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Italian Pages 228 [231] Year 1988
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ZUM GRUNDE HAI D'ARCHAI PALINSESTI DI METAFISICA
E
Collezione diretta da
NUNZIO INCARDONA
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DIALETTICA
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LEONARDO SAMONA
DIALETTICA E METAFISICA Prospettiva su Hegel e Aristotele
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Società Editrice
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A mzo padre in memoriam
Volume pubblicato con contributi del Ministero della Pubblica Istruzione
© L'EPOS società editrice Palermo
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NOTA INTRODUTTIVA Questo volume, che s'inserisce in una più ampia ricerca sul rapporto tra il pensiero hegeliano e quello aristotelico, è nato dallo sviluppo in certo modo imprevisto di una progettata discussione preliminare sulle linee interpretative che sono andate crescendo attorno a questo tema. Si trattava di passare in rassegna a partire da Schelling e da Trendelenburg tutte le argomentazioni prodottesi nel corso del tempo attorno al confronto Hegel-Aristotele prima di affrontare la diretta analisi dei testi che impegnano il pensiero hegeliano in una fondazione filosofica, al fine di individuarne l'eventuale capacità e necessità di un riferimento alla metafisica aristotelica. Ma il gioco di prospettive che si sviluppava si è mostrato subito tale da non lasciarsi includere neppure nella più esauriente enumerazione di quelle argomentazioni: e questo non solo per il fatto di trovarsi di fronte a uno Hegel che interpreta a sua volta. Certamente quella discussione si è presentata sin dall'inizio pregiudicata dal riferimento alla lettura che lo stesso Hegel ha fatto del pensiero aristotelico nella connessione storico-speculativa con la propria filosofia: i nuclei problematici che si addensano in una tale lettura mettono allo scoperto una difficoltà interna alla posizione hegeliana che sembra spiazzare l'interprete scartando in anticipo tutti i possibili oltrepassamenti che seducono con la promessa di rendere di nuovo scorrevole il percorso storico da Aristotele a Hegel - o quello successivo a Hegel. Dalle pagine che esprimono una valutazione esplicita del pensiero aristotelico vien fuori infatti in modo emblematico, per certi versi irripetibile, il momento più intimamente aporetico dell'Aufheben hegeliano, secondo il quale pensare l'Eigentliche, il proprio, di una posizione di pensiero significa confutare e dunque anche disappropriare, in un gioco così stretto da non permettere, sembra, la differenza di posizione se non nell'atto del tener fermo questo nucleo 5 Mauritius_in_libris
aporetico. L'oltrepassamento di Aristotele da parte del pensiero hegeliano si presenta come il passaggio cruciale dell'intero percorso storico-filosofico cosl come è proposto da Hegel nelle Vorlesungen, e non riesce però a esibire di sé una misura storicamente apprezzabile, rivelandosi al contrario come un dato estremamente problematico: nello sviluppo sistematico della storia della filosofia il pensiero dello Stagirita è ben lungi dal restare nel suo spazio definito dall'intero sistematico e resta ancora attuale, insuperato, fino alla fine del cammino storico-filosofico che lo vede diffìcilmente separabile dalla posizione occupata da Hegel stesso. La questione d'un oltrepassamento di Hegel non può non fare i conti con questa dimensione problematica. Ora, ciò che è emerso dall'analisi delle interpretazioni del pensiero hegeliano nel confronto con la metafisica aristotelica è il graduale profilarsi di un disegno unitario di esse che si staglia contro le pur svariate posizioni filosofiche: si tratta di una «pura » (non pregiudizialmente compromessa) possibilità di mettere a frutto l'impasse hegeliana. Il rapporto tra Hegel e Aristotele riceve anche da questa possibilità emergente un valore «epocale », che peraltro gli pertiene per il fatto che questi due filosofi rappresentano gli estremi di un'intera tradizione di pensiero che tra posizione metafisica e risoluzione dialettica della metafisica sembra denunciare, più che uno sviluppo o un'evoluzione, un blocco di pensiero tale da trovare in modo emblematico solo in questi due momenti della storia della filosofia chi abbia tentato di metterlo in moto nel suo intero. Aristotele e Hegel riassumono il pensiero occidentale in un'unità che non sembra lasciar posto in ultima istanza né a un'effettiva storia, né a posizioni diverse, ma resta nello spazio ristretto che vede intrecciarsi comunanza e confutazione reciproca. Hegel non si è posto oltre Aristotele, o ha reso diffìcilmente penetrabile quest'oltrepassamento: tanto più significativo risulta allora il costituirsi di uno spazio che si prospetta oltre questo groviglio, di una storia esterna alla metafisica. Al costituirsi, cosl, di una sorta di categoria dell' «oltre» Hegel mi è sembrato non essere per nulla estraneo il tema di questa ricerca, se non altro nel senso che esso offre il criterio per definire un tracciato che potrebbe diventare tra altri emblematico per scorgere da Hegel ai nostri giorni una continuità storica non più affidata soltanto alla cadenza temporale. È proprio la prospettiva che prende corpo dal nesso Hegel-Aristotele quella che si è presentata gradualmente come un filo conduttore unitario: sia che si tratti di contestare a Hegel il raggiungimento del vero nucleo del pensiero aristotelico, sia che invece si ritenga la sua posizione come inclusa del tutto nella tradizione metafisica, ciò che sembra dischiudersi senza fatica a partire 6 Mauritius_in_libris
dal « passo falso» hegeliano è uno spazio interpretativo nuovo, inedito, che restituisce al suo luogo storico la posizione dei due filosofi, permettendo l'oltrepassamento cosl carico di insidie per il filosofo tedesco. Dal rapporto Hegel-Aristotele emerge in modo privilegiato una sorta di possibilità pura, intatta, che permette di tirarsi fuori dal viluppo della dialettica attestandosi in un altro luogo dal quale definire nel suo limite e riconsegnare al passato l'inquietante invadenza hegeliana. E ciò perché lo stretto nesso, l'intensa compenetrazione che Hegel ha istituito tra la propria filosofia e quella aristotelica determina una tale ambizione esaustiva della teoria da rendere difficile un punto di vista critico interno e da concedere invece facilmente un punto di vista esterno ad essa, ricavato oltre l'intero del gesto hegeliano. Cosi per molti interpreti si è dischiusa la via d'uscita proprio nel sottrarsi alla chiusura logica del sistema hegeliano che, trascinando nel suo ambito anche Aristotele, offriva per contrasto la possibilità di una riproposizione dell'istanza extralogica dello Stagirita, recuperata per il futuro della filosofia in modo tale da evitare quella sorta di sua caduta destinale nell'autoreferenzialità del pensiero dialettico. Ma se l'analisi della storia delle interpretazioni circa il tema Hegel-Aristotele permette di ricostruire nei suoi passaggi esemplari un tratto profondamente radicato nel consueto approccio ermeneutico alla filosofia hegeliana, essa fa emergere altrettanto una segreta regia di Hegel che riconduce a sé il corso apparentemente cosl libero da ogni seduzione dialettica che si è venuto costituendo in quest'ambito. Per un verso sembra inevitabile, per far convergere in un punto prospettico la circolarità del rapporto che Hegel istituisce col pensiero aristotelico, il ricorso alla lezione hegeliana della doppia negazione che però, mentre concede la soluzione, ricattura all'interno della dialettica: l'operazione necessaria, infatti, per il guadagno di un punto di vista altro da quello hegeliano, è quella per cui si deve negare l'inclusione della stessa negazione del sistema dialettico entro il sistema stesso. E qui perfino Aristotele non sembra a un certo punto dare più un appoggio sufficientemente robusto all'esigenza ch'egli peraltro parzialmente incarnerebbe a fronte del filosofo tedesco. Ma a questo punto si sviluppa per altro verso una dinamica più radicale. È proprio l'esigenza di andare oltre lo spazio esiguo del riferimento hegeliano ad Aristotele (non foss'altro che per ristabilire una « verità » storico-filosofica) a risultare sviata dalla capacità di Hegel di restare dentro la difficoltà in cui lo pone il rapporto con lo Stagirita: perché qualunque tentativo (anche quello che si è mo7 Mauritius_in_libris
strato più sottile, quello heideggeriano) di isolare un punto prospettico capace di istituire il rapporto tra le due posizioni senza rimanere incluso in esso, si mostra come l'astratto di una differenza che si determina come tale soltanto nell'atto di togliere se stessa, e perciò di tanto può stare oltre la metafisica di quanto resta inclusa in essa. È questa la sfida in fondo ben nota di Hegel al suo interprete, ma qui complicata dall'esempio interpretativo fornito da Hegel stesso. Un esempio e ben più che un esempio, perché qui la dinamica ermeneutica è travolta dall'impegno alla costituzione stessa del pensare filosofico. La storia delle interpretazioni fa fare esperienza dell'aporia intimamente connaturata al rapporto Hegel-Aristotele. In Heidegger, nello studioso nel quale un percorso interpretativo « tradizionale » di tale rapporto diviene finalmente consapevole di se stesso, mi è sembrato che l'ostinato approccio analitico - la ricerca di un altro superamento, di un altro inizio (o anche eventualmente di un altro Aristotele) all'interno del vano superamento hegeliano - produca un imprevisto rimbalzo su Hegel. Nell'indefinito rinvio in cui un tale approccio si trova immesso torna a operare di fatto la forza dell'impianto aporetico costruito da Hegel: quello per cui il piano che tiene assieme nella loro indivisibilità metafisica (aristotelica) e suo superamento è investito per sé dalla dialettica confutatoria di tale indivisibilità. Mi è sembrato perciò utile seguire l'evolversi storico della critica al rapporto di Hegel ad Aristotele, non tanto perché in essa è presente la dinamica pressoché costante del tentativo di venir fuori dalla contrapposizione di dialettica e metafisica senza rinunciare a contrapporsi al piano disegnato da quella contesa, quanto piuttosto per ricostruire una contesa più sotterranea, pressante però pur nella sua inattualità, quale è quella che Hegel ha strutturato attorno al pensiero aristotelico tentando insieme di coinvolgere in essa senza residui la posizione dello Stagirita. Attraverso una problematizzazione dei tratti centrali delia storia della critica ho tentato di circoscrivere la strategia hegeliana che induce a una sorta di « licenziamento » dalla più radicale difficoltà, e cerca, nello stesso tempo, di far nascere (con un gesto che distrae facilmente in errori prospettici, in fraintendimenti) dalla stessa irrisolvibilità del circolo la potenza di una soluzione che si mostri come l'atto proprio di ciò che sembrava dover restare senz'atto. Il ruolo di Aristotele in un tale percorso non può fare a meno di passare per la violenza interpretativa hegeliana (peraltro meno arbitraria di quanto si potrebbe credere), perché la prospettiva dalla quale si fa ritorno allo Stagirita non può essere saltata pena non 8 Mauritius_in_libris
solo una, banale questa, violenza dell'interprete, ma anche un effetto di ottica deformata che insidierebbe con trame non calcolate il recupero dell'autentica lezione metafisica. Ho dovuto perciò far entrare nel discorso il filosofo greco soltanto nella misura della sua capacità di stare al gioco hegeliano e di riproporlo però in termini che non sembrano più portare necessariamente là dove Hegel vuole. Pur partendo dunque dalla prospettiva hegeliana ho delineato l'apertura della strada per l'identificazione di un luogo proprio di Aristotele che non sia né all'interno né all'esterno del pensiero hegeliano: accettando dunque la lezione del filosofo tedesco circa l'unico approccio critico degno di essere fatto, per il quale non si deve uscir fuori dal territorio aristotelico; e cercando di farla diventare un esame per lui stesso. Se Aristotele può mantenere la proprietà del suo discorso nell'essere attraversato dal giudizio hegeliano, ciò non è senza conseguenze per quel giudizio stesso; in ogni caso la stessa necessità di tenersi fermo alla crisi interna alla posizione metafisica, alla sua risoluzione dialettica, può divenire misura per la definizione, per il giudizio sulla posizione hegeliana. Per questo riguardo, la tesi che si viene costruendo in queste pagine è quella secondo la quale Hegel tenta di ridefinire l'atto aristotelico in uno spazio aporetico rispetto al quale la stessa posizione aristotelica dell'atto risulti momento astratto, potenziale, iniziale. In tal modo il filosofo tedesco sa di dover restare però sul terreno aristotelico, di dover riconfermare il primato dell'atto, di dover riproporre, alla fine, Aristotele. La forza di superamento e di « ricollocazione » storica dello Stagirita è affidata a questa per certi versi delicata struttura elenctica, così propensa a dileguarsi e a distrarre a ogni passo verso un'immagine virtuale che rimarrebbe sempre estrinseca rispetto al più difficile e autentico nesso di potenza e atto. Una sorta di « effetto ottico » sviante è ciò di cui ha dovuto, per posizione, fare esperienza la critica che ha voluto decidere il rapporto fra i due pensatori. Hegel però, stando alla relazione così stretta e intensa che ha istituito al pensiero aristotelico per confutarlo, non sembra aver ceduto all'inganno prospettico. Quale altra mossa egli si sia riservata, è argomento che in questa prima parte del mio lavoro può essere presentato soltanto in modo ipotetico, pur senza rinunciare a problematizzare la stessa prospettiva su Hegel e Aristotele. Dalla lettura delle interpretazioni ho visto nascere dei problemi che sembravano denunciare in ultima analisi una prospettiva soltanto di Hegel su queste stesse interpretazioni: ed è da questo ribaltamento che ho dovuto tentare di far nascere a mia volta una prospettiva su Hegel e Aristotele, lasciandomi così attrarre (per correttezza di gesto interpretativo) nel cuore dell'aporia da cui vuol prendere forza 9 Mauritius_in_libris
la concezione hegeliana. Separare lo stesso Aristotele da questo gioco non era impresa facile (né compito immediato di queste pagine se non in forma ancora una volta ipotetica): quest'atto implicherà un riattraversamento analitico dei nodi speculativi centrali dell'opera hegeliana, che in ogni caso però da una riflessione sull'esperienza post-hegeliana potrà trovarsi restituito a un punto di osservazione più difficile si, ma anche più penetrante.
