’oro e l’argento del Nuovo mondo e i prodotti alimentari a basso costo delle piantagioni del Sud America, aveva raggiunto una dinamicità in netta contraddizione con la staticità della società feudale. L’improduttività delle campagne, le dogane, le imposte sul lavoro agricolo si scontravano con i nuovi mezzi di produzione della ricchezza che la borghesia aveva affinato nel cuore del feudalesimo. La proprietà privata è l’emblema dei nuovi rapporti istituitesi dopo che la macchina del commercio mondiale aveva reso obsoleti gran parte degli istituti giuridici medioevali. La proprietà quindi, all’atto della sua costituzionalizzazione, è sinonimo di libertà. Ma negli stessi anni in cui la proprietà si imponeva come nuova condizione del vivere sociale, essa, potremmo dire letteralmente, recintava se stessa. 4

M. Robespierre, La rivoluzione giacobina, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 119120.

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Assolutezza, sacralità e inviolabilità erette dal citoyen, eroe della modernità, come argini possenti contro l’Antico regime, diventano nella società borghese strumenti di separatezza, individualizzazione e oppressione. La proprietà, questa reliquia sacra e inviolabile, si presenta alle soglie della modernità con tutta la sua carica di ambivalenza: è insieme strumento di emancipazione di una classe e nello stesso tempo è il risultato, potremmo dire l’apice, di un processo di espropriazione, durato tre secoli, compiuto ai danni dei contadini da parte della borghesia. Un processo di appropriazione che nelle rivoluzioni moderne si autolegittima come fondamento della moderna società. Se solo si osservano più da vicino – e non è questo il luogo – le tre rivoluzioni (inglese, americana e francese) che hanno segnato il passaggio dall’età feudale a quella moderna, si possono scorgere già posti tutti gli elementi che rendono ancora oggi questo istituto giuridico e sociale enigmatico ed estremamente problematico. Sopra tutte, resta viva la questione dei legami sociali della proprietà. Con il paradigma del bene comune si intende mettere in discussione l’assolutezza della proprietà che tende a recidere ogni legame sociale in nome della concorrenza e dell’efficienza. Una negazione (la messa in discussione dell’assolutezza della proprietà) della negazione (atomizzazione dei legami sociali) che non significa negare la proprietà in toto, ma relativizzarla attaccando la logica dominante che pone l’interesse privato a misura di tutte le cose. Cosi la cifra paradigmatica del bene comune assume carattere rivoluzionario, nel senso di un capovolgimento copernicano del punto di vista: il bene comune pone al centro della riflessione la persona costituzionalizzata, il rapporto tra proprietà, beni e legami sociali. A sciogliere, per prima, la rigidità dell’assolutezza proprietaria saranno l’eresia rivoluzionaria della Costituzione sovietica del 1918, che con l’art. 3 dichiarava il complesso delle terre «patrimonio di tutto il popolo» e trasferiva i mezzi di produzione «in proprietà della Repubblica Sovietica Operaia-Contadina», e l’art. 153 della Costituzione di Weimar del 1919, che per la prima volta nella storia costituzionale europea afferma che la proprietà «obbliga». Nel codice civile italiano del proprietario si dice, riprendendo il codice napoleonico, che «ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo» e subito dopo, a testimonianza della lotta ancora in corso, che può goderne e disporne «entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico» (art. 832). Gli «obblighi stabiliti» sono quelli previsti dalla Costituzione, che riconosce e garantisce la proprietà privata determinandone i modi d’acquisto, di godimento e i limiti «allo

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scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). La nozione giuridica di «funzione sociale» consente che nei ricorrenti contrasti tra interessi proprietari e interessi sociali sia legittima la prevalenza di questi ultimi; non più dunque un criterio di bilanciamento, come avveniva nei contrasti tra privati, ma piuttosto un criterio di selezione tra interessi contrapposti. Anche la rilevanza attribuita alla presenza pubblica in materia di proprietà è funzionale a creare un equilibrio tra le garanzie necessarie alla proprietà privata e la tutela dell’interesse della collettività. La proprietà pubblica si configura come lo strumento a cui la Repubblica può e deve ricorrere per raggiungere i fini e adempiere gli obblighi che la Costituzione le assegna («rimuovere gli ostacoli...» art. 3). L’intera disciplina della proprietà ha, in questa prospettiva, carattere strumentale in relazione all’utilità sociale. Saranno, dalla metà degli anni Ottanta dello scorso secolo, le politiche conservatrici di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan a far ascendere il modello proprietario nuovamente al vertice del sistema, lo stesso modello che la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia dell’ultimo ventennio stanno portando a compimento. Ma, nonostante tutto ciò e a dispetto di qualche avventata previsione, «la storia non è finita, e nuovi conflitti accompagnano la proprietà, riproponendo l’interrogativo intorno alla possibilità di ritenerla l’unica misura del mondo»5. Dopo le rivoluzioni tecnologiche che hanno tragicamente modificato il mondo in cui viviamo al punto che la struttura biotica coessenziale alla nostra stessa esistenza è attraversata da una crisi ecologica di proporzioni epocali, oggi è ineludibile decidere ciò che può essere affidato a logiche proprietarie e ciò che all’opposto deve essere posto saldamente su un retroterra non proprietario. La riscoperta del bene comune se da un lato ci consente di relativizzare la proprietà, dall’altro è uno strumento per ripensare radicalmente gli attuali soggetti titolari dei beni, siano essi pubblici o privati. Il presupposto di questo ripensamento è che al centro della riflessione siano poste le funzioni a cui i beni devono adempiere nell’ambito dell’organizzazione sociale. La funzione è determinata non più da un soggetto titolare astratto ma dalla persona costituzionalizzata, cioè da un soggetto concreto radicato nella dinamica della vita materiale e spirituale, intento nel perfezionamento della sua persona sia come singolo, sia come parte delle formazioni sociali dove svolge la sua personalità. «Sono dunque le caratteristiche di ciascun bene, 5

S. Rodotà, Il terribile diritto, Il Mulino, Bologna 2013, p. 11.

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non una sua “natura”, a dover essere prese in considerazione, la loro attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali»6. Beni di tal fatta sono beni comuni: «appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso devono essere patrimonio dell’umanità e ciascuno deve essere messo nella condizione di difenderli, anche agendo in giudizio a tutela di un bene lontano dal luogo in cui vive»7. Questa logica ci parla dell’impossibilità della recinzione dei beni necessari al soddisfacimento dei diritti e dei bisogni fondamentali della persona e ci obbliga a pensare la parte a partire dal tutto in cui essa si trova, ad evitare un controllo autoritario delle risorse per cui poteri pubblici o privati si contendano privatisticamente il governo di beni che dovrebbero essere strumento di coesione sociale. Si pensi all’ambiente, all’acqua, al cibo, all’energia, alla conoscenza: rispetto a queste risorse occorre prima di tutto definire il campo di interessi diffusi che esse investono e a partire da questa considerazione ripensare i soggetti a cui viene attribuita la titolarità del bene. Nel dibattito attuale questa riflessione viene elusa, e i beni comuni vengono posti oltre il pubblico e il privato nel territorio ignoto del comune. Ma una liquidazione dei soggetti a cui storicamente è stata assegnata la titolarità dei beni in nome di una generica gestione comune rischia di vanificare lo sforzo ri-fondativo su una base non proprietaria dei rapporti politici e sociali. Questo può rappresentare un errore storico che consentirebbe alla speculazione parassitaria di impossessarsi più agevolmente dei beni tutelati oggi da soggetti, il pubblico e il privato, che hanno sedimentato, anche se contraddittoriamente, nella loro struttura giuridica il risultato di lotte durate secoli. La privatizzazione del patrimonio pubblico e il fallimento di migliaia di piccole e medie imprese strozzate dalla speculazione finanziaria non troverebbero nessun argine in una teoria dei beni comuni disposta a liquidare tout court i soggetti in cui si è manifestata la vicenda proprietaria. «Da una parte la proprietà pubblica deve essere liberata dai tradizionali schemi astratti che ancora la imprigionano, demanio e patrimonio, a vantaggio di una classificazione che muove dalle funzioni proprie dello Stato e delle sue articolazioni […]. La proprietà privata, dal canto suo, non soltanto è stata relativizzata rispetto agli schemi escludenti ogni interesse diverso da quello 6 7

Ivi, p. 472. Ivi, pp. 472-473.

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del proprietario. Deve pure essere intesa e regolata in funzione delle attitudini dei beni che la costituiscono, riportati, sia pure con modalità peculiari, al fatto che anch’essa vive in società, con una rilevanza sempre più marcata di sue componenti pubbliche e comuni, messe in evidenza da una molteplicità di strumenti giuridici, dai piani regolatori alle discipline sull’ambiente»8. Piuttosto che prospettare un generico oltre il pubblico e il privato occorre domandarsi quale pubblico e quale privato possano e debbano essere protagonisti in una comunità politica in cui la proprietà non è più fine e misura di tutte le cose. Il pubblico è oggi in gran parte occupato da forze antidemocratiche che stanno espropriando le istituzioni pubbliche della loro funzione sociale e trasformando l’intero corpo amministrativo in uno strumento di coercizione al servizio degli interessi di forze economiche parassitarie. Chi riduce ontologicamente il pubblico a questo sua cancrena non solo naturalizza un dato storico, ma non tiene nemmeno in conto la complessità da cui questa nozione è stata generata storicamente, escludendo dal campo di lotta, che sempre più drammaticamente si profila all’orizzonte, uno strumento di organizzazione politica che, se innervato da una nuova logica e nuove forze politiche e sociali, potrebbe rappresentare un argine possente contro le ingerenze di potenze sovrane e assolute la cui capacità pervasiva è un elemento inedito e che presentano caratteristiche del tutto diverse da quelle proprietarie così come le abbiamo conosciute fino a mezzo secolo fa. Il dominio delle forze finanziarie è oggi sotto gli occhi di tutti e sarebbe riduttivo del resto continuare a rappresentarle entro i confini della definizione classica della proprietà privata: oggi queste entità travalicano gli Stati stessi9. Così pure occorre chiedersi se questa proprietà privata sia la sola possibile: è da intendersi necessariamente come il godimento esclusivo di beni a danno della collettività? Un’indisponibilità immaginativa in tal senso sarebbe indice di una radicata incapacità di pensare oltre il contingente; una trappola cognitiva che non permette di cogliere l’autocontraddittorietà del processo storico e il movimento concreto di trasformazione del reale. Un appiglio concreto alla praticabilità di questo ripensamento è offerto dalla metamorfosi del diritto in atto indotta dalla globalizzazione giuridica e dai processi di governance10. Come acutamente ha osservato Alfonso 8 9

S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., p. 121. Sul tema vedi N. Chomsky, Capire il potere, Il Saggiatore, Milano 2008; Id., Due ore di lucidità. Conversazioni con Denis Robert e Weronika Zarachowicz, Baldini&Castoldi, Milano 2007. 10 Sul tema cfr. V. Giordano, A. Tucci, Razionalità del diritto e poteri emergenti, Giappichelli, Torino 2013, pp. 87-102.