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I
ARISTOTELE IN PROSPETTIVA
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ARISTOTELE COME INIZIO E COMPIMENTO DELLA FILOSOFIA
La :filosofia di Aristotele segnala la sua incidenza nel pensiero hegeliano già attraverso il ruolo del tutto singolare che essa gioca in rapporto allo sviluppo sistematico della storia della :filosofia secondo Hegel. Intrecciandosi con tutti i momenti fondamentali del travaglio storico dello spirito, il pensiero aristotelico presta i suoi termini peculiari alla stessa determinazione hegeliana del concetto di sviluppo storico. Esso fa entrare così in gioco una dimensione di rapporto non esplicitamente calcolata, che sembra consumare qualunque prospettiva evolutiva ponendosi a ridosso di Hegel stesso. Come è stato fatto notare,1 infatti, Aristotele è presentato da Hegel, nei momenti cruciali del suo giudizio sui singoli autori, non soltanto come il punto di arrivo e il compimento della storia della :filosofia che lo precede, ma di volta in volta come la misura del valore speculativo e delle manchevolezze dei traguardi successivi della storia del pensiero, da Plotino a Kant. Ancora più complessa si fa questa « antinomia » se si guardano più da vicino i tratti specifici che configurano tale privilegio del tutto peculiare concernente la :filosofia dello Stagirita. Da una parte infatti il pensiero aristotelico fornisce il luogo concettuale più proprio secondo il quale la storia della :filosofia ha il suo eigentliche Anfang, il suo autentico inizio. A questo proposito infatti Hegel fa ricorso al « pensiero di pensiero »: « la :filosofia comincia ( anfangt) là dove il pensiero per sé viene colto come l'universale, l'ente che tutto abbraccia, o dove l'ente viene inteso in un modo universale, dove si fa innanzi il pensiero di pensiero (Denken des Denkens), l'universale pensantesi come il vero essere, o dove il mondo è rappresentato nella forma dell'universalità ».2 Non c'è cominciamento :filosofico sen-
1. Cfr. W. KERN, Aristoteles in Hegels Philosophiegeschichte: Eine Antinomie, in Scholastik, XXII, 3, 1957, pp. 32146, in part. pp. 327 ss. 2. G. W. F. HEGEL, Einleitung in die Geschichte der Philosophie, hrsg. J. HoFFMEISTER, 3a ed., abbreviata, a cura di F. NrcoLIN, Hamburg 1959, p. 224 (citazione
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za questa riflessione, autodeterminazione dell'oggetto in quanto è posto come l'universale, ossia senza che l'assoluto cessi di essere posto come semplice rappresentazione per essere concepito come «idea dell'assoluto». Il cominciamento va fatto là dove il « libero pensiero» concepisce «l'essere (che può essere anche il pensiero stesso) ... come essenza delle cose, come l'assoluta totalità e l'essenza immanente di tutto; e con ciò, anche se fosse peraltro un essere esteriore, lo coglie però come pensiero ».3 Dunque la filosofia ha il suo inizio quando pone l'identità di soggettivo e oggettivo, nel senso che l'oggetto è posto identicamente come contenuto di pensiero ed essenza delle cose. È questo l'inizio «logico », quello stesso inizio, « il puro universale pensiero », che costituisce l'oggetto della scienza della logica (ivi, WS 1827 /28): come tale esso implica il «pensiero di pensiero» come oggetto. In questo senso la filosofia aristotelica costituisce l'espressione più netta e significativa di quell'inizio proprio della filosofia che « si conserva ( erhiilt sich) », che resta « presente » ed è « ulteriormente determinato » nel procedere della filosofia da esso. 4 Esso non è l' « astratto pensiero» della religione orientale, ma il « pensiero determinantesi », che si differenzia e raccoglie in unità le differenze. In questo cominciamento si costituisce la « metafisica ingenua », come pensiero del1' « unità del concetto con se stesso », senza la coscienza moderna della differenza, 5 ma con un « concetto più alto del pensiero » che
tratta dalle lezioni del WS 1823/24). Non seguo, per l'intera opera hegeliana sulla storia della filosofia, l'edizione italiana (a cura di E. CoDIGNOLA e G. SANNA, Firenze 19734, qui dr. voi. I, p. 110) perché condotta sulla seconda edizione del Michelet (Berlino 1840/44), certamente meno aderente alla lettera e meno attendibile contenutisticamente rispetto alla prima edizione (il distacco è poi ovvio per l'Einleitung, per la quale mi servo dell'edizione curata da Hoffmeister). Circa il valore da dare ai testi delle Lezioni berlinesi, pur accogliendo l'invito di Sichirollo a un uso prudente di esse (dr. L. S1CHIROLLO, Hegel e il pensiero antico, in AA.W., Incidenza di Hegel, a cura F. TESSITORE, Napoli 1970, p. 416), si può tuttavia determinarne un certo grado di affidabilità (sulla questione dr. W. }AESCHKE, Probleme der Edition der Nachschriften von Hegels Vorlesungen, in Allgemeine Zeitschrift fiir Philosophie, 1980, 3, pp. 51-53), non dimenticando inoltre l'importanza decisiva degli anni berlinesi per una corretta interpretazione del pensiero di Hegel. 3. HEGEL, Einleitung etc., cit., !oc. cit. (passo certamente hegeliano secondo Hoffmeister. Sui limiti di questa certezza di attribuzione dr. W. ]AESCHKE, op. cit., p. 60 e K. DiisING, Hegel und die Geschichte der Philosopbie, Darmstadt 1983, p. 20 n.). Il /rei Gedanke è collegato da Hegel alla filosofia come attività disinteressata quale è tratteggiata all'inizio della Metafisica (G. W. F. HEGEL, Einleitung etc., cit., p. 39 - si tratta del manoscritto hegeliano di introduzione alle Lezioni di Berlino del WS 1820/21, d'ora innanzi citato con l'aggiunta tra parentesi della sigla H.). 4. Ibid., p. 265 (manoscritto hegeliano di appunti). 5. lbid., p. 236 (WS 1827 /28). Pur se Hegel inserisce in questo corso (diversamente da partizioni operate in altri corsi) al primo punto il pensiero orientale, è chiaro che quale cominciamento « logico » è inteso pur sempre il pensiero greco, per
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non quello che caratterizza l'età moderna, proprio per l'unità di pensare e cosa.6 Ma se per un verso nel pensiero aristotelico si può cogliere dunque il punto di riferimento per l'identificazione dell'elemento nel quale il pensare fa il suo cominciamento, trovandosi in quel termine nel quale immediatezza e mediazione, unità e differenza sono astratti dalla loro contrapposizione, aporeticamente privi di differenza e di « concretezza », per altro verso Aristotele rappresenta la fine e il compimento di un percorso, di uno sviluppo, che porta dall'universale astratto, dall'elemento astratto del pensiero all' « idea essenzialmente concreta, l'unità di determinazioni differenti ».7 Un tale sviluppo si deve concepire come la conclusione in unità sistematica delle determinazioni poste come differenti, l'in-sé o universale astratto e il Dasein o la posizione della differenza, dell'esistenza e del per-sé. L'in-sé e il per-sé posti come «lo stesso»: «sviluppo significa proprio questo ».8 Nel «pensiero di pensiero » aristotelico c'è la posizione della differenza di soggettivo e oggettivo e il toglimento di questa differenza: «il vero è l'unità di soggettivo e oggettivo e perciò né l'uno né l'altro come altresì sia l'uno che l'altro. In queste profondissime forme speculative si è travagliato Aristotele ». 9 Pertanto il pensiero aristotelico resta un termine finale dello sviluppo filosofico, oltre il quale la determinazione hegeliana del processo storico-filosofico non riesce a fissare stabilmente una scansione temporale: «Aristotele si trova dunque nel punto di vista più elevato: non è possibile voler conoscere nulla di più profondo ».10 Ciò che è stato pensato oltre Aristotele fino a Hegel risulta una necessaria caduta in un punto di vista unilaterale e dunque astratto. Unilateralità e astrattezza tornano a caratterizzare già la filosofia post-
mezzo del quale l'inizio è posto nel suo « elemento » concettuale, nell' « elemento astratto del pensiero». 6. G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, hrsg. G. LASSON, Hamburg 1971, voi. I (1831) (d'ora innanzi WL I), pp. 25-26 (tr. it. A. Mom-C. CESA, Bari 1968, p. 26). Cfr. anche G. W. F. HEGEL, Enzyklopiidie der philosophischen Wissenschaften (1830), Hegels Werke in 20 Bande, hrsg. E. MoLDENHAUER e K. M. MICHEL, Frankfurt a. M. 1970, Bd. 8-9-10 (d'ora innanzi Enz), § 28 (tr. it. B. CROCE, Bari 19513, p. 37). 7. HEGEL, Einleitung etc., cit., p. 30 (H.). 8. lbid., p. 106 (WS 1825/26). 9. G. W. F. HEGEL, Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, Hegels Werke etc., cit., Bd. 18-19-20 (d'ora innanzi GPh), voi. Il, p. 163. 10. GPh II, p. 165. Tra gli esempi di opere di Aristotele «insuperate» si ricorderà in particolare il grande elogio che Hegel tributa al De Anima in Enz § 378. Cfr. il «Frammento di filosofia dello spirito (1822 ss.) » in G. W. F. HEGEL, Berliner Schriften (1818-1831), Hegels Werke etc., cit., Bd. 11, pp. 523-4, dove si paragona il pensiero di Aristotele a due «metafisici moderni», Spinoza e Leibniz, a tutto vantaggio dello Stagirita.
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aristotelica e lo stesso Plotino, momento pur così significativo per Hegel della storia della filosofia. Proprio l'esigenza di sviluppare la concretezza aristotelica del pensiero di pensiero porta Plotino a perdere questa concretezza. « Plotino non si occupa di cogliere gli oggetti nella loro determinatezza, come Aristotele, ma di ricondurli alla loro unità e di far valere il sostanziale contro la loro parvenza (Schein) ». 11 A leggere bene l'esito delle filosofia alessandrina, proprio quest'intento mostra il limite ( « platonico ») di una filosofia che pure, secondo Hegel, «ha molto più di Aristotele che di Platone ». 12 Ciò che manca è esattamente quello che costituiva il guadagno di Aristotele su Platone: « l'infinito valore del soggetto ». 13 Unilateralità e astrattezza caratterizzano necessariamente anche tutta la filosofia moderna, nata dalla coscienza della differenza e contrapposizione di soggettivo e oggettivo. In tal modo il pensiero aristotelico viene a comprendere in sé i termini sistematici per i quali è possibile concepire lo sviluppo storico secondo i percorsi che sono propri del pensare speculativo. Per mezzo della distinzione di potenza e atto Aristotele ha colto secondo Hegel l'autentico carattere dell'universale (di Dio e di ogni vivente) portando il pensare al suo intrinseco compimento; questo carattere è « ... un differenziarsi, un portare sé all'esistenza (Dasein), all'essere per altro, e un rimanere in ciò identico con sé» come «un assoluto movimento che è parimenti assoluta quiete ». 14 In questi tre momenti Hegel riconosce tutta la portata speculativa del passaggio dalla potenza all'atto. Questo non implica un semplice divenir altro, ma un arrivare a sé perché nella dynamis, nell'Anlage (impianto, germe, disposizione) « è contenuto tutto ciò che si sviluppa ». 15 Ciò dunque nel quale sta, permane la distinzione tra potenza e atto, o tra in-sé e per-sé, tra possibilità e Dasein, è da ricercarsi proprio in quella « differenza di forma » da cui « dipende tutto »: 16 la potenza è determinata, nella sua differenza dall'atto, dall'atto stesso come capace di differenza in se stesso. Esso si divide da sé come inizio indeterminato, formlos, privo di forma rispetto a ciò che esso stesso deve diventare. Questi due termini sono dunque lo stesso in ciò che ponendosi come altro da sé rimane presso se stesso (nell'atto puro, nel
11. GPh, p. 439 (corsivo mio). 12. GPh II, p. 463. 13. GPh II, p. 488. 14. HEGEL, Einleitung etc., cit., p. 110 (WS 1825/26). 15. lbid., p. 102 (WS 1825/26). 16. lbid., p. 103 (WS 1825/26). In questo senso ogni ermeneutica filosofi.ca (ma specie quella che si esercita sui greci e in particolare su Aristotele) viene coinvolta in un gioco più complesso e sottile (dr. Enz p. 31 - Introduzione all'ed. del 1827).
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puro pensiero, ma non certamente nell'esistenza naturale). Lo sviluppo dalla potenza all'atto si deve pensare alla luce di un percorso più profondo e sistematico che implica un restare dell'atto in se stesso. Il contenuto della potenza, ciò che si sviluppa, resta in realtà presso se stesso dall'inizio alla fine: «l'idea come sviluppo deve all'inizio farsi ciò che essa è ». 17 Attraverso l'uso della distinzione aristotelica tra potenza e atto emerge un tipo di processo che traccia una traiettoria in certo senso contrastante con la configurazione temporale dello sviluppo storicofilosofico: «questo sviluppo non va verso l'esterno come nell'esteriorità, ma il distaccarsi dello sviluppo è parimenti un andare verso l'interno, cioè l'idea universale resta al fondo e rimane l'onnicomprendente e impermutabile ». 18 « Il più estensivo è anche il più intensivo », in questo progresso che è parimenti un Insichineingehen, un entrare dentro di sé; ma proprio in questa coincidenza emerge una dimensione concettuale che non può essere pensata come tempo e come In-der-Zeit-Sein. È vero per un verso che « ... la successione dei sistemi di filosofia nella storia è la stessa che la successione nella deduzione logica delle determinazioni concettuali dell'idea»; 19 e ciò perché l'idea, come concreta differenziazione in sé e come sviluppo, « ... in lei stessa entra nell'esistenza (Dasein) e nell'esteriorità nell'elemento del pensare; e così la filosofia pura appare (erscheint) nel pensare come un'esistenza in progresso nel tempo ». 20 Ma non è soltanto questo che la distinzione aristotelica permette a Hegel di determinare concettualmente. C'è in questo Umweg, in questa via indiretta, e per l'intelletto viziosa, che è propria della mediazione filosofica, una dimensione concettuale nella quale non ha posto il tempo come «uno dei modi dell'esteriorità ».21 Questa dimensione, propria dello spirito, « ... ha tempo sufficiente proprio perché è essa stessa fuori del tempo, perché è eterna »,22 ossia perché « ... in tutte le sue espansioni non vien fuori di sé, ma rimane presente (gegenwartig) e immanente in sé (in sich) ». 23 Ciò che rende scienza la storia della filosofia riporta questa storia all'interno di un percorso concettuale che non è pensabile secondo una successione temporale, se non nella misura in cui in una tale successione si « riconoscano» i puri concetti, e si porti già con sé, dunque, in questa 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23.
Einleitung etc., p. 101 (WS 1823/24). p. 32 (H.). p. 34 (H.). p. 37 (H.).
HEGEL,
lbid., lbid., lbid., lbid. Ibid., lbid.,
p. 62 (H.). p. 33 (H.).
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conoscenza, la conoscenza dell'idea.24 Quel « sistema della necessità e della sua propria necessità »,25 l'idea, che tiene in unità secondo necessità tutti i propri momenti, mantiene rispetto alla successione temporale una differenza che non è dovuta soltanto al fatto di presentarsi come successione logica, ma al fatto che in questa successione ciò che consegue è ciò da cui si procede, o il pervenire giunge soltanto a se stesso. Dunque ciò che permette di concepire razionalmente lo sviluppo storico è anche quello che ne mette in crisi la linearità dello sviluppo. Nel passaggio dalla potenza all'atto o dal più indeterminato al più determinato e ricco si viene a configurare un più profondo passaggio che è il permanere dell'idea in se stessa, il venire a coincidere dell'idea soltanto con sé. L'emergenza storica di questo passaggio segna certamente la crisi di un certo itinerario di sviluppo storico-filosofico. Non solo: lo spazio che un tale passaggio (la coincidenza dell'idea con sé) definisce non si presta tanto facilmente a determinare una distanza storica. Se Aristotele può fornire a Hegel i termini attraverso i quali concepire lo sviluppo storico-filosofico nella sua totalità, ciò è dovuto al fatto che potenza e atto sono tenuti assieme secondo una differenza che è propria dell'atto stesso. Potere scavare questa differenza nell'atto aristotelico significa non tanto determinare un ulteriore passaggio storico (dalla potenza all'atto), ma un passaggio dall'atto all'atto, distanziando per così dire Aristotele dalla proprietà del suo gesto speculativo, ma pensando così oltre Aristotele in un senso che non riesce a coincidere interamente con una proiezione storica di quest'operazione. Una tale particolarità del «problema Aristotele» (secondo un approccio interpretativo che diventa poi paradigmatico di tutte le analisi - o « forzature » - hegeliane della storia del pensiero) determina nella lettura che ne fa Hegel una «violenza» interpretativa che opera prima ancora di qualunque scelta (l'Aristotele della distinzione di potenza e atto o quello teologico) o arbitrio esegetico. Non si tratta tanto di una lettura in chiave moderna, idealistica, dello Stagirita: da questo punto di vista, anzi, Hegel è perlomeno convinto in linea di principio che si deve distinguere tra ciò che si può dedurre conseguentemente da una posizione filosofica e ciò che « è stato pensato effettivamente »; e che si devono rispettare (fino all'uso delle medesime parole) le «differenze di tempi, di cultura e di filosofia » .26 24. Cfr. ibid., pp. 34-35 (H.). 25. lbid., p. 33 (H.). 26. lbid., pp. 68-69 (H.).
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Ma è il p1u autentico ripensamento della pos1z1one aristotelica a prospettarsi, all'interno dello sviluppo storico-filosofico concepito da Hegel, come tentativo di contendere al pensiero dello Stagirita l'inclusione comprensiva dell'intero di un tale sviluppo. Mentre Hegel assume la concezione speculativa aristotelica per definire il concetto di sviluppo, fa emergere una dialettica intimamente operante nel pensiero aristotelico (nell'atto aristotelico), tale da permettere un percorso critico di questa stessa concezione: tale percorso però (che è quello da Aristotele a Hegel) non è più inquadrabile soltanto o principalmente come passaggio dalla potenza all'atto. In quanto implica la determinazione della differenza nell'atto stesso, l'interpretazione hegeliana di Aristotele non si presta a una facile distinzione da quel che il filosofo greco ha« effettivamente pensato », alla determinazione di una differenza che resti interamente dalla parte di Hegel. In questo emblematico rapporto ermeneutico si può cogliere forse il senso più profondo dell'identificazione hegeliana di logische Wissenschaft e eigentliche Metaphysìk come filosofia « puramente speculativa »,27 per cui la logica «oggettiva» «prende il posto della metafisica di una volta» (ricerca sull'ens comprendente tanto l'essere che l'essenza) e ne è la critica, mentre la logica « soggettiva», la logica «dell'essenza che ha tolto via la sua relazione a un essere o la sua apparenza», realizza e toglie a un tempo l'« autentica metafisica», in quanto toglie il vincolo a un che di esteriore o è puramente speculativa.28 È proprio il rapporto alla metafisica ad assumere una connotazione radicale nella lettura hegeliana di Aristotele. Quando Hegel parla di metafisica si riferisce per un verso alla sistematizzazione intellettualistica e « matematizzante» di Wolff, alla filosofia tedesca prekantiana e più in generale al razionalismo moderno da Cartesio in poi. In questo caso si tratta di una metafisica che « si sofferma in determinazioni finite del pensiero, cioè nell'antitesi (Gegensatze) non ancora risoluta»: 29 l'universale è posto accanto ad altro, le stesse «totalità» appartenenti alla ragione (anima, mondo, Dio) sono « accolte dalla rappresentazione » e non si va oltre il momento intellettuale, quello che separa le determinazioni l'una dall'altra e che « fa dell'identità astratta il principio ».30 In tal modo questa metafisica si allontana dal significato essenziale di quel che ha determinato il suo valore speculativo (la coincidenza delle determinazioni del pensiero e delle cose), ossia la concreta infinità del-
27. WL I, p. 5 (tr. it. pp. 5-6). 28. WL I, pp. 46-7 (tr. it. pp. 47-8). 29. Em: § 27. 30. Cfr. Enz § 30 e 36 Zus.
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l'oggetto razionale, perché questo viene in ultima analisi posto come un « aldilà», come «soluzione astratta», contrapposta a un al di qua in cui le contraddizioni rimangono irrisolte.31 Ma il pensiero degli antichi, di Platone e specialmente di Aristotele, è ben lontano da questa metafisica,32 che d'altra parte non può nemmeno essere considerata come l' « autentica metafisica ». La metafisica greca è unbefangen, ingenua, rispetto alla coscienza propriamente moderna della differenza, soltanto perché non lascia emergere, dal vincolo che lega il pensare al suo elemento, un termine medio, l'opposizione e la differenza, nel quale quel vincolo può essere pensato e dunque tolto dalla sua immediatezza, non più autenticamente metafisico se non in quanto logico. Proprio nei confronti di una tale metafisica il concetto di sviluppo deve esibire il suo significato più intrinseco: rispetto ad essa il pensiero hegeliano si configura come il medio che ne determina il carattere autentico attraverso il quale essa perviene a ciò che è. La differenza che Hegel è capace di tener ferma nei confronti della metafisica concepita per questo suo aspetto profondamente speculativo, si pone come l'identità, l'Eigentliche di essa. Ma per cogliere tutta la portata speculativa che la metafisica custodisce nella sua « ingenuità » bisogna fare ricorso non solo all'interpretazione del pensiero greco in generale (l' « autentico inizio») ma in modo specifico all'interpretazione del pensiero aristotelico. In quest'interpretazione si mette in evidenza in modo decisivo il significato autentico della metafisica. Con Aristotele infatti ci troviamo già di fronte a una coincidenza di logica e metafisica che rende difficile l'identificazione di un passaggio speculativo e di una distinzione tra l'una e l'altra.33 La metafisica si volge verso le cose, è scienza di ciò che è, in quanto porta il suo oggetto alla propria determinazione essenziale, alla coincidenza col concetto. Essa è «la scienza delle cose (Dinge) poste (gefaBt) in pensieri, i quali pensieri perciò appunto si tennero atti a esprimere
31. Cfr. GPh III, p. 265. 32. Enz § 36 Zus. Cfr. GPh III, p. 262: ciò che divide Wolff da Aristotele è il fatto che il primo si rapporta al suo oggetto «soltanto in modo intellettualistico», cioè in modo che « ogni determinazione di pensiero viene tenuta ferma per sé », mentre Aristotele tratta l'oggetto «in modo speculativo». Cfr. A. SARLEMIJN, Hegelsche Dialektik, Berlin-New York 1971, p. 131. 33. Secondo Lugarini nella WL (in un senso che ribalta il rapporto quale è concepito nella logica jenese) « ... in un modo peculiare ... la metafisica funge da premessa della logica in senso ristretto, o meglio costituisce una sorta di piattaforma su cui la logica stricto sensu si erige. In termini diversi: la metafisica dialetticamente introduce, a livello speculativo, nella logica; la logica dialetticamente invera, ad eguale livello, la metafisica» (L. LuGARINI, Logica e metafisica nel pensiero ;enese di Hegel, in Filosofia, XXIX, 1978, pp. 175-192, qui p. 176).
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le essenze delle cose ».34 La metafisica è concepita da Hegel come scienza della cosa, dell'elemento del pensare, del dato, del presupposto elementare proprio del pensare. Essa risulta per un verso distinta dalla logica in quanto assume senza problema il vincolo a ciò che è, all'essere come anticipato al pensare (in qualche modo ancora esteriore ad esso): ma essa ha tolto già questa differenza ed esteriorità in quanto ha posto già come oggetto il concetto, l'universale, non le Dinge ma la Sache, non le cose ma l'essenziale o il concetto delle cose. 35 L'autentica metafisica è già logica ma alla luce di una differenza che non sporge, che non è problema nella metafisica: secondo questo spazio dialettico che si può ricavare all'interno della metafisica hegelianamente intesa va letto il complesso rapporto del :filosofo tedesco al pensiero aristotelico. Aristotele, come si è detto, presenta nel modo più specifico e radicale, nella lettura che ne fa Hegel, la posizione metafisica nella sua inizialità e ad un tempo nella sua compiutezza speculativa. La filosofia prima, distinta « in modo molto determinato dalle altre scienze come 'scienza di ciò che è in quanto è, e di ciò che ad esso appartiene (zukommt) in sé e per sé' »,36 non ricerca attorno a questo o quel determinato oggetto, a questa o quella parte dell'ente, ma attorno all'universale ed essenziale di ogni ente: la sostanza aristotelica viene concepita da Hegel essenzialmente come idea.37 Nella sostanza c'è insieme qualcosa di più rispetto all'universale platonico e rispetto alla semplice ricerca intorno agli oggetti dell'esperienza. Il pensiero di Aristotele è ben altro che «triviale realismo », anche se la sua :filosofia non appare come un sich systematisierendes Ganzes, un intero costituentesi in sistema, ma « le parti sono assunte empiricamente e poste l'una accanto all'altra. La parte è conosciuta per sé come concetto determinato, ma non è il movimento che tiene in connessione » .3(J Hegel ha ben presente da questo punto di vista la peculiarità del pensiero aristotelico: «ad Aristotele non interessa affatto ricondurre tutto a un'unità o le determinazioni a un'unità dell'opposizione, ma al contrario mantenere ogni cosa nella sua determinatezza e seguirla fino in fondo in tal modo ».39 Cosl, anche nel pensare la sostanza, la ricerca mette in luce « una serie di diverse specie di sostanze, con34. Enz § 24. 35. Cfr. WL I, p. 18 (tr. it. p. 18). 36. GPh II, p. 152. 37. Cfr. GPh II, p. 153. 38. GPh II, p. 133. 39. GPh II, p. 147 e 145: «un sistema di filosofia in Aristotele non dobbiamo cercarlo».
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siderate l'una dopo l'altra, più che raccolte in un sistema »,40 e lo stesso assoluto è posto « ... non come l'uno assoluto - ma esso (l'idea di Dio) appare appunto anche come un qualcosa di particolare al suo posto accanto ad altro ». 41 Ma Hegel aggiunge che esso è alle W ahrheit, tutta la verità. Infatti, se questa «lacuna » sistematica può far pensare alla metafisica intellettualistica, in realtà Aristotele procede secondo Hegel in modo del tutto diverso, in modo razionale; perché, determinando l'oggetto secondo tutti i suoi differenti momenti, i «differenti lati», perviene alla determinazione specifica che lo individua concettualmente facendone un'unità, un totum capace di passare attraverso la completezza dei momenti. Proprio nel suo essere un volliger Empiriker, un completo empirico, Aristotele risulta profondamente speculativo. Ciò perché coglie l'« essenza della percezione» in quell'intero che contiene il particolare, nella sua molteplicità, e il categoriale: in tal modo risulta tolto il punto di vista che mantiene le determinatezze nel loro reciproco isolamento. L'empiria aristotelica « ... è appunto totale; egli cioè non tralascia determinatezze, non fissa una determinazione e poi ancora un'altra, ma le coglie parimenti in unità (in einem ), - in quel modo invece fa la riflessione dell'intelletto, che assume l'identità come regola con la quale può cavarsela soltanto dimenticando e tenendo lontana nell'una determinazione l'altra ... l'empirico, colto nella sua sintesi, è il concetto speculativo ».42 Nella maniera di filosofare apparentemente rapsodica di Aristotele Hegel vede perciò addirittura un contrassegno di forza speculativa, che sta nella capacità di cogliere il piano della sintesi delle determinazioni e quindi parimenti il piano della differenza e della specificazione. O sta, in altri termini, nella capacità di cogliere l'elemento speculativo in tutta la sua complessità, come «negativo» cioè, come termine che contrae in sé una differenza di momenti. Questo carattere « concreto » della teoria aristotelica della sostanza è quanto v'è di più proprio di Aristotele nei confronti della filosofia platonica, e quanto permette di concepire unitariamente e secondo una
40. GPh II, p. 156. 41. GPh II, p. 151. 42. GPh II, p. 172. Del tutto diverso il procedere della metafisica moderna (da Ca.rtesio in poi) entro la quale Hegel comprende sia razionalismo che empirismo, sia spinozismo che materialismo francese etc. In questa metafisica « ... anche il filosofare che vuol fare valere solo il pensiero immanente, non prende qualcosa di metodicamente sviluppato dalla necessità del pensiero, ma prende anche il suo contenuto dall'esperienza, interna o esterna; il lato metafisico procede in modo parimenti empirico» (GPh III, pp. 121-22). La metafisica è qui un'astratta «tendenza alla sostanza» in opposizione all'« individualità».
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ben distinta scienza la serie, apparentemente giustapposta, dei tipi di sostanza individuati da Hegel nella metafisica aristotelica. Aristotele mantiene secondo Hegel la « validità » dell'universale platonico (che già era « in sé essenzialmente concreto »), ma ne approfondisce radicalmente il concetto. «L'universale per il fatto che è universale non ha ancora alcuna effettualità (Wirklichkeit) » 43 (la distinzione potenza-atto attira subito l'attenzione hegeliana): esso, astratto come essenza del particolare, è posto come particolare anch'esso, è l'« oggettivo», ovver~) ciò che fa da momento di una differenza non pensata, del «principio di vita (Lebendigkeit), di soggettività, non nel senso di una soggettività accidentale, solo particolare, ma di soggettività pura ». 44 Proprio secondo l'emergere di questo senso di soggettività Hegel legge la teoria aristotelica della sostanza, riconoscendovi una più appropriata determinazione dell'universale rispetto al predominio platonico del «principio affermativo», dell'astratta identità, dell'« idea come solo astrattamente eguale a se stessa ». 45 E chiama in causa a questo scopo proprio i momenti della metafisica (in particolare Met, VII, 13) che combattono l'universale platonico negando che l'universale possa essere sostanza. È appunto in queste pagine che Hegel vede configurarsi il tratto speculativo eminente della filosofia di Aristotele: l'unità e l'identità concepite non come uno degli opposti ma come l'intero e dunque come «essenzialmente negative», come «principio negativo » che tiene dentro sé lo stesso suo determinarsi come elemento comune e pertanto ancora come uno degli elementi dell'intero, contrapposto agli altri. Questo è il « principio della soggettività pura » che Hegel vede come peculiare di Aristotele, considerandolo quale «principio di individuazione » che tiene in un intero come inseparabili gli elementi e che proprio per questo determina separazione e non comunanza, intesa quest'ultima come rapporto esteriore tra i particolari dai quali è astratta. L'universalità della sostanza (per cui Hegel può identificarla con l'idea) è dovuta al suo costituirsi come l'inseparabilità degli elementi di cui è « principio » e rispetto a cui costituisce l'identità che li toglie come parti, che li tiene in un semplice, in un che di àtomon, di indiviso e indivisibile. Ma questo stesso fa per Hegel l'individualità della sostanza in quanto questa non è
43. GPh II, p. 152. Cfr. anche p. 222. 44. GPh II, p. 153. 45. GPh II, p. 155. Sul sostanziale riferimento aristotelico (rispetto a un aggancio più formale alla posizione platonica) della dialettica hegeliana cfr. J. v.d. MEuLEN, Hegel. Die gebrochene Mitte, Hamburg 1958, p. 70.