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Catania, la norma oggi si presenta essenzialmente come uno strumento conoscitivo, ovvero la capacità di comunicare una decisione e renderla evidente, «una sorta di schema organizzatorio, che mette in grado di dare un senso al mondo delle decisioni»11. La decisione, a sua volta, si estende ai comportamenti umani facendosi sempre più immanente e contingente, staccandosi dai suoi luoghi istituzionali. La politicità, la scelta, rappresentata dalla decisione «sta insieme con la capacità della forma normativa di produrre ordine»12 e rende relativamente stabile la decisione stessa. Il diritto ha perso il suo carattere preminentemente potestativo, verticistico, non si manifesta esclusivamente nelle norme di condotta o, se si vuole, sarebbe anacronistico continuare a interpretarlo esclusivamente in tal senso. Con la metamorfosi in atto il diritto sta mostrando la possibilità di essere agito anche da chi non è direttamente implicato nella dinamica prevalente del potere13. Si pensi alle sentenze delle Corti di giustizia relative al danno ambientale, scaturite dalla dura battaglia delle comunità locali riunite in associazioni, forum, ect., al referendum sull’acqua del 2011 in Italia, agli istituti di partecipazione democratica che a Porto Alegre, metropoli di 1,3 milioni di abitanti, dal 1989 permettono ai cittadini di partecipare all’elaborazione della politica municipale. Ma non facciamoci illusioni: «l’estesa socializzazione del processo democratico non dà luogo tanto, come sarebbe stato auspicabile, ad una partecipazione forte, diffusa, responsabile ai processi deliberativi in modo tale da rendere significativamente riconoscibile il ruolo sovrano dei partecipanti, ma piuttosto ad una micidiale miscela di apatia politica generalizzata rispetto alla gestione della vita comune e di appassionate ma intermittenti manifestazioni di resistenza da parte di micro comunità che non hanno sufficiente rappresentanza politica e dunque, pur accedendo agli accordi, se ne vedono svuotare il peso e l’efficacia»14. La sfida sta nel porre in essere una rivoluzione concettuale, paradigmatica, in grado di sostanziare la reazione emergente al modello dominante con un discorso culturale e politico capace di comprendere il variopinto mondo dei fatti, la molteplicità, nella sua intrinseca unità dinamica; e di scorgere

11 A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 12. 12 Ivi, p. 15. 13 Sul tema cfr. il concetto di “norme-potere” in H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 2002, pp. 44-48. 14 A. Catania, Metamorfosi del diritto, cit., pp. 76-77.

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le relazioni esistenti al di là dei rapporti causali in un’ottica sistemica.15 Una rivoluzione dei modelli cognitivi che, sul piano politico, dia centralità al legame sociale, «mettendo in discussione il modello individualistico senza negare le libertà della persona che, anzi, conquistano più efficaci condizioni di espansione e inveramento per il collegamento con i diritti fondamentali»16.

15 Sul tema cfr. F. Capra, Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 1972. 16 S. Rodotà, Il terribile diritto, cit., p. 478.

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Sergio Messina

DEMOCRAZIA ECOLOGICA ED EXPERTISE AMBIENTALE. RAZIONALITÀ IN CONTRAPPOSIZIONE?

L’ecologia intesa come scienza avente ad oggetto lo studio delle relazioni biologiche intercorrenti tra più unità ecosistemiche1 ha costituito il banco di prova per scienziati, filosofi ed esperti per affrontare su un piano multidisciplinare problemi inerenti sia le politiche da adottare in campo ambientale sia in generale l’ampio e controverso rapporto che sussiste tra il mondo della scienza e quello della politica. L’incertezza della scienza (anche ecologica)2 ha spinto diversi studiosi a predisporre un differente approccio di impronta filosofico-politica alla questione ambientale che coinvolge a pieno titolo una concezione dell’ambiente inteso come mondo vissuto3. Mentre soprattutto in area anglosassone si discute attorno a possibili paradigmi di democrazia ecologica come modelli presumibilmente alternativi alle istituzioni di impronta liberale4. 1 J. Delèage, Storia dell’ecologia (1992), tr. it. a cura di T. Capra, Napoli, CUEN 1994. 2 Sulla definizione e i problemi legati alla scienza post-normale cfr. S. Funtowicz, Science for the post-normal age, in “Futures”, 7, 2001, pp. 739-755; sul paradigma della scienza ecologica è da considerare la tesi di Mariachiara Tallacchini che ravvisa nell’ecologia una carenza di uniformità nel metodo di indagine sulla natura, diviso tra approcci olistici e riduzionistici, cfr. M. Tallacchini, Sovranità ed ecofilosofie in “Archivio Giuridico”, 1995, pp. 238 e ss. 3 Scrive a tal proposito Andrè Gorz, «La difesa della natura […] deve essere originariamente compresa quale difesa di un mondo vissuto, che si definisce tale per il fatto che il risultato delle attività corrisponde alle intenzioni che le sostengono, detto altrimenti per il fatto che gli individui sociali vi vedono, comprendono e padroneggiano il compimento dei loro atti». A. Gorz, Ecologica, tr. it. a cura di Francesco Vitale, Jaca Book, Milano 2009, p. 50. 4 Nel quadro della globalizzazione economica e giuridica si configurano due forme di esercizio del potere, quello economico e quello scientifico. Il primo genera un’unica rappresentazione dello scenario dei rapporti sociali in termini di ricerca dell’utile, della contingenza, del beneficio immediato e dell’imprenditorialità del sè. Il secondo costituito dalla tecnoscienza come espressione di un sapere-potere che vuole configurarsi come oggettivo e neutrale e che tende gradualmente a neutralizzare e spoliticizzare il potere. La democrazia ecologica come modello di

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In base a ciò che nel corso del XX secolo è stato definito come scienza ecologica, l’ambiente è concepito nei termini di un sistema (autoregolante ed autoregolato al tempo stesso) riconducibile ad un’unità dinamica e complessa di relazioni biologiche che possono essere alterate grazie o a causa delle azioni dell’uomo, mentre il singolo elemento non può essere separato da tale unità se non a prezzo di provocare modificazioni talora irreversibili a scapito di un equilibrio tendenzialmente statico (cosiddetta omeostasi). Un sistema così articolato ingloba al suo interno le singole componenti che sono a loro volta anch’esse sistemi interrelati che producono o sono prodotti da differenze (biodiversità ed effetti di feedback come flussi energetici e informazionali) che garantiscono la vita sul pianeta5. Da un punto di vista filosofico-politico un sistema così articolato tiene conto di un’idea di complessità6 che trova un aggancio immediato nell’interconnessione dei saperi e nella loro struttura non gerarchicamente organizzata onde poter affrontare questioni inerenti la vita anche non umana, senza peraltro cadere in una visione metafisica della natura come principio universale, né in un orientamento puramente tecnicistico o economico-geistituzione alternativa a quella liberale auspica una restituzione alla politica di ciò che è stato espropriato a livello di potere decisionale dai processi impersonali dell’economia liberista e dalla tecnoscienza trasfigurata in tecnocrazia ove «per democrazia ecologica si intende la soluzione, socialmente sostenibile, del conflitto in corso tra tecnica e democrazia», in D. Ungaro, Democrazia ecologica. L’ambiente e la crisi delle istituzioni neoliberali, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 133; si vedano anche gli importanti testi di J. Barry, Rethinking green policies. Nature, virtue and progress, Sage, London 1999 e di R. Eckersley, The green State. Rethinking Democracy and sovereignty, MIT Press, Toronto 2004. Quest’ultimo lavoro in particolare è improntato su una riconsiderazione e rivalutazione del ruolo dello Stato in ambito soprattutto internazionale e globale nel contesto della governance sull’ambiente. 5 Cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. a cura di G. Longo, Adelphi, Milano 1977. A differenza di Darwin Bateson spiegava le società umane in termini coevolutivi non soltanto sulla base di una relazione concepita tra il singolo ente e il suo ambiente ma tra l’unità ecosistemica nel suo insieme (comprensivo del singolo ente) con l’ambiente stesso. 6 Sulla stessa idea di complessità Edgar Morìn importante filosofo e sociologo francese ha esercitato una notevole influenza su tutta la costruzione filosofica per un pensiero ecologico, egli è noto soprattutto per l’approccio transdisciplinare delle sue opere. Tra i suoi scritti spiccano in particolar modo E. Morìn, Il Metodo I. La natura della natura (1977), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2001; Id., Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? (1973), tr. it. Bompiani, Milano 1974.

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stionale che rappresenti la questione ambientale come un campo neutrale di azione politica7. Le diverse combinazioni che le tematiche del rischio (ed in particolare del rischio ambientale) e della sicurezza evidenziano è uno scenario di incertezza tale che la crescente imprevedibilità e irreversibilità degli effetti dell’agire tecnico non possano essere gestiti esclusivamente mediante programmi e azioni suggerite da un’expertise tecnico-ambientale non di rado inconsapevole del carattere funzionale e partigiano che essa esprime8. Appare in primo luogo opportuno considerare che la proposta ecologista (sia dal punto di vista teorico-filosofico sia pratico-applicativo) rischi di 7

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L’approccio tecnoscientifico alla crisi ecologica è ben delineato da Sarah De Lucia: «Il pensiero ecologista si afferma con l’aggravarsi della crisi ambientale legata ai crescenti ritmi produttivi del sistema economico attuale. Tuttavia, è proprio questo sistema avanzato, con le sue conoscenze e tecnologie, a rendere possibile un ecologismo scientifico, inteso come tutela ambientale perseguita mediante un’attenzione sistematica e un intervento programmato sulla natura che, perciò, diviene un oggetto problematico da controllare tecnologicamente e da gestire razionalmente. Figlia della prospettiva teorico-scientifica inaugurata da Haeckel e Darwin, e nutrita oggi dalle nuove tecnologie (astronomiche, satellitari e informatiche), questa tendenza dell’ecologismo propone una sorta di medicalizzazione preventiva del pianeta, il cui stato di salute andrebbe costantemente monitorato, misurato e fatto oggetto di previsioni e terapie». In S. De Lucia, Ecologismo, in AA. VV., Lessico di biopolitica, Manifesto Libri, Roma 2006, p. 129. Lo stesso discorso (strettamente collegato al precedente) vale per l’economicismo insito nel concetto di sviluppo sostenibile: «La strategia dello sviluppo sostenibile consiste in un aggiustamento dell’attuale modello economico-finanziario affinché quest’ultimo possa continuare a progredire. La durevolezza dello sviluppo nel tempo è perseguita attraverso un insieme di mezzi – tecnologici, economici, politici – e di strategie, fra le quali rientra una certa salvaguardia della natura, intesa come serbatoio di risorse da utilizzare in modo più razionale al fine di incrementare la stessa efficienza economica. Lo sviluppo sostenibile potrebbe essere inteso, perciò, come una prospettiva che accoglie i suggerimenti dell’ecologismo scientifico e il suo eco-efficientismo, utilizzando una quota di progresso tecnico per arginare i danni dello sviluppo e realizzare tecnologie dolci (per esempio macchinari che riducano l’immissione di gas tossici o supporti informatici che limitino lo spreco di carta), per poter sostanzialmente perpetuare gli stili di vita attuali senza deteriorare l’ambiente», Cfr. ivi, p. 306. Come evidenzia bene Pellizzoni «se c’è un problema, esso è semmai che la politica può ridursi a tecnica, diventando ostaggio di un’èlite tecnico-scientifica». In L. Pellizzoni, Introduzione. La politica dei fatti, in Id., Conflitti ambientali. Esperti, politica, istituzioni nelle controversie, ecologiche, Il Mulino, Bologna 2011, p. 19, le cui argomentazioni producono a loro volta formazioni discorsive simboliche socialmente accettate come (tendenzialmente) vere dato il previo carattere di autorevolezza, competenza e moralità della comunità scientifica.

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ricadere in quella che costituisce il principale bersaglio della critica verde: la c.d. fallacia tecnicista9. Il sapere tecnico-scientifico dell’ecologia diventa tecnocratico allorquando venga utilizzato come strumento di regolazione biopolitica delle popolazioni quali protagoniste dell’ambiente in cui vivono facendo riemergere alcuni dei tratti più peculiari dei dispositivi di sicurezza della governamentalità neoliberale10. Ciò comporta che gli Stati e insieme ad essi i nuovi soggetti che compaiono nello scenario della società globale del rischio possano strumentalizzare la crisi ambientale per rilanciare nuovi dispositivi di carattere emergenziale aprendo inquietanti scenari post-politici. Ottavio Marzocca evidenzia in tal senso come non sia remota la possibilità che a discapito dei risultati cui mirano le battaglie comuni degli ambientalisti potrebbe delinearsi invece una sorta di eco-biopotere attraverso la possibile deriva autoritaria delle stesse politiche ambientali. Egli infatti osserva che «è molto probabile che la stessa indeterminabilità dei pericoli ambientali venga assunta come motivo centrale della riconversione postmoderna delle tecnologie di sicurezza nel senso della preparazione sistematica al caso estremo, della gestione efficace del day after, come dimostra il rilievo crescente dei sistemi di protezione civile»11. Un modo mediante il quale la crisi ecologica potrebbe costituire l’occasione per riproporre una sfida teorica più che ripresentare un campo specifico della scienza potrebbe essere quello di costruire un discorso politico non soltanto più interno al soggetto (seppur decostruito o decostruibile) o che parli solo il linguaggio dello stesso ma consisterebbe nel rendere maggiormente visibile, svelare l’interconnessione tra diversi saperi producendo argomentazioni libere dal peso di categorie astratte e generalizzanti che precluderebbero la via di accesso a qualsiasi tentativo reale di trait d’union, di transdisciplinarietà, di pratica divulgativa e allo stesso tempo scientifica, di aperture a nuovi linguaggi.