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condivisibile come qualcosa di estrinsecamente o astrattamente comune: o in quanto è soggetto che non deve ad altro la sua determinazione (e in tal senso è « concreto »). Rispetto al pensiero platonico, l'interpretazione hegeliana enfatizza nella posizione aristotelica tutto quello che c'è di irriducibile a un'unità generica che non mantiene le differenze, per trar fuori un principio sistematico da quel che sembra un impianto costitutivamente non sistematico. Un'operazione interpretativa, certo, intimamente legata a un movimento confutatorio, il cui esito però è anche il mantenimento, la giustificazione della difesa aristotelica dello specifico, della individualità della sostanza. La scienza unica di ciò che è in quanto è, la cosiddetta « metafisica » che Aristotele distingue in modo «molto determinato» dalle altre scienze perché ha un suo peculiare (e fondamentale) oggetto, Hegel la cerca in questa polemica contro l'universale platonico la quale mette a fuoco un senso del chorìzein, del separare, che egli vede pregno di una dinamica dialettica. Nel carattere universale e individuale a un tempo della sostanza Hegel, lungi dall'affrettarsi a risolvere l'aporia prendendo l'una o l'altra strada interpretativa, vede configurarsi la Hauptbestimmung, la determinazione fondamentale del pensiero aristotelico. Nell'avvertimento aristotelico: ÈVTEAÉXEUX xroQ~Et, l'atto separa,46 Hegel vede - proprio in uno dei punti più significativi della polemica contro l'universale platonico - l'affermazione dell'universale nella sua concretezza, non astratto dal « momento della negatività» inteso come «differenziare, determinare ».47 Questa forzatura interpretativa non prescinde dunque in alcun modo dal confronto coi punti più caratterizzanti della posizione aristotelica, ma cerca dentro i tratti aporetici del testo la via per una comprensione sistematica della teoria della sostanza. Proprio in Met VII, 13, Aristotele sostiene che la tesi dell'àtomon èidos, della forma come uno indivisibile e separato, « contiene un'aporia ( ÉXEt ... àxoQCav ). Infatti, se è impossibile che alcuna sostanza sia costituita da universali ( Èx TÙJV xa&6Àou) ... e se non è possibile che alcuna sostanza sia un composto (ouv&eTOv) di sostanze in atto, ogni sostanza dovrà essere non composta; per conseguenza non potrà neppure esserci definizione ( Myoç ) della sostanza. Ma è a tutti evidente ... che c'è definizione o solamente della sostanza o della sostanza in modo preminente; ora, invece, 46. ARISTOTELE, Metaphysica, a cura di W. JAEGER, Oxford 1973 (1957 1) (d'ora innanzi Met), VII, 13, 1039 a 7 (tr. it. a cura di G. REALE, Napoli 1968, vol. I, p. 552). 47. GPh, p. 155.
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sembrerebbe che non ci possa essere definizione neppure della sostanza. Allora, non ci sarà definizione ( OQLçµoç) di nulla. O, piuttosto, in un senso, c'è in un altro, non c'è ». 48 Da una parte infatti lo Stagirita ha detto che il logos e lo horismòs sono solo tù kathòlu, dell'universale, 49 dall'altra che si ha definizione in senso «primario e assoluto» quando c'è un logos «di qualcosa che è primo »,5-0 non predicato di altro; e dunque non si ha definizione dell'universale. Da quest'aporia Aristotele non sembra uscire se non utilizzandone la potenza problematica: la definizione « in un senso c'è e in un altro non c'è». Non c'è definizione né della singola cosa, della cosa kath'hèkaston, particolare e sensibile, né dell'universale platonico, dell'idea. La prima non è oggetto di definizione, perché quest'ultima coglie la forma in quanto dà unità al composto facendone un sinolo, un intero di cui essa è la parte incorruttibile. La «forma immanente», che determina la materia costituendo il sinolo, ed è perciò posta come distinta dalle parti materiali, è determinata per un verso da Aristotele come universale rispetto a ciò che è soggetto a mutazione e a corruzione; ma per altro verso, in quanto immanente, è ciò che dà specificità alla materia determinando il passaggio all'atto. La definizione si riferisce a qualcosa che non essendo identificabile col particolare empirico, non è però separabile dall'individuo. Rispetto a una tale concezione anche le idee platoniche sono indefinibili perché anch'esse kath'hèkaston, ossia separate dal sensibile come un che di particolare, distinto dalle singole cose. L'universale come ciò che è comune è visto da Aristotele come un kath'hèkaston proprio a causa di questa separazione: posto come essenza diversa dalle singole cose e per sé, esso non solo annullerebbe nella sua sostanzialità estrinsecamente accomunante l'individualità delle cose,51 ma si dovrebbe porre anche come diverso dalla sua essenza rendendosi inconoscibile perché esso stesso diviso dall'universale, e indefinibile. 52 L'universale platonico si ribalta in particolare, a meno di non rinunciare alla sua separazione dalle cose: a meno di non ammettere che proprio in esso viene sconfessata la separazione tra universale e particolare. In questo quadro così complesso, che non di rado si traduce in formule che possono essere lette come contraddittorie tra loro, Hegel cerca la connessione sistematica di ciò che appare meno che asiste-
48. 49. 50. 51. 52.
Met, VII, 13, 1039 a 14 ss. Met, VII, 10, 1035 b 34-1036 a 1 e 11, 1036 a 28-9. Met, VII, 4, 1030 a 10. Cfr. Met, VII, 13, 1038 b 9 ss. Cfr. Met, VII, 6, 1031 b 28 ss. e 15, 1040 a 8 ss.
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matico. Attraverso la riflessione sull'atto aristotelico si fa chiara a Hegel quella che può essere la strada per un'interpretazione della teoria della sostanza in tutta la sua complessità: come, in polemica con Eraclito, Aristotele « ... fissa contro il principio del mero mutamento l'universale, cosl al contrario, contro i pitagorici e contro Platone, contro il numero fa valere l'attività (Tatigkeit). L'attività è anche mutamento, ma mutamento che rimane identico a se stesso, - è mutamento, ma posto all'interno dell'universale, come il mutamento uguale a se stesso, - è un determinare che è autodeterminarsi ». 53 Come mutamento identico a se stesso, l'atto è l'universale non fuori della determinatezza ma come capace in se stesso di questa differenza, come autodeterminantesi. Esso ci permette di pensare l'universale non come l'astratto koinòn, come ciò che accomuna estrinsecamente, ma in modo più radicale come quello che tiene assieme nella loro inseparabilità il momento del « semplice riferimento a sé » come identità che è solo « dentro » se stessa senza riferimento alla differenza (tale è l'universale nella sua immediatezza per Hegel) e il momento della specificità e particolarità, cioè del riferimento alla differenza. Con un'argomentazione memore della dimostrazione aristotelica dell'indefinibilità delle idee platonicamente intese, Hegel sviluppa una traiettoria concettuale che porta a intendere l'universale come Einzelne, individuo: «l'universalità, essendo la determinazione sommamente semplice (einfache), non sembra in grado di essere spiegata, poiché una spiegazione (Erklarung) deve entrare in determinazioni e distinzioni e predicare del suo oggetto, mentre il semplice vien con ciò anzi mutato che spiegato. È però appunto la natura dell'universale, di essere un tal semplice, che per (durch) l'assoluta negatività contiene dentro di sé la più alta differenza e determinatezza ». 54 L'universale non va inteso come il Gemeinschaftliche, un che di comune che corrisponde al modo sviante di intenderlo, proprio dell'astrazione intellettuale: « quell'universale superiore e supremo, al quale essa s'innalza, non è che la superficie che diventa sempre più vuota di contenuto; invece l'individualità da lei disprezzata è il profondo in cui il concetto afferra se stesso ed è posto come concetto ». 55 In tal modo l'individualità esprime proprio quell'universalità che l'universale astratto perde nel « tralasciare» la particolarità: essa
53. GPh Il, p. 153. 54. G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, vol. II a cura di F. HOGEMANN e W. ]AESCHKE (Gesammelte Werke Bd. 12) Hamburg 1981 (d'ora innanzi WL Il), p. 33 (tr. it. p. 680). 55. WL II, p. 49 (tr. it. p. 701).
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tiene assieme come inseparabili momenti universale e particolare e si pone perciò non come «solo immediata individualità» ma come totalità. E, come tale, non è soltanto la possibilità di div~ntare atto (wirken) ma è il Wirkende seiner selbst, ciò che pone in atto se stesso, ossia che media in sé essenza ed esistenza. 56 Secondo questo svolgimento interno dall'universale all'individuo si può cogliere il passaggio da Platone ad Aristotele e in Aristotele la chiave per tenere assieme la laboriosa trama della teoria della sostanza. Il rapporto tra forma e materia, tra atto e potenza si può articolare così in diversi modi mantenendosi però in riferimento a un termine che non si lascia intendere secondo la separazione dei momenti; anzi piuttosto li fonda come differenza che rimane identica a sé: questo termine è l'entelècheia come «scopo e realizzazione dello scopo ».57 Il suo profilo concettuale presiede alla distinzione e all'unità sistematica dei diversi tipi di sostanza individuati da Hegel. Il primo tipo è la sostanza sensibile in cui i momenti, la materia e le determinazioni formali, sono separati fra loro; e anche se la forma svolge il ruolo unificante, in quanto è il Wirksame, ciò che genera l'essere determinato, ossia l'atto nel quale si realizzano gli elementi solo potenzialmente separati, tuttavia essa è solo una parte dell'intero che porta il suo nome. La sostanza sensibile è sostanza finita nel senso che ad essa appartiene costitutivamente questa esteriorità dei momenti, e più precisamente l'esteriorità della forma: il finito è ciò che è posto come sempre in qualche modo distinto e irriducibile rispetto al suo momento formale. Il finito esprime i momenti differenti e la stessa differenza senza la relazione, senza il «ritorno in sé ». 58 Il momento universale della forma non può essere in questo caso che il toiònde, il quale quid, rispetto al tòde ti in cui la stessa forma è nel suo vincolo alla materia: la sostanza sensibile ha come forma propria il rimanere esteriore della forma, la non coincidenza dell'universale col particolare; e risulta dunque indefinibile anche secondo quella definizione che, riguardandola, deve includere anche la materia. 59 La sostanza sensibile tiene separati fra loro il momento universale e quello particolare all'interno della stessa forma, per cui appare soltanto l'« individualità immediata» in contrapposizione alla mediazione propria della forma come universale; e perciò questa individualità rsulta differente da sé, in unità con la materia.
56. 57. 58. 59.
Cfr. Enz § 163 Anm. GPh II, p. 154. GPh II, p. 157. Cfr. Met, VII, 8, 1033 b 19 ss.; 11, 1037 a 21 ss.; 15, 1039 b. 20 ss.
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Nella sostanza sensibile Hegel vede una sorta di sdoppiamento della materia, che da una parte è il sostratto del mutamento, indifferente rispetto all'una e all'altra delle determinazioni opposte, quale soggetto che subisce modificazioni; mentre dall'altra è una delle determinazioni opposte, in quanto potenza pensata come materia determinata in relazione alla forma. L'atto, come causa del mutamento, rimane esteriore come un terzo momento. Dalla sostanza sensibile Hegel distingue quella dentro la quale entra l'attività come contenente «ciò che deve divenire»: e come tale, «più elevata» sostanza, indica l'intelletto (mettendo peraltro da parte la distinzione aristotelica delle tre sostanze in Met XII, 1). Qui la materia è soltanto l'universale in sé, «passivo », come ciò che sta di fronte al pensiero ed è il soggetto di quel mutamento, di quel passaggio all'atto nel quale si realizza come pensiero o universale attivo. L'universale si pone come causa e come scopo o fondamento, come principio e come fine del processo. Ma l'universale passivo e l'universale attivo sono entrambi l'in-sé, l'universale, «in forma opposta». Il mutamento non li riguarda per quanto sia l'attività che li pone in relazione. Ciò che opera il passaggio è l'intelletto, che è «in-sé e per-sé », e che pertanto esprime la relazione, ma ancora come un lato della differenza, quello attivo, e quindi «ha bisogno ancora della materia, con la quale non è identico ».6-0 Principio e fine sono in unità nell'anima, che è «essenzialmente entelechia, logos, - determinare universale che si pone, si muove», che è attività avente « il suo fine in se stessa » (ivi): tuttavia se l'attività del pensiero corrisponde a «porre il suo contenuto nell'effettualità», «il contenuto rimane lo stesso», ossia è distinto da questo muoversi dell'intelletto e senza mediazione ancora nelle due forme di universale passivo e attivo. Accanto a questi due modi di intendere il vincolo tra universalità e determinatezza che la sostanza esprime impegnando la distinzione di potenza e atto, Aristotele ne pone, secondo Hegel, un terzo, che pur non occupando esplicitamente tale posizione in Aristotele,61 può essere inteso come il momento che dà unità sistematica alla teoria della sostanza. Si tratta di quella sostanza che « gli scolastici hanno giustamente visto come la definizione di Dio »: 62 in essa la differenza dei momenti va pensata dentro l'identità in modo tale che ciò rende pensabile la distinzione che quei momenti separa. Essa è «la sostanza che nella sua possibilità ha anche l'effettualità 60. GPh II, p. 158. 61. Cfr. GPh II, p. 164. 62. GPh II, p. 158.
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(Wirklichkeit), la cui essenza (potentia) è essa stessa attività (Tatigkeit), dove entrambe non sono separate; in lei la possibilità non è differente dalla forma; è essa che produce il suo contenuto, le sue determinazioni, se stessa» (ivi). In questo tipo di sostanza, la sostanza assoluta, la differenza tra potenza e atto rimane dentro l'atto stesso: questo non è più visto come termine che realizza e porta a unità altro, ma come l'intero che realizza se stesso, scevro di materia, e di potenza intesa quale «momento subordinato, distanziato dall'universale» 63 come il « passivo ». L'atto puro è tale per Hegel non in quanto distinto in modo assoluto dalla potenza, dalla materia, ma piuttosto in quanto differisce soltanto da sé, si determina soltanto in sé e in rapporto a sé: è il Sichselbstgleichbleibende, ciò che determinandosi rimane uguale a se stesso. Dalla distinzione aristotelica di potenza e atto, secondo la quale è pensabile la sostanza nella sua determinazione specifica come ciò che tiene in unità, nella «differenza ultima», tutti gli elementi, potenzialmente divisi, che in essa sono contenuti - risultando così un « alcunché di uno e alcunché di determinanto ( EV 'tL xaì 'tO~E 'tL ) » 64 rispetto a una distinzione potenziale di genere universale e differenza, e ponendosi così in quanto atto, secondo Hegel, come « la negatività che si riferisce a sé » e che così « separa » - Hegel ricava una più intrinseca differenza dentro l'atto puro che lo porta alla tesi secondo la quale in esso «possibilità ed effettualità sono identiche ».65 Ma ancora una volta, questa tesi non è giocata senz'altro in chiave di riformulazione critica rispetto ad Aristotele, ma anzi cercata proprio all'interno di quelle formulazioni aristoteliche che pongono una tale sostanza senza materia e senza potenza. Hegel trova alla base di questa configurazione della sostanza eterna « ... assolutamente lo stesso modo di vedere » (ivi) della propria filosofia che pone «il pensiero come tutta (alle) la verità»; anche se Aristotele non dice questo esplicitamente e anzi considera « il pensare ... un oggetto come gli altri, una specie di stato», anche se qualificato come «il primo, il più forte, il più onorato». L'identità di veduta con Aristotele, tale da permettere l'esposizione di una dialettica interna all'atto puro, Hegel la trova in una concezione del primo motore tale che esso solo estrinsecamente, secondo il filosofo tedesco, può essere inteso come estremo di una relazione (e così posto accanto ad altro), mentre in realtà va pensato
63. GPb II, p. 160. 64. Met, VII, 12, 1037 b 27. 65. GPb II, p. 164.
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come l'Anundfursichseiende, l'in-sé e per-sé, mediato in se stesso.66 L'atto puro è la sostanza che nel suo differenziarsi rimane identica a sé, ossia che conquista il suo tratto specifico proprio come unità di universale e particolare. In essa questi due termini non stanno separati, ma sono momenti interni all'atto stesso: il momento universale dell'identità, come il «rimanere uguale a sé», e della differenza come specificazione, sono lo stesso. Questo terzo tipo di sostanza, posto peraltro da Aristotele semplicemente accanto agli altri, non si presenta più «diminuito dall'esteriorità » 67 come quello che specifica, che porta all'unità attuale altri elementi potenzialmente presenti in esso: qui la sostanza fa da soggetto soltanto a se stessa, nel senso che essa nel suo differire, nel suo essere separata come atto puro rimane in se stessa, è in relazione a sé. Questa sostanza esprime nel senso più profondo l'oggetto metafisico, perché fissa nel modo più specifico la forza unificante, individualizzante, della forma: infatti qui è possibile concepire per sé i due momenti, della forma in quanto distinta dal contenuto e della forma in quanto contenuto determinato, senza doverli pensare l'uno fuori dell'altro, secondo il tratto teoretico più significativo del pensiero aristotelico della sostanza. Quella che cosl si configura è una dialettica interna all'atto puro, tale da fare del pensiero dello Stagirita, agli occhi di Hegel, un «supremo idealismo», lontano dall'« arida identità » nella sua morta opposizione alla differenza: l'atto « è nel differire parimenti identico con sé stesso ». 68 La forza di separazione della sostanza si fonda secondo Hegel nell'attività, nella potenza autoproduttiva, nel movimento identico a se stesso del Primo motore. L'interpretazione del « pensiero di pensiero» è legata a questa lettura «attiva» dell'atto, alla radicazione del movimento in esso. Una tale interpretazione intende presentarsi tuttavia come commento fedele al testo aristotelico. Non si tratta d'intendere l'intelligibile come prodotto dell'intelligenza, l'oggettivo come prodotto del soggettivo: altrimenti, contrariamente all'accentuazione aristotelica della causa finale (cui Hegel presta tanta attenzione) a questo proposito, il Primo motore « ... sarebbe posto semplicemente mediante
66. GPh II, p. 158. L'interpretazione dialettica dell'atto puro, tale da costituirlo come mediazione, può spiegare (insieme alla diversa interpunzione) la lettura «errata», da parte di Hegel, di Met, XII, 7, 1072 a 24-26, e la connessione stretta di Primo motore e Primo cielo come dei «due modi della esposizione dell'assoluto» (p. 160), anche se poi Hegel intende il Primo motore come ciò da cui dipendono « l'eterno visibile e il mutevole visibile», posti perciò sullo stesso piano (p. 162. Su questa questione cfr. più avanti, nota 74 alla parte III). 67. GPh II, p. 165. 68. GPh II, pp. 158 e 164.