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Come evidenzia Mariachiara Tallacchini tale peculiare espressione (con cui la stessa autrice declina in modo originale un’intuizione già manifestata nel pensiero di Hans Jonas) costituisce un modo specifico mediante il quale la legge di Hume assume i caratteri normativi di un imperativo tecnologico un «caso particolare del fallace procedimento con cui si trasferiscono i fatti sul piano dei valori». In M. Tallacchini, Diritto per la natura. Ecologia e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1996, p. 23. 10 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1978-79) (2004), tr. it. di Paolo Napoli, Feltrinelli, Milano 2005. 11 Cfr. O. Marzocca, Ambiente, in AA. VV., Lessico di biopolitica, cit., p. 26.

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Un diverso modo di produrre una politica per la natura potrebbe far risaltare un differente articolarsi della dinamica teoria-effetti, conoscenzaprassi, scienza-tecnologia, filosofia politica-scienza e in ultimo tra normatività e fattualità che sposterebbe assi teorici verso una più efficace critica (rispetto alla mera riproposizione di soluzioni tecniche ed economiche) della pretesa (non più sostenibile) nei confronti di una certa riproducibilità tecnologica senza uno scopo ultimo12. In particolare, quanto ai rapporti tra normatività e fattualità Mariachiara Tallacchini13 ha evidenziato a più riprese l’influenza del sapere scientifico sullo stesso modo di essere delle istituzioni politiche, su come le metafore della scienza siano sin dall’epoca moderna entrate a far parte del linguaggio giuridico e politico tanto da costituire in larga misura l’architrave dell’elaborazione concettuale della stessa scienza giuridica e politica moderna. L’argomentazione dell’autrice fa leva sulla critica alla standardizzazione del sapere dentro le norme come conseguenza del ruolo e dell’utilizzo strumentale della comunicazione scientifica per scopi e interessi funzionali al potere politico ed economico. All’orizzonte del verum factum quantitativamente descrivibile e calcolabile attualmente prende piede la dimensione qualitativa dell’incertezza scientifica così che tale discorso risulta essere ancor più dirompente nel momento in cui nei processi attuali di governànce la distinzione in oggetto risulta essere sempre più sfumata.14 Una decostruzione del processo di naturalizzazione del progresso economico e scientifico come verità implica necessariamente che una pretesa comune all’accesso di informazioni, la possibilità di costruzioni di conoscenze riguardanti i temi del benessere, della salute e dell’ambiente si definiscano come pratiche di agency democratica partecipativo-deliberativa di impronta neoliberale? L’approccio degli STS (Science, Technology and Society) Studies15 adottano in tal senso un particolare metodo di analisi nell’esaminare i rapporti 12 Cfr. D. Ungaro, Democrazia ecologica, cit., p.134. 13 Cfr. M. Tallacchini, Diritto e Scienza, in B. Montanari (a cura di), Luoghi della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 2009. 14 Cfr. su quest’ultimo importante argomento A. Catania, Metamorfosi del diritto. Decisione e norma nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008 e il saggio di A. Tucci, Permanenze della forza e diritto partecipativo, in V. Giordano, A. Tucci, Razionalità del diritto e poteri emergenti, Giappichelli, Torino 2013. 15 La scienza per secoli ha costituito un vasto campo del sapere che ha articolato nel tempo fatti che legittimavano con un certo grado di automatismo l’influenza della stessa nei diversi campi del diritto, della politica e delle scienze sociali; oggi sono viceversa questi ultimi a dover spesso fornire alla scienza coordinate cognitive, etiche e talvolta perfino metodologiche. In tal senso si vedano gli importanti testi

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tra tecnocrazia, popolazione e ambiente ponendo il problema di una diversa legittimazione delle competenze16, laddove le governànces ambientali sono spesso definite e articolate da un’expertise esclusiva17 deputata a gestire o a co-gestire a pieno titolo conflitti politici sia locali che globali. I fautori di tale filone di studi auspicano un oltrepassamento della concezione moderna della scienza attraverso una denuncia del ruolo eminentemente sociale e politico della comunità degli esperti (cosiddetta comunità dei pari) e dei procedimenti di validazione delle conoscenze scientifiche. Le istanze della democrazia ecologica che del resto collimano in gran parte con tale orientamento muovendo da un presupposto teorico di tipo ideal-proceduralista18 mirano a fronteggiare contestualmente sia lo scenario dell’incertezza scientifica sia la conseguente tendenza verso la crescente politicizzazione dei discorsi scientifici attraverso un esteso coinvolgimento dei membri della collettività di un determinato territorio. Tecnici, cittadini e istituzioni politiche diventano per lo più attori coinvolti in un processo di co-produzione tra scienza, diritto e politica nel tentativo di edificare un governo della cittadinanza scientifica che ridefinisca mediante procedure inclusive e partecipative conoscenze e decisioni che riguardano in particolare gli impatti sociali delle biotecnologie e più in generale i limiti e gli sviluppi dell’applicazione tecnologica delle scoperte scientifiche. Ciò che ne consegue è che l’intento di tale concezione è quello di creare semplicemente un modello di partecipazione estesa contrapponendo alle mani invisibili del mercato e della tecnoscienza l’individuazione degli invisibili19: soggetti della comunità che risultano esclusi dai processi inerenti degli STS Studies o sulla co-produzione tra scienza e diritto e politica S. Funtowicz, Science for the post-normal age, cit., e S. Jasanoff, Science and public reason, Routledge, New York 2012, Id. Fabbriche della natura, Il Saggiatore, Milano 2008; J. Alièr, The Environmentalism of the Poor. A Study of Ecological Conflicts and Valuation, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton 2002, Id., L’Ecologia dei poveri, tr. it. a cura di M. Armiero, Jaca Book, Milano 2009. Con tale espressione si intende il rapporto di reciproca interferenza, influenza e legittimazione delle direttrici sia contenutistiche sia procedurali nell’acquisizione di conoscenze rilevanti. 16 Cfr. S. Jasanoff, Science and public reason, cit. 17 «in cui una cerchia di esperti (per esempio i fisici nell’ambito delle reazioni nucleari) detiene il pieno controllo di una issue». In L. Pellizzoni, Conflitti ambientali, cit., p. 11. 18 Cfr. i fondamentali testi di J. Rawls, Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Einaudi, Torino 2012 e di J. Habermas, The inclusion of the other: Studies in political theory, ed. Ciaran Cronin e Pablo De Greiff, MIT Press, Cambridge 1998. 19 Cfr. B. Latour, Politiche della natura, per una democrazia delle scienze (1999), tr. it. a cura di M. Gregorio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.

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la valutazione dei rischi ed in particolare dei rischi ambientali e tutte le entità parasoggettuali20 separate dall’analisi riduzionista dall’ambiente in cui, nascono, crescono e periscono21. Risulta in tal senso emblematica la teoria dell’Actor network di Bruno Latour in cui le nuove forme associative tra uomo e natura, definite dall’autore come collettivi ibridi delineano un campo di azione in cui tutti gli elementi della rete sono coinvolti nel determinare influenze reciproche nella produzione di eventi rilevanti nelle dinamiche dei conflitti socio-politici e in particolare ambientali22. In tale ottica anche l’incertezza dello stesso sapere scientifico giocherebbe un ruolo fondamentale sia nella ridefinizione di metodi di indagine scientifica sia per ciò che riguarda la valutazione del cosiddetto rischio politico23 inteso come preferenza della deliberazione e della partecipazione rispetto alla paralisi delle scelte decisionali. L’ecologismo politico raffigurerebbe in questo modo un diverso scenario basato su un proceduralismo degli ideali24 in cui i conflitti politici sono descritti e rappresentati in un modo tendenzialmente unitario allorquando un progetto di società fondato sul rapporto non dominativo o del giusto dominio dell’uomo nei confronti della natura e dell’ambiente sociale in cui vive si ponga in termini di un’apertura verso un nuovo senso comune antropologicamente indirizzato come direbbe con un altro spirito Felix Guattarì verso «nuove maniere di stare al mondo e nuove forme di socialità»25. Tale prospettiva rischia però di rimanere su un terreno di astrattezza teorica nel momento in cui le istituzioni politiche più che costituire il luo20 Ibidem. Si confronti anche l’importante richiamo a tale in L. Pellizzoni, Conflitti ambientali, cit., e in D. Ungaro, Democrazia ecologica, cit. 21 Un esponente della più attenta letteratura in materia di sociologia dell’ambiente Andrew Feenberg richiamando la tradizione filosofica francofortese evidenzia come dietro l’apparente neutralità della tecnologia si celi il carattere fortemente strumentale di un meccanismo generalizzante che nel manifestare una logicità fittiziamente astratta rimuove il potere dell’individuo di indagare correttamente il mondo in cui vive (lavoro, ambiente familiare, relazioni personali) asservendolo a determinate esigenze sociali che si presentano fortemente dominanti. Cfr. sul punto A. Feenberg, Teoria critica della tecnologia, in “Capitalismo, natura, socialismo”, 1, 1991. 22 Entrambi i poli dell’opposizione (soggetto ed oggetto) agiscono come sostengono Bruno Latour ed Edgar Morìn in un ambiente strutturalmente aperto e costituito da reti e relazioni non sempre descrivibili in modo lineare e casualistico. 23 Espressione utilizzata da Daniele Ungaro, Democrazia ecologica, cit. 24 Cfr. V. Ottonelli, I principi procedurali della democrazia, Il Mulino, Bologna 2012. 25 F. Guattari, Le tre ecologie (1989), tr. it. a cura di R. D’Este, Edizioni Sonda, Torino 1989.

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go di pacificazione dei conflitti sub specie ambientali fungono spesso da detonatore degli stessi26. Un diverso punto di osservazione orientato mediante un’analisi delle prassi concrete (in particolar modo del gioco delle contro-expertise antagoniste emergenti dal tessuto sociale che contribuiscono a ridefinire e riorientare di continuo le posizioni di ciò che in un determinato contesto locale è rappresentato come il bene comune o la necessità) potrebbe essere di ausilio nel ridimensionare lo stesso ruolo delle strategie tecnoscientifiche (per quanto aperte alla discussione pubblica) in favore di un approccio ancor più politico su ciò che è stato definito come questione ambientale. In altri termini si tratterebbe non soltanto di contestualizzare le relazioni umane e ambientali, ma anche (seguendo il registro delle Tre ecologie dello stesso Felix Guattarì) di afferrare un contesto secondo una prospettiva ecosofica (oltre che eco-logica), ossia maggiormente (offensiva) esistenziale e politica.27 Il filosofo francese propende per un’ecologia articolata ed orientata verso pratiche micro-politiche favorevoli ad una ri-singolarizzazione degli individui e dei gruppi collettivi che siano in grado di destrutturare i regimi di verità dominanti sull’oggettivazione delle soggettività nell’ambito di contesti di significazione consolidati. Tali pratiche si connotano come estetiche e politiche al tempo stesso disarticolando un circolo chiuso in base al quale i saperi consolidati dovrebbero avere l’ultima parola togliendola a ciò che viene sperimentato a livello inconscio e creativo. L’ecosofia di Guattari legittima azioni politiche non riconducibili ad una normatività esterna, artificiale o naturale, ma ad una spinta aggregativa che fa leva su un costruttivismo radicale che preme verso interessi, mobilitazioni, alleanze ed anche verso eventuali tradimenti in termini di strategie destrutturanti dell’ordine discorsivo politico, scientifico e simbolico. La prospettiva guattariana potrebbe forse costituire un’opportunità per dare origine a nuove dinamiche di confronto o antagonismo a seconda delle capacità e della calibratura delle azioni poste in essere da movimenti, 26 Cfr. L. Pellizzoni (a cura di), Conflitti ambientali, cit., pp. 313 e ss. 27 Come evidenzia Ubaldo Fadini «Lo studioso francese non concorda […] con Bateson allorquando quest’ultimo raffigura l’azione e l’enunciazione come “parti di un sottosistema ecologico chiamato contesto”: la sua idea è invece quella di considerare la “presa di contesto”, qualificata come esistenziale, in termini tali da riferirla ad una prassi che si origina in virtù di una “rottura con il pretesto sistemico”». In U. Fadini, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, ombre corte, Verona 2013, p. 48.