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l'attività »,69 cioè come risultato di un passare in altro che farebbe dell'attività un principio diviso da ciò che produce, come una sorta di movimento puro contrapposto al suo termine oggettivo, l'atto stesso. Al contrario lo Stagirita parla di Selbstandigkeit, di autonomia dell'atto come intelligibile. Occorre dunque scavare il produrre nell'immobilità: e Hegel lo fa cercando di mediare l'assunzione aristotelica del supremo intelligibile come pensiero. Si tratta di passaggi molto complessi, affidati nelle Lezioni a proposizioni non facilmente decifrabili. Mi sembra però che Hegel (contrariamente a quanto spesso si è detto) non trascuri come punto di partenza il primato aristotelico dell'intelligibile più eccellente, ma sviluppi semmai nel senso del proprio pensiero i momenti attraverso cui spiegare ciò che in Aristotele sembra rimanere implicito: il passo dal supremo intelligibile al «pensiero di pensiero». Partendo dalla citazione di Met. XII, 7: «il pensiero (Gedanke, nùs) è mosso dal pensato (von dem Gedachten, hypò tù noetù) », Hegel interpreta la natura di questo supremo intelligibile in tal modo: « il pensiero (Gedanke) ha un oggetto; esso (er) è l'immobile che muove. Ma questo contenuto è esso stesso un pensato, dunque un prodotto del pensiero; esso è immobile, e perciò totalmente identico con l'attività del pensare (des Denkens). Qui nel pensare, dunque, quest'identità è presente; ciò che è mosso e ciò che muove sono lo stesso» (ivi). Qui opera certamente una sorta di espropriazione di Aristotele a se stesso, ma in modo molto sottile e, anche a livello testuale, difficilmente verificabile (cfr. più avanti, la parte III). Il Gedanke (e non il Gedachte, da cui si dovrebbe partire per una spiegazione in chiave aristotelica) è qui per un verso il punto di partenza per la spiegazione: l'immobile che muove (intendendo qui er come riferito a Gedanke; ma non lo si potrebbe riferire a Gegenstand?). E del resto Hegel traduce anche attribuendo un divenire all'intelligibile, per cui Met XII, 7, 1072 b 20-21 suona così nel paragrafo dedicato al De Anima: l'« intelligibile diviene soltanto come intuente e pensante, esso viene prodotto soltanto in quanto intuisce ». 70 Ma in realtà qui si tratta di un divenire che resta dentro l'intelligibile stesso. Proprio il supremo intelligibile è tale soltanto perché non diviene altro da ciò che è, e questo per Hegel significa che
69. GPh II, p. 161. 70. GPh II, p. 218. Ma cfr. la traduzione più precisa a p. 162. Su questa tematica cfr. K. DusING, Hegel u.d. Geschichte etc., cit., pp. 127 ss. Cfr. anche ID, Lineamenti di ontologia e teologia in Aristotele e Hegel, in Il Pensiero, XXIII, lug.dic. 1982, pp. 5-32.
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il suo essere distinto sta nella sua indivisibilità dal termine a partire dal quale si perviene alla differenza. Proprio nel supremo intelligibile «la separazione e la relazione sono uno e lo stesso », 71 per cui come atto esso è in verità l'assumere (intuendo e pensando) l'intelligibile stesso, «producendolo ». Il pensare è il termine nel quale l'intelligibile supremo ha il suo atto proprio, cioè è distinto come tale: esso è «pensiero di pensiero». « Il nùs è l'attivo, il pensare e il divenir pensato, - quello è il soggettivo, questo l'oggettivo; egli [Aristotele] li differenzia bensl, ma parimenti esprime rigorosamente e fermamente anche l'identità di entrambi. Nel nostro linguaggio l'assoluto, il vero, è solo quello la cui soggettività e oggettività sono lo stesso, sono identiche; la stessa cosa è contenuta anche in Aristotele » (ivi). Nell' « alterazione» hegeliana del testo aristotelico si deve leggere pertanto la pretesa di uno spostamento di attenzione (del quale Hegel è ben consapevole) verso ciò che costituisce il nucleo effettivo del discorso aristotelico, che non è per Hegel la potenza del pensare rispetto a ogni contenuto, ma non è nemmeno la superficiale contrapposizione dell'intelligibile all'intelletto. « Se riteniamo divino il contenuto del pensiero, il contenuto oggettivo, questa è una posizione inesatta, ma l'intero dell'attuare (das Ganze des Wirkens) è il divino»: dunque l'atto nella sua interezza quale è dato nel supremo intelligibile, nell'atto puro per il quale, poiché è scevro di materia, la sostanza coincide con la forma; ciò che, avverte Hegel, non vale per gli « oggetti della natura ».72 Per tal motivo «l'oggetto si ribalta in attività, atto (Energie) »,73 ossia esso non è più semplicemente oggetto, o è tale soltanto nella coincidenza semplice, senza potenza, con la sua essenza, soltanto come logos e nòesis. L'intelligibile è essenzialmente termine di riferimento a se stesso: come pensato è «prodotto» del pensare, ma poiché è immobile, poiché è atto puro senza riferimento ad altro, esso è «totalmente identico con l'attività del pensare», mantiene dentro l'identità la differenza di intelligenza e intelligibile. Il carattere attivo da Hegel attribuito alla « sostanza assoluta » aristotelica si pone come esplicitazione di una coincidenza, non priva di problemi, tra nùs e noetòn tale da togliere nella semplicità del1'atto la differenza tra i due termini, e da istituire allo stesso tempo il primato dell'intelligibile. Per Hegel l'autoriferimento che emerge nell'atto puro aristotelico, determinandolo come «pensiero di pen71. GPh II, p. 218. 72. GPh II, p. 164. Cfr. Met, XII, 9, 1075 a 1 ss. 73. GPh II, p. 162.
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siero», è inscindibilmente connesso con la purezza di esso. La produttività dell'atto sta secondo Hegel nel fatto che esso come Primo motore o come causa finale non è tale dentro una relazione ad altro ma anzi istituisce la relazione: l'atto, cioé, si determina soltanto i~ rapporto a se stesso, nel senso che esso mantiene nell'identità i termini che divide per costituirsi come tale o termina propriamente nella differenza tra sé e sé. L'atto puro, dunque, è produttivo di sé, è relazione a sé, è vero principio di relazione: esso «realizza» se stesso, o nel porsi come diverso resta identico con sé. Questa produttività, che spiega per Hegel come il supremo intelligibile sia « pensiero di pensiero », non è dunque ricavata semplicemente da un primato dell'attività o del soggetto, ma dall'interna costituzione del noetòn. Tuttavia questa concezione del pensare come l'assoluto, o della differenza interna dell'atto puro come ciò che è, è chiarita da Hegel come propria interpretazione del nùs: «che il pensiero (Gedanke, nùs), come ciò che si rapporta a sé (das zu sich selbst sich Verhaltende), sia, sia la verità, lo diciamo noi. Diciamo inoltre che il pensiero è tutta la verità; non cosl Aristotele». In Aristotele questa concezione è contenuta zugrunde, al fondo: ed «è proprio questo la filosofia speculativa di Aristotele, di considerare tutto in modo pensante, di tramutare tutto in pensieri ».74 Questo rimanere al fondo segna ad un tempo il limite (la unilateralità), e l'intoglibilità della posizione aristotelica: il pensare, come differenza che rimane al fondo del puro intelligibile in modo tale da spiegare però il passaggio implicito da questo al «pensiero di pensiero », è l'elemento nel quale Aristotele mantiene ogni oggetto di esso, senza però che tale pensare venga posto come tale. Hegel attribuisce a sé la determinazione di quest'immanenza del pensare al suo oggetto, per cui questo viene pensato nell'identità con quello: ma una tale determinazione ribadisce lo speculativo in Aristotele, cioè il rimanere del pensare al fondo, anche di se stesso. Il pensare si determina hegelianamente come il rapportarsi a sé; ma come tale esso resta al fondo perché termina nel pervenire a sé, come atto che è tale solo in rapporto a sé e non in rapporto alla potenza - come atto puro. L'intrinseco costituirsi del supremo intelligibile come « pensiero di pensiero » diventa perciò il passaggio su cui si appuntano l'attenzione interpretativa e lo sforzo di ripensamento hegeliani. E Hegel cerca nell'analisi aristotelica del nùs gli elementi per un ripensamento sistematico della posizione dello Stagirita, in un intreccio così stretto tra lettura del testo e presen-
74. GPh II, p. 164.
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tazione del proprio pensiero crtttco, che sembra far scomparire il tratto che separa i due momenti. Il testo è il De Anima, che presenta una « scienza particolare », la psicologia, la quale si occupa però principalmente della natura dell'anima intesa non come cosa, ma come attività: sottratta quindi al suo particolare essere o vista come un intero. Nell'analisi dell'anima in generale Hegel coglie un « concetto veramente speculativo » nell'identificazione della sostanza come « forma attiva» e della materia come potenza.75 Nell'anima infatti, contrariamente a quanto accade nella scure - questa « non ha il principio della sua forma in se stessa, non si fa tale; o la sua forma, il suo concetto non è la sua sostanza stessa - essa non è attiva mediante se stessa »76 - la «materia non esiste come materia, è solo in sé»: 77 - ossia, secondo Hegel, non c'è una materia separata dalla forma, ad essa esteriore, perché qui la materia è il corpo «che ha la vita in potenza», e l'anima si realizza come unità di materia e forma in un senso per cui essa è principio e scopo del corpo vivente come causa che è « l'universalità determinantesi ». 78 Come anima di un corpo « organico», ossia dotato di organi, potenzialmente tale, la forma si autodetermina e fa riferimento a sé, e non è sinolo nel senso in cui è tale un corpo sensibile non dotato di vita. Qui potenza e atto, materia e forma, risultano in maniera più evidente non già termini soltanto contrapposti, esteriori l'uno all'altro, ma invece tali da escludere più che mai « pari dignità per quanto riguarda l'essere »,79 per cui la potenza è solo il principio universale di unità organica rispetto a ciò che questa stessa unità è come autodifferenziazione e autodeterminazione, come atto. Altrettanto significativo appare a Hegel il rapporto che Aristotele istituisce tra le tre anime (nutritiva, sensitiva e intellettiva): diversamente da quanto fa un « pensiero solo logicamente formale » 80 Aristotele non cerca un'anima che sia qualcosa di comune senza essere conforme ad una
75. GPh II, p. 202. 76. GPh II, p. 203. Hegel interpreta la definizione di ARISTOTELE, De Anima 412 b 10 ss. (cfr. l'ed. a cura di W. D. Ross, Oxford 1956, d'ora innanzi De An) «l'anima è sostanza nel senso di forma (ouo(a xa-rù -ròv Myov)» (tr. it., G. MovIA, Napoli 1979, p. 138) - traducendo così: «sostanza solo secondo il concetto; ovvero la forma, il concetto è qui l'essere stesso, questa sostanza stessa» (GPh II, p. 201). Sulla questione cfr. W. KERN, Die Aristotelesdeutung Hegels. Die Aufhebung des Aristotelischen «Nous» in Hegels « Geist », in Philosopbiscbes Jahrbuch, 78, 1971, pp. 237-259, qui p. 256. 77. GPh II, p. 200. 78. GPh II, p. 202. 79. GPh II, p. 201. 80. GPh II, p. 203.
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di esse, ma fa di ciò, che per un verso è un particolare, per altro verso il vero universale. Ogni anima inferiore rispetto alla superiore è come l'in-sé, la potenza, l'universale rispetto al determinato, al per sé come «infinito ritorno in sé »,81 ossia come atto che perviene a ciò che esso in potenza era già. Così ogni universale ha « due lati »: esso è potenza di altro ma è d'altra parte esso stesso un reale. In questa concezione dell'atto come principio di differenza in se stesso trova radice secondo Hegel la teoria aristotelica dell'anima fino all'intelletto. La determinazione dell'atto come vita, ossia come ciò che rapportandosi alla potenza (le parti del corpo) si rapporta a se stesso (la « vita in potenza » che a quelle parti dà un termine potenziale di unificazione), fa emergere infatti una dimensione dell'atto stesso per cui esso mentre è distinto da altro (l'anima come atto vivificante di un corpo per cui non può esistere senza di esso) è anche relazione a se stesso come unità di in-sé e per-sé: e allora in esso c'è il principio della distinzione dalla potenza che è proprio dell'intelletto separato come quel termine nel quale la potenza (l'intelletto rispetto all'intelligibile) è dentro l'atto stesso come momento inseparabile di un intero. Sviluppando e determinando fino a porlo come tale il percorso aristotelico sotterraneo dalla definizione della vita all'intelletto separato, si può vedere hegelianamente in quest'ultimo il significato più intrinseco dell'atto come ciò che compie rimanendo senza potenza, senza rapporto a un termine esterno. Dall'anima nutritiva a quella sensitiva il passaggio per Hegel prende la caratteristica di una distinzione tra « ricettività » e « spontaneità». «La sensazione è l'avere un lato passivo» e l'atto è qui «il far proprio questo lato passivo»: 82 nel rapporto con l'esteriorità la concezione aristotelica fissa stabilmente una passività dell'anima che nessun idealismo soggettivo (il quale «ritiene che la passività e la spontaneità dello spirito dipendano da ciò, se la determinatezza data sia interna o esterna») (ivi) riesce a scalfire. Ma «l'assumere è parimenti attività dell'anima»: 83 l'anima (diversamente da come fa la cera, secondo l'interpretazione del paragone aristotelico che ne chiarisce i limiti in polemica con una tradizione secondo Hegel riduttiva) assume la forma stessa delle cose nella sua sostanza, « cosicché l'anima è in lei stessa in certo qual modo tutte le cose» (ivi); essa toglie in un atto la separazione del sentire e del sentito, e toglie così la passività stessa. Tuttavia l'anima nella sensazione resta legata alla passività: e 81. GPh II, p. 204. 82. GPh II, pp. 206 e 207. 83. GPh II, p. 209.