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cittadini, associazioni e in generale da tutto ciò che può provenire dalla società civile. Appare necessario infine evidenziare che nei meccanismi di mediazione e composizione dei conflitti, in particolar modo ambientali pur azzardando un ecologismo dei corpi (piuttosto che dei meri oggetti) non si potrà in ogni caso prescindere dallo stretto legame (o doppio legame) che i dispositivi della conoscenza intrattengono con i veicoli da cui gli stessi promanano.

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NOTE BIOGRAFICHE DEGLI AUTORI

Laura Bazzicalupo è professore ordinario di Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno ed è presidente della Società italiana di Filosofia politica. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il governo delle vite. Biopolitica ed economia (Roma-Bari 2006); Superbia. La passione dell’essere (Bologna 2008); Biopolitica. Una mappa concettuale (Roma 2010); Eroi della libertà (Bologna 2011); Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo (Roma 2013); Dispositivi e soggettivazione (Milano 2013). Ha curato e introdotto il volume di J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, universalità (Roma-Bari 2010). Per i tipi di Mimesis ha curato: Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito (2008) e Il grande crollo. È possibile un governo della crisi economica? (2010). Giovanni Bisogni è ricercatore in Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno, ove insegna Teoria dell’interpretazione. È autore di una serie di articoli su riviste e volumi collettanei e delle monografie: Weimar e l’unità politica e giuridica dello Stato (Napoli 2005) e Teoria giuridica e giustizia costituzionale in Italia. Un profilo storico-filosofico (Milano 2012). Nicola Capone, docente di Storia e Filosofia nei Licei, è dottorando di ricerca in Diritto pubblico, Teoria delle istituzioni nazionali ed europee e Filosofia giuridica, curriculum Etica e filosofia politico-giuridica, presso l’Università degli Studi di Salerno. Oltre ad una serie di articoli su riviste, ha pubblicato: Il dibattito sull’unità dello Stato (Napoli 2005); Libertà di ricerca e organizzazione della cultura (Napoli 2013) ed ha curato diverse opere tra cui le lezioni di G. Calabrò raccolte nel volume La filosofia moderna nel pensiero di Hegel (Napoli 2011).

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Anna Cavaliere è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno. Tra le sue pubblicazioni: L’etica della vita come posta in gioco della secolarizzazione in A. Catania, F. Mancuso (a cura di), Natura e artificio (Milano 2011); La difesa dei diritti tra laicità e premesse pre-statuali in “Lessico di Etica pubblica” (1, 2011); Teologia politica e governo liberale in “Politica & Società” (1, 2013); Sul fondamento della politica: Stato di natura, potere e diritto in Hobbes in F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le metamorfosi del diritto (Milano 2013). Marianna Esposito è dottore di ricerca in Filosofia e Politica e collabora con la cattedra di Filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno. È autrice di saggi e articoli in volumi e riviste tra cui, di recente: Il governo della felicità. Un percorso genealogico e critico sul concetto di benessere in “Filosofia Politica” (1, 2013). Ha pubblicato la monografia: Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss (Milano 2011). Valeria Giordano è professore associato di Teoria del diritto e dell’argomentazione e di Teoria generale del diritto nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno. È autrice tra l’altro di: Il positivismo e la sfida dei principi (Napoli 2004), Modelli argomentativi delle teorie giuridiche contemporanee (Napoli 2008) e Razionalità del diritto e poteri emergenti (Torino 2013, con A. Tucci). Ha curato: A. Catania, Effettività e modelli normativi. Studi di Filosofia del diritto (Torino 2013). Sandro Luce è dottore di ricerca in Etica e filosofia politico-giuridica presso l’Università degli Studi di Salerno. È autore del volume Fuori di sé. Poteri e soggettivazione in Michel Foucault (Milano 2009) e di diversi saggi, tra i più recenti: Dalla verità sulla vita alla vita vera, in S. Vaccaro, S. Marcenò (a cura di), Il governo di sé, il governo degli altri, (Palermo 2011); Dalla carenza dell’umano all’eccedenza del postumano, in A. Catania, F. Mancuso (a cura di) Natura e artificio. Norme, corpi, soggetti tra diritto e politica (Milano 2011). Francesco Mancuso è������������������������������������������������������ professore associato di Filosofia ���������������������������� del diritto e Storia delle istituzioni politiche nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’U-

Note biografiche degli autori

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niversità degli Studi di Salerno. È autore, tra l’altro, di: Gaetano Mosca e la tradizione del costituzionalismo (Napoli 1999); Diritto, Stato, sovranità (Napoli 2002); Le ʻveritàʼ del diritto. Pluralismo dei valori e legittimità (Torino 2013). Ha curato: G. De Ruggiero, Lezioni sulla libertà (Napoli 2007); Diritto e vita. Biodiritto bioetica e biopolitica (Soveria Mannelli 2010, con F. Lucrezi); Natura e artificio, norme corpi, soggetti tra diritto e politica (Milano 2011, con A. Catania); Le metamorfosi del diritto. Studi in memoria di Alfonso Catania (Milano 2013, con G. Preterossi e A. Tucci). Antonio Martone, ����������������������������������������������������� è ricercatore presso il ����������������������������� Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università degli Studi di Salerno, dove insegna Filosofia politica. Ha partecipato con numerose voci all’Enciclopedia del pensiero politico, a cura di R. Esposito e C. Galli (RomaBari 2000). Tra le sue pubblicazioni: Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica (Napoli 2001); Storia, filosofia e politica. Camus e Merleau-Ponty (Napoli 2003); Le radici della disuguaglianza (Milano 2011). Sergio Messina è dottorando di ricerca in Diritto pubblico, Teoria delle istituzioni nazionali ed europee e Filosofia giuridica, curriculum Etica e filosofia politico-giuridica, presso l’Università degli Studi di Salerno. Sta svolgendo una ricerca sul ruolo dell’ecologia politica nei rapporti tra tecnoscienza e democrazia. Ha conseguito un master in Diritto dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Siena. Giuseppe Micciarelli, dottorando di ricerca in Diritto pubblico, Teoria delle istituzioni nazionali ed europee e Filosofia giuridica, curriculum Etica e filosofia politico-giuridica, presso l’Università degli Studi di Salerno. Sta svolgendo una ricerca sui problemi afferenti la crisi della sovranità contemporanea e delle istituzioni, con particolare attenzione al tema dei beni comuni e delle forme di soggettivazione politico giuridiche. È autore di Il diritto d’asilo “dimenticato”: displacement o rinuncia di un attributo fondamentale della sovranità? in L. Kalb e A. Di Stasi (a cura di), La gestione dei flussi migratori (Napoli 2013). Filippo Murino è ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Salerno. È autore della monografia L’autotutela nell’escussione della garanzia finanziaria pignoratizia (Milano 2010) e di scritti vari apparsi sul-

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le riviste Banca, borsa e titoli di credito, Giurisprudenza commerciale, Giurisprudenza di merito, Giurisprudenza italiana, Il Corriere giuridico, Il diritto fallimentare e delle società commerciali, Le Società, Rivista di diritto dell’impresa. Geminello Preterossi è professore ordinario di Filosofia del diritto e Storia delle dottrine politiche nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno. È autore, tra l’altro, di: Carl Schmitt e la tradizione moderna (Roma-Bari 1996); Autorità (Bologna 2002) trad. in Castigliano (Buenos Aires 2003); L’occidente contro se stesso (Roma-Bari 2004); La politica negata (Roma-Bari 2011). Ha curato la raccolta di saggi di E.W. Bӧckenfӧrde, Diritto e secolarizzazione (Roma-Bari 2007); un’antologia di classici sul Potere (Roma-Bari 2007); Le metamorfosi del diritto. Studi in memoria di Alfonso Catania (Milano 2013, con F. Mancuso e A. Tucci). Stefano Pietropaoli è ricercatore in Filosofia del diritto nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno, dove insegna Diritti dell’uomo, e docente supplente di Informatica giuridica presso l’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni, oltre ad una serie di articoli per riviste e volumi collettanei: Abolire o limitare la guerra? Una ricerca di filosofia del diritto internazionale (Firenze 2008); Schmitt (Roma 2012). Ha curato la traduzione di C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra (Roma-Bari 2008) e di M. Stolleis, Storia del diritto pubblico in Germania, vol. II (Milano, di prossima pubblicazione). Emma Russo è dottore di ricerca in Etica e filosofia politico-giuridica presso l’Università degli Studi di Salerno, ove collabora alle cattedre di Filosofia del diritto e Teoria del diritto e dell’argomentazione. È autrice tra l’altro di: La dimensione comunicativa del diritto in Alfonso Catania, in F. Mancuso, G. Preterossi, A. Tucci (a cura di), Le metamorfosi del diritto, (Milano 2013). Diana Sica è dottoranda di ricerca in Diritto pubblico, Teoria delle istituzioni nazionali ed europee e Filosofia giuridica, curriculum Etica e filosofia politico-giuridica, presso l’Università degli Studi di Salerno. Sta svolgendo una ricerca sul tema dei diritti nella crisi dello spazio globale. È

Note biografiche degli autori

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autrice di I flussi migratori nella crisi dello spazio globale, in L. Kalb e A. Di Stasi (a cura di), La gestione dei flussi migratori (Napoli 2013). Gian Paolo Trifone, è ricercatore in Storia del Diritto medievale e moderno presso l’Università degli Studi di Salerno. È autore di saggi sull’usura, su conflitti giurisdizionali tra Foro laico e Foro ecclesiastico in Antico regime, sul costituzionalismo. È autore della monografia, Il diritto al cospetto della politica. Miceli, Rossi, Siotto Pintor e la crisi della rappresentanza liberale (Napoli 2010). È tra i curatori di voci del Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani (secc. XII-XX), a cura di E. Cortese, I. Birocchi, A. Mattone, M.N. Miletti (Bologna 2013). Dante Valitutti è dottorando di ricerca in Diritto pubblico, Teoria delle istituzioni nazionali ed europee e Filosofia giuridica, curriculum Etica e filosofia politico-giuridica, presso l’Università degli Studi di Salerno. Sta svolgendo una ricerca sul tema del nemico nella riflessione giuspolitica moderna, con particolare riferimento al pensiero di Carl Schmitt. È autore di Oltre il confine: il pirata e l’ostilità assoluta al genere umano, articolo apparso sulla rivista telematica della Sifp.

ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale

32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65.

Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica

66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana

268 Disaggregazioni 95. 96. 97. 98. 99.

Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica

Premessa

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124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte 125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo

159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro

193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi 196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone 205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione 206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media 207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale, tra neuroscienze e filosofia politica 208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico 209. Roberto Festa e Gustavo Cevolani, Giochi di società. Teoria dei giochi e metodo delle scienze sociali 210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti. Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità 211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento 212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness, a cura di Giuseppe Moretti 213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle marche e nei media 214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo 215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un soggetto. Tra comune e singolare 216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici di nido 217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre 218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Marco Deriu e Gabriele Galbiati 219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici 220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà

Finito di stampare ottobre 2013 da Digital Team - Fano (PU)