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questa passività ha radice, secondo Hegel, nell'astratezza della forma. Infatti l'anima «è la forma, e la forma è l'universale» (ivi); e però, aggiunge Hegel, la sua singolarità e finitezza sta nel fatto che essa è una cosa come le altre: « la sua singolarità è nel fatto che altre cose sono per lei». Nella sensazione l'anima diventa la cosa stessa sentita, ma « respingendo » la materia e facendo propria la forma soltanto: essa «è soltanto identica con la qualità astratta, poiché essa stessa è l'universale» (ivi). Nel caso della sensazione, dunque, l'atto è distinto dalla potenza come termine unificante (e fondante) l'esistere separato del senziente e del sentito e dunque del senziente rispetto all'atto del sentire. L'atto si presenta bensì come immediata identità di soggettivo e di oggettivo; ma proprio questo implica l'astrazione da un'esteriorità reciproca che la riflessione mette in mostra in un momento successivo: « la riflessione della coscienza è la successiva differenziazione di soggettivo e oggettivo; sentire è appunto forma dell'identità, il togliere questa separazione; astrae da soggettività e oggettività, - questa è un'ulteriore riflessione ».84 Nel chiarire la natura del sentire lo Stagirita getta, secondo Hegel, « ... profondi e chiari sguardi sulla natura della coscienza ».85 L'unità del senziente e del sentito, posta come atto nella sua immediatezza: è questo per Hegel a determinare la passività del sentire, in quanto l'atto è qui qualcosa di trovato, di posto nella sua immediatezza accanto e di contro alla potenza del sentire, per cui si pone allo stesso tempo come un che di esteriore rispetto a questo che per parte sua lo subisce. L'atto e la potenza sono posti l'uno contro l'altro. E in questo senso il sentire presuppone un che di esteriore ad esso che lo precede. Ma per altro verso il senso più radicale dell'atto non entra qui ancora in gioco. Solo come pensare, solo nell'ambito della trattazione del nùs, l'atto acquista tale senso. Enfatizzando, rispetto a quanto si trova in Aristotele,86 la differenza tra Empfinden e Denken, tra senso e intelletto, Hegel si sforza di svolgere a questo punto i passaggi im-
84. GPh II, p. 211. 85. GPh II, p. 210. 86. Ma Hegel come si è detto non manca di dichiarare questa sottolineatura: «si ha solo l'apparenza che si parli del pensare accanto ad altro; questa forma della giustapposizione (Nacheinander) appare certamente in Aristotele. Ma quanto egli dice sul pensiero è per sé !'assolutamente speculativo e non sta accanto ad altro, per es. alla sensazione, che soltanto dynamis è per il pensiero. Più precisamente il fatto sta in ~iò, che il nùs è tutto, che è in sé totalità, il vero in generale secondo il suo tn-sé il pensiero, e poi però in-sé e per-sé il pensare, quest'attività che è il per-sé e l'in-sé e per-sé, il pensiero cli pensiero, che è determinato in modo così astratto, ma che costituisce per sé la natura dello spirito assoluto» (GPh II, p. 219). Cfr. le citazioni da manoscritti di uditori in W. KERN, Die Aristotelesdeutung etc., cit., p. 255.
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pliciti che provino la saldezza del vincolo tra intelligibile e intelligenza in Aristotele. In problema non è il noetòn ma il nùs: non si tratta, per Hegel, di porre il nùs come principio, non si tratta di porre a principio la potenza del pensare rispetto al termine che esso allora «produce». In realtà, nell'interpretazione hegeliana, è l'intelligibile come oggetto del pensare a costituire l'in-sé, la potenza. E ciò perché esso, come atto in rapporto alla potenza (come forma degli oggetti sensibili, « finiti», di fronte alla materia come potenza) è fuori dal suo termine più proprio, è potenza di astrazione rispetto al proprio termine. L'atto è infatti ancora solo potenzialmente tale quando è l'universale distinto dalle cose come loro forma, e in generale quando è distinto come intelligibile dalla potenza (e quindi dal pensare stesso come potenza di forma}: «le cose finite, gli stadi (Zustande} finiti dello spirito sono quelli nei quali non è presente quest'identità di soggettivo e oggettivo. Qui essi sono l'uno fuori dell'altro; qui il nùs è solo dynàmei, non come entelechia ».87 Il momento della distinzione dell'intelligibile come atto è ancora un momento potenziale. Ma nel nùs il rapporto tra potenza e atto viene posto, secondo Hegel, in un modo più radicale: infatti «la possibilità appartiene alla sua stessa ùsia - il pensare è questo, di non essere in sé ». 83 Qui infatti la potenza è « senza materia», o appartiene all'atto stesso in quanto si distingue da sé. E a questo punto si determina quello che poi può essere considerato come un ribaltamento hegeliano della posizione aristotelica: è il pensare, cioè, quello che viene concepito come atto. Tuttavia l'identificazione dell'atto con il pensare non è spiegabile come semplice fraintendimento idealistico della posizione dello Stagirita: al contrario è proprio dalla rimeditazione dell'atto aristotelico che Hegel fa emergere questa sua posizione. Il pensare è anche potenza, afferma Hegel interpretando De An III, 4. Ma nel nùs, che è impassibile (apathès), non mescolato (amighès), la potenza va pensata in termini divisi da ciò che essa è per l'anima senziente. Ora la potenza è l'intelligibile stesso (che per un verso, come forma, è atto) in quanto posto come altro dal pensare stesso, e quindi posto come oggetto ma identicamente « privato della forma di un oggettivo ».89 Per Hegel qui il gioco è dentro l'atto stesso. In un quaderno anonimo di appunti delle lezioni del WS 1819/20 leggiamo: «molto notevole come Aristotele si impegna con questa opposizione di oggettività e soggettività. - Come conoscente il nùs 87. GPh II, p. 217. 88. GPh II, p. 213. 89. GPh II, p. 212.
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è in quiete (ruhig), si rapporta a se stesso in ciò che in rapporto alla coscienza si chiama oggetto ».90 L'atto stesso nel pensare si pone come potenza rispetto a ciò che esso è, si pone come momento universale (forma che è potenza in quanto non tale rispetto alla materia ma rispetto alla forma stessa come sostrato) rispetto a quell' « universale concreto » che in questo caso (in cui ci troviamo di fronte a una « potenza senza materia ») è l'atto che termina o compie soltanto se stesso: «il nùs passivo è ora ogni pensato. Per l'anima pensante l'anima senziente è dunque soltanto il nùs passivo. Il pensare assoluto si rende universale ». 91 L'intelligibile stesso, a questo punto, è potenza (o hegelianamente in-sé, oggetto), senza materia, di ciò che esso stesso è come altro da questo, come forma o intelligibile appunto. Ed è proprio in questo limite che scatta l'inversione hegeliana: se l'intelligibile stesso, divenuto in quanto tale oggetto di concetto, è rispetto a quest'ultimo potenza, esso allora ha atto in quanto si pone come termine non di altro (di una materia) ma di sé, ossia perché rende indeterminata la forma, in quanto non diversa dalla potenza ma solo da se stessa. L'intelligibile « si fa» tale, «si fa intelletto passivo »,92 rispetto a una sua forma immanente che è per Hegel il pensare in quanto vincolo interno del1'atto a se stesso - in quanto atto che è diverso da se stesso (e perciò è per un verso potenza di forma), ma che per altro verso è identico con sé (perché ha posto sé come contenuto indeterminato di sé come forma, e cioé ha reso l'intelligibile potenza di una sua immanente forma). Da questa dialettica che fissa un'identità di soggettivo e oggettivo dentro l'atto Hegel può fare emergere la differenza di potenza e atto (tale da spezzare e ricomporre l'identità e la «purezza» dell'atto primo) come atto nel senso più proprio. E il pensare come identità di potenza e atto può allora diventare per il filosofo tedesco la chiave per intendere fino in fondo l'atto aristotelico ripercorso nella sua complessità. Non è tanto l'identificazione assoluta dell'intelletto con gli intelligibili il punto di distacco, di alterazione decisiva di senso, della lettura hegeliana del testo del De An,93 quanto piuttosto la dialettiz-
90. Citato in W. KERN, Die Aristotelesdeutung etc., p. 252. 91. Citazione da manoscritto di anonimo, SS 1820, ibid., p. 253. 92. GPh II, p. 213. 93. Questo è quanto affermato da Kern, il quale fa notare come nella traduzione di De An, III, 8, 431 b 21, fi 'ljrUJ(-r] OV'tlla presenzialità, esser compreso come ciò che è (west) nello stato dell'esser-pro-dotto (Hervor-gebrachtheit). Questo stato è l'esser-presente dell'essente-presente. L'essere dell'ente è allora l'enèrgheia ». 101 Il
98. Ibid., p. 425 (tr. it. p. 97). 99. lbid., pp. 431-2 (tr. it. p. 103). 100. lbid., p. 435 (tr. it. p. 107). 101. M. HEIDEGGER, Der Spruch des Anax., cit., p. 342 (tr. it., modificata, p. 346). Sull'enèrgheia, oltre i testi qui e più avanti esaminati, dr. M. HEIDEGGER, Seminario di Le Thor 1968, in Vier Seminare, cit., pp. 48-50.
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non ancora della filosofia greca, in questa prospettiva, è ciò che rimane impensato e ancora « da pensare» nell'alètheia; non tanto il compimento dell'Anwesende nel raccoglimento dialettico dell'Anwesenheit, secondo il «non ancora» che Hegel legge nel pensiero greco, quanto piuttosto l'accadere fondamentale del disvelamento, o l'èinai svincolato dal suo rapporto al soggetto e liberato nella sua propria essenza: e quest'essenza è bensì l'An-wesen, ma questa volta restituito a quell'evento interno ad esso che ne assicura il senso essenziale, «il rimanere-davanti uscendo dalla velatezza nella disvelatezza (das aus der Verborgenheit ber in die Unverborgenheit vor-Wahren) », per cui « nell'esser-pre-sente (Anwesen) agisce il disvelamento (Entbergung) ». 102 La Unverborgenheit compresa a partire dall'Entbergung, la non-ascosità concepita a partire dal disvelamento, è la verità che riceve la sua determinazione dallo « slargo del velarsi (Lichtung des Sichverbergens) »,103 cioè dal mantenersi della differenza differente dallo stato di disvelatezza e nella radice della disvelatezza. Lo stesso Hegel pensa impropriamente, perché pensa in realtà alla luce della differenza così concepita, alla luce dell'enigma dell'alètheia: « ... ci si presenta l'ulteriore domanda, se il disvelamento abbia il suo luogo nello spirito come soggetto assoluto, oppure se il disvelamento stesso sia il luogo e indichi il luogo in cui soltanto qualcosa come un soggetto che si dà rappresentazioni può ' essere ' ciò che esso è ». 104 Dal punto di vista dell'alètheia Heidegger riesamina il rapporto di Hegel alla metafisica per scorgervi I'« impensato», l'Ungedachte che si nasconde nell'oblio, la differenza in quanto differenza. Ciò che permette di concepire la metafisica nella sua essenza è un « passo indietro (Schritt zuri.ick) » per mezzo del quale il pensare si volge a quella propria radice oltre la quale e però a partire dalla quale esso, come pensare rappresentativo, pensa sempre secondo la differenza tra l'ente e l'essere. 105 La metafisica pensa secondo la differenza, ma non pensa la differenza in quanto tale: essa pensa nello schema rappresentativo dell'oggetto che si presenta al pensare nella rappresentazione fino al soggetto che presenta sé a se
102. M. HEIDEGGER, H. u. d. Griechen, cit., p. 435 (tr. it. p. 107). 103. lbid., p. 437 (tr. it. p. 109) 104. Ibid., p. 434 (tr. it. p. 106). Lo stesso Hegel, peraltro, secondo Heidegger, avverte la limitatezza del porre (setzen) dialettico dell'assoluto, della « sintesi» che viene dalla riflessione, con la contraddizione che c'è in ogni pro-durre, in ogni « erscheinen Lassen », nel lasciar apparire: questa contraddizione e la necessità di eliminarla, cioè di mantenere l'assoluto nell'alètheia, rendono Hegel vorsichtig, prudente, nella riflessione dell'assoluto (dr. M. HEIDEGGER, Vier Seminare, cit., pp. 61-62). 105. Cfr. M. HEIDEGGER, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, in Identitat und Difjerenz, Pfullingen 19786, pp. 38 e 54.
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stesso; esso rappresenta per questo sempre a partire dalla presenza ossia sempre i differenti, ciò che vien fuori dalla differenza com~ essere dell'ente e come ente dell'essere, in modo sempre duale, «come l'essere dell'ente in generale e come l'essere dell'ente in quanto supremo (Hochsten) ». 106 La metafisica è secondo Heidegger intrinsecamente onta-teologica secondo un piano della differenza, dell'essere, della cosa (Sache) del pensare, che si discosta dall'ambito «elevante-raccogliente » dell'Aufheben hegeliano, e rimanendo lo stesso ma non l'eguale (« das Selbe ist nicht das Gleiche ») 107 rispetto alla dialettica hegeliana, attraverso il «passo indietro» si libera in un Gegenuber, « il quale Gegenuber (di fronte) può rimanere assolutamente senza oggetto (gegenstandslos) ». 108 Attraverso il « dis-allontanamento (Ent-fernung) » prodotto dal «passo indietro » si può pensare in quel Gegenuber in cui la differenza resta radicalmente distinta da ciò che essa è in quanto resa oggetto, espressa fuori di sé come dialettica, cioè come essere dell'ente, entità dell'ente. Il Gegenuber non è in questo modo la negazione della differenza intesa come dialettica, non è un altro oggetto, ma ciò che della differenza rimane sottratto a ciò che essa stessa è, a ciò in cui essa stessa arriva: il Gegenuber non ha una determinazione oggettiva che gli corrisponde, con cui è in rapporto di adeguazione; ma indica lo stesso trascendere della differenza di fronte a ciò in cui si manifesta. Esso indica la differenza in quanto differenza, nel suo scorrere e portare reciprocamente fuori gli estremi oggettivi nei quali si divide. Questo «portar fuori (Austrag) » è il punto di prospettiva « svelante-velante» dal quale si comprende la differenza tra essere ed ente, Sein e Seiende. L'essere dell'ente è l'ente in senso transitivo-trascendente, cioè si dà nell'ente trascendendo, a partire da una differenza (Unter-schied) secondo la quale esso (Es), l'essere, lascia essere l'essere e l'ente nel loro rapporto.« L'essere passa in (ciò) (geht i.iber [das] hin), sopraggiunge svelando su (ciò) (kommt entbergend i.iber [das]) che solo (erst) mediante un tale sopravvento COberkommnis) arriva come disvelato a partire da sé ( als von sich her Unverborgenes ankommt). Arrivo significa: velarsi nella disvelatezza: perdurare come velato: essere essente (als geborgen anwahren: Seiendes sein). L'essere si mostra (zeigt sich) come lo svelante sopravvento. L'ente come tale si manifesta (erscheint) nel modo dell'arrivo autovelantesi
106. Ibid., p. 63. 107. Ibid., rispettivamente p. 39 e p. 35. 108. Ibid., p. 56.
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nella disvelatezza (in die Unverborgenheit) ». 109 L'essere è il transitivotrascendente, la differenza che si sottrae svelando, trapassando in quell'essere disvelato, l'ente, che, mediante il nascondersi dell'essere nel trapassare nella disvelatezza, nella Unverborgenheit, nella verità; mediante il trascendere, da parte dell'essere, ciò e in ciò che svela, e di fronte a cui sich zeigt, indica sé; - mediante tutto questo, appare (erscheint) come non-nascosto, svelato a partire da sé, come ciò che arriva nella Unverborgenheit. L'essere trascende come differenza ciò che esso stesso è come trascendimento dell'ente e nell'ente. L'essere non si può pensare se non nella differenza già differente da tutto ciò che a partire da essa si può pensare, come ciò che trascende i differenti e nei differenti. Rispetto a questo piano della differenza la metafisica fino a Hegel è, secondo Heidegger, onto-teo-logica. Essa ha « ... la sua origine essenziale nelI'Austrag (portar fuori), che dà inizio alla storia della metafisica, domina le sue epoche, ma rimane tuttavia dappertutto occultata e perciò obliata in un oblio che si sottrae anche a se stesso ». 110 La metafisica è necessitata a pensare in modo duale proprio dal1'Austrag che domina nell'oblio e come oblio di sé: essa pensa per un verso l'essere come fondamento dell'ente, e per altro verso l'ente, in quanto ente supremo, in quanto «pienezza dell'essere», come fondamento dell'essere, mentre le rimane nascosta la radice unitaria, anzi unica, che si avvicenda nei differenti. L'essere, infatti, fonda (griindet) l'ente nel senso che trascendendolo e transitando in esso produce l'ente e il suo fondamento. L'ente a sua volta, come fondato, in quanto è « l'arrivo che si vela nella svelatezza », in quanto è l'essere compiuto e nascosto nel suo esito, in quanto è la compiutezza dell'essere, a sua volta fonda (begri.indet) come ente supremo, nel senso che contiene e ridà il fondamento dell'essere.m La metafisica subisce il dominio di questo rapporto scambievole del fondare senza poterne cogliere la radice che, al di là del pensiero rappresentativo e oggettivante, è pensabile soltanto spostandosi in ciò che rimane sempre di fronte a ciò che mediante questo e a partire da questo è possibile pensare. In quell'essere che noi sempre già siamo al di qua di ciò che pensiamo c'è ancora una volta custodito l'enigma del pensare. Staccandoci, mediante il salto (Sprung), dal pensare rappresentativo, possiamo comprendere positivamente l'Austrag come Ereignis, come
109. Ibid. 110. Ibid., p. 60. 111. Cfr. ibid., pp. 60-61.
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evento indicante l'incontro, il raggiungersi reciproco di essere e uomo. « L'Ereignis unifica uomo ed essere nel loro essenziale ' insieme ' »; 112 ma non lo raggiungeremo « ... fìntantocché ci limitiamo a rappresentare (vorstellen) il salto e cioè nell'orizzonte (Gesichtskreis) del pensare metafisico ». Lo raggiungeremo invece « ... in quanto saltiamo e ci lasciamo andare. Dove? Là dove siamo già immessi: nell'appartenere all'essere. Ma l'essere stesso appartiene a noi; poiché solo presso di noi l'essere può essere (wesen), cioè esser-presente (anwesen) ». 113 Ed ecco che la differenza torna a radicarsi nel Da-sein: il Sein non è senza la sua Beziehung, senza la sua relazione al Dasein, come ricorda Heidegger in una delle sue ultime meditazioni.114 La riflessione sulla differenza porta Heidegger a mantenere costantemente aperto il rapporto con Hegel e con la metafisica greca secondo un piano di questioni rispetto al quale questi due momenti della storia del pensare rimangono in una reciproca coappartenenza. La questione della differenza intrinseca all'essere e al pensare dà al rapporto tra « Hegel e i greci » un valore speculativo prima ancora che storico. E proprio rispetto a questa questione è da esaminare la validità del giudizio heideggeriano su Hegel e Aristotele. Heidegger ricava la propria posizione da quello che ritiene essere il « nonpensato » della storia della metafisica fino a Hegel, cioè l'essere come differenza oltre l'essere dell'ente che rimane il livello di questione costante nella storia della metafisica: l'essere come sostanza o come soggetto non è l'essere nella sua nascosta essenza. E in questo senso la differenza proposta dalla tradizione metafisica attraverso l'Umkehrung, il rivolgimento del pensare ordinario (l'òn hè òn di Aristotele e il W erden dialettico hegeliano), viene criticata proprio nella sua pretesa di costituire la differenza.
112. M. HEIDEGGER, Der Satz der Identitiit, in Id. und Di/J., cit., p. 27. 113. lbid., p. 20. 114. M. HEIDEGGER, Vier Seminare, cit., p. 109.
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III Secondo l'impianto :6no ad ora analizzato, la contesa con Hegel è fondata, da parte di Heidegger, sulla coscienza di un'estrema vicinanza, poiché anche Hegel si è impegnato a pensare col «non-ancora» della metafisica 115 la non-pensata differenza che domina nell'òn hè òn. Ed è in un certo senso per la differenza che Hegel pensa l'essere, oltre l'essere determinato, in quel modo che poi è al centro della contestazione heideggeriana. Nell'apertura della «dottrina dell'essere » dell'Enciclopedia si legge: «l'essere è il concetto soltanto in sé (an sich); le determinazioni dell'essere sono essenti (sind Seiende ), nella loro differenza altre le une rispetto alle altre (in ihrem Unterschiede Andre g';egeneinander), e la loro ulteriore determinazione (la forma del dialettico) è un trapassare in altro (ein Obergehen in Anderes ). Questa ulteriore determinazione è, insieme, un por fuori (Heraussetzen) e con ciò uno svolgere (Entfalten) del concetto in sé essente (des an sich seiendes Begriffs) e parimenti l'insearsi (zugleich das Insichgehen) dell'essere, un profondarsi di questo in se stesso. L'esplicamento del concetto nella sfera dell'essere diventa la totalità dell'essere; e parimenti con ciò vien superata l'immediatezza dell'essere, o la forma dell'essere come tale ». 116 L'essere è il concetto nella sua immediatezza, e come tale si mostra per un certo verso come essere dell'ente, come ciò che è, e che è dunque determinato come seiend, come essente, e perciò ancora come diverso e come altro da ciò che, essendo
115. Cfr. M. HEIDE.GGER, Die onto-theo-logische etc., cit., p. 35. Una significativa « C?nfessione » della cogenza del suo rapporto a Hegel la troviamo in una lettera di
He1degger a Gadamer del 2.12.1971 (cfr. H.-G. GADAMER, La dialettica di Hegel, a cura di R. DOTTORI, Torino 1973, p. 150). «Negli ultimi decenni Heidegger ha pensato a partire dalla vicinanza con Hegel, cioè dall'Auseinandersetzung proprio con la filosofia come scienza di Hegel » (0. P6GGELER, Recensione a M. HEIDEGGER, Vier Seminare, in « Hegel-Studien », 13, 1978, p. 333 ). 116. Enz § 84 (tr. it., parzialmente modificata).
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determinato come diverso, è pure seiend: l'essere in quanto ente è dunque in un certo senso un passare, un Obergehen in altro. Questo passare è spiegato da Hegel come un por fuori e uno svolgimento che riguarda il concetto in quanto in sé essente (qui il genitivo usato da Hegel è pensato in tutta la sua ambivalenza), cioè come un qualcosa ( « la forma del dialettico ») che si muove secondo un principio che è intrinseco al concetto in sé essente, ma lo sorpassa e corrisponde a un andare dell'essere dentro di sé, un muoversi verso quella totalità dell'essere nella quale è tolta la forma dell'essere come tale. L'essere è pensato come un porre fuori e un pervenire nell'ente, e parimenti, in questo porre fuori, come un andare in se stesso, un profondare nel più proprio sé, in qualcosa di diverso dal suo arrivo nell'ente. Pensare l'essere dunque, anche secondo Hegel, significa pensarlo secondo una differenza che ne determina l'intrinseco movimento. Solo che l'essere, non solamente l'essere determinato contro altro, ma l'essere libero da questa determinatezza contro altro, non ha secondo Hegel differenza in se stesso. E ciò in un senso del tutto diverso da quello nel quale lo riduce la critica heideggeriana all'essere hegeliano in quanto pensato come « semplice » essere, cioè da quella che viene intesa da Heidegger come la riduzione hegeliana dell'essere al rappresentato del e per il soggetto. Il « puro essere » è infatti per Hegel l'essere che sta oltre ogni determinatezza e che, come «puro essere » appunto, rigetta e anticipa a sua volta ogni « partizione anticipata». Esso sta non solo contro ogni essere determinato, ma anche e più radicalmente contro se stesso, dal momento che, se per un verso « esso è scevro dalla determinatezza rispetto all'essenza (frei von der Bestimmtheit gegen das Wesen), com'è ancora scevro da ogni altra determinatezza che possa conseguire dentro se stesso (innerhalb seiner selbst erhalten). Questo essere irriflesso è l'essere com'è immediatamente soltanto in lui stesso (an ihm selber) »; per altro verso « ... in sé (an sich) il carattere dell'indeterminatezza non gli compete (kommt ihm ... zu) che per contrapposto al determinato, ossia al qualitativo ». 117 L'essere come immediato indeterminato è dunque hegelianamente l'essere che si sottrae alla corrispondenza reciproca di indeterminato e determinato, che si trattiene nel limite di ogni determinato (e rappresentabile), che anticipa e trascende la propria inclusione nell'orizzonte del determinato, del Da-sein. Dell'essere in sé come Obergehen, come passare in altro, cioè come porre fuori e Insichgehen, andare in sé, l'essere come immediato indeterminato è in qualche modo l'aspetto della sua differenza dall'ente;
117. WL I, p. 66 (tr. it. p. 69).
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esso è cioè l'essere in quanto sta prima dello Heraussetzen e dell'Insichgehen che riguardano l'essere stesso, dividendone e tenendone assieme il Wesen e la Bestimmtheit. Esso è l'essere « libero dalla determinatezza contro l'essenza». Per un certo verso, pertanto, il «puro essere » hegeliano si colloca in quella differenza che lo pone come differente dallo stesso essere determinato dell'essere contro altro e in se stesso (e in tal senso è rigettata la partizione anticipata), e quindi differente dal passare dell'essere nell'ente e nell'essenza. Ma, per altro verso, l'essere pensato a partire da quest'anticipazione è hegelianamente l'essere senza differenza: l'essere che, stando a principio, è per un verso indeterminato, e, in quanto indeterminato, è determinato. Cioè l'essere che, proprio in quanto anticipa ogni mediazione e partizione, è identico col vuoto di sé e coincide con ciò che esso non è in quanto incluso come « singola determinatezza » 118 nella sfera della qualità. L'essere che si trattiene al di qua della sua inclusione nel qualitativo; l'essere che anticipa il suo essere pensato come altro, costituendo una sorta di materia del pensare, a partire dalla quale il pensare pensa, è lo stesso vuoto della sua determinazione ed è lo stesso che il vuoto della sua determinazione: in tal senso un tale essere non è altro che il contrario di se stesso, o è ciò che potremmo chiamare l'aporeticità del determinato nel suo principio, poiché esso, in quanto è e rimane identico a sé, non termina in questo stesso ma nel vuoto di questa determinazione, e viceversa, in quanto è il vuoto, termina in esso ed è dunque in questa determinazione. L'essere puro del cominciamento, in quanto libero da distinzione o determinatezza, è propriamente in quanto esclusione da ogni inclu-
118. WL I, p. 65 (tr. it. p. 67). A proposito del cominciamento, Vitiello vede in esso uno dei punti di più significativa vicinanza al pensiero heideggeriano sull'origine che si sottrae, o sull'originario sottrarsi. Il primo del cominciamento non si risolve mai del tutto nell'ultimo (il concetto, l'idea) come dimostra l'affermazione hegeliana che esso resta Grundlage, fondamento che si conserva in tutti gli sviluppi successivi (cfr. V. VITIELLO, Dialettica ed ermeneutica, cit., p. 100). Se si legge secondo questa irriducibile circolarità la Scienza della logica, si scorge secondo Vitiello la non esaustività del recupero dell'essenza da parte del concetto, per cui il Wesen resta sempre un di là, che « ... nel darsi, nel dar origine al concetto, ossia nel manifestarsi si ritrae ... » (~bid., p. 41). « Il W esen, il W esen che resta contrapposto al Begriff, è I'' in-sé ' che st sottrae al rapporto del ' per sé ', pur entrando in esso e giusto quando entra in esso. È quell'identità che già in qualche misura s'annunziava nell'andare a fondo del fondo: è quell'identità che è la differenza pura, semplice, che si sottrae a ogni differenza che pure alimenta» (ibid., p. 97). L'abbandono dell'orientamento teleologico dell'in-s.é sul per-sé, ancora presente in Hegel secondo la tradizione metafisica, è ciò che ri:e1degger porta a compimento (cfr. ibid., pp. 104-5). Pur rimanendo estremamente valido l'accostamento tra Hegel e Heidegger su questo punto, mi sembra che non si possa scomporre nel modo indicato da Vitiello la contrazione aporetica della differenza nel cominciamento hegeliano.
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sione nel determinato, ed è il principio in quanto divenuto dunque l'intrinseco dell'essere in quanto determinato, e cioè il principio in quanto posto a principio di ogni determinato. L'essere come immediato indeterminato occupa in tal senso per Hegel il posto del principio o della differenza in quanto diversa dai differenti, e diversa dal suo essere differente (o semplicemente eguale a sé): e però proprio a questo livello l'essere non è hegelianamente principio in senso proprio o non ha differenza in sé, perché del principio esso è l'esser passato nello stare a principio di ogni determinato, l'esser divenuto l'escluso di ogni inclusione nella determinatezza e distinzione, l'esser divenuto il semplice identico. Pertanto se in lui (an ihm), cioè nel limite di questo suo anticipare ogni determinatezza, l'essere è libero da qualità, in sé (an sich), cioè secondo il piano che comprende l'esclusione e che non passa nell'essere escluso, questo carattere d'indeterminatezza perviene (kommt ... zu) all'essere in opposizione contro il determinato, contro il proprio essere determinato, e pertanto lo riguarda come quella Verlegenheit, quel carattere aporetico che Hegel ha individuato nel determinato nel suo principio. L'essere non dice la differenza proprio perché a partire da esso, dal suo sottrarsi alla partizione, i differenti sono tali: in questo esso riceve il carattere aporetico da una natura del principio che custodisce in unità la differenza, e che dice la verità di essere e nulla come il loro « essere in uno ( Sein in Einem) »,119 cioè con un principio dell'essere che non coincide col
119. WL I, p. 78 (tr. it. p. 82). Theunissen ha insistito di recente sulla Doppelbodigkeit, sul «doppio fondo» dell'Anfang hegeliano, che esclude una corrispondenza del rapporto aristotelico tra primo per natura e primo per noi da una parte e quello hegeliano tra Erste im Gange des Denkens e Prius fiir das Denken. All'interno dello stesso Anfang è presente in Hegel, secondo Theunissen, il vero Anfang, il « wahrhaft Urspriingliche », ma non come presupposto immediato, come qualcosa di già dato, bensl come I'« absolute Anfang » che coincide con la fine e il cui « progressivo svelamento (Enthiillung} » costituisce il corso della logica. Questo Anfang che «fa» il cominciamento, che si presenta attivamente nell'apparente cominciamento, mette in moto un « andare indietro al fondamento » che Heidegger ingiustamente non contempla quando contrappone al metodo hegeliano il proprio «passo indietro»: in realtà però tra le due posizioni c'è una differenza fondamentale, cioè la critica hegeliana al «pensiero dell'immediatezza», che va secondo Theunissen «da Jacobi fino a Heidegger » {dr. M. THEUNISSEN, Sein und Schein, cit., pp. 202-5. Cfr. anche le pagine cli Theunissen in H. F. FuLDA, P. HoRSTMANN, M. THEUNISSEN, Kritische Darstellung der Metaphysik. Bine Diskussion iiber Hegels 'Logik ', Frankfurt a.M. 1980, in part. pp. 65-6). Per Nicolaci Hegel assume nel cominciamento la distanza aperta dal filosofare aristotelico fra « l'essere e il logo »: « non si può non cominciare dall'essere » anche secondo Hegel, in un modo che per un verso radicalizza il presupposto aristotelico e per altro verso lo ribalta, nel senso che, rendendo esplicito l'impianto concettuale dell'assunzione di un tale presupposto, «non rinuncia a cominciare secondo se stesso nello stesso punto in cui comincia dall'essere» (G. NrcOLACI, Riassunzione originaria etc., cit., pp. 136-7).
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semplice essere, o coincide con un essere che non è soltanto essere. Questo terzo in cui essere e nulla sono non è dato insieme con ciò a partire dal quale si pensa, perché si trattiene nel suo divenire l'essere come l'intrinseco del pensare, ossia mantiene l'essere vincolato aporeticamente a un qualcosa da cui esso si ritrova libero come cominciamento. L'essere come differenza è per Hegel, potremmo dire, la differenza divenuta « soltanto» l'intrinseco di tutto ciò da cui essa rimane esclusa; in quanto l'essere è ciò a partire da cui ogni determinato è tale. L'essere puro del cominciamento costituisce il carattere aporetico del determinato: esso cioè è radicato in un'aporia {la Verlegenheit del cominciamento) il cui carattere proprio non è pensabile (ma solo opinabile) secondo la differenza fissata concettualmente in questi termini. La differenza non è come essere ed è come differenza (come idea), ossia non può essere pensata indipendentemente dal suo costituirsi come tale, cioè dal coincidere col suo togliersi e dal non coincidere col suo terminare nell'identità con sé. Indipendentemente da questo la differenza non è o è l'essere puro nella sua aporeticità, la differenza ristretta nella trascendenza di se stessa. Il rapporto di Hegel alla metafisica classica non è pensabile a partire da un essere cosl concepito, se non nella misura in cui se ne determini l'aporeticità. Ma rispetto a questo piano di rapporto (che in realtà lega Hegel al carattere essenziale della metafisica in senso aristotelico) risulta insufficiente la heideggeriana « concezione onto-teo-logica della metafisica », poiché ad essa rimangono estranee le ragioni più proprie di quel vincolo. Per Hegel non è possibile pensare l'essere come fondamento e dunque nel senso spiegato da Heidegger di essere come « logos raccogliente»; poiché l'essere non è in sé ciò che è in lui, ma in sé esso è l'esito contraddittorio di un principio che si mantiene tutto immanente al proprio passare nell'essere sia in quanto determinato sia in quanto intrinseco all'essere determinato: un principio che non può essere inteso come l'essere dell'ente, e d'altra parte nemmeno soltanto come l'essere che, anticipando e rigettando la sua determinatezza come essere dell'ente, si pone come l'indeterminato che, libero da qualità, costituisce quel sottrarsi dell'essere a partire dal quale l'essere e l'ente vengono messi in gioco fra loro. La metafisica, pensata secondo il concetto heideggeriano di ontologia, risulta pertanto un orizzonte inadeguato alla comprensione dell'essere hegeliano: questo corrisponde a se stesso soltanto se si tien ferma la contraddizione ad esso inerente, se lo si concepisce in quella determinazione che lo costituisce come diverso da sé e però in questo come identico a se stesso, ossia se lo si concepisce come l'idea. 174 Mauritius_in_libris
Ma l'idea non può essere intesa, da questo punto di vista, come uno dei modi epocali di comprensione dell'essere, perché essa segna invece una radicale improprietà dell'essere come fondamento. E improprio esso lo è a maggior ragione nel suo essere in lui sottratto alla determinatezza, perché questo sottrarsi altro non è che la contraddittorietà del puro essere secondo una natura del principio che non è possibile pensare propriamente a principio. Per questo il puro essere è il vuoto di tutto ciò che si pensa e che si pensa di esso: esso esprime l'indicibilità della differenza a principio o il fatto che l'essere, cosi concepito, è soltanto la trascendenza di e nell'ente, e perciò soltanto la trascendenza di se stesso in quanto terminante nell'ente. La differenza, nell'essere puro, si potrebbe definire come la differenza senza se stessa per mezzo di se stessa: pensare dalla differenza così intesa significa dunque in realtà per Hegel pensare dal principio in quanto posto soltanto a principio, e dunque necessariamente dall'indicibilità della differenza. Rispetto a questa prospettiva, parlare di « modo inadeguato » e « sempre soltanto insufficiente » a proposito del dire della differenza 120 risulta una copertura e una sorta di esercizio retorico di un'impossibilità costitutiva della differenza in quanto data. E altrettanto retorico risulta il proiettarsi verso un « ancora da pensare » che sarebbe la Vergessenheit, l'oblio della differenza. «L'oblio che qui si ha da pensare è il velamento (Verhiillung), pensato a partire dalla lèthe (Verbergung, coprimento), della differenza come tale, il quale velamento per parte sua si è sottratto inizialmente (anfanglich). L'oblio appartiene alla differenza perché questa appartiene a quello ».121 Ciò che è rimasto impensato nella storia della metafisica, tiene a puntualizzare Heidegger, non può essere compreso come una sorta di soggetto nascosto di questa storia, senza ricadere nella dinamica onta-teologica della metafisica, senza rimanere cioè nell'ambito, tipicamente hegeliano, di« un problema tramandato (i.iberkommenes), già posto»; ma dev'essere portato, mediante il passo indietro, in ciò che si trattiene di fronte a questa impensata differenza e perciò è sempre «da pensare » rispetto a tutto ciò che si pensa. Dev'essere portato, in altri termini, in quell'oblio che è la Verhullung compresa dalla Verbergung, il velamento compreso a partire dal coprimento della differenza in quanto tale: ossia in quel sottrarsi iniziale, a principio, anfanglich, della differenza in quanto tale a ciò che essa stessa è in quanto non-svelata (in quanto compresa nell'orizzonte della svela-
120. M. HEIDEGGER, Die onto-theo-logische etc., cit., pp. 57-8. 121. lbid., pp. 40-41.
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tezza). Ciò che è rimasto impensato è in questo senso appunto, più propriamente, ciò che rimane ancora e sempre da pensare, ancora e sempre impensato, puramente pensabile; ossia ciò che si è sottratto, dal lato del suo essere escluso da ogni scopertura, dal lato del suo escludersi nel vero. La differenza resta tutta sprofondata nella lèthe. Nell'oscillazione heideggeriana tra l'« impensato» e l'«ancora da pensare» sembra consumarsi una sorta di retorizzazione dell'ontologia, poiché il carattere costitutivamente onto-teo-logico che Heidegger riscontra in essa, la necessaria duplicazione e il rimando reciproco del fondare (griinden) come proprio dell'essere universalissimo, e del fondare o dar fondamento (begriinden) proprio del fondato in se stesso, dell'ente sommo, dell'essere nella sua pienezza - tale carattere viene ripetuto nel rimando infinito della differenza tra ciò che essa è come l'« impensato» dei termini ai quali si sottrae, e ciò che essa è come il « da pensare » che riceve la propria possibilità dal rimanere di fronte a questo sottrarsi, dal rimanere, diversamente dall'impensato della metafisica, l'impensato in quanto tale. Dell'ontologia, proprio pensata in termini heideggeriani, il discorso di Heidegger conserva e subisce la necessità di pensare la differenza in quanto tale secondo la doppiezza cui la natura rappresentativa e soggettiva del discorso onto-logico riduce l'essere come differenza: l'essere come differenza, portato dal «passo indietro » nel suo Gegenuber, risulta per un verso caratterizzato nel senso della «più ampia e indeterminata universalità ». 122 Ma questa lascia oltre la propria inadeguatezza quell'ancora da pensare che rinvia il senso di quest'essere, per altro verso, al sottrarsi in quanto tale, al sottrarsi compreso a partire dal sottrarsi (la Verhullung compresa dalla Verbergung), a partire dunque da quell'essere libero dalla (di fronte alla) stessa indeterminata universalità che lo rende, come impensato, «da pensare », pensabile: ossia in qualche modo, in quanto diverso dal suo essere soggetto (metafisico), diverso come essere che è veramente (secondo l'accadere dell'Entbergen e del Verbergen) a principio e che cosl conquista una sua singolarissima specificità, poiché è l'essere che termina soltanto in se stesso: è un einzigartiger Sachverhalt, un modo di comportarsi unico della «cosa» del pensare (ivi). Nell' «essenza non pensata della metafisica » Heidegger ripete insomma l'oscillazione, che egli critica nella metafisica, tra l'essere
122. Ibid., p. 57.
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come universale sottraentesi (o transitante) e l'essere come arrivo e pieno compimento di se stesso. E paradossalmente (rispetto all'architettura concettuale heideggeriana) questo discorso sembra rimanere peraltro vincolato a una costituzione radicale della metafisica che risulta impensata, ma che, in quanto impensata all'interno della metafisica, risulta impensabile. La metafisica viene insomma a mostrarsi costituita in maniera tale che sembra non si possa pensarne il principio fuori di essa, senza riproporne in qualche modo la costituzione. Ciò che resta escluso da questa dinamica costitutiva potrebbe essere soltanto il principio della stessa metafisica in quanto non termini fuori di sé ma in se stesso: epperò in quanto tale esso sembra essere ancora una volta il principio in quanto costituito, in quanto metafisico. Heidegger si muove senza dubbio all'interno di quest'aporia che interessa l'ambito più profondo della speculazione hegeliana e della metafisica che in essa si ripropone. Ma la lettura che Heidegger fa di quest'aporia lo rende suo malgrado un esempio di soluzione impraticabile dell'aporia, per mezzo della quale in realtà l'aporia fa esercizio di se stessa. La concezione onto-teo-logica della metafisica si può leggere come il tentativo di risolvere l'aporeticità del pensare metafisico liberando dai termini entro i quali esso si muove (e accade come sviluppo storico dalla metafisica greca e da Aristotele fino a Hegel) una natura dell'aporia che non è compresa nell'accadere della metafisica e che, come l'accadere in quanto tale, risulta la via d'uscita dall'inclusione nei termini aporeticamente giocati nell'accadere stesso, per il fatto di possedere un accadimento suo proprio, quello di restare al principio di ogni inclusione. In altri termini, secondo Heidegger si può venir fuori dall'aporia della metafisica (da quella duplicazione in cui la metafisica è costretta a rappresentarsi la Sache del pensare) pensandone lo stesso stare a principio (come U nter-schied, come entbergend-bergende Austrag) come ciò che, anticipando sé, è fuori dal coinvolgimento nell'aporia: l'impensato, ciò che per necessità è rimasto tale nella metafisica, può diventare il « da pensare », può diventare pensabile proprio perché assolutamente impensato, proprio perché rimane ancora oltre tutto ciò che si pensa e dunque anche oltre se stesso, sottraendosi così al destino aporetico di quanto è portato fuori dall'Austrag, e risultando per questo veramente pensabile. Pensando l'Austrag si pensa la via d'uscita dall'aporeticità della metafisica perché ci si trova in questa via, unterwegs, sulla via verso la W esensherkunft, l'origine essenziale della differenza, quel « sich verhiillend Verschlie.Sende », quel « chiudentesi velandosi » che in questo sottrarsi a sé rende possibile il dominare della Lichtung, apre ritirandosi una zona acces177 Mauritius_in_libris
sibile come una sorta di segnale verso ciò che in essa si ritrae e perciò stesso la espone. 123 Ma questa via d'uscita dall'aporia è impraticabile alla luce del discorso hegeliano, che anzi lascia operare in essa un'aporia più propria di quella che una metafisica cosl concepita riesce a esprimere. Rispetto al testo hegeliano, la lettura che Heidegger ne fa risulta in un certo senso un'utilizzazione impropria, in quanto separa l'aporia dal suo intrinseco (o separa l'intrinseco dall'aporeticità dei suoi ele-
123. Cfr. ibid., p. 57. «La differenza fra essere ed ente può essere riconosciuta (in eine Erfahrung kommen) come obliata solo se si è già svelata con l'esser-presente dell'essente-presente ed ha cosl lasciato una traccia (so eine Spur geprligt hat) che resta salvaguardata nel linguaggio a cui l'essere giunge. Convinti di ciò possiamo presumere che la differenza si sia illuminata piuttosto nella prima parola dell'essere che nelle successive senza tuttavia essere mai nominata come tale. 'Illuminazione (Lichtung) della diff~renza' non può quindi significare che la differenza appare (erscheint) c?me differenza. È però possibile che nell'esser-presente come tale si annunci la relazione all'essente-presente, in modo tale che l'esser-presente pervenga alla parola come questa relazione» (M. HEIDEGGER, Der Spruch des Anax., cit., pp. 336-7, tr. it. pp. 340-41). Reinterpretando queste pagine heideggeriane Derrida (il quale offre peraltro uno degli esempi più significativi e acuti cli rimeditazione del discorso heideggeriano sul rapporto Hegel-Aristotele), spinge il senso della Lichtung e della differenza fino alla perdita di quella felice equivocità che conservano in Heidegger. Secondo Derrida il pensiero heideggeriano, pressoché costantemente, compie déplacements intra-métapbysiques della presenza, cercando di risalire da un senso dell'Anwesenheit più ristretto a un senso più ampio e originario. Occorre invece compiere un gesto più radicale che « ... s'annuncia in certe fessure calcolate del testo metafisico» (J. DERRIDA, op. cit., p. 256). Occorre pensare al di là della metafisica qualcosa di non semplicemente assente (vincolato al primato della presenza), qualcosa di «eccedente ogni possibile presenza-assenza » (ibid., p. 257), ma che in qualche maniera si significhi ancora: una traccia (la Spur heideggeriana) non rinviante a un'altra presenza ma a un «tutt'altro testo»; anzi una traccia « che si produce come il suo proprio cancellamento » (ivi), traccia della traccia. « La traccia di questa traccia che (è) la differenza non potrà soprattutto apparire né essere nominata come tale, cioè nella sua presenza ... cosl le determinazioni che nominano la differenza sono sempre dell'ordine metafisico ... Al di là dell'essere e dell'essente, questa differenza, differendo (sé) senza posa (cette différence [se] différant sans cesse), (si) traccerà (essa medesima)» (ibid., pp. 258-9). Derrida, pur seguendo con coerenza e rigore una traiettoria di sviluppo del pensiero heideggeriano, sembra voler distrarre ulteriormente la differenza dalla difficoltà dell'aporia: in Heidegger, infatti, la differenza, nel suo sottrarsi, nel suo «non apparire» in quanto tale, si mantiene nel ~roprio di sé e al?propr!a a sé il senso dello stesso apparire; per cui nell'~nwesen ~I lato del sottra_rs1, la d~fferenza, la relazione, attrae a sé il senso, da qui in poi metafisicamente aporetico, dell Anwesen stesso. In Derrida la differenza viene ridotta all'esercizio _dell'aparia su ~gni presenza e perciò non appare come tale, ossia ~se~~ndo la ~ua !vzante mterpretaz1on~ ~el pensiero heideggeriano) come presenza: essa e c10 che d1sart1cola la presenza (cui mvece Heidegger si sottometterebbe ricercando ancora u? nome .P.roprio), ~a.« lateralizza » '!la non può essere pensata propriamente se